JC FSC - Istituto Sacro Cuore

APPUNTI DALL’INCONTRO DI JULIÁN CARRÓN
CON I GENITORI DEGLI STUDENTI
APPUNTI DALLʼINCONTRO DI
JULIÁN CARRÓN
CON IL PERSONALE DELLA
FONDAZIONE SACRO CUORE
APPUNTI DALL’INCONTRO DI JULIÁN CARRÓN
CON I GENITORI DEGLI STUDENTI
DELLA FONDAZIONE SACRO CUORE
Milano, 19 maggio 2014
Julián Carrón. Recitiamo una preghiera perché, con tutta l’attesa che c’è,
non so se saremo in grado di rispondere a tanto! Spero che il Signore compia ciò a cui noi non riusciremo a dare risposta.
Gloria
Marco Bersanelli. Buonasera a tutti. Benvenuti a questa grande occasione
che ci vede profondamente grati a don Julián Carrón per la sua presenza,
una presenza davvero decisiva per il cammino della nostra scuola, per la
nostra ipotesi educativa che trae la sua origine non da un evento del passato, dal ricordo di qualcosa che è accaduto, ma da un presente. Siamo in
cammino verso questa origine – lo dico innanzitutto per me stesso e per
chi con me condivide questa avventura nella scuola, gli insegnanti e tutti
coloro che lavorano nella Fondazione Sacro Cuore –, e questo cammino è
un cammino guidato. Siamo tutti reduci dall’evento eccezionale che è stato
l’incontro con il Papa a Roma, il quale diceva: «Amo la scuola perché è
sinonimo di apertura alla realtà. […] Andare a scuola significa aprire la
mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà!». Questo
accento ci fa sempre desiderosi di imparare e di correggerci e di condividere il nostro tentativo educativo con voi, che siete coloro che rendono
possibile, reale, questa esperienza della scuola; dando ai vostri figli la possibilità di frequentarla consentite alla scuola di esistere. Io sono molto grato
a tutti voi, in particolare negli ultimi tempi sono nati dei rapporti con alcuni
di voi dopo i dialoghi che abbiamo avuto nei mesi scorsi.
Prima di dare la parola a Julián, chiederei a don Franco di offrirci, dal suo
punto di vista di rettore, qualche accenno e qualche sottolineatura di questo
cammino comune che stiamo facendo con le famiglie che sono qui presenti.
Don Franco Berti. Dirò semplicemente tre cose. La prima è che, negli incontri che abbiamo avuto con molti di voi, una cosa è emersa con chiarezza: la cordialità (non nel senso banale del termine) di gente desiderosa
di partecipare a una prospettiva di vita comune cui è chiamata e cui si sente
chiamata, desiderosa di partecipare offrendo tutto ciò che è e che ha, non
per altri interessi, ma per gratuità, a una costruzione comune, ammirati di
1
ciò che c’è, con tutte le fatiche, i problemi e i limiti che naturalmente sono
presenti. Mentre agli inizi mi dicevo di venire qui per una paternità da vivere, ora, con una cordialità così presente, mi sento più sostenuto, il cuore
si apre di più e il lavoro comune è più grande. Ricordo certi interventi,
anche degli ultimi arrivati, che dicono, nella maggioranza dei casi, del desiderio di appartenenza a un’opera comune per un disegno che è più grande
di noi, oltre quello che siamo capaci di impostare, di vivere, di fare noi.
Questa cordialità veramente è confortante e permette a me, a noi tutti, una
libertà più grande.
La seconda cosa è questa: l’incontro di oggi e il cammino che faremo indica una prospettiva dinamica, non è una conferenza, una lezione – di cui
pure prenderemo atto in tutte le sue declinazioni da tenere presenti –, ma
una prospettiva, una traccia di cammino. L’unità è un’unità dinamica, lasciando indietro tutto quello che è stato, «nella corsa per afferrarLo». È
un’unità dinamica, non statica. Questo significa tante cose, per esempio
abbandonare pregiudizi, cose difficili o blocchi che potessero esserci – ne
abbiamo molti, io per primo –, immagini di come le cose dovrebbero andare a seconda dell’idea che uno ha; dunque, un’unità dinamica. Questo è
seguire: seguire non vuol dire stare fermi, ma muoversi in una unità indicata. Queste due cose sento proprio di doverle dire, perché prima di tutto
valgano per me e poi per ciascuno. Siamo qui in tanti, pensare che ogni
cosa vale per ciascuno è una cosa impressionante.
Una terza cosa che vorrei raccontare, mi ha suggerito don Julián di parlarvene, non c’entra strettamente con la realtà degli adulti, però non si può
non dire. Agli inizi dell’anno alcuni ragazzi del triennio del liceo mi dicevano: «Noi vogliamo fare una cosa in cui crediamo e a cui teniamo per
l’esperienza che abbiamo fatto qui». È venuta loro l’idea di fare un’inchiesta, considerevole sul piano anche dei numeri, con più di duemila questionari distribuiti in tante scuole, non solo nelle scuole libere, ma anche in
quelle statali di Milano (Carducci, Leonardo, Virgilio, Parini eccetera).
Sono arrivate milleduecento risposte. Il Cardinale ha dato una risposta bellissima, e poi Susanna Tamaro e altri personaggi importanti. All’inizio i
ragazzi pensavano: chissà come ci tratteranno, noi veniamo dal Sacro
Cuore, e invece sono tornati lieti: «Ci hanno preso veramente sul serio!».
E così hanno raccolto i dati e hanno fatto un volantino con i risultati emersi,
distribuito in cinquemila copie in tutte le scuole di Milano. Improvvisamente la preside del Leonardo ha telefonato alla Provincia di Milano, che
ha dato la Sala della provincia per comunicare l’esito dell’inchiesta. La
cosa assumeva dimensioni cittadine e francamente io mi dicevo: di fronte
a fatti che capitano viene un po’ di paura a rischiare così, e uno dei ragazzi
il giorno dell’incontro diceva: «Don Franco, oggi mi tremano le gambe
dalla mattina». E io: «Coraggio, coraggio, non preoccuparti». Insomma, è
venuto fuori un incontro con una docente dell’Università Bicocca e con
2
Luca Doninelli; i ragazzi hanno fatto tutto loro. Quando li ho accompagnati
dalla professoressa della Bicocca le ho detto: «Sono venuto per accompagnarli, quindi la saluto e vado via». I ragazzi si sono sentiti sostenuti in
uno slancio di presa di iniziativa libera. L’incontro è stato impressionante:
c’erano ragazzi appartenenti al movimento e non, personaggi di tutti i generi. È emerso che i ragazzi dei licei, in tutta Milano, hanno una grande
speranza. E i nostri ragazzi che hanno promosso l’iniziativa dicevano:
«Siamo più liberi di incontrare tutti in forza dell’esperienza che stiamo vivendo. Non abbiamo paura». È stata per me una sorpresa assolutamente
straordinaria. Ho raccontato questo perché mi sembra una prospettiva
molto interessante e aperta per tutta la scuola.
