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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA PENALE
AGGIORNATO AL 30 SETTEMBRE 2014
A cura
di
Epifania Ferro
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE, SENTENZA 8 SETTEMBRE 2014, n. 37246
Sull’omicidio del consenziente
Con la sentenza in epigrafe, i Giudici di Piazza Cavour richiamano gli arresti di legittimità “sui
connotati del consenso presupposto dall'omicidio del consenziente, che deve essere serio, esplicito,
non equivoco e perdurante sino al momento della commissione del fatto (tra le altre Sez. 1, n.
32851 del 06/05/2008, dep. 05/08/2008, Sapone e altri, Rv. 241231) ed esprimere una volontà di
morire, la cui prova deve essere univoca, chiara e convincente in considerazione dell'assoluta
prevalenza da riconoscersi al diritto personalissimo alla vita, non disponibile a opera di terzi (tra
le altre, Sez. 1, n. 43954 del 17/11/2010, dep. 14/12/2010, Anselmi, Rv. 249052)”.
Non ricorre, dunque, il reato di cui all’art. 579 cod. pen. allorquando la vittima abbia opposto
un’accanita e disperata resistenza, attestata dagli esiti della consulenza legale: devono, infatti,
ritenersi meramente espressive ed iperboliche le frasi “volte ad annunciare con enfasi il
momentaneo desiderio di morire”, trattandosi di “deprecazioni non infrequenti nelle persone
anziane seriamente malate, dettate da abbattimento, tristezza o scoramento”.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE, SENTENZA 15 settembre 2014, n. 37726
Sulla distinzione tra partecipazione all’associazione mafiosa e concorso esterno
Nel disporre l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello, la Cassazione distingue tra
partecipazione e concorso esterno in associazione mafiosa.
In particolare, “secondo una giurisprudenza consolidata al fine di accertare se l'autore di taluno
dei delitti inquadrabili nel programma criminoso sia anche legato al vincolo associativo criminale,
è necessario verificare, appunto, l’affectio societatis, cioè la sua consapevolezza, desumibile anche
da fatti concludenti, di aver assunto siffatto vincolo, che non necessariamente deve essere
indeterminato nel tempo, purché permanga al di là degli accordi particolari relativi alla
realizzazione dei singoli episodi criminosi, in modo da costituire, nella sua fruizione propulsiva
della criminalità così organizzata, un attentato all'ordine pubblico. Si ha partecipazione
all'associazione quando, il contributo offerto, che può essere costituito anche dal semplice
inserimento all'interno della compagine criminale, sia comunque tale da potere desumere che il
soggetto assicuri la sua completa messa a disposizione dell'organizzazione mafiosa”.
Viceversa, “assume il ruolo di concorrente esterno colui che, non inserito stabilmente nella
struttura organizzativa dell'associazione, quindi privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto,
specifico, consapevole e volontario contributo, che si configuri come condizione necessaria
quantomeno per il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione, anche in relazione ad
un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, e sia comunque diretto alla
realizzazione, anche parziale, del programma criminoso, rafforzamento che deve essere in
relazione eziologica con la condotta attuata dal concorrente, la cui verifica è praticabile soltanto in
virtù di un accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza di tale condotta nella vita e
nell'operatività del sodalizio criminoso (Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino; Sez. VI, 10
maggio 2007, n. 542, Contrada)”.
Alla luce di quanto suddetto e con “riferimento alla figura dell'imprenditore, la giurisprudenza ha
avuto modo di precisare che può considerarsi concorrente esterno, cioè "colluso" con la mafia,
quello che stabilisce un rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per
entrambi i contraenti, consistenti per l'imprenditore nell'imporsi nel territorio in posizione
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dominante e per il sodalizio criminoso nell'ottenere risorse, servizi o utilità, precisando che
l'imprenditore "vittima" è quello che, soggiogato dall'intimidazione, non tenta di venire a patti col
sodalizio, ma cede all'imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire
un'intesa volta a limitare tale danno (Sez. I, 11 ottobre 2005, n. 46552, D'Orio; Sez. V, 1 ottobre
2008, n. 39042, Samà; Sez. I, 30 giugno 2010, n. 30534, Tallura)”.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE, SENTENZA 16 settembre 2014, n. 37839
Sulla distinzione tra il delitto di concussione e quello di induzione indebita
Il fatto storico posto al vaglio degli Ermellini riguarda “una vicenda nella quale la condotta dei
pubblici ufficiali è stata geneticamente connotata da una strategia diretta a non lasciare alcun
margine di scelta alle persone offese, rimaste da subito in balia dell'autorità con il controllo e la
conduzione, in orario notturno, nella caserma, quando era ben chiaro ai ricorrenti, non anche alle
donne prelevate ex abrupto in strada, l'impossibilità del foto segnalamento, atteso l'orario, e
dunque era concreta la prospettiva degli agenti di poter esercitare sulle persone offese una forte
pressione, quale conseguenza del ricatto da eseguire nei loro confronti, per poter ottenere dalle
donne la prestazione sessuale che costituiva l'iniziale obiettivo del controllo strumentale eseguito
dai militari”.
