digital magazine | luglio-agosto 2014 | n. 117-8 slowdive Punti di (ri)partenza sommario articoli – p. 4 SOHN Fire + Ice Antlers Spartiti The Drones The Jay Llamas Noise Trade Company Aphex Twin I migliori dischi rock ‘90 Viajeros Cósmicos Skiantos Slowdive recensioni – p. 98 rubriche – p. 158 #117-8 luglio-agosto Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Andrea Murgia, Andrea Napoli, Stefano Pifferi, Marco De Baptistis, Andrea Macrì, Diego Ballani, Stefano Gaz, Tommaso Iannini, Nino Ciglio, Giulio Pasquali, Federico Pevere, Stefano Solventi, Lorenzo Costa, Elia Galli, Riccardo Zagaglia, Marco Braggion, Alessandro Pogliani, Alessandro Liccardo, Marco Frattaruolo, Stefano De Stefano, Edoardo Bridda, Christian Panzano, Giulia Antelli, Sebastian Procaccini, Marco Boscolo, Teresa Greco, Enrica Selvini, Daniele Rigoli Copertina Slowdive Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare. Il musicista e producer inglese si racconta in una interessante intervista. Il processo creativo, i progetti futuri e l’approccio al live show Testo di Andrea Murgia © A. Troubridge SOHN Electromagnetic Tempest Autore di uno dei dischi più attesi e controversi di questo 2014, Christopher Taylor in arte SOHN ha accettato di scambiare qualche parola con noi. Una bella chiacchierata, in cui ci ha raccontato le motivazioni del suo trasferimento in Austria, come è nato Tremors e come si evolvono le tracce in sala di registrazione. SOHN, che ricordiamo suonerà ad agosto all’Ypsigrock Festival e a ottobre a Roma e a Milano, ha risposto garbatamente a tutte le nostre domande, sbottonandosi su progetti futuri e ascolti personali. Sei andato via da Londra in un momento molto particolare, quando cioè la scena elettronica e nu-soul inglese stava definitivamente esplodendo, per andare a cercare rifugio tra le Alpi e gli eleganti edifici di Vienna. Una scelta coraggiosa. Cosa hai trovato in Austria e cosa stavi realmente cercando? Penso di aver trovato quello di cui avevo bisogno, ovvero pace. Vienna è una città tranquilla, qualche volta anche in maniera spaventosa, e credo che lo stato d’animo di questa città si sia sposato perfettamente con la parte di me che ha dato vita a SOHN. 4 Dopo il tuo EP di esordio (The Wheel EP) c’erano molte aspettative per il tuo primo album sulla lunga distanza. Come sei riuscito a gestire la pressione creata da questa situazione? Principalmente credo di non aver sentito tanto la pressione. Almeno, non ero consapevole come tutti gli altri. La mia unica pressione era che avrei voluto finire il disco entro la fine dello scorso anno. Sapevo che se non ci fossi riuscito, avrei perso un importante finestra per pubblicare il mio disco. Tremors è raffinato e allo stesso tempo irregolare, e nonostante un cantato lineare e non proprio tecnico, dimostra che il tuo stile canoro si sposa perfettamente con i beats che produci. Sei a tuo agio con una vasta gamma di ritmi e ti muovi agilmente tra poliritmie e breakbeats: come funziona il tuo processo creativo? Puoi raccontarci qualcosa delle recording sessions? Beh, comincio con dei motivetti musicali. Molto spesso mi vengono in testa così all’improvviso e li canto e registro sul mio telefono. Credo che il 70% delle volte la linea vocale registrata si trasformi in una melodia complementare, registrata anche questa sul telefono. Questo significa che anche nelle fasi iniziali del processo compositivo ho un’idea chiara delle melodie e delle strutture ritmiche che poi costruirò attorno alla linea vocale. Se dopo una settimana trovo ancora l’idea e la registrazione valide e interessanti, vado in studio e ci suono sopra. Sembra proprio che Tremors sia influenzato dalle atmosfere del Paese che ti sta ospitando, e solo Artefice, con il suo sound metropolitano, sembra condizionato dal tuo Paese natale. C’è un passaggio in cui dici: :“Is it over? Did it end while I was gone? ‘Cause my shoulders They couldn’t hold that weight for long and it all just feels the same”. Sembra quasi che tu stia ammettendo di essere una sorta di guida per le nuove generzioni di musicisti inglesi. Come la vivi? Interessante… Non sono proprio sicuro di quello che significhi – molte volte i testi e le parole escono di getto e il loro significato acquista consistenza a volte dopo giorni, a volte dopo mesi. Credo che spesso i miei testi siano già “settati” nel futuro, nel mio future, intendo. Acquistano significato solo sei mesi dopo, quando mi guardo indietro. Quest’anno suonerai anche in Italia. Se non ricordo male è una delle tue prime volte nel nostro Paese. Come approcci il set live? In realtà sarà la mia seconda volta nel vostro Paese; infatti ho suonato a Torino qualche mese fa… Il live show ora è ben delineato; con la band abbiamo suonato circa 50 concerti e ne ho confermati circa 65 fino al 2015. È un live set con sintetizzatori, belle luci e tanta emozione. Recentemente Giorgio Moroder è tornado alla ribalta con i Daft Punk in Random Access Memories e ha ripreso con ospitate in dj-set e live show. Segui un po’ la nostra scena elettronica e conosci musicisti o produttori del nostro Paese? Giorgio! Non sono al corrente di quello che sta succedendo dalle vostre parti sinceramente, ma sto per rientrare nel mondo della esplorazione musicale. La voglia di ascoltare nuova musica va e viene… Cosa stai ascoltando in questo momento e in che modo quello che ascolti ti influenza nella scrittura? Ascolto molto Wild Beasts, Dream Koala, The Knife e East India Youth. Credo che vedremo molto presto quanto mi hanno influenzato! 5 Tra il 27 giugno e il 9 luglio, “Fire + Ice” realizzerà undici concerti in dieci paesi europei con un’unica e rara line-up, formata da Ian Read, Michael Moynihan, Annabel Lee e Robert Ferbrache. L'occasione giusta per raccontarvi la loro storia e proporvi un'inedita intervista Testo di Marco De Baptistis Fire + Ice Intervista Il 27 luglio i Fire + Ice daranno inizio al loro The Fractured Europe Tour facendo tappa proprio in Italia, a Genova, nella Chiesa Anglicana (Anglican Church of the Holy Ghost) di Piazza Marsala. A causa della peculiarità della location i posti disponibili saranno soltanto 100. Per l’occasione, vi raccontiamo la storia del progetto neofolk di Ian Read, corredata da un’intervista inedita all’artista inglese. Ian Read non è solo un pilastro del genere, ma 6 soprattutto un vero Galdr che segue la via di Odino. Sin da adolescente si avvicina allo studio della mitologia norrena e delle antiche tradizioni nordeuropee. Alla fine degli anni Ottanta Read inizia a collaborare con band come Current 93 (in Swastikas for Noddy) e nei primissimi dischi dei Sol Invictus (Against The Modern World, In The Jaws Of The Serpent, Lex Talionis, etc), partecipando anche alla scrittura dei testi. Dopo un periodo di studio trascorso in Germania, Ian Read torna in Inghilterra, dove darà vita a un suo progetto musicale sotto il nome di Fire + Ice. Nel 1992 darà alle stampe Gilded by the Sun: il disco è formato da immancabili canzoni apocalittiche e senza tempo, memori della lezione dei Death In June. Il disco contiene brani come Long Lankin e Blood of the Snow, quest’ultima una delle più famose canzoni di Read, nonché classico immortale del genere. Tra i suoi dischi più importanti, dopo le ballate dark folk di album come Midwinter Fires e Hollow Ways, è d’obbligo segnalare Rûna, recentemente ristampato in vinile da Autre Que per la gioia degli appassionati. Tra evocative tastiere e cupe percussioni marziali, il disco costituisce un viaggio in una sorta di etereo e minimale folk-post industriale. L’opera è consacrata alla mitologia norrena e alla mistica delle rune di cui Read è un profondo conoscitore, essendo anche Maestro della Gilda della Runa. Weirdstaves: Fyrstr Aettir / Annar Aettir / Þriði Aettir è una lunga composizione di quindici minuti, divisa in tre parti e presente in Rûna, e può essere considerata l’emblema essenziale della ricerca spirituale e musicale di Read. Dopo Birdking, disco realizzato nel 2000 con la partecipazione di Michael Moynihan e Annabel Lee ed un bellissimo split 7″ con i Death In June, nel 2012 Ian Read torna finalmente con un nuovo disco, ovvero Fractured Man. Anche qui siamo in presenza di un dark-folk con una personale vena cantautorale. E’ un lavoro che riassume ed affina il percorso artistico del musicista inglese. Read non mancherà di collaborare anche questa volta con Douglas Pearce nel brano di esordio (Fractured Man) e nel brano finale del disco (Fractured Again), a suggello dell’amicizia fraterna tra i due. Essenziale l’apporto di Michael Moynihan alle percussioni e Annabel Lee al violino che, assieme a Robert Ferbrache, accompagneranno Ian Read anche nel tour europeo: una scelta quasi d’obbligo dopo l’ottima performance al Stella Natura Festival in California del 22 settembre 2013. Il progetto Knotwork (Michael Moynihan, Annabel Lee and Robert Ferbrache) formato dai musicisti che suoneranno assieme a Ian Read durante il tour europeo, aprirà i concerti di Fire + Ice con ballate tratte dalla tradizione folk britannica e irlandese. Tutti e tre i musicisti provengono dal famoso progetto martial neofolk Blood Axis che, oltre a pietre miliari del genere come The Gospel Of Inhumanity, hanno realizzato anche uno storico ed imprescindibile disco live Blót: Sacrifice In Sweden realizzato il 15 novembre del 1997 a Skylten, Linköping, durante il decimo anniversario della label svedese di musica industrial, Cold Meat Industry. La data genovese sarà aperta dal gruppo ligure Tears Of Othila, alfieri di un folk che si pone nel segno della tradizione, disegnando un paesaggio melanconico intriso di rune, boschi incantati ed elementi provenienti dalla tradizione pagana, celtica e mediterranea. Qui di seguito, pubblichiamo nove domande (il numero non è casuale per chi ha familiarità con la mitologia nordica) a Ian Read: Quando hai iniziato a sviluppare il tuo interesse per le rune, il paganesimo e la mitologia norrena? Sono cresciuto in un mondo che aveva più anima, con meno distrazioni e vanità. Ho iniziato ad interessarmi a queste cose quando ero ancora molto giovane. Il mio interesse ed il mio coinvolgimento è diventato molto più serio una volta compiuto il mio giuramento a colui che con un occhio cieco vede tutto [Odino, ndSA]. Oggi, molti giovani sono affascinati dal paganesimo e dalla ricerca delle proprie radici: cosa ne pensi? Credo che solo una minoranza d’individui abbia ancora una scintilla che può portarli a cercare 7 qualcosa di più. I più saggi tra loro, in verità, sono alla ricerca di qualcosa che gravita attorno a ciò che già sono. Ciò deve essere, per molti versi, appagante. Che cosa significa il nome Fire + Ice? Una possibile risposta potrebbe essere che il nome rappresenta due estremi tra i quali muoversi alla ricerca del necessario equilibrio. Rûna è il tuo capolavoro ed è stato ristampato di recente. Perché quest’album è così importante per te? Perché una cintura nera è importante per un artista marziale o il conseguimento di un dottorato di ricerca è fondamentale per uno studioso? Come hai conosciuto Douglas Pearce, Tony Wakeford e David Tibet? Oggi, quali sono i tuoi rapporti con loro? Douglas e Tibet li ho incontrati ad una festa a casa di Freya Aswynn, nel nord di Londra. Tony l’ho incontrato un po’ più tardi, tramite loro. Douglas ed io siamo ancora molto amici e mi sono esibito spesso in concerto con i DiJ nel corso degli anni. Raccontaci qualcosa della tua collaborazione con Michael Moynihan, Annabel Lee e Robert Ferbrache. Sei un estimatore dei lavori dei Blood Axis? Sono tre amici, mi piace molto la loro compagnia e stimo tutti i loro lavori. Questa line-up per il nostro tour è una rara opportunità, per noi come band e anche, ovviamente, per il nostro pubblico. Teoricamente, si potrebbe lavorare con qualsiasi gruppo di musicisti competenti ma lavorare con persone degne e fidate, con cui si sta bene assieme, è un po’ la ciliegina sulla torta. Che cosa pensi dell’attuale scena musicale neofolk? Non è un segreto che io abbia poco interesse per la maggior parte delle band “neofolk”, perché ritengo che la loro musica sia meno interessante rispetto a quella dei veri gruppi folk; inoltre, le credenze rivendicate nei loro lavori, molto 8 spesso, sono solo affettazioni. Credo che oggi il termine neofolk abbracci così tanti stili diversi che la parola abbia perso un po’ del suo significato originario. Qual è il tema principale del tuo ultimo album? Chi è oggi un fractured man e come riconoscerlo? Tutti i miei album contengono elementi della mia comprensione di qualcosa che non può essere spiegato. La canzone Fractured Man, in questo senso, vale sempre la pena di essere riascoltata. Che tipo di futuro immagini per l’Europa e per i suoi popoli? Hai chiamato il tuo tour “The Fractured Europe Tour”: puoi dirci quali fratture affliggono l’Europa e il resto dell’Occidente? A meno che, dopo una fase d’incertezza ed oscurità, più anime degne non abbraccino la ricerca di qualcos’altro, penso proprio che il futuro sarà davvero triste. Trovare e aiutare queste persone fa parte della Grande Opera ed è il lavoro della mia vita. A pochi giorni dalla release ufficiale di "Familiars", abbiamo incontrato il frontman degli Antlers, per uno scambio di battute che ha toccato passato e presente della band, motivi, scelte e retroscena del nuovo disco. Testo di Nino Ciglio Antlers L’importanza di essere inclusivi. Peter Silberman e i suoi Antlers sono una band da ritmi estremamente distesi. Malgrado i due EP che hanno rappresentato il seguito di Burst Apart del 2011, la band newyorkese ha preso l’andamento lento dei maestri artigiani nel limare il dettaglio, abbellire, decorare, sublimare, nel concepire nuovo materiale su formato lungo. Familiars è arrivato con un singolo di grande impatto (Palace) e una manciata di canzoni che – come spesso accade alla band di Silberman – mette a fuoco l’emozionalità, i turbamenti dell’anima, i flussi psichici come fonte primaria. Come era successo in quel lontano 2009 che – un po’ a sorpresa – li aveva consacrati nell’Olimpo dell’indie con Hospice, anche Familiars ha una gestazione lunga e, per certi versi, dolorosa. Ma, come scopriremo chiacchierando con Silberman, il processo di pacificazione che soggiace al disco è decisivo già nel momento dell’ideazione e non solo in quello catartico della 9 performance. A pochi giorni dalla release ufficiale di Familiars (7 giugno 2014), abbiamo incontrato il frontman degli Antlers, in uno scambio che ha toccato passato e presente della band, motivi, scelte e retroscena del nuovo disco. Qual è stato il cambiamento più significativo dal 2012 di Undersea a Familiars? Il cambiamento più grande è stato un cambiamento di ritmo. Il nostro tour si era esaurito e io sono tornato alla mia solita vita a Brooklyn per il periodo più lungo da prima di andare in giro nel 2009. Passare da una vita da tour a una vita da casa può essere disorientante. Ho dovuto lavorare per sviluppare qualche tipo di compattezza, per sistemare il tutto. Hospice era stato ispirato da due anni in isolamento a Brooklyn. Qual è l’ispirazione che sta dietro a Familiars? L’isolamento a cui ti riferisci non è relativo a un posto specifico, come se avessi vissuto in una grotta. Familiars è stato ispirato da moltissime cose, forse troppe per citarne solo una. Ma è stato anche condizionato da alcuni stati mentali, molti dei quali rientrano sotto “l’ombrello” del crescere. Quanto tempo ci è voluto per scrivere e registrare Familiars? Com’è andato il processo di scrittura e di registrazione? Ci sono stati momenti complicati? Questa volta ci è voluto un po’ più del solito, avendo lavorato quasi tutti i giorni per un anno. Poiché si è dispiegato per così tanto tempo, il processo di scrittura non è stato mai a senso unico. In alcuni periodi è stato molto arduo, in altri molto naturale e facile. È dipeso dallo stato d’animo di ognuno di noi, ogni giorno. Familiars ha un sound e una scrittura molto intima e introspettiva, anche di più rispetto ai precedenti lavori. È questa la direzione che volete intraprendere o è un fattore isolato dipeso da un particolare stato d’animo? 10 A volte la scrittura vuole catturare un determinato stato d’animo di un determinato momento, come un’esclamazione non filtrata di ciò che sento in quel momento. Altre volte, è una meditazione di un sentimento complicato che ho e che provo a risolvere. In un certo senso, questo è un disco sul fare pace con se stessi, ma che spesso richiede di comprendere la guerra che già si combatte. Avete autoprodotto il disco. Non sentite mai il bisogno di un ascoltatore esterno? Ci ho pensato spesso, ma le nostre produzioni sono così legate al nostro processo di scrittura, che sarebbe arduo portare un produttore esterno senza che lui stesso sia un membro della band. Com’è stato il vostro rapporto con Chris Coady, che ha mixato Familiars? Chris è magnifico. È stato una voce della ragione per noi, dal momento che abbiamo lavorato sul disco per troppo tempo per avere una buona prospettiva. E Darby e Michael? Beh, noi tre funzioniamo come se avessimo sempre una sorta di conversazione non verbale. Sentite Familiars come la naturale evoluzione del vostro sound o avete forzato un po’ la mano per farlo funzionare? Probabilmente entrambe le cose. Abbiamo seguito il nostro intuito durante il processo di realizzazione, ma spesso l’intuizione ci ha indirizzato verso tecniche che abbiamo dovuto esercitare, per farle funzionare. Abbiamo tutti un background jazz ed è stato naturale portare questo elemento nel disco, ma per farlo suonare nel modo in cui volevamo, abbiamo dovuto sviluppare maggiormente le nostre capacità di musicisti. Pensi che Hospice vi abbia fatto rivalutare o rivedere le prospettive e le ambizioni della vostra carriera? Vi aspettavate tutta questa pressione su di voi? Hospice ha cambiato tutto. La reazione a quel disco ci ha aperto un intero universo. La mia ambizione per questo progetto era abbastanza bassa, comparata a quello che siamo riusciti a fare dal 2009. Quel disco mi ha fatto riposizionare le traiettorie e gli obiettivi come musicista. Non mi sono mai aspettato di avere pressioni esterne su di noi; semmai, l’unica pressione a cui vale la pena dedicare attenzione, è quella che metti tu su te stesso. È l’unica che puoi controllare. La pressione delle critiche o del pubblico è una cosa reale, ma da cui devo provare a mantenere le distanze. Non è mia responsabilità soddisfare le idee che qualcuno ha su come io debba fare musica. Guardando il vostro percorso finora, quale fra Hospice e Burst Apart riflette meglio l’idea di musica che vi ha portato a concepire Familiars? Credo che entrambi i dischi siano nel DNA di Familiars, ma credo anche che contemporaneamente l’album abbia un’identità propria. Non ascolto i nostri vecchi dischi mentre lavoriamo ai nuovi, per cui qualsiasi somiglianza si possa trovare nell’ultimo è probabilmente dovuta al fatto che è suonato dalle stesse persone che hanno suonato i dischi precedenti. Ci sono canzoni preferite o storie legate ad esse di cui puoi o vuoi parlarci? L’estate scorsa ho passato una giornata guidando da solo verso la costa della California centrale, fermandomi in un motel a Big Sur. Verso mezzanotte, ho deciso di allontanarmi per un po’ dal motel ed esplorare il litorale fra le tenebre. Ho guidato un po’ e portato la macchina nel mezzo di una piana con un forte vento e una nebbia terribile. Per qualche momento, tutto era in silenzio ed ero convinto di essere l’ultima persona viva sulla faccia della Terra. E poi ho sentito un suono terrificante: tipo la risata di un branco di predatori. Non potrei dire se erano lontani o vicini, ma sembravano a caccia. Sono tornato in macchina, rientrato nel motel e ho scritto la maggior parte delle parole di Doppelgänger prima di dormire. Palace, Hotel, Refuge… è tutto così inclusivo in Familiars. Sembra che ci si proietti all’interno per fuggire da un esterno che fa paura. È così? Fantastico che tu ci abbia trovato questa cosa. L’”inclusività” è importante. Ho sempre scritto cose che volevano pianificare una distanza fra me e l’ascoltatore. E sono sempre uscito da questo processo sentendomi egoista. Questa volta, però, ero più interessato all’aspetto pacifico. Molti problemi della nostra vita ottengono una risposta dal conflitto, e spesso le battaglie che abbiamo con gli altri sono semplici proiezioni di battaglie che abbiamo con noi stessi. Se riesci a creare un senso di pace e sicurezza con te stesso, dovrebbe essere naturale diffonderlo agli altri attorno a te. Questa è la mia speranza. Il soul, Jeff Buckley, l’ambient, le ballate… la tua voce sembra sempre migliorare. Hai trovato qualche nuova ispirazione negli ultimi anni? Grazie! Ultimamente le mie voci preferite sono state Nina Simone, Leonard Cohen, Desmond Dekker, Al Green, Otis Redding e tanti altri… Amo i cantanti che lasciano che il loro cuore parli attraverso la loro voce. Quali sono le vostre aspettative per Familiars? Non posso prevedere il futuro. Spero solo che le persone riescano a trarre dal disco ciò di cui hanno bisogno. Per quanto mi riguarda, concepire il disco mi ha aiutato a diventare più compassionevole verso i miei amici e verso me stesso. Spero che possa succedere altrettanto anche a chi lo ascolta. Correggimi se sbaglio, ma non siete mai venuti in Italia, giusto? Mai! Speriamo disperatamente di rimediare! 