Carrón. Buonasera a tutti. Sono contento di questo dialogo che vuole essere prima di tutto un inizio, non possiamo certo pretendere di esaurire in
un momento tutte le domande che forse tanti di voi hanno. La scuola, tutti
lo sapete meglio di me, è una realtà veramente complessa; in un incontro
come questo che cosa ci consente di avere uno sguardo unitario che risponda alla domanda su di essa? Mi permetto di cominciare leggendo
l’email di una persona che non può essere qui questa sera e che mi pone
una domanda cruciale, fondamentale. «Domani sera non potrò partecipare
perché sono via. Vorrei comunque porti una domanda che lungo questo
anno mi ha accompagnata in alcuni momenti in modo bruciante: qual è la
ragione vera e adeguata per mandare i nostri figli al Sacro Cuore? [Mi sembra difficile trovare una domanda più radicale di questa] Lungo questi anni
ho visto aspetti interessanti e altri lati problematici della scuola [essendo
una cosa complessa, alcuni insegnanti possono essere eccezionali, altri
meno. Come potrebbe essere diversamente?]. Allora mi sono chiesta ripetutamente se avesse davvero senso la scelta fatta per i miei figli. I costi
sono alti, la distanza a volte è enorme, i ragazzi sono a volte affaticati [tutte
cose che conosciamo bene]. Se tu dovessi dire a una famiglia che cosa
rende unica questa scuola, quale caratteristica indicheresti? Cosa ci promette questa scuola che non troveremmo altrove? Spero che queste domande non offuschino la gratitudine [il punto di partenza di questo
desiderio e di questa domanda] per il molto che è dato ai miei figli [come
a tanti dei nostri figli]. Non c’è polemica, ma ho bisogno di capire». Mi
sembrava utile partire da questa domanda perché è molto simile a quella
che, in altro modo, appare in altri dei vostri contributi; si iscrivono i figli
in questa scuola per una stima nei confronti della sua proposta educativa,
ma se l’origine di questa proposta non è continuamente recuperata, si corre
il rischio di indebolire e ridurre il criterio di scelta. Dunque, perché scegliere il Sacro Cuore? Tanto più in questo particolare periodo di contingenze economiche, che pone molti di voi di fronte a gravi sacrifici nel
sostenere il costo delle rette. Allora come possiamo essere sostenuti, come
3
sostenerci nel recuperare e nel vivere costantemente questa origine?
Quell’origine, infatti, non permane viva da sé, ma occorre che sia recuperata di continuo. Voi genitori avete bisogno di recuperare le ragioni del
perché avete fatto questa scelta, così come la scuola ha bisogno costantemente di ridirsi e di recuperare l’origine – tutti e due, voi e noi, non è una
cosa statica, ma dinamica, diceva prima don Franco – soprattutto quando
la vita urge, perché quando la situazione economica diventa più complessa
e più difficile, ciascuno deve ritrovare una ragione adeguata per fare il sacrificio richiesto per sostenere il costo della scuola. Perciò parto da questa
domanda sintetica per cominciare questo dialogo.
Con quale criterio si può giudicare una scuola? Come giudicare se vale la
pena o meno lo sforzo che facciamo? Dirò cose banali, ma secondo me
cruciali per poter rispondere a questa domanda con semplicità.
1. Qual è lo scopo di una scuola? L’educazione. Come ci ha insegnato sempre don Giussani e ci ha ripetuto il Papa sabato scorso, l’educazione è introduzione alla realtà nella sua totalità. Ma in che cosa consiste
l’introduzione alla realtà? Qui ci troviamo davanti a una questione decisiva.
In qualche modo ogni scuola fa questo tentativo, ogni scuola introduce alla
realtà, ogni scuola prova – con tentativi ironici, diciamo – a introdurre gli
studenti alla realtà. Qual è, allora, la diversità del tentativo della nostra
scuola di introdurre alla realtà, se vuole essere coerente con l’origine? Introdurre alla realtà fino al suo significato, perché senza significato la realtà
non è interessante. Io ho raccontato tante volte (e mi scuso se qualcuno lo
ha già ascoltato) un episodio che mi è capitato quando ero rettore di una
scuola a Madrid. Per caso mi è capitato di accompagnare i ragazzi a una
visita culturale al Planetario; davanti allo spettacolo del cielo stellato, di
tutte le galassie, potete immaginare il tipo di informazioni che venivano
date; gli studenti erano rimasti così colpiti che quando siamo tornati a
scuola (avevo l’ora di religione proprio in quella classe), all’inizio della
lezione, ho detto: «Che cosa vi ha colpito?». E sono rimasto stupito, perché
nessuno mi ha chiesto quante galassie c’erano, quante stelle, questi dati
non erano la cosa che più “bruciava” dentro di loro; l’esigenza della loro
ragione li spingeva, davanti a quello spettacolo della realtà, a domandarsi:
«Ma chi ha fatto tutto questo? Siamo noi padroni di tutto questo? Ma che
cosa mantiene in vita tutto questo?». Questo significa che se noi non rispondiamo alla domanda che l’impatto con la realtà provoca nei ragazzi,
non li introduciamo alla realtà. Se quando sorgono queste domande, una
scuola blocca l’uso della ragione, come tante volte accade, se in fondo
l’educazione non può uscire da una neutralità apparentemente scientifica,
se non offre alcuna ipotesi di lavoro, le domande fondamentali restano
senza risposta. Questo non vuol dire che l’educazione sia una imposizione,
ma consiste semplicemente nell’offrire una ipotesi di risposta, prendendo
4
sul serio la domanda dei ragazzi sul significato della realtà. E questo come
succede? Possiamo dire che soggetto dell’educazione (cioè dell’introduzione alla realtà) è chiunque: la famiglia, la Chiesa, la società in tanti modi.
