All the world is a stage

ALL THE WORLD IS A STAGE
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Classe IV A
ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
SOMMARIO
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Pag. 8
Pag. 15
Pag. 18
Pag. 24
Il teatro greco
Il teatro latino
Il teatro medievale
Il teatro rinascimentale
Il teatro nel Seicento
PREMESSA
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo”): è stata questa massima
del celebre commediografo latino Terenzio Afro ad animare noi studenti della IV A nel percorso di approfondimento
extracurriculare relativo al Teatro nella sua storia.
In modo casuale ci siamo costituiti in gruppo per realizzare un iter cronologico e tematico partendo dal fantomatico, mitico,
leggendario Carro di Tespi per giungere alla Commedia dell’Arte del Seicento quando la scena si confonde con la vita.
Un valido apporto è stato per noi la professoressa Trane, nostra docente di Lettere, che ci ha accompagnato nelle varie fasi
del lavoro offrendoci spunti di riflessione e facendo emergere da ognuno di noi contributi personali e unici.
Ne è risultata una “summa Theatri” di immediata e pubblica consultazione. Ci siamo accorti che è vero quanto afferma Piero
Angela: “Tutti coloro che si occupano di insegnamento dovrebbero ricordare continuamente l'antico motto latino «ludendo
docere», cioè «insegnare divertendo». Se si riesce infatti a inserire l'aspetto del «gioco» (nel senso dell'«interesse») eccitando
così le motivazioni individuali e accendendo i cervelli, si riesce a moltiplicare in modo altissimo l'efficienza dell'informazione,
dell'insegnamento, della comunicazione. Perché l'interessato «ci sta». È stimolato, partecipa, ricorda. E impara.” Questo è
accaduto a noi che siamo stati stimolati, incuriositi dalla nostra insegnante durante tale lavoro. Dal teatro antico, greco,
romano, siamo giunti a quello del Cinquecento e del Seicento ricostruendo i vari tipi di rappresentazione, i luoghi dove
avvenivano, i personaggi, i costumi, gli ambienti, l’atmosfera sociale, culturale nella quale il fenomeno si verificava.
Attraverso la storia del teatro si è proceduto a recuperare la vita dei vari tempi esaminati dal momento che in esse trovavano
spiegazione le opere teatrali.
Completo, ha voluto essere il nostro lavoro per quanto riguarda i periodi presi in esame.
Ci ha emozionato addentrarci nei meandri delle quinte dei palcoscenici antichi medioevali e rinascimentali, studiare i grandi
drammaturghi e commediografi dei secoli passati, esplorare i loro testi senza trascurare il riflesso avuto sul pubblico. Abbiamo
scoperto che il teatro ha sempre avuto una sua influenza nella cultura di ogni tempo. Le trame delle opere ci hanno indotto a
riflettere su noi stessi, sulle nostre esperienze e ci hanno fatto capire che il teatro è un mezzo espressivo tra i più adatti a
favorire la comunicazione.
Francesca Giada Antonaci e
Francesca Ancora, Giulia Azzella, Martina Cataldi, Andreina Casarano, Simona Ciampa, Gloria
Crusi, Santo De Luca, Alessandro De Santis, Susanna Gatto, Giorgia Ingrosso, Beatrice Leo,
Francesco Macrì, Francesca Malagnino, Davide Nuzzo, Matteo Pennetta , Alessia Placì, Nico
Preite, Mattia Primiceri , Debora Quintana, Lorenzo Rimo, Jacopo Sabato, Federica Sammali,
Elena Sansone, Marina Scorrano, Riccardo Seclì, Giorgio Silvano, Francesco Venuti
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L TEATRO GRECO
Si fa convenzionalmente coincidere la nascita della tragedia con il momento in cui, nel VI secolo a.C., il
poeta Tespi inventò la prima maschera. In realtà il primo abbozzo di rappresentazione drammatica ha una
matrice di carattere celebrativo e religioso. Difatti risale ai misteri del culto del dio Dioniso. Il culto
dionisiaco riservava la rivelazione ad una ristretta cerchia di fedeli, che venivano iniziati ai misteri delle
diverse divinità. Dioniso, una divinità giunta dalla Tracia, proteggeva il vino e l’ebbrezza. In origine il
culto del dio dovette consistere in una festa campestre durante la quale si cacciava un animale che
riguardava il dio. Camuffati con pelli e corna di animali, i seguaci di Dioniso, eccitati dalla musica, dalle
danze e dal vino, giungevano ad una sorta di furore mistico in seguito al quale sbranavano la sacra preda e
se ne cibavano. Con il trascorrere del tempo queste feste acquistarono maggiore rilevanza e vennero chiamate “grandi e piccole
dionisiache”. In esse s’intonava il ditirambo, l’inno sacro in onore di Dioniso, che prese il nome di tragodia, cioè canto del
capro. Dapprima improvvisato, il ditirambo venne poi scritto in versi: i cantori, in coro, si rivolgevano verso l’altare del dio,
dove aveva luogo il sacrificio e cantavano invocando il nume e celebrandone le gesta. Da questo momento si ebbe un primo
abbozzo di rappresentazione teatrale: l’originaria tragodia cominciò a divenire teatro, cioè proiezione di personaggi invocati
dal coro. L’origine della tragedia dionisiaca, mista di gioia e di dolore, spiega forse perché all’inizio non vi fosse alcuna
distinzione fra tragedia e commedia. Risale, però, a tempi antichissimi la separazione che indica Aristotele nella sua Poetica:
la tragedia tratta un argomento serio e si conclude con un evento tragico; nella commedia gli eventi narrati hanno lo scopo di
divertire e di far ridere il pubblico.
Per gli ateniesi il teatro era considerato uno spettacolo al quale potevano partecipare cittadini di ogni classe sociale. Era un
rituale di grande rilevanza religiosa e sociale perché considerato uno strumento di educazione. Essi organizzavano grandi
manifestazioni nelle quali tre autori gareggiavano dinanzi ad una giuria formata da dieci giudici selezionati tra varie tribù.
Gli autori indossavano maschere che li rendevano riconoscibili anche da lontano. La recitazione avveniva in versi e le parti
soliste erano accompagnate da un coro. Ad Atene durante le feste le rappresentazioni teatrali erano "le linee" e le "Dionisie".
Le prime erano delle feste popolari che si tenevano d’inverno e includevano tragedie e commedie. Le “Dionisie”, invece, erano
divise in “Grandi Dionisie” e “Dionisie rurali”. Le prime venivano celebrate all'inizio della primavera e ad esse erano invitati
tutti tranne i nemici di Atene; le “Dionisie rurali” erano delle feste di minore importanza organizzate durante l'inverno nei
paesi vicini ad Atene ed ad esse partecipavano solo gli ateniesi.
STRUTTURA
Il teatro greco rimase sempre una struttura a
cielo aperto suddivisa nelle tre parti
essenziali che sempre lo caratterizzeranno:

La cavea (koilon) a pianta circolare
o ellittica nella quale sono disposte le
gradinate suddivise in settori e con i sedili di
legno. In genere la cavea è addossata ad una
collina per sfruttarne il pendio naturale.
Essa aveva la forma di un semicerchio
leggermente allungato. In età classica è
divisa in più settori (kerkides), ed ha un corridoio (diazoma). I sedili furono dapprima in legno (ikria) poi in pietra. Erano
formati da un piano superiore sul quale sedeva lo spettatore e da uno inferiore, leggermente curvo, dove poggiava i piedi.
Esisteva una proedria, cioè una fila di sedili d'onore destinata a sacerdoti, personaggi ufficiali, capi tribù ecc. La cavea era in
genere ricavata da un pendio naturale del terreno. I romani, invece, costruiranno tutto il complesso teatrale.

L'orchestra (orkhestra) era circolare e collocata tra il piano inferiore della cavea e la scena. Era lo spazio centrale del
teatro greco, quello riservato al coro. Al centro di essa era situato l'altare di Dioniso (thymele). L'orchestra (il termine deriva
da "orhke" = danza) era lo spazio destinato alle evoluzioni e agli spostamenti del coro. Nei teatri greci più antichi era di
forma circolare, trapezoidale o poligonale. Nei primi teatri monumentali era circondata per poco più della metà del perimetro
dalla cavea, che era addossata quasi sempre a un pendio naturale. Un canale coperto da lastre correva intorno all'orchestra,
per permettere all'acqua della cavea di defluire. Il piano dell'orchestra era di terra battuta. Ai lati c’erano due entrate
('parodoi) poste tra le testate della cavea e la scena: esse servivano per gli spettatori, per gli attori e per il coro.
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
La scena (skené), costruzione a pianta allungata disposta perpendicolarmente all'asse della cavea e inizialmente in
legno, era situata ad un livello più alto dell'orchestra con la quale comunicava mediante scale. La sua funzione originaria era
soltanto pratica, cioè forniva agli attori un luogo appartato per prepararsi senza essere visti. Divenne poi sempre più
complessa e abbellita da colonne, nicchie e frontoni. Dal 425 a.C. fu costruita in pietra e con maggiori ornamenti. La scena
serviva in origine per accogliere costumi e attori ed era un semplice insieme di tende. All'inizio del V secolo a. C. diventò una
costruzione in legno.
Con l'"Orestiade" di Eschilo è già pensata come vero e proprio edificio scenico. Ha una fossa profonda per gli scenari, una
pedana su cui recitano gli attori e un fondale con tre porte. Nel corso dello stesso secolo si creano i parasceni, ovvero due
strutture laterali alla scena, poste in posizione avanzata.
LA TRAGEDIA E IL CARRO DI TESPI
Il teatro e la tragedia greca
hanno una data storica ben
precisa. Era l’anno 535 a.C.
e il tiranno ateniese
Lisastro riorganizzò le feste
pubbliche dando spazio ad
una forma di poesia mai
conosciuta con concorsi a
tema e con premio per il
vincitore: la tragedia. Il
primo vincitore fu Tespi,
personaggio semileggendario
al quale gli antichi
attribuirono innovazioni. Si
diceva
che
andasse
girovagando con la sua
compagnia di attori tra le
città e con un carro, il
cosiddetto Carro di Tespi.
Questo forse si riferisce a
pratiche rituali poiché era
usanza trasportare le statue processionali di Dioniso sopra carri. Di Tespi si conservano i titoli di quattro tragedie e alcuni
frammenti ma forse si tratta di un falso di epoca posteriore. E’ noto, infatti, che il peripatetico Eraclide Pontico, nel secolo
IV a.C., compose drammi e li fece circolare attribuendoli a Tespi. Che cosa fosse la tragedia in quei primissimi anni della sua
storia non possiamo saperlo con precisione. Gli eruditi antichi amavano pensare ad una sorta di antropologia teatrale
primitiva: un rustico ambiente contadino, semplici compensi in natura per gli artisti, attori che si truccavano il viso con
biacca o mosto d'uva, un carro che vagava col suo carico di rudimentali costumi di scena. Una comunità autosufficiente la
cui vocazione era vendere illusioni a persone semplici. La realtà era ben diversa. Il teatro greco non era il prodotto di un
marginale ambiente contadino ma un fenomeno centrale nella vita delle città. Si pensi che gli spettacoli drammatici,
patrocinati in origine da un tiranno, sono poi diventati l'espressione più significativa della civiltà democratica ateniese del
secolo V a.C., cioè dell'epoca più alta e creativa della cultura greca. Il dramma greco non nasce con degli attori che lo
improvvisano, nasce con l'opera consapevole di un autore il quale è il committente e il destinatario. La tragedia greca è un
genere teatrale nato nell'antica Grecia e la sua messa in scena era, per gli abitanti dell’Atene classica, una cerimonia di tipo
religioso con forti valenze sociali. Derivata dai riti sacri della Grecia e dell'Asia Minore, raggiunse la sua forma più
significativa nell'Atene del V secolo a.C. Precisamente la tragedia è l'estensione in senso drammatico (ossia secondo criteri
prettamente teatrali) di antichi riti in onore di Dioniso, dio della natura. La tragedia greca è strettamente connessa con
l'epica, col mito ma dal punto di vista della comunicazione essa sviluppa mezzi del tutto nuovi. Nella tragedia il mythos si
fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta e il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come
entità distinte, che agiscono autonomamente sulla scena, provvisti ciascuno di un proprio ruolo.
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I GRANDI TRAGEDIOGRAFI
La rappresentazione tragica nell’antica Grecia ebbe la funzione di educare il popolo oltre che di divertirlo. Trasmetteva,
infatti, agli spettatori i principi morali, religiosi e politici su cui si fondava la società, servendosi di argomenti tratti dal mito,
dalla tradizione epica e più raramente, da eventi storici contemporanei. Eschilo, Sofocle ed Euripide nel corso del V secolo
a.C. portarono la tragedia alla sua perfezione formale.
ESCHILO
Nato a Eleusi (un demo di Atene) intorno al 525 a.C., di famiglia nobile, fu
testimone della fine della tirannia ad Atene nel 510 a.C.. Combatté contro i
persiani in numerose battaglie, Maratona e Salamina. La leggenda narra che
Eschilo sia morto per colpa di un'aquila che avrebbe lasciato cadere, per spezzarla,
una tartaruga sulla sua testa scambiandola, data la calvizie, per una pietra.
Eschilo viene considerato il vero padre della tragedia antica. A lui viene attribuita
l'introduzione di maschere e coturni. Dopo pochi anni introdusse pure un secondo
attore (precedentemente sulla scena compariva un solo attore per volta) e rese
possibile la drammatizzazione di un conflitto. Si dedicò anche a migliorare la
trilogia, che era quella forma drammatica nella quale il racconto di un solo mito
veniva svolto in tre parti ben separate e distinte. Scelse di rappresentare i miti che
offrivano spunti per azioni particolarmente spettacolari, che colpivano sia
l’immaginazione sia la vista degli spettatori: grandi re umiliati, fratelli uccisi dai
fratelli e madri trucidate dai figli. Egli seppe unire l’elemento umano con quello
soprannaturale in una perfetta fusione di forma e contenuto e questo portò la
tragedia ai suoi più alti vertici.
SOFOCLE
Nacque a Colono (Atene) nel 497 a.C.. Figlio di un ricco fabbricante d'armi,
ricevette la migliore formazione culturale e sportiva e ricoprì importanti cariche
pubbliche, militari e religiose. Amico di Pericle ed impegnato nella vita politica
introdusse nella tragedia il terzo attore e portò da dodici a quindici i coreuti.
Sofocle scrisse, secondo la tradizione, ben centoventitré tragedie, delle quale ne
restano solo sette: “Antigone”, “Aiace”, “Edipo re”, “Elettra”, “Filottete”, “Le
Trachinie” ed “Edipo a Colono”. I suoi eroi sono immersi in un ambiente di
contraddizioni insanabili, di conflitti con forze inevitabilmente destinate a
travolgerli. Il suo contributo originale allo sviluppo della tragedia greca fu
rappresentato dall'accentuazione della dimensione umana dei personaggi. Questi
sono generosi e buoni ma smisuratamente soli e destinati alla tragedia dai loro
conflitti interni. Ciò nonostante non appaiono mai schiacciati del tutto dal fato
perché capaci di lottare contro questo. Rispetto ad Eschilo i cori tragici sofoclei
partecipano meno attivamente e diventano piuttosto spettatori e commentatori
dei fatti. La psicologia dei personaggi si approfondisce, emerge un’inedita analisi
della realtà e dell'uomo. Inoltre Sofocle rese più complicata l’azione con un
intreccio ricco di espedienti che suscitavano la commozione o la sorpresa e
tenevano sempre desto l’interesse del pubblico.
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EURIPIDE
Nacque intorno al 485 a.C. da una famiglia ateniese rifugiatasi sull'isola di Salamina
per sfuggire ai Persiani. La sua cultura dimostra un’educazione raffinata, acquisita
dallo studio svolto presso sofisti come Protagora. Questa non sarebbe stata possibile
senza una condizione sociale agiata. Euripide mise insieme una ricca biblioteca, una
delle prime delle quali si faccia menzione. Egli partecipò anche a giochi ginnici e
venne incoronato cinque volte. Contemporaneo di Socrate ne divenne amico. Si ritirò a
Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove morì, si dice, sbranato dai
cani (ma la notizia è molto dubbia). Solo dopo la sua morte la Grecia lo riconobbe in
tutto il suo valore e le sue opere divennero famose. Gli ateniesi gli dedicarono nel 330
a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso. Le peculiarità delle tragedie euripidee
rispetto a quelle degli altri due drammaturghi sono la ricerca di sperimentazione
tecnica e la maggiore attenzione alla descrizione delle passioni e dei sentimenti.La
struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e più ricca di novità rispetto
alle precedenti. Ci sono nuove soluzioni drammatiche, un maggiore utilizzo del deus
ex machina ed una progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro, che tende ad assumere una funzione di pausa
nell'azione. Anche lo stile risente della ricerca euripidea di rompere con la tradizione mediante l'inserimento di parti
dialettiche, atte a ridurre la tensione drammatica e l'alternanza delle modalità narrative. La novità assoluta del teatro
euripideo è, tuttavia, rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo mostrava le dinamiche psicologiche dei suoi
personaggi. L'eroe delle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e di Sofocle ma una persona
problematica ed insicura, carica di conflitti interiori che vengono portati alla luce ed analizzati. Lo sgretolamento del
tradizionale modello eroico porta alla ribalta, nel teatro euripideo, le figure femminili. Le protagoniste dei drammi,
Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide. Egli ne tratteggia sapientemente la tormentata
sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con la ragione. Euripide espresse le contraddizioni di una società che
stava cambiando. Nelle sue tragedie spesso le motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere e
con i vecchi valori fondanti della polis. Il personaggio di Medea, ad esempio, arriva ad uccidere i propri figli pur di non
sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con Glauce, figlia di Creonte re di Corinto. ll teatro di Euripide deve
essere considerato un vero e proprio laboratorio politico perché non chiuso in se stesso ma aperto ai mutamenti della storia.
FUNZIONE EDUCATIVA DELLA TRAGEDIA
La tragedia è forma drammatica e non narrativa. Essa mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha l’effetto di
sollevare e purificare l’animo da tali passioni. I Greci attribuivano una funzione profondamente educativa alla tragedia.
Assistendo allo spettacolo il popolo, mentre provava i sentimenti di pietà o di terrore suscitati dalle vicende rappresentate, si
nobilitava e purificava il suo animo. Quando il protagonista violava i divieti posti dalla divinità meritava quei terribili
castighi che provocavano terrore negli spettatori. Il pubblico rifletteva sulla profonda lezione morale che scaturiva da una
rappresentazione e alla fine si trovava in pace con se stesso.
LA COMMEDIA
La tradizione attribuisce al popolo dei Dori, considerati per carattere inclini agli scherzi e ai motti di spirito, il merito di aver
creato la commedia. Le prime tracce di questo tipo di rappresentazione fecero la loro apparizione nella città di Megara. La
parola “comodìa”, composta da “Komos” (corteo festivo) e “odè”(canto), indica come questa forma drammaturgica sia la
rappresentazione di feste e riti in onore delle divinità ellenistiche con probabili riferimenti dionisiaci. Dovette trascorrere
molto tempo prima che la commedia fosse presentata pubblicamente. Questo avvenne intorno al 472 a.C.. Una volta
affermatasi ebbe più fortuna della tragedia. La prima gara teatrale si svolse ad Atene nel 486 a.C.. Secondo Aristotele la
commedia ha inizio a Siracusa con Formide ed Epicarmo. Il genere comico durò fino al III secolo a.C. adattandosi ai
cambiamenti culturali e sociali. La commedia greca si divide in tre fasi:
 COMMEDIA ANTICA (dalle origini al IV secolo a.C.)
 COMMEDIA DI MEZZO (fino all’inizio dell’Ellenismo)
 COMMEDIA NUOVA (che coincide con l’età ellenistica).
