La relazione del segretario generale della UIL Basilicata, Carmine

UIL BASILICATA
IX CONGRESSO REGIONALE
IL RIFORMISMO
NON È UNA PAROLA QUALUNQUE
Relazione di
Carmine Vaccaro
Segretario regionale Uil Basilicata
Tito, 4-5 luglio 2014
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Cari delegate e cari delegati, amici invitati,
non abbiamo mai ceduto ai rituali dell’ordinarietà nella celebrazione dei
nostri congressi. Ancor meno lo faremo adesso.
Oggi non è soltanto il coronamento di una intensa ed appassionata stagione di mobilitazione della UIL di Basilicata e delle sue componenti interne, il
punto di arrivo di tanti congressi di categoria tutti vissuti all’insegna di una
forte volontà di partecipazione alla strategia confederale in termini di qualità
di idee e proposte, di protagonismo e di un grande sforzo di rinnovamento,
ma rappresenta anche il momento in cui una difficile fase di transizione
sembra volgere ad esaurimento mentre comincia a prendere forma una nuova agenda politica della nostra regione. Un’agenda che è destinata a pesare
sul destino della nostra gente.
È da tempo ormai che ci siamo assegnati un compito preciso, ambizioso,
coraggioso, per noi non più rinviabile: contribuire, per la nostra parte, a
riprendere una bussola di orientamento, a rileggere e riscrivere la Basilicata
che cambia.
Lo facciamo avendo colto e vissuto i segni del drammatico vuoto strategico nel quale la nostra regione era piombata ma anche avendo spostato
sempre più il livello della nostra capacità di iniziativa sulla necessità di rileggere e riscrivere la Basilicata, per aiutarla a riprendere una sua fisionomia
consapevole, a ritrovarsi in una narrazione condivisa e proiettare la sua
identità orgogliosa, mai cedevole a nessun accomodamento.
È arduo ma è anche possibile. E lo sarà tanto più se le componenti fondamentali della società regionale, le forze produttive e i ceti professionali,
insomma le classi dirigenti, decideranno di dare più.
La Basilicata, si sa, è quasi un paradosso. Una scommessa alla sopravvivenza contro le incursioni strette della geografia e della storia: piccoli numeri in uno spazio non piccolo, una collocazione problematica in un Paese a
struttura longitudinale, una sfida permanente alle leggi della statistica economica.
Ricordate la metafora del calabrone che, a dispetto delle ali troppo piccole rispetto al corpo troppo grande, riesce miracolosamente a volare?
Come il calabrone questa piccola regione è chiamata quotidianamente a
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compiere un miracolo di vitalità e di efficienza.
Eppure come si può vivere questo tempo storico così tormentato,
difficile da decifrare e ancor più difficile da amministrare, senza cercare di fare di più, senza dare di più, senza chiedere e chiederci di più?
In tutta franchezza noi stiamo cercando di fare la nostra parte proprio sul
crinale più difficile che esista alle nostre possibilità. Ed il dibattito appassionato che abbiamo saputo costruire in queste settimane congressuali ci ha
aiutato di certo a comprendere meglio. Ci ha incoraggiati ad andare avanti,
fino in fondo e ad alimentare il nostro agire con questo formidabile patrimonio di esperienze, di idee, di analisi che intendiamo consegnare a questo
congresso e con esso alle classi dirigenti e all’intera comunità regionale.
È sul campo aperto di queste felici provocazioni che occorre innanzitutto
misurare il nostro congresso, lasciandosi guidare dalla stella più inquieta,
ma anche da quella più promettente che si mostri al nostro sguardo di cercatori
di senso.
Contro le rarefazioni di luce e gli scenari d’oscurità che spesso avvolgono anche le cose più semplici, siamo come scossi dal potere del
riformismo, che non è un potere che frena,tanto per riprendere il
titolo di un bel libro di Massimo Cacciari, ma cari amici, è piuttosto
un potere che libera. Libera a pensare diversamente, perché ci libera
dalle abitudini che sono il male morale della vita e della politica. Le
abitudini a non fare. Le abitudini a difendere i privilegi. Le abitudini a
non avere coraggio. Quante volte la politica per conto di queste abitudini mortali ha ceduto sui comportamenti? Quante volte ha rinunciato al coraggio delle riforme? Quante volte si è tristemente abituata
alle sue inosservanze, occupandosi del suo vivere e non del vivere
delle persone?
È il riformismo che dall’alto della sua irriverenza incalza, scompone, libera
da questo dispositivo seriale di abitudini così letale ad ogni buona volontà. Ecco perché il riformismo non può essere una parola qualunque.
Non può esserlo perché è il suo stesso modo di funzionare a far saltare,
come scrive acutamente il filosofo Giacomo Marramao, il deficit simbolico
della politica, ingenuamente basato sul polemos e sulla fiction. Sul conflit-
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to e sulla finzione.
È da molti anni, cari amici, che giorno dopo giorno assistiamo allo spettacolo precipitoso ed indecente di una politica che utilizza retoricamente i
conflitti e le bugie, per confondere il giudizio del suo fallimento e della sua
impotenza soggettiva a risolvere le grandi questioni.
Anche qui il riformismo ci aiuta a fare chiarezza nei giudizi, finalmente
liberati dalla cortina fumogena di queste confusioni astutamente predisposte
e soprattutto a de-ideologizzare un dibattito artificiale e divisorio che ci
può, invece, ancora consegnare intatta e decisiva la prospettiva del presente
e dell’avvenire e non più quella del passato, un museo delle cere e delle
virtù ormai perdute del coraggio, del cambiamento, dell’unità.
Alla UIL di Basilicata questa convinzione è bastata anche a mostrare per
intero e nei suoi termini di non condizionalità, la direzione di lotta contro
tutti quelli che pensano ad un sindacato disorientato ed impaurito, timoroso
delle incognite del tempo nuovo, rinchiuso sulla difensiva, abbarbicato alla
disperata difesa di un orticello in pericolo, ammalato di nostalgia per lo
scolorire delle tradizionali pratiche concertative e magari per la sottrazione
di qualche spicchio di tutela legislativa.