Qual è, allora, lo specifico della scuola? Che essa introduce alla realtà totale attraverso l’insegnamento, non accanto, non come se la didattica fosse
un pretesto per parlare di un’altra cosa, ma suscitando tutta l’energia della
ragione, tutta la capacità della libertà facendo lezione, per rendere l’uomo
veramente uomo, in modo tale che possa capire tutto il significato della
realtà, perché la realtà sfida costantemente la nostra ragione e la nostra libertà. Per questo a me sembra che la modalità di giudicare veramente una
scuola, il criterio per cui valutare una scuola non possa essere altro che
questo. Non tocca a me dire se questa scuola realizza o meno tale scopo,
dobbiamo essere tutti noi, ciascuna famiglia lo può vedere dall’entusiasmo
con cui i figli vengono a scuola, ciascuno può verificare se il significato è
una aggiunta a una realtà già perfettamente costituita, come un cappello
che si mette sul capo per dire di appartenere a un certo tipo la scuola; si
vede se l’ipotesi di lavoro proposta è in grado di entusiasmare i ragazzi,
come testimoniano alcuni di voi, si vede da come i figli vengono a scuola
perché è in loro che si dimostra il valore di questa introduzione alla realtà
totale. Purtroppo noi adulti tante volte pensiamo che, in fondo, il significato
sia come un’aggiunta e che non sia decisivo per il rapporto con la realtà.
Ma senza sapere il perché ultimo, qualsiasi sia la modalità con cui poi uno
è introdotto ad essa, la realtà non interessa. Se mettiamo un giocattolo davanti a un bambino e lo stanchiamo con tutti i dati tecnici, le dimensioni
del giocattolo, le scritte in inglese, il materiale di cui è fatto, a un certo
punto si arrabbia e dice: «Ma mi spieghi a che cosa serve?»; se non lo sa,
lo lascia nell’angolo della stanza, o lo usa come se fosse un sasso, cioè si
perde il meglio. Se non ne coglie il significato, non perde soltanto qualcosa
del giocattolo, ma perde l’interesse per esso, cioè per la realtà. Osservando
i figli, facendo attenzione a come progrediscono, ciascuno di noi poi vede
se questa introduzione alla realtà sta avvenendo o no. Io non sono venuto
qui a fare propaganda al Sacro Cuore, ma a sfidare tutti noi a stare davanti
ai nostri figli, ai nostri studenti, perché con i ragazzi non possiamo barare.
Quando parlo con i professori, o quando mi invitano a un dialogo come
questo, il mio invito è a guardare insieme la sfida che abbiamo davanti;
solo se ci aiutiamo costantemente e collaboriamo tutti insieme a rispondere
alle sfide che abbiamo davanti, potremo avere una scuola che risponda a
tutte le urgenze che troviamo in noi, che i ragazzi trovano in sé, e che possa
introdurli a una realtà storica come quella in cui stiamo vivendo. La scuola
deve essere in grado di introdurli in un mondo che sta cambiando, con tutte
le sfide che i ragazzi cominciano già a intuire e a subire. Per questo ci interessa trovare una modalità di risposta che sia adeguata. Solo se i ragazzi
sono sfidati così, educati così alla ragione, sfidati così nella loro libertà,
5
senza risparmiagliela dando a essi una risposta prefabbricata, si potrà scatenare in loro quell’affezione alla scuola, all’educazione e alla realtà che
consente di venire a scuola contenti. Senza questo la scuola, come succede
anche a noi se non abbiamo un senso per il nostro lavoro, sarà una noia;
evidentemente i ragazzi, come ciascuno di noi, non è che tutti i giorni si
alzino con lo stesso umore o abbiano la stessa voglia, ma anche questa è
la sfida per tutti noi: in questa situazione, trovare le ragioni per potere accompagnare i ragazzi e suscitare in loro l’interesse.
2. La seconda ragione è questa: proprio per rispondere a questo desiderio
di introdurre alla realtà, questa scuola propone, a differenza di qualsiasi
altra scuola che non abbia una chiarezza di impostazione, un’ipotesi di significato unitaria. A me questo sembra cruciale, perché il ragazzo potrà
verificare personalmente se questa proposta unitaria (noi non possiamo barare con loro!) regge davanti a tutte le domande, a tutte le sfide, dalla matematica alla storia, dalla grammatica alla geografia, o davanti agli umori,
alla non voglia che a volte abbiamo, recuperando le ragioni per cui impegnarsi. L’ipotesi di significato unitaria raggiunge tutto, non soltanto le materie, ma anche il cammino che ciascuno di noi deve fare, che il ragazzo
deve fare, per potersi mantenere nella corsa per imparare; ridestare costantemente la voglia di imparare è parte cruciale dello sforzo educativo.
3. Per questo aggiungo una terza cosa: chi potrà educare, chi potrà realizzare questa introduzione alla realtà? Come ci ha detto sempre don Giussani
– da cui è partita questa iniziativa – e come ci ha ricordato il Papa a Roma,
solo dei testimoni, nel modo stesso di fare la didattica, sono in grado di introdurre i ragazzi a questo entusiasmo per la realtà. Proprio perché coinvolti per primi nel cammino del vivere, solo essi sanno che cosa occorre
dire a un uomo per muoverlo nell’intimo, perché il professore, il testimone,
è il primo ad avere bisogno di essere risvegliato. Perciò solo chi è implicato
fino in fondo con la vita potrà offrire un suggerimento a un ragazzo, guardarlo in un certo modo, mettergli davanti un compito che lo interessi. E
tutto questo da che cosa dipenderà? Lo ripeto: dalla capacità con cui un
professore si implica con la propria vita, col proprio cammino umano; solo
così può introdurre i ragazzi all’avventura di imparare, diventando veramente una compagnia sostenendolo attraverso tutti i percorsi di ogni materia. Mi sembra che una scuola che non abbia a cuore la vita dei ragazzi,
con tutte le difficoltà attraverso cui passano alla loro età, accuserebbe un
limite non da poco. Io penso che la stragrande maggioranza – per non dire
la totalità – dei professori che cerchiamo di coinvolgere in questo compito
abbiano, oltre al desiderio di introdurre i ragazzi alla realtà, anche la preoccupazione di offrire un’ipotesi unitaria di significato; evidentemente non
sono tutti allo stesso livello e con la stessa competenza; per questo – do6
vendo trovare nuovi professori per sostituire coloro che, per ragioni di età,
devono lasciare l’insegnamento – nel tentativo costante di rinnovare, cerchiamo le persone più adeguate allo scopo. Evidentemente, una persona
con trenta, quarant’anni di esperienza non può avere la stessa capacità e lo
stesso fascino, le stesse risorse di un insegnante che sta cominciando. La
prima cosa che dicevo ai professori che arrivavano nella mia scuola era di
avere pazienza con se stessi, perché a volte con un professore nuovo i ragazzi fanno confusione, mentre con un altro che ha tanta esperienza non si
muovono, non battono ciglio. Il problema non è che siano diversi i ragazzi,
il problema è che ti stanno mettendo alla prova per vedere fin dove possono
spingersi. Allora il problema è dare ai nuovi insegnanti il tempo di crescere.