La commedia antica è rappresentata da Aristofane. Egli utilizzò elementi fantastici e introdusse la satira politica fino
all’attacco personale (onomastìkomodèin). Mise in scena le problematiche più scottanti dell’attività politica.
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La commedia di mezzo va dal 388 a.C.al 321 a.C. con autori quali Antifane, Anassandride e Alessi. Con loro si perdono le
caratteristiche di satira politica e ci si orienta verso le commedie “disimpegnate”. I personaggi sono tratti dalla realtà
quotidiana, sono persone umili. E’ presente anche un adattamento comico degli episodi mitologici ( parodia mitologica).
La commedia nuova inizia con Menandro e dura fino alla metà del III secolo a.C. . In questa fase si eliminano i riferimenti
all’attività politica e si mette in scena la borghesia di Atene. A differenza della commedia antica il coro funge da
riempimento tra un atto e l’altro. Nella commedia nuova il coro fa il suo ingresso dopo il prologo e interloquisce direttamente
con i personaggi dell’azione. Solitamente si narrava una vicenda basata su un intrigo di carattere amoroso. L’intreccio più
tipico era quello delle vicende di un giovane di buona famiglia che si innamorava di una ragazza di umili condizioni.
ARISTOFANE E LE NUVOLE
Aristofane è stato uno dei principali esponenti della commedia antica.Di lui sono
rimaste circa 11 opere complete. Non si hanno molte notizie sulla sua vita e le
poche si ricavano dalle sue commedie. Nacque nel Demo Attico di Citadene (444388 a.C.). In questi anni Atene combatteva Sparta nella guerra del Peloponneso.
Le sue prime commedie furono “Bacchettanti” e “Babilonesi” e di entrambe
restano pochi frammenti. Il sistema di valori di Aristofane è vicino a quello dei
proprietari terrieri. Il suo eroe comico è un anziano legato alla terra, colto e
intelligente. Fra lui e il nuovo si creano rapporti difficili ovviamente riferiti in
chiave comica.
Le “Nuvole” è
certamente la sua opera più famosa. Essa tratta le vicende di un contadino ed il
rapporto che questi ha con il figlio Filippide. I personaggi sono pochi e possono
essere considerati tutti principali. Il primo ad essere introdotto è Strepsiade, ricco
contadino coniugato con una nobildonna. Il secondo è Filippide e l’ultimo è il
coro rappresentato dalle nuvole a cui Strepsiade si rivolge per risolvere i problemi
dei debiti. Esso ha il compito di commentare e dare consigli ad ogni personaggio.
L’esponente di questo complesso è Corifea. La tematica principale che viene
affrontata è il mutamento della società e di tutti gli usi e tradizioni di essa. La
filosofia è stata un mezzo molto importante per tale mutamento. Il maggiore
esponente di questa filosofia è Socrate che critica le divinità fino ad ora onorate. Un altro argomento sul quale Aristofane si
sofferma è l’alternanza tra vecchio e nuovo, antico e moderno, adulto e giovane. Tra questi l’intermediario è Socrate che
introduce una coppia di contrari ovvero quella del discorso peggiore e del discorso migliore. L’ultima tematica affrontata
riguarda le abitudini dei nobili caratterizzate da passioni.
LA POLITICA NEL TEATRO
Il teatro greco fu un fenomeno politico ovvero una manifestazione collettiva della poleis. La città era intesa come comunità
di individui con pari facoltà di parola e pari diritti davanti alla legge e non come un giocattolo per l’aristocrazia. Il teatro era
un rituale collettivo che coinvolgeva migliaia di spettatori. Una delle caratteristiche del teatro fu quella di mettere al centro
la città, di fare di questa un teatro davanti ai cittadini.
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L TEATRO ROMANO
Andronico e Nevio, autori di tragedie e di commedie, diedero l’avvio al teatro latino in stretta dipendenza da
quello greco. Copioni, idee, metri, strutture, tutto derivò dal teatro greco. Gli autori latini presero come modelli
per l’ambito tragico Sofocle ed Euripide e per l’ambito comico Menandro. Non si limitarono, però, ad imitare
gli autori greci ma diedero vita ad opere nuove. Nell’ambito comico introdussero la contaminatio, una tecnica
che consisteva nel fondere varie parti di commedie di argomento greco (palliate) in un unico intreccio. Fecero
poi opere di argomento romano come le tragedie, dette fabulae praetextae, e le commedie, dette fabulae togatae.
Nelle tragedie gli attori vestivano con la toga bordata di porpora, detta praetexta e usata come abito dai
magistrati nella vita pubblica. Nelle commedie gli attori vestivano con la toga. Le commedie di argomento romano erano una
copia della palliata (commedia di argomento greco) ma non ebbero grande successo.
Delle tragedie precedenti a Seneca possediamo solo qualche frammento e non possiamo ricostruire in maniera precisa la
struttura dei testi tragici. Per le commedie, invece, ci sono pervenute opere di Plauto e Terenzio. Queste presentano una
divisione in atti. Grande importanza viene data al prologo che può avere una funzione informativa o può essere utilizzato
dall’autore per difendere il proprio operato davanti al pubblico. Le rappresentazioni si alternavano con cantica, parti
cantate, e deverbia, parti recitate.
STRUTTURA
A Roma i teatri più antichi erano costruzioni
provvisorie di legno, montabili e smontabili, poiché
si riteneva che potessero indurre gli spettacoli ad un
eccessivo otium. Soltanto nel 55 a.C. (periodo
repubblicano) comparvero i teatri stabili in
muratura. Il primo, costruito a spese di Pompeo,
sorse nei pressi dell’attuale Campo dei Fiori. Aveva
una pianta semicircolare con un’alta parete di fondo
davanti alla quale vi erano il palco e poi la cavea
con gradinate per i posti a sedere. Il pubblico era
sistemato nella cavea antistante alla scena e si
portava da casa sedie e sgabelli. Per un certo periodo furono vietati dal Senato sedili provvisori e il pubblico assisteva in
piedi. Dal II secolo a.C. le prime file della cavea furono riservate a senatori e cavalieri. Essa poteva contenere 40.000
spettatori. Per riparare gli spettatori dal sole o dalla pioggia sopra la cavea si stendevano i velaria, cioè teloni di lino e di
seta.
Sullo sfondo c’era il fondale, una facciata di palazzo o di casa a più livelli. Nel primo livello c’erano tre porte, nel secondo
numerose nicchie e nel terzo tettoie o cornicioni. La facciata era abbellita da statue, pilastri e piante.
A partire dal 133 a.C. fu introdotto il sipario: grande telo rettangolare (aulaeum) che calava all’inizio della rappresentazione
e si alzava alla fine (contrariamente a quanto avviene nel teatro moderno).
Il teatro aveva due uscite, quella a destra conduceva alla piazza della città, quella a sinistra alla campagna o al porto.
ATTORI
Gli attori professionisti, chiamati histriones,
erano tutti maschi, solitamente schiavi, che
costituivano vere e proprie compagnie dirette
da un capocomico o regista (dominus gregis).
Questi acquistava la commedia dallo
scrittore e, grazie al finanziamento degli
edili, la metteva in scena. Allo scrittore
rimanevano i diritti del copione che
apparteneva ormai al capocomico.
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COSTUMI
Gli attori indossavano il pallio o la toga in rapporto
all’argomento greco o latino. Nell’ambiente comico gli
attori indossavano i cothurni (stivaletti alti con stringhe)
e i socci (sandali bassi). I vestiti cambiavano con i
personaggi: i vecchi indossavano un abito bianco,i giovani
un vestito multicolore, gli schiavi una tunica corta. Il
colore rosso era dei poveri mentre il porpora dei ricchi. I
colori distinguevano la condizione sociale.
Gli attori usavano una vistosa maschera sia per ragioni di
acustica sia per immedesimarsi con il personaggio da
interpretare. La maschera bruna indicava i personaggi
maschili, quella bianca i personaggi femminili interpretati
da attori maschi. Inizialmente venivano anche usate
parrucche colorate per indicare la classe sociale.
LIVIO ANDRONICO
Non si hanno dati precisi riguardo alla vita di Livio Andronico. Le prime
informazioni risalgono al 240 a.C. con la sua prima opera a Roma. Si presuppone che
sia nato a Taranto e che successivamente si sia inserito nella gens Livia, a Roma, per
lavorare come grammaticus (maestro di scuola) in quanto conosceva sia il latino sia il
greco. In seguito si trovò a capo del collegium scribarum histrionumque nel quale si
accoglievano poeti senza soldi. Non si sa nulla riguardo alla sua morte. Egli è il
primo autore che si impegna nella tragedia più che nella commedia. Delle sue tragedie
ricordiamo:
 “Achilles” (“Achille”)
 “Aiax mastigophorus” (“Aiace fustigatore o Aiace portatore di frusta”:
tratta dall'Aiace di Sofocle, narrava la storia della spartizione delle armi
di Achille tra gli Achei, della follia e del conseguente suicidio di Aiace)
 “Equus Troianus” (“Il cavallo di Troia”)
 “Aegisthus” (“Egisto”)
 “Hermiona” (“Ermione”)
Egli è il primo ad estendere l’elemento musicale nelle tragedie e a limitare il coro.
Sviluppa anche la cantica che si alterna, durante le messe in scena, alle parti parlate,
diverbia. Usa un metro che si ispira a quello greco: nel dialogo il trimetro giambico,
nelle cantiche il settenario trocaico. Per quanto riguarda la commedia si hanno due titoli, “Adiolus” e “Ludius”. La sua opera
principale è l’”Odusia” che è una traduzione artistica dell’Odissea. Nella traduzione egli romanizza e accultura l’opera.
Andronico decise di tradurre l’Odissea perché, secondo lui, Achille incarnava perfettamente le virtus romane. La sua non è
una traduzione letterale, è adattata al mondo romano e le divinità greche sono trasformate in divinità romane.
NEVIO
Le poche informazioni che riguardano Nevio si riferiscono alla sua nascita a Capua nel 270 a.C., alla sua morte a Utica nel
201 a.C. e alla sua partecipazione alla prima guerra punica. Scrisse tragedie di argomento romano (praetexae). A noi sono
rimasti due titoli: “Clastidium”, che anticipa la prima guerra punica, e “Romulus”, che narra della fondazione di Roma. Le
sue tragedie di argomento greco si rifanno al ciclo troiano e quella di cui abbiamo più frammenti è “Lucurgus” che tratta di
un re punito perché non aderisce al culto bacchico. Per quanto riguarda le commedie si hanno 34 titoli di argomento e titolo
greco e pochi di titolo romano con tratti italici e greci. Per la prima volta Nevio nelle sue opere usa la contaminatio, cioè la
fusione di parti provenienti da altre opere. Tema ricorrente in Nevio è l’amore visto come Heros. Personaggio principale è il
servo astuto, simbolo di libertà, che ha in sé un’estrema forza comica. L’opera più importante di Nevio è il “Bellum
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Classe IV A
Poenicum”, poema epico storico che tratta della prima guerra punica. Con quest’opera
Nevio dà origine all’epica romana. È innovativa l’idea di Nevio di scrivere riguardo a
qualcosa che ha vissuto.
L’opera risale al periodo della seconda guerra punica e fu scritta in quegli anni per fornire
ai Romani un esempio di eroe. L’eroe di Nevio incarna perfettamente il cittadino romano
con i suoi mos maiorum. Per la prima volta Nevio separa la storia dalla mitologia e fa della
seconda una digressione della prima. Le vicende storiche sono centrali e sono descritte in
modo asciutto ed essenziale. Le parti mitologiche, invece, sono scritte in tono più curato e
più particolare. In origine il “Bellum Poenicum” era un carmen continuum e
successivamente Ottavio Lampadione gli diede la forma che conosciamo dividendolo in sette
libri.
PLAUTO
Riguardo alla vita di Plauto le notizie che possediamo sono solo quelle che è
nato a Sarsina e morto nel 188 a.C. a Roma. Tutte le altre informazioni a noi
giunte sono state ricostruite in modo piuttosto fantasioso. Sulla base di quanto
afferma il letterato Aulo Gellio sappiamo che iniziò a lavorare nei teatri e che
guadagnò abbastanza per aprire una propria attività commerciale. Non riuscì,
tuttavia, a pagare i debiti e iniziò a lavorare come schiavo girando la macina di
un mulino. Questa situazione drammatica lo portò alla stesura di commedie che
riscossero un enorme successo nei teatri. La fortuna che ebbe sin all’inizio spinse
scrittori mediocri a comporre opere e a spacciarle per quelle di Plauto. Dopo la
sua morte si contavano infatti ben 130 commedie.
Grazie all’intervento di Marco Terenzio Verrone sappiamo che solo 21 sono di
Plauto, le altre 90 sono di scrittori mediocri e le ultime 19 sono dubbie.
Le commedie plautine sono strutturate in:
 Argomentum, una breve sintesi del contenuto;
 Prologo narrativo, una parte iniziale dove viene esposto l’antefatto e
anticipato qualche elemento dell’intreccio. A recitare il prologo è un
personaggio o una divinità di carattere allegorico. Il prologo viene personificato. La sua lunghezza è variabile e a
volte è presente una sezione narrativa che permette all’autore di parlare di se stesso. Egli va alla ricerca della
captatio benevolentiae, esorta il pubblico ad applaudire alla fine dell’opera dopo averla ascoltata attentamente e in
silenzio;
 Azione scenica, che in Plauto si presentava senza divisione in atti. Per questo c’erano delle parti cantate con la
presenza di danzatori e flautisti mentre gli attori si riposavano. Nell’opera si alternavano parti cantate (cantica)
con parti recitate (deverbia).
Elemento assente nella commedia di Plauto è il coro.
Intrecci
Con Plauto gli intrecci non sono vari come i prologhi. Sono storie ripetitive: un giovane ricco s’innamora di una fanciulla che
appartiene ad un lenone e solo con l’aiuto del suo servo fedele riesce a liberarla mentre dal padre avaro ha ottenuto una certa
somma di denaro. Talvolta la storia si può risolvere col procedimento dell’agnitio, cioè col riconoscimento della vera identità
della ragazza. Plauto, dunque, non da’ troppa importanza alla trama ma alla comicità della scena.
Anche il ritmo narrativo era vario: se l’opera era apprezzata dal pubblico il dialogo veniva ampliato, nel caso contrario
venivano eliminati i personaggi che potevano essere noiosi.
Personaggi
L’eroe è lo schiavo. Lo schiavo furbo diventa il fulcro della storia ed in lui lo spettatore può immedesimarsi. Gli altri
personaggi sono monotoni, dei tipi fissi. Essi sono maschere caricaturali che non si evolvono. Al pubblico non importa trovare
in loro una caratterizzazione psicologica ma la comicità.
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Modi espressivi
Sperimentalismo:ampliamento dei dialoghi e dei monologhi rispetto al prototipo greco; introduzione del metateatro (teatro nel
teatro), cioè di scene dove un personaggio allestisce una sua personale finzione assumendo il ruolo del drammaturgo. Con
Plauto è il servo a rivolgersi al pubblico rivelando i retroscena della vicenda
Contaminatio: arte di cucire insieme scene di diversa provenienza e fonderle in un’unica opera.
PUBLIO TERENZIO AFRO
Terenzio visse tra il 185 e il 159 a.C. e fu amico di Scipione Emiliano. La sua
prima commedia messa in scena fu quella dell’”Andria” (166 a.C.). Ne scrisse in
tutto sei.
Rapporto con i modelli greci. Lingua e stile.
Terenzio attinge da Menandro, massimo esponente della commedia nuova, per
quattro delle sue commedie(“Andria”, “Heautontimorumenos”, “Eunuchus”,
“Adelphoe”) e da Apollodoro di Caristo per “Hécyra” e “Phormio”.
Terenzio si trovò in sintonia con Menandro, autore greco della néa (commedia
nuova), con il quale condivise la ricerca della verosimiglianza, la riduzione delle
parti musicali a favore di quelle recitate e l’equilibrata distribuzione dei personaggi
in scena (un personaggio non stava sulla scena per più di 150 versi consecutivi).
Terenzio raggiunse la media dei 14 personaggi presenti nelle sue commedie
discostandosi dai greci.
Lo stile del suo teatro risulta piano, pacato, volto a sviscerare l’interiorità dei
personaggi. La lingua è scorrevole e semplice, vicina ai modi del parlare comune.
Il prologo
Terenzio utilizzò il prologo per difendersi dalle accuse di Luscio Lanuvinio.
La prima critica rivoltagli fu quella relativa all’uso della contaminatio, ovvero allo
scrivere una commedia senza rimanere fedele al modello greco da cui attingeva.
Terenzio, infatti, preferiva la neglegentia, cioè trattava gli originali greci con
libertà.
La seconda accusa fu quella della presunta collaborazione di membri del circolo degli Scipioni alla stesura delle sue commedie.
Gaio Lelio e Scipione Emiliano sarebbero stati anche autori delle sue commedie. La difesa di Terenzio fu debole poiché sapeva
che a Lelio e a Scipione non era sgradita tale diceria.
Ultima accusa fu quella di furtum. Il plagio per i Romani era il riproporre una scena o un personaggio che erano già comparsi
in un’altra opera. Terenzio si discolpò sostenendo di non sapere affatto che il “Colax” di Menandro, da cui ammise di avere
attinto, fosse già stato tradotto in latino.
Humanitas
Nelle commedie di Terenzio nasce l’interesse per la psicologia del personaggio. Terenzio voleva mantenere vivi i canovacci
tradizionali immettendovi contenuti nuovi, che facessero riflettere sull’uomo. Voleva costruire personaggi che esprimessero
nei loro gesti e nei loro discorsi significati relativi ai problemi fondamentali della condizione umana. La verosimiglianza
provoca nello spettatore un processo di immedesimazione con quanto avviene sulla scena e con lo stato d’animo del
personaggio. La commedia nuova, importata dalla Grecia dopo la conquista di Pidna del 168 a.C., porta gli autori romani a
cercare il cosmopolitismo, a fare attenzione al prossimo e alle sue sofferenze. Prima di Terenzio per humanitas si intendeva
riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo. In essa culminava tutto il travaglio del mondo antico prima che la caritas
cristiana insegnasse a riconoscere e amare il figlio di Dio in ogni uomo. Aulio Gellio ha accostato l’humanitas latina alla
paideia greca (educazione) ma il significato vero è quello greco di philantropia (benevolenza).
La migliore sintesi del concetto di humanitas è la celebre massima “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, “sono un
uomo: tutto ciò che è umano non lo ritengo a me estraneo”. In tale formulazione l’humanitas è proclamata come un valore
universale e onnicomprensivo, con essa l’uomo rivendica il diritto-dovere di interessarsi ai problemi degli altri uomini, in un
atteggiamento di solidarietà e condivisione.
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Quello di Terenzio è detto teatro pedagogico perché si offre come luogo di dibattito ancorato alla realtà quotidiana ed ai temi
più importanti della società del tempo.
Il teatro terenziano sembra suggerire un nuovo modo di vivere, fondato sulla confidenza reciproca. Di fronte alla sorte, al
suo muoversi cieco e imprevedibile ogni uomo risponde con la fragilità del suo giudizio e la fallibilità delle sue scelte. La sola
possibilità di opposizione al caso sta nella solidarietà umana, nella collaborazione, nella capacità di comprensione, che
rendono la vita migliore e più umano l’uomo che la vive.
CECILIO STAZIO
A parte i casi clamorosi di Plauto e Terenzio, Cecilio Stazio è l’unico
commediografo dell’ età arcaica latina del quale resta qualcosa di più del semplice
nome. Delle sue numerose opere ci sono pervenuti i titoli di quaranta commedie,
tutte palliate, insieme ad una serie di frammenti di circa 300 versi.