11 “Spartiti” è, soprattutto, la storia di Max Collini (Offlaga Disco Pax) e Jukka Reverberi (Giardini di Mirò, Crimea X). E’ il racconto della loro amicizia e dell’immaginario unico che sanno ricreare. Testo di Federico Pevere Spartiti il desiderio di essere come l’Emilia 12 “Spartiti” è la storia di tanti incontri, “sopra e sotto tanti palchi in giro per l’Italia”. E’ una storia politica, nata “in una sezione del PCI”, coltivata ovunque, sempre, comunque. E’ il racconto di una terra che racchiude tutto, l’Emilia, i suoi cantori, i suoi frammenti e tutto il resto. “Spartiti” è, soprattutto, la storia di Max Collini (Offlaga Disco Pax) e Jukka Reverberi (Giardini di Mirò, Crimea X), è il racconto della loro amicizia e dell’immaginario unico che sanno ricreare, andato perso, poi devastato, di nuovo vivo. L’uno accompagna l’altro. Una cosa naturale, che mobilita l’istinto. Un racconto sulle macerie e le dolcezze passate. Ma non chiamatelo reading. Perché, Max? “Perché alla parola “reading” molti associano istintivamente l’idea di una cosa parecchio noiosa, mentre io e Jukka vogliamo rendere uno spettacolo come questo il più coinvolgente possibile dal punto di vista emotivo e magari pure divertente, nonostante i contenuti non siano sempre leggerissimi”. Quando è arrivata la scintilla, l’idea dello spettacolo? “Io e Jukka abbiamo iniziato a collaborare nel 2007, quasi per caso. Mi invitarono a Verona a un piccolo festival per leggere delle cose e non volevo andare da solo. Chiamai Jukka e gli dissi: “oh, se vuoi darmi una mano facciamo che io leggo quel che mi pare e tu suoni quel che ti pare”. Puro estemporaneismo insomma. A un certo punto fu chiaro ad entrambi che avremmo potuto strutturarci meglio e mettere in piedi qualcosa di più impegnativo, senza per questo perdere di vista la motivazione iniziale: fare qualcosa che piacesse ad entrambi senza troppe pretese intellettuali”. Il tutto partendo da alcuni stralci tratti da autori quali Pier Vittorio Tondelli, Simona Vinci, Paolo Nori e Gianluca Morozzi, oltre naturalmente ad alcuni racconti scritti appositamente, e per varie ragioni non inseribili in una dimensione ODP, da Max Collini. Il tutto inondato dalle intuizioni e dalle divagazioni sonore di Jukka, sospese tra carezze ar- peggiate, primitive, e sospiri dal sapore analogico: né accompagnamento, né sostegno insomma, semplicemente parte integrante e indivisibile di un racconto mirato, capace di rimbombare nelle pance e nelle teste. Leggo nella cartella stampa che “Spartiti” vuole presentarsi come uno spettacolo che ha “l’intento di portare al centro del dibattito l’insieme e non le singole parti”. L’insieme, dunque, di un’epoca. Molti la chiameranno operazione nostalgica. La nostalgia aiuta? E, se sì, a fare cosa? Abbiamo escluso dai nostri propositi qualunque pretesa di rappresentazione storica e/o generazionale in senso universale, limitandoci a un punto di vista molto personale e del tutto scevro da tentazioni pedagogiche. Per quanto mi riguarda vale anche per gli Offlaga Disco Pax. Per “Spartiti” ho scelto alcuni passi di autori a cui sono particolarmente legato, tutti contemporanei e quasi tutti emiliani. E’ un omaggio a chi in qualche modo può avere influenzato il mio modo di raccontare, o più banalmente ad alcuni libri che ho amato particolarmente. Il nostro è un atto d’amore per quelle pagine, che ho sempre trovato emozionanti e illuminanti. La sonorizzazione che ne fa Jukka rende quelle parole, secondo me, ancora più forti. Come inserisci “Spartiti” nella tua carriera artistica? O meglio, nella tua carriera umana… E’ una cosa che mi piace fare, credo che questo piacere nel farla venga percepito anche da chi viene ad ascoltarci. Alcuni racconti miei inediti che abbiamo scelto per lo spettacolo non sono per vari motivi (vuoi per la lunghezza, vuoi per l’argomento o semplicemente perché non ci andava) stati usati per gli ODP, ma invece li ho trovati molto adatti a un ascolto più intimo come quello che richiede “Spartiti”. Capovilla dice che “per cambiare questo Paese, bisogna fare cultura”. I reading sono il suo modo di fare cultura. Vuoi anche tu cambiare questo Paese? Io sarei già contento che questo Paese non cambi troppo me. Clementi legge Emanuel Carnevali, Capovilla affronta Majakovskij e Pier Paolo Pasolini. Entrambi lo fanno a modo loro. In che modo bisogna rapportarsi agli scritti altrui? Suppongo che ognuno si rapporti all’opera altrui a modo suo. Per quelli che ho scelto per “Spartiti” la questione è molto semplice: sono brani, racconti o storie che avrei voluto scrivere io, da quanto mi sono sentito coinvolto da essi. Credo che ci sia una qualche forma di invidia di fondo, oltre che di stima per chi li ha scritti. Cito ancora Capovilla, ma questo parallelismo mi sembra interessante: “io sto cercando un po’ di approfittare di queste ali che mi sono spuntate sulle spalle e non me le aspettavo: il successo. Vorrei approfittare del successo per fare qualcosa di più”. Perché non approfittarne, Max? Il nostro “successo” è talmente infinitesimale rispetto alla dimensione reale delle cose che sarebbe ridicolo anche solo pensare di poterne approfittare per qualcosa, per quanto positivo voglia essere quell’approfittarsi. Capovilla, nei concerti de Il teatro degli orrori, si trova davanti migliaia di ragazzi molto giovani e si sarà posto un problema di ruolo e di responsabilità rispetto a questo. L’impostazione dei reading è ormai standard, una cosa consolidata. Parole + accompagnamento musicale. Il gioco è fatto. Dietro non sembra esserci particolare originalità. Come potrebbe evolversi questo tipo di spettacolo? Suppongo che la ricerca dell’originalità non sia esattamente la cosa che spinge chicchessia a fare uno spettacolo di questo tipo. Io credo che la differenza la facciano i contenuti che si scelgono, punto. Non basta mettere qualcu- 14 no che legge e qualcuno che suona a rendere interessante la faccenda. Conta cosa si legge, cosa si suona, come si legge, come si suona. Ho visto con questo schema spettacoli noiosissimi, verbosissimi, lentissimi e altri invece freschi, divertenti, ironici. Per “Spartiti”, potendo scegliere, preferirei la seconda che ho detto. L’impressione che una parte di pubblico potrebbe avere guardando questo tipo di spettacoli, è che siano “un modo di arrotondare lo stipendio”, detto proprio grezzamente. Una particolare evoluzione (tutta italiana, direi) che porta gli artisti a mettersi in gioco in diversi campi, la letteratura (e penso ai romanzi di Bianconi, Sangiorgi, Simone Lenzi, etc.), i reading (voi, Clementi, Capovilla, Wu Ming con Pillia e Sommacal nel bellissimo e commovente Razza Partigiana) e chissà cos’altro in futuro. Nel tuo caso, l’attività di “Spartiti” non si discosta molto dalla attività di cantastorie di Max negli Offlaga Disco Pax. Come giudichi “questi movimenti”? Rispetto agli ODP “Spartiti” è un altro modo di raccontare, le parole non sono solo mie, i suoni di Jukka non sono certo quelli di Enrico e Daniele. Per inciso con questo progetto nessuno di noi due arrotonda granché, io al massimo tengo in allenamento l’ego, che non si sa mai. Cambiano di molto l’approccio, lo stile, il senso delle cose. E’ un altro campo di gioco, del resto anche la mountain bike e il ciclismo su strada non sono lo stesso sport, anche se si pedala in entrambi i casi. Faccio presente, visto che li hai citati, che Simone Lenzi dei Virginiana Miller ha scritto due libri davvero bellissimi e non è detto che uno debba per forza essere buono a bere solo la sua tazza di tè. Simone sa scrivere, non è solo uno bravo con le canzoni. Un docente universitario ha pubblicato qualche anno fa un saggio (!) sui testi che scrive da sempre per il suo gruppo e un editore importante ha commissionato a Simone una traduzione di Marziale (!!!). Metterlo nel calderone assieme a Sangiorgi mi pare una semplificazione eccessiva. La cosa tutta italiana è la sufficienza, a volte, con cui si giudica il lavoro altrui. Nel caso di Simone Lenzi non parliamo di un artista sovraesposto che gode di spazi di manovra infiniti (vedi Sangiorgi appunto), ma al contrario di uno che nonostante un innegabile peso specifico si è fatto anni e anni di gavetta e solo oggi raccoglie soddisfazioni che avrebbe meritato assai prima. Ah, volevo dire che io scriverò un romanzo prima o poi, con molta calma però… Anticipaci qualcosa su questo romanzo, Max… E’ una idea che ho in testa da almeno sette o otto anni, ma non ho mai iniziato a scriverlo se non qualche appunto disarticolato. La storia dovrebbe essere ambientata nel 1981, quando avevo quattordici anni. Una specie di romanzo di formazione insomma. Di più non saprei dire, se non che magari prima o poi lo faccio sul serio, invece che immaginarmelo e basta. Certamente nel romanzo ci sarà Guido, un ragazzo un poco più grande di me di Villastrada (un paesino sulla riva del Po nel mantovano) che all’epoca allevava suini nell’azienda agricola di suo padre. Un personaggio strepitoso che purtroppo ho perso di vista da almeno una trentina d’anni e che non ho mai più incontrato da allora. Ho controllato: su facebook non c’è. Chiudete lo spettacolo con “Qualcosa sulla vita” dei Massimo Volume. Da brividi… E’ un piccolo omaggio ad un gruppo importante che amiamo entrambi moltissimo, da sempre. Il brano non lo conoscevo e fu Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax a suggerirmi di ascoltarlo ormai dieci anni fa. L’ho sempre trovato un pezzo molto potente, pur essendo una canzone dalle strutture delicate, all’apparenza fragili. Ora dal vivo la dedichiamo a lui ed è inevitabile che sia così. Anche Jukka era un grande amico di Enrico. E’ un momento molto difficile. Do- menica 6 Luglio a Mantova ci sarà un piccolo festival per Enrico, organizzato dalla famiglia, da qualche amico e da noialtri ODP. Si chiama “Ancora festival” e sarà bello ritrovarci per lui. Suoneremo anche io e Jukka, Enrico non ci aveva ancora visti e rimediamo in questo modo. E’ previsto un album per “Spartiti”? Sarà registrato dal vivo? I brani inseriti saranno quelli già rodati sul palco? Raggiungerà i negozi o lo venderete solo durante i live? Abbiamo da tempo deciso di dare una testimonianza dal vivo del nostro spettacolo, ed esce proprio in questi giorni un CD con alcuni dei brani registrati qualche mese fa a Pesaro, alla Casa del Popolo di Villa Fastiggi, in occasione di un concerto davvero ben riuscito. E’ una edizione limitata curata dall’etichetta Secret Furry Hole, specializzata in questo tipo di uscite molto particolari e curatissime. Al CD è allegato un piccolo libro con i testi originali dei miei racconti per “Spartiti”. Sarà disponibile ai concerti e per corrispondenza. Per un vero e proprio album di “Spartiti” c’è tempo, vedremo se e quando sarà possibile. Max legge gli ultimi versi di Qualcosa sulla Vita. Si siede fra il pubblico. Tutti insieme guardano Jukka piegato sulla chitarra. Una coda che sembra infinita, densa. Uno schiaffo alla vita dato ad occhi chiusi. 15 Ad un anno dall’uscita dell’epico “I See Seaweed” e in attesa della partecipazione dei Drones al Vasto Siren Festival, facciamo il punto della situazione con Gareth Liddiard, figura di riferimento del nuovo rock Australiano. Testo di Diego Ballani The Drones Intervista 16 “Tutti assomigliano a qualcun altro“, secondo Gareth Liddiard. “Nick Cave suona come David Thomas o Johnny Cash o Elvis, Tom Waits sembra Captain Beefheart“. Spetta a lui completare la genealogia. Quella di una genia di autori dal cuore nero per cui la tradizione è una sequenza di tragedie dell’ordinario issate allo status di mito. Gente abituata a raschiare con le unghie nei recessi più oscuri dell’animo umano. E’ un tipo tosto Liddiard. Schietto e molto pratico. Di certo un poeta vero, costruttore di alchimie sonore che gli sono valse già un Australian Music Prize (nel 2004, con Wait Long By The River…) e l’inserimento dei suoi dischi nella lista dei migliori album mai usciti dal nuovo continente. La vita della sua band (fatta di continui cambi di line up, perenni problemi legali, tour infiniti) ne riflette, in un certo senso, il travagliato universo interiore. Eppure Gareth è un instancabile lavoratore, che pur di riuscire a campare con la propria musica non ha esitato a dar vita a collaborazioni e progetti collaterali che ne hanno consolidato lo status di artista e figura di riferimento del moderno rock australiano. Per questo l’attesa del concerto dei Drones che si terrà il 25 luglio, nell’ambito del Vasto Siren Festival, è quanto mai spasmodica. Nel frattempo abbiamo contattato lo stesso Gareth, per cercare di fare il punto della situazione ad un anno dall’uscita di I See Seaweed. In prospettiva, cosa pensi oggi di quel disco? C’è qualche risultato che, guardando indietro agli ultimi mesi, senti di aver raggiunto grazie ad esso? Penso che sia un disco abbastanza buono. Alcune parti sono davvero grandi, altre riascoltate ora fanno schifo, ma non è che passi tutto il mio tempo a riascoltarlo. Non sono una persona così orgogliosa di quello che fa. Non vedo nessuna ragione particolare di essere fiero di I See Seaweed se non per il fatto che è un buon disco e che è stato divertente realizzarlo. Perché ci avevi messo così tanto a realizzare il seguito di Havilah? So che sembra sia passato un sacco di tempo, ma la verità è che siamo stati solo molto occupati. Dopo Havilah ho fatto un disco insieme ad un ragazzo che si chiama Ben Salter. Poi uno solista, che ho anche promosso con un tour. Poi i Drones hanno realizzato un DVD live e promosso anche quello con un tour. Poi io e Fiona (Kitschin, bassista della band, ndSA) abbiamo fatto un disco con Spencer Jones e James Baker e siamo andati nuovamente in tour. Quindi io, Fiona e Dan (Luscombe, il chitarrista, ndSA) abbiamo costruito uno studio nostro. Nel frattempo ho iniziato a scrivere i pezzi per il nuovo album. Infine lo abbiamo registrato. Forse non sembra, ma sono stati cinque anni piuttosto impegnativi! Cinque anni sono comunque molti. Come si sono tradotti in termini di differenze fra i due album? Riascoltandolo ora, Havilah mi sembra più confuso e discontinuo, mentre I See Seaweed è più uniforme. E in termini di songwriting, soprattutto rispetto ai tuoi primi lavori, che evoluzione pensi di avere avuto? Diciamo che non sono il tipo di persona che ha ancora il poster dei Ramones appeso sul letto, all’età di 38 anni. Amo la cultura degli adulti come quella dei teenager, perché sono un uomo a cui piace divertirsi. Non sono uno snob. Mi piace Eric Satie e mi piacciono i Black Flag. Sono quello che sono e in questo momento ho 38 anni e scrivo canzoni che parlano di cose che pensa un trentottenne. Questa è la differenza principale fra le mie prime canzoni e quelle successive. Quali sono questi temi da trentottenne? Sono interessato a tutto. Davvero. Ci vorrebbero anni per spiegartelo. Molto di quello che scrivo è autobiografico. Altre sono solo stronzate. 17 Nel corso di tutti questi anni la line up dei Drones è cambiata diverse volte. A questo punto può essere considerato un tuo progetto solista? Che differenza fa? Bob Dylan scrive canzoni e cazzeggia insieme ad un sacco di musicisti diversi, ma rimane sempre Bob Dylan. Jeff Tweedy scrive canzoni e cazzeggia con un sacco di musicisti, ma per tutti è sempre i Wilco. Quando schiacci play è sempre la solita cosa. Come cantautore abituato a toccare temi non facili, mi piacerebbe sapere se credi che la musica abbia ancora la forza di comunicare concetti complessi dal punto di vista emotivo e politico, o se è rimasto solo l’intrattenimento… Penso che la domanda dovrebbe essere: “Credi che l’intrattenimento abbia la forza di comunicare concetti complessi?”. Tutta la musica è intrattenimento, così come lo sono il football o il sadismo. Chiunque dica il contrario soffre di un terribile complesso di superiorità. Sì, penso che la musica possa ancora essere utile a cambiare le cose. A volte accadono cose alla The Times Are A Changin’ di Bob Dylan e qualche altra volta la musica rende gli accenti sud africani accettabili alle orecchie degli occidentali, come nel caso dei Die Antwoord. C’è qualche nuovo gruppo o artista che ti piace particolarmente? Mi piacciono cose tipo My Disco e HTRK. Ascolto un po’ di tutto, ma in generale apprezzo tutto quello che non suona fasullo o non autentico. Cosa pensi dello stato dell’arte dell’odierna guitar music? E’ stato detto tutto o è ancora possibile stupire con qualcosa di nuovo? E’ sempre difficile ascoltare qualcosa di nuovo quando hai più di trent’anni, soprattutto in ambito chitarristico. L’intero concetto di “nuovo” è molto “ventesimo secolo”. Cosa dovrebbe significare oggi “nuovo”? Per alcuni la nuova guitar 18 music è l’ultimo disco dei Muse, per altri è un vecchio disco di Bill Orcutt che hanno appena scoperto. Un fan dei Muse potrebbe pensare che la musica di Bill Orcutt sia solo rumore e un fan di Orcutt che quella dei Muse sia derivativa e stupida. Non credo che ci possa essere qualcosa di nuovo e credo che in fondo, nessuno lo voglia veramente. Se gli appassionati di musica volessero qualcosa di nuovo avrebbero tutti familiarità con John Cage come io ce l’ho con Hendrix. Gli appassionati di musica cercano solo nuove interpretazioni di cose che sono loro familiari, sempre che cerchino veramente qualcosa. Internet poi ha cambiato il significato di “attuale”. La roba vecchia è talmente accessibile oggi, che qualsiasi stile degli anni Sessanta può suonare attuale. In questo momento stai lavorando a qualcosa di nuovo? Sì, ho iniziato a lavorare al nuovo album dei Drones. Siamo ancora alle fasi iniziali, non ho ancora idea di che direzione prenderà. Quando sarà pronto pensi che lo pubblicherai autonomamente? So che in passato hai avuto rapporti difficili con le etichette… Vedi, una volta le etichette erano quelle ti avrebbero dato i 50.000 dollari di cui avevi bisogno per affittare uno studio e realizzare un disco. Ora abbiamo Internet, con il crowdfunding, iTunes, etc…mentre sui laptop abbiamo studi di registrazione che non sono costati 2.000.000 di dollari. Pertanto le etichette, come anche i CD, dovrebbero semplicemente morire. Sono un anacronismo. 