Posto che “non si è trattato tanto di barattare la prestazione sessuale con un vantaggio indebito da
conseguire, quale quello di evitare gli accertamenti diretti alla compiuta identificazione delle
donne attraverso il foto segnalamento che doveva essere eseguito il mattino successivo, quanto la
pretesa di ottenere il rapporto sessuale per far cessare, con l'immediata restituzione della libertà
personale e di movimento, una situazione antigiuridica appositamente precostituita e dunque un
danno ingiusto intenzionalmente arrecato”; la fattispecie integra il reato di concussione.
A tal proposito, le Sezioni unite, con la sentenza 24 ottobre 2013, n. 12228, hanno fissato il
“principio in base al quale il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod. pen. nel testo modificato
dalla L. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del
pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno
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'contra ius' da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che,
senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di
evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione
indebita, previsto dall'art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima L. n. 190, la cui condotta
si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in
un'induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di
autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce
col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla
prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a
suo carico”.
Trattasi, invero, di principio che “costituisce regola generale da applicare ordinariamente ai casi di
chiara interpretazione, esistendo casi ambigui, cosiddette 'zone grigie', ove l'indicato criterio
distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all'esito di un'approfondita
ed equilibrata valutazione del fatto, dovendosi cogliere di quest'ultimo i dati più qualificanti idonei
a contraddistinguere la vicenda concreta”.
Più in dettaglio, le Sezioni unite hanno chiarito che il “criterio distintivo tra il concetto di
costrizione (costitutivo del delitto previsto dall'art. 317 cod. pen. affrancato dalla modalità
induttiva), e quello di induzione (costitutivo della nuova fattispecie di cui all'art. 319 quater cod.
pen. derivata dallo sdoppiamento dell'originaria fattispecie concussiva), deve essere individuato
nella dicotomia minaccia - non minaccia, che rappresenta l'altro lato della medaglia rispetto alla
dicotomia costrizione-induzione, evincibile dal dato normativo”.
In conclusione, definita l'induzione in chiave negativa, come effetto cioè che non consegue a una
minaccia, le Sezioni unite hanno affermato che, in positivo, la nozione di induzione va determinata,
da un lato, in connessione con l'abuso di potere o qualità dell'agente pubblico nonché con l'elemento
della punibilità del privato (aspetto, quest'ultimo, estraneo ratione temporis all'economia del
presente giudizio per quanto attiene alle condotte dell’extraneus) e, dall'altro, va intesa come
“alterazione del processo volitivo altrui, che, pur condizionato da un rapporto comunicativo non
paritario, conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l'ordinamento
impone di attivare per resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere
con costui nella conseguente lesione di interessi facenti capo alla p.a.' con la conseguenza che 'è
proprio il vantaggio indebito che, al pari della minaccia tipizzante la concussione, assurge al
rango di criterio di essenza della fattispecie induttiva...', riconoscendo quindi che 'il criterio del
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danno-vantaggio non sempre consente, se isolatamente considerato nella sua nettezza e nella sua
staticità, di individuare il reale disvalore di vicende che occupano la cd. 'zona grigia”. Il detto
parametro, pertanto, “deve essere opportunamente calibrato, all'esito di una puntuale ed
approfondita valutazione in fatto, sulla specificità della vicenda concreta, tenendo conto di tutti i
dati circostanziali, del complesso dei beni giuridici in gioco, dei principi e dei valori che governano
lo specifico settore di disciplina. Tanto è imposto dalla natura proteiforme di particolari situazioni,
nelle quali l'extraneus, per effetto dell'abuso posto in essere dal pubblico agente, può
contestualmente evitare un danno ingiusto ed acquisire un indebito vantaggio ovvero, pur di fronte
ad un apparente vantaggio, subisce comunque una coartazione, sicché, per scongiurare mere
presunzioni o inaffidabili automatismi, occorre apprezzare il registro comunicativo nei suoi
contenuti sostanziali, rapportati logicamente all'insieme dei dati di fatto disponibili”.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 18 settembre 2014, n.
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Sulla consumazione del delitto di furto in supermercato
Con l’arresto in commento, i Giudici della nomofilachia dirimono il contrasto giurisprudenziale in
ordine alla “qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai
banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all'atto del passaggio
davanti al cassiere, quando tutta la azione delittuosa si sia svolta sotto il controllo costante del
personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la
barriera della cassa”.
In particolare, secondo un primo orientamento, cui si è uniformata la Corte territoriale e che è stato
da ultimo ribadito con sentenza della Quinta Sezione, n. 20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv.
256499, “la condotta in parola integra gli estremi del delitto di furto consumato, nulla rilevando, al
riguardo, la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del
supermercato incaricato della sorveglianza (così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin,
Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650; Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010,
Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto, Rv. 240493)”.