Dalla lettura dei titoli si può dedurre come Stazio si sia orientato rispetto ai
modelli greci: alcuni sono delle translitterazioni in latino del titolo originale greco
(es.“Hymnis” = ”Innide”, “Plocium” = “Collana”), altre commedie hanno doppia
titolazione (es. “Hypobolimaeus” = “Il figlio sostituto”) ed altre ancora il solo
titolo in latino (es. “Epistula” = “La lettera”, “Pugil” = “Il pugile”).
Sedici di questi titoli derivano da opere di Menandro, che Stazio prediligeva e che
seguì come modello senza, però, usare la contaminatio e con una maggiore
attenzione all’unitarietà e all’ organicità della vicenda drammatica.
La commedia più famosa è il “Plocium”, che tratta della vicenda intricata delle
nozze di un giovane benestante. Questa si risolve con il riconoscimento di una
collana ed è arricchita dalla presenza di una ricca uxor dal brutto aspetto e dal carattere burbero. La commedia si distingue
per una certa autonomia e libertà inventiva da parte dell’autore. Egli amplifica il modello greco e sostituisce il linguaggio
misurato e ironicamente garbato di Menandro con un linguaggio più esuberante, ricco di iperboli colorite e di gusto plebeo.
Ma oltre a creare un’atmosfera ironica e divertente Stazio inserisce anche delle riflessioni morali riguardanti temi esistenziali,
si esprime sotto forma di sententiae e si mostra aperto verso i temi dell’humanitas.
Alcuni critici indicano in Cecilio Stazio un autore diviso tra la grande libertà del vortere plautino e un maggiore rispetto del
modello greco. Questa maniera prevarrà negli sviluppi immediatamente successivi del genere teatrale.
ENNIO
Amico di Cecilio Stazio fu il famoso drammaturgo latino Ennio, scrittore di
commedie e di tragedie. I modelli di riferimento di Ennio furono i tre tragici
attici del V sec. a.C. ed in particolare Euripide, al quale fu accomunato dall’
interesse per l’approfondimento psicologico, dalla predilezione per i toni
patetici, dal bisogno di indagare razionalmente e filosoficamente nelle pieghe
dell’esistenza umana e dalla caratterizzazione delle figure femminili.
Un’altra prerogativa del teatro enniano sta nella propensione alla riflessione
filosofica che, in un passo del “Telamo”, si pronuncia a favore della dottrina
epicurea sugli dei.
Le opere di Ennio più amate dai romani furono le cothurnatae perché, facendo
riferimento al ciclo troiano, raccontavano vicende connesse con le origini di
Roma. Il legame tra la storia di Roma e quella di Troia attraverso Enea era
materia molto nota. Le cothurnatae si concludevano con una serie di drammi
riconducibili ai più celebri miti greci.
Ennio compose anche due praetextae: l’ “Ambracia”, che celebra la vittoria di
M. Ulvio Nobiliore, e le “Sabinae” in ricordo del famoso ratto architettato da
Romolo.
Nonostante Ennio fosse fedele ai suoi modelli appare notevolmente originale
nella scelta linguistico-stilistica perché molto solenne. Per creare effetti patetici
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ed eccessi emotivi nei personaggi Ennio privilegiò l’uso di allitterazioni, omoteleuti, antitesi e parallelismi.
Benché con minore successo rispetto alle tragedie Ennio compose anche due commedie, la “Caupuncula” e il “Pancratiastes”.
La produzione teatrale enniana non si fece apprezzare per l’ originalità degli argomenti ma risultò valida per l’attenzione
rivolta all’uomo ed ai principi dell’ humanitas.
IL SECOLO D’ORO DELLA TRAGEDIA
Durante tutto il II secolo a. C. si alternarono sulla scena
tragica autori di grande rilievo. Tra questi si distinsero
Ennio, Pacuvio ed Accio. Per tale ragione esso può essere
definito “il secolo d’ oro” della tragedia latina.
Le tappe che portarono a questa fioritura passarono
attraverso l’ opera di autori che già in precedenza
avevano praticato lo stesso genere a Roma, cioè Livio
Andronico e Gneo Nevio.
PACUVIO
Marco Pacuvio fu un autore poliedrico: letterato, pittore e musicista. Nato nel 220 a.
C., visse in stretto contatto con il circolo filellenico degli Scipioni. Conosciamo i titoli
di sue 13 tragedie. Dodici sono di argomento mitologico greco, l’ ultima è una
praetexta, ovvero una tragedia di argomento e ambientazione romani. S’intitolava
“Paulus” e celebrava la vittoria di Emilio Paolo a Pidna.
A Pacuvio vanno riconosciuti i tratti di uno scrittore magniloquente dallo stile
barocco. Egli accentua il pathos tragico, costruisce scene di forte drammaticità e dà
all’ azione sviluppi romanzeschi poiché mira a stupire lo spettatore. I personaggi
tragici di Pacuvio sono eroi che lottano fieramente contro il destino, sono esempi della
gravitas romana e delle altre virtù del mos maiorum.
Un aspetto interessante del teatro di Pacuvio è il riferimento alla religione e
soprattutto alla filosofia, a temi quali il perenne divenire delle cose, l’unità dell’essere
nel mondo nonostante l’infinita varietà della vita e l’incidenza della Fortuna.
A livello linguistico l’erudizione e la ricerca dell’effetto portarono Pacuvio ad un
eccessivo sperimentalismo ed alla costruzione di audaci neologismi basati sul modello
greco.
ACCIO
Mise in scena oltre 50 tragedie. Fu un autore convinto della propria abilità e prolifico. Per comporre i suoi drammi attinse ai
racconti mitologici ed eroici greci, in gran parte si ispirò al ciclo troiano. Accio compose anche due pratetextae, il “Decio” ed il
“Bruto”, dedicata quest’ultima al suo protettore Decimo Giunio Bruto.
Dominano nelle tragedie di Accio figure grandiose ed isolate capaci di ergersi a veri eroi. Con esse l’autore proponeva una
riflessione sul potere e sul suo esercizio. Non è un caso che il successo delle sue opere sia stato duraturo. Riusciva egli a
suscitare l’interesse degli spettatori poiché i suoi temi trovavano riscontro nelle vicende della realtà storica. Le violente lotte
politiche e sociali del momento preparavano la strada alle guerre civili e facevano sentire il rischio della tirannia. Molto
frequentemente Accio scelse questi argomenti per i suoi drammi.
Come Pacuvio i suoi toni sono aulici e magniloquenti. Risultano dominanti il patetico, l’orrido, le apparizioni di spettri, gli
incubi, i sogni e i prodigi. Accio tese anch’egli allo sperimentalismo linguistico, utilizzò figure retoriche e neologismi.
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Classe IV A
IL DECLINO DEI GENERI TEATRALI
I due generi teatrali maggiori, tragedia e
commedia, videro il loro culmine tra il terzo e
il secondo secolo a.C., ma in seguito andarono
incontro ad un rapido declino.
La commedia dopo Terenzio non ebbe altri
autori di rilievo. L’unica forma originale di
produzione comica ci fu nella seconda metà
del secondo secolo a.C. con la fabula togata,
una commedia di ambientazione romana ben
più debole, nella struttura e nelle potenzialità
comiche, rispetto alla palliata, della quale era
la brutta copia.
Per quanto riguarda la tragedia vennero
replicate a lungo le rappresentazioni delle
opere di Ennio, Pacuvio e Accio.
L’involuzione della tragedia in un primo
tempo passò attraverso la produzione di
spettacoli che puntavano alla grandiosità
degli allestimenti. In un secondo tempo il genere si ridusse a recitazioni antologiche, nelle quali gli attori si esibivano davanti
ad un ristretto pubblico di colti intenditori.
Le cause della decadenza della tragedia sono da individuare nella sua rigidità strutturale, che non le permetteva di parlare un
linguaggio nuovo, adatto ai tempi mutati, e nel fatto che non rappresentava un genere di massa per il pubblico romano ormai
interessato alle gare ippiche e ai cruenti giochi del circo.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
I
Classe IV A
L TEATRO MEDIEVALE
DOPO IL TEATRO LATINO
Dopo la caduta dell’Impero romano le compagnie teatrali si sciolsero poiché gli attori iniziarono ad essere
scomunicati dalla Chiesa. Questa non apprezzava le rappresentazioni teatrali e dal canto suo diede origine ad
una forma di teatro basata sulla religione affinché i fedeli apprendessero direttamente gli episodi più
importanti delle Sacre Scritture.
Il teatro medievale è derivato dal “Quem Quaeritis”, cioè da una brevissima rappresentazione scenica collegata
con la liturgia Pasquale. La frase “Quem Quaeritis” sta per “Chi cercate?”. E’ la domanda che un angelo pose alle tre Marie,
radunatesi dinanzi al sepolcro del Cristo. Esse
risposero “Gesù di Nazareth” e ad esse fu rivelata
la Sua Resurrezione. Il primo luogo scenico del
teatro dell’Età di Mezzo fu, dunque, la Chiesa.
Durante la messa si iniziò a mettere in scena
alcuni passi del Vangelo. Con il passare del tempo
tali rappresentazioni assunsero maggiore
autonomia fino a spostarsi in luoghi esterni agli
edifici religiosi.
• Lo spartito del “Quem Quaeritis”, il quale
veniva sia cantato sia suonato.
Qui l’elemento scenografico fondamentale divenne un palco con tendaggio,
denominato “sedes” o “mansions”. Per i drammi più complessi venivano utilizzati
diversi palchi, ognuno dei quali rappresentava un luogo differente. Questo, però,
non è caratteristico di tutta l’Europa. In Inghilterra, per esempio, c’era l’uso dei
Pageant, dei carri che sostituivano le strutture fisse e permettevano agli attori di
spostarsi da un luogo all’altro. Di questi carri la parte superiore veniva utilizzata
per mettere in scena la rappresentazione teatrale, quella inferiore per lo
spogliatoio degli attori.
In linea di massima gli aspetti fondamentali del teatro medievale furono:
 la drammatizzazione;
 i motivi teatrali e religiosi;
 una componente liturgica e didattica;
 una forma drammatica in volgare.
DAL SACRO AL PROFANO
La Chiesa ben presto divenne un ambiente troppo ristretto per lo
svolgimento delle rappresentazioni sacre. Si iniziò, dunque, a
costruire dei palcoscenici all’esterno delle Chiese, sui loro sagrati, e
la conseguenza fu la nascita di rappresentazioni con tematiche
profane.
Nel 1264, in occasione della celebrazione del Corpus Domini, i
palcoscenici si spostarono dai sagrati alle piazze e le
rappresentazioni vennero affidate ad attori dotati di vero talento
invece che a dei semplici chierici. Inoltre le mansiones iniziarono
ad arricchirsi di botole, trabocchetti, gru e fumo per creare gli
effetti speciali richiesti.
Nel 1300 presero voce in capitolo le confraternite, che chiesero alle
autorità di gestire le rappresentazioni con l’aiuto di quelle corporazioni che si occupavano di allestire i palcoscenici.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
UNA FIGURA DI RILIEVO: IL GIULLARE
Il giullare è una figura controversa e discussa del teatro medievale.
Contrariamente a quanto si possa pensare è un vero e proprio attore
professionista, che ha il compito di divertire il popolo durante le feste.
Il termine “giullare” indica una specializzazione molto ampia. Prima
che comparisse tale vocabolo gli attori venivano chiamati con
appellativi precisi. Vi erano i saltatores (saltimbanchi), i balatrones
(ballerini), i bufones (comici) e persino i divini (indovini). Alcuni di
questi agivano nella pubblica piazza mentre altri nelle corti dei grandi
signori. Gli attori, inizialmente, non erano ben accetti dalla Chiesa, che
li riteneva colpevoli, secondo le Sacre Istituzioni, di agire contro natura
poiché mutavano il loro corpo e la loro espressione. Essendo essi
conoscitori del mondo in quanto girovaghi, erano per propria indole
irriverenti, anticonformisti e si opponevano alle regole monastiche.
Successivamente l’ambiente ecclesiastico mutò opinione. Ciò avvenne
quando gli spettacoli dei giullari vennero messi per iscritto e la Chiesa
iniziò a conservarli trasformando, nel contempo, le feste pagane, legate
ai giullari, in feste proprie dette paraliturgiche.
Ai giullari va riconosciuto il merito di propagare notizie. Le loro
rappresentazioni facevano conoscere ai pellegrini le storie di santi, di
eroi e gli avvenimenti di interesse generale.
Va, tuttavia, posta una distinzione tra il buffone e il giullare che,
generalmente, sono accomunati. Mentre il buffone si limita ad
interpretare opere altrui, il giullare è l’autore delle sue parti.
IL CANTO LITURGICO DELL’ANTIFONA
Una particolarità del teatro medievale è la mescolanza di forme drammatiche differenti come quelle cristiane e pagane. Essa è
strettamente connessa all’aspetto rituale proprio delle cerimonie liturgiche celebrate nelle Chiese e di certe ricorrenze quali le
feste popolari.
L’atteggiamento della Chiesa fu assolutamente proibitivo nei confronti del teatro e dello spettacolo e li condannò
apertamente. Basti pensare che ancora nel 1215 il Concilio Lateranense proibiva a tutti gli ecclesiastici di avere contatti con
istrioni, giullari ed altri tipi di attori.
Nel X secolo si iniziarono ad inscenare i Tropi, ossia
alcuni passi del Vangelo. L’esecuzione di queste
rappresentazioni fu affidata a due cori che
scambiavano battute mediante un dialogo cantato.
Tutto ciò è l’antifona, ossia un canto liturgico che
generò una nuova forma di teatro ed ebbe origine
quando i tropi vennero rappresentati dagli stessi
celebranti.
Questi si prefissarono di far giungere anche ai fedeli
analfabeti la conoscenza degli episodi cruciali delle
Sacre Scritture. Diedero corpo alla narrazione biblica
su appositi palchetti di legno vestiti con costumi
appropriati. L’affluenza dei fedeli fu tale che spinse gli
attori a spostarsi sul sagrato. Qui vennero
rappresentati veri e propri cicli come quello relativo alla
nascita di Cristo.
Le prime rappresentazioni teatrali si ebbero nel 970 quando il Vescovo di Winchester ne descrisse una vista probabilmente in
Francia, a Limoges.
Soprattutto in Francia, infatti, si cercò di recuperare lo spazio rappresentativo degli antichi teatri romani, e si aprì la
stagione del teatro medievale che ripropose ai cittadini le commedie di Plauto e Terenzio.
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LA LAUDA DRAMMATICA
La forma più importante di canzone sacra dialettale nell’ Italia del tardo medioevo fu la lauda drammatica (o spirituale).
Essa racchiude in sé tutte le caratteristiche di uno spettacolo teatrale con attori, costumi e musiche. Trae origine dalla
ballata profana ed è composta da stanze generalmente affidate ad un solista o ad un gruppo inteso come coro.
Il precursore della lauda fu Jacopone da Todi la cui lauda più famosa fu “Donna de Paradiso”. E’scritta in versi settenari
dove compaiono personaggi come la Madonna, Gesù, il popolo e il nunzio fedele (ovvero San Giovanni Apostolo).
Per rappresentare le laude nacquero le fraternite (successivamente confraternite) composte spesso da chierici e, a volte, anche
da laici.
Dalle fraternite si svilupparono i laudesi, i battuti, i disciplinati ed altri gruppi.
In Italia tale genere si diffuse largamente e i centri più importanti furono Perugia, Assisi, Orvieto, L’Aquila, Roma e
Firenze.
I MORALITY PLAYS
Un’ulteriore tipologia di rappresentazione teatrale nata tra il XV e il XVI
secolo è la morality play. Era incentrata sulla vita dell’uomo, sulla morte,
sulla salvezza dell’anima e su altri temi a sfondo religioso. Nonostante
questo i suoi argomenti si distaccavano dalla storia biblica e portavano in
scena rappresentazioni, recitate in volgare, dell’uomo di fronte alla virtù.
Tra i personaggi di spicco nelle morality play c’è la figura del Vice, che
personifica i vizi e le virtù. I vizi sono riconducibili al diavolo, le virtù
sono viste come messaggi di Dio.
Peculiarità di tale personaggio era quella di stabilire un contatto con il
pubblico rivelando i propri piani mediante monologhi o soliloqui.
Una delle più importanti morality play è quella inglese intitolata
“Everyman”, della quale non si conosce l’autore.
IL MISTERO
Il mistero è un genere teatrale apparso nel XV secolo (Basso Medioevo) ed
espresso in volgare e col verso.
La rappresentazione utilizzava soggetti reali e sovrannaturali tratti
soprattutto dalla Bibbia. (Uno dei misteri più comuni fu “La Passione di
Cristo”). La scena era spesso allestita con grande uso di costumi e secondo convenzioni medievali che dovevano rispettare il
fatto biblico rappresentato.
In tale genere testi e durata erano molto lunghi e numerosi erano i personaggi rappresentati (potevano essere cento, duecento
fino ad arrivare a cinquecento, comparse escluse).
Basandosi sulle caratteristiche di ognuno i misteri si possono dividere in tre categorie:
 misteri sacri, tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento;
 misteri religiosi, tratti dalle vite dei Santi e dai miracoli;
 misteri profani, tratti dalla storia.
LA SACRA RAPPRESENTAZIONE
La Sacra Rappresentazione è un genere teatrale di argomento religioso che si sviluppò in Toscana a partire dal XV secolo. Si
tratta della rappresentazione di un fatto religioso compiuta in maniera più articolata e complessa rispetto alla semplice
lettura di un testo. Essa differisce da una normale lettura a causa del suo intento didascalico e del desiderio di immedesimarsi
nell'evento.
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Classe IV A
GIULLARE E BUFFONE: DUE IDENTITA’
DISTINTE
Si narra che Gerardo Riquier, giullare spagnolo, giunse in
Castiglia alla corte del Re e, spavaldo, fece al sovrano una
richiesta particolare: essere riconosciuto come giullare, essere
distinto dai buffoni ed ottenere una “patente”.
Quando il Re volle sapere il motivo di questa curiosa richiesta,
Riquier rispose che i buffoni erano esecutori di opere altrui
mentre egli era un trovatore, cioè un artista colto che trovava e
creava da sé musiche e versi originali. Il Re accolse la richiesta
e Gerardo Riquier ottenne la sua “patente”. Si creò così una
netta divisione fra giullare e buffone.
EVERYMAN: LA TRAMA
Nella storia la Morte, mandata da Dio, appare ad Everyman
per dirgli che sta per morire. Il protagonista, un po’ scosso,
chiede alla Morte ancora un po’ di tempo e cerca anche di
corromperla ma ottiene tempo solo fino alla fine del giorno.
Everyman chiede ad ogni suo amico (Fedeltà, Amicizia, Bene,
Bellezza, Forza) di aiutarlo ma solo Buone Azioni accetta.
Questo è però molto debole a causa dei peccati del protagonista
e gli suggerisce di chiedere aiuto a Conoscenza, che lo porta a
pentirsi e confessarsi.
Dopo la confessione Everyman entra nella sua tomba con
Buone Azioni e alla fine muore ma la sua anima è salva.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
I
Classe IV A
L TEATRO RINASCIMENTALE
Nell’ampio periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento si collocano la radice del teatro moderno e l’origine dei
più importanti teatri nazionali europei.
In questo periodo il fenomeno di rinascita in ambito teatrale portò al distacco dalla lunga tradizione
medioevale manifestatasi nelle corti, nelle piazze e nelle università in molteplici forme, dalla Sacra
Rappresentazione alle commedie colte quattrocentesche.
Nella prima metà del Quattrocento il rinnovamento del genere teatrale si verifica esclusivamente in Italia,
mentre Francia, Spagna e Inghilterra daranno il via alle nuove formazioni a partire dalla seconda metà del
secolo.
RISCOPERTA DEI CLASSICI E FIORITURA
DELLA COMMEDIA UMANISTICA
L’autore sul quale si basò la riscoperta del teatro classico fin
dall’inizio del Trecento fu Seneca, le cui opere ispirarono la
prima nuova tragedia del teatro europeo, l’”Ecerinis” di
Mussato. Questa si riferiva alla storia cittadina padovana e
rievocava la figura di un tiranno con chiari riferimenti alla
situazione politica dell’epoca.