19 Tra etno-retrofuturismo, library music, (afro)psichedelia pesante e madchester sound, l'esordio dei nostri Lay Llamas ha attirato le attenzione dell'underground che conta. Festival psych europei, la firma per Rocket, il riconoscimento a tutte le latitudini fanno del duo/ quintetto italiano una delle più effervescenti storie da indagare Testo di Stefano Pifferi The Jay Llamas A spacedelic afrokraut trip toward the spheres 20 Psicogeografie post-italian occult psych che si irradiano, proprio come il vento da cui traggono l’ispirazione per il l’album d’esordio, dal sud del mondo – un sud immaginario, luogo della mente prima ancora che origine fisica dei personaggi qui coinvolti – verso “su”, da intendersi come in senso geografico come Europa, ma anche, metaforicamente, come “non più underground”, o trascendentalmente come “cosmo”. Dopotutto, è lo stesso percorso che ha mosso i responsabili Nicola Giunta (anche summerTales) e Gioele Valenti (quest’ultimo già noto come Herself) a muoversi dalla terra d’origine verso nord, Roma, Venezia, Padova, ecc., e su verso l’Inghilterra sede della Rocket, la Eindhoven dello Psych Fest o la Liverpool dell’International Festival Of Psychedelia, e che probabilmente li ha portati ad assimilare, quasi avessero steso una rete a strascico, storia e dinamiche, tendenze e influenze onnivore. Perché Ostro, album d’esordio dopo un paio di lavori in formati minori che minori non sono affatto (una tape d’esordio su Jozik e una seconda in split con Eugenoise su Old Bicycle), è esattamente quello che può venire in mente applicando l’origine del nome scelto alle dinamiche che hanno portato all’elaborazione del disco su Rocket (la casa dei Goat, tanto per dire): un mega-trip spacedelico che unisce l’afflato afro-kraut con una dimensione retrofuturista deviata verso lande ucroniche. Paesaggi immaginari e paesaggi psichici, storie deformate come deformato è l’immaginario musicale messo in opera a suon di motorik krauto e influenze mediorientali, slanci da melting-pot mediterraneo e variazioni cromatiche mai scontate che sta avendo riscontri positivi un po’ ovunque e che dimostra ancora una volta le potenzialità, e in questo caso anche le capacità, di una fetta dell’underground italiano che evita di guardare al proprio orticello. A stupire è l’immaginario evocato e (ri)creato dal duo/quintetto. Paganesimo rituale e ritua- listico com’è giusto che sia, muovendosi in un territorio sonoro poroso e friabile come quello della psichedelia occulta, ma ad interessare sono i riferimenti alla sacralità ancestrale e utopica disseminati lungo tutto il lavoro, così come la mai celata predilezione per le ucronie e per le storie immaginarie, materializzatesi nel “concept” legato alla inventata tribù africana dei Lay Llamas e dei suoi viaggi siderali tra spazio e tempo. Questa coesistenza di mondi immaginari, continuamente e ambiguamente al crinale tra realtà e invenzione e spesso giocata in sovrapposizione e stratificazione, si trasforma in una sorta di archeologia allucinata e visionaria che trova il giusto contraltare in una musica libera, ondivaga, visionaria e selvaggiamente mistica. Che mastica folk acido e psych 60s, tribalismi afro e soundtrack music, Madchester e hauntology ponendosi “orizzontalmente” come summa insieme originale e intimamente rielaborata di molte delle musiche più coraggiose degli ultimi tre o quattro decenni. L’Ostro sembra spirare forte dal sud Italia verso l’Europa intera. Qui a SA vi abbiamo seguiti dagli esordi su nastro, ma volete farci un riassunto delle puntate precedenti per i più distratti? Nicola Giunta: in effetti tutto ebbe inizio con la tape a cui accennavi, pubblicata nell’ottobre 2012 dalla finlandese Jozik Records in sole 50 copie e sold out da un bel po’: una selezione ‘ragionata’ di quattro (fra le tante) tracce che avevo registrato in studio durante gli anni precedenti. L’idea delle collaborazioni mi è sempre piaciuta, fu così che invitai vari amici, fra cui Gioele, a dare il loro contributo sonoro alla causa Lay Llamas. Questo lavoro, pur breve e totalmente autoprodotto in casa, attirò fin da subito l’attenzione di giornalisti, musicisti e addetti ai lavori, cosa che sulle prime mi lasciò felicemente stupito. Un paio di mesi dopo l’etichetta italosvizzera Old Bicycle Records mi propose di fare 21 uno split, sempre su nastro, insieme al mitico Eugenio Luciano AKA Eugenoise, mio caro amico e collaboratore attivo anche in Lay Llamas. Incoraggiato da una reazione simile continuai a mandare quelle tracce a varie etichette italiane e straniere. La Rocket Recordings fu una di quelle. Il pezzo che apre la tape, ‘African Spacecraft’, entrò per direttissima nella loro playlist e fu incluso nella compilation celebrativa per il quindicesimo anniversario dell’etichetta, pubblicata nel novembre 2013. Insomma, già trovarsi sullo stesso pezzo di vinile con Goat, Gnod, Teeth Of The Sea e altra gente simile era per me un traguardo impensabile! Poco prima dell’uscita della compilation Chris e John – dopo aver ascoltato alcuni nuovi brani che nel frattempo avevo registrato – mi proposero di fare un disco con loro. Erano passati solo dodici mesi dall’arrivo dei Lay Llamas sul pianeta Terra. Il nome che vi siete scelti rimanda, seppur in forme travisate, al buddismo e al delay: è una psichedelia trascendente la vostra? o un terzo/quartomondismo spiritual-ipnotico? NG: Beh, ci sta dentro un po’ di tutto ciò… e tanto altro ancora! Il giornalista inglese Alex Deller ha definito Lay Llamas “a gigantic patchwork of weirdness”. Mi sembra una delle descrizioni più azzeccate che abbia letto fino ad ora. Era proprio questo che avevo in mente quando iniziai a pensare al progetto: creare un contenitore sonoro, visivo e immaginifico che potesse raccogliere tutta una serie di input e influenze che avevano lasciato un segno più o meno profondo su di me. L’idea afrofuturistica della mitica tribù nigeriana, i Lay Llamas appunto, che affronta un viaggio oltre il tempo e lo spazio per raggiungere un pianeta sconosciuto ma allo stesso tempo stranamente familiare, ha solo fatto da trama per imbastire la sceneggiatura del progetto. Musicalmente poi il discorso assume connotati meno definiti, più trasversali. C’è tanta roba nel pentolone insomma. 22 Vedendovi live, infatti, mi sono reso conto che il sound è più corposo, a tratti mi è venuto in mente il mondo made in Madchester: acido e storto, ballabile ma con un evidente retrogusto drogato. NG: La versione live di Lay Llamas diciamo che è nata un po’ per volontà e un po’ per necessità. Quando insieme agli altri ragazzi del gruppo (Matteo Pin alla chitarra, William Zancan alla batteria e Gianluca Herbertson al sampler e synth) iniziammo ad arrangiare i pezzi da suonare live ci rendemmo subito conto che provare a riprodurre le sfumature ‘da studio’ che si sentono in Ostro non era la direzione più azzeccata probabilmente. Abbiamo così pensato di lavorare maggiormente su struttura e impatto ritmico dei brani. Riducemmo al minimo i pezzi della batteria (solo cassa, rullante e timpano), in modo da creare un suono piuttosto primitivo e tribaloide, e ci lanciammo in lunghe jam che riportavamo tutto ad una sorta di grado zero: una nota, un accordo, un battito continuo. Quasi inevitabilmente, il risultato fu lo sconfinamento in territori quasi da dancefloor (seppur krauto e psicotropo). In tutta sincerità conosco solo marginalmente la scena maDchester di fine ‘80/ primi ’90, ma il tuo riferimento lo trovo comunque azzeccato. Gioele Valenti: La nostra è una ‘collisione’ di esperienze direi… personalmente, sono un appassionato di shoegaze anni 80, cose come The Telescopes e Loop, o ancora derive più accattivanti come Stone Roses, Happy Mondays, An Emotional Fish. Dunque quel suono largamente ed eminentemente anglosassone ha informato certamente il mio background. Naturalmente, questo è solo il lato – come ben dici – “drogato”, sicuramente una parte del lavoro su Ostro. Vi siete avvicinati alla psych partendo da lande psicogeografiche, immaginando mondi tra l’arcaico e il fantascientifico. Qualcosa sulle vostre influenze sonore possiamo intu- irlo, ma sono quelle extra-musicali a incuriosirci… NG: Come dicevo poco sopra, uno degli aspetti fondanti del progetto Lay Llamas è proprio quello di comprendere al suo interno – o almeno queste sono le intenzioni di base – una serie di input e suggestioni estremamente vari che riescano comunque a fornire un’immagine unitaria. Magari non del tutto definita, multiforme, ma miracolosamente unitaria! In ambito extramusicale personalmente ha avuto un ruolo fondamentale la visione di film di Jodorowsky quali El Topo e La Montagna Sacra, Phase IV di Saul Bass, tanta cinematografia weird italiana dei ’70, Live at Pompei dei Pink Floyd, documentari e found footage sull’archeologia, i viaggi spaziali, la natura, etc. Per le arti visive, citerei su tutte l’optical art ed esperienze come quelle del Gruppo N ed Ennio L. Chiggio. Ma anche l’etnomusicologia, la grafica pubblicitaria, la letteratura di fantascienza e l’antropologia. GV: Per quel poco (pochissimo!) che si è pianificato su Ostro, io desideravo apportare una dimensione vagamente letteraria al lavoro… qualcosa che restituisse il mood di una lisergia di ampio respiro, non meramente musicale… così le letture che ho coltivato in quel periodo riguardano i lavori di etnobotanica di Terence McKenna o le propaggini anarco-libertarie di Hakim Bey… insomma un pot-pourri che ben si sposasse con l’epopea dei Lay Llamas, fatta di ricerca, esplorazione e trascendenza. Venite da esperienze precedenti, anche piuttosto diverse come Herself e summerTales: come siete arrivati a Lay Llamas e poi a Ostro? NG: summerTales, progetto condiviso con Guido Broglio, ha rappresentato per certi versi una fase embrionale di Lay Llamas. La fissa per la ripetizione e il minimalismo, le suggestioni ‘esotiche’, l’uso di percussioni non convenzionali ed altri espedienti ritmici sono venuti a galla proprio nell’ambito di quel progetto. Direi quindi che quell’esperienza ha avuto un ruolo fondamentale nella genesi di Lay Llamas. Il lavoro affrontato da me e Gioele per Ostro ha rappresentato invece quello che definisco un ‘upgrade’ del progetto. Quando iniziai ad immaginare l’impostazione del disco mi fu subito chiaro che l’utilizzo di un cantato e di testi che aggiungessero un ulteriore piano comunicativo, sommato a quello musicale, potesse far crescere notevolmente l’impianto narrativo del progetto. Così fu. Contattai Gioele – che aveva già contribuito brillantemente ad un paio di tracce di Lay Llamas comprese nelle prime due tape – ed iniziò un processo creativo molto fluido e naturale che portò ad Ostro. GV: Con Nicola, sul fronte Lay Llamas, ci conosciamo e collaboriamo in realtà da molto tempo, anche se in maniera in passato molto più circoscritta e saltuaria… con Ostro abbiamo suggellato delle premesse che si sono via via affinate negli anni e si sono concretizzate in un lavoro pienamente condiviso… credo sia stato un processo piuttosto fluido, partendo da coordinate stilistiche piuttosto differenti. Immagino sia per questo che l’atmosfera di Ostro è risultata così eclettica, nonostante le vaghe suggestioni più decisamente psych che pure lo alimentano. A metà della seconda trilogia del progetto Noise Trade Company, abbiamo incontrato Gianluca Becuzzi e Elena De Angeli per indagare gli aspetti cinematografici del loro sound Testo di Stefano Pifferi Noise Trade Company Fuoco, riaccenditi con me and the Melodies Uno dei progetti più giovani e, insieme, produttivi che la mente di Gianluca Becuzzi – prime-mover d’area grigia coi Limbo e artista elettronico sfaccettato nelle sue produzioni in solo o come Kinetix – abbia mai partorito, giunge all’album numero cinque. Unfaithful Believers, l’ultimo lavoro targato Noise Trade Company (della partita sono anche, in questa ennesima configurazione della sigla, Elena De Angeli a voce e testi e Francesco Biscontri alla chitarra), segna una nuova svolta nel suono di un progetto che mai si è adagiato su una modalità stilistica definita ma ha preferito continuare 24 a indagare, a muoversi ed esplorare a botte di trilogie, l’immensa area grigia e derivazione tutta, modulandosi di volta in volta a seconda delle proprie ispirazioni e influenze, oltre che concettualmente approfondire lo sguardo su vari aspetti dell’immaginario popolare. Nella prima trilogia – Crash Test One, Just Consumers, Post Post Post – lo ha fatto con un “electro-harsh pop per la civiltà dei consumi terminali”, come si autodefinì all’esordio, cioè una miscela di post-punk, noise, industrial e quant’altro atta ad indagare le melme più maleodoranti della cultura popular; poi, nella seconda, giunta, dopo Reformation, al suo atto centrale col citato Unfaithful Believers, ha abbracciato una forma-canzone gloomy e oscura, elegante e disturbante, meno irruente ma non per questo meno affascinante. In questa seconda fase, ad emergere con prepotenza è l’immaginario filmico, sviluppato secondo una doppia direzionalità: evocato, nel senso di immaginato come se si trattasse di “imaginary soundtrack” per immagini già esistenti, o a cui si rimanda più o meno direttamente, tra citazionismo e sottolineature di elementi ben presenti nell’immaginario grey area di riferimento. Nell’ultimo lavoro, a colpirci è stato l’evidente retroterra lynchiano, e nello specifico made in Twin Peaks, serie dal culto non troppo sotterraneo che i tre hanno a loro modo voluto “celebrare” in occasione del venticinquennale dell’assassinio di Laura Palmer: reinventando un mondo parallelo in cui si è avvolti da quelle atmosfere così torbide eppure perfettamente radicate nell’immaginario popular contemporaneo. Per approfondire l’aspetto cinematografico delle musiche di NTC abbiamo contattato Gianluca Becuzzi e Elena De Angeli. In tempi di social-networking, in cui la necrofilia scorretta ci porta a ricordare morti famosi in un tripudio di futile appartenenza, siete stati fra i pochi o forse gli unici a “ricor- dare” la Laura Palmer di Lynchiana memoria. Mi confermate che Unfaithful Believers ha a che fare con Lynch e Twin Peaks? Gianluca Becuzzi: L’originalità assoluta e l’ispirazione pura sono utopie per ragazzini e ignoranti di tutte le età. Al contrario, aver ben chiaro quali modelli prendere a riferimento, oltreché saperli scegliere e combinare con gusto, rappresenta sempre un vantaggio notevole quando si avvia un progetto artistico. Questo è tanto più vero quanto più quei modelli stessi sono radicati in un immaginario collettivo ben preciso. La sinergia tra il cinema di Lynch e le musiche di Badalamenti ha creato un’estetica che tutti noi siamo in grado di riconoscere a partire da un suono che ci evoca una situazione/atmosfera/immagine e viceversa. Quindi sì, il vento di Twin Peaks soffia forte in questo nostro ultimo album perché siamo stati noi ad evocarlo volontariamente, con buona pace dell’anima di Laura Palmer, la quale, in quanto defunta immaginaria iconizzata, sa farsi ricordare con più forza dei defunti reali. Elena De Angeli: Credo che Twin Peaks sia uno dei più potenti e suggestivi archetipi partoriti dall’immaginario cinematografico. È singolare come il fantasma di Laura Palmer emerga così violentemente dall’album senza mai essere nominato in maniera esplicita. Mentre lavoravamo all’album, l’elemento Lynchiano è emerso a poco a poco fino a farsi prepotente, è stato il momento in cui abbiamo compreso che era la direzione da seguire. Come in un incastro perfetto, anche i testi e le melodie che avevo scritto sembravano indicare quella strada, letti in fila formavano la trama di un film parallelo. Credo che l’immaginario creato dai film di Lynch sia qualcosa di paragonabile a quello che Jung chiamava inconscio collettivo, una mitologia nascosta nelle menti, qualcosa che sembra esserci sempre stato. Se ti dicessi che Unfaithful Believers è anche molto personale direi qualcosa di scontato: è nell’inti- 25 mo che ciò che viviamo, ascoltiamo, guardiamo, si sedimenta, fondendosi in un unicum indistinguibile; ma rischierei anche di tradire il mistero da cui la musica trae la sua forza. Sono proprio i segreti ed il mistero, del resto, ciò che mi affascina nelle cose. Noise Trade Company ha attraversato in 5 dischi tutto lo scibile musicale umano d’area cosiddetta grigia (non proprio ma insomma, ci siamo capiti) e si è “ricreato” dopo una prima trilogia più corposa. Sembra esserci un progetto a lungo termine o sbaglio? GLB: Noi lo intendiamo sicuramente come un progetto a lungo termine e ci auguriamo di avere energie creative sufficienti per rinnovarci sempre e riuscire così in questo nostro proposito. C’è inoltre un aspetto programmatico nel nostro lavoro che ci porta a pensarlo organizzato in trilogie di album diversificate tra di loro per finalità artistica, suono, stile, tematiche e in parte anche line up. Il cambiamento è l’unica costante di questo mondo e io penso che la regola debba riflettersi anche nelle musiche che produciamo. È per questo motivo che evitiamo staticità e ripetizioni, muovendoci in continuazione da un punto all’altro dello scenario determinato dal nostro sentire. Nell’arco di cinque album siamo passati dall’electro post punk con influenze noise/industrial alle attuali sonorità che mescolano chitarre surf con cupi climi cinematici e profondi bassi cold dub. EDA: È un progetto a lungo termine nel quale convergono e nascono continuamente nuovi stimoli e spinte a rinnovarci e a guardare al prossimo passo. Cambiare è sempre una sfida, ma senza porsi delle sfide non si potrebbe andare avanti. Se Reformation è stato l’inizio di un nuovo capitolo, con Unfaithful Believers ci siamo spinti ancora oltre sul binario intrapreso. Lavorare con Gianluca è per me una fortuna, posso continuamente imparare dalla sua grande esperienza, la sintonia non manca mai e questo 26 consente il continuo sviluppo di nuovi stimoli. Ci siamo lasciati il post-punk alle spalle. Il cambiamento più audace è stato forse introdurre la forma canzone, e questa è una direzione che manterremo. Mi piace pensare che in tutto questo ci sia un fil rouge: si può indagare l’intimo, la zona d’ombra, ciò che è fuori fuoco, restando la compagnia che spaccia rumore, che è ciò che non è codificato, indecifrato o indecifrabile. Il ruolo di Elena si fa sempre più centrale a mio parere, e non parlo soltanto del ruolo come cantante, ma come autrice e perno dell’intero progetto… GLB: Elena ha sicuramente talento canoro e compositivo e NTC è il mezzo attraverso il quale può esprimerlo e veicolarlo. Nel momento in cui Elena è entrata in formazione NTC ha preso un altro peso e un altro significato per me. Inizialmente si trattava di una sorta di diversivo ai miei lavori in solo che mi permetteva di esercitarmi sul formato canzone giocando con elementi generazionalmente a me ben noti, come le sonorità e i climi degli Ottanta, così in maniera anche un po’ ludica e disincantata. Adesso è diverso, il gioco si è fatto decisamente più serio. Ho sempre riscontrato nelle musiche di NTC una certa tendenza cinematica e visionaria; in UB questa vena mi è sembrata palesarsi, come facevo riferimento prima con Badalamenti e Lynch… GLB: È vero, anche la prima fase aveva riferimenti cinematografici e letterari, oltreché ovviamente musicali. Si potevano avvertire tracce del Cronenberg che rilegge il postmodernismo di Ballard e Burroughs, no? Così come in questa seconda fase, con particolare riferimento a Unfaithful Believers, si percepisce l’influenza di Lynch e Badalamenti per il gusto di certo noir contemporaneo, ma a tratti anche Leone via Morricone e Tarantino, credo. Sicuramente, più passa il tempo e più il cinema sta diventando nutrimento essenziale per la mia sensibilità sonora e compositiva. Di questi tempi, ad esempio, sto ascoltando moltissimo la colonna sonora dell’ultimo Jarmusch Only Lovers Left Alive composta da Jozef Van Wissen e SQURL. Si parla sempre della musica nel cinema dimenticandosi di quanto cinema ci possa essere nella musica. EDA: Talvolta nel cinema si incontrano un regista e un compositore che sembrano fatti l’uno per l’altro, artisticamente parlando… e allora accade la magia. Lynch e Badalamenti hanno creato un immaginario fatto non soltanto di fotogrammi, ma anche di note, immediatamente riconoscibili, quasi fossero esse stesse parte di un inconscio collettivo. Un archetipo musicale. Non è l’unica coppia che ha creato sinergie indimenticabili, penso anche a David Cronenberg e Howard Shore, Sergio Leone e Morricone, Kieślowski e Zbigniew Priesner…ultimamente Nicolas Winding Refn e Cliff Martinez, per citare alcuni tra i miei preferiti. Quasi sempre i miei film preferiti hanno una colonna sonora che amo, non credo sia un caso. Quando esco dalla sala, è una particolare sequenza di suoni e di note ad amplificare i fotogrammi, a farli sedimentare nella mente e a far scattare quel je ne sais quoi che li rende eterni. Sembra quasi la descrizione di un innamoramento, ma del resto è così che succede. L’arte che resta, quella che lascia un segno, quella che “è per sempre”, è quella che ci fa innamorare di un amore ideale. Unfaithful Believers è la colonna sonora di un film mai impresso su pellicola. Come vi sembra il panorama musicale italiano contemporaneo? E come vi ponete nei suoi confronti? Ve lo chiedo perché pur non suonando dal vivo – cosa che sembra essere la discriminante ultimamente tra “successo” e “silenzio” – avete uno zoccolo duro di fan e critica che giustamente vi segue passo passo… GLB: Frequento attivamente la scena musicale italiana underground da 30 anni, ne conosco molto bene vizi e virtù, luci e ombre. Ci sono sempre stati e continuano ad esserci artisti di valore, dotati di talento e passione autentica. A fronte di questo però mancano politiche che sostengano queste realtà e che creino una sensibilità culturale diffusa rispetto ad essa. Ci sarebbe tanto da fare e viene fatto pochissimo, un po’ per mancanza di risorse ma anche molto per incapacità di visione. In questa situazione “chi fa” rimane solitamente da solo. Uno spreco, purtroppo… EDA: Il panorama musicale nostrano è vivo e ricco di artisti di spessore e di talento. Quello che temo di più è il settorialismo, la chiusura, l’idea di dover rientrare in schemi e generi precisi; ammiro chi riesce a uscire da questi schemi e da questa mentalità. Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, in un’epoca in cui l’iperpresenzialismo è la regola e siamo malati di sovraesposizione, avere un ottimo riscontro senza aver suonato dal vivo è per noi positivo. Tuttavia, non ci poniamo limiti nemmeno in questo senso, e può cambiare domani stesso. Anche l’assenza, la lontananza e tutto ciò che si ascolta senza poterlo toccare con mano hanno il loro fascino, del resto. Per citare Mulholland Drive e il Club Silencio: “No hay banda! Il n’est pas de orchestra!…And yet we hear a band… It’s all a tape… It is an illusion”. 