A chi ha avuto l’attenzione e la pazienza di seguire i nostri congressi non
sarà certo sfuggito questo sguardo nuovo, ricco di partecipazione, fatto con
gli occhi, la mente ed il cuore di un’organizzazione storica dei lavoratori
lucani, che in questi anni si è presentata a tutta la comunità di Basilicata
come movimento civico collettivo, caricandosi in parte di funzioni disertate da altri, e che si è scoperta anche come una contemporaneità operosa, ben consapevole del senso della storia. Un sindacato che avverte il rumore burrascoso di un tempo fatalmente tramontato e ne percepisce le
avvisaglie di uno nuovo che interroga sui cambiamenti e le novità.
Sono certo. Agli osservatori attenti della cronaca politica regionale non è
sfuggito l’atteggiamento schietto, aperto, spesso fuori dal coro, di questo
pezzo di Basilicata che ha ansia di misurarsi con nuove sfide, che avverte
tutta l’insufficienza di impostazioni e visioni ormai travolte dalla dinamica
delle cose, e sente tutta la stanchezza di formule consumate, devitalizzate, di
parole rinsecchite, ormai svuotate di senso.
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Ebbene sì, proviamo a ricostruire un pensiero, una visione, ricominciando
dalle parole: perché non si può vivere in un tempo nuovo adoperando
ancora parole vecchie o senza dare un senso nuovo alle vecchie parole. Le
parole vanno riscritte, rivestendole di nuovi simboli e di nuove evocazioni.
E quello che c’insegna Canetti in uno dei suoi libri più lucidi e coinvolgenti,
La coscienza delle parole in cui getta uno sguardo anticipatore sulla soglia
infelice del nominalismo del presente. C’è sempre una coscienza delle parole, di cui è davvero impossibile non tenerne conto.
E c’è una parola che va rievocata per prima, quella che custodisce forse
più di ogni altra l’identità ed anche la storia del nostro sindacato. Non è una
parola nuova, anzi, per lungo tempo è stata quasi una parola maledetta. Una
parola non pronunciata e da cui la politica della conservazione ha avuto
terribile, infinita paura. Ma se essa stessa è stata considerata al pari di un’eresia, oggi rischia di avere almeno uguale sorte, finendo nell’assoluta banalità
delle parole abusate e travisate.
Questa prima parola da riscoprire e da rilanciare è perciò riformismo: la
parola-chiave che racchiude oggi la sfida della politica ed il destino del
Paese. Riformismo è la capacità di ripensare e modernizzare la cultura dei
diritti dentro gli spazi aperti di quella che un tempo si chiamava la divisione
internazionale del lavoro.
Per questo non può essere una parola qualunque ed ovvia.
Ha un valore di tempo, il riformismo. E poi un valore di funzione e di
necessità. Dare fiato e speranza ad un Paese che fino adesso ha voluto
barattare il cambiamento con la cultura del tirare a campare.
Quali siano gli effetti di una scelta così nefasta, cari amici, è sotto gli occhi
di tutti. L’Italia è indietro ovunque. Il suo passo d’innovazione è stato quasi
nullo. La sua cultura dei diritti mai aggiornata. La sua vocazione nazionale
alle riforme come inghiottita dal vociare sclerotizzato e dispendioso della
politica.
È però anche in questa particolare leva di provocazione che il Riformismo
può divenire l’antidoto tanto del conformismo quanto del trasformismo: le
due malattie dello spirito coraggioso della politica.
L’altra parola da riscrivere è il Mezzogiorno.
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Una parola antica quanto facilmente rimossa. Troppe volte l’agenda politica di questo Paese ha segnato direzione Nord, alimentando il pregiudizio
che il Sud non avesse capacità, volontà, bisogni. Il grande fallimento storico
dell’Italia, una questione quasi disperata, da mettere tra parentesi. Troppo
sono state le attese deluse, troppe le pessime prove che il Sud ha dato di sé.
Eppure la Basilicata, pur con i suoi limiti, ha saputo dimostrare di essere
un altro Sud. Migliore performance sulla spesa dei fondi comunitari. Mai in
deficit spending sulla sanità e sui servizi assistenziali del welfare. D’esempio
e copiata da tutti nel suo livello avanzato di concertazione come ha mostrato
Obiettivo Basilicata 2012. E nonostante tutto, essere più in forma del Sud,
non potrebbe bastare alla Basilicata. Ci serve uno sforzo aggiuntivo che ci
connetta più strategicamente alle altre regioni. Ci serve capitalizzare al massimo il contributo energetico offerto responsabilmente alla competitività del
nostro Paese. Fare di questa specialità strategica il valore di negoziato più
alto e proficuo che sappia rappresentare l’urgenza di avere infrastrutture,
nuova occupazione, maggiore equità sociale con l’insieme di un grande
progetto di sviluppo sostenibile pare la sfida principale ai nostri pensieri
inquieti.
Il rischio, pur tenendo in piedi interamente la sfida, è che la Basilicata
venga derubricata come tutto il Sud, non considerando affatto la sua
connotazione particolare. Anzi finendo per diventare quasi un incidentale,
tra le “varie ed eventuali” nell’agenda nazionale del governo. Una sorta di
“ordine del giorno” continuamente rinviato ed inevaso.
E invece il coraggio del riformismo - coraggio della volontà e dell’intelligenza - ci dice che la scommessa è proprio là, che si può stare a Mezzogiorno e guardare al futuro: si può continuare a vivere e a credere in un territorio ignorato dalle mappe dello sviluppo e dalle traiettorie della geoecomia.
Si può stare a Mezzogiorno, anzi si deve stare in un grande Mezzogiorno,
che alzi il livello delle sue ambizioni ed aspirazioni e fornisca all’intero
Paese la chiave di volta di una grande rinascita nazionale sino a proiettarsi in
tutti i Sud del mondo.
Pensate ad un Mezzogiorno che si autodescriva per nuove traiettorie, che
inverta la classificazione rossidoriana della “polpa” e dell’“osso”, che privile-
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gi le “terre di mezzo” e trasversali per riaccendere i riflettori su territori
troppo sbrigativamente consegnati alle enigmatiche vicende del declinante
fordismo italiano: un Mezzogiorno che si ripensa e si riorganizza e che guarda allo sviluppo come ad un incrocio di ambiente-cultura-agricoltura-turismo-piccola industria-creatività giovanile e femminile.