4. Dico un’ultima cosa che, secondo me, è cruciale per una scuola. All’ipotesi unitaria di significato i ragazzi non possono essere introdotti se non
attraverso quel fattore unico dell’umano che si chiama «libertà». Non c’è
educazione senza libertà, senza coinvolgere in qualche modo la libertà. Per
questo senza il coinvolgimento dei ragazzi in una verifica, l’ipotesi di significato non diventerà mai loro. È un tentativo costante di sfidare i ragazzi
alla verifica, grazie alla possibilità, che noi abbiamo avuto, di essere introdotti da don Giussani a tutti i fattori di un’educazione. Da questo punto
di vista, non so quante scuole abbiano veramente la consapevolezza della
portata di un elemento come la verifica dell’ipotesi, di quanto la sollecitazione della libertà possa significare per questa maturazione, per questa introduzione alla realtà totale, e quindi per fare diventare proprio il contenuto
dell’ipotesi di significato unitaria. Il che significa che, se vogliamo invitarli
a fare questa verifica, occorre rischiare. Nell’educazione il rischio è un elemento intimamente collegato con la libertà; senza libertà, infatti, non ci
sarebbe rischio. Ma questo tante volte ci sconcerta, ci scandalizza, perché
non tutti i ragazzi si coinvolgono allo stesso modo, non tutti si coinvolgono
nello stesso momento. La libertà è la libertà, e come tutti sapete bene per
il rapporto con i vostri figli, non è che debba spiegarvelo io, ciascuno ha
il suo momento; per cui mi sembra cruciale che abbiamo la pazienza di
saper aspettare che una scuola come la nostra possa conquistare la consapevolezza di tutti i fattori dell’umano per poter portare avanti il suo scopo.
So bene che con tutto quello che vi ho detto non ho risposto alla domanda
se sia valsa la pena o no iscrivere qui i vostri figli. Mi sono limitato a offrirvi i criteri attraverso cui potete giudicare voi stessi se sia stato utile osservando i vostri ragazzi, se lo vedete in loro, con tutti i limiti dell’umano.
Perché alla fin fine il giudizio complessivo lo vediamo documentato nei
ragazzi. Per questo ho domandato a don Franco di raccontare dell’indagine
tra gli studenti, che è un episodio tra altri. Il test di tutto questo processo
7
educativo sono i ragazzi stessi, la loro capacità di stare nel reale, cioè di
affrontare le sfide del vivere, tutte le sfide del vivere, da quelle accademiche quando andranno all’università a quelle personali quando la vita non
risponde secondo le loro immagini. Allora un’educazione che sia veramente completa deve avere presente tutti i fattori, non può sottolineare solo
l’eccellenza in un aspetto (che pure occorrerà non cedere nel cercarla, nel
tentare di raggiungerla al massimo possibile), perché l’eccellenza è soprattutto nel dare un significato, per cui i ragazzi possano veramente essere
sostenuti nel percorso attraverso i cambiamenti che accadono da quando
iniziano l’asilo a quando vanno in università. Allora mi sembra che voi,
grazie a tutta l’esperienza che avete, possiate, con questi elementi che vi
ho offerto, valutare la risposta alla domanda iniziale: se valga la pena o
no, proprio per l’esperienza che avete, iscrivere i figli in una scuola come
il Sacro Cuore. Io mi fermo qui. Adesso si comincia la verifica.
Intervento. Innanzitutto ringrazio per l’occasione di questo incontro, perché quando mi hanno detto che c’era ho pensato: ne avevo bisogno, ne
sentivo il bisogno, quindi innanzitutto ringrazio per questo. Poi tre questioni. La prima è un po’ quella che hai trattato finora, però vorrei fare una
piccola aggiunta, e cioè: io ho raggiunto i quarant’anni di Sacro Cuore
sommando gli anni di scuola dei miei figli, ma davanti all’ultima figlia che
deve iscriversi al liceo mi sono posta molto, in questo periodo, la questione
della scelta − anche per ragioni economiche, ma non solo per quello − in
tutti i sensi. Ho richiamato le motivazioni per cui per la prima volta ho
mandato il mio primo figlio qui, ed era proprio la ricerca di qualcosa che
potesse aprirlo, spalancarlo alla realtà, dargli una curiosità, un interesse
nella vita che poi si potesse sviluppare in tantissimi modi. In questo senso,
ho ritenuto una necessità anche il fatto di investire delle risorse, delle energie eccetera sulla scuola. Non l’ho fatto sicuramente per scegliere una
scuola di una certa parte, di una certa cultura, ma consapevolmente proprio
per quel motivo. Così ho potuto apprezzare negli anni una certa impostazione con cui si vuole sviluppare la ragione. Per esempio, voglio sottolineare l’esperienza della preparazione alla Prima Comunione, cioè
un’esperienza eminentemente religiosa in cui io ho visto un’impostazione
di sviluppo della ragione e della libertà dei ragazzi. Ultimamente, però, di
fronte alla situazione dei nostri tempi così come si pone concretamente
nella nostra vita, vedo due fattori. Il primo è il peso economico che questa
scelta assume sempre di più, insieme al fatto che sempre più, come dire,
c’è una linea di divisione tra il poter scegliere una scuola eccellente per la
preoccupazione detta e lo scegliere una scuola – secondo la situazione che
vediamo in tante società soprattutto, ma non solo, occidentali − per poter
fare poi un certo percorso professionale, avere certe garanzie sul futuro
eccetera. Io ho fatto una scelta per me necessaria, ma non vorrei che questa
8
diventasse una scuola solo per chi può permettersela o per chi può permettersi di offrire una certa escalation professionale o sociale ai figli. In questo
senso io ho ritenuto di andare a Roma a incontrare il Papa proprio per la
consapevolezza di fare un gesto politico in senso squisitamente essenziale,
per affermare che l’educazione è la cosa più importante, quindi per porlo
anche civilmente. Ti chiedo un approfondimento e anche un’ipotesi di lavoro su che cosa vuol dire, come criterio, una costruzione dentro questa
scuola e una posizione dentro la società rispetto a questo tema.
La seconda cosa è questa: il Sacro Cuore è sempre stato un po’ una scuola
che non era fatta in primis dalle famiglie, ma in cui c’era in primis un impulso da parte della scuola; vedevo questo tipo di impostazione diversa da
altre scuole libere, in cui erano più le famiglie che si erano messe insieme
per fare la scuola, e questa differenza mi è sempre andata bene. Però mi
pongo questa questione: tu una volta hai detto che noi spesso altaleniamo
tra l’interventismo totale, tra il sostituirci ai ragazzi attuando un progetto
di attività per sistemare le cose − il ragazzo esce dalla riga, allora tutti si
attivano, sono attenti, i genitori e gli insegnanti, per rimetterlo in riga − e
il mollare il colpo, dicendo: «Va beh!». In un certo senso, io non ho mai
avuto particolari problemi, ho sempre delegato abbastanza alla scuola con
fiducia e con consapevolezza, di fatto, insomma, per delle buone ragioni.