27 Proviamo a compilare la voce enciclopedica dedicata a Richard D. James, mettendo ordine nella sua discografia in occasione dell’ufficiale riemersione del Caustic Window Album. Parole chiave: acid, techno, ambient, IDM, drill’n’bass, genio. Testo di Stefano Pifferi A come Aphex twin 28 Quando si parla di Richard D. James ogni elemento biografico va preso con le molle. Le sue relativamente rare interviste si risolvono spesso o in monosillabi o in estemporanee invenzioni (magari anche per colpa degli intervistatori, come dimostra lo spassoso episodio russo del 1994 rivangato da FactMag). Il ghigno caricaturale che nel tempo è diventato uno dei più riconoscibili elementi della sua iconografia non è lì per caso: il suo senso dell’humor, al tempo stesso diabolico e infantile, pervade tutto ciò che lo riguarda, al punto che anche elementi in teoria rilevanti come l’origine del suo alias più fortunato non sono assolutamente certi. Davvero “Aphex” deriva da Aphex Systems Ltd., società americana produttrice di equipaggiamenti audio? Non è più probabile una semplice storpiatura di “Acid”, con il pH preso dalla chimica? E “Twin” sarebbe un omaggio ad un supposto non-fratello omonimo nato morto tre anni prima della nascita di Richard (la cui tomba sarebbe quella ritratta sulla cover dell’EP Girl/Boy del 1996)? O forse è più plausibile un riferimento a Tom Middleton, cofirmatario di uno dei pezzi del primo EP ufficiale ed effettivamente nato il suo stesso giorno e anno? Ma soprattutto: è così importante saperlo? Limitiamoci ai dati strettamente necessari e concentriamoci sulla sua carriera musicale, anch’essa disseminata di trabocchetti (i tanti moniker utilizzati, produzioni catalogate e mai ufficialmente uscite, ecc.) che sembrano essere messi apposta per far inciampare l’incauto compilatore della voce enciclopedica dedicata ad una delle figure più influenti e riverite della storia della musica elettronica. Nato il 18 Agosto 1971 in Irlanda (a Limerick), ma cresciuto in Cornovaglia (a Lanner, piccolo paese vicino a Redruth), già dalla metà degli anni ottanta James comincia a sperimentare con strumentazioni elettroniche di recupero e si esibisce come DJ nei locali della zona. In uno di questi, il Bowgie di Newquay, entra in contatto nel 1989 con Grant Wilson-Claridge, altro DJ cornish che, incuriosito dal fatto che James nei suoi set utilizzava cassette con materiale proprio, lo coinvolge nella fondazione dell’etichetta Rephlex, con l’obiettivo di promuovere (come recitava il Manifesto della label) “l’innovazione nelle dinamiche dell’Acid” producendo “techno” di qualità, principalmente per i dancefloor ma anche per soddisfare il crescente interesse verso l’”electronic listening music”. Ricostruire l’ordine esatto del catalogo della Rephlex è impresa ardua, a cominciare dal numero CAT001: il singolo Bradley’s Beat, “scritto e prodotto da Brad Strider”, presenta il 1991 come anno di copyright ma circola ufficialmente a partire dal 1995 (ne girano due versioni, dove la Part One è la stessa, ma con le Part Two completamente diverse). Ritmi più basici che acidi, banali e sempliciotti: è questa la prima pubblicazione di Richard D. James? Che sia lui è quasi certo (nel 1993 sempre per la Rephlex uscirà un altro 12” denominato “Strider. B. introduces Bradley’s Robot” di più sicura attribuzione), ma il singolo non sarà mai riconosciuto. Anche il CAT002 è un mistero: inserito come “4 track double 7”” a firma Q:Chastic in un primo elenco di produzioni a catalogo compilato nel 1992 da Wilson-Claridge, il prodotto non verrà mai rilasciato. Unico reperto: il brano intitolato proprio CAT002 di Q-Chastic contenuto nella compilation The Philosophy Of Sound And Machine, pubblicata nel gennaio 1992 solo su CD da un’improvvisata joint venture tra la Rephlex e la Applied Rhythmic Technology (ART) di Kirk Degiorgio. Il disco fornisce un’istantanea dello zeitgeist del periodo, con la partecipazione, sotto vari pseudonimi, di vari esponenti della scena acid techno inglese: lo stesso “As One” Degiorgio, B12, Black Dog Productions, e Mike Cullen/Mike Dred/Kosmik Kommando (nel primo periodo solo altro artista ad essere pubblicato dalla Rephlex oltre a James, e poi con lui coinvolto nel progetto Univer- 29 30 sal Indicator). A James sono attribuiti tre tracce delle compilation, firmate con gli alias Q-Chastic, Soit P.P. (n.IASP suona vagamente simile a Ptolemy di Selected Ambient Works 85-92) e Blue Calx (il brano omonimo ricomparirà pari pari nel 1994 come unica traccia titolata in SAW Vol.II). Tra i ringraziamenti riportati nella inner sleeve del CD (dall’esplicativo sottotitolo “A collection of Electronic Music… for Dance and Thought”) spiccano significativamente i numi tutelari di Detroit: Carl Craig, Derrick May e Juan Atkins. Sta per prendere forma l’Intelligent Dance Music, ma per ora la definizione coniata dalla Rephlex è “Braindance”. La prima produzione ufficiale a nome The Aphex Twin esce nel settembre 1991 per la Mighty Force Records (e secondo The Guardian il momento rientra tra i 50 eventi chiave dell’intera storia della dance music): l’EP Analogue Bubblebath contiene in nuce già tanti dei temi topici della carriera di James. La traccia iniziale e omonima è programmatica, unendo una base ritmica acidamente 808 a linee di tastiere trance-ambient, il tutto punteggiato da gradicidanti bolle synth. Nel mezzo della pastosa hardcore Isopropophlex, di cui la quarta traccia AFX2 è una sorta di industriale e distorto remix, fa umoristicamente capolino la voce di Julie Andrews di Tutti insieme appassionatamente, cantando “The flowers that bloom in the warmth of the sun, are there to be loved by everyone” (ritroveremo altri sample della Andrews in Italic Eyeball – Caustic Window, 1992 – e in Supremacy II – Polygon Window 1993). I poliritmi breakbeat di En Trance To Exit sono realizzati con la collaborazione di Schizophrenia, ovvero il “twin” Tom Middleton, futuro global communicator. Nel dicembre 1991 vede la luce per la Rabbit City Records il white label a 45 giri Analog Bubblebath Vol 2, contenente la seminale Digeridoo (per il momento nominata Aboriginal Mix), ipnotico etno-breakbeat lanciato a 146 bpm (ma c’era anche chi, rallentandola a 33 giri, la suonava in una versione downtempo a 106 bpm), che porta James all’attenzione della scena technoacid internazionale. Tra maggio e giugno del 1992, per la R & S, fondamentale etichetta belga specializzata in produzioni techno, esce a nome Aphex Twin la doppietta di 12” Digeridoo (che, oltre alla traccia omonima e una versione di Isopropophlex, rinominata Isoprophlex, presentava le altrettanto abrasive Flap Head e Phloam) e Xylem Tube E.P. (nella cover del quale compare per la prima volta il famoso logo futuristico), con 158 bpm come punta massima di velocità raggiunta da Tamphex, contenente sample tratti direttamente dalla pubblicità: “are you one of those girls for whom time stands still, once a month? / Why stop when your period starts?”). Tutta questa frenesia hardcore techno sarà poi riassunta nell’uscita del 1995 Classics (R & S Records), che raccoglie i due EP Digeridoo e Xylem Tube, più Analogue Bubblebath, Metapharstic (traccia originariamente apparsa nella compilation Mayday – A New Chapter Of House And Techno ’92), due remix di We Have Arrived di Mescalinum United (ritenuto “il primo pezzo hardcore techno” della storia) e una storica versione di Digeridoo suonata live in Cornwall nel 1990. Un altro utile strumento per fare un po’ d’ordine nelle produzioni di James del periodo è la Compilation, uscita nel 1998, che raggruppa quasi tutte le tracce pubblicate dalla Rephlex dal 1992 al 1993 a nome Caustic Window (gli EP Joyrex J4, J5, J9i e J9ii). Anche qui troviamo distorte, ipersaturate, acide tracce breakbeat dai 147 bpm in su (Joyrex J4, AFX 114, Astroblaster, Joyrex J5, Fantasia, The Garden Of Linmiri, quest’ultima poi utilizzata per il famoso spot Pirelli con Carl Lewis) affiancate da brani più ambient/IDM non selezionati per i progetti più rilevanti (Cordialatron, Italic Eyeball – dove la già citata Julie Andrews ripete, anche al contrario, “Perhaps I had a wicked childhood”, 31 On The Romance Tip – che cita forse inconsciamente la Grande Porta di Kiev di Mussorgsky…) e altri episodi minori. Degno di nota il 10” picture disc catalogato come 009i, edizione limitata a 300 copie, che presenta le immagini fotografiche della TB-303 Bass Line (lato A – Humanoid Must Not Escape, che cita il videogame Berzerk e altre frasi dall’Uomo che cadde sulla terra) e della TR-606 Drumatix (lato B – Fantasia, con esplicito sample tratto dal porno “Seka’s Fantasies”, da cui un’altra citazione verrà utilizzata per Come On You Slags! in …I Care Because You Do), strumenti-feticcio Roland per tutta la generazione techno. Dalla Compilation rimangono fuori solo Pop Corn, nel quale James affronta alla leggera il remix breakbeat dell’immortale moog tune, uno dei temi obbligati della dance elettronica (solo nel 1992 si contano almeno altre otto diverse versioni), e la quarta traccia non intitolata di J5, identificata come R2-D2 per l’uso di suoni del droide di Star Wars. Rimanendo tra i divertissements: nel maggio 1992 James, con il moniker Power-Pill, riveste di breakbeat over 130 bpm la musica di Pac-Man (12”, label Ffrreedom). Nel luglio del 1992 viene pubblicata la prima risposta Warp alle sempre più pressanti richieste del mercato per l’“electronic listening music”: “Quel suono, infarcito di sci-fi alle volte cupa e altre estatica, insaporito talvolta di acidità e spezzante del break che nasce dall’hop ma che subito lo travisa, si impone subito come moda e piccolo business” (E. Bridda / M. Braggion). Nella compilation Artificial Intelligence, la prima uscita della serie omonima, Richard D. James apre le (non) danze firmando come The Dice Man l’ouverture Polygon Window, davanti a Musicology (cioè i B12), Autechre, I.A.O. (cioè Ken “Black Dog” Downie), Speedy J, UP! (cioè Richie Hawtin) e il Dottor Alex “The Orb” Patterson. E nel 1992 si fa ancora in tempo a vedere l’uscita (per la Apollo, sublabel della R & S) del 32 primo album di Aphex Twin, storica pietra miliare dell’ambient techno (e migliore album degli anni Novanta per FactMag): Selected Ambient Works 85-92 è uno dei più compiuti risultati della commistione di elementi tratti dalla tradizione kosmische kraut (passando per l’esperienza profetica di E2-E4 di Manuel Göttsching) e di reminiscenze minimalistiche (Riley, Reich, Glass) con i ritmi delle drum machines su cui si è edificata la house. Rispetto ad altre release del periodo (LFO, The Orb, Biosphere) le tracce qui raccolte (che, se vogliamo dar retta alla datazione suggerita dal titolo, risalirebbero a lavori realizzati da un James quattordicenne) spiccano per creatività e ampiezza di ispirazione. I limiti della tecnologia disponibile ai tempi diventano un punto di forza, evidenziando l’artigianalità delle composizioni: il suono è nebbioso ed etereo, le sequenze di synth pastosamente risonanti. Tutto è al posto giusto: il sognante sample vocale di Xtal, la risacca elettrica in background di Ageispolis, l’Eno che dura poco più di un minuto di I, i suoni tratti da Robocop di Green Calx, gli echi cosmici kraut in Schottkey 7th Path, i riflessi industrial di Hedphelym, l’acid house di Delphium… La frase da Willy Wonka (“we are the music makers and we are the dreamers of dreams”) colloca l’album in una precisa dimensione temporale: la citazione è una delle più usate nella scena techno-acid del periodo (vedi 808 State e Pied Piper N.R.G.). Nel gennaio 1993 la Warp pubblica il secondo disco della serie Artificial Intelligence: Surfing on Sine Waves, firmato da James con l’alias Polygon Window, segna indelebilmente la strada IDM della label inglese e prosegue l’esplorazione di territori elettronici al confine tra rave techno (Quoth, che uscirà anche come singolo, Supremacy II, Quixote), ambient techno (le linee melodiche di Audax Powder e If It Really Is Me) ed evoluzioni acid (la settima traccia senza titolo). Quasi contemporaneamente, nel febbraio 1993, la Rephlex presenta il terzo volume di Analogue Bubblebath (a nome AFX, a cui verranno attribuiti sia i due volumi precedenti in riedizione che i due successivi), in due versioni: il vinile è accompagnato da indicazioni turistiche su luoghi interessanti della Cornovaglia (!) e dalle istruzioni su come ascoltare .0180871, che in realtà è composta da due tracce, una nel canale destro e una nel sinistro; il CD contiene cinque tracce in più, splittando inoltre .0180871). Il 1993 vede anche l’uscita, sempre per la Rephlex, di uno dei due EP della serie Universal Indicator (dal sistema chimico per indicare in ph l’acidità) attribuibili a James: l’EP rosso, catalogato significativamente TR 606, è forse una delle produzioni più intransigentemente acid di sempre (il triplo vinile blu è del 1995, ed è di attribuzione meno certa). L’anno si chiude con la pubblicazione dell’EP On, prima uscita per Warp con l’alias Aphex Twin: l’ennesima originale commistione di asprezze hardcore e inquietanti linee melodiche ambient. Il 1994 è l’anno di Selected Ambient Works Volume II, il secondo album pubblicato a nome Aphex Twin: “un classico che ha fatto e che fa ancora scuola. Immortale”, dice Marco Braggion nella sua recensione. I tre LP o due CD (che qualcuno ha provato a suonare contemporaneamente, trovando un inaspettato – casuale? – assonante amalgama sonoro) compongono “uno dei più importanti lavori elettronici del Novecento” (C. Zingales), dove il lato rave dance viene del tutto accantonato per approfondire il concetto di “ambient” in 25 (24 nella versione in CD, per ragioni di spazio: la #19 è recuperabile nella compilation Excursions in Ambience: The Third Dimension) astratti, sospesi, bozzetti. Le tracce non sono intitolate (a parte Blue Calx, apparsa come già ricordato nella compilation Art/Rephlex del 1992), ma nelle liner notes ognuna è appaiata ad un’immagine. Loop eterei, sognanti, ma a volte disturbanti: un caleidosco- pio monocromatico tra estasi e incubo, che porta alle estreme conseguenze il perseguimento dell’obiettivo della “musica elettronica d’ascolto”, prendendo il testimone della ricerca verso quella “musique d’ameublement” che da Satie, passando per Cage, aveva portato a Eno. Un’opera così rigorosa nel suo approccio minimale che c’è chi la considera un elaborato scherzo nei confronti della scena elettronica del periodo (così come avverrà, anni dopo, per Drukqs: ciò che si fa fatica a incasellare si smonta…). Qualche mese dopo SAW II, la Warp, battendo sul chiodo-James finché è caldo, pubblica l’EP GAK, raccolta di quattro non memorabili esercizi techno tratti da demo inviate alla label nel 1990, mentre in agosto esce per la Rephlex il quarto episodio della saga hardcore techno Analogue Bubblebath. Il 1994 sarebbe stato anche l’anno di uscita per la Rephlex del primo album a nome Caustic Window: registrato e catalogato come CAT023, il disco dovrà aspettare vent’anni per essere reso pubblico (solo due brani, Cunt e Phlaps, erano comparsi in due compilation del periodo), attraverso una raccolta fondi via Kickstarter per finanziare il rippaggio digitale di una delle quattro copie della prova di stampa in vinile. 1995. La pubblicazione in aprile di …I Care Because You Do, terzo album di Aphex Twin (Warp), anticipato di qualche settimana dai due EP di remix di Ventolin (la punta più spigolosa e claustrofobica del lavoro, con trapananti altissime frequenze che simulano il tinnito), riprende le tesi di Polygon Window e On, attingendo ancora allo stesso mondo sperimentale e cinematronico (quasi metà delle tracce dell’album provengono da sessioni del 1990 e del 1993), insistendo sul versante melodico (vedi gli sviluppi quasi pop di Alberto Balsalm), ma con avvisaglie di inviluppo creativo. Prosegue l’ironia di fondo: sulla copertina compare una prima versione, autoritratta, del famoso ghigno aphe- 33 xiano; i titoli sono spesso anagrammi autoriferiti (Acrid Avid Jam Shred -> Richard David James; The Waxen Pith -> The Aphex Twin; Cow Cud Is Twin -> Caustic Window) o citazione di prodotti commerciali: l’antiasmatico Ventolin, lo shampoo Alberto Balsa(l)m. Alla fine del 1995 The Wire ospiterà un gustoso scambio a distanza tra Karlheinz Stockhausen e James, con il primo che, ascoltando Ventolin e Alberto Balsam, consiglia ad Aphex Twin di ascoltare il suo Gesang Der Jünglinge così “la smetterebbe subito con tutte quelle ripetizioni postafricane, e cercherebbe invece cambi di tempo e di ritmo”, e il Nostro che replica: “penso che lui dovrebbe ascoltare la mia Digeridoo, così la smetterebbe di fare astratti pattern casuali che non si possono ballare”. L’EP Donkey Rhubarb, di poco successivo (agosto 1995, Warp) riassume il tutto e rilancia, con la festosa title track dai rimandi orientaleggianti (popolarizzata da MTV come sigla del programma mattutino), i poliritmi a 140 bpm di Vaz Deferenz, la marcia sinfonica di Pancake Lizard e l’orchestrazione di Philip Glass di Icct Hedral che enfatizza il quarto di discendenza nobile (la casata del minimalismo colto) dell’elettronica aphexiana (James restituirà in seguito il favore, remixando Heroes dall’omonima postmoderna sinfonia). E’ plausibile datare 1995 altri due reperti mai ufficialmente pubblicati dalla Rephlex ma circolanti nel sottobosco della rete e facilmente reperibili anche su youtube (nel 2014, seguendo l’onda generata dalla riesumazione dell’album Caustic Window, verranno messi in vendita su ebay i due relativi test pressing in vinile, confermandone l’attribuzione ad AFX): le oblique Melodies From Mars, raccolta di dodici sghembe e inventive tracce che sembrano pensate per essere utilizzate come soundtrack di videogame vintage (due delle quali – Fingerbib e Logan Rock Witch – corrispondono alle versioni demo ma già complete di brani che verranno inseriti 34 nel Richard D. James Album del 1996, mentre gli archi pizzicati dell’ultima melodia sono una preparazione a Girl/Boy) e l’interessante Analogue Bubblebath 5 (che nel 2005 una ventina di clienti hanno ricevuto a sorpresa dalla Rephlex a compensazione di ritardi nella consegna), che condensa in nove pezzi i risultati degli ultimi esperimenti con i macchinari analogici (da segnalare in particolare lo sviluppo complesso e intrigante della prima traccia, oltre nove minuti) e che si conclude con Cuckoo, già presente nel vol. 4. Sono questi gli ultimi esempi sulla lunga distanza della prima stagione “analogica” di James, forse all’epoca non pubblicati ufficialmente perché da lui stesso già sentiti come superati. Nel 1995 si intensificano gli impegni di James come remixatore sui generis, attività svolta saltuariamente già dal 1992: spiccano i lavori per Nine Inch Nails, Gavin Bryars e Wagon Christ, ovvero il conterraneo e amico Luke Vibert. Ed è proprio in particolare nella produzione per quest’ultimo, pubblicata nel settembre 1995 nell’EP Redone (l’originaria Spotlight è assolutamente irriconoscibile), che incontriamo il primo ufficiale approccio di James verso la tecnica compositiva definita “drill and bass”: l’estremizzazione del breakbeat jungle, mediante complessità ritmiche sparate a velocità folli, impossibili in natura e realizzabili solo attraverso il computer, di cui proprio Vibert (con gli EP Plug), Tom Jenkinson alias Squarepusher (con l’EP Conumber), e James, con i due EP Hangable Auto Bulb (ottobre e dicembre 1995, Warp), costituiscono in quest’anno la trinità creatrice. Firmati AFX, i quasi anagrammi di Analogue Bubblebath non si limitano a rimescolare le carte, ma introducono (per pochi, tenuto conto della limitatezza delle edizioni, almeno fino alla riedizione su CD dieci anni dopo) le sperimentazioni digitali che diventeranno di lì a poco l’ossatura delle sue opere più famose, innestandole nella falsariga aphexiana fatta di 35 humor (i sample di bambini in Children Talking -“mashed potatoes” – e in Every Day) e di melodie (la lullaby di Wabby Legs) che con i nuovi “spastic rhythms” acquistano un fascino nuovo. Il quarto album ufficiale di Aphex Twin (in uscita a novembre 1996) è anticipato ad agosto dall’EP Girl/Boy (con in copertina la già citata tomba di “Richard James, 23 novembre 1968”, supposta prova fotografica dell’effettiva esistenza del fratello mai nato: privata citazione familiare o umorismo nerissimo?), dove la title track (linee melodiche pizzicate con campioni di archi e il tracker computerizzato che seziona l’amen break) è accompagnata da brevi flash drill (vedi i due minuti scarsi del Girl/Boy £18 Snare Rush Mix) e da dissacranti canzoncine infantilmente cantate da James stesso (Milk Man e Beetles). Il Richard D. James Album (32 minuti) prosegue la commistione tra riferimenti personali (la famiglia, i luoghi dell’infanzia cornish), vertiginose scariche drum e melodie sintetiche (i malinconici tratteggi cameristici di 4 e di Goon Gumpas), confermando Aphex Twin come nome di punta della squadra Warp. Il contrasto tra la vocina fanciullesca, la melodia pentatonica e i furiosi ritmi drill di To Cure A Weakling Child rappresentano la sintesi perfetta della ricerca del contrasto estremo che caratterizza l’approccio creativo di questa fase, mentre Peek 232421535 e Yellow Calx dimostrano la maestria tecnica già acquisita nell’utilizzo dei nuovi software di trattamento del suono. Il periodo dal 1997 al 1999 vede un forte rallentamento nei ritmi produttivi di James che, a parte qualche remix (tra cui una folle versione di The New Pollution per Beck), si limita a far uscire per Warp gli EP Come To Daddy (ottobre 1997, in effetti più lungo dell’album precedente) e Windowlicker (marzo 1999): si riduce la quantità ma non la qualità. Questo è anche il periodo di maggior successo e di massima visibilità mediatica, anche a causa dei due osannati video 36 girati per le rispettive title tracks da Chris Cunningham. In particolare il lavoro per Come To Daddy interpreta alla perfezione il misto disturbante di horror e humor del pezzo (“I want your soul, I will eat your soul”), con un impatto tale da rendere poi impossibile slegare il brano dalle immagini. I sei minuti del film devono molto a David Cronenberg e Shinya Tsukamoto, ma contengono riferimenti diretti anche del meno famoso ma ugualmente inquietante video del 1995 girato da David Slade per Donkey