Lo sviluppo che cerchiamo non è una grandezza economica ma parte di
una mobilitazione collettiva. La classe dirigente ne è responsabile e lo realizza quando partecipa a tutti la visione del futuro della Basilicata. Come?
Attraverso l’individuazione di policy chiare, suggestive, in grado di agganciare le emozioni e la ragione di ciascuno.
Basta guardare la carta geografica dall’alto ed allargare l’angolo di osservazione per intuire che la collocazione della Basilicata, che è stata per secoli
la ragione del suo isolamento, può trasformarsi, quasi d’incanto, in fattore
strategico decisivo fatto di progettualità interregionale, anzi transnazionale:
dal Mediterraneo all’Europa, dal Tirreno all’Adriatico. È la via del futuro.
Già il futuro. C’è una parola più abusata di futuro? Il futuro si presenta
se c’è, per l’appunto,scriveva Franz Kafka. Una visione capace di far muovere diversamente e più liberamente la storia. Ed al futuro noi vogliamo
restituire un significato promettente e mobilitante, sconfiggendo quella
suggestione di ansia e di paura che esso evoca sempre più spesso, in una
stagione nella quale viviamo la dittatura del presente mentre appare come
un “futuro-passato”, per usare la bella definizione di Marc Augé.
E se è vero quello che scrive un grande poeta come Rilke che “il futuro
entra in noi prima che accada”, allora abbiamo le giuste motivazioni per
riannodare i pensieri del riformismo. Per riscrivere le parole che servono a
questo tempo di passioni tristi ed impigrite dalle crisi economiche, sociali,
psicologiche.
Magari in questo sforzo servirebbe un nuovo Calvino, quello delle Lezioni
americane, tanto per intenderci, che ci ha donato parole importanti per
ripensare il nuovo millennio. Fuori dalle sue pagine più belle rimane, a chi
abbia voglia ed intelligenza, lo stile: veloce, ironico, provocatorio, lucido.
Uno stile che aiuterebbe non poco ad aggiornare ed irrobustire i vecchi
vocabolari camaleontici di una politica già troppo debole dalle sue parole e
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dalle sue intenzioni.
Intanto qui ci basti ribadire che solo liberandoci delle vecchie categorie di
pensiero e dei dogmi di conservazione possiamo predisporci positivamente
ad interpretare ed affrontare le sfide dell’oggi, del terzo millennio e contribuire a riscrivere la Basilicata che vogliamo.
Siamo davvero un popolo di sabbia, fragile per definizione, polverizzato, sovraesposto agli effetti prodotti dalla turbofinanza e dai mercati sregolati, dall’afasia della politica e dall’impotenza dei governi nazionali, dal furto
della sovranità e dall’eclissi della rappresentanza? O ancora ci può essere
speranza per un pensiero riformista e rivoluzionario che non indietreggi su niente, avendo merito sulle cose buone da fare e mai più pazienza
sul tempo che è stato fatalmente perduto.
L’anno scorso, ricorderete, abbiamo invitato un analista dell’acutezza di
Giuseppe De Rita ad aiutarci a leggere il nostro presente ed a ritrovare una
visione. Ebbene De Rita ci ha spiegato, con la solita lucidità, che la Grande
Crisi ha prodotto veri e propri abissi tra i diversi gironi della società,
spezzando la catena di connessione tra il popolo e l’élite.
Ma noi siamo un popolo vitale che deve riprendere la strada dello sviluppo recuperando sovranità, riducendo la forbice che allontana i più ricchi dai
più poveri, ricreando uno spirito di comunità e di cooperazione solidale. Le parole ispirate di De Rita restano per noi una bussola preziosissima:
“non si riaccende la fiamma dei desideri senza interpretarli, senza
individuare un orizzonte condiviso, senza riscoprire il fascino di un
sogno collettivo”.
Ecco, il nostro intento è proprio quello di contribuire a ricomporre una
visione di comunità, una specie di ”lucanità” non nostalgica e tanto meno
folcloristica, quell’identità collettiva del “noi” che ci siamo dati con un lungo
e controverso processo storico, a partire dal valore sacro della famiglia e
dell’impresa familiare sino alla esaltazione del locale e del territorio, con
quel segno distintivo dei lucani, la frugalità, tanto ben descritto da Sinisgalli
e che, come sottolinea Joseph Grima, direttore artistico di Matera 2019, ben
si adatta alle nuove filosofie open source.
Potrà sembrare inusuale o addirittura eccentrico che il ragionamento di un
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sindacato parta da qui: la nostra piccola regione ha bisogno di aria nuova e
di nuove visioni per ricaricare le sue riserve di fiducia e di speranza.
Ne siamo convinti.
Ce lo dicono i bollettini impietosi sugli impatti devastanti della lunga recessione e ce lo diciamo noi che viviamo immersi nelle sofferenze e
nelle ansie dei lavoratori e delle loro famiglie. La nostra gente è stremata ed esasperata dall’interminabile tunnel di restrizioni e di privazioni che è
costretta a subire, ma è stanca ed irritata anche dall’insulso spettacolo di
sfide e di rivincite che offre la politica, da una vita pubblica povera di
idee e dai suoi degni protagonisti, da un campo arido che ospita una
noiosa partita senza neppure spettatori. Da una degenerazione dei rapporti che ha compromesso, spesso, sino alla radice il rapporto di fiducia tra
cittadini e istituzioni.
Ricordate quando questa piccola regione era rappresentata come il miracolo del nuovo Mezzogiorno, in uscita dall’area dell’Obiettivo 1 e con il PIL
in forte ascesa, in testa alle graduatorie europee per l’uso programmato dei
fondi comunitari, per l’innovazione delle procedure amministrative e per la
diffusione della società dell’informazione? Sembra ieri ma non è ieri.
Com’è potuto accadere che ci ritroviamo nella situazione degradata di
oggi, senza che mai una riflessione sia stata mai compiuta?
E dove sono gli uomini delle istituzioni che devono programmare, decidere e rendere conto dei risultati, ciascuno con un proprio ruolo e con la
propria quota di responsabilità?
Governare le istituzioni del territorio richiede una capacità di guida illuminata e temperata da parte di gruppi dirigenti formati e selezionati per strade
diverse, provenienti da settori, ceti, territori, con la cultura e la mente orientate a coniugare assistenza, provvidenza e sviluppo.