A partire dal XVI secolo intellettuali, umanisti e poeti
riscoprirono il teatro classicheggiante. Si iniziò con il
rappresentare all’interno di scuole e circoli umanistici le antiche
commedie latine e, in seguito, si arrivò alla composizione di testi
sulla base di quelli classici.
Con la nascita della filologia umanistica l’approccio ai testi
classici si rinnovò e si passò, in un primo momento, alla
rappresentazione delle opere di Plauto e Terenzio durante le
feste di corte e, in seguito, alla fioritura di opere originali in
volgare. In particolare si diede vita alla commedia umanistica,
una forma drammatica di ambiente universitario, composta per
scopi didattici più che spettacolari.
Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena scrisse un'unica ma interessante commedia, che esemplifica il gusto del periodo,“La
Calandria”. Questa fu ritenuta la prima commedia in assoluto scritta in italiano senza ascendenti greci o latini e diede
ispirazione per la successiva scrittura della “Mandragola” da parte di Machiavelli.
LA MANDRAGOLA
Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro rinascimentale fu Niccolò
Machiavelli, il quale ebbe il merito di produrre una delle commedie più importanti
di questo periodo, “La Mandragola”.
L’opera è caratterizzata da una forte carica espressiva ed è animata da riferimenti
satirici alla realtà quotidiana dei personaggi. Questi non sono più legati ai tipi
della tradizione classica. La “Mandragola” è divisa in cinque atti, preceduti da
una canzone che contiene un’anticipazione, da parte dell’autore, circa la sua
concezione pessimistica della realtà. Vi è poi un prologo in versi, in cui
Machiavelli presenta i luoghi, i protagonisti, la trama e l’antefatto. Alla fine di
ogni atto vi è una canzone formata da una sola stanza, con funzione di raccordo.
Essa serve ad incuriosire il lettore grazie a delle anticipazioni. In ogni canzone il
protagonista è la personificazione di Amore, il quale è nominato con riferimenti
petrarcheschi.
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Classe IV A
La commedia
fu scritta nel 1518 ma la prima
rappresentazione avvenne nel 1519 a Firenze in occasione
del Carnevale. Infatti per la sua ironia l’opera si addice
perfettamente al clima carnevalesco. Il mondo descritto è
privo di ideali, è dominato da calcoli, interessi meschini e
passioni irrefrenabili.
La trama ricorda lo schema delle novelle boccaccesche del
raggiro e della beffa ai danni di mariti stupidi: Callimaco di
ritorno da Parigi, dove ha vissuto vent’anni, sente parlare
delle virtù della bella ma sposata Lucrezia. Nonostante non
l’abbia mai vista, Callimaco se ne innamora tanto da
tramare un piano con il perfido Ligurio ai danni della
donna e del povero marito Nicia. Sfruttando il desiderio
insoddisfatto dei coniugi di avere un figlio, Callimaco si
spaccia per un dottore venuto da Parigi e consiglia Nicia di
far bere alla moglie una fantomatica pozione a base di
mandragola. La pozione ha il potere di rendere fertile la
donna ma ucciderà il primo uomo che giacerà con Lucrezia.
Per ovviare a questo “inconveniente” Callimaco propone a
Nicia di costringere un giovane ad unirsi con la donna:
questo morirà ucciso dal veleno che avrà assorbito e Nicia
potrà unirsi alla moglie senza alcun pericolo. Con l’aiuto di
Fra’ Timoteo, l’impenitente confessore di Lucrezia,
Callimaco si finge un “garzonaccio” e viene così rapito e
costretto a unirsi con Lucrezia. Compiuta la beffa,
Callimaco rivela la sua identità e il suo amore alla donna
mentre Nicia, ignaro del raggiro, dimostra ai due
imbroglioni tutta la sua gratitudine.
Ai personaggi tipici della commedia classica, il padrone, il
servo e l’innamorata (i nomi dei personaggi sono tutti di
origine greca tranne Lucrezia che è di origine latina e si
collega alla famosa matrona romana) si vanno ad
aggiungere i personaggi tipici delle novelle, che ricordano da
vicino quelli di Boccaccio (il frate e il marito sciocco e gabbato).
Al tradizionale ruolo del servo scaltro della commedia plautina subentra quello dell’amico dell’innamorato, Ligurio, che per
soldi e un paio di pasti è disposto ad aiutare Callimaco.
Nello sviluppo della commedia i personaggi sono piatti, privi, cioè, di evoluzione (eccezion fatta per Lucrezia che nel finale si
dimostra tutt’altro che una moglie fedele) ma è comunque notevole la loro caratterizzazione linguistica.
Callimaco, personaggio piuttosto “impetuoso”, possiede gli attributi del giovane leader, ed è stato talvolta considerato un
apprendista "principe".
Lucrezia appare ai lettori più recenti una felice incarnazione teatrale della virtù machiavellica. Essa tende in assoluto al
bene ma è pronta ad imparare l'amara lezione delle cose e a mutarsi da moglie fedele in adultera soddisfatta, adattandosi al
tempo in cui vive. Giustificherà la sua relazione adulterina con parole dalle quali traspare una certa dose di falsa ingenuità:
«Poi che l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito [...] e la tristizia del mio confessoro mi hanno condotta a fare quello che
mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così, e non sono
sufficiente a recusare quello che il cielo vuole che io accetti» (Atto V, scena IV).
Machiavelli si sofferma a descrivere quel mondo che ai suoi occhi appariva degradato, in rovina e senza correzioni,
ironizzando su di esso in modo tagliente ma disilluso. Nonostante lo sfondo tutt’altro che ottimista la commedia rimane
piacevole e divertente.
Secondo una certa interpretazione i personaggi si riferirebbero allegoricamente a dei valori o concetti precisi: Messer Nicia
all’essere umano nella sua visione negativa, Fra’ Timoteo alla religione corrotta.
Secondo una visione politica, invece, Callimaco che strappa a Nicia Madonna Lucrezia rappresenterebbe un Medici che priva
i Soderini, importante casato fiorentino, di Firenze. Secondo questa allegoria Ligurio sarebbe il segretario che riesce a
diventare il vero e proprio padrone della città.
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Si tratta, però, di supposizioni dei critici dal momento che Machiavelli non ha mai esplicitato riferimenti precisi. Comunque,
nel desiderio di Callimaco come nell'avidità e nell'astuzia del frate e nelle motivazioni di tutti i personaggi c'è una lucida
tensione, un impegno a conseguire i propri fini. Questo fa della “Mandragola” un caso unico nella storia del nostro teatro.
Lo stile di Machiavelli nella commedia è estremamente naturale ed obiettivo: egli utilizza la lingua giocando per meglio
caratterizzare i personaggi. Nicia ha un linguaggio incomprensibile, Callimaco pronuncia spesso frasi latine per prevaricare il
marito dell’amata, Ligurio gioca con le parole in modo equivoco.
Nella commedia non è presente la fortuna, non è il caso che determina l’azione poiché i calcolatori sono i veri vincitori. E’
proprio Ligurio, infatti, che con una meticolosità incredibile mantiene il controllo di tutta la vicenda.
IL TEATRO DEL RINASCIMENTO
Nonostante la produzione teatrale fosse costituita
interamente da commedie non mancarono, nel corso
del Cinquecento, alcuni esempi di spettacolo colto
come drammi pastorali e tragedie, di teatro popolare
o spettacolo giullaresco, allestiti in occasione di
festività particolari.
Proprio per la grande varietà di generi e di
innovazioni tecniche il rinnovamento del genere
teatrale si ebbe principalmente in Italia.
Le rappresentazioni si tenevano all’interno di cortili
o nelle sale dei palazzi, i quali venivano arricchiti
con fregi tipicamente barocchi.
Gli interpreti di questo nuovo teatro furono, in
principio, solo gentiluomini, accademici e studenti, ma successivamente ne
fecero parte anche professionisti provenienti da scuole di specializzazione.
Nacquero, poi, le prime accademie che commissionavano i lavori insieme ad
Enti culturali. Spesso i testi venivano arricchiti da interventi estemporanei
degli attori che divennero pretesti per le invenzioni dei comici. Importante
fu, inoltre, la ricomparsa in scena delle donne nonostante i rigori della
Chiesa.
Tutto ciò contribuì ad affermare la figura dell’attore e, in epoca più tarda, la
nascita delle compagnie.
Per quanto riguarda la musica tra la metà del XIV e la fine del XVI secolo si
distinsero un primo Rinascimento a contatto con la scuola fiamminga e un
tardo Rinascimento nel quale emersero la scuola polifonica romana e le
esperienze della Camerata Fiorentina.
LA SVOLTA NELLA COMMEDIA E “IL CANDELAIO”
La commedia cinquecentesca subì una svolta nel 1582, quando a Parigi
venne pubblicato “Il Candelaio” di Giordano Bruno, opera che presentava
caratteristiche piuttosto anomale.
“Il Candelaio” è ambientata nella Napoli del secondo Cinquecento e, sebbene
scritta in italiano, presenta un linguaggio molto complesso perché composto
da un insieme di latino, toscano e napoletano.
Il mondo rappresentato nella commedia è assurdo, violento e corrotto, delineato con amara comicità e ricco di eventi che si
succedono in una trasformazione continua.
Altri esempi che segnarono la svolta effettiva furono commedie come “L’Erofilomachia” (1572), “I morti vivi”(1580) e “La
Prigione d’amore”(1580) da parte del perugino Sforza Oddi. Queste rappresentarono il panorama della contaminazione fra il
teatro tardo cinquecentesco e quello dei professionisti che si andava affermando anche presso le corti italiane e francesi.
L'apparizione, nel teatro dei nobili dilettanti, delle maschere della Commedia dell'arte ne fece un vero e proprio genere detto
“Commedia ridicolosa”. Questa nel Seicento ebbe una vasta platea anche nei teatri gestiti dalle Accademie.
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LA COMMEDIA DELL’ARTE E LA COMMEDIA RIDICOLOSA
La commedia dell'arte, conosciuta all’estero come “commedia
italiana”, nacque in Italia nel XVI secolo e rimase popolare fino
alla metà del XVIII secolo.
La definizione di "arte", che significava "mestiere", "professione",
veniva sostituita anche da altri nomi: “commedia
all'improvviso”, “commedia a braccio” o“commedia degli Zanni”.
La storia della commedia dell’arte si sviluppò lungo un arco di
secoli e il momento di maggior diffusione fu il Seicento. Le sue
origini possono essere collocate nelle fiere, piccole e grandi, dove
di preferenza saltimbanchi, ciarlatani e cantastorie erigevano il
loro piccolo palco. Qui, prima dell'offerta di prodotti per lo più
dubbi come elisir d'amore o di lunga vita, i saltimbanchi si
esibivano in sketches e azioni mimiche, spesso a uno ma talvolta
a più personaggi, mentre i cantastorie accompagnavano i loro
racconti con una mimica che faceva da supporto all’interpretazione dei diversi personaggi. Come, quando e in quali termini
questi ciarlatani e saltimbanchi abbiano cominciato ad assumere l'aspetto ed il ruolo di personaggi tipici della tradizione
popolare è difficile a dirsi. Ma quando questa integrazione fu compiuta, quando, rendendosi conto del successo dei dialoghi
mimati, ciarlatani e saltimbanchi smisero di lavorare da soli e si unirono in piccoli gruppi o coinvolsero tutta la loro
famiglia(spesso si avevano grandi famiglie di attori) la Commedia dell'Arte era già diventata un fenomeno identificabile .
Arrivati nel paese o nella città dove rappresentavano la
loro commedia, gli attori si aggiravano fra la gente, nelle
piazze e nei mercati, cercando di carpire gli umori, i
malcontenti e gli interessi del posto. Dalle notizie carpite
deducevano trame adeguate, arricchite di spunti satirici,
allusioni ironiche e ammiccanti sottintesi. Quando si
alzava il sipario il giorno della rappresentazione il
pubblico si riconosceva in una storia che, per quanto
strampalata, macchinosa ed improbabile, era la sua
storia.
L'autore, invece di scrivere un copione, si limitava a
tracciare per sommi capi una trama, detta “canovacciotrama”, la quale era poi rispettata dagli attori.
Conoscere i ''canovacci'' era una delle maggiori competenze richieste agli attori. Tuttavia una volta sulla scena questi
dovevano improvvisare le loro battute intorno al “Canovaccio Standard ''.
I personaggi della Commedia dell'Arte erano le Maschere e i caratteri di queste erano divisi in tre gruppi: i vecchi, gli
innamorati, i servi.
Tutti parlavano nel dialetto di origine mentre gli innamorati, che erano dei giovani senza maschera, parlavano
esclusivamente in toscano inventando battute ed inserendo i propri lazzi.
La maschera era un oggetto fisiognomorfo e l' attore si faceva carico di tutte le conseguenze espressive che erano imposte
dalla maschera e che coinvolgevano il comportamento fisico
e quello caratteriale.
Fra le maschere dei vecchi spiccava Pantalone, vecchio
mercante, avaro, geloso e brontolone. Gli innamorati erano
dei giovani senza maschera, belli ma non sempre
ardimentosi dal punto di vista dell'azione scenica. Il ruolo
degli innamorati era insostituibile poiché questi erano il
perno attorno al quale si muoveva e si diramava l'intreccio
comico. Gli innamorati parlavano d'amore e di nobili
sentimenti nella raffinata lingua toscana e ripetevano
concetti che erano già presenti nella commedia letteraria. Il
loro abito non era rigorosamente definito dalle didascalie ma
doveva essere elegante e all'ultima moda; accanto a loro
c’erano giovani donne, belle, maliziose e principalmente
civettuole.
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Il terzo gruppo apparteneva ai servi che in questo genere di teatro erano i più
famosi. Essi interpretavano Arlecchino,Brighella e Pulcinella.
La Maschera più antica e complessa era quella dello Zanni, da cui derivò
Arlecchino.
Col tempo le maschere andarono perfezionandosi sempre più: i primi abbozzi,
schematici ed essenziali, si arricchirono a tal punto da diventare dei veri e propri
caratteri, dei modi di pensare e di ragionare. Alcune maschere si ingentilirono nel
comportamento, altre si raffinarono nella psicologia e nel linguaggio.
Contemporaneamente esse si spogliavano delle vecchie vesti e ne indossavano di
nuove.
Fra attore e maschera si creò una simbiosi tale che dai contemporanei il comico
non era più conosciuto col suo nome ma con quello del personaggio che
rappresentava.
Le maschere della Commedia dell'Arte nel suo momento di maggiore splendore e
fama fecero da portavoce ad una satira vivissima dei costumi del tempo. La
professionalità appena conquistata portò i comici della Commedia dell'Arte a
rivoluzionare i luoghi comuni del loro mestiere. Il primo risultato fu l’affidamento ad ogni attore di una parte ben precisa,
sulla quale era tenuto a specializzarsi.
Più tardi, verso l’inizio del XVII secolo, soprattutto in area romana si sviluppò un tipo di commedia simile alla commedia
dell’arte per i personaggi e la lingua dialettale: la commedia ridicolosa.
Differentemente da quella dell'arte la commedia ridicolosa presentava attori dilettanti e gli spettacoli avvenivano in teatri
accademici.
Le varie compagnie di questo periodo avevano nomi fantasiosi, ispirati alle virtù (come le compagnie dei Floridi, degli Uniti e
dei Concordi) o ai mestieri (come gli Ortolani e i Zardinieri). Le compagnie si distinguevano per le loro calze colorate e per i
complicati ricami che richiamavano il nome del gruppo stesso.
IL DRAMMA PASTORALE
Il termine dramma ha origine dalla parola greca “drama”, che significa propriamente
“azione”. Solo successivamente, in periodo tardo-latino, assunse il significato di
componimento letterario destinato alla rappresentazione sulla scena.
Storicamente si distinsero quattro tipi fondamentali di dramma: satiresco, liturgico,
pastorale e moderno
Il dramma pastorale o favola pastorale fu il genere che prevalse nel Cinquecento. I
temi trattati erano bucolici e idilliaci, e ci si riallacciava direttamente al satiresco
greco.
Il dramma, in parte cantato e in parte recitato, fu sostituito, in seguito, dal
melodramma interamente cantato.
Questo genere teatrale alle origini veniva rappresentato solo nei giardini cortesi ed era,
quindi, destinato ad un pubblico ristretto. Fungeva, infatti, da intrattenimento festivo e possedeva un tono garbato ed
estremamente raffinato.
Le sue prime rappresentazioni si svolsero a Ferrara e trovarono nella cultura di un letterato come Torquato Tasso la loro
espressione.
VINCENZO BRACA E LA “FARSA CAVAIOLA”
Il nome di Vincenzo Braca è legato principalmente a un fortunato ma semisconosciuto genere letterario, la "farsa cavaiola",
importante filone dialettale dell'ultima stagione del teatro cinquecentesco che va dal XV al XVII secolo.
Si trattava di un genere incentrato sull'archetipo farsesco del “cavaiuolo”, cioè di un ignorante e stolto villico cavese ( un
abitante della città di Cava), che dai cittadini salernitani era immaginato, per la rozzezza del suo dialetto, nei tratti più
grossolani e caricaturali.
Il fiorire della “farsa cavaiola” rappresentò un momento importante della letteratura italiana rinascimentale poiché la
produzione farsesca del Braca, pur nella sua espressività e vivacità linguistica, superò la dimensione locale e campanilistica.
Tuttavia la minore ampiezza dell'orizzonte satirico precluse a Vincenzo Braca la possibilità di attingere i livelli di incisività
raggiunti dalla farsa del Ruzante.
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I
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L TEATRO NEL SEICENTO
Il teatro è il genere letterario nel quale più chiaramente si manifestano le molteplici,a volte contrastanti,
caratteristiche della civiltà barocca: la ricerca in ogni campo artistico dell'effetto “scenografico”, la
predilezione per tutto ciò che è grandioso ed appariscente, la tendenza ad accordare od unificare poesia,
pittura, musica, l' interpretazione del mondo come spettacolo. “Tanto che “teatro” è “scena” furono fra le
metafore più diffuse, i termini più emblematici di un atteggiamento mentale caratteristico di quegli uomini e
del loro modo di considerare la vita” (G. Petronio).
Si comprende, pertanto, la grande diffusione che esso ebbe nel Seicento in Italia e in molte altre nazioni
europee (in Francia, Inghilterra, Spagna ebbe addirittura il suo secolo d'oro). Fu un teatro, quello italiano, che riprese le
forme del secolo precedente ma ad esse apportò profonde innovazioni a cominciare dalla “commedia d'arte”.
LA “ COMMEDIA D'ARTE”
Di origini incerte ma risalenti alla
metà del Cinquecento, questo
particolare tipo di rappresentazione,
conosciuto anche come commedia “a
soggetto” od “improvvisa”,
deve probabilmente il suo nome al
fatto che per la prima volta, dopo un
millennio circa, presentava al pubblico
non più chierici, membri di
congregazioni artigiane, giovanetti di
apposite confraternite (dramma sacro)
o studenti, gentiluomini, accademici
(dramma profano), che interpretavano
questo o quel ruolo occasionalmente
per devozione o dilettantismo. Esso
presentava attori di “mestiere”, riuniti
in regolari compagnie, addestrati
metodicamente, che recitavano per
lucro in ogni stagione dell'anno. Erano dicitori, mimi, giocolieri, cantori, musici e non pochi di essi avevano un'apprezzabile
preparazione culturale.
La grande novità del nuovo spettacolo teatrale era l'improvvisazione da non intendersi, però, in senso assoluto. La bravura
tecnica comune ai più illustri attori accolti a corte ed ai più umili che recitavano sulle piazze affollate, era in gran parte
frutto della inesauribile inventività di cui dovevano necessariamente essere dotati. Essa celava un lungo e faticoso
addestramento, una minuziosa e quasi pedantesca combinazione della recita con il variabilissimo temperamento del singolo.