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Si ritiene, infatti, che “il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera la cassa,
senza mostrare (e pagare) la refurtiva celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale consegue
istantaneamente il possesso illegittimo”.
Peraltro, “alcuni arresti della Sezione rimettente (non massimati) anticipano, addirittura, il
momento della consumazione del furto (Sez. 5, n. 25555 del 15/06/2012, Magliulo, e Sez. 5, n.
30283 del 30/03/2012, Oprea), correlandolo all'occultamento della refurtiva, prima della
presentazione alla cassa”.
Secondo l'orientamento opposto, invece, “la concomitante sorveglianza continua dell'azione
criminosa da parte del soggetto passivo o dei suoi dipendenti addetti alla vigilanza impedisce la
consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella sfera di
vigilanza e di controllo diretto dell'offeso, il quale può in ogni momento interrompere la condotta
delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010, Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del
06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 5, n. 7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D'Aniello, Rv. 249835;
Sez. 4, n. 38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; e, in tema di rapina impropria, Sez. 2, n.
8445 del 05/02/2013, Niang, non massimata)”.
A tale indirizzo si riconnette, inoltre, il dictum delle Sezioni Unite, in tema di configurabilità del
tentativo di rapina impropria, nel caso in cui non si sia perfezionata la sottrazione del bene: “finché
la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore questi è ancora in grado di
recuperarla, così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo” (Sez. U,
n. 34952 del 19/04/2012, Reina).
Ciò posto, il Collegio ritiene che la questione di diritto posta alla sua attenzione sia priva di rilievo
in relazione alla fattispecie di fatto.
Non v’è dubbio, invero, che la materiale ingestione del bene sottratto integri il delitto di furto
consumato; di guisa che deve considerarsi “ininfluente la questione della definizione giuridica della
concorrente condotta relativa al compendio costituito dai residui beni, oggetto della furtiva
apprensione”.
Pertanto, la Suprema Corte “ha fissato il principio di diritto secondo il quale, qualora la condotta
furtiva riguardi una pluralità di cose di pertinenza dello stesso detentore, nel medesimo contesto
temporale e spaziale, se l'agente si impossessi di alcuni dei beni, senza riuscire, per cause
indipendenti dalla sua volontà, a impossessarsi degli altri, l'azione complessa, essendo progressiva,
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deve essere considerata unica, in quanto la parte più rilevante, già posta in essere, assorbe quella
in itinere; e realizza un solo e unico reato consumato delle cose sottratte, restando escluse sia
l'ipotesi del furto tentato sia quella del furto consumato in concorso con il tentativo (così Sez. 5, n.
1985 del 07/02/1997, El Bouhtari, Rv. 208667; cui adde Sez. 2, n. 2185 del 03/12/1975, dep. 1976,
Salvatore, Rv. 132353; Sez. 5, n. 32786 del 25/06/2013, Craparotta, Rv. 257256)”.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 18 settembre 2014, n.
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Sul discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente
Con la sentenza in esame, il Supremo Consesso penale individua il discrimen tra dolo eventuale e
colpa cosciente.
La drammatica morte di sei operai a seguito di un incendio divampato in una nota acciaieria
torinese impone, infatti, di ricercare un criterio d’imputazione della responsabilità in capo ai vertici
aziendali (ex D. Lgs. 231/01) “umanamente praticabile, saldamente ancorato ai fatti, scevro da
contaminazioni retoriche, onde conseguire certezza del rimprovero quale doveroso riflesso della
certezza del diritto, e limite al puro soggettivismo del giudice”.
A tal uopo, gli Ermellini, affermano che “il dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a
seguito di un’opzione, di una deliberazione con la quale l’agente consapevolmente subordina un
determinato bene ad un altro”.
Deve esservi, quindi, “la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse da
soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il soddisfacimento di tale interesse e
il sacrificio di un bene diverso”.
In sostanza, non basta “la previsione del possibile verificarsi dell’evento; è necessario anche – e
soprattutto - che l’evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento
di un determinato risultato”.
Ne discende che anche l’evento collaterale appare all’agente “secondo l’intenzione”.
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In sintesi, si può dire che “nel dolo eventuale, oltre all’accettazione del rischio o del pericolo vi è
l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il
possibile prezzo di un risultato desiderato.
Vi è dunque nel dolo eventuale una componente latu sensu economica”.
Di contro, è riconducibile alla colpa con previsione la mera accettazione del rischio.
Le Sezioni Unite ritengono, pertanto, che una diversa Sezione della Corte d’Assise d’Appello debba
rideterminare la pena inflitta a titolo di colpa cosciente agli amministratori apicali: questi ultimi,
infatti, sono responsabili a titolo di dolo eventuale, considerato che la mancata installazione di un
sistema di prevenzione dei disastri e degli infortuni sul lavoro attesta l’adesione al tragico evento
occorso.
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