E invece quella che dovrebbe essere l’élite dirigente altro non è - posso
essere ancora più franco? - che un luogo ammuffito dove pochi e stanchi
“burosauri” occupano le funzioni di vertice di quelle entità che fanno il
sistema Basilicata. Sono lì senza alcuna mission da onorare: uno incarta,
l’altro scarta, mandando a farsi friggere il cittadino e le sue domande.
Che sofferenza assistere a tanta dissipazione, a tanta sciatteria, a tanto
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qualunquismo.
Naturalmente, nel nostro vocabolario alcune parole non possono avere alcuna cittadinanza. Prendiamo ad esempio la rassegnazione.
Siamo delusi e, scusatemi, anche “incazzati” per le tante storture ed
insipienze che registriamo, eppure non ci sentiamo sconfitti, piegati e non
rinunciamo a batterci con passione per un’altra storia, quella storia che l’intelligenza e la dignità dei cittadini lucani meritano.
La bonifica della vita pubblica è una esigenza prioritaria. Tutte le dottrine
dell’autoreferenzialità della politica, da Macchiavelli a Lenin, sono fallite proprio sul crinale della rappresentanza reale. La politica non può pretendere di
autogiustificarsi e di autoassolversi continuamente.
Dunque la parola decisiva è moralità. Chiaro?
Tra politica e morale non c’è nessuna terza via. La buona politica è esercizio di etica pubblica, ma anche di moralità privata. È in questo equilibrio, in
questa tensione produttiva che ci si riappropria della responsabilità collettiva, del rispetto reciproco e scambievole, del valore della cooperazione e
della solidarietà.
Ma non c’è politica senza progetto e senza confronto sui progetti, non c’è
politica senza visione. Ed ecco un’altra parola-chiave: programmazione.
Abbiamo alle spalle un tempo perduto che vale 15 lunghi anni di acedia
istituzionale. Un sonno dogmatico che spesso ha condizionato lo sviluppo dei territori. Che ha insidiato i cambiamenti importanti. Che
ha sfilacciato e rese innocue le vere idee strategiche. Che ha valorizzato comodamente la “spesa” a discapito della “resa” sociale, occupazionale, economica.
È stato davvero inutile in tutti questi anni, il nostro parlare, divenuto
quasi invisibile agli occhi di una politica sufficiente e distratta, abituata a
galleggiare soltanto dentro vuoti pneumatici e a rincorrere la rinuncia a
governare. Le dimissioni di De Filippo sono la pagina più triste e patologica
di questi anni di confusione istituzionale che ha lasciato in eredità mesi
d’irresponsabile vacatio istituzionale tanto sulle grandi questioni sociali
della Basilicata quanto sulla programmazione.
Per questo assumiamo positivamente il ripristino del Dipartimento Pro-
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grammazione come un segnale di ritrovata sensibilità. Un recupero funzionale della Programmazione che dovrà servire, innanzitutto, a riprendere quel
filo di governance, così bruscamente interrotto, che sa mettere insieme
fondi strutturali, risorse regionali e trasferimenti statali in una grande intuizione strategica di sviluppo.
A noi piacerebbe che quest’intuizione sia ispirata all’immagine della
Basilicata così come i suoi cittadini più attivi ed operosi la disegnano, con i
loro percorsi di vita reale e le loro ambizioni di crescita e di benessere.
Lo abbiamo detto mille volte. La Basilicata è una regione in parte ancora
sconosciuta. C’è un’ “altra regione” che sta in questi circuiti, oltre i confini
geopolitici, una “regione aperta” che si interseca con le cose da fare e sa
come farle.
Ragioniamo insieme di un programma strategico di fuoriuscita dalla recessione che, a fronte della realtà allarmante dei 26mila disoccupati, individui i
percorsi giusti per creare, per i prossimi tre anni, opportunità occupazionali
per molte migliaia di persone.
In questo intendimento ben preciso, vanno innanzitutto ripensati i Fondi
comunitari, in una logica corrispondente, trasversale e plurale. Il
burocratico allungamento dell’elenco della spesa non ci piace, perché non fa arrivare nulla di stabile e significativo al territorio.
La partita è tanto più importante perché nel periodo 2014-2020 avremo da
impegnare e investire circa 3 miliardi di euro. Se indirizzati in maniera rigorosa, efficace ed intelligente potranno creare tante opportunità interessanti,
a maggior ragione in tempi di una drammatica ed ingiusta contrazione di
risorse nazionali.
La responsabilità che ci sta dinnanzi è quella di non dissipare, di non
alimentare i mille rivoli per concentrare il valore delle risorse su progetti
organici, utili ad elevare gli indici di produttività della spesa, ad implementare modelli intelligenti di investimento, ad onorare la scala delle priorità.
In cima alla scala di questi strumenti rimane a garanzia delle nostre idee la
parola-bandiera del sindacato: il lavoro.
È la prima parola scritta nella nostra Costituzione ed è il primo assoluto
bisogno della nostra regione: lavoro e protezione sociale. Il lavoro che man-
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ca al pari di quello che si perde è la grande emergenza sociale dell’Italia e
con essa della Basilicata. Noi vogliamo che si mettano a sistema interventi e
strumenti disponibili, strutturando una moderna e dinamica Agenzia del Lavoro, con Centri per l’Impiego qualificati e potenziati da nuove competenze,
come quelle rivenienti, in parte, da Apofil e Ageforma.
Un’Agenzia del Lavoro capace di porre in essere finalmente e rapidamente interventi di politica attiva seri ed efficaci,
a) per affrontare il tema dell’assorbimento di gran parte del personale qualificato in mobilità ed intercettare parte di lavoratori ed indirizzarli verso
l’apprendistato o sulla formazione che riqualifica,
b)per potenziare la rete di offerta dei servizi di cura per le persone e per le
famiglie
c) per aiutare i figli nel prosieguo degli studi.
Ma non c’è tempo da perdere neppure sul fronte della formazione e dell’aggiornamento professionale: ci sono strutture da riconvertire, anche senza
attendere la pur urgente riforma della Legge n.33, con un occhio attento a
quanto si muove nella regolazione del mercato del lavoro, ai punti di ricaduta reali del tanto atteso Jobs Act del governo Renzi, all’annunciata revisione
del Titolo V della Costituzione ed alla conseguente riarticolazione dei poteri
locali, soprattutto a livello sovra comunale.