Dal personale zibaldone di centinaia e centinaia di frasi, scherzi, freddure, maledizioni, soliloqui imparati a memoria, ogni
attore doveva saper scegliere di volta in volta e d'un tratto il motto, l'invettiva, il discorso amoroso, lo “sproposito” che
meglio sapesse suscitare l'ilarità del più aristocratico o del più rozzo o del più composito dei pubblici.
La commedia dell'arte si sviluppava ordinariamente su un “ canovaccio “ o scenario che comportava una regolare e
predisposta partizione degli atti e delle scene oltre ad un prefissato svolgimento dell’azione nelle sue linee generali. Per tutto
il resto ci si affidava all'arbitrio dell'attore. La brillante riuscita della recita era infatti raccomandata alla sua prontezza nel
saper trovare la risposta calzante od il frizzo arguto, nel porgere all'interlocutore il destro di presentare nuove domande cui in
anticipo erano preparate le repliche più facete, nel fare sfoggio di retoriche eleganze o di ardite metafore qualora dovesse
sostenere una parte seria, nell'infiorare il suo dire di “lazzi“, come in gergo comico venivano definite le battute salaci e spesso
sguaiate per le loro satiriche allusioni a fatti del giorno o a qualche notabile presente in sala.
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Classe IV A
Fu così che attorno ai più intelligenti ed ai
più geniali di tali attori-autori si venne
creando un generale consenso del pubblico.
Questo accorreva alle rappresentazioni della
commedia dell'arte non per assistere ai soliti
intrecci
amorosi,
alle
umoristiche
sostituzioni di persona, ai clamorosi colpi di
scena la cui soluzione era scontata in
partenza, ma per sentire il “suo“ attore che
era tanto più acclamato quanto meglio
sapeva riprodurre un determinato “tipo”
della vita comune, incarnare le qualità o i
difetti più appariscenti. La costante
apparizione sulla scena di questi
“tipi” favorì la diffusione delle cosiddette
maschere, le quali, non del tutto nuove
perché da esse già l'antico teatro aveva
derivato in gran parte la sua estemporanea
vis comica, risorgono ora a nuova vita. Ogni compagnia dell'arte ebbe il suo repertorio fisso di maschere: dal veneziano
Pantalone, gretto e brontolone, al bolognese Dottore, ironica caricatura del sofistico ignorante; dal capitano, reincarnazione
del miles gloriosus di Plauto, agli «zanni », servi astuti ed imbroglioni come Brighella, o sciocchi e bugiardi come Arlecchino e
Meneghino, alle servette graziose e procaci come le Colombine, le Coralline, le Riccioline, e così via. Riesce oggi impossibile
seguire le vicende e gli spostamenti delle singole compagnie, le più famose delle quali conobbero ambitissimi successi in Italia
in ogni Paese del continente. Già di moda presso le corti germaniche verso la fine del Cinquecento, esse fecero la spola in
questo secolo tra Parigi e Madrid, Londra e Vienna, Boemia, Polonia e Russia. Ovunque furono “ammirate”, acclamate ed
imitate. A nulla valse la guerra mossa loro dai moralisti, scandalizzati dalle frequenti scurrilità e immoralità portate sulla
scena, o dai commediografi regolari, inorriditi dinanzi alla estemporaneità ed ineleganza del dire. Ricostituendosi di stagione
in stagione a somiglianza delle moderne compagnie teatrali, variando di volta in volta le persone ma serbandosi fedeli ad una
tecnica consacrata dal favore del pubblico, le compagnie dell'arte continuarono il loro cammino trionfale fino a metà del
XVII secolo. Allora la decadenza del genere fu causata dal moltiplicarsi dei mestieranti più che dei buoni attori e la
caratteristica inventività del periodo d'oro fu sostituita da una fredda e monotona ripetizione di motivi ormai invecchiati. La
recita si ridusse quasi unicamente alla distribuzione di busse a destra e a manca, a gesti sguaiati ed inverecondi, a lazzi plebei
e volgari.
Tuttavia è bene ricordare che riproponendo a modo suo la sostanza della commedia classica, la “commedia d'arte” esercitò
una notevole influenza sul teatro moderno e sui suoi più autorevoli rappresentanti. Lope de Vega trasse da essa lo sviluppo
scenico e molti degli intrighi dei suoi lavori teatrali; William Shakespeare ne derivò in abbondanza temi ed espedienti;
Molière ne fu in un certo senso diretto discepolo e lo stesso Goldoni, pur ribellandosi alle forme più decadenti di essa, ne
rappresentò, in ultima analisi, un'indiretta ed indimenticabile filiazione.
IL TEATRO “REGOLARE”
Alla fortuna del teatro improvvisato si contrappone il graduale decadimento
del teatro letterario.
La commedia regolare italiana soggiacque all'influsso della commedia dell'arte ma di questa non seppe accogliere né lo spirito
di indipendenza da ogni modello e da ogni impaccio di regole precostituite né il realistico adeguamento al nuovo gusto del
pubblico, che voleva veder portata sulla scena la sua vita.
Unico ad avere un certo rilievo in questo campo è MICHELANGELO BUONARROTI il giovane (1568-1642), figlio di un
fratello del celebre scultore. Fu accademico della Crusca, partecipò attivamente alle prime due edizioni del Vocabolario e fu
autore di due commedie, la “Tancia” e la “Fiera”. Nella “Tancia”, commedia rusticale in ottave rallegrata da intermezzi
musicali, è il contado toscano con i suoi costumi e la sua lingua a fare da protagonista. Vi sono narrati, in maniera
macchinosa per il continuo intrecciarsi delle più impensate peripezie, gli amori di due villici che alla fine possono concludere
felicemente il loro sogno. La “Fiera” è un'opera di vaste proporzioni in quanto riunisce in una sola cinque commedie o
giornate, a loro volta suddivise in cinque atti e il tutto in oltre venticinquemila versi. Priva di intreccio essa è la
rappresentazione del continuo andirivieni di una folla di mercanti, bottegai, scolari, soldati; dei discorsi e delle liti fra
persone di ogni ceto, delle ciurmerie di imbroglioni, dell'affaccendarsi di magistrati ed ufficiali, dei mille incidenti, insomma,
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di cui può essere spettatore un mercato. La scena è collocata nella immaginaria città di Pandora. Unico filo conduttore, in
tanta frammentarietà di parti e di situazioni, è la simpatica adesione dell'autore non solo alla spedita parlata toscana,
rapportata ai vari ceti sociali, ma a tutta la tradizione della letteratura popolare fiorentina.
La tragedia, in omaggio all'affermazione aristotelica che fosse la più nobile e la più compiuta forma letteraria, ebbe in questo
secolo una folta schiera di cultori, tutti mossi dall'ambizioso proposito di coronare la varia ed abbondante loro produzione
con un'opera che potesse affiancarsi degnamente a quelle dei grandi tragici antichi e moderni. È la ragione principale
dell'assenza, quasi completa, nella tragedia, dell'inclinazione al rinnovamento che invece si manifesta in tutti i campi
dell'arte secentesca. Le tre unità e la divisione in cinque atti furono mantenute rigorosamente, il coro conservò il suo ufficio
di confidente, gli orrori senechiani continuarono ad avere la prevalenza sulla semplicità strutturale della tragedia greca e non
mutarono sostanzialmente i mezzi atti a creare il gioco violento dei sentimenti e delle passioni. Si può, tuttavia, riconoscere
in essa una inconsapevole risonanza di accenti pensosi che lasciano intravedere il latente conflitto,dovuto alla Controriforma,
tra morale e sentimento, politica e costume, istinto e ragione.
Quando questo conflitto si risolve in esteriore declamazione la tragedia diventa artificio, quando, invece, è frutto di una reale
inquietudine dello spirito di fronte agli eterni motivi tragici della vita umana quali l'onore, il fato, l'eroismo, l'ambizione
sfrenata, la conquista del potere, allora la tragedia assume una serietà di contenuto che se non assurge alla grande poesia del
contemporaneo teatro cornelliano o del prossimo teatro alfierano, stupisce e sorprende fra la tanta frivolezza e superficialità
letteraria del secolo.
È il caso dell'”Aristodemo” del padovano CARLO DOTTORI (1618-85). Suo soggetto è la forsennata cupidigia di potere del
protagonista ed il sublime sacrificio della figlia. Motivo ispiratore è la legge inesorabile della “ragion di Stato” che comporta
il sacrificio di vittime innocenti. Alla base dell'azione scenica stanno due umanissimi drammi: quello di Aristodemo, che
calpesta i più sacri affetti paterni in nome di una smisurata e tragica sete di dominio, e quello di Merope, dolce creatura
femminile, che rinuncia all'amore ed alla vita con la serenità di chi sa comprendere appieno il valore dell'ideale patrio. Quando
essa si accorge che l'inaspettato sacerdote dell’olocausto è il padre con un solo gemito esprime il proprio drammatico stupore e
l'orrore per il gesto disumano: il ferro trafigge le sue carni ma prima ancora della morte materiale scende nel suo spirito la
morte spirituale, che significa il crollo di ogni certezza nell'immortalità del suo sacrificio. Il volontario suicidio di Aristodemo
è l'ultimo e non necessario atto di una tragedia che ha già raggiunto con la morte di Merope la sua più alta drammaticità.
Ancor più significative, sul piano artistico, sono le tragedie dell'astigiano FEDERIGO DELLA VALLE (1565 c.-1628),
vissuto prima alla corte torinese dei Savoia e passato poi a Milano al servizio degli Spagnoli. Nelle tragedie “Judith”,
“Esther”, “La reina di Scotia” è dato scorgere una sottile analisi psicologica .dei personaggi, una concezione religiosa
intonata a pessimismo, una costante e commossa partecipazione alle vicende delle tre eroiche protagoniste. Giuditta si vale
della propria bellezza per ingannare e sopprimere Oloferne, intenzionato a sterminare il popolo ebreo. La giovane ha saputo
dall'oracolo di Delfo che lo sdegno degli dèi verso Messene, in guerra contro Sparta, potrà essere placato solo con il sacrificio
di una vergine di stirpe regale. Sono a ciò destinate Merope, figlia di Aristodemo, ed Arena, figlia di un congiunto. La sorte,
affidata all'urna, cade su quest'ultima ma il padre la sottrae al pericolo favorendone la fuga dopo averne negata la paternità.
Accecato dall'ambizione e fermamente deciso a conservare il regno, Aristodemo si risolve allora a sacrificare Merope, la quale
con eroica abnegazione accetta di essere immolata per far salva la patria. La madre ed il promesso sposo, pur di salvarla,
spargono la falsa notizia di una incipiente maternità della fanciulla, ma Aristodemo, accecato dallo sdegno e dal terrore di
non potersi propiziare gli dèi, uccide la figlia e selvaggiamente ed invano cerca nelle viscere di lei la prova della sua
colpevolezza. Anche Arena è stata colpita da un arciere inviato al suo inseguimento e quando Aristodemo viene a sapere che
essa pure è sua figlia, frutto di amori giovanili, pazzo di dolore e conscio dell’inutilità del duplice sacrificio perché non
compiuto secondo il rito, si uccide gettandosi sulla spada ancor lorda del sangue di Merope. Trasfigurata dalla nobiltà del
movente che la spinge ad uccidere e dalla consapevolezza di assolvere una missione affidatale da Dio, non conosce debolezza
o paura e si presenta al tiranno. Questi, superbo e vanitoso, sazio di vittorie e di prede, ricerca nell'ebbrezza del piacere
l'evasione dalla realtà quotidiana ma quando nel sonno gli viene mozzato il capo dall' affascinante fanciulla è già un vinto di
sé stesso, della sua lussuria e non ha nemmeno la possibilità di fissare lo sguardo nel volto della morte, che è tutt'uno con
quello dell'amore.
Esther, moglie del re Assuero e trionfatrice di Amman, il persecutore ostinato degli Ebrei, è una soave e mite creatura umana
che vuol salvare il suo popolo. Si commuove profondamente, però, dinanzi al corpo del nemico appeso alla forca ed
abbandonato alle intemperie.
Maria Stuarda, dopo vent'anni di prigionia ed una fugace quanto illusoria speranza di poter rivedere la sua terra, cade
vittima dell’intrigo politico di una regina senza scrupoli quale Elisabetta d'Inghilterra. Le ore estreme della sua terrena
esistenza, evocate con trattenuta commozione come quelle della manzoniana Ermengarda, mostrano una infelice in atto di
chiedere l’ultimo abbraccio alla pietosa moglie di un guardiano che le ha coperto gli occhi con un bianco panno. Troncandole
il capo la mannaia tronca la vita di una martire della fede cattolica ma soprattutto la vita di una donna nel significato più
ampio ed umano del termine.
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Il Della Valle ha saputo cogliere nell'animo delle tre protagoniste la tensione dolorosa dei sentimenti e la forza spirituale che
fanno loro superare l'angoscioso conflitto fra timori e speranze, fra certezza della caducità delle cose e attesa della morte
liberatrice. Conflitto riconducibile alla sensibilità barocca ed alla tipica religiosità della Controriforma, ma dal Della Valle
espresso liricamente soprattutto nei numerosi monologhi.
IL MELODRAMMA
Il genere teatrale nel quale il Seicento ebbe modo di accentuare la sua istintiva tendenza al lirismo melico e ad ogni
manifestazione,decorativa o spettacolare dell'arte, fu il melodramma. La sua origine è da ricercare nel proposito dei teorici del
secolo precedente di ricomporre la tragedia greca in tutti i suoi elementi costitutivi: poesia, musica, danza. Tale proposito fu
ripreso dai componenti la cosiddetta Camerata dei Bardi (dal nome del mecenate che li accoglieva nella sua casa), i quali
stabilirono la necessità di riportare la parola ad una perfetta coincidenza con la musica in modo che la fusione dell'una
nell'altra potesse di nuovo suscitare l'entusiasmo che i drammi greci suscitavano negli spettatori del tempo. Così i componenti
della “camerata” fiorentina si ritrovarono nel melodramma, la più tipicamente italiana delle forme teatrali. Essa conobbe
alterne vicende, gloriose e meno gloriose, fino alla morte del Metastasio. In seguito, con il graduale prevalere della musica e
del canto sul testo letterario, si evolverà nella popolare forna dell' opera ottocentesca, e contribuirà al processo di formazione
culturale della nostra nazione.
La data di nascita del melodramma può essere considerata quella della prima rappresentazione della “Dafne” (1594), nata
dalla cooperazione del musico JACOPO PERI e del letterato OTTAVIO RINUCCINI(1562-1621). Impostata su un’azione
semplicissima, suddivisa in un prologo e quattro episodi, questa favola, desunta da Ovidio (Dafne inseguita da Apollo e
tramutata in lauro), si muove ancora nell'ambito del mondo pastorale. Ma anche se priva di calore drammatico essa presenta
già nella verseggiatura la tonalità musicale indispensabile per un elegante recitativo.
A questo primo illustre esempio di « libretto » fecero seguito l'”Euridice” e l’”Arianna”, sempre dello stesso Rinuccini. La
prima fu rappresentata nel 1600 in occasione delle nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia. Essa riecheggia la
nota favola mitologica, già cantata dal Poliziano, di Euridice morta per il morso di una serpe e restituita da Plutone allo
sposo con la variante della felice conclusione del viaggio di Orfeo nell'Ade. Di maggiore sviluppo scenico e di più intensa
drammaticità di sentimenti è la seconda, che narra l'abbandono di Arianna da parte di Teseo ed il seguente suo matrimonio
con Bacco. Fu rappresentata anch'essa in occasione di
nozze principesche e fu in parte musicata dal
cremonese CLAUDIO MONTEVERDI, il vero
creatore della musica melodrammatica. In entrambe le
composizioni il Rinuccini seppe giungere ad una
caratterizzazione dei personaggi principali e
soprattutto si servì del verso, limpido sempre, per creare
un'aura melodica e avviare il genere, ormai libero dagli
impacci della tragedia e della favola pastorale, alle
fortune dei secoli seguenti.
Con l'apertura a Venezia, nel 1637, del primo teatro
pubblico a pagamento, quello di San Cassiano, tra
parola e musica s' inserì un terzo elemento, lo
spettacolo. Il suo trionfo portò ad una grave
decadenza artistica. La poesia, asservita alla musica,
perse ogni libertà d'azione a causa del virtuosismo dei
cantanti e della frenetica ricerca, da parte dei
macchinisti, di una grandiosità che non conobbe limiti.
Da qui lo scadere del “libretto “al valore di un semplice
“ scenario “. A risollevarne le sorti penserà, all'inizio
del Settecento, un letterato cesareo della corte di
Vienna, il veneziano Apostolo Zeno. Ma per ridargli il
primitivo splendore occorrerà un nuovo poeta, Pietro
Metastasio.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
I
Classe IV A
L TEATRO ITALIANO
DALL’UMANESIMO AL SEICENTO
IL DRAMMA RINASCIMENTALE
Tra il 1200 e il 1400 l'Italia conosce una profonda trasformazione politica e un forte rinnovamento culturale. Nell'Italia
meridionale s' insedia il regno angioino mentre nell'Italia settentrionale e centrale il sistema delle città- stato si trasforma in
quello delle signorie. È in questo momento storico che le forme drammatiche destinate a sostituire i modelli medievali nascono
insieme allo sviluppo della cultura umanistica, ed allo studio e recupero degli ideali della civiltà classica. La prima tragedia
nata dall'imitazione dei modelli classici è “Ecerinis” di Albertino Mussato, scritta in latino e ispirata allo stile di Seneca.
L'iniziatore della commedia umanistica è Petrarca. Il più antico testo sopravvissuto è “Paulus” di Pier Paolo Vergerio, in
versi latini che imitano lo stile di Terenzio. Nel 1429 furono ritrovate dodici commedie di Plauto. Nel 1465 l'introduzione
della stampa in Italia rese possibile un'ampia diffusione dei testi classici e tra il 1472 e il 1518 furono pubblicate tutte le
opere drammatiche greche e latine allora conosciute. L'esigenza di rendere le opere più accessibili ai lettori e agli spettatori di
corte favorì la traduzione in italiano dei testi teatrali antichi e poi la creazione di commedie e tragedie in volgare. La prima
commedia scritta a imitazione dei modelli classici, ma in italiano, fu “La Cassaria” di Ludovico Ariosto (1474-1533).
All'Ariosto si devono altre quattro commedie tutte in italiano: “I suppositi”, “Il negromante”, “I studenti” e “La Lena”.
Intorno alla metà del '500 la commedia italiana si era completamente sviluppata e diffusa. Gli autori drammatici si
mostravano perfettamente capaci di padroneggiare le tecniche della commedia latina e di adattarle alla situazione e alla
sensibilità contemporanee. Il primo esempio di tragedia scritta in italiano è “Sofonisba”(1526) di Gian Giorgio Trissino
(1478-1550).
Oltre alla commedia e alla tragedia in Italia si sviluppò anche un nuovo genere, il dramma pastorale. Il progenitore del
dramma pastorale è considerato l'”Orfeo” di Poliziano (1454-1494). Ma il vero e proprio dramma pastorale è considerato “Il
Sacrificio” di Agostino Beccari che racconta le vicende amorose di pastori, ninfe e satiri nelle regioni dell'Arcadia. I due
drammi più celebri sono l'”Aminta” di Torquato Tasso (1544-1595) e “Il Pastor fido” di Giovan Battista Guarini (15381612).
