“Lezioni di Piano” di Jane Campion Analisi tratta dal libro “La vita come opera d’arte e la vita come dono spiegata in 41 film” di Antonio Mercurio “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura chè la diretta via era smarrita. Ah quanto a dir qual’era, è cosa dura…” Così dice Dante, all’inizio del suo poema. Così dice Jane Campion parlando della protagonista del suo film, Ada Mc Grath, impantanata nel fango e nella foresta della Nuova Zelanda. “Domina il silenzio, là dove non è mai stato suono. Domina il silenzio, là dove non può esservi suono nella fredda tomba nel fondo del mare profondo”. Questi sono versi del poeta Thomas Hood, che Ada recita, con voce fuori campo, a chiusura del film. A mio avviso questi versi parlano della vita intrauterina, lì dove domina il silenzio, perché il feto non può parlare, lì dove domina il mare e la foresta è dentro il mare, e l’una e l’altro sono un simbolo della placenta e del liquido amniotico che avvinghia il feto in un destino di vita o in un destino di morte. Dice ancora Ada, nell’ultima scena: “Di notte penso al mio pianoforte nella sua tomba sul fondo dell’oceano, e a volte a me stessa nell’acqua sopra di esso. Laggiù tutto è immobile e silente, e mi culla piano piano. E’ una strana ninna nanna. Ma è così, ed è mia”. Sul fondo dell’oceano, il pianoforte non può più parlare ma può ancora cullare Ada. Non emette suoni ma può cullare, con una strana ninna nanna: è la ninna nanna del mare, è la ninna nanna del liquido fetale, il nostro primo mare. Com’è difficile abbandonare questo mare, questo mare da dove viene la vita primordiale, questo mare che può diventare “una fredda tomba” per chi, come l’uomo, deve mettere le ali e deve abbandonare il mare per imparare a volare al di fuori del mare. Che sfida tremenda la vita ha posto all’uomo: egli deve lasciare la culla, egli deve lasciare l’utero, il mare che gli ha dato la vita, se non vuole che la culla diventi una bara mortale. Tutto il film è racchiuso in questa cifra: Quello che è vita, può trasformarsi in morte, se non lo abbandoniamo, al momento giusto, per nascere di nuovo, per nascere a una nuova vita. Così fa Dante, così fa Ada, così tocca fare anche a noi, se non vogliamo continuare a far parte della schiera immensa dei “non nati”. Non lasciatevi fuorviare, questo film non è una storia d’amore e d’erotismo. E’ una storia d’amore per la vita, quella che non abbiamo ancora vissuto, perché ancora non abbiamo deciso di nascere. Stewart, il marito di Ada, è attaccato alla terra. Ada è attaccata al mare. La terra e il mare sono simboli materni, sono simboli di vita fetale. Ma esiste anche George, l’amante di Ada, che rinuncia alla terra, in cambio di un piano, e il mare lo sa solcare con la forza possente delle pagaie dei Maori. Ecco qualcuno che vuole nascere davvero e usa la seduzione e l’eros non per una passione fatale ma per la passione per la vita, la vita che nasce dalla morte, non quella che nasce dalla terra e dal mare, ma quella che nasce dalla morte di ciò che sei, fino a quel momento, per scoprire e creare quello che ancora non sei e sei chiamato ad essere se dici di sì ad una seconda nascita. Ada è muta dall’età di sei anni e non si sa perché. Ma Ada sa suonare e può sentire il suono che esce dal suo pianoforte. Non lo suona per comunicare con gli altri ma per comunicare con se stessa, chiusa com’è nel suo mondo interiore, il mondo esclusivo dell’Io fetale, con il suo positivo e il suo negativo, Io che non comunica con nessuno ma solo con se stesso e con la vita che pulsa profonda, dentro di lui. Quali suoni magici, e questo è il positivo, emetteva questa vita e come faceva il feto a percepirli e a farne il suo nutrimento, più importante del nutrimento stesso che accellerava lo sviluppo della sua vita biologica? Rivedo la scena del pianoforte, piantato sulla spiaggia, dinanzi alla distesa sconfinata del mare e mi vengono pensieri contrastanti. Penso al verso che dice: “mi illumino d’immenso” e penso all’orgogliosa solitudine dell’Io fetale che domina sull’universo. L’Io fetale è l’assoluto che si nutre di assoluto, in assoluta solitudine. Il “mi illumino d’immenso” muta di segno e diventa “mi inebrio di me stesso”, mi inebrio del vuoto abissale del mio Io. Il suono del pianoforte diventa il suono ammaliatore dell’onnipotenza del feto, e questo è il negativo. Rivedo la scena di Ada che suona appassionatamente dinanzi alla vastità dell’oceano, mentre Flora, la figlia, modella sulla sabbia un cavalluccio marino; George passeggia sulla battigia, tra la terra e il mare, immerso in pensieri profondi. Il cavalluccio marino è un’artistica creatura che ha modellato la sua forma, simile alla chiave musicale di uno spartito, mentre ascoltava la musica degli abissi. Così Ada, mentre suona, modella se stessa e non sa ancora quale forma assumerà. Quel che conta è che resti