Occorre non mollare la presa sulla tenuta della coesione sociale, sulla
deprivazione e sulla povertà, sulla “messa in sicurezza” delle famiglie nei
confronti del rischio di disagio economico e occupazionale dilagante.
Il Censis ed il nostro Centro studi registrano un crollo “reale” del reddito
disponibile delle famiglie, dei consumi e del livello di ricchezza netta, insieme alla crescita dei dati della povertà assoluta e relativa. Sono numeri impietosi che esprimono l’entità e la profondità del baratro sociale che abbiamo
dinnanzi: un baratro tanto più impressionante se si considerano le previsioni
demografiche che annunciano una perdita secca di un quinto della nostra
popolazione nel decennio e al 2030 l’aumento di un terzo della popolazione
anziana o molto anziana. Ma così si scombinano le armonie tra generazioni.
Si produce il corto circuito della crisi strutturale.
È fin troppo chiaro, cari amici, come su questo campo aperto di emergen-
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ze e di crisi c’è tutta la nostra sfida. Una sfida che ha bisogno di coraggio,
un’altra parola del nostro alfabeto riformista. Il coraggio di decidere, di
scegliere, di valorizzare al meglio le risorse scarse, di tenere a freno il richiamo della foresta del consenso facile.
Lo abbiamo già scritto a chiare lettere lo scorso anno con CGIL e CISL nel
documento unitario sul Piano del Lavoro. È necessaria la logica plurifondo
e la concentrazione degli investimenti. È un errore mortale insistere nelle
logiche assessorili dei monofondi, care agli interessi precostituiti, che ci promettono solo frammentarietà e improduttività, oltre a vere e proprie perle di
bizzarria creativa.
Anche qui, abbiamo bisogno di una indicazione precisa delle localizzazioni prioritarie. Per noi sono le aree interne, le dorsali appenniniche, i centri storici a rischio di desertificazione e di instabilità.
Inoltre occorre selezionare un’opera pubblica significativa per ciascun
Comune, estendere le reti della banda larga alle scuole ed alle aree industriali-artigianali, colmare le deficienze infrastrutturali strategiche del territorio e delle sue aree interne e di confine.
Insomma dare valore ad un’altra parola che ci sta a cuore: territorio.
Riprendere in mano con più convinzione lo sviluppo delle vocazioni territoriali, sapendole relazionare in un nuovo e aggiornato quadro di sviluppo
regionale.
Sul tema dell’ambiente e della qualità ambientale del territorio ci siamo
sforzati di proporre nuovi strumenti di governo, come nel caso dell’istituzione di un’Agenzia agroforestale regionale.
Sgombriamo, però, subito il campo malizioso degli equivoci, partendo col dire ciò che non è. L’Agenzia agroforestale regionale non è un
nuovo ente strumentale. È innanzitutto un sistema integrato innovativo
per valorizzazione un patrimonio naturale tanto significativo da avere implicazioni produttive dirette anche sull’occupazione. E poi se stiamo alla nostra
missione di riscrittura delle parole, è lo strumento che può permettere il
recupero della dignità del lavoro ad una platea di persone contro cui il
liberismo del mercato si è accanito implacabilmente.
Sono le 1700 famiglie che in qualche modo hanno a che fare con
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l’agroforestale (bosco, sviluppo, occupazione). Anche per questo è necessaria una struttura tecnica di regolazione e di dinamizzazione per accrescere la
produttività degli interventi e ridurne l’impatto ambientale, una struttura che
potrebbe essere affiancato alla protezione civile, anche in vista di una ripensata strategia globale di messa in sicurezza del territorio.
Insistiamo sull’Agenzia agroforestale che moltiplichi il valore del territorio.
L’ambiente si difende con la raccolta differenziata. Davvero non deve
essere possibile pensare alla Basilicata verde che così tante volte ha suscitato l’attenzione della stampa nazionale ed europea?
Il nuovo modello di sviluppo da costruire per la Basilicata del tempo
nuovo deve fondare sempre di più, da un lato, sulla direttrice di quello che,
un po’ enfaticamente, fu chiamato, sul finire del secolo scorso, “territorio di
eccellenza”, dall’altro su una grande sfida che potremmo definire della “crescita intelligente”.
Intelligenza è la chiave strategica di tutte le attività produttive ed innovative,
ma è anche la sfida di gran lunga più difficile ed ambiziosa che abbiamo.
Tutto il mondo guarda al verde, all’ambiente, alle nanotecnologie, alla
green economy come ai luoghi nuovi dello sviluppo sostenibile. Processi
lunghi ed articolati per i quali bisognerà mettere sul piatto risorse significative. Noi l’abbiamo già proposto: si lavori ad un vero unico “polo tecnologico” regionale, operante in due-tre campi privilegiati, prescelti in coerenza
con la programmazione dello sviluppo regionale con Fiat, Barilla, Ferrero,
Natuzzi, con chi ci sta a “pensare in grande”!
Anche partendo da FCA di Melfi, sicuramente ancora una grande opportunità ed un punto fermo degli assetti produttivi regionali, anzi una sorta di
vettore strategico per intessere relazioni sovra regionali, poggiando su di
una rete possibile di scambio con gli altri ambiti regionali dove insistono
altre strutture produttive Fiat. Così solo si è credibili nel confronto con la
grande impresa, così solo è possibile mettere mano ad una vastità di
fenomeni nuovi: dall’auto all’idrogeno al cluster nazionale su ‘’Mezzi e sistemi per la mobilità di superficie terrestre e marina” ed ad un Contratto di rete
Automotive Italia.
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Tutto questo pezzo dell’automotive in Basilicata si può tradurre in una
ipotesi avanzata di distretto dell’auto? Mi chiedo e lo chiedo cosa sarebbe
la regione senza Fiat, cosa sarebbe il suo lavoro e la sua società, la sua
economia? La risposta sta già dentro la domanda. Sarebbe di certo non l’effetto aggiuntivo alle tante crisi, ma il colpo mortale ad un’economia regionale fiaccata e con poche prospettive di ripresa.