Rhubarb, con i suoi “rhubears” – orsi-teletubbies anch’essi tutti con il ghigno di Aphex Twin – precursori della gang dei satanici aphexbambini. Nel video è utilizzata anche la frase di Julie Andrews ripresa già in Isopropophlex del primo Analogue Bubblebath, da cui è preso anche un sample dei drum. Come è abitudine per James, rispetto al “drill and death metal” della prima versione (il Pappy Mix usato anche per il video), gli altri mix di Come To Daddy contenuti nell’EP risultano tutt’altri brani: nel Little Lord Faulteroy mix una vocina prima canticchia “Oh, you dirty little boy!” e poi bisbiglia satanicamente versi tratti dal Piccolo Lord già utilizzati nel £18 Snare Rush Mix di Girl/Boy (continuano i corsi e i ricorsi); il Mummy Mix è introdotto propriamente da mamma James (“You’ve got so many machines, Richard”) per poi lasciarsi andare al noise più astratto, con applauso finale. Bucephalus Bouncing Ball è esperimento onomatopeico, dimostrazione di perizia tecnica e di inventiva. La malsana Funny Little Man, la versione Contour Regard di To Cure A Weakling Child e la melodica Flim completano un’opera che alza ulteriormente l’asticella. L’EP Windowlicker, dalla famosissima copertina a cura di Chris Cunningham (il montaggio della faccia ghignante di Aphex Twin sul corpo di una pin-up in bikini), presenta solo tre tracce e ricorre ad argute soluzioni paratestuali (la complessa formula ΔMi−1 = −aΣn=1NDi[n] [Σj∈ℂ{i} Fij[n − 1] + Fexti[n−1];] come titolo della seconda traccia, le immagini inserite negli spettrogrammi di questa e di Windowlicker, il CD accompagnatorio con il cortometraggio omonimo, feroce e spassosa parodia dei video hip-hop più stereotipati) per rinforzare ulteriormente la proposta. I campionamenti di sensuali mugolii stretchati e arrangiati in coro e lo sviluppo ritmico midtempo fanno della title track, probabilmente la traccia più popolare di James, una composizione semplice solo in superficie. Il secondo brano, chiamato sinteticamente “formula” o “equation”, rappresenta la più ardita escursione in area sperimentale e astratta di James, che sembra in parte seguire i consigli di Stockhausen: le “ripetizioni ritmiche post-africane” non vengono cancellate, ma trascese da un complesso sviluppo sonico, con espressioni risalenti agli esperimenti elettroacustici dell’avanguardia del dopoguerra europeo. Nanou armeggia con suoni carilloneschi per un finale melodicamente aphexiano. Nel 2000 non si registrano release ufficiali. Unica segnalazione: la funzionale colonna sonora per “Flex“, un cortometraggio di Chris Cunningham presentato in occasione di un’installazione alla Royal Academy di Londra (solo un estratto di pochi minuti è disponibile nella raccolta di video del regista). Nel 2001 James fonda con Tom Jenkinson la label MEN, per la quale pubblica il 12″ 2 Remixes by AFX, omaggiando 808 State e DJ Pierre (componente dei Phuture) e aggiungendo una traccia non intitolata di due minuti che altro non è se non la conversione audio di un’immagine codificata in formato SSTV: altro tecnologico trick semiesoterico. Nell’ottobre del 2001 esce per Warp l’ultimo (ad oggi) album firmato Aphex Twin: il doppio CD (o quadruplo vinile) DrukQs. Percorrendo le due ore e venti minuti e le trenta tracce dell’album (variegate di aspetto e variabili di durata, dai tredici secondi agli otto minuti e mezzo) si ripercorrono tante fasi della carriera del Nostro (l’IDM polygonale di Bbydhyonchord, l’ambient selezionata di Gwely Mernans e Btoum-Roumada, l’elettroacustica astratta di Gwarek2 – contenente parti utilizzate per Flex, la drill vertiginosa di Vordhosbn, Omgyjya-Switch7, Cock/Ver 10, Ziggomatic 17, Afx237 V.7 – che nel 2005 verrà poi utilizzato per l’ennesimo, disturbante corto Rubber Johnny di Cunningham, fino alla velocità siderale – oltre 200 bpm – del capolavoro sonico Mt Saint Michel Mix+St Michaels Mount Drill), si respira la familiare aria di casa (i molti titoli nell’impronunciabile dialetto cornish, l’happy birthday cantato alla segreteria telefonica dai genitori in Lornaderek), si ritrova materiale già usato (54 Cymru Beats comprende parti della “formula” di Windowlicker), ma si scopre anche un lato nuovo, o quantomeno mai rivelato: ben dodici brani hanno come protagonista il piano, spesso preparato à la John Cage (l’ouverture di Jynweythek Ylow, il neocarillon di Hy A Scullyas Lyf A Dhagrow), a volte suonato via MIDI (Kladfvgbung Micshk, Prep Gwarlek 3b) o con sovraregistrazioni (Avril 14th), a volte oggetto di improvvisazioni impressionistiche (la debussyana Strotha Tynhe, l’origami di Ruglen Holon, la finale, poetica Nanou 2). Amato o snobbato (come pastiche non più sorprendente), DrukQs comunque non può lasciare indifferenti. Le release di James continuano a diminuire: il 2002 non vede nuove uscite, mentre nel marzo dell’anno successivo esce per Warp la raccolta in doppio CD di “26 Mixes For Cash”. La compilation consente di avere sottomano i principali lavori su commissione di Aphex Twin. Nel giugno 2003 esce a nome AFX Smojphace, il secondo (e ultimo) EP per la MEN con la side A dedicata al remix di Run The Place Red di The Bug & Daddy Freddy, dove la velocità del già torrido raggamuffin originario viene raddoppiata a 226 bpm, sparandola in orbita fino a liquefarla in un calderone di rumore bianco. Per il loro totale 37 estremismo rumoristico le due tracce nella facciata B, denominate ktpa 1 e ktpa 2, rappresentano la sfida definitiva per tutti i fan di James: terribile presa in giro o radicalizzazione nichilistica sul versante Merzbow e Russell Haswell (sulla falsariga di Satanstornade, album di Akita e Haswell uscito per Warp pochi mesi prima)? La compilation autocelebrativa Rephlexions! An Album Of Braindance!, pubblicata con il numero CAT1000 dalla Rephlex nel novembre 2003, viene chiusa da AFX con Mangle 11 (Circuit Bent VIP Mix), che se possibile porta ancora più all’estremo i risultati iperdrill di DrukQs. Dopo un altro anno senza novità, nel dicembre 2004 compare in vendita sul sito della Rephlex Analord 10, il primo di una serie di undici EP che la label farà uscire fino a giugno 2005. Il “mastodontico” progetto (oltre quattro ore e mezzo di musica comprese le bonus tracks pubblicate nel 2009, per un totale di 42 + 20 tracce) prende il nome da un brano apparso per la prima volta nel 2000 in un 12” pubblicato da Luke Vibert, fraterno costante riferimento di James. Analord è anche anagramma di A Roland, esplicitando così l’omaggio alla casa giapponese produttrice delle macchine utilizzate (MC-4, SH-101, TB-303, TR-606, TR-808, TR-909). Tranne il numero 10 (il primo, l’unico pubblicato a nome Aphex Twin, con le due tracce Fenix Funk 5 e Xmd 5a, peraltro le migliori del lotto, a rappresentare una sorta di traghetto dal digitale all’analogico) gli EP Analord sono firmati AFX, per un’operazione complessivamente definibile come “retro acid”, con riferimenti diretti – ovviamente – a Detroit e Chicago (vedi ad esempio il rimando evidente a Larry Heard nel titolo Laricheard). Una traccia simbolica su tutte? Pitcard da Analord 07, che sembra riassumere nei vari layer gran parte del mondo aphexiano: l’acid rolandiano, i pad ambience, l’originale sequenza armonica. Nel 2006 il “best of” del progetto Analord verrà presentato nel 38 CD riassuntivo Chosen Lords che, “con qualche aggiusto e variazione sul tema rispetto alle tracce originali, cerca d’aprire un ombrello comune al calderone espressivo dei 12”, ma si risolve in un lavoro piuttosto disorganico” (E. Bridda). Nel settembre 2005 un 12” Warp in edizione limitata presenta (in split con LFO) due ulteriori tracce analordiane: 46 Analord-Masplid e Naks 11 [Mono], versione più lenta di Naks Acid, presente nella colonna sonora del videogame Wipeout Pure. E’ opinione prevalente che le due release Rephlex del 2007 firmate misteriosamente The Tuss siano da inserire nella discografia aphexiana. Gli indizi di un coinvolgimento di James (almeno parziale, in collaborazione con altri, o quanto meno nell’elaborazione meticolosa dell’eventuale burla) nella realizzazione dell’EP Confederation Trough (“scritto e prodotto da Brian Tregaskin”) e dell’album Rushup Edge (“scritto e prodotto da Karen Tregaskin”) sono tanti: il consapevole e inventivo uso retrò delle strumentazioni analogiche, i riferimenti cornish, l’utilizzo del raro e costoso synth Yamaha GX1 (di cui James è uno dei pochissimi possessori), l’aver suonato una traccia dell’album durante qualche DJ set aphexiano nel 2005 (quindi due anni prima della release ufficiale), il fatto che i brani dei due dischi siano registrati tra le 151 entry del repertorio ufficiale BMI a nome Richard David James. Nel 1998 la compilation Warp (numero di catalogo WAP 100) We Are Reasonable People presenta come brano iniziale Freeman Hardy & Willis Acid a firma Squarepusher/AFX, unica testimonianza ufficiale della collaborazione tra Jenkinson e James e da segnalare, più che per i risultati artistici (un drill and acid di maniera), in quanto ultima traccia ufficiale ad oggi di James. Da allora le comparizioni pubbliche di James si sono limitate a qualche remuneratissimo DJ set e a due particolari eventi concatenati. In occasione dell’esecuzione in prima mondiale a Cracovia (10 settembre 2011) di due remix di lavori di Krzysztof Penderecki commissionatigli dall’European Culture Congress polacco (la Trenodia per le vittime di Hiroshima e Polymorphia, trattati dal Nostro con deferente rispetto), James ha condotto in remoto un’orchestra di 48 elementi e un coro di 24 cantanti, per una composizione microtonale dallo spirito ligetiano. La performance è stata replicata il 10 ottobre 2012 al Barbican Theatre di Londra, in un programma che ha visto anche un pianofor- te elettronico sospeso su funi e 18 mirrorball microfonate che oscillando emettono suoni sinistri (riprendendo la Pendulum Music di Steve Reich) e riflettono luci verdi al laser. Un omaggio ad un secolo intero di suoni inauditi, dall’Intonarumori di Russolo passando per gli esperimenti di John Cage e l’ambient music di Brian Eno: un filone nel quale anche Richard D. James va annoverato come Maestro. Da lui aspettiamo ancora buone nuove, ma tutto ciò che finora ci ha dato (magari sfoltito di qualche episodio) potrebbe ampiamente bastare. 39 40 Dice: “I 90 stanno tornando”. Ok, ma quali anni '90? Quelli dell'angst generazionale made in Seattle o quelli della coolness metropolitana britpoppara? Testo di Andrea Macrì, Diego Ballani, Stefano Gaz, Tommaso Iannini, Stefano Pifferi Si dice: “I ’90 stanno tornando”. Ok, ma quali anni ’90? Quelli dell’angst generazionale made in Seattle o quelli della coolness metropolitana britpoppara? Tornano, è vero. Vuoi per una legge non scritta che vuole che qualunque cosa obsoleta dopo dieci anni, torni di moda dopo venti; vuoi per il fatto che i ’90 (e forse l’inizio del millennio successivo) rappresentano l’ultimo periodo in cui potevi parlare con il vicino di banco o di scrivania e sperare che avesse ascoltato i tuoi stessi dischi o avesse visto i tuoi stessi video musicali. Quel che è certo è che chi li ha vissuti, quegli anni se li ricorda come un periodo di commistione, rivisitazione, detournement, addirittura, ma non certo di innovazione. Per lo meno in ambito rock, quello apparentemente più saccheggiato dai giovani artisti indipendenti e non. Paradossalmente, solo oggi, constatando i tentativi più o meno riusciti di emulazione, ci rendiamo conto di quanto, nel ricombinare esperienze passate, si sia stati in grado di sintetizzare formule capaci di durare nel tempo. Da qui l’idea di tracciare una mappa di nomi, titoli, esperienze che hanno definito un’epoca e la sua importanza, riverberando la loro influenza fino ad oggi in modo forse non sempre evidente. Si tratta di un elenco ragionato ma realizzato volutamente con poco distacco, vista la relativa vicinanza dell’oggetto trattato. Pertanto è da leggersi in modo laico (considerando anche che il modo in cui ci si rapporta a ciascuno di questi dischi è destinato continuamente a mutare) e, soprattutto, divertito. Pronti a cominciare? 41 35. Metallica – omonimo ( Black A lbum , 1 9 9 1) Pochi album così importanti sono stati anche tanto controversi. Maturità o sell-out? Lasciamo ad altri sentenze e processi alle intenzioni, notiamo invece una scelta di campo applicata in tutto e per tutto, con raziocinio, pervicacia e ispirazione: alzare l’asticella oltre l’essere di genere per atterrare nella serie A, anche commerciale, del rock. Del rock, quindi più che del metal, anche se il vero sacrificato è il punk, non il metallo pesante. È tutto consequenziale: la scelta di Bob Rock, produttore di Mötley Crüe e Cult, le composizioni semplificate rispetto al virtuosismo barocco di …And Justice for All, il privilegiare il suono rispetto ai tempi mozzafiato, i riff a combustione lenta e quasi da vecchia scuola heavy blues di Enter Sandman e di Sad But True – tra una Kashmir del post-thrash e una via metallica al grunge (l’ispirazione viene dai Soundgarden e si sente) – o provare a essere melodici in una percentuale in cui i Metallica non erano mai stati prima della morriconiana The Unforgiven e di Nothing Else Matters, dove nello stesso pezzo si autoinfrangono due tabù, la ballata romantica e l’arrangiamento orchestrale. Fermata obbligatoria per il metal anni ’90, volenti o nolenti, persino per i suoi titolari, da allora rimasti al palo. (TI) 34. Flaming L ips – The Soft Bulletin (1 9 9 9) Alla perfezione cinematica, i Flaming Lips avevano già preso la mira con il progetto Zaireeka, l’album in cui il loro noise pop perdeva ogni scoria rumorista per farsi lisergica sinfonia. In pochi se ne erano accorti, impegnati più ad osservare l’oggetto in sé (un quadruplo CD da suonarsi all’unisono), piuttosto che ascoltarne i contenuti. Infine nel ’99 esce The Soft Bulletin e viene da pensare che se Brian Wilson avesse avuto la stralunata ironia (e l’efficienza) di Wayne Coyne forse avrebbe prodotto qualcosa di simile. In verità il songwriting di Coyne paga solo in parte tributo all’ex Beach Boys. L’album, con la sua cinedelìa spaziale, è più un omaggio a compositori non allineati come Van Dyke Parks e Joe Meek. C’è una voglia di portare questo pop allucinato alle masse con inni ultraterreni come Race For The Prize, di cui ognuno può scegliere se cogliere la carica anthemica o il destabilizzante sottotesto lisergico. E’ una caratteristica di Coyne quella di cercare lo straordinario nell’ordinario. O viceversa, realizzare strumentali che sembrano temi disneyani sotto acido. Anche negli spettacoli i Flaming Lips si fanno interpreti di una concezione gioiosa della psichedelia che diventerà paradigma per interpretare gran parte 42 del pop a seguire, dalle trame oblique degli Animal Collective a quelle danzerecce dei MGMT. (DB) 33. S epultura – R oots ( 19 9 6 ) Tra i tanti dischi metal di successo commerciale (vedi Metallica e Pantera) Roots dei Sepultura rimane il più rappresentativo della cultura 90s perché espressione massima del crossover in zona heavy. Un’operazione musicale e culturale: c’è lo spostamento d’asse dal trash/death degli esordi verso le direttrici nu metal (Lookaway), ma soprattutto l’orgogliosa riscoperta della tradizione brasiliana, e in questo senso la presenza del percussionista Carlinhos Brown (già con Caetano Veloso in Estrangeiro) pare molto più significativa di quella del cantante dei Korn, Jonathan Davis. E’ la radice etnica l’anomalia e la chiave di lettura di Roots, che partorisce una brutalità sempre a braccetto con djembe e timbe, sitar e berimbau, passando in rassegna chitarre tradizionali (Jasco), fascinazioni indigene (Itsàri) ed esoteriche (Ratamahatta), senza tralasciare classici anthem d’impatto come Attitude. Ironia vuole che sarà proprio quel concetto di attitude and respect a venire meno, tanto nel futuro dei Sepultura (complice la separazione dei fratelli Cavalera), quanto nel filone metal sudamericano che sull’onda lunga di Roots troverà un discreto spazio discografico. (SG) 32. Slowdive – Souvlaki ( 19 9 3) Quando usciva questo disco, nel ’93, lo shoegaze era già stato sbranato, digerito e deiettato. I MBV, con Loveless, avevano indicato il punto di non ritorno. Nessuno sapeva che farsene di questa band di Reading di cui tutti, a partire dalla loro etichetta, avevano fatto in fretta a disinteressarsi. La colpa di Neil Halstead e soci era quella di incarnare l’anima più dreamy e ultraterrena della “scena che celebrava se stessa”. Canzoni come 40 Days e Alison però non erano eccellenti solo grazie ad un utilizzo di effetti e riverberi. Erano frutto di una visione che introiettava il rumorismo del decennio precedente e lo espelleva in un pulviscolo atomico di chitarre, dando vita ad una sinfonia celeste, ad un ambient iperuranico. Ecco perché la band voleva che a produrre il disco fosse Brian Eno. Il maestro rifiuterà, esprimendo, però, il suo apprezzamento e chiedendo di partecipare all’album. È così che Souvlaki alterna il candore pop di When The Sun Hits a rarefatte jam sperimentali (Souvlaki Space Station). Non mancano neppure i prodromi di quel folk mesmerico che porterà alla 43 nascita dei Mojave 3. All’uscita verrà quasi snobbato. Vent’anni dopo le band e le etichette che lo hanno preso a modello, non si contano neanche. (DB) 31 . Kyuss – Blues For The R ed Sun (1 9 92) Il deserto, il blues, la musica heavy. Tre elementi che hanno sempre flirtato e che trovano una nuova vita agli inizi dei ’90 quando quattro debosciati del sud della California inclini all’uso di droghe leggere e alla fusione degli ampli, trovano nel deserto l’illuminazione che prenderà il nome di stoner: psichedelia desertica a base di peyote e erba applicata all’hard-rock primitivo e acido. Giri di basso enormi, chitarre che definire sporche è poco, batteria come un locomotore più un frontman piuttosto carismatico come John Garcia fanno di Green Machine il singolo ideale per introdurre l’album e sfondare in un momento in cui l’“alternative” comincia ad interessare le grosse label. Non sarà così e Blues From The Red Sun sarà in pratica tanto un flop commercialmente quanto una pietra miliare stilisticamente: inutile dire che la genia post-Kyuss – QOTSA, Fu Manchu, Unida, Slo Burn in maniera più o meno diretta, una infinità di altri in maniera indiretta – è a dir poco sterminata e per forza di cose riconoscente ad una formazione che ha l’onore di aver letteralmente inventato un genere. (SP) 30. M otorpsycho – Timothy’s M onster (1 9 94 ) Un disco rock completo come capitava di sentire (solo) nei ’90. Se Demon Box aveva saputo proporre una via scandinava, del tutto credibile e ispirata, al suono grunge, il doppio CD, segno di una prolificità debordante che li contraddistinguerà durante tutto l’arco della carriera, approfondisce meglio un altro aspetto dell’estetica Motorpsycho: la psichedelia. Una psichedelia soffice e bucolica come nell’iniziale Feel, o che viaggia su lunghezze da superjam e con cadenze panzer nella The Wheel degna di un gruppo stoner. I due brani agli antipodi – in tutti i sensi – del monumentale Timothy’s Monster danno già di per sé la misura della versatilità sonora dei norvegesi. Manca di aggiungere tutto quello che c’è in mezzo, gemme tra il folk più delicato ed esotico, il pop chitarristico acido e rumoroso che mastica accordi e rumina sulle lezioni dei corrieri sonici d’oltreoceano (Dinosaur Jr. e Sonic Youth) e un hard rock brillante ed evoluto. Il raggio d’azione è così ampio da abbracciare una fetta non indifferente dello scibile rock, in cui è difficile trovare uno stile che Snah e Bent 44 non sappiano abbracciare. (TI) 29. E lliot S mith – Either/Or ( 19 9 7) Dopo che l’evoluzione del post-punk/post-hardcore ha compiuto la sua parabola fino al grunge e le major hanno prosciugato i roster delle etichette “storiche” degli anni ’80, il ricambio generazionale e musicale in seno alle indipendenti porta alla riscoperta della figura del cantautore. Da Damien Jurado a Mark Linkous, da Bill Callahan a Mark Kozelek, una nuova genìa di singer/ songwriters fa sentire la sua voce addentrandosi nelle pieghe nascoste della propria anima. Elliott Smith, assieme a Bonnie Prince Billy, è uno dei più dotati. Esordisce per una piccola etichetta di Olympia quando è ancora il bassista degli Heatmiser, per poi passare alla Kill Rock Stars. La vena preferita è intima e acustica, tra Paul Simon, Elvis Costello e Nick Drake. Either/ Or dimostra tutte le sue potenzialità grazie agli arrangiamenti più elaborati e ad alcune delle canzoni più brillanti del suo repertorio: Speed Trials, Alameda, Ballad Of Big Nothing, Pictures Of Me, Say Yes. Verranno poi Gus Van Sant, la notte degli Oscar, il contratto per la Dreamworks e il relativo successo. Il mal di vivere, quello resterà fino alla fine. La sua voce fragile è stata tra le più intense di una generazione. (TI) 28. Jon Spencer Blues Explosion – O range ( 1 9 94) Non chiamatelo revivalista. Dopo la filologia drogata di modernismo dei Pussy Galore, Jon Spencer dà vita a un trio che chiama Blues Explosion per mettere in scena la metacritica della “historia de la musica rock”. È il verso della medaglia del post rock: se a Chicago e Louisville si procede in direzioni