Carrón. Sulla prima domanda io mi permetto di dire una parola, lasciando
al presidente e al rettore di intervenire quando lo ritengano opportuno. Evidentemente nessuno vuole che questa scuola sia soltanto per chi può permettersela. È ovvio che non vogliamo una scuola classista. La questione è
che nel contesto attuale facciamo quello che possiamo. A me piacerebbe
che avessimo anche qui la situazione della Spagna, dove la scuola libera
con una identità precisa è sostenuta dallo Stato come quella statale, rispettando anche l’identità della proposta, ma questo è l’esito di un percorso
che dovremo fare con altre scuole, con altre realtà, secondo modalità che
si potranno definire nel tempo, non è una cosa che possiamo fare noi da
soli o con altri nostri amici di altre scuole, è una cosa per cui occorrerà
una sensibilità sempre più generale che ne capisca il valore. Noi non possiamo non desiderare che si arrivi a questo, proprio per la convinzione che
abbiamo che qualsiasi scuola è un servizio pubblico e che quindi non
stiamo chiedendo qualche favore per le scuole non statali, semplicemente
perché stiamo richiamando quello che dovrebbe valere per qualsiasi scuola.
Mi raccontavano di recente, quando sono andato in Australia e in Nuova
Zelanda, che quando il governo ha detto che non potevano dare più contributi alle scuole libere, un cardinale ha detto: «Va bene, allora lunedì
prossimo chiudiamo tutte le scuole» e ha mandato copia della dichiarazione
anche al Ministro dell’educazione; il giorno successivo sono state trovate
le risorse necessarie. Come ha appena dichiarato Piero Fassino (presidente
9
dell’associazione dei comuni italiani): «Se nel tempo opportuno non arrivano le risorse, per i comuni non ci saranno più i soldi per assicurare i servizi pubblici». La questione è di questo calibro, ma questo, evidentemente,
non lo possiamo ottenere da soli, occorrerà lavorare per poter identificare
una strada, una modalità adeguata di soluzione del problema.
Rispetto alla questione dell’impulso da parte della scuola, mi sembra che
questo noi vogliamo continuare a sostenerlo. In realtà questa è l’unica
scuola che don Giussani ha voluto come un esempio, non perché avesse il
desiderio di fare non so quante scuole, ma semplicemente per mostrare un
esempio; da questo punto di vista, io sono qui oggi esclusivamente per
questo. Rispetto al tema del rapporto tra l’interventismo e il mollare, questa
è una vecchia storia che non è facile da risolvere, ma che secondo me è
cruciale. Occorre introdurci costantemente e avere la tensione per cogliere
i nessi, perché tutti sappiamo che un interventismo che elimini la libertà
del ragazzo è inutile. Io sono contro l’interventismo costante perché è inutile e perché alla radice di esso c’è una certa concezione dell’uomo: se
l’uomo è parte di un meccanismo (sociale), allora lo possiamo manipolare
come vogliamo. Provate con i vostri figli, fate la verifica con i vostri figli!
Infatti, senza che loro si coinvolgano non possono crescere. Dall’altra
parte, l’alternativa non è mollare, come se non dovessimo fare niente, perché anche questo atteggiamento è sbagliato. Anche io ho avuto a che fare
con questo problema quando ho cominciato a insegnare, perché da professore mi domandavo fino a che punto dovevo intervenire: andare dietro a
tutti i ragazzi insistendo di continuo, poteva sembrare un calpestare in un
certo modo la loro libertà, e questo non lo volevo fare, evidentemente;
d’altra parte, non me la sentivo di “mollarli lì”, poveretti, come abbandonandoli al nulla. E mi dicevo: occorrerà cercare un equilibrio. Ma l’equilibrio dov’è? Perché a volte capitava che le persone con le quali avevo
insistito al 99,9%, avendole aiutate in tanti modi, continuavano a dirmi:
«Lei non si preoccupa di me», mentre altri studenti, con i quali non avevo
neanche aperto bocca, mi rispondevano: «Lei ha delle pretese!». Qual è
l’equilibrio? Ogni persona colloca l’equilibrio in un punto diverso, non sai
mai qual è la modalità adeguata del rapporto. Per questo è una risposta non
facile da dare. Tuttavia a me è sempre stato di aiuto il rendermi conto che,
in realtà, Gesù aveva già risposto a tale questione, perché non aveva mollato e allo stesso tempo non aveva neppure imposto qualcosa “interventisticamente”, ma era stato una presenza. Da quel momento ho pensato:
questi ragazzi con i quali ogni settimana ho tante ore di lezione non li lascio, il problema è se io in quelle ore sono così presente che, senza essere
interventista, la mia stessa presenza, il fascino che provo, la mia capacità
di entusiasmarmi per quello che dico loro, la mia capacità di usare la ragione, fa nascere in loro la voglia, ridesta in loro la voglia di venirmi dietro.
E questo lo posso fare senza alcun problema di interventismo, senza alcuna
10
paura di essere interventista, perché quanto più sono me stesso, quanto più
mi entusiasmo in quello che faccio, quanto più do loro delle ragioni (così
facendo non ho alcuna paura di calpestare la libertà di nessuno), quanto
più sono presente, tanto più sfiderò la ragione, la libertà e l’affezione dei
ragazzi. Secondo me questo è cruciale, lo vediamo se pensiamo a noi: certe
persone che sono state decisive nella nostra vita non si sono sostituite a
noi, perché la loro presenza era fondamentale per il ridestarsi del nostro
io. La questione è che occorre capire bene i nessi e il rapporto tra le cose,
in modo tale che non affermiamo una cosa, un aspetto a scapito dell’altro
e viceversa, perché sempre la storia dell’Occidente si può descrivere in
questi termini: o si afferma una cosa perché la libertà è così danneggiata
che nessuno saprebbe fare niente e allora si cade nell’interventismo puro
oppure, siccome sembra eccessivo, molliamo. No. Il problema è che tipo
di presenza, che tipo di umanità, che tipo di diversità umana presente, non
mollando, ma essendo presente, è in grado di suscitare tutta la libertà dell’altro. L’impulso che vuole dare il Sacro Cuore è questo, un impulso che
non sia al prezzo o a scapito della libertà, ma che trascini la ragione e la libertà. Da questo punto di vista, non mi sembra che occorra preoccuparsi
di “invadere” la libertà, perché quanto più è presente la persona dell’insegnante tanto più susciterà la ragione e la libertà. Ma forse il professore può
aggiungere qualcosa.