Sfidiamo e sfidiamoci, pensando in grande, anche coinvolgendo Fiat, ai
FABLAB di Obama, alla prototipazione, ai progetti d’innovazione. Con la
“comunità Arduino” - mi riferisco alla piattaforma open-source (made in
Italy) di prototipazione elettronica basata su hardware e software flessibili e
facili da usare - sono stati possibili programmi per connettere, a questo
hardware, computer, sensori, display attuatori. Dopo anni di sperimentazione,
è oggi possibile fruire di un database di informazioni vastissimo. Accade in
un intero comprensorio che al Nord è fertilizzato con un modello di produzione innovativa e molto decentrata.
Anche per questo guardiamo con curiosità ed interesse all’annuncio fatto
dal Presidente della Regione a proposito della creazione di un’Agenzia regionale dell’innovazione, che vada a sostituire le non proprio brillanti esperienze di Sviluppo Basilicata e Basilicata Innovazione e che sappia sollecitare ed accompagnare davvero l’intrapresa giovanile, le start up, la brevettazione
che ancora è così labile nella nostra Università dove il rinnovo del Rettore a cui vanno i nostri migliori auguri - apre nuove prospettive ed aspettative.
Tutte cose fattibili che sollecitano la mente e che devono stimolare i lucani,
quelli della generazione del portatile e delle architetture leggere.
E poi rafforziamo il sistema della “ricerca nella ricerca”: gemellaggi universitari, rafforzamento della piastra dei laboratori anche coinvolgendo le
strutture ospedaliere. Rafforzare le modalità di trasferimento tecnologico nel
settore della ricerca biomedica, un buon mescolarsi di aziende, università,
centri eccellenza e strutture di cura.
Il sistema sanitario regionale è in condizione di misurarsi in questa sfida e di
trarne grandi vantaggi. Più volte ne abbiamo messo in luce i punti di forza, ma
occorre quella svolta di sistema che è disegnata nella Legge n.4, che scommette decisamente sulla integrazione socio-sanitaria per riconsegnare centralità
alle persone che accedono ai servizi ed agli operatori che vi lavorano.
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La nostra è una Regione che, a differenza di altre realtà meridionali, ha
resistito al degrado, non è una regione perduta per chi vuole immaginarvi il proprio futuro. Anzi, la Basilicata deve seriamente puntare a favorire il rientro dei giovani che studiano e lavorano fuori. Tentare l’impresa
davvero esaltante di incentivare e guidare una “emigrazione di ritorno”, riprendere una buona parte dei suoi giovani laureati fuori regione che rafforzerà la competitività e l’innovazione delle imprese e della PA.
La nostra Regione è stata tra le prime in Italia a finanziare borse di studio
e master all’estero e a sorreggere una formazione postuniversitaria di qualità. Si potrebbe però fare di più: riservare canali di specializzazione con
strutture straniere ma con un inserimento programmato, un innesto di
dinamicità e di avanzamento tecnico-professionale nella realtà locale.
Ecco l’altro snodo. Ecco l’altra parola cruciale: i giovani.
Di nuove energie, e di energie di qualità, abbiamo bisogno come l’aria.
Ma di retorica generazionale ne abbiamo piene le scatole perché il
merito non ha età. Quei 40 milioni di euro che ogni anno le nostre famiglie mandano fuori regione per far laureare i figli non possono andare dissipati senza alcun vantaggio per la nostra comunità.
Non fosse altro che quel “difficile ritorno” dopo gli studi in Basilicata
ingenera un vero circolo vizioso, una causazione cumulativa, come la
chiamano gli esperti: meno talenti, meno ricerca e specializzazione, meno
imprese, meno produttività, meno reddito prodotto in loco.
La Regione sta caricandosi lodevolmente dell’onere di tenere in vita l’Università di Basilicata, ma non può limitarsi a staccare l’assegno coperto dalle
royalties. Essa ha il dovere di verificare se e in quale misura un tale investimento serve davvero ad allargare e qualificare l’offerta formativa del nostro
ateneo anziché ad alimentare anche le ben note dinamiche autoreferenziali
dell’accademia. Se l’intervento serve agli studenti lucani che aspettano ancora,
ad esempio, che il pur frequentatissimo corso di laurea in Economia Aziendale
diventi completamente percorribile con l’istituzione della specialistica, o serve, invece, a fabbricare cattedre e carriere in facoltà ormai senza iscritti.
Anche sul versante della scuola c’è moltissima preoccupazione. Il degrado
demografico si riversa drammaticamente sulle scuole, ormai presidi impor-
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tantissimi di civiltà, di legalità, di uguaglianza. Quante volte abbiamo ripetuto che non esistono investimenti più produttivi di quelli dedicati all’educazione ed al sapere. Quante volte abbiamo reclamato a gran voce il varo di
un piano integrativo regionale che contrasti la desertificazione educativa e
restituisca lavoro e dignità a migliaia di docenti precari e, visti i tristi primati
che vedono i nostri ragazzi all’ultimo posto nelle attività sportive e al primo
nella obesità, introduca l’educazione alla salute ed all’attività motoria.
Dire che è lì, nelle nostre scuole, il serbatoio delle nostre risorse, il nostro
vero petrolio può apparire un paradosso. Racchiude, invece, una verità
incontestabile.
Quanto al petrolio del nostro sottosuolo, croce e delizia della quotidiana
discussione pubblica in Basilicata, noi invochiamo maggiore chiarezza di
idee ed un sano realismo da parte di tutti.
Il petrolio è con ogni evidenza una questione che ne racchiude tante altre,
dall’autonomia del governo del territorio ai doveri della solidarietà nazionale,
dalla tutela dell’ambiente allo sviluppo della produzione industriale, dalla civiltà dell’economia tecnologica alla creazione di nuovo lavoro.
In Basilicata la questione è ormai posta su un piano inclinato. Eppure
con coraggio e responsabilità intendiamo riequilibrare questo piano inclinato, mettendoci trasparenza, concertazione comunitaria, sostenibilità e sviluppo economico ed occupazionale.
Come Uil, Cisl e Cgil assieme alle forze imprenditoriali e al Presidente
della Regione Marcello Pittella, l’abbiamo ripetuto a chiare lettere al governo
nazionale e alle compagnie petrolifere.