fedele alla sua musica interiore. Ogni giorno saprà qual è la partitura da suonare. Chi è Flora? E’ la bambina che Ada porta dentro, con le sue contraddizioni e con le sue ambivalenze rispetto alla decisione se uscire o non uscire dal rapporto simbiotico con l’utero materno. Flora mente spudoratamente ma ammette che ha mentito. Fa la spia, per vendicarsi della madre che ha rotto la sua simbiosi con lei, e piange disperatamente, quando assiste impotente alla barbara violenza del padre che, con l’ascia in mano, si avventa addosso alla madre per tagliarle un dito. Ma Flora, porta pure le ali, sulla scena e fuori della scena, e quando non porta le ali piroetta e fa capriole come se volasse. Nascere o non nascere? Restare abbarbicata all’utero della madre, all’utero della terra e del mare, o mettere le ali e volare via lontano? Lontano dal fango e lontano dalla foresta che è cupa, profonda, ed ha mille tentacoli, che ti avviluppano e ti impediscono di volare. La foresta, che è come zia Morsag, la matriarca che domina su tutti: sul nipote Steward che non è mai cresciuto e non è mai diventato uomo; sulla figlia Nessie, la grassona che ripete come una stupida le ultime parole della madre; sul missionario che, sulla scena, impersona Barbablù nell’atto di uccidere l’ultima moglie che ha scoperto il tragico destino di quelle precedenti. Meno male che ci sono i Maori i quali, credendo che l’eccidio fosse vero, irrompono sulla scena e mandano all’aria la recita. Il reverendo, non aveva nulla di meglio da far rappresentare, in piena foresta della Nuova Zelanda, che la sciagurata storia di Barbablù? Zia Morsag è Barbablù, è la madre divorante. Barbablù è colui che non si è mai staccato dalla madre e ama le donne solo per ucciderle. Stewart, il nipote, assiste alla rappresentazione e da lì a poco sarà lui a usare l’ascia contro la moglie. Steward, il quale, per amore della terra, ha già barattato con George, il piano forte, la cosa più preziosa che aveva la moglie, in cambio di un pezzo di terra. Per Steward la terra ha un valore e Ada non ne ha o ne ha uno secondario. Per George, Ada è un valore e, per averla, escogita un piano. Prima si impadronisce, cedendo la sua terra, del pianoforte di Ada, poi chiede ad Ada di dargli lezioni di piano e poi, piano piano, la stringe d’assedio, attacca la fortezza entro cui Ada si è barricata e la smonta, pezzo per pezzo, bastione dopo bastione, fino alla resa totale, fino all’abbandono totale, dove l’Eros ha la sua parte ma l’amore ha la parte migliore, la parte vincente. Alla fine, George avrà il cuore di Ada e non solo il suo corpo. Il corpo si può comprare e barattare, ma il cuore no, quello bisogna saperselo conquistare. Ora Ada ha preso la sua forma definitiva. Ada vuole essere una donna che sa amare un uomo e non più una bambina, chiusa nel suo mondo, chiusa nell’utero materno. Per prendere quasta decisione totale, il passaggio più difficile deve ancora maturare. Sulla barca con George, che la sta portando lontano da Steward, ci sta anche il pianoforte di Ada e Ada, all’improvviso, decide che non lo vuole più e chiede a George ch elo butti in mare. Incredulo, George esita ma Ada insiste con tutte le sue forze e lui esegue la sua volontà. Nel momento in cui il piano sprofonda dentro il mare, con tutte le funi con cui lo avevano legato alla barca, Ada, incautamente, mette un piede dentro una fune e la fune, srotolandosi velocemente, imprigiona il piede e trascina di colpo Ada negli abissi del mare. I Maori si tuffano per salvarla ma Ada, trascinata dal peso del pianoforte, si inabissa più veloce di loro. E’ il momento della scelta finale. Ada aveva ragione di volersi disfare del pianoforte. Quel che era stato prezioso e vitale, fino a quel momento, ora non lo era più. Ora rischiava di diventare una tomba. Era stato importante comunicare con la musica degli abissi della vita primordiale, ma ora bisognava lasciare il posto a una musica nuova. Era stato importante far parlare il piano mentre lei restava muta. Ora deve tacere il piano e Ada deve ritrovare la sua voce, perduta a sei anni, e ricominciare a parlare con la sua voce di donna che è diventata adulta; di donna che, finalmente, è nata ed è uscita dall’utero, per sempre. Bisogna vincere l’attrazione fatale dell’utero primordiale. Da lì viene la vita ma da lì viene anche la morte, se non si abbandona in tempo. In un attimo, Ada si scuote, capisce che sta andando verso la morte; con uno strattone si libera della scarpa, a cui è avvinghiata la fune, e torna su a galla, accolta dalle braccia vigorose dei Maori. “Che morte! Che occasione! Che sorpresa! Il mio volere ha scelto la vita? Eppure ho preso un grande spavento, e molti altri con me”. Così recita una voce fuori campo, ed è la voce di Ada, che racconta di sé e della sua seconda nascita.
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