IL PRINCIPIO DELLE TRE UNITÀ
Nel corso del XVI secolo fu formulato il principio delle tre unità, di azione, di tempo e di luogo. L'unità d'azione significa,
come spiegava Aristotele nella Poetica, che ogni opera «deve comprendere un'azione unica, che sia un tutto coerente e
compiuto in se stesso». Il rispetto dell'unità di tempo era stato proposto nel 1543 dal Giraldi Cinzio nel libro “Intorno al
comporre delle commedie e delle tragedie”, e il rispetto dell'unità di luogo dallo Scaligero nei suoi scritti “Peotices Libri
Septem” del 1561. Castelvetro nel 1570 stabilì per primo che tutte e tre le unità dovevano costituire delle regole
fondamentali. Il pubblico non avrebbe mai potuto credere che sulla scena fossero trascorsi lunghi periodi di tempo. Allo stesso
modo gli spettatori non avrebbero potuto accettare che l'azione scenica si trasferisse sotto i loro occhi da un posto all'altro.
Dopo il 1570 numerosi critici decretarono che un dramma doveva avere un'unica trama, svolgersi in non più di ventiquattro
ore ed essere ambientato in un unico luogo.
ALLESTIMENTO SCENICO
Le prime rappresentazioni dei testi antichi avvennero intorno al 1470 grazie all'Accademia Letteraria Romana di Pomponio
Leto e Sulpizio da Veroli che misero in scena l'”Epidicus” e l'”Asinaria” di Plauto in Campidoglio e al Quirinale e l'”Ippolito”
di Seneca in piazza Campo dei Fiori. Lo studio della prospettiva trovò la sua prima sistemazione teorica nel trattato “Della
pittura” (1435) di Leon Battista Alberti. Le pratiche sceniche del primo Cinquecento sono descritte nel secondo dei “Sette
libri dell'architettura” di Sebastiano Serlio (1474-1554). Le scene di Serlio erano concepite come strutture fisse e non
prevedevano la possibilità di rapidi cambi di scena. Poco dopo la pubblicazione del trattato crebbe l'esigenza di effettuare dei
cambi di scena a vista. La prima soluzione fu quella dei periaktoi, i prismi triangolari del teatro antico che recavano una
scena dipinta su ciascun lato e potevano ruotare su se stessi con un perno centrale. La soluzione ultima e più perfezionista
per i cambi di scena avrebbe chiesto la sostituzione di tutte le quinte angolari con quinte piatte. Questa soluzione fu resa
possibile dagli sviluppi della prospettiva. Il punto di fuga veniva fissato sulla parete di fondo del palco, lì si agganciava una
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
fune che veniva tesa verso il basso e determinava l'altezza e le dimensioni relative. Intorno all'inizio del XVII secolo i tre
elementi fondamentali di ogni scenografia erano le quinte laterali, i fondali scorrevoli e le "arie", che potevano essere cambiati
simultaneamente.
IL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA
Il più antico esempio di teatro rinascimentale è il teatro Olimpico di Vicenza, costruito tra il 1580 e il 1585 per l'Accademia
Olimpica della città. Questa accademia usò dei palcoscenici provvisori. Quando i membri decisero di costruire un teatro
permanente Andrea Palladio, celebre architetto, s' impegnò a realizzare l'esatta ricostruzione di un teatro classico all'interno
di un edificio preesistente. Nel teatro i sedili per il pubblico sono disposti secondo una semiellisse che gira intorno ad una
piccola orchestra. Nella facciata fa da prono un arco centrale e due porte più piccole. L'effetto di questo spazio è quello di un
teatro romano in miniatura trasferito in un interno. Il palcoscenico è rettangolare, lungo e stretto, ed è internamente
delimitato da una scaenae frons ricca di ornamenti, con timpani, statue, tetto dipinto e pannelli decorativi. Di fronte al
pubblico c'è un grande arco aperto, la porta regia, affiancato da due porte piccole. Le due ali laterali della facciata hanno
anch'esse delle porte sormontate da palchetti destinati sia all'azione della commedia sia agli spettatori. Palladio morì prima
che il teatro fosse terminato ma il suo progetto venne portato a compimento da Vincenzo Scamozzi. Il teatro fu inaugurato
nel 1585 con la messa in scena dell'”Edipo re” di Sofocle.
LA COMMEDIA DELL’ARTE
Lo sviluppo di un teatro professionale in Italia e in Europa lo si deve principalmente alla Commedia dell'Arte. È del 1545 il
primo contratto che stabilisce la costituzione per un anno della compagnia di comici di Raffio da Padova. Del 1568 è, invece,
la prima descrizione di uno spettacolo dei comici dell'arte. Secondo alcune ipotesi la Commedia dell'Arte deriverebbe dalla
farsa atellana tramandata da mimi itineranti, soprattutto per la somiglianza dei personaggi fissi. Altri studiosi sostengono
che la Commedia dell'Arte è nata dalle improvvisazioni delle commedie di Plauto e Terenzio. Le due caratteristiche principali
di questo genere erano l'improvvisazione e i personaggi fissi: gli attori partivano da un canovaccio, sulla base del quale
improvvisavano il dialogo e l'azione e ogni attore recitava sempre lo stesso personaggio. Le commedie rappresentavano
soprattutto storie d'amore, intrighi, travestimenti ed equivoci. I tipi fissi dei personaggi erano in genere gli innamorati, i
vecchi, i servitori. I Comici dell’Arte hanno liberato l’attore dai vincoli del testo scritto per spingerlo ad una scrittura scenica
che nasce dall’improvvisazione sviluppata dalla sua stessa fantasia. Egli metteva in moto tutto il suo corpo, la sua voce, la
sua energia, il suo volere. L'unico livello dello spettacolo dell'arte non fissato completamente era quello relativo alla superficie
verbale. Su essa i comici esercitavano per intero il loro dominio. Tuttavia questo tessuto verbale, benché composto
all'improvviso, non era realmente improvvisato nel senso di inventato al momento dell'esecuzione visto che faceva
riferimento a un' ingente letteratura di diverse parti, manoscritta e raccolta negli zibaldoni. Improvvisazione, dunque, ma
come arte dell'adattamento e della combinazione, come variazione personale e ad hoc di un vasto repertorio letterario e come
capacità di far sembrare improvvisato ciò che in realtà era previsto. La Commedia dell'Arte nasce dall'incontro di due generi,
il serio e il comico. Ad esempio l'innamorato fa parte del serio con le sue vicende amorose, e le maschere dei vecchi e degli
zanni fanno parte del comico. Si noti come i personaggi ridicoli, da Pantalone ad Arlecchino, sono sempre in posizioni
precarie, ricurvi e incassati su se stessi. Un disequilibrio che li vede costretti ad impiegare molta energia per restare in
equilibrio, in posizioni arcuate, con le gambe esageratamente divaricate. Attorno alla metà del XVII sec. la recitazione
energica viene sostituita da una recitazione più elegante. Questa trasformazione vede un Pantalone o un Arlecchino
maggiormente attenti alla leggerezza dei corpi nel movimento. Ciò che colpisce è una ricercata leggerezza, morbidezza che
sembra aver soppiantato completamente la dura e pesante fisicità delle posture energiche piene di tensione e sforzo. Il
movimento è verso l'alto, mai entrambi i piedi posano interamente a terra, uno dei due è sempre in spinta.
Un personaggio estremamente popolare era il Capitano, che originariamente era uno degli innamorati e indossava spada,
cappa e cappello piumato. Gli attori portavano una maschera che copriva interamente il viso lasciando liberi solo il mento e
le labbra. I personaggi più variegati erano i servi, detti anche zanni. Essi avevano almeno due possibilità, il furbo o il rozzo
e sempliciotto. Tra gli zanni il più famoso è naturalmente Arlecchino. Nel Settecento veniva spesso chiamato Brighella.
Anche Pulcinella, maschera napoletana tuttora viva nel teatro dialettale, era un servo. Aveva un enorme naso ed era gobbo.
Viene considerato l'antenato del burattino inglese Punch. La prima compagnia di rilievo fu quella di Alberto Naselli
conosciuto con il nome di Zan Ganassa. Recitò in varie città d'Europa, diffuse in Spagna modi e tecniche della Commedia
dell'Arte e influenzò autori come Lope de Vega. I comici dell'arte continuarono a recitare fino alla seconda metà del XVIII
secolo. Verso la metà del XVII il declino economico e politico dell'Italia aveva definitivamente compromesso anche il suo
primato culturale destinato a passare alla Francia. La francesizzazione della Commedia dell'Arte è un processo complesso e a
tante facce. Essa va ben al di là della semplice adozione della lingua francese. Nel momento stesso in cui si stabiliscono a
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Classe IV A
Parigi come Comédie Italienne le compagnie italiane subiscono un processo di "fissazione folclorica" che congela la loro
versatilità in forme rigide e ripetitive. L'abbandono della recitazione energica e l'adozione del nuovo canone elegante
avvengono in coincidenza di questo processo di folclorizzazione.
IL TEATRO ELISABETTIANO
Il teatro elisabettiano fu uno dei momenti di maggiore intensità
del teatro inglese. Sotto questo nome si suole identificare la
produzione teatrale collocata tradizionalmente fra il 1558 e il
1625, durante i regni dei sovrani britannici Elisabetta I
d'Inghilterra e Giacomo I d'Inghilterra. Il termine, nella sua
accezione di teatro rinascimentale inglese, si estende ai fenomeni
teatrali fioriti nel periodo che va dalla riforma anglicana alla
chiusura dei teatri nel 1642, a causa del sopraggiungere della
Guerra Civile. La produzione del periodo successivo al 1603
(anno della morte della regina) è talvolta definita come il teatro
dell'età giacobita (jacobean) e presenta caratteri differenti dalla
precedente, di cui è l'evoluzione. Il teatro di tutto il periodo
viene tradizionalmente associato a due grandi figure: la regina
Elisabetta, dalla quale trae il nome, e il drammaturgo William
Shakespeare, massimo esponente di questo periodo e considerato
tuttora uno dei maggiori autori teatrali a livello mondiale. Sotto il
regno di Elisabetta l'Inghilterra, nonostante gli attacchi dei
puritani che non gradivano l'arte teatrale poiché vi scorgevano i
tratti di attività ludiche che potevano allontanare i fedeli dal
credo, ci fu una fioritura impressionante delle attività connesse allo
spettacolo. L'associazionismo portò alla nascita di numerose
compagnie configurate come organismi moderni con autore,
attore e scenografi, che prendevano sovente il nome del nobile
finanziatore e ne ricevevano una protezione più o meno ufficiale.
Nacque la figura dell'impresario teatrale quando il teatro si
configurò come una vera e propria attività commerciale. Sorsero,
nonostante le difficoltà del caso, strutture teatrali debitrici nella
forma e nella logistica delle vecchie sale dei nobili dove si
svolgevano spettacoli di puro intrattenimento.
L'ARCHITETTURA TEATRALE
IL PALCOSCENICO DEL GLOBE NELLA RICOSTRUZIONE ROMANA A VILLA BORGHESE
Questi luoghi, chiamati playhouses, erano aperti al pubblico ed erano distanti,
per rozzezza, dai raffinati teatri europei che stavano sorgendo nel resto del
continente. Il momento di massimo splendore fu rappresentato dalla
concezione dello spazio del teatro all'italiana. Tra le numerose strutture
teatrali vi erano il celebre Globe Theatre, il The Curtain, il The Rose ed altri
ancora. Le strutture lignee sorgevano fuori dal territorio comunale londinese
dove il potere puritano, avverso all'arte teatrale, era meno forte. Di forma
circolare, erano sprovviste di tetto e l'illuminazione era garantita dalla luce
diurna nelle rappresentazioni del primo pomeriggio e poi da quella delle
candele e delle torce. Il palcoscenico, provvisto di sgabelli laterali dove
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
sedevano alcuni spettatori e privo di sipario e di arco scenico, aveva un proscenio aggettante rialzato che dava nella platea
dov'era il popolo che assisteva in piedi alle messinscene. Alle spalle del palco vi era la continuazione delle gallerie del pubblico
che si divideva in due parti: una al livello del palco e praticabile detta inner stage, l'altra al secondo livello detta upper stage.
Entrambe erano utilizzate come luoghi dell'azione scenica e alle spalle dell'upper stage, nascosta, si celava l'orchestra
musicale, che suonava senza essere vista.
LA DRAMMATURGIA
FRONTESPIZIO DE LA TRAGEDIA SPAGNOLA DI THOMAS KYD
CHRISTOPHER MARLOWE
La produzione teatrale scritta destinata ad un
pubblico d'élite prese il nome di University wits
(ingegni universitari), intendendo con questa una
schiera di drammaturghi che alzarono il livello
medio della drammaturgia d'epoca inserendovi
riferimenti colti e attingendo alla propria cultura
universitaria. Tra questi vanno ricordati John Lyly,
Thomas Lodge, Christopher Marlowe, Robert
Greene, Thomas Nashe, George Peele. Se Lyly
riprese, nelle commedie, la mitologia classica e le leggende per celebrare i fasti del
regno elisabettiano inteso come età dell'oro, George Peele incentrò la sua produzione
sui drammi patriottici e storici. Robert Greene si riservò ad attingere ampiamente alla
letteratura fantastica derivante dalla novellistica. Christopher Marlowe, spirito inquieto e ribelle, rivendica fortemente
l'autorità del singolo a scapito della produzione plurale. La tensione dialettica delle sue opere mista alla volontà di stupire e
stravolgere l'ordine costituito è riscontrabile in“Tamerlano il grande” del 1587-1588. Qui il personaggio principale è lo
stereotipo del protagonista marlowiano, ossia dell'uomo venuto dal nulla che raggiunge il potere imponendo il suo pensiero
alle ipocrisie sociali con una dose di sarcasmo e sfacciataggine che lo pongono in atteggiamento di sfida. Ancor più celebre è il
suo “Doctor Faustus” del 1588-1593, dove trasforma un libello in un dramma dalle tinte fosche e luciferine, in una
celebrazione dell'interiorità che lo renderà celebre ai posteri per il nuovo messaggio contenuto. Lontano dalla formazione
universitaria fu invece Thomas Kyd, di cui ci rimane il testo “La tragedia spagnola”(1582-1592) che si configura come la
prima tragedia di vendetta (revenge tragedy) ed è articolata su più livelli metateatrali grazie alla divisione tra i personaggi
che agiscono e il coro di fantasmi che commenta.
WILLIAM SHAKESPEARE
William Shakespeare (1564-1616) è considerato all'unanimità uno dei maggiori
drammaturghi a livello mondiale per le molte sue opere e l'universalità dei
messaggi contenuti in esse . Di lui ci sono giunte tragedie, commedie e drammi
storici per un totale di 40 opere, alcune delle quali di certa attribuzione Tragedie:
“Romeo e Giulietta”, “Macbeth”, “Re Lear”, “Amleto”, “Otello”, “Tito
Andronico”, “Giulio Cesare”, “Antonio e Cleopatra”, “Coriolano”, “Troilo e
Cressida”, “Timone di Atene”.
Commedie: “Le allegre comari di Windsor”, “La bisbetica domata”, “Cimbelino”,
“Come vi piace”, “La commedia degli errori”, “La dodicesima notte”, “I due
gentiluomini di Verona”, “I due nobili congiunti”, “Il mercante di Venezia”,
“Misura per misura”, “Molto rumore per nulla”, “Pene d'amor perdute”, “Pericleprincipe di Tiro”, “Il racconto d'inverno”, “Sogno di una notte di mezza estate”,
“La tempesta”, “Timone d'Atene”, “Tutto è bene quel che finisce bene”.
Drammi storici: “Riccardo III”, “Riccardo II”, “Enrico VI-parte I”, “Enrico VI,parte II”, “Enrico VI- parte III”, “Enrico V”, “Enrico IV- parte I”, “Enrico IVparte II”, “Enrico VIII”, “Re Giovanni”, “Edoardo III”.
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Classe IV A
Le opere di Shakespeare, più volte rimaneggiate e riadattate, furono in periodi diversi riprese con successo dalla maggior
parte degli attori e delle compagnie inglesi. Fino ad oggi il suo lavoro è considerato tra i punti più alti della drammaturgia di
tutti i tempi.
ALTRI PROTAGONISTI
Dal punto di vista della produzione drammatica oltre a Shakespeare agirono per
le scene numerosi autori, alcuni di stampo profondamente classicheggiante quali
Samuel Daniel, William Alexander, Fulke Greville, Lord Brooke e William
Alabaster. Questi si rifacevano ai moduli tragici senechiani e le loro opere, di
rado rappresentate, erano destinate ad una cerchia elitaria distante dalle
rumorose playhouses. Il gusto degli spettatori si spostò pian piano sulla
tragicommedia sebbene tragedie e commedie saranno ancora rappresentate fino
alla chiusura dei teatri nel 1660 per
volere dei puritani.
JOHN FLETCHER
FRANCIS BEAUMONT
Di altro stampo erano gli autori di
mestiere i quali, ad eccezione di Thomas
Dekker, possedevano una buona cultura
di base pur senza farne puro esercizio di stile. La loro produzione era, quindi,
finalizzata essenzialmente alla rappresentazione. Francis Beaumont e John Fletcher
lavorarono in alcuni drammi in coppia e Fletcher collaborò con Shakespeare nella
stesura de “I due nobili congiunti”. Sebbene Beaumont fosse più dotato di Fletcher
fu quest'ultimo ad assicurarsi larga fama presso i contemporanei. Dall'apice del
teatro elisabettiano si giunse poi ad un sostanziale inaridimento della drammaturgia,
sebbene alcuni autori si siano ampiamente distinti nel loro lavoro. La ricerca di
precisi riferimenti alle loro opere è però difficile anche a causa della distruzione di
numerose fonti storiche avvenuta nell'incendio di Londra del 1666. George
Chapman fu autore di varie commedie e tragedie di stampo ampolloso e stereotipato
mentre John Marston lo fu di tragedie ideate per gruppi di fanciulli. Della
produzione di Thomas Heywood ci sono giunti 24 lavori di cui uno, “A Woman
Killed wirh Kindness”, si configura come dramma domestico mentre egli fu principalmente autore di city comedies. La sua
produzione è di difficile attribuzione per l'elevata quantità di collaboratori dei quali si servì. Ben Jonson fu contemporaneo
di Shakespeare ma profondamente differente per la produzione drammaturgica. Erudito e raffinato quanto mondano
socialmente e schivo personalmente, lasciò ai posteri una copiosa produzione di masque e di drammi. Tra i più celebri vi sono
“Every Man in His Humour” del 1598 e il “Volpone” del 1606. In qualche modo Jonson fu il portavoce di un'aspra critica
nei confronti della mancanza di cultura nel teatro del suo tempo. Richiamò questo a più alti valori di dignità e sapienza.
Altri autori minori furono Nathanael Field, autore di city comedies, Richard Browne,
Robert Davenport, John Ford e James Shirley. Se Ford preferì il sensazionalismo
scabroso, Shirley fu più pacato nei toni con le sue tragicommedie e commedie brillanti.
In esse si ravvisa una capacità letteraria notevole, più adatta alla lettura che alla
messinscena.
IL SISTEMA TEATRALE
EDWARD ALLEYN, UNO TRA I PIÙ CELEBRI ATTORI DELL'EPOCA
Nel periodo di maggiore fioritura del teatro elisabettiano Londra fu l'epicentro della
vita dello spettacolo inglese dal vivo. Costruiti su terreni non assoggettati
completamente all'autorità comunale, i teatri sorsero di grande capienza e
prevalentemente in legno a partire dalla seconda metà del sedicesimo secolo. Gli attori
si costituivano in associazioni che si spartivano i dividendi degli introiti (costituiti dal
pagamento del biglietto d' ingresso da parte degli spettatori) in quote stabilite nel
contratto iniziale sottoscritto. I drammaturghi scrivevano per specifiche compagnie che
detenevano i diritti delle rappresentazioni sebbene questi venissero violati di fronte ai
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Classe IV A
successi di un lavoro. Ci sono giunti 24 nomi di compagnie operanti nel periodo elisabettiano. Tutte possedevano un
"protettore" che dava il nome al gruppo oltre ad agire nel teatro dove avevano sede come le moderne compagnie di produzione.