Finito il tempo della marginalità utile, la Basilicata ritrova voce unitaria e rivendica ciò che le appartiene più da vicino: il diritto al suo destino libero, consapevole, vantaggioso. Mai nessun accomodamento riuscirà a non farci porre e risolvere questioni fondamentali che ci farebbero essere una ‘Regione–Paese’ forte, nel Sud, in Italia, in Europa!
Ci fa soffrire e ci inquieta questo rapporto così difficile, di ostilità e di
sospetto, che la nostra terra intrattiene con la materia energetica.
Ma è così in tante parti del nostro Paese, dell’Europa, del mondo. Non ci
sono ricette risolutive se non un sapiente uso della virtù dell’equilibrio e del
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criterio della sostenibilità. Punto fermo, imprescindibile, è partire da quanto
già autorizzato, e poi esplorare con prudenza ed acume le potenzialità di
crescita in un settore che comunque è avaro di lavoro.
Sono tanti i temi inesplicati sul petrolio. Ci viene da pensare alla definizione di nuove linee produttive di sfruttamento in loco dei derivati, con
microinterventi nella “chimica fine” e dei nuovi materiali, delle bioplastiche,
del farmaceutico e del biosanitario. Immaginiamo un data-center meridionale, il gemello di quello avviato dall’ENI a Pavia un anno fa. Un potenziale
produttivo di questo pacchetto può arrivare a generare occupazione sino a
2000/3000 unità, senza prendere per buona la “promessa” dei 25mila posti
diffusa dal precedente manager Eni e dagli uomini di Assomineraria.
Ci chiediamo perché non riportare nei nostri canali locali più gas di quello
prodotto in loco. Tanto, troppo gas viene immesso nella circolazione nazionale. Poco, troppo poco nella rete locale dei nostri territori.
Ma soprattutto continuiamo a credere nella opportunità di sostenere la
ricerca e lo sviluppo di tecnologie per la produzione di energia geotermica
a bassa temperatura, sfruttando le perforazioni del petrolio e del gas naturale e sperimentando i metodi e le tecnologie più idonee allo sfruttamento del
giacimento termico alla profondità dei pozzi petroliferi di Basilicata. E ciò
per ricavare energia, pulita e costante nel tempo.
L’essenziale è che si lavori con discernimento ad individuare vantaggi
localizzativi e che, sul merito delle tematiche estrattive, si adotti il linguaggio
della chiarezza, rinunciando ad alimentare allarmismi, a scartare sulla demagogia, a cambiare di volta in volta la parte in commedia.
La battaglia orgogliosamente intrapresa dal Presidente Pittella per rompere le mura di Gerico del patto di stabilità per lo meno sull’impiego delle
royalties è un atto di determinazione nel quale ci riconosciamo tutti e nel
quale vediamo il punto di innesco di una ridefinizione del patto politico tra
Stato e Regione: una ridefinizione tanto più necessaria ed urgente, considerata la volontà del governo di rivedere l’impianto del Titolo V e di recuperare allo stato la piena potestà in materia di energia. Essa però richiede un’oculata
strategia a breve, medio e lungo termine, chiamando in causa prima di tutto
il Governo Renzi.
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Care delegate e cari delegati,
mi scuso con voi se, alla ricerca di un approccio nuovo alle grandi e gravi
questioni che sovrastano il presente e l’avvenire di questa regione e facendo
un po’ lo slalom tra le parole-chiave dei nostri ragionamenti ricorrenti, ho
abusato della vostra cortese attenzione, volutamente tralasciando alcuni aspetti
sociali, economici, produttivi, civili e culturali.
E mi rivolgo, con la considerazione e l’affetto che si deve ai compagni di
avventura, soprattutto a Nino e ad Alessandro – simboli di generazioni di
uomini - perché credo che la necessità di cogliere i segni del tempo nuovo
e di mettersi consapevolmente in discussione riguardi anche il sindacato e la
sua storia: una storia lunga e laboriosa, alternativamente giocata con successi ed insuccessi, ma sempre vissuta dentro le sfide del cambiamento.
Quella storia si è contratta e rimpicciolita quando è prevalsa la chiusura. È
stata, invece, una storia splendente quando ha incontrato in modo felice,
accattivante e arrembante la durezza dei sentimenti e delle condizioni esistenziali dei lavoratori, dalle mitiche lotte bracciantili sino alle battaglie nelle
fabbriche ed alle mobilitazioni per chi “il lavoro non ce l’ha”.
Siamo alle prese con una nuova era, quella delle società avare di lavoro.
Dobbiamo riconoscere che la cassetta dei nostri attrezzi è spesso inadatta a
fronteggiare le criticità cicliche del mondo della produzione. È una difficoltà, un senso di disorientamento, che leggiamo spesso negli occhi della gente. Ma è una difficoltà che possiamo superare solo se guardiamo e invitiamo
a guardare con gli “occhi della mente”, leggendo qualche libro in più,
vivendo più intensamente le sfide della modernità.
Mestiere tra i più difficili quello dei sindacalisti, chiamati oggi ad essere i
nuovi “modernisti”, a pensare cioè come quelli che nel Novecento diedero
vita ad un movimento capace di involgere ed influenzare l’arte, la cultura, il
governo, l’abitare i luoghi e le città.
Mestiere difficile, scommessa quasi temeraria. Ma o accade qualcosa del
genere o la storia che ci attende sarà una storia mediocre e i mediocri
come si sa distruggono sempre tutto ciò che è alla loro portata!
Mi pare che stiamo facendo insieme cose buone. Penso alle proposte per
la Garanzia Giovani YG e penso al Piano del lavoro. Ora dobbiamo prose-
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guire, assecondare il cambiamento, sfidare e sfidarsi. Fare sindacato con una
visione di governo, e cioè stare dentro una costruzione difficile quella che ci
diamo insieme alle altre parti per sfidare i problemi radicali del tempo d’oggi. Senza sconti verso noi stessi e gli altri.
Altra via non c’è, se non un rinchiudersi in false sicurezze o in una accigliata separatezza, arroccati nei segmenti sociali da privilegiare, ma destinati
inesorabilmente a finire nella periferia del mondo.