altre, Spencer va all’origine dello specifico della musica chitarristica bianca (cioè nel suo fondo nero) non per superarlo, ma anzi per dissezionarlo e riscriverlo in chiave lo-fi, raschiarlo e scarnificarlo con l’irriverenza di un punk e l’interesse dello studente di semiotica che era stato negli anni ’80. Con Orange poi si conferma l’Elvis del poststrutturalismo rock. Avremmo potuto scegliere altri lavori ma l’album del 1994 contiene tutto ciò che promette, un’esplosione blues che non è solo blues, riff inanellati su chitarre polverose e le trovate più bizzarre, dai violini della rutilante Bellbottoms al rap di Beck in Flavor e all’assolo di theremin in Dang. Jon è l’anello di congiunzione tra i Jeffrey Lee Pierce di un tempo e gli Auerbach e i White di oggi. Ed è anche molto di più. (TI) 45 27. Blur – Parklife ( 19 94) Si può parlare di britpop senza i Blur? No, perché di quel fenomeno sono stati la formazione più rappresentativa, la più articolata, e persino la più coraggiosa. Dimenticati i trascorsi baggy, l’album che li ha lanciati anche fuori dai patrii confini riannoda i fili di una tradizione britannica selezionata per rientrare nel loro immaginario weird pop: i Beatles, i Kinks, gli XTC, i Who, Bowie, Elvis Costello, ma anche il music-hall e il vaudeville. È un piccolo compendio della storia del rock inglese visto da una prospettiva un po’ eccentrica e leziosa, da parte di un gruppo giovane con molti assi da giocare. Girls and Boys e Parklife sono quanto di più esuberante e sbarazzino, End of the Century, To the End, Badhead hanno melodie brillanti e malinconiche il giusto per essere singoli perfetti. Le storie di personaggi alienati – inventati ma veri – della middle class britannica scritte da Damon Albarn sono icastiche come i bozzetti di un novello Ray Davies. Niente Cool Britannia, semplicemente, this is England. (TI) 26. Red H ot Chili P eppers – Blood Sugar Sex M agik (1 991) Il quinto album in studio dei Red Hot Chili Peppers – Anthony Kiedis al canto, John Frusciante alla chitarra, Flea al basso, Chad Smith alla batteria – è sintesi e consacrazione di una carriera che, rispetto all’austerity dell’underground americano, ha sempre avuto nel non prendersi troppo sul serio uno dei propri vessilli. D’altronde, le influenze sono quelle da muovi il culo e la tua mente gli andrà dietro. Impegno e storie più serie sono sempre sullo sfondo di una goliardia che comanda. E la musica fa il paio a questo modus operandi. Funk, rock, assoli, bassi da maglio allo stomaco, batteria pestona, rapping mischiato alla melodia, sono gli ingredienti che rendono questo disco una cosa inaudita: la formula che in tutti i dischi precedenti era stata continuamente perfezionata, qui tocca la perfezione. Inutile dare testimonianza di una scaletta epocale, 17 brani per più di settanta minuti che portano agli anni Novanta un meltin’ pot che, da qui in avanti, sarà letteralmente saccheggiato. Talmente sfruttato che, a guardarlo oggi, quel funkpunk-rap-rock-pop pare alquanto imbolsito. Ma non qui, perché le canzoni (e qui sta la vera differenza con gli epigoni) dei Peppers sono frutto di penne mature e scintillanti, mai come ora e mai più dopo così all’apice. (AM) 46 25. B jörk – Post ( 19 9 5) Non è un’artista rock in senso stretto, Björk. L’esperanto musicale della cantante islandese appare piuttosto una commistione tra trip-hop, dance elettronica e pop moderno, dove è però la forma canzone a prevalere sui generi di riferimento. Per questo abbiamo comunque scelto di citarla, considerando che si tratta di una delle artiste più innovative del decennio. Il suo successo nasce da solide basi, una originalità indiscussa nel canto che andava di pari passo con la scelta oculata dei collaboratori: per bissare il successo del primo album (intitolato apoditticamente Debut), la cantautrice islandese puntava tra gli altri su Nellee Hooper, Tricky e gli arrangiamenti d’archi di Eumir Deodato, veterano delle colonne sonore. Anche i brani più celebri che l’hanno lanciata come fenomeno mondiale hanno sempre qualcosa di spiazzante, da quel mirabile incontro tra pop e techno (che è un’altra cosa dal techno pop, proprio un’altra) di Hyperballad alla sottile angoscia di una Isobel o alla cover di un brano da musical, It’s Oh So Quiet, in cui Lars Von Trier doveva avere visto già in azione la sua prossima vittima. E le imitazioni non si contano. (TI) 24. U2 – Achtung Baby ( 19 9 1) Il passaggio tra il decennio che li ha eletti star assolute e un futuro pieno di incognite coglie gli U2 esattamente nel luogo simbolo della nuova era, la Berlino fresca di caduta del muro. Tra mille difficoltà ma affidandosi alle mani sapienti di Lanois, Eno e Flood, gli irlandesi vanno in autoanalisi e scardinano tutte le certezze acquisite. La sfida è plasmare il nuovo rock del villaggio globale. Bono si reinventa istrione postmoderno mentre The Edge traffica con settaggi, loop, batterie elettroniche e nuovi effetti, oltre ai suoi arpeggi e chop in delay che al tipico staccato adesso aggiungono vibrazioni funky e riflussi cacofonici. L’operazione riesce grazie alle canzoni: One, Who’s Gonna Ride Your Wild Horses, So Cruel, The Fly o Ultraviolet sono il meglio degli U2 “modernisti”. Un disco che storicamente si colloca tra Bowie e Iggy Pop, che a Berlino avevano “inventato” la new wave, e i discepoli Radiohead che dalla musica dance contemporanea trarranno ispirazione per un programma più radicale. (TI) 23. M ogwai – Young Team ( 19 9 8 ) Il post rock degli anni ’90 è nato in Gran Bretagna – almeno come attitudine, secondo la teoria del critico Simon Reynolds che per primo ne parlò apertamente su The Wire – ma è stata la scuola 47 americana di Louisville e Chicago a definire le coordinate musicali con cui il genere si è poi identificato negli anni successivi. Non a caso la punta di diamante del post rock europeo è la formazione scozzese di Stuart Braithwaite che dagli Slint ha appreso una maniera nuova di usare le chitarre e tutta strumentale. Dinamiche che cominciano dal pianissimo quasi impercettibile a preparare imperiosi crescendo o lo scoppio improvviso di sequenze alienanti con picchi distorti di rumore chitarristico: la lezione di Spiderland portata a un nuovo livello, con l’aggiunta dei suoni siderali, di cui parla una voce catturata in Yes! I Am a Long Way From Home (un vezzo quasi pinkfloydiano più che slintiano), e delle tempeste noise alla Kevin Shields, del quale i Mogwai sono fedeli discepoli, ma fortunatamente non banali imitatori. Mogwai Fear Satan è per metà un sabba rock e per l’altra si avvicina alla maestosità di una sinfonia. (TI) 22. Shellac – At Action Park ( 1 9 94 ) Il disco più punk del math rock, sempre che di math si possa parlare in senso stretto, ma le partiture tanto violente quanto sofisticate porterebbero a dire di sì. Insieme a Bob Weston e al tentacolare batterista Todd Trainer, Steve Albini crea uno dei suoi migliori album come musicista, se non il suo migliore in assoluto. Gli Shellac sviluppano il discorso di Big Black e Rapeman in un laboratorio sulla decostruzione, sublimazione e astrazione del suono di matrice post-hardcore stile Touch and Go, tra il noise dei Jesus Lizard e il rock, questo sì, matematico dei Don Caballero. Il passaggio dall’aggressività e dalla violenza sonora ancora punk alle geometrie post si concretizza in mezzora di rock acrobatico, spericolato quanto compatto e cerebrale. Il blues rock autoptico di My Black Ass o The Admiral, le convulsioni di una chitarra tignosa, cattiva, che scricchiola, si contorce e picchia duro nello strumentale Pull the Cup, la ritmica sincopata di Crow sono tra i momenti topici. (TI) 21 . Primus – Sailing The Seas O f C heese (1 9 9 1) E fu così che un altro gruppo di alieni atterrò sulla terra. Inglobando gran parte della tradizione weird americana (dagli storici Residents ai contemporanei Butthole Surfers e Melvins, senza dimenticare Captain Beefheart) i Primus fecero di un approccio strampalato al rock il loro punto di forza. Crossover è un termine utilizzato dopo il loro passaggio: avevano un impianto hard rock ma tra quelle pieghe viveva un mondo fatto di infusioni etniche, 48 funk, blues epilettico, psichedelia che riuscì a condensare in un’unica formula l’anima alternative della musica americana. Non a caso, il pubblico della band veniva dai nuclei più disparati: quello rock certo, ma anche fricchettoni e metallari. Sailing The Seas Of Cheese è il disco della rivelazione al grande pubblico e incarna tutti gli elementi del Primus-pensiero, a partire dal concept cartoonistico che ben identifica l’ironia sghemba del trio di San Francisco; a dispetto dei molti classici (Here Come The Bastards, American Life, Jerry Was a Race Car Driver, Tommy The Cat impreziosita dalla voce di Tom Waits), la minuzia compositiva di Claypool e soci viene alla luce nelle tracce accidentali come l’incipit barcollante di Seas of Cheese, il fast’n’bulbous di Is it Luck? o nelle trame orientali di Sathington Waltz. Paradossalmente sarà il minore Antipop a fornire il termine giusto per descrivere la loro musica. (SG) 20. Jeff Buckley – G race ( 19 94) Per una volta tanto, figlio d’arte non era una frase fatta. Guai però a parlare a Jeff di Tim, con cui ebbe pochi contatti nella breve vita – di entrambi – ed evitava a priori qualsiasi paragone. Del padre aveva però ereditato tutto, e specialmente la formidabile voce, dall’estensione vertiginosa. Grace è un album diviso tra gli originali sospesi tra rock, soul, folk, psichedelia e musica lirica, e una versatilità d’interprete già provata nei concerti che si misura con un classico di Nina Simone, un brano di Benjamin Britten e una versione di Hallelujah di Leonard Cohen, talmente personale da diventare una delle migliori cover di sempre. I vocalizzi sovracuti di quel falsetto teso, vibrante e quasi incorporeo sono il tratto distintivo di un talento cristallizzato in quest’unico disco di studio. Buckley il giovane ha lasciato però un’impronta profonda, su cantautori come Rufus Wainwright ma pure Antony and The Johnsons o su Joan Wasser, che fu la sua compagna, e ha ispirato molti gruppi inglesi di area mainstream, tra cui i Muse o i primi Coldplay. (TI) 1 9. J esus Lizard – G oat ( 19 9 1) Quando nel 1991 i Jesus Lizard fanno uscire Goat, al loro attivo hanno già la fine di una band come gli Scratch Acid, e la pubblicazione di EP (Pure) e di un LP (Head) che certificano il loro ruolo di guida del noise americano. Meno cervellotici e stilosi dei Sonic Youth, più blues dei Big Black ed ugualmente aggressivi (e con Steve Albini a produrre), con Goat i quattro partoriscono 49 quel che si suol dire una cannonata. Fin dall’incipit di Then Comes Dudley, i JL viaggiano su quattro vettori: aggressività chitarristica fantasiosa (Denison, un principe della chitarra), sezione ritmica bulldozer, testi scatologici e malsani e voce grottesca. È musica che, nonostante si infili in un alveo che potrebbe risucchiare fino al monotono, nel monotono non scade mai: merito di musicisti capaci, autentici, realmente creativi. E di un invasato come David Yow alla voce, che all’austerità mostruosa del suono contrappone una disperazione canora che non risulta mai meno che autentica nel suo essere totalmente sbilenca. È questo forse il segreto dei Jesus Lizard: in un genere che si prende spesso terribilmente sul serio, loro stanno dalla parte dell’assurdità. Della vita, quasi. (AM) 1 8. Yo La Tengo – I Can Hear Your H eart B eating A s O ne ( 19 9 7 ) Così come ai Radiohead spetta il compito di chiudere i conti con il Britpop, dall’altra parte dell’oceano sono gli Yo La Tengo a inventare l’exit strategy dal manierismo lo-fi e alternative. Nel ’97 i tre di Hoboken sono già dei veterani ed è proprio per questo che il loro settimo lavoro funge da punto di partenza per la maturazione di tutta la scena. Il rinnovamento, ancora una volta si realizza guardando al passato, andando oltre il marchio di fabbrica del gruppo (la melodia velvetiana infusa di scorie noisy) e facendo proprie le pulsazioni metronomiche e le derive spacey del kraut rock. Tutti questi sperimentalismi su ICHYHBAO convivono all’insegna di un pop polimorfo e artisticamente vorace, che fa della misura e del rigore la propria carta vincente. La risultante è una nuova e ambiziosa forma di drone music, che prende di volta in volta la forma di meditazione folk (Green Arrow), romantica poesia shoegazy (We’re An American Band), giustapposizione fra pop, cacofonie e scale jazzy (Moby Octopad). Il twee pop di Stockholm Syndrome e il lungo exploit, a metà fra Neu! e Sister Ray, di Spec Bebop, sono le Colonne d’Ercole di un album il cui range stilistico anticipa gran parte del pop del nuovo millennio. (DB) 1 7. R.E .M . – Automatic For The People (1 9 92) Strane cose succedevano nelle parti alte delle classifiche nel ’92. Poteva accadere persino che una mantra mesmerico come Drive circolasse furiosamente per tutti i maggiori network. Una cosa resa possibile dall’exploit di Out of Time, avvenuto appena pochi 50 mesi prima, e da un clima più generale di grande attenzione verso l’underground. Anche per questo la band di Athens, stordita da un successo che non si sarebbe mai aspettata in simile misura, abbassava i volumi e sfornava il suo lavoro più rigoroso e ascetico dai tempi di Murmur. Automatic è in tutti i sensi il Murmur degli anni ’90. Quello in cui la band recupera il misticismo della primissima produzione e ne restituisce il senso di mistero attraverso ballate trasfigurate e solenni. Dove i pochi momenti elettrici fungono da mero alleggerimento, mentre agli episodi acustici come Nightswimming, Find The River ed Everybody Hurts spetta il compito di scavare in fondo, recuperare il rapporto fra vita e memoria, descrivere un paesaggio sospeso che è lo specchio della coscienza collettiva di quegli anni. Saranno in molti a considerarlo un album importante, già al momento della sua uscita. Chiedere a Kurt Cobain e a tutti quei fragili campioni del rock che in quei suoni così classici e così freschi, avevano intravisto un via di uscita dal circo del grunge. (DB) 16. Mercury R ev – Deserter’s Songs (1 9 9 8) Rispetto agli esordi del gruppo di Jonathan Donahue e Grasshopper, Deserter’s Songs lascia fuori i cicloni di chitarre rumorose e distorte e propone un altro wall of sound, di marca quasi spectoriana. È il biglietto da visita dei nuovi Mercury Rev, campioni di una canzone nobile americana tra Tin Pan Alley e i Beach Boys di Pet Sounds. Questo aspetto “neoclassico” è evidente nel soft rock orchestrale, elegante e sontuoso, anche piacevolmente ridondante, in cui si ritrovano le atmosfere pastorali, la vocazione per le colonne sonore care al gruppo di Buffalo, ma anche scampoli di musica sinfonica e le note blu del jazz, nel solo di sassofono di Hudson Line suonato da Garth Hudson della Band – altra influenza maggiore. Più che un disco degli anni ’90, sembra sospeso nel tempo, segno di grande libertà espressiva, e prefigura già un’epoca in cui le varie tradizioni vivranno simultaneamente in unico presente “storico” indistinto, come saranno gli anni Zero e oltre. (TI) 1 5. Nine Inch Nails – T he Downward Spiral ( 1 9 94) Trent Reznor è il neuromante di William Gibson, lo sciamano tecnologico che s’interfaccia direttamente con il sistema nervoso delle macchine, il mago dello studio di registrazione che dal perfezionismo maniacale di producer cava i suoni più viscerali. 51 È il primo cantante showman – la prima rockstar – della musica industriale, genere che contribuisce a sdoganare presso il pubblico rock sfruttandone la valentia rumorista all’interno di una forma canzone sperimentale finché si vuole ma in fin dei conti vendibile. The Downward Spiral, concept album maledetto e ammantato di un’aura disturbante, prosegue un bel passo oltre il connubio di melodie claustrofobiche, ritmi dance e scariche metal dell’album di debutto Pretty Hate Machine con un programma multitasking di atmosfere torbide e sinistre che incrociano il terrorismo sonoro di un Foetus, un techno pop perverso, un martellante heavy rock, paesaggi sonori al limite dell’ambient e canzoni acustiche. I brani simbolo, non per niente, sono il cyberpunk di March of the Pigs, il synth pop decadente di Closer e la ballata esistenziale Hurt. (TI) 14. Neutral Milk Hotel – I n The A eroplane Over The Sea ( 19 9 8) I gruppi del collettivo Elephant 6 di cui Jeff Mangum è stato uno dei fondatori insieme ai membri di Olivia Tremor Control e Apples In Stereo condividevano l’amore per il sound degli anni ’60 e in particolare per i Beach Boys. Anzi, avevano eletto l’artigianato da studio di Pet Sounds a nume tutelare per le loro prove discografiche, ma non si sono fortunatamente fermati al 1966. Il secondo album dei Neutral Milk Hotel dimostra, per esempio, che l’attitudine punk e lo-fi si sposa benissimo con un’idea pop di stampo sixties. Le composizioni di Jeff Mangum seguono un canovaccio in teoria abbastanza lineare partendo da un’acustica in primo piano che macina accordi, però sono tali la qualità della scrittura di musica e testi, l’abilità nell’arrangiamento e il pathos interpretativo che il risultato dimostra come si possano scrivere canzoni classiche e incrostarle di rumori, galvanizzarle di fiati squillanti e, più in generale renderle nuove e fresche anche in ossequio a modelli mai superati. Pensate pure a una band come gli Okkervil River, che a questi solchi devono veramente tanto, se non tutto. (TI) 1 3. Bonnie Prince Billy – I See A Darkness ( 1 9 9 9) Will Oldham, con le sue varie incarnazioni e sigle, ha contribuito rilanciare la figura del cantautore folk nell’ambito della musica indipendente americana, a metà tra l’alternative country più brillante propugnato da band come i Wilco e la tecnica spartana 52 del lo-fi. Dopo Palace Brothers, Palace Songs, Palace Music e Palace, e il disco omonimo del 1997, è l’alter-ego Bonnie Prince Billy a monopolizzare la sua produzione. Che non cambia in modo sostanziale. L’esordio del nuovo pseudonimo può essere preso ad esempio per l’atmosfera da waste land esistenziale e un tipo di scrittura toccante e intimista, dagli accenti gotici piuttosto marcati, da man in black del terzo millennio, che aderisce ai canoni del folk, dal country o del blues senza tentativi olografici. A Minor Place, Nomadic Revery (All Around), I See A Darkness e gli altri brani del disco non si pongono il problema di suonare tradizionali, semplicemente suonano, bene, tra arrangiamenti essenziali e una voce dolente e carica di romanticismo. (TI) 1 2. Smashing Pumpkins – Siamese D ream (1 9 94 ) Come avreste immaginato a caldo una fusione tra Nevermind e Loveless? Billy Corgan non l’ha solo immaginata. Del resto, come per molti loro pari dei primi ’90, anche lo stile dei Pumpkins è un furioso ricombinare altri stili dall’intero spettro del rock (meno, forse, il punk), ma lui non aveva paura nemmeno di sporcarsi le mani con l’AOR di Boston, Queen ed ELO, che altri della sua generazione avrebbero schifato o al massimo fatto entrare dalla porta di servizio. È stato questo il suo segreto meglio e meno nascosto allo stesso tempo. Chiarificare un impasto di distorsioni pesanti con la levigatezza pop, innalzare sbarramenti di chitarre per smuovere le montagne senza nascondere il cuore melodico (e mélo) delle canzoni, dosare il grunge e l’indie pop, la mano pesante e la carezza, il sangue e le fragole, il rombo delle chitarre distorte e il suo lamento nasale dai toni accorati e suadenti, non c’era cosa che Mr. Corgan non sapesse fare destreggiandosi sul filo del rasoio tra preziosismi di scrittura e arrangiamento. Disarm, tutta chitarra acustica, campane tubolari, violino e violoncello rimane un bijou. (TI) 1 1 . Rage Against The Machine – Rage Against T he Machine ( 19 92) Avvisaglie sparse ce ne erano già state, ma è indubbio che per portata e impatto è questo l’album “crossover” per antonomasia. Quattro personalità diverse, quattro provenienze differenti, un unico obbiettivo: la destabilizzazione della “macchina” con uno sfogo di rabbia strumental-testuale da brividi. Merito di una sezione ritmica compattissima, un chitarrista che definire eclettico è poco e un frontman invasato: tutti e quattro fulminati sulla via 53 della protesta, politicamente impegnati e pronti a trasformarsi in una macchina piena di rabbia. Punk, funk, noise, metal, rap, impeto hc e quant’altro in un tourbillon sonoro spesso anthemico – Killing In The Name divenne inno nel giro di un passaggio televisivo – che regge il passare del tempo infinitamente meglio di altri dischi magari tecnicamente più ricercati. Era l’energia quella che i quattro volevano trasmettere al pubblico e quella contava: vedere centinaia di migliaia di teste muoversi all’unisono in quel di Reading, anno domini 1993, vi assicuro, vale come descrizione del portato dei RATM più di mille parole. (SP) 1 0. Fugazi – R epeater ( 19 9 0) Difficile scegliere un solo disco per illustrare l’avvento della stagione post hc ma indubbiamente Repeater è quello con più frecce al suo arco. Non è una questione prettamente musicale: i Fugazi sono il più evidente paradigma del cambiamento hc/post hc, il passaggio dalla violenza dei sobborghi