Esse tenevano anche i costumi e la poca scenografia oltre che le suppellettili di scena e agivano in tournée nazionali e
internazionali. Sovente venivano introdotte a corte per spettacoli privati da allestire in saloni che possedevano una struttura
differente rispetto al teatro classico elisabettiano.
RICHARD BURBAGE, ATTORE, FIGLIO DELL'IMPRESARIO TEATRALE JAMES BURBAGE E A SUA VOLTA
IMPRESARIO
In particolar modo nell'età elisabettiana si ebbe la fioritura di numerose
compagnie teatrali come i The Admiral's Men o i Lord Chamberlain's Men, nella
quale lavorava Shakespeare, oltre che di figure di spicco come gli impresari James
Burbage e Philip Henslowe. Tra le compagnie di giro, che si produssero in
tournée europee, ci fu quella di Robert Browne, allievo del celebre attore Edward
Alleyn e protagonista dell'epoca particolarmente apprezzato dalla regina
Elisabetta. Se Alleyn era, però, interprete del modo garbato di recitare, dalla
parte del fool è da ricordare il comico danzatore grottesco William Kempe, erede
di Richard Tarlton. Altra compagnia fu quella di George Webster mentre pare che
un certo John Kempe sia stato celebre in Italia agli inizi del Seicento.
Numerosi sono i tentativi di ricostruzione della recitazione dell'epoca sebbene
essa si possa delineare solo sommariamente e per deduzione a causa della mancanza di fonti dirette. Quasi sicuramente non
esistevano veri e propri copioni in quanto la stampa era una pratica costosa e non di certo possibile per ogni spettacolo in
allestimento: stampare copie per tutti gli attori era difficile. Di certo era necessaria una capacità vocale visto che i teatri
erano all'aperto e non vi era un sistema di diffusione del suono. La scarsa scenografia lasciava al testo il compito di illustrare
l'ambiente nel quale agivano i personaggi. Da ciò è possibile dedurre che all'elemento verbale fosse attribuita notevole
importanza perché fungeva da elemento descrittivo della scena. Bisogna poi tener presente che alle donne era vietato
intraprendere la carriera di attrice e che i ruoli femminili erano assegnati a giovinetti che agivano molto diversamente da
come avrebbe agito una donna. Giunto il genere del masque al momento del suo massimo splendore, acquisì fama e
importanza nel campo teatrale il nome dello scenografo ed architetto Inigo Jones. A lui sì accreditano importanti
innovazioni in campo scenico quali l'inserimento dell'arco di proscenio, fino ad allora non utilizzato in Inghilterra, lo studio
e l'applicazione delle quinte prospettiche sul palcoscenico. L'imprenditoria teatrale era ormai una professione a tutti gli
effetti sebbene non regolamentata, come molte altre, da nessuna specifica norma legale. Tra gli imprenditori celebri si
ricordano James Burbage, che fu alla guida degli stabili The Theatre e The Curtain, poi passati al figlio James Burbage;
Philip Henslowe, sotto la cui direzione passarono il Globe Theatre e il Fortune Theatre in società con l'attore Edward
Alleyn; Francis Langley, che diede vita al The Swan.
Il 1642 si configurò come un anno negativo per i teatri londinesi. Convocato il Parlamento da Carlo I, alla vigilia della
guerra civile, i puritani imposero la chiusura dei teatri e il conseguente abbandono di ogni attività di intrattenimento. Tale
situazione perdurò per diciotto anni fino alla restaurazione della monarchia e all'ascesa al trono di Carlo II. Sebbene la
chiusura dei teatri valesse per l'intera nazione, alcuni spettacoli continuarono ad essere allestiti in clandestinità all'esterno
della capitale. Sappiamo per certo che la Red Bull di Clerkenwell, un salone popolare dove si esibivano in gighe e farse alcune
compagnie (tra cui, in seguito, quella della Regina Anna) lavorò clandestinamente. Questo è provato dall'arresto del comico
Andrew Cane nel 1649. Nei grandi palazzi privati, inoltre, era d'uso dare rappresentazioni private come dimostra l'intensa
attività culturale della Holland House a Kensington sia dopo l'immediata chiusura delle playhouses sia nel corso della
dittatura di Oliver Cromwell. Anche il poeta laureato William Davenant, protagonista del successivo periodo della
restaurazione, mise in scena alcuni suoi lavori come “L'assedio di Rodi” (“The Siege of Rhodes”) nel 1698 e arrivò a creare in
Rutland House, una mansione affittata nella città di Londra, un vero e proprio teatro semi-clandestino. Soprattutto gli
attori, privati del loro lavoro, si videro costretti a ripiegare su altri mestieri o ad arruolarsi negli eserciti reali mentre una
minoranza preferì continuare la professione trasferendosi in altri paesi europei.
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L
Classe IV A
A RESTAURAZIONE
THOMAS KILLIGREW IN UN DIPINTO DI ANTOON VAN DYCK
La Restaurazione fu il periodo successivo alla caduta del protettorato
repubblicano di Richard Cromwell, figlio di Oliver e a lui succeduto,
con la conseguente ascesa al potere di Carlo II, proclamato re, che
ripristinò il potere monarchico della corona d'Inghilterra. Era il 1660.
Carlo II, amante delle arti in genere, aveva vissuto un lungo periodo
in Francia presso la corte del cugino Luigi XIV, dove aveva
sviluppato una sensibilità verso un certo tipo di spettacoli di
diversa fattura rispetto alla produzione teatrale precedente. Nel 1662 il sovrano delegò due
cortigiani di fiducia, Thomas Killigrew e Sir William Davenant, per ricomporre due
compagnie. Il primo rifondò la Compagnia del Re (la King's Company) il secondo fu il
direttore della Compagnia del Duca di York (la Duke's Company) in onore del più giovane
fratello del monarca e futuro sovrano Giacomo II d'Inghilterra. Il teatro della
Restaurazione si basò fondamentalmente su questo duopolio che durò quasi due secoli.
Cambiarono sia gli spazi della rappresentazione sia le sue forme. Se da una parte si
mantenne viva la tradizione del dramma elisabettiano, dall'altra nuovi lavori di gusto
spiccatamente francese, dovuti al periodo che Carlo II passò alla corte del cugino, fecero il
loro ingresso sulle scene inglesi. Carlo II ereditò dal re francese anche la volontà di creare un
forte potere accentratore in nome di un assolutismo monarchico senza, però, riuscirci.
Nonostante l'apertura di nuove sale teatrali le attività connesse con quest'arte rimasero per
lo più nella stretta cerchia delle corti e resero il teatro della Restaurazione strettamente
elitario rispetto al periodo d'oro precedente.
IL POETA WILLIAM DAVENANT
L'ARCHITETTURA E LA SCENOGRAFIA
IL PALCO DEL DRURY LANE NEL 1674
Le playhouses elisabettiane dalla loro tipica forma erano state
ormai smantellate. Le nuove architetture teatrali rispecchiavano
maggiormente le forme dei teatri europei, con riferimenti al teatro
all'italiana, che acquisivano maggiore importanza sulla scena
architettonica internazionale. Il più celebre architetto inglese del
periodo, Christopher Wren, ricostruì il Drury Lane dotandolo di
una sala rettangolare e disponendo in platea file di panche per far
sedere il pubblico, che nei teatri elisabettiani rimaneva in piedi. Le
gallerie divennero file di palchi mentre il palcoscenico acquisì
profondità e uno spazio per i fondali che fungevano da
scenografia per l'ambientazione. Veniva, così, modificato anche lo
spazio per la recitazione rispetto a prima: si recitava davanti alla
scenografia in linea con la tradizione del continente. Lo studio
dell'illuminotecnica non era ancora sviluppato, il lampadario centrale delle sale impediva la creazione del buio e costringeva
gli inservienti di scena ad essere visti. Per dare maggiore risalto agli avvenimenti sul palcoscenico si utilizzavano delle lastre
rifrangenti con cui direzionare la luce sugli attori senza riuscire a creare l'effetto occhio di bue, che sarà raggiunto solo nel
XIX secolo con il limelight. Di contro mutò profondamente la scenotecnica, per la quale ora c'era bisogno di valletti che
facessero scorrere i fondali e muovessero le suppellettili in scena. Poiché il sipario, altro nuovo elemento del teatro inglese,
non si abbassava se non alla fine della rappresentazione, i cambi erano a vista e preceduti dal suono di un fischietto o di un
campanello, caratteristica che rimarrà nel teatro nazionale fino a metà del XIX secolo.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
ATTORI E ATTRICI
NELL GWYN RITRATTA DA SIR PETER LELY, 1675 CIRCA
Una vera innovazione dal punto di vista sociologico fu l'ingresso delle donne
in scena, pratica severamente proibita fino a pochi decenni prima. Vi era
stato un precedente, una compagnia francese aveva presentato al
Blackfriars Theatre delle attrici nel 1629 ma la novità non era stata ben
accolta dal pubblico. Tra le prime donne a calcare le scene vi furono Ann e
Rebecca Marshall, poi entrate stabilmente nella compagnia di Killigrew; la
più celebre tra tutte rimase, però, Nell Gwyn, ex venditrice di arance, che
passò alla storia per essere diventata l'amante del re Carlo II dal quale ebbe
due figli. Servì comunque del tempo per preparare le prime donne
all'esibizione scenica. Lo stesso valse per gli attori uomini che modificarono
lo stile recitativo con forme raffinate visto il pubblico di ceto più elevato
che assisteva alle rappresentazioni. Tra i più celebri nomi dell'epoca è da
ricordare Thomas Betterton, attore e poi capocomico delle compagnie di
Killigrew e Davenant nel periodo in cui esse si fusero sotto la sua guida.
Specializzato in ruoli shakespeariani venne ben pagato per le sue
rappresentazioni e la sua fama crebbe a tal punto da essere sepolto nella
Westminster Abbey. Tra le prime attrici del periodo ci fu anche Mary
Saunderson, moglie di Betterton, anch'essa celebre per le interpretazioni di personaggi del vecchio repertorio. Di un ventennio
più giovane era Elizabeth Barry, che recitò assieme a Betterton e che era specializzata in ruoli tragici. Il pathos che ispirava
è riportato in diverse cronache d'epoca. Un dato importante da sottolineare è che proprio in questi anni nasce il fenomeno che
sarà detto del divismo e che troverà con l'avvento del cinema il suo apice. Gli attori iniziano ad essere celebri e ammirati.
Non di rado vengono ammessi a corte (come nel caso di Nell Gwyn) e diventano vere e proprie icone di riferimento per il
pubblico, che ne copia modi e comportamenti.
IL SISTEMA TEATRALE
IL SIPARIO FU UNA DELLE NOVITÀ INTRODOTTE NEL TEATRO
Ad esclusione delle grandi sale destinate alle messinscene per i
nobili, una serie di compagnie, più o meno girovaghe, si formò nel
resto d'Inghilterra, lasciando poche tracce dietro di sé e rendendo
difficile una ricostruzione storica, precisa e attendibile del
fenomeno. Se il duopolio delle compagnie maggiori trovava
sostentamento nei finanziamenti dei protettori e nel pagamento
del biglietto d'ingresso a teatro, quelle minori si configuravano in
due modi stabili o itineranti. Mentre le prime si affidavano, come
nel caso di Killigrew e Davenant, alla protezione di signori locali,
le seconde vagavano per le province dividendosi gli introiti
ricavati dalle rappresentazioni date non sempre nei luoghi
deputati. Tra le compagnie stabili sappiamo che sono esistite e
hanno operato quella del duca di Norfolk a Norwich, quella del duca di Grafton a Bath e Bristol, quella del duca di
Southampton a Richmond e, successivamente, altre a Canterbury e a Newcastle. Il repertorio era sempre quello di Londra e
scarsa era la produzione teatrale regionale. Le compagnie itineranti, che contavano ormai una dozzina di persone di sesso
misto e che vivevano della suddivisione dei beni, erano spesso costrette ad allestire serate di beneficenza nelle quali un attore
o un'attrice si recava nelle città più grandi tentando di attirare il pubblico ad assistere ai lavori della propria compagnia. La
pratica, spesso umiliante e a scopo promozionale, permetteva all'artista di incamerare il denaro che gli astanti lasciavano
come mancia simbolica e per pagare il prezzo del biglietto. Gli spettacoli iniziavano verso le 16 del pomeriggio e nacque la
moda del cartellone, con il quale si pubblicizzava l'evento in corso. Il più antico cartellone sembra essere stato un annuncio di
un burattinaio italiano che lavorava a Charing Cross nel 1672. Il colore tipico dei teatri sembrava il verde, che
padroneggiava nei rivestimenti delle poltrone e nei toni del sipario. Forse da qui deriva il termine "green room", con il quale si
indica il camerino dove si raccolgono tuttora gli attori in procinto di entrare in scena o dove ricevono i loro ospiti.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
LA DRAMMATURGIA
COLLEY CIBBER
Nel quarantennio che corre tra il 1660 e il 1700 vennero prodotti all'incirca 560
drammi, di cui 120 appartenenti al vecchio repertorio e 440 di nuova fattura. Gli
autori del passato che trovarono maggiore rappresentazione furono Francis
Beaumont, John Fletcher, William Shakespeare e Ben Jonson, sebbene molte opere
siano state rivisitate e adattate al gusto moderno, soprattutto tramite
l'eliminazione del finale tragico. Carlo II, più del successore del fratello Giacomo II,
Guglielmo III, amò circondarsi di letterati e questo spiega la provenienza
aristocratica della nuova leva di drammaturghi. La nuova produzione spaziò in
diversi generi, dei quali due in particolare divennero caratteristici dell'epoca
sebbene fossero mutuati da alcuni esempi del passato: la tragedia eroica (heroic
tragedy) e la commedia di
maniere o di maniera
(comedy of manners).
JOHN DRYDEN
La tragedia eroica si
configurava con elementi
esotici e lontani, rappresentanti un mondo di sentimenti che
sfociavano a volte in un'eccessiva pomposità dialettica e retorica. Il
blank verse della drammaturgia elisabettiana venne rimpiazzato
dall'heroic couplet o distico eroico, composto da coppie di decasillabi
a rima baciata. Questa, di probabile derivazione dal verso
alessandrino delle tragedie francesi, permise al linguaggio un
naturale distacco dalla lingua del quotidiano. Contrariamente alle
tragedie antiche il finale non era obbligatoriamente triste in quanto
la "giustizia poetica" permetteva il finale lieto. Lo scopo che si prefiggeva la tragedia eroica non era quello di ispirare pietà ma
quello di suscitare ammirazione per il comportamento e i sentimenti dei protagonisti. Il creatore di tale genere tragico fu un
irlandese, Lord Orrery al secolo Roger Boyle, autore di sei tragedie delle quali la più celebre è la “Mustapha” del 1665
composta su richiesta di Carlo II. Questi voleva che gli spettatori fossero
ispirati dalle alte gesta e dal comportamento nobile dei protagonisti. La
figura di maggior rilievo del secolo fu, però, il poeta laureato John Dryden
che, dopo le prime tragedie di gusto altamente retorico e magniloquente,
seppe individuare i mutamenti di gusto del pubblico e indirizzarsi verso
una più moderata ricerca formale tramite una revisione dei contenuti e un
ripristino del blank verse. Tra gli altri autori vanno ricordati l'avversario
di Dryden, Elkanah Settle, e John Crowne oltre che che John Banks e
Thomas Southerne. Di estrazione non aristocratica furono, invece,
Nathanael Lee e Thomas Otway, entrambi ex attori morti in miseria. Lee
in particolare, con la sua dozzina di tragedie, si allontanò dalla tragedia
eroica regolare e, a causa di un'esistenza abbastanza travagliata che lo
vide trascorrere diversi anni in manicomio, si avvicinò al sentimentalismo
scenico dei secoli successivi. Egli affidò al logorroico ed esasperato pianto
delle protagoniste femminili lo sfogo di un'infelice esistenza e questo gli
permise di trovare una fortuna scenica anche negli anni successivi.
APHRA BEHN
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
La commedia di maniera rappresentava un contraltare degli alti ideali della tragedia eroica. Come sempre nello storia dei
generi teatrali mentre il genere tragico dà voce alle grandi aspirazioni umane, la commedia rivela una contemporaneità
svelando alcuni tratti della coeva società. Ambientate nella Londra contemporanea le commedie erano costituite da un'esile
intreccio in cui spiccava la figura del wit, colto aristocratico nullafacente che era solito parlare per aforismi mettendo in
ridicolo i repubblicani e i borghesi. I personaggi femminili, liberi e licenziosi, acquisirono importanza e sostanza, mentre
frequenti erano i riferimenti spregiudicati al sesso e al libertinismo. Quest'ultima caratteristica non permise il continuarsi
delle rappresentazioni negli anni successivi se non a costo di una pesante edulcorazione dei contenuti licenziosi. La
produzione delle commedie di maniera fu esigua e vi si esercitò Dryden in prima persona e con esiti dubbi. Sir George
Etherege produsse solo tre opere, delle quali va ricordata “The Man of Mode” del 1676; più moralista fu William Wycherley,
autore di quattro pièces tra le quali vanno menzionate “The Country Wife” del
1675 e “The Plain Dealer” del 1676. Altri autori furono Sir Charles Sedley,
Thomas Shadwell, Tom D'Urfey e Thomas Southerne, irlandese di nascita che
produsse sempre nella capitale inglese. Un discorso a parte va fatto per Aphra
Behn, prima donna a scrivere per denaro senza servirsi di uno pseudonimo
maschile e attirandosi le critiche dei contemporanei. Nelle sue opere teatrali, che
spaziano dagli intrecci cavallereschi dell'unica tragedia della quale fu
autrice,l'”Abdelazar”
del 1676,
ai più
frequenti e complessi
intrighi comici della
produzione
di
maniera, spicca una
critica feroce alla
condizione sottomessa
della donna all'uomo
soprattutto riguardo
ai matrimoni forzati.
RICHARD STEELE
Il periodo della Restaurazione fu caratterizzato da una maggiore
licenziosità dei costumi teatrali, che si riflettevano in opere di più
ampia "modernità" rispetto ai periodi precedenti. Tuttavia il
passaggio alla successiva età dei lumi si caratterizzò per una
virata restrittiva della morale comune voluta nel campo teatrale
dal vescovo e critico Jeremy Collier che col suo trattato “Short
View of the Immorality and Profaneness of the English Stage”,
condannò il teatro quale luogo di pubblica dimostrazione della corruzione umana. Già William Congreve, irlandese di
nascita, autore di quattro commedie e una tragedia, si distinse
per uno stile meno colorito e sboccato dei suoi predecessori.
Sono da ricordare, poi, Sir John Vanbrugh e John Farquhar. Il
primo, architetto di fama e amico di Congreve, chiuse l'epoca
della commedia di maniere mentre il secondo inserì dei
personaggi distanti dall'humour wit e meno licenziosi dei
precedenti. Tra gli ultimi autori della commedy of manners vi
furono il poeta laureato Colley Cibber, già direttore del Drury
Lane ed ex attore comico, che si produsse in numerose commedie
di una certa licenziosità dalle quali traspare una maggiore
attenzione alla morale del tempo, e Susanna Carroll Centlivre,
altra donna scrittrice e autrice di commedie sia mutuate da
esempi stranieri sia originali. Sir Richard Steele, personaggio
poliedrico e apertamente favorevole alle idee di Collier, segna
un periodo di transizione piuttosto evidente. Le sue commedie,
nelle quali agiscono personaggi dignitosi e dal comportamento sobrio, tendono non più al riso ma alla commozione e
inaugurano quella commistione dei generi tragico e comico che sarà caratteristica dell'età successiva. Non di rado i suoi lavori
trattano un tema specifico col quale si vuole impartire un insegnamento etico alla società.
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ALL THE WORLD IS A STAGE
I
Classe IV A
L TEATRO DEL '600 FRANCESE TRA
MITI, TECNICHE E STRUTTURA
Il Classicismo si fonda sul Razionalismo (vedi Pascal e Cartesio) e anticipa il cosiddetto "Siécle des Lumes".