Bersanelli. Solo una battuta sulla prima questione posta. Lo dico per la
mia esperienza personale, dopo questi ormai due anni di lavoro nel Consiglio di amministrazione: non è che questa scuola rischi di diventare una
scuola per ricchi, per chi se lo può permettere? Io ho fatto il genitore prima
di fare il presidente della Fondazione, e quindi ho ben presente il sacrificio
che richiede iscrivere qui un figlio. L’esperienza di questi due anni è per
me interessantissima perché, veramente, con metodicità e con determinazione, con entusiasmo starei per dire, ogni volta ci poniamo di fronte a
questa domanda: che cosa è necessario per mantenere questa scuola affinché sia chiara la proposta educativa di cui abbiamo sentito parlare oggi?
Ci interroghiamo ogni volta proprio su questo. L’idea di una eccellenza
astratta, che a volte soffoca e confonde, è sostituita, come tensione, come
domanda, come lavoro nostro, dal paragonarci su ciò che è essenziale, su
come questa scuola può, di volta in volta, di fronte alle decisioni da prendere, alle priorità, tentare di chiarire il tipo di sguardo sulla realtà, quel significato unitario di cui parlava prima Julián, dentro le discipline,
attraverso la scelta degli insegnanti, dentro le decisioni da prendere. Cerchiamo di farlo tentativamente paragonando tutto questo con quello che fa
essere questa scuola un soggetto originale, una proposta originale. Tanto è
vero che facciamo veramente di tutto affinché sia accessibile a tutti, ma
purtroppo le condizioni sono quelle che sono, e noi verremmo meno alla
11
nostra responsabilità se non tenessimo conto di questo. Ma è proprio una
questione di riuscire a dimostrare che è comunque possibile. Per questo
all’inizio dicevo: è veramente grande quello che sta succedendo, che con
il suo sacrificio ciascuno permette l’esistenza di questa scuola, tenendo i
propri figli qui si dà una possibilità a tutti. Devo dire che non c’è un qualcosa che si aggiunga a questo, e infatti per il terzo anno consecutivo siamo
riusciti, con difficoltà, a non aumentare le rette. Lo dico per sottolineare
che il lavoro di attenzione al budget, con le professionalità che grazie a
Dio abbiamo, ci permette di non aumentare la retta, nonostante tutta la
crisi, la difficoltà e la diminuzione delle entrate che sostengono la scuola,
che già sono poche e stanno pure diminuendo dal punto di vista dell’aiuto
pubblico. Siamo veramente tutti tesi allo stesso scopo.
Intervento. Ho iscritto per la prima volta mia figlia al Liceo artistico. Non
conoscevo il Sacro Cuore. Sono venuto alla presentazione perché mia figlia
voleva fare l’artistico e io, facendo l’architetto, ho pensato: l’artistico al
Sacro Cuore, non è che ci sia molto da girare. Allora sono venuto alla presentazione, all’Open day; arrivo, lascio i figli a scuola, vado a parcheggiare
l’auto un po’ lontano e incontro un vecchio amico che è in giro con la bicicletta e mi dice: «Ma dove stai andando? Non andrai in questa scuola di
pazzi?». E io: «No, vado solo a vedere». «Non andare in quella confusione». Ho risposto: «Non so, vediamo». Arrivo e vedo che a mia figlia
piace tantissimo la scuola, è contentissima. Per altri motivi tecnici, dal momento che abitiamo lontano, ho detto: va bene, iscriviamo anche l’altra figlia in prima media. Allora veniamo, ma c’è il problema dei soldi, di lavoro
non ce n’è, per cui facciamo la domanda molto incoscientemente e dopo
chiediamo un aiuto. Naturalmente la risposta è stata la metà di quello che
io mi aspettavo mi venisse riconosciuto, per cui ho pensato: evidentemente
non è la mia scuola, per cui ho chiuso la questione, per me la cosa era
finita. Ma quando l’abbiamo detto a nostra figlia, lei è rimasta, non dico
male, malissimo. Però nel frattempo, nel mese trascorso tra l’Open day e
la nostra decisione per il no, è successa una cosa importante: lei andava
male alla scuola media, aveva dei brutti voti, e quando aveva fatto il colloquio le avevano detto: «Senti, per venire a questa scuola devi studiare,
perché questi cinque e questi quattro non vanno bene». Da quando le hanno
detto questo, mia figlia ha cominciato a studiare e a prendere i sette, gli
otto, perché lei voleva venire in questa scuola. E dopo che le abbiamo detto
che non potevamo iscriverla perché non avevamo i soldi, lei ha continuato
a prendere i sette e gli otto perché le abbiamo detto: «Ma tu devi chiedere,
non è finita, tu devi continuare a domandare. Prima cosa: per domandare
devi avere dei bei voti, poi devi domandare di poter venire in questa
scuola». Poi sono successe due cose. La prima: ho letto un articolo di Bersanelli apparso su ilsussidiario.net, in cui raccontava come negli altri Stati
12
la gente fa di tutto per mandare i figli alla scuola migliore, e allora io ho
cominciato a domandarmi: ma io ho fatto di tutto? Ho fatto proprio di
tutto? Seconda cosa: un amico mi diceva: «Ma tu, se quella fosse come la
medicina per tua figlia, l’unica che esiste al mondo, faresti di tutto per
comprarla?». E io ho fatto di tutto? Allora mi sono detto: voglio provare a
fare di tutto. Che cosa mi ha mosso inizialmente? Mi ha mosso il vedere
che desiderio aveva mia figlia di venire in questa scuola. Il suo desiderio,
stare di fronte a mia figlia che aveva quel desiderio mi ha fatto fare delle
cose di cui non mi credevo capace. Per cui ho cominciato a chiedere, già
chiedevo prima, a chiedere ancora di più, agli amici, a tutti, anche a coloro
che pensavo mi avrebbero detto sicuramente di no. Alla fine l’abbiamo
iscritta, non so quanto durerà, però questo fatto come mi ha cambiato? All’inizio la domanda era: perché vale la pena? Io mi rendo conto che vale
la pena perché mia figlia ha risvegliato me; vederla muoversi nel suo desiderio ha risvegliato me. Durante il colloquio, quando ha visto i suoi voti,
la preside ha riconosciuto questo cambiamento. Ho dovuto ammettere
come una persona con questo desiderio può fare tutto.