americani ai campus universitari, dalle corpulenze rocciose e pugilistiche di un Henry Rollins a quelle più emaciate e dinoccolate di Ian MacKaye. E poi una carriera che ha attraversato trasversalmente tutte le fasi salienti di questa trasformazione. I Minor Threat di MacKaye, la Revolution Summer dell’85 con il passaggio emotional di Guy Picciotto e i Rites Of Spring (e ancora MacKaye con gli Embrace), l’esplosione della Dischord Records. Non da ultimo, le canzoni. Repeater racchiude una serie infinita di hit (Merchandise, Turnover, Repeater, Blueprint) in cui a dominare sono i contrasti: la violenza con il cerebrale, la politica (indimenticabile lo slogan You Are Not What You Own) con il nichilismo (Shut The Door), la standardizzazione e il fuck you (Repeater). L’entrata nei 90s non poteva essere più destabilizzante. (SG) 9. Oasis – D efinitely, Maybe ( 19 94 ) È facile sottovalutare l’importanza dei fratelli Gallagher, alla luce del loro primitivo savoir faire, della sovraesposizione mediatica e delle ultime prove non certo entusiasmanti. Altra cosa è tornare con la memoria a quei mesi del ’94, quando in seguito all’exploit di Supersonic, faceva il roboante debutto questo impeccabile album. Definitivo, forse. Non certo per l’originalità della proposta, ma perché una sintesi così perfetta fra la grazia dei Beatles e l’arroganza dei Sex Pistols non si era mai sentita. Se il Britpop è stato il modo in cui le band dei 90s attingevano al patrimonio nazionale, gli Oasis furono quelli che seppero scegliersi i beni 54 migliori. Compresa quella sfacciataggine che è comune denominatore di ogni act di successo. Live Forever, Cigarettes and Alcohol e Rock’n’roll Star si imponevano con l’autorevolezza di chi non si limitava a replicare il passato, ma pretendeva di giocarsela con i grandi. Poi certo, i Gallagher saranno importanti anche per i numeri. Per il fatto che con loro il rock ritorna ad essere popolare. Se ne riappropria l’uomo della strada e il lad della curva. Perché qui dentro ci sono inni da cantare assieme con i lucciconi agli occhi e con una strafottenza che verrà passata come un testimone a Kasabian e Arctic Monkeys. Tutti ansiosi di diventare, a modo loro, i nuovi Oasis. (DB) 8. P. J. Harvey – T o Bring You My Love (1 9 9 5) To Bring You My Love è il disco della liberazione per Pj Harvey, un gettarsi alle spalle l’etichetta ingombrante di riot girrrl e i paragoni con Patti Smith, per intraprendere una carriera sempre più personale e dalle molteplici maschere. Un’evoluzione che va di pari passo con il make up: c’era lo slabbrato Dry, poi il naturale Rid Of Me e ora il rossetto di To Bring You My Love, che porta in dote teatralità, intimismo e marcescenze blues. Siamo di fronte a una Harvey femme fatale, in cui il tema centrale dell’amore è tutt’altro che sdolcinato, anzi è uno strumento per parlare di Dio e del Diavolo, di morte, di maternità e orgasmi in Cadillac. L’ispirazione principe è chiaramente Nick Cave (Down By the Water), eppure non siamo davanti a una copia al femminile del Sinner Saint, semmai a un alter ego: i testi sono quanto di più profondo e sanguinoso la Nostra abbia mai realizzato, mentre la musica è sì avviluppata nel blues ma con un ventaglio apertissimo, dallo lo stomp waitsiano di Meet Ze Monsta al lirismo struggente di The Dancer, che conferma anche il grande lavoro alla produzione – e alla chitarra – di John Parish. E’ lo sbocciare della Harvey come artista a tutto tondo, nonché uno dei punti più alti della sua discografia. (SG) 7. B eck – Mellow G old ( 19 94) In realtà c’erano già stati i due album quasi coevi su Sonic Enemy e Flipside. Per molti, però, l’apparizione di Beck Hansen è legata all’uscita di questo disco, non fosse che contiene il brano simbolo dello scetticismo universale della Generazione X. A 23 anni Beck è un giovane autodidatta che già da qualche anno frequenta il giro anti folk di New York. Dalla gavetta delle open mic nite ha imparato a realizzare lunghi stream of consciousness in cui ingloba i segni dell’america post-reaganiana e li risputa in canzoni in cui la musica 55 di Dylan si scandisce al ritmo dell’hip hop e il blues di Tom Waits si impasta con schegge noise, campionamenti ed esperimenti digitali. È il disco più genuinamente postmoderno che finisca fra le maglie di MTV. Realizzato appena con 200 dollari, Mellow Gold non è solo l’apice di quel fai-da-te narcolettico che pure produrrà lavori significativi. C’è un mondo intricatissimo qua dentro, in cui è possibile raccapezzarsi solo decrittando il coacervo rumorista di Mutherfucker e Soul Sucking Jerk, il nonsense di ballate surreali come Truckdrivin’ Neighbors Downstairs, la psichedelia metropolitana di Pay No Mind, fino ad arrivare al cuore di quella romantica disillusione che segnerà il resto del decennio. (DB) 6. Radiohead – OK Computer ( 1 9 9 7) Esce nel ’97, Ok Computer, e di colpo il Britpop sembra la cosa più obsoleta del mondo. Il gruppo ci arriva dopo che con The Bends aveva moltiplicato le intuizioni di Creep in una sorta di psicodramma pop. A sua volta Ok Computer ne amplia le prospettive, innalzandole a tensioni millenaristiche e dando loro la forma di visioni distopiche come quelle di Karma Police e Paranoid Android. Tom Yorke assurge a fulcro, anche estetico, di tutto il discorso. Il suo lamento afflitto si innalza come quello di un muezzin, dando vita ad un soul ancestrale a metà Tim Buckley e Freddy Mercury, ovvero fra poesia e sceneggiata. Questo equilibrio precario (frutto di ascolti bulimici di artisti disparati e di un utilizzo massivo, ma ancora non del tutto consapevole, dello studio) provoca una continua tensione fra alto e basso, fra rarefazione ed eccesso, fra ambizione e svaccamento che si fa cifra stilistica. A partire dagli arrangiamenti stratificati, infusi di elettronica, che lambiscono il progressive ma se ne allontanano grazie all’ispirata vena pop e alle prime, timide, oasi di sperimentazione kraut. Si tratta di un album più importante, che bello. Foriero di una formula così instabile che basterà alterare un elemento anziché un altro, per dar vita a cose eccelse o riprovevoli. (DB) 5. Primal S cream – Screamadelica (1 9 9 1) Fino alla fine degli anni ’80 la musica indie era l’antitesi del ballo e i Primal Scream vivevano in un blando sogno regressivo da generazione C-86. Poi Andrew Weatherall fa il miracolo, remixa una ballata un po’ oleografica del secondo disco, I’m Losing More than I’ll Never Have, e la trasforma in Loaded, manifesto dell’indie dance. Folgorati da quel tripudio di fiati, pianoforte boogie, cori gospel, loop vocali e breakbeat, i Primal Scream richiamano 56 Weatherhall a lavorare sull’album insieme agli Orb e al produttore di Exile On Main Street Jimmy Miller. Primo comandamento, il groove, la ritmica di Sympathy for the Devil – una specie di mantra che continua da Loaded alla giubilante Movin’ On Up – e le visioni lisergiche di Rocky Erikson trapiantate nel paradiso artificiale della dj culture. Il nuovo indie rock viaggia in sintonia con la house e il dub in pastiches inclassificabili dalle pulsazioni magnetiche – Higher Than the Sun e Come Together. È l’incontro tra due culture psichedeliche, quella dell’LSD e quella dell’ecstasy. A riprenderlo, con il percorso inverso, saranno musicisti dance come i Chemical Brothers, fondamentali per gli anni ’90 (TI). 4. Nirvana – Nevermind ( 19 9 1) Esistono moltissimi dischi “spartiacque” nella storia della musica ma pochi hanno avuto l’impatto di Nevermind. Sì, perché il disco in questione ha travalicato l’ambito musicale – in realtà, ad esser pignoli, piuttosto scarso, essendo un riciclo ben organizzato di influenze precedenti – per diventare il punto di svolta tra l’ancien régime del mercato discografico e un qualcosa di nuovo pronto a manifestarsi di lì a poco. Prima di Napster e degli mp3 colpevoli di aver ucciso la moribonda industria discografica ci furono questi tre drop out da Aberdeen, Seattle, che dimostrarono al mondo ciò che il punk dimostrò trenta anni prima e aprirono gli occhi agli avidi discografici convinti di poter trovare nell’underground più disturbato l’ennesima gallina dalle uova d’oro. Con i Nirvana funzionò e milioni di copie vendute lo dimostrano; con moltissimi altri – Melvins?, Jesus Lizard??, Butthole Surfers?!? – assolutamente no, aprendo di fatto la (pre)crisi delle major e testimoniando il predominio dell’indiestream. I Nirvana di Nevermind – pop, punk, disagio, melodie appiccicose, richiami 60s, ecc. – furono innegabilmente gli iniziatori (nonché profeti) della (propria) fine. (SP) 3. Pavement – Slanted And Enchanted (1 9 92) Slanted And Enchanted, esordio sulla lunga distanza della band di Stockton, viene pubblicato da Matador, label che poi sarebbe diventata leader nell’underground. Il suono dei Pavement è qui al perfetto crocevia tra il dilettantismo creativo degli EP precedenti ed il suono scintillante e pop del successore Crooked Rain, Crooked Rain. Ogni suono ripulito potrebbe assomigliare ad una melodia, ma i Pavement proprio non se la sentono: il carat- 57 tere amatoriale delle registrazioni è il classico caso di necessità che diventa virtù. E così canzoni pop come Summer Babe, Zurich is Stained e Loretta’s Scars sono immerse in distorsioni, più che strumentali, produttive. Eppure ciò non indebolisce mai le canzoni: esse rivelano anzi un talento melodico eccezionale, per assurdo. Le contrapposizioni generano un suono che più obliquo nel pop non si potrebbe (la strumentale Jackals, False Grails: The Lonesome Era è Morricone chiuso in un cassonetto coi Chrome), i testi sono postmodernismo puro nell’uso delle immagini e dei riferimenti – forse merito della passione di Malkmus per Calvino -, la voce è puro scazzo. Il tutto per dire di un’autenticità magari ingenua, ma mai minimamente simulata. (AM) 2. S lint – Spiderland ( 19 9 1) Spiderland è un miracolo. Questo si può dire di apparentemente nuovo su un disco (edito da Touch and Go) che è allo stesso tempo una terra deserta e un oceano. Il territorio desolato è quello della vita della band, devastata dalle registrazioni e che non terminerà dopo di esse, e quello del rock: inscheletrito, gelato dove prima c’era il calore del “sesso e droga”, rallentato nei suoi germi hardcore (da lì venivano alcuni degli Slint) ma non nella disperazione. L’oceano è la figliata interminabile di band cosiddette post-rock che da qui in poi spunteranno, direttamente e non, e la mole di idee, possibilità, direzioni che le canzoni prendono: dall’attacco in arpeggio geniale di Breadcrumb Trail agli arabeschi di Good Morning Captain, non c’è un momento che non sia inaudito. Pochi come gli Slint hanno rivoltato il rock con i suoi strumenti: qui c’è forse del jazz ma è privo di sentimento, là del noise ma senza la liberazione di certe deflagrazioni, qui c’è un accenno di melodia ma la voce o non c’è o è impaurita, là c’è del punk ma sotto anoressizzanti dove prima c’era anfetamina. Una musica che ancora oggi riesce a svelare il suo mistero senza mai bruciarlo del tutto. (AM) 1 . My Bloody Valentine – L oveless (1 9 9 1) Il muro di suono, le casse che friggono, gli ampli in fiamme, i concerti insostenibili, le ambulanze e i tappi per le orecchie, i tecnici del suono licenziati, la mitologia legata al comeback, la follia perfezionista di Kevin Shields, i due anni in studio, la rottura con una Creation buttata sull’orlo del fallimento, le quotazioni stratosferiche del vinile originale, il silenzioso iato pluriennale, gli attestati di stima, la frattura tra i membri della band, la lezione della 58 melodia affogata nel rumore portata a livelli parossistici e il dio del rumore solo sa quant’altro possa rimandare a quelle 11 tracce per 45 minuti che, indubbiamente, contribuirono a cambiare un certo tipo di musica. O meglio, a porre un punto di approdo mai più minimamente avvicinabile in futuro di cui gli estremi citati sopra non sono che il corrispettivo di una musica portata agli eccessi. Dolce e ruvido, potente e sognante, grezzo e ricercato, Loveless è un disco fondamentale (e rumoroso) nella stessa misura in cui il silenzio e lo iato più che ventennale l’ha fatto maturare nelle orecchie di generazioni diverse, crescere come referente principale di un certo suono, di volta in volta definito noise-pop, shoegaze o quel che volete, divenire mito irraggiungibile e mai replicato. Nemmeno dagli stessi autori quando, a sorpresa, hanno deciso di tornare col famigerato comeback. Il rumore è grande, i MBV sono i suoi profeti e Loveless è il punto di non ritorno. (SP) 59 Viajeros Cósmicos La psichedelia del “sur del mundo” 60 Uno sguardo sulla psichedelia in salsa krauta che sta uscendo da uno dei paesi apparentemente "meno rock" del mondo ma di sicuro molto vicino alle stelle Testo di Stefano Pifferi Probabile che, come vuole la vulgata complottistica e dietrologica, qualche criminale nazista in fuga dalla Germania a fine seconda guerra mondiale abbia riparato in Sud America travisandosi da pacioso vecchietto magari in fissa con la botanica o con l’artigianato locale, aspettando la fine dei propri giorni in qualche sperduto squarcio di America Latina. Probabile pure che nei geni dei tedeschi, a furia di alimentarsi di “krauti” (double senses here), risieda larvatamente una tendenza al pensare in grande anche fuori dai confini standard (il film-culto dei nazisti sulla dark side of the moon, “Iron Sky”, è abbastanza stimolante da questo punto di vista), alla ricerca dell’affermazione totalizzante di sé o alla astrazione cosmica e alla dilatazione psicotropa (leggi “viaggione”) che non può passare sotto silenzio. Altrimenti non si spiegherebbe come in una musicalmente periferica città del Sud America come Santiago del Cile, si sia concentrata una masnada di capelloni un po’ freak, un po’ scoppiati, in fissa totale con la psichedelia e il kosmische sound – da cui i “viajeros còsmicos” 61 del titolo – che sta tirando fuori dischetti niente affatto male e che stanno gettando le luci della ribalta underground su formazioni dai nomi esotici e dai riferimenti bizzarri – droghe, inferno, deserto, cosmo ma anche molto altro – che, viste live anche su palchi prestigiosi e impegnativi come quello dell’ATP, hanno dimostrato di avere il giusto tiro e la necessaria faccia tosta per non soffrire di timori reverenziali. Follakzoid, The Holydrug Couple e La Hell Gang sono la punta di un iceberg psych cileno che ci immaginiamo piuttosto ampio e vario nel suo genuino ed entusiasta sviluppo orizzontale – lo space rock dei The Pontiacs, il cui ultimo disco si intitola non a caso Atacama Dreaming; gli WatchOut!, la BYM records (Blow Your Mind, cos’altro?), ecc. – e che nel frattempo stanno facendo da ambasciatori psichici nel sottobosco (ma non solo) underground, visto che sono finite in catalogo presso label di tutto rispetto come Sacred Bones – i primi due – e Mexican Summer (gli La Hell Gang). Lasciando da parte riflessioni più o meno serie e/o “dietrologiche” di cui sopra così come quelle in cui la storia sfiora il mito sull’onda del misticismo pagano più “intrippante” e freak (Nazca e le sue linee sono lì, non troppo distanti) è indubbio che una ragione antropologica per questa “affezione al cosmo” sub specie hard-psych/kosmiche si può rintracciare. Basti pensare al deserto, in generale, e a quello di Atacama, in particolare: luogo di ispirazione per musiche più o meno polverose e hard (vedi alla voce stoner) e più o meno diretta per le band qui trattate (la cover del nuovo La Hell Gang, ad esempio), il deserto in oggetto non lascia solo spazio a idee musicali dilatate, ma diventa quasi l’obbligatorio punto di partenza per cercare di comprendere tale ammirazione per il cosmo. È in quel deserto – uno dei più secchi del pianeta tanto da essere definito come “simil-marziano” da una equipe di ricercatori su Science Magazine – che si trova la maggioranza dei telescopi spaziali mondiali: è lì che è situato l’ALMA, il progetto astronomico che tenta, grazie a 66 radiotelescopi atti a catturare le lunghezze d’onda cosmiche, di ascoltare e comprendere la nascita delle stelle ed infine è sempre in quella zona che è presente il VLT, il Very Large Telescope, attualmente il più grande complesso di telescopi al mondo. Non di soli sguardi al cosmo vive però il retroterra di queste band. A scavare in un territorio “vergine” come quello cileno ci si renderà conto che esisteva una effervescente scena psych e progrock tra la fine dei ’60 e gli inizi dei ’70, roba ovviamente sacrificata sull’altare del golpe militare di Pinochet: Los Jaivas, Agua- 62 holy drug couple 63 turbia, Los Blops e tutte le band ritratte nel volume numero 10 della collana Love, Peace And Poetry dedicato interamente alla Chilean Psychedelic Music. Roba naive com’è naturale che sia, a base di summer of love, atmosfere da hippy e freakettonate varie, ma in cui è riscontrabile l’humus su cui, dapprima band come The Ganjas o Pànico (quest’ultimi baciati anche da una effimera popolarità internazionale in epoca p-funk), e poi l’operato di label come la citata BYM, hanno di fatto germinato i giusti frutti. Corsi e ricorsi storici, intrecci e modificazioni del canovaccio psych: non a caso una storica compilation d’ambito weird-folk/psych americana aveva come titolo il monito “by the fruits you shall know the roots”. Facile pensare che – crescendo da un lato con la fascinazione per questa musica psichedelica (da intendersi, si sarà capito, nel senso più ampio e onnicomprensivo della definizione) e dall’altro con un luogo così misterioso e al limite dell’umano, vero ponte di lancio per viaggi siderali – alla convergenza tra queste due ascisse risieda l’attrazione per una musica che, parola di Domingo dei Follakzoid, “trascende e trasfigura l’uomo verso le stelle e l’universo più lontano”. Essendo da sempre interessati all’indagine critica di stampo sociologico, è naturale tentare di allungare lo sguardo su quelle realtà in apparenza periferiche ma che rappresentano pur sempre le più vitali movimentazioni di un underground in continua evoluzione e (ri)scoperta. Follakzoid, Holydrug Couple e La Hell Gang, in rigoroso ordine di apparizione fuori dai confini cileni, sono le band prescelte per iniziare questo breve scandaglio della psych del sud del mondo. Dei primi basterebbe citare label, festival a cui sono stati invitati e personaggi che ne hanno tessuto le lodi per rendersi conto di come il kraut messo in atto da Domingo GarciaHuidobro (chitarra), Juan Pablo Rodrigues (basso e voce), Diego Lorca (batteria) e Alfredo Thiermann (synth, ma apparentemente dimissionario) sia quanto di più fresco, esotismo di risulta a parte, prodotto negli ultimi anni: bastano i nomi di Robert Hampson (Loop, Main) e l’ATP End Of An Era da lui curato, oppure il solito Primavera, il redivivo Lollapalooza o l’Eindhoven Psych Fest per rendere l’idea? Non è un caso, dunque, che sia stata Sacred Bones a farli conoscere al mondo underground dopo che la benemerita etichetta di casa Blow Your Mind li aveva svezzati con l’esordio omonimo del 2009. Krautrock classico che punta alle stelle con iniezioni di massicce dosi di ritmi “dancey”, vedi alla voce “remix” contenuti 64 Follakzoid nel 12” RMX sempre su Sacred Bones, e immaginario ben evidenziato da cover dal sapore stellare e titoli come Pulsar, Loop, Directo Al Sol ecc. L’album lungo II e l’EP omonimo, entrambi per la label newyorchese, ne hanno fatto uno dei nomi più in vista della nuova krauteria e chiunque li abbia visti dal vivo ne conosce il portato e la forza evocatrice, ma da non disprezzare anche l’esordio self titled: Loop e Spacemen 3 a manetta, reiterazione e ossessività ritmica come trademark, sguardo al kosmo come way of life e dilatazioni d’ordinanza (5 pezzi per 40 minuti, ad esser precisi) tra wah-wah, fuzz e saturazione. Un lavoro evidentemente figlio delle prime session della band, in fissa con le evoluzioni free-form e il motorik, ma già ben centrato e in cui emergono l’attrazione per l’ambito ritualistico e per un suono trance-inducing. I lavori per Sacred Bones, poi, non hanno che migliorato un tiro già ottimo, esaltando le capacità visionarie della band, bagnando la psych nel groove acido e infinito e allargando un pubblico potenziale che ha giustamente risposto in massa: a testimonianza della credibilità dei quattro si vedano i remix officiati da culti dell’underground psych come Moon Duo e Psychic Ills. Sempre sull’asse Blow Your Mind/Sacred Bones sono finiti Ives Sepulveda (chitarra, voce, tastiere) e Manuel Parra (batteria), in arte Holydrug Couple: meno krauti e più psych sixties, al punto da essersi guadagnati la calante definizione di “psychedelic drone-pop”, i due imbastiscono lavori da trip e minimali in cui 65 ad essere evocata, oltre allo spazio più profondo dentro al quale perdersi, è anche la dimensione pastorale e bucolica a cui probabilmente la natura dei luoghi d’origine rimanda, tra sublimazioni e ritualità pagane. Dopo un esordio “casalingo” – Awe, uscito nel 2011 per la solita BYM, ben accolto e praticamente introvabile ora se non in forme digitali – in cui mostrano già le coordinate narcolettiche tipiche da dormiveglia drogato, Sacred Bones li fa suoi per un EP pubblicato nello