Proprio durante questo movimento storico, artistico e letterario si conia il concetto di "Vraisemblance", ossia della
verosomiglianza nelle opere teatrali. Questa condurrà lo spettatore alla catarsi, alla purificazione dalle passioni
terrene. Altro concetto di uguale importanza è quello del "Bienséance", cioè del comune senso del pudore.
Gli autori dovevano cercare di capire le attese degli spettatori e per questo le scene di violenza non venivano messe in atto ma
erano sottintese. Il periodo classicista in sè cerca di operare un raffinamento nei costumi e crea una "nouvelle langue"
depurata dall' estrosità Barocca. Inoltre bisognava usare temi nobili riferiti a grandi imprese. L'opera doveva essere svolta in
24 ore nello stesso luogo e con un azione principale che non doveva essere influenzata dalle altre. Questa "innovazione" fu
molto importante agli esordi dei primi teatri che erano ancora organizzati rudimentalmente. Nel teatro seicentesco troviamo,
inoltre, la cosiddetta polisemia dell'opera teatrale, ossia vi è un doppio binario: la lettura e lo spettacolo. L'écrit è libertà
d'interpretare e capire l'opera a proprio piacimento, la rapresentation è una sola e non vi è possibilità di interpretarla
diversamente da com'è rappresentata sul palcoscenico. Il dialogo è la base del teatro insieme a tecniche usate dagli attori come
l'"aparté" (monologo) proprio dei comici. Mentre il dialogo coinvolge due o più
persone e dà una "focalisation", una visione completa del punto centrale dell'opera,
il monologo è con se stessi, adottato per decidere su una scelta o per discorrere con
la propria coscienza. Inoltre il monologo utilizza tutte le forme classiche come
l'apostrofo, le interrogazioni e tutte le figure del discorso. Altro elemento
importante sono le didascalie che si distinguono in interne ed esterne. Le interne
sono dette dal personaggio e danno informazioni sulle scene, le esterne riprendono
la presentazione dei personaggi, degli atti e delle scene. La commedia può essere
classificata in grottesca (una farsa), epica ( come quella elisabettiana) e "commedie
d'art", più evoluta delle altre anche dal punto di vista interpretativo. Quest'ultima
in Francia muove la gente a spostare l'interesse verso la "tragedie classique" perchè
ci sono due diversi modi di fare teatro: il primo è il teatro di corte con balletti e
spettacoli, il secondo è il teatro ambulante, quello di strada, fatto da ubriaconi,
violenti e prostitute che approfittano degli spettacoli per attirare clienti. I modelli
d’ispirazione per le tragedie rimandano tutti al passato e nello specifico all’antica
Grecia e alla Bibbia ( viste le traduzioni appena fatte in quel tempo ).
Uomini del calibro di Aristotele, soggetti biblici, miti come quelli delle opere di
Ovidio e, il più recente dell'epoca, “Il Cortigiano” di Baldassare Castiglione (noto
perché vive su un palcoscenico permanente e deve al tempo stesso simulare e nascondere i propri sentimenti), vennero portati
in scena e acclamati dal pubblico.
Le tragedie sono codificate in :
 L'exposition (esposizione dell'opera)
 Le noeud (il "nodo" ossia la trama)
 Le développement ( lo sviluppo della
trama)
 Le dénoument (lo "scioglimento" o
conclusione della tragedia)
Gli autori puntano sulla sofferenza e sul
dolore del personaggio per creare "suspence"
nello spettatore. Più questi sentimenti
negativi sono presenti più il pubblico sarà
condotto alla catarsi. La conclusione della
tragedia, in generale, culmina con la morte
del/i protagonista/i, vista come unica
soluzione per liberarsi dal fardello dei
problemi che la vita pone. Il politico
Richelieu fu un sosteniore convinto del
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
"développement des arts" (sviluppo delle arti) e aveva pensato che investire nella cultura avrebbe contribuito al futuro
francese. A lui si deve la creazione del primo "teatro stabile" che ebbe sede a Bourgogne e della cosiddetta "decentralizzazione
dei teatri" che portò all'apertura di numerosi teatri a Lyon, nel mezzogiorno francese e in tutta la provincia oltre che nelle
grandi città come Paris. Nota importante fu che gli attori teatrali vennero scomunicati dalla Chiesa e privati di una
qualsiasi selpotura dignitosa in luoghi sacri. I politici invece cercarono sempre di esaltare questa forma d'arte. Ultima ma non
per importanza fu la funzione del teatro in termini propagandistici durante il regno dell'allora monarca e assolutista Luigi
XIV.
MOLIÈRE
MOLIÈRE RITRATTO DA NICOLAS MIGNARD (1658)
FIRMA DI MOLIÈRE
Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste
Poquelin (Parigi 15 gennaio 1622 – Parigi 17 febbraio 1673), è stato un commediografo e
attore teatrale francese.
BIOGRAFIA
L'INFANZIA
Il 15 gennaio 1622 Molière venne battezzato nella chiesa di sant'Eustachio a Parigi. Ben presto chiamato Jean-Baptiste per
distinguerlo dal fratello minore Jean, solo in seguito, a ventidue anni, prese lo pseudonimo di Molière. Suo padre, Jean, era
un tappezziere, un artigiano agiato. La madre, Marie Cressé, morì quando il figlio aveva solamente dieci anni. I genitori si
erano sposati l'anno prima. In seguito, nel 1633, il padre si sposò con Catherine Fleurette, la quale morì nel 1636. L'infanzia
del piccolo fu segnata da lutti ed inquietudini, che spiegano solo in parte il fondo di tristezza del suo umore e la rarità dei
ruoli materni nel suo teatro. Nella sua fanciullezza furono fondamentali la vivacità popolare, l'animazione, il rumore,
l'accanito lavoro oltre agli spettacoli con i quali da piccolo fu ogni giorno a contatto grazie alla passione che gli fu trasmessa
dal nonno materno Louis Cressé. Questi spesso lo portava all'Hotel de Bourgogne e al Pont Neuf, dove si poteva assistere alle
rappresentazioni dei comici italiani e alle tragedie dei comédien. Nel quartiere delle Halles, dove visse, il vivace spirito di
Poquelin poté impregnarsi di una vita formicolante, dello scherzo pittoresco e della varietà della realtà umana. Il padre gli
permise scuole molto più prestigiose di quelle destinate ai figli degli altri commercianti. Compì i suoi studi dal 1635 al 1639
al Collège de Clermont, collegio di gesuiti, considerato il migliore della capitale e frequentato da nobili e ricchi borghesi. Qui
egli imparò la Filosofia, Filosofia scolastica, in lingua latina ed acquisì una perfetta padronanza della retorica. Nel 1637
prestò giuramento come futuro erede della carica di tappezziere del re, che era ricoperta dal padre.
GLI INIZI
Nel 1641 portò a termine gli studi di diritto ottenendo la Licenza in diritto ad Orléans. Cominciò a frequentare gli ambienti
teatrali, conobbe il famoso Scaramuccia Tiberio Fiorilli e intrattenne una relazione con la ventiduenne Madeleine Béjart,
giovane attrice rossa di capelli, già madre di un bambino avuto dalla precedente relazione con il Barone di Modène Esprit de
Raymond de Mormoiron. Con l'aiuto della donna, colta e capace di condurre con intelligenza i propri affari, leale e devota,
organizzò una compagnia che servì a Molière per capire la propria vocazione di attore. Il 6 gennaio del 1643 egli rinunciò
alla carica di tappezziere reale. Il 30 giugno 1643 firmò il contratto e costituì una troupe teatrale di dieci membri, l'Illustre
Théâtre.Di esso facevano parte Madeleine Béjart (in qualità di prima attrice), il fratello Joseph e la sorella Geneviève. La
piccola compagnia prese in affitto il Jeu de Paume des Métayers ("sala dei mezzadri") di Parigi e nell'attesa della conclusione
dei lavori per adattare la sala alle rappresentazioni teatrali si stabilì a Rouen e inscenò spettacoli di ogni tipo, dalle tragedie
alle farse. Il 1º gennaio del 1644 l'Illustre Théatre debutta nella capitale. Il pubblico non rispose a dovere, iniziarono ad
accumularsi debiti, Molière fu arrestato per insolvenza, la compagnia nel 1645 si sciolse. Una volta liberato per
l'interessamento del padre e di Madeleine, lui ed alcuni membri della compagnia abbandonarono la capitale francese. Dal
1645 al 1658 lavorò come attore ambulante con la compagnia di Charles Dufresne, rinomata e finanziata dal duca di
Epernon, governatore della Guienna. Nel 1650 Molière ottenne la direzione della troupe che iniziò a fare le sue
rappresentazioni a Pézenas, dove ogni anno si trovavano gli Stati della Linguadoca, e nel sud della Francia. A partire dal
1652 la compagnia, ormai ben affermata, iniziò ad avere un pubblico regolare a Lione. Durante questo girovagare conobbe
bene l'ambiente della provincia ma soprattutto imparò a fare l'attore ed a capire i gusti del pubblico e le sue reazioni. In tale
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
periodo scrisse alcune farse e due commedie, ossia “Lo stordito” (“L'Etourdi”), commedia di intrigo, rappresentata a Lione nel
1655, e “Il dispetto amoroso”(“Le dépit amoureuse”), opera non eccezionale, rappresentata a Narbona nel 1656. Nel 1658
tornò a Parigi dopo un soggiorno a Rouen con la sua compagnia, la Troupe de Monsieur, nome accordatole da Filippo
d'Orléans. Il 24 ottobre di quell'anno recitarono davanti al re Luigi XIV, il quale si entusiasmò solo con la farsa “Il dottore
amoroso” (“Le Docteur amoureux”), scritta da Molière (il testo fu ritrovato e pubblicato nel 1960). La compagnia venne
autorizzata ad occupare, alternandosi con la troupe degli Italiani, il teatro del Petit-Bourbon e quando nel 1659 gli Italiani
se ne andarono, lo stesso teatro fu a completa disposizione di Molière. Iniziò così a mettere in scena delle tragedie ma con
scarso successo. Scrisse anche un'opera che non era né una tragedia né una commedia, il “Don Garcia de Navarre”, incentrata
sul tema della gelosia, ma fu un fiasco. Molière allora capì che la commedia era la sua attitudine ed in questo genere eccelse
già con la prima opera “Le preziose ridicole” (“Les précieuses ridicules”) del 1659. Nella farsa mise in luce gli effetti comici di
una precisa realtà contemporanea, le bizzarrie tipiche della vita mondana e di questa ridicolizzò le espressioni ed il
linguaggio. Tutto ciò provocò l'interruzione delle rappresentazioni per qualche giorno ma gli inviti a corte e nelle case dei
grandi signori si susseguirono ugualmente.
IL SUCCESSO
LUIGI XIV INVITA MOLIÈRE PER CONDIVIDERE
LA SUA CENA, DI JEAN-LÉON GÉRÔME.
Nel 1660 vi fu il gran successo di
“Sganarello
o
il
cornuto
immaginario” e fu il comico
d'intrigo l'argomento principale
insieme a quello del qui pro quo in
un ambiente dove ognuno si
preoccupava solo ed esclusivamente
della propria situazione. Nel
frattempo venne demolito il salone
Petit-Bourbon ma il re fece
prontamente assegnare alla compagnia la sala del Palais-Royal. Qui a giugno vi fu la presentazione de “La scuola dei mariti”
(“École des maris”). In questa commedia attraverso le buffonerie vennero ancora presentati problemi gravi e scottanti come
l'educazione dei figli e la libertà da concedere alle mogli. In onore di una festa offerta da Luigi XIV in quindici giorni
Molière scrisse e mise in scena la commedia “Gli importuni”(“Fâcheux”). Il 20 febbraio 1662 sposò Armande Béjart,
ufficialmente sorella ma quasi sicuramente figlia di Madeleine ed anch'essa entrò a far parte della compagnia (dall'unione
nacquero tre figli, due maschi e una femmina, l'unica che sopravvisse al padre). In dicembre venne rappresentata “La scuola
delle mogli” (“École des femmes”) che superò in successo ed in valore tutte le commedie precedenti. L'opera portò, tuttavia,
allo scontro con i rigoristi cristiani. Nel 1663 Molière fu interamente occupato dalla querelle de “La scuola delle mogli” e dal
suo successo. Il 12 maggio 1664 ci fu la prima rappresentazione del “Tartufo o l'Impostore”. Tra il 1667 e 1668, ispirandosi
alla commedia in prosa di Tito Maccio Plauto, “Aulularia”, e prendendo spunti anche da altre commedie (“I suppositi”
dell'Ariosto, “L'Avare dupé” di Chappuzeau, “La Belle plaideuse” di Boisrobert, “La Mère coquette” di Donneau de Vizé)
scrive “L'avaro” (“L'Avare ou l'École du mensonge”) che viene rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1668 al PalaisRoyal dalla "Troupe de Monsieur, frère unique du Roi". Era la compagnia di Molière che in quell'occasione recitò la parte di
Harpagon. Nel 1673, anno della morte del drammaturgo, la sua compagnia, l'Illustre Theatre, assorbe i resti di quella del
Teatro di Marais. Nel 1680, a sette anni dalla morte di Molière, il re con un ordine speciale sancisce la fusione con l'Hotel
de Bougogne dando vita all'inizio della Comédie Française, con sede all'Hotel Guénégaud.
MORTE
LA TOMBA DI MOLIÈRE, OGGI NEL CIMITERO DI PÈRE LACHAISE
Molière morì il 17 febbraio 1673 di tubercolosi
mentre recitava “Il malato immaginario”. Prima di
morire aveva recitato a fatica e aveva coperto la
tosse , si dice , con una risata forzata. Morì durante
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
la notte tra le braccia di due suore che lo avevano accompagnato a casa. Da qui è nata la superstizione di non indossare, in
Francia, il verde in scena, in quanto egli indossava un abito di questo colore. In Italia la superstizione si riferisce, invece, al
colore viola poiché durante i quaranta giorni quaresimali nel Medioevo venivano vietati tutti i tipi di rappresentazione
teatrale e di spettacolo pubblico che si tenevano per le vie o le piazze delle città. Questo comportava per gli attori e per tutti
coloro che vivevano di solo teatro notevoli disagi economici. Non potendo lavorare le compagnie teatrali non avevano
guadagni e procurarsi il pane quotidiano era un'ardua impresa. Il divieto di inumazione cattolica per gli attori e i
commedianti di quell'epoca fu aggirato per intercessione del Re presso l'Arcivescovo, e la sepoltura di Molière avvenne nel
cimitero di Saint-Eustache anche se ad una profondità superiore a quattro piedi, misura che fissava l'estensione in
profondità della terra consacrata. Oggi la tomba di Molière si trova nel famoso cimitero parigino di Père-Lachaise, accanto a
quella di Jean de La Fontaine.
ONORI POSTUMI
L'Accademia di Francia non accettò, mentre era in vita, che Molière
fosse tra gli immortali perché il commediante, ancora definito guitto,
era considerato culturalmente inferiore. Riparò in seguito
dedicandogli nel 1774 una statua con l'iscrizione Rien ne manque à
sa gloire, il manquait à la nôtre (Nulla manca alla sua gloria, Egli
mancò alla nostra).
POETICA
STATUA DI MOLIÈRE A PARIGI
Molière, attore e allo stesso tempo drammaturgo, ricercò uno stile di
scrittura e recitazione meno legato alle convenzioni dell'epoca e volto
ad una naturalezza che descrivesse al meglio le situazioni e la
psicologia dei personaggi. Queste idee, che si realizzeranno in seguito
nel teatro borghese, cominciano ad emergere ne “La scuola delle
mogli” e ne “Il misantropo”. Un nuovo stile che Molière accompagna
con una critica feroce della morale dell'epoca. Questo impedì a lungo
alla commedia “Il tartufo” di essere rappresentata in pubblico.
L'acuta osservazione della realtà fu spesso per Molière fonte di guai,
specialmente quando i nobili, oggetto delle sue satire, si riconoscevano nei personaggi. È nota la reazione del duca di La
Feuillade che, riconosciutosi nel Marchese della “Critica alla scuola delle mogli”, gli strofinò sul viso con violenza i bottoni
del suo vestito pronunciando la battuta «Torta alla crema! Torta alla crema!». Simili incidenti accaddero con Monsieur
d'Armagnac, scudiero di Francia, e con il duca di Montasieur, precettore del Delfino, che minacciò di bastonarlo a morte per
averlo preso a modello nel creare il personaggio di Alceste, il misantropo. L'aspirazione di Molière, spesso costretto a scrivere
commedie-balletto per compiacere ai gusti del re, fu quella di dedicarsi a sviluppare un nuovo tipo di commedia. Questo
porterà alla nascita della commedia di costume moderna, ispirata agli accadimenti quotidiani, scritta in prosa e tendente alla
verosimiglianza. Molière può essere considerato a tutti gli effetti il precursore di quel rinnovamento teatrale che comincerà ad
esprimersi compiutamente un secolo dopo con Carlo Goldoni e che raggiungerà la piena maturità col teatro di Anton Čechov.
Anche Dario Fo lo ha spesso indicato tra i suoi maestri e modelli.
MOLIÈRE E LA FIGURA DEL MEDICO
MOLIÈRE RITRATTO DA PIERRE MIGNARD, MUSEO CONDÉ (CHANTILLY)
Un luogo comune abbastanza diffuso consisterebbe nella presunta ossessione di Molière
nei confronti della medicina e dei medici. Basterebbe, infatti, una semplice lettura di
alcune opere del drammaturgo perimbattersi diverse volte nel personaggio del medico.
Questo sembra essere direttamente preso di mira da parte dell'autore (basti pensare a
“L'amore medico” del 1665 o al successivo “Il medico per forza” sino al celebre “Il
malato immaginario”). Nella prima commedia menzionata l'autore non si limitava a
moltiplicare il numero dei medici (addirittura cinque) ma dietro i nomi fittizi e
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ALL THE WORLD IS A STAGE
Classe IV A
"parlanti" dei personaggi satireggiava celebri medici professionisti della Parigi di Luigi XIV, ognuno dei quali caratterizzato
a suo modo. La satira da parte dell'autore in quest'opera si manifesta nella rappresentazione, palesemente caricaturale,
dell'atteggiamento dei medici in scena. Questi si esibiscono in duelli sulle reciproche conoscenze e sono assolutamente
pomposi. Spesso Molière insiste sul medico come professionista di scarsa qualità che agisce solo in funzione dei propri
interessi. Tutti i dottori di Molière sono profondamente legati al denaro, i suoi medici dimenticano il loro ruolo positivo e
vengono dipinti in atteggiamenti arrivisti che hanno il solo scopo di "far fruttare la malattia con la frode, con l'inganno". In
generale l'assiduità delle battute aspre e pungenti che Molière non lesina ai medici sembrerebbe tradire una forma di astio
personale, al limite del maniacale. Forse a causa della personale esperienza dell'autore con la malattia e, quindi, con i medici
(non si dimentichi la tubercolosi di cui soffrì il drammaturgo; egli ricevendo i medici, poteva rendersi personalmente conto
della loro inadeguatezza e aveva subito modo di scriverne). Tuttavia come afferma un importante studioso (Sandro Bajini), la
critica di Molière all'imperizia dei medici si potrebbe far rientrare in quella più ampia alle illusioni umane che rappresenta
la dimensione più profonda del teatro del commediografo. Può dirsi, dunque, che Molière non abbia mai nutrito alcuna seria
ostilità nei confronti dei medici. La stessa biografia dell'autore può risultare in questo senso illuminante: con Monsieur
Mauvillain, suo medico personale, Molière avrebbe intrattenuto rapporti molto cordiali anche se non resisteva a fare ironia
circa la necessità di assumere i farmaci da lui suggeritigli.
TO BE CONTINUED…
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