Vorrei parlare, con voi, a Filomena, a Beatrice – simboli di generazioni di
donne - ed a quei giovani che fanno il biglietto di sola andata, alle loro
famiglie, e dire loro di non dismettere la fiducia ragionevole che le cose
possano cambiare, e chiarire, mettere in ordine la confusione che c’è o che
viene profusa a piene mani. Cosa possono fare e cosa non si può fare. Chi
deve fare e che cosa fare insieme alle istituzioni che devono cambiare.
Ci sono crocevia decisivi. Non si sfugge dal non fare le Unioni dei comuni, poche che affrontino subito temi scottanti: la vita nei piccoli centri, la
scuola, l’obbrobrio delle pluriclassi. Impariamo a parlare a Filomena e Beatrice, a dir loro che ci sono gli altri come noi di cui avere fiducia e che l’ora
esatta è oltre il “muretto”. Dobbiamo scavalcare il muretto!
Dobbiamo avere la voglia di parlare alla gente, alle famiglie, agli anziani,
agli occhi vispi ed agli sguardi di futuro dei bambini. È il tempo di ricominciare a costruire la comunità altre i luoghi angusti e fare un’opera pubblica,
presto, in ogni Comune. Rifare l’immagine dei nostri centri storici, partecipare a mostrare queste nostre parti come un nuovo luogo privilegiato per un
nuovo turismo dei silenzi della pace e della spiritualità, quando c’è congestione, calura, ammassamento nei luoghi metropolitani, ci deve essere sempre un luogo dove sia possibile recuperare il vero valore del tempo. La
Basilicata!
Quando cambia, il sindacato lo fa veramente! Noi, nel nostro piccolo, lo
stiamo facendo. Con in testa la predisposizione di una organizzazione a rete
che fa respirare diverse, tante funzioni e servizi. Ci siamo sfidati sul terreno
della conoscenza, abbiamo costituito un Centro studi con poche risorse. Ma
in due anni quante idee e gratificanti iniziative! Quanta qualità di proposte!
Il senso di queste piccole esperienze è che si può fare, che anche dentro
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il nostro sindacato si può fare studio e ricerca militante.
Ora guardiamo avanti e ci prefiggiamo ulteriori cambiamenti, per introdurre innovazione ed intelligenza anche nell’organizzazione del nostro lavoro. Possiamo immaginare, anche per sorreggere il nuovo progetto che stiamo alimentando, una struttura per dipartimenti trasversali alle categorie, con
compiti interdisciplinari e con deleghe e forme che rassegniamo agli indirizzi del Congresso ed alle decisioni della segreteria che verrà. Dobbiamo favorire un meccanismo di crescita, contributo ed arricchimento delle politiche
regionali, una sorta di interfaccia nel sindacato dei dipartimenti regionali.
Penso che ora si possa aprire una nuova fase e chiamare all’arruolamento
dentro i dipartimenti le migliori energie che abbiamo evocato e fatto cimentare con il Centro studi. Quel collaudo, quell’esperimento non va disperso: è
un patrimonio che vogliamo far rimanere nella UIL ed al suo migliore servizio.
Ora però serve altro, un nuovo segno distintivo che non è più nelle nostre
mani. Saremmo presuntuosi e supponenti. Tante buone idee ed il nuovo
vocabolario della Regione non possono viaggiare soltanto dentro le formule
della UIL.
Noi ora faremo da incubatori di un’altra cosa, con una formula più libera,
più free. Avvertiamo l’esigenza di far nascere altro, con forze imprenditoriali,
sociali, culturali, di progettare nuove contaminazioni.
Faccio un appello a chi parteggia per aprire una nuova fase in questa
regione e a fortificare e diffondere la cultura del cambiamento perché sia
possibile fondare un nuovo soggetto, libero, per il sociale, per la ricerca e la
cultura riformista.
Il cambiamento, per favore ricordiamocelo, c’è se è alimentato da
una forte ed inequivocabile tensione morale. Senza, non è cambiamento.
Consegno a voi ed a quanti si potranno aggiungere questo nuovo originale ed ambizioso progetto una sorta di company, sottoscritta e sostenuta da
chi crede al futuro della regione. Una fondazione per la ricerca sociale ed
economica nel segno del lavoro e dell’impresa.
Questo io ho colto nella mia esperienza di questi anni, e ne rendo testi-
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monianza. Ho colto nella accelerazione dei cambiamenti e delle decisioni
nuove dei recenti congressi di categoria: è come una ricerca, un calarsi nella
drammaticità delle cose d’oggi. Forse anche mai viste dalle generazioni precedenti. Una ricerca di senso: chi siamo? E come vogliamo essere? Una continua esperienza di noi e degli altri, con tanto desiderio di capire e sapere.
Ho iniziato questo viaggio quattro anni fa. Splendido, faticoso ed esaltante. Condivido oggi con i compagni di viaggio ed i tanti amici vecchi e nuovi
lo sguardo nuovo di questo congresso, un colpo d’occhio impareggiabile e
bello. Tutto questo lo abbiamo fatto noi. Per primi abbraccio i segretari di
categoria che sono i miei capitani coraggiosi!
Ora siamo anche di più e con altri rinforzi. I giovani ed il patrimonio del
Centro studi, un formidabile laboratorio di pensiero nuovo, un’attività di
comunicazione-informazione che ci consente di essere adeguatamente presenti nei giornali, nei siti web e nei social media come nelle tv. Spero di
conservare le stesse energie fisiche che mi hanno portato fin qui e continuare con la squadra tutta a tratteggiare le immagini di un sogno e di un’opera.
Ma in tutto questo, noi dobbiamo essere sicuri di conservare la fiducia,
l’affidarsi agli uomini ed alle donne che animano questa bella organizzazione, storica e carica di umanità e sensibilità: è la fiducia in noi stessi nella
società, in questa società.
Perché, anche quando lo Stato, la sfera delle istituzioni si rattrappisce, ci
siamo noi e con noi ci sono i cittadini e le comunità delle genti buone e
migliori. E preservare la vitalità e la bellezza di questa comunità è il nostro
dovere primario, l’impegno di fedeltà e di ottimismo al quale non verremo
mai meno, perché come scrive Dietrich Bonhoeffer:
L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là
della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza
di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza
di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai
il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé.
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