Intervento. Io vorrei un aiuto sul tema della libertà, in questo senso: mi
rendo conto che il punto di maggiore difficoltà rispetto ai miei figli e rispetto alla scuola è veramente amare fino in fondo la loro libertà, perché
io comunque inevitabilmente li riduco e riduco l’esperienza che fanno qui.
Esemplifico. Quando mio figlio ha raccontato in casa dell’incontro che
hanno fatto sul questionario dedicato alla scuola, il giorno dopo gli ho
detto: «Sì, però, c’è un bel cinque in greco». Tornati dal Papa la domenica
mattina, tutti e due i miei figli erano contenti e stanchi morti, ma subito ho
detto loro: «C’è l’interrogazione domani!». Mi rendo conto che questa è
proprio una riduzione di tutta l’esperienza grande che fanno. Allora: il cinque c’è e c’è anche la loro grande esperienza, quindi volevo proprio un
aiuto per gioire di più io dell’esperienza che i miei figli fanno qui, perché
in fondo in fondo mi rendo conto che il fatto che i miei figli siano qui è
una grande possibilità anche per me. E io su questa cosa non voglio retrocedere, non voglio dire: «Va bene, voi fate l’esperienza, ma io mi arrabbio
perché prendete i cinque»; a questo livello non ci sto. Ridurli, questa è veramente la cosa che mi addolora di più.
Carrón. Ma tu come puoi rispondere a questa situazione? Puoi rispondere
se guardi alla tua esperienza di adulto, perché tu potrai capire come stimolare o come stare davanti a questi due elementi che hai identificato: da una
parte, l’entusiasmo dei tuoi figli davanti a certe cose, dall’altra, il cinque
in greco. La questione è se noi vediamo che c’è in loro qualcosa in moto,
che c’è qualcosa che si risveglia, perché solo se si risveglia qualcosa, questo risveglio potrà coinvolgere anche altri aspetti, per esempio lo studio. E
13
questo non vuol dire, allora, mollare sul cinque in greco, ma che se i ragazzi si entusiasmano per qualcosa, potranno entusiasmarsi anche per altro
perché hanno l’umanità, hanno l’umano che non è indifferente davanti alla
provocazione del reale. Se questo succede, arriverà anche il resto, secondo
una modalità che a volte noi non possiamo misurare; questo non vuol dire
mollare, ma sapere che dare credito a quello che già si muove nel ragazzo
è la possibilità di guardare con speranza alla sua vita e di aiutarlo a capire
anche il resto, perché questo poggia su un positivo di cui già sta facendo
esperienza. Non si passa meccanicamente dall’entusiasmo per una cosa
all’entusiasmo per il greco, ma ciò che deve essere chiaro in noi è che se
si entusiasma per una cosa potrà entusiasmarsi per altro, prima o poi. Qui
sta l’aiuto che possiamo dare, genitori, insegnanti. Il ragazzo non è una
pietra che non accusa il contraccolpo della realtà. Il fatto che si possa interessare a qualcosa, indica la possibilità che si entusiasmi per tutto il resto,
anche per il greco.
Intervento. Sono madre di quattro figli che hanno studiato al Sacro Cuore,
l’ultimo è in uscita fra un mese. E allora con grande commozione vorrei
rispondere alla prima domanda dicendo: non ho nessun rimpianto. Cioè,
di rimpianti qua e là ogni tanto me ne vengono, ma su questa scelta, che
per me è stata in certi momenti faticosissima, pur sostenuta da tanti amici,
no. Perciò veramente è un grande mondo questo del Sacro Cuore. Per
ognuno dei miei figli ho in mente un episodio che ha educato loro, ma che
ha educato anche me, perché io quello che mi porto a casa da questi anni,
se penso a quando sono entrata qui per la prima volta, è che questo sguardo
di apertura loro lo hanno imparato in un’educazione di tipo didattico e io
l’ho imparato come genitore, perché sempre ho dovuto scontrarmi magari
con un pensiero diverso, con i miei progetti che venivano più o meno distrutti. Quindi per me è una compagnia irrinunciabile una scuola come questa. Inoltre io sono insegnante e perciò sono veramente e profondamente
grata di questi trent’anni di vita qui. Ripeto, lo dico con coraggio davanti
a tutto quello che ci sta capitando, non si può rinunciare a questo.
Carrón. Grazie.
Intervento. Anche io iscriverò a settembre mia figlia al Liceo artistico,
quindi per la prima volta arrivo al Sacro Cuore dopo tredici anni in un’altra
scuola che sposa l’idea e il tentativo educativo di cui avete parlato questa
sera. Ho una domanda che mi nasce proprio dal cuore. Quando ho ricevuto
il vostro invito ho detto: che apertura, che bello, stanno chiamando i genitori! Lo avete detto, però avrei bisogno di risentirvelo dire: cosa volete da
noi genitori? Come stare da genitori in questa scuola? Io ho un certo tipo
di esperienza. Dovete considerare che noi abbiamo anche bisogno di la14
vorare, e quindi, è un esempio che mi è balzato all’occhio in questo periodo, le riunioni alle quattro e mezza del pomeriggio non sono esattamente
in linea con la possibilità di partecipazione dei genitori. Quando ho ricevuto la vostra email mi sono sentita chiamata a un coinvolgimento diretto.
Questa è un’esperienza nuova, perché nella scuola da cui vengo mi si diceva: «Tu sei il genitore, dimmi pure che cosa ne pensi, condividiamo la
tua idea, però poi sono io, la scuola, a decidere». E su tante cose è corretto
dire questo, perché gli educatori siete voi, però le difficoltà concrete…
Carrón. Le condividiamo. Io dico che, davanti a una cosa che abbiamo in
comune, i genitori e gli educatori non possono non collaborare. Perciò a
me sembra che, qualsiasi sia poi la modalità con cui possiamo collaborare
– e ci sarà sempre una ricerca costante per trovare il modo più adeguato,
come ha detto il Papa sabato –, la famiglia e la scuola devono collaborare,
prima di tutto perché abbiamo tra le mani le cose più preziose, della scuola
e dei genitori: i nostri figli e studenti. In tal senso, mi sembra che un incontro come questo esprima il desiderio − per questo mi sembra giusto che
lei abbia detto di essersi sentita chiamata − di questa collaborazione, perché
da quando Marco Bersanelli si è fatto carico di questa responsabilità aveva
già pensato un momento come quello di oggi, l’abbiamo realizzato oggi
ma è da tempo che lo aveva in mente, come altri incontri che avete avuto
lungo questi anni. Alcuni dei genitori hanno già messo in atto delle iniziative per collaborare con la scuola, ciascuno potrà verificare quali sono le
possibilità concrete, per il lavoro o per altre competenze che ha, per coinvolgersi, ma secondo me il desiderio di collaborare è giusto. Che possiamo
raggiungere più o meno lo scopo dovrà essere sempre una tensione, perché
mai saremo completamente soddisfatti, ma mi sembra che il desiderio sia
chiaro in tutti.