stesso anno (Ancient Land, anche qui velatamente si affacciano richiami atavici al servizio di una musica dopata e “ascensionale”) e per un disco lungo, Noctuary pubblicato nel 2013. Melodie affogate, sfumature e scontornamenti da psichedelia drogata anni ’60, avanzare languido e psicotropo da spiaggia all’alba in hangover, minimalismo strutturale e fantasia negli arrangiamenti hanno fatto del suono degli Holydrug Couple un trademark riconoscibile, rendendo giustizia all’etichetta di “sleepless dreamers” affibbiata loro da una rivista inglese. È proprio quel senso di torpore onirico ad assalire ogni nota composta dai due, spingendo l’ascoltatore verso dimensioni “altre” pur essendo, nelle dinamiche interne, i meno apertamente “cosmici” del lotto. Infine, last but not least, i tre La Hell Gang che esondano dal percorso dei sodali viaggiatori cosmici e dopo una release su BYM si accasano presso una sempre più brillante Mexican Summer, non prima però di essere apprezzati e sostenuti dalla solita Sacred Bones. I più hard-psych del lotto, Francisco “KB” Cabala (chitarra, voce), Ignacio “Nes” Rodriguez (batteria) e Rodrigo “Sarwin” Sarmiento (basso) sono in tremenda botta per il motorik teutonico così come per le declinazioni più ossessive di certi intarsi chitarristici alla Black Angels. Se l’esordio Just What Is Real (BYM, 2009) paga pegno a un heavy rock che macina Velvet, fuzz, primi Stooges e genia tutta (i Black Rebel Motorcycle Club degli esordi, per dire, non sono proprio distanti), il citato nuovo lavoro per Mexican Summer, Thru Me Again sposta l’asse verso Spacemen 3 e rimasugli kraut alla Can e Neu!, disegnando paesaggi alieni come quello ritratto in copertina – un deserto rosso sangue che può tranquillamente essere un fermoimmagine marziano inviato dal rover Curiosity – ma mantenendo sempre i piedi ben piantati al suolo. Volete presentarvi al pubblico italiano? Francisco Cabala KB (La Hell Gang): La Hell Gang nasce nel 2009, dopo la fine dell’esperienza Cindy Sisters, la band che avevo 66 nel periodo 2005-2008 e che uscì per l’americana Hozac (l’altro chitarrista formò poi i The Psychedelic Schafferson Jetplane), ma da prima – e ti sto parlando dei miei 15 anni, più o meno – ascoltavo Spacemen 3, JandMC, Stooges, MBV, Velvet, Loop, ecc. Siamo io, Ignacio Rodriguez a.k.a. Nes, capo della BYM, alla batteria e Rodrigo Sarmiento “Sarwin” al basso e consideriamo la nostra musica come un fluire continuo, da disco a disco, da progetto a progetto. Non a caso nel nostro primo disco c’è un pezzo che suonavamo coi Cindy Sisters, così come coi Chicos De Nazca (progetto collaterale di Francisco col batterista dei Follakzoid) riprendiamo alcune tracce dei Cindy Sisters. Ives (Holydrug Couple): Io sono Ives, voce, chitarra e tastiere in sede live, autore e produttore in studio. Il mio partner è Manuel, batterista e ispiratore. Non so che tipo di musica facciamo, a volte ha a che fare con altri stili conosciuti, ma non voglio definire qualcosa così “potenzialmente pop”. Veniamo da Santiago del Cile e abbiamo iniziato 4 anni fa. Come siete arrivati a label così importanti dell’underground mondiale come Sacred Bones e Mexican Summer? La Hell Gang 67 KB (La Hell Gang): Ci siamo arrivati tramite Sacred Bones, che ci contattò tempo addietro perché intenzionata a pubblicare il nostro disco, poi transitato alla Mexican Summer HC: Non siamo su Mexican Summer, ma su Sacred Bones e non posso raccontarti come ci siamo finiti. Vorrebbe dire parlare di patti segreti che non posso rivelare in questa intervista. Domingo Garcia Huidobro (Follakzoid): Ci contattò Sacred Bones direttamente dopo l’esordio per BYM. Corrieri cosmici tedeschi o psych anglo-americana tipo Loop, Spacemen 3, 13th Floor Elevators, Velvet? Cosa apprezzate di più e che più ha influito sul vostro sound? KB (La Hell Gang): Non so se si tratti di psichedelia cosmica o semplicemente di essere stati a contatto ravvicinato con certi posti, come le linee di Nazca. Mia sorella vive in Perù e sono stato spesso a Nazca (tanto che la mia altra band si chiama proprio Chicos De Nazca), così come nella selva peruviana di Iquitos a ruota di ayahuasca: una esperienza che ti “canalizza” letteralmente col cosmo. Ives (HC): Cosa intendi, se ci piacciono una o più band di quelle che citi? In sincerità, preferisco i Velvet. Domingo (Follakzoid): Nessuna in particolare. È inevitabile essere influenzati da entrambi i filoni, anche se creiamo la nostra musica prendendo spunto da una profonda esperienza “di viaggio” che si distacca dalla razionalità. Da dove viene questa attrazione cilena per la psichedelia? So di alcuni gruppi dei 60s e 70s abbastanza quotati, prima di essere spazzati via dal golpe di Pinochet… KB (La Hell Gang): È una storia molto lunga. Comincia intorno al 1966, con gruppi come Los Vidrios Quebrados o Los Macs; immagina che anche mio padre all’epoca aveva un gruppo i Los Solos… Ives (HC): C’erano molte band prima di Pinochet, ma non le definirei “cosmiche” perché esistevano in un momento in cui la roba cosmica non era rilevante. Era sicuramente un periodo di grossi cambiamenti socio-culturali, soprattutto per la musica anglofona come Beatles, Bob Dylan o Hendrix. Musica che aveva a che fare con la gente, con l’idea di comunità, con l’amore per la stessa terra o per il paesaggio cileno. I cileni hanno a che fare con la roba psichedelica perché sono molto sensibili e ricettivi, per non parlare poi delle suggestioni dell’ambiente naturale, delle montagna e degli oceani. Domingo (Follakzoid): Dici sia un trend? Non credo. Questa pratica musicale è millenaria, per lo meno in Sud America. 68 Il Deserto di Atacama, la storia mitica del Cile, le linee di Nazca non così distanti… mi chiedo come mai siete così ossessionati dall’universo… KB (La Hell Gang): Io sono cresciuto con questo tipo di musica: se penso alla prima band che ho ascoltato nell’infanzia mi viene in mente la Jimi Hendrix Experience, anche se poi mi sono interessato a roba più “psicotropa”. In Cile comunque non siamo ossessionati dal cosmo, siamo semplicemente parte di esso, qui come in Giappone. E non è un caso che io adori la cultura giapponese: il Tao, la meditazione, sintonizzarsi con la natura e con ciò che è atavico al fine di vedere tutto con maggiore chiarezza e essere in linea con l’esistenza. Ives (HC): Non sono proprio ossessionato dal cosmo. Diciamo che non lo sono più di altri esseri umani. Domingo (Follakzoid): Credo che il tuo presupposto non sia corretto: non c’è una ossessione col cosmo in Cile. È che la nostra cultura è cosmogonica e “cosmosofica”, diversamente da quella antroposofica, pertanto tutto ciò che è relazionato col cosmo è qualcosa di naturale e vicino al nostro immaginario. Cosa cercate e cosa volete comunicare con la vostra musica? Ives (HC): non so, non me ne curo molto. Ha molto più a che fare con l’ascoltatore. Posso dirti che nella mia musica cerco di esporre il più possibile la mia visione del mondo, per come lo vedo io. E cioè una sorta di sognante, bucolica bellezza mischiata con l’oscurità della notte o con l’idea di una ombra affascinante. Domingo (Follakzoid): Quello che ci siamo posti come obbiettivo è quello di costruire atmosfere trance attraverso la reiterazione, affinché mente e corpo astrale si uniscano in viaggi spirituali collettivi. Com’è la scena di Santiago: ci sono molte altre band interessanti delle vostre parti che stanno facendosi notare… Ives (HC): sì, molte e molte di loro sono nostre amiche. Siamo un bel gruppo di persone che cerca di fare bella musica. Domingo (Follakzoid): Al momento è ottima e la nostra etichetta BYM è un vero concentrato di band notevoli. 69 Skiantos Sbagliando nota. Parte terza 70 In questi anni gli Skiantos assumono uno status stabile di gruppo di culto che fa i suoi dischi, senza i terremoti degli anni passati. Testo di Giulio Pasquali Un gruppo di tabernacolo “Gli Skiantos hanno superato la dimensione del gruppo di nicchia per attestarsi sulla qualità del gruppo di tabernacolo, in quanto anche protetti dalla setta religiosa dei “Santi sballati del penultimo giorno, tranne il sabato e prefestivi”. Skiantos, comunicato stampa. “Che peccato buttare le perle ai porci… ma pensate che casino buttare i porci alle perle!”. Skiantos, Sconcerto, 1987 Negli anni ’80 in classifica non c’era solo il Sudamerica annacquato del pop balneare, il proseguire della disco o il synth-pop/new wave sbiadito: in qualche modo c’era anche il rock. Tolti Springsteen e pochi altri, però, si trattava o di vecchie star degli anni ’60, bollite e ripulite, 40enni “sistemati” nella moda e nel suono orrendo d’epoca: come esempi emblematici, gli Starship che nulla più serbavano dei tempi in cui, come Jefferson Airplane incarnavano lo spirito della California anni ’60, e l’Eric Clapton prodotto da Phil Collins. Di quest’ultimo bisogna parlare, perché se “il rock” come lo intendeva il grande pubblico si era trasformato, tra ’70 e ’80, in una scelta tra eredi più o meno coatti del glam e degli Zeppelin, il country rock da cartolina post- West Coast e il rock ripulito da radio, l’attività di produttore del batterista/cantante dei Genesis, che già aveva portato il suo gruppo verso lidi da classifica, segna una tappa importante nel pop rock di quegli anni. Infatti, tra i dischi del suo gruppo, quelli da solo e quelli che produce, Collins arriva ad elaborare un suono fatto di batterie 71 fragorose ma disciplinate, chitarre addomesticate dagli effetti usati nella new wave e qui piegati a una pulizia generale che liofilizza e irreggimenta gli eccessi del rock. Il tutto in un sound che, nel suo fingersi cattivo mentre in realtà è studiatissimo e controllatissimo, viene perfettamente incontro sia all’imborghesimento di una musica e di una generazione, sia ai progressi tecnologici nell’ambito delle autoradio, i cui possessori richiedevano sempre più pulizia e potenza di suono, strumenti isolati ed isolabili contro l’impasto di una volta (anche qui individualismo contro collettivismo). Agli Skiantos, destinati ad essere sempre al passo coi tempi, toccherà anche questa tappa. Rantola ancora L’avventura che ricomincia nel 1987 non ha più la fama e la rilevanza di un tempo: il “rock demenziale” comincia a contare svariati adepti, ma se si eccettua qualche ritorno di fiamma e la partecipazione nei primi anni ‘00 alla trasmissione televisiva Colorado Cafè, gli Skiantos sono ormai un gruppo “di nicchia, anzi di tabernacolo”, seguito più per il passato che per i pur interessanti nuovi lavori. Ma anche se i loro concerti non sono più gli eventi di un tempo, se pure la loro natura è semplicemente quella di una band che fa dischi, i Nostri non rinunciano a dire la loro sul Paese in cui vivono con verve e ispirazione che, pur con i fisiologici alti e bassi, non lesinano grandi momenti. Il tutto nonostante la voglia del gruppo di provocare e far riflettere sia condannata a scontrarsi con la miopia e le logiche (nonché le tasche) ristrette dei discografici (anche quando animati da buone intenzioni), le cui opzioni nei confronti degli Skiantos sembrano limitarsi a due: tentare di cambiarli, oppure non spendere una lira per promuovere i loro dischi, fidandosi della fedeltà del pubblico o della curiosità verso il nome storico. Dandy Bestia: “E continuammo in cantina praticamente, facendo pochissimi concerti, fino a quando nell’86 ne facemmo uno grosso al Q-BO che ebbe un grossissimo successo, per cui a quel punto ci sentì Roberto Casini che era batterista e in qualche caso anche paroliere di Vasco Rossi – per dire, Va bene, va bene così è sua. E ci produsse questo disco per la Targa Bollicine che per l’appunto è la casa discografica di Vasco, che è Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti. Ecco diciamo che quello è il vero disco del rientro; e vendette anche parecchio…” I Nostri ricominciano così sotto l’egida dell’etichetta di Vasco, 72 per la quale tra il 1987 e il 1990 incideranno due album di studio e uno live. Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (Targa Italiana-Bollicine, 1987) fin dal titolo indirizza gli strali su una decadenza culturale già in evidente corso all’epoca e sempre di più col passare degli anni. Tra le canzoni che si iscrivono tranquillamente nel registro dei classici del gruppo, Sono contro e Gli italiani son felici ritraggono i vizi del Belpaese (la prima più rabbiosamente, la seconda col solito spirito beffardo e con una rara voce guida di Dandy Bestia), Sono un ribelle mamma (l’ennesima Sono… del loro canzoniere, come i suddetti Ramones con I wanna…) invece satireggia certi giovani divisi tra genuini slanci “alternativi” e un’eccessiva abitudine alle comodità domestiche. Ma funziona anche il grido di gioia anti-divisa di Riformato, l’autoritratto “contro” di Picchiatello (con un’altra falsa partenza, come Permanent Flebo) e, tutto sommato, anche il blues di Vacci piano, tardivo – almeno per quanto riguarda la “loro Bologna” – appello ad evitare l’eroina, più serio di quanto non dica l’interpretazione della canzone. Il disco insomma, più che vedere i Nostri in forma ritrovata, li rivede finalmente nei loro panni, che avevano temporaneamente smesso per indossare a forza le improbabili e inadatte vesti di pop band. Ma qualche straccio addosso è rimasto: Non c’è gusto… infatti è indebolito da una produzione che paga un tributo al rock mainstream del periodo (e del padrone dell’etichetta, appunto Vasco Rossi e al suono di certi suoi dischi come C’è chi dice no), la quale impedisce di gridare compiutamente al grande ritorno, e che inoltre danneggia oltre i loro limiti l’appassionato tributo al rock di Rantola ancora (quasi un bentornato alla musica) e la successiva Promesse, una satira sui discografici di drammatica attualità in qualsiasi momento della storia del gruppo. Non è per niente un caso che, dopo quanto passato, ad aprire il disco del rientro si trovino due canzoni simili. In mezzo all’album le poche parole recitate di Sconcerto, alla fine C’è sempre una ragazza che mi piace ha una lieve malinconia sotterranea che sorge dai suoi tempi dilatati e va oltre il testo e i limiti dell’arrangiamento leccato. Insomma, pur col rammarico per l’abbandono di Stefano Sbarbo e della sua inconfondibile voce, pur dovendo ancora lottare per essere se stesso, il gruppo torna finalmente in corsa e in salute. Questo disco però – e anche gli altri due usciti per la Targa Bollicine – ha un suono un po’ “Vasco”… Dandy: 73 “Sì, ma più che “Vasco” direi molto pop. Cosa che a noi ha sempre riguardato molto poco, oppure noi il pop l’abbiamo usato ma per prenderlo per il culo, non facendolo sul serio. Invece lì ci han fatto fare il pop sul serio. C’è voluto il nostro bel da fare per metterci dentro più chitarre possibile e più ironia possibile. Le canzoni, ascoltate adesso, secondo me erano bellissime, ma sono state arrangiate troppo alla moda dell’epoca, meno rock e più pop, insomma, per cui alla fine eravamo contenti del fatto di essere tornati in pista con le nostre canzoni, ma ecco il suono non era il nostro, non era quello che volevamo. Erano tutte canzoni composte e arrangiate da noi per chitarra, basso e batteria, e invece lì c’erano solo tastiere, un casino bestiale. Però allora funzionava così, io non ce l’ho con Roberto Casini, perché Roberto ha fatto quello che gli sembrava più giusto fare in quel momento: cercare di vendere dei dischi, che per un produttore è una cosa assolutamente indispensabile. Però non centrava perfettamente l’argomento, perché poi erano canzoni costruite su dei giri di chitarra, e mettendoci delle tastiere l’ibrido era a volte un po’ inquietante”. Freak: “Il produttore era Roberto Casini, lui voleva rendere più 74 commerciali gli Skiantos, in qualche modo, sempre affrontando la nostra ostilità di rocchettari abbastanza intransigenti, ma comunque alla lunga non chiusissimi. Nel senso che quando un produttore ti martella tutti i giorni sul fatto che qualcosa devi concedere alla radiofonicità del suono, alla televisività ecc… ecc… alla fine un minimo di compromesso lo accetti; ma non è servito a granché. Cioè questo produttore voleva renderci più commerciali “senza snaturarci”, per cui voleva rendere leggermente più pop, quindi più udibili radiofonicamente, i suoni degli Skiantos, li voleva far passare per le radio, con un ragionamento per certi versi molto furbo ma ineccepibile: lui ci diceva “perché gli Skiantos, che hanno delle canzoni valide, interessanti e comunque originali devono essere tagliati fuori regolarmente dalla sfera delle canzoni che si ascoltano per radio? Allora facciamo arrangiamento e soprattutto suoni in sede di mixaggio che siano papabili dalle varie radio, che siano in qualche modo radiofonici perché hanno un suono potente, molto chiaro, molto pulito e quindi diamogli un minimo di quello che vogliono perché è giusto che gli Skiantos colgano anche una loro fetta di successo, visto che lavorano da anni, da anni hanno un loro discorso ecc… bla bla…”. Va bene, concediamo qualcosa alla radiofonicità dei dischi, questo però non è servito granché, nel senso che poi se tu ascolti le radio principali gli Skiantos non li mettono quasi mai. Non so perché, ho la presunzione di pensare che le nostre canzoni non siano peggiori di tante altre, sento delle cose vomitevoli per radio, credo che le canzoni degli Skiantos potrebbero essere tranquillamente trasmesse dagli enti radiofonici più grossi, ma noi siamo regolarmente esclusi da quel giro, quindi è tutto un combattere contro i mulini a vento” T i voglio così Buone notizie comunque a livello artistico, un po’ meno per il resto: sebbene infatti il disco riscuota successo e il ritorno faccia clamore, l’effetto si spegne prima del successivo Troppo rischio per un uomo solo (Targa Italiana-Bollicine /Ricordi, 1989). Peccato perché, nonostante la solita produzione “hardrocchettara” da radio (tastiere coattelle, sax ruffiani del pur bravo Charlie Molinella, batterie alla Phil Collins produttore…) e l’ispirazione altalenante, questo è un disco che segna un cambiamento importante nella poetica dei Nostri. Vi compare infatti, accanto ai classici registri ironico-grotteschi su toni sopra le righe da attore Dada, una finora inedita dimensione cantautorale, la capacità di 75 raccontare storie con un tono più “umano”, di scrivere canzoni “serie” ed inserire un nuovo registro nel ventaglio espressivo del gruppo. Gli Skiantos cominciano qui ad usare uno sguardo che non coglie più solo il surreale ma anche il tragico, cercando però di evitare la retorica di cui si sono fatti beffe fin dagli esordi (un rischio talvolta non scampato, ma per fortuna raramente). Più che dalle canzoni vere e proprie, che risultano un po’ nascoste dalla produzione, la svolta è segnata dai testi, centrati su un intimismo malinconico ed emarginato – l’uomo solo e la marginalità, declinati in varie forme, sono infatti il tema centrale del lavoro: vedi Ancora sovversivo, Le ragazze mi dicono di no, Brutte figure e l’elogio della donna sgraziata di Ti voglio così. Tra i brani migliori troviamo un pezzo “serio” come l’apertura rock di Non voglio più (Antoni parla del vizio dell’eroina in termini decisamente più chiari e forti di quelli usati in Vacci piano, a conferma della “svolta”), poi la canzone preferita del buon Freak Sbagliando nota, e lo splendido, sgangherato Blues degli orti metropolitani (che il produttore, in controtendenza rispetto al resto del disco, ha fortunatamente lasciato grezza). Odio tutti (canzone di Natale), d’altro canto, dribbla la prevedibilità – come altre volte – grazie a qualche improvviso scarto di senso e al timbro vocale del leader (altrettanto importante delle parole per comunicare il significato), con la sua intonazione capace di scompaginare il prevedibile. Freak: “Il processo di investigazione dell’intimo, di proposta dell’intimo, era accennato già in Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti ma probabilmente è Troppo rischio che segna l’inizio di un percorso più intimista, più riflessivo per certi versi. Il fatto è che noi iniziammo come gruppo d’assalto, da barricata quasi, da barricata creativa; gruppo d’assalto, gruppo offensivo, gruppo battagliero, gruppo anche rapace, per certi versi, con gli artigli sempre sfoderati. A un certo punto ci sono altre sfumature, ma ripeto secondo me già ai tempi di Non c’è gusto… perché dopo gli anni ’80 o negli anni ’80 – gli anni del riflusso che hanno ribaltato ogni cosa- nel vuoto e nel deserto creativo, compositivo, artistico-culturale la scommessa poteva essere ribaltata, considerato anche il fatto che erano nati intanto molti gruppi sedicenti demenziali. La cosa ci piaceva, ci piaceva che molti gruppi provassero ad essere demenziali, a dare sfogo al loro lato ironico, però diventava anche molto scontata, e a noi cominciò a non piacere il fatto di essere solo e soltanto in un modo. 76 Voglio dire: quando iniziammo la rima baciata serviva per sottolineare le nostre distanze dai cantautori, per esempio, da quel tipo di presunzione impegnata, da quel tipo di impegno di livello poetico alto (quando in realtà poi andavi ad analizzare le loro cose scoprivi che spesso era sbobba letteraria da quattro soldi, o che perlomeno in un disco c