Keystone Gli uomini alle armi, le donne capofamiglia Prima guerra mondiale A colloquio con la storica Heidi Witzig sul ruolo che svolsero madri e figlie per salvaguardare il fronte interno e la sopravvivenza della famiglia. Un compito svolto con molti sacrifici che non valse però alcun riconoscimento o diritto politico Luca Beti Il 28 luglio 1914 le campane suonano a stormo. È scoppiata la guerra in Europa. Pochi giorni dopo, anche la Svizzera chiama alle armi i suoi uomini. Imbracciato il fucile e indossata l’uniforme blu, i mariti, i capifamiglia, gli operai sono ora soldati al servizio della patria. A casa lasciano sorelle, madri, mogli e figli. «Lo scoppio della Prima guerra mondiale è una catastrofe per molte famiglie perché ha inizio per loro un periodo gravido di privazioni, sofferenze e insicurezza», ci illustra la storica Heidi Witzig. «In campagna non mancano solo le braccia, ma anche i cavalli, requisiti dall’esercito. Le contadine si devono occupare da sole dei campi e degli animali. In città, alle famiglie viene improvvisamente a mancare il salario degli uomini che sfama tutti, dai figli ai nonni. Nel 1914 non c’è ancora un’indennità per perdita di guadagno per i militari in servizio». Le autorità svizzere sono impreparate al blocco delle importazioni e a una guerra combattuta sul fronte dell’approvvigionamento. La guerra economica si ripercuote sul prezzo dei beni di prima necessità, costo che subisce un’impennata. Prima dello scoppio del conflitto, un chilo di pane costa 34 centesimi di franco, quattro mesi dopo, nel dicembre 1914, il suo prezzo è già di 46 centesimi, nel 1918 tocca i 75 centesimi. Il Consiglio federale interviene con titubanza, ricorrendo a restrizioni, contingentamenti, provvedimenti agricoli e solo nel 1917 introduce il razionamento su alcuni prodotti. Nel corso del conflitto, oltre ai prezzi, anche i salari aumentano, ma in maniera minore, cosicché l’inflazione comporta una flessione nella busta paga del 25-30 per cento. Il mancato intervento dello Stato getta nella più nera miseria la popolazione dei ceti medio-bassi, favorendo nel contempo gli speculatori e i contadini che approfittano del rincaro. Alla fine del 1918, circa 700’000 persone, ossia il 18,5 per cento della popolazione svizzera, quota che nelle grandi città tocca addirittura il 25 per cento, ricorre a forme di aiuto straordinario, come generi alimentari a prezzo ridotto o pasti nelle mense sociali. «Il divario economico tra gli abitanti della città e quelli della campagna, così come tra l’alta borghesia e il resto della popolazione, si allarga nel corso del conflitto. Le famiglie abbienti conducono una vita normale, senza alcuna privazione. Queste ultime fanno capo ai loro canali di approvvigionamento eludendo così il razionamento», ricorda Witzig, profonda conoscitrice delle questioni femminili e della vita quotidiana nel secolo scorso. Per limitare le conseguenze sociali della guerra, lo Stato crea mense, distribuisce viveri e combustibili a prezzi ridotti, ma il suo intervento è insufficiente. Le autorità affidano il compito all’opera di associazioni benefiche, quali la Società femminile svizzera di utilità pubblica, che sul piano locale si organizza in centri femminili. «Il loro compito principale consiste nel procacciare lavoro alle donne disoccupate o alle mogli dei soldati in servizio. Le donne lavorano a maglia o cuciono per l’esercito. I centri femminili si occupano di un ampio ventaglio di servizi: organizzano corsi di cucina per insegnare ricette semplici a causa della scarsità dei prodotti, a seccare la frutta, a coltivare la verdura in giardino e collaborano nella distribuzione delle tessere del razionamento o fungono da consulenti in vari ambiti, da quello educativo a quello del buoncostume», spiega la storica di Winterthur. Se a beneficiare del sostegno di queste strutture sono soprattutto persone appartenenti agli strati sociali medio-bassi, a far parte dei centri femminili sono per lo più donne di estrazione alto-borghese, a volte sono figlie o mogli di ricchi banchieri o padroni di fabbrica, che si sentono in obbligo di prendersi cura del fronte interno. Sulla frontiera agisce invece un’altra associazione, la Società femminile per il benessere dei soldati (oggi SVService), fondata nell’autunno del 1914 da Else Spiller, «una donna con un talento organizzativo fuori dal comune», come sottolinea la storica Witzig. Nascono così le Soldatenstuben, le cosiddette case del soldato, in cui, nel tempo libero, i militari trovano cibi e bibite a prezzi modici, possono giocare, cantare, leggere o scrivere a casa, senza essere obbligati a consumare qualcosa. Sono un’alternativa analcolica ed economica alle osterie. Alla fine del conflitto, si contano circa 1000 simili ritrovi per i soldati, gestiti, di regola, da donne attempate e nubili. Tuttavia, a essere ricordata ancora oggi è una giovane donna, la piccola Gilberte, protagonista nel film di propaganda svizzero del 1941, Gilberte de Courgenay, che trasforma questa ragazza del Giura in una figura leggendaria. «Le Soldatenmutter sono proprio il contrario di Gilberte», illu- stra ancora Heidi Witzig. «Oltre a servire caffè, tè, cioccolata calda, attaccare un bottone ai soldati, offrono loro una spalla su cui piangere o un orecchio a cui confidare le proprie preoccupazioni. Ma sono anche mamme severe che, quando serve, sanno redarguire chi ha dimenticato le buone maniere o il buoncostume». Sul fronte interno, oltre alle già citate società femminili di utilità pubblica, altre organizzazioni operaie e della sinistra, nonché alcune sezioni svizzere della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà promuovono in varie città azioni contro la fame, il rincaro o in favore della pace. Per esempio, nell’estate del 1918, a Zurigo scendono in piazza 10’000 donne: protestano contro il prezzo del latte davanti alla sede del parlamento cantonale. «Soprattutto le famiglie di città soffrono a causa dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, come il pane, i latticini, la carne, le patate. In collaborazione con le centrali femminili, le donne delle associazioni della sinistra svolgono compiti di controllo dei prezzi della merce venduta nei mercati o verificano che gli operai delle fabbriche ricevano un salario equo», ricorda la storica. Durante la guerra, le donne dimostrano capacità organizzative e abilità imprenditoriali fino ad allora nascoste e inaspettate. Se gli uomini difendono i confini nazionali, le donne gestiscono il fronte interno. «Rimaste da sole a casa, hanno fatto in modo che la famiglia e la società funzionassero come nei periodi di pace. E hanno svolto questo compito in maniera eccellente. Con il ritorno dal fronte dei mariti, dei padri, dei figli, le donne si sono fatte da parte e la suddivisione classica dei ruoli è stata ristabilita», conclude Heidi Witzig. «Chi si aspetta un po’ di rispetto sotto forma di maggiori diritti politici rimane delusa. I riconoscimenti arrivano una ventina d’anni dopo, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale: la patria ha di nuovo bisogno delle donne sul fronte interno. Questa volta però, per evitare che le donne acquistino troppa autonomia, lo Stato mette un uomo a capo delle organizzazioni femminili. Giocare alla Stauffacherin (figura leggendaria e moglie di Werner Stauffacher, uno dei presunti tre confederati del Grütli, ndr.) non è stato pagante per la donna che ha dovuto attendere più di cinquant’anni prima di ottenere il diritto di voto dagli uomini».
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