Bersanelli. Questo è un tema interessantissimo, secondo me. Non c’è una
risposta prefabbricata a questa domanda, lo dico innanzitutto pensando a
me. Io capisco che c’è una distinzione di compiti tra la famiglia e la scuola.
E penso che se si confonde, se ci confondiamo noi, confondiamo anche i
ragazzi. È una giusta distanza da mantenere, ma lo scopo è identico: l’educazione del ragazzo. C’è una strada da scoprire, e lo dico proprio con il
gusto di chi è curioso di vedere come va a finire. Per esempio, a me ha
colpito negli interventi di questa sera che praticamente ciascuno in un
modo o nell’altro ha sottolineato questo; per esempio, uno diceva: «È lei
che ha risvegliato me», un’altra: «È una grande possibilità per me», e un’altra ancora riconosceva: «Di ogni figlio ricordo un episodio che ha educato
me». In tutto questo io mi ci rivedo come genitore, perché è vero che il
nostro scopo è educare i ragazzi, ma quale occasione è più forte, più convincente, più capace di smuovere noi adulti che vedere i nostri figli che
15
camminano? Questo è un aspetto inevitabile di qualunque scuola che tenti
il percorso che ha illuminato Julián stasera: provocando la libertà dei ragazzi, indirettamente ma profondamente, interroga la nostra. E allora da
qui nasce, secondo me, anche una possibilità di collaborazione concreta,
le cui forme a me sembrano da scoprire. Sarebbe riduttivo che ci si mettesse adesso a fare degli schemi, per esempio dando vita a un’associazione
o altro; magari verrà anche questo, ma innanzitutto c’è, almeno da parte
mia, da parte nostra, il gusto di condividere quell’origine, quel cammino
che ci vede alleati nell’educazione dei nostri ragazzi e, quindi, anche della
nostra stessa educazione.
Don Franco Berti. Gli ultimi interventi mi hanno provocato, in questo
senso: come è grande il Mistero di Dio qui presente ora! Che quella ragazza
prenda sette e otto per venire qui costruisce la realtà di tutti. E questo non
è semplicemente una cosa grande, ma è l’espressione di una presenza che
tocca totalmente la mia vita. Oppure che una madre dica che da trent’anni
ha vissuto per questo con tante fatiche e con una grande speranza. Queste
parole e questo vostro sguardo mi spinge a dire: che cosa posso dare io per
collaborare con voi se non tutta la mia vita? Non per paura – sentire che
silenzio nasce da questo a me impressiona –, ma per gratitudine. Quando
all’inizio parlavo di cordialità non intendevo un sentimento generico, ma
questo sentimento profondo e sostanziale come posizione di ciascuno,
pronto a rischiare sé, appunto, a dare la vita per una cosa più grande. Si
avverte qui, questa sera, qualche cosa d’altro. Noi collaboriamo dicendo:
«Sì»; quanto alle vie e alle modalità di questa collaborazione, ci si aiuta,
concretamente, con rispetto, tenendo conto delle mansioni di ciascuno. E
questo è affascinante.
Carrón. Mi permetto di intervenire ancora su questo tema; ascoltando tutti
i vostri interventi, ho pensato che c’è una cosa che si può fare da subito
per realizzare questa collaborazione, perché questa collaborazione la diamo
− ciascuno di noi − con la nostra presenza davanti ai nostri figli, ai nostri
ragazzi. Prima di tutto – l’avevo già accennato –, se i professori e tutti
quanti abbiamo parte nella scuola non abbiamo questo desiderio di percorrere una strada veramente piena con la nostra umanità, con la nostra ragione, sarà difficile che possiamo risvegliare i ragazzi. Ma questo fa parte
anche dello scopo della famiglia: se quando arrivano a casa i ragazzi non
trovano nei genitori lo stesso desiderio o se vedono che il papà e la mamma
frenano quello che hanno ricevuto a scuola, è inutile che facciamo poi le
associazioni dei genitori perché saremo noi a ridurre la portata del lavoro
educativo. Invece accettare la sfida che i ragazzi sono per noi − perché i
ragazzi ci sorpassano a destra e a sinistra prima che ce ne rendiamo conto
−, essere all’altezza della esigenza dei ragazzi che cosa chiede a noi edu16
catori e a noi genitori in termini di conversione, in tante occasioni, per
poter rispondere, o che cosa chiede a noi quando sono assonnati e occorre
risvegliarli? È una collaborazione per cui non dobbiamo “metterci d’accordo”, perché è già in atto. Ciascuno di voi, indipendentemente da ciò
che succede a scuola, da come si alza al mattino, da come introduce i propri
figli alla realtà, sta già collaborando a come il ragazzo arriva a scuola e
comincia ad ascoltare quello a cui viene introdotto. E che sia introdotto
alla realtà dipende da come lo accogliamo, non dipende da una strategia,
ma da quanto siamo seri con la vita. E questo non ce lo risparmia alcuna
strategia, perché possiamo fare delle associazioni dove questo viene meno,
e allora a cosa serve? Invece se questo è il punto sorgivo dell’educazione,
allora possiamo immaginare anche delle occasioni, delle iniziative eccetera, ma che esprimano questo, perché lo scopo è già all’origine. In che
misura noi educatori e genitori siamo veramente compagni al destino dei
nostri ragazzi? E questo non possiamo diventarlo senza essere testimoni,
perché non c’è un’altra modalità, non ce la caviamo con le istruzioni per
l’uso, come a dire: «Andate voi che noi restiamo qua». No. Questo, grazie
a Dio, non so se serviva in altri momenti della storia, ma in questo no di
certo. E per chi come noi vuole vivere nella verità questo è un grandissimo
aiuto, perché i nostri figli non ce lo risparmiano, così come i ragazzi non
lo risparmiano agli educatori. E questo è un bene, perché hanno come una
sfacciataggine per cui non è che li convinci con dei giri di parole. Tutto
questo che cosa chiede a noi? Chiede una serietà, un coinvolgimento personale nel vivere, senza il quale noi non possiamo trascinarli da nessuna
parte.
Bersanelli. Con questa provocazione di Julián ce ne andiamo a casa e torniamo a scuola con un compito grande e anche quotidiano, che non ha bisogno di chissà quali precisazioni, ma soltanto della nostra libertà. Siamo
profondamente grati di questa serata. È un cammino che, come abbiamo
detto, vogliamo continuare. Grazie a tutti.
© Fraternità di Comunione e Liberazione per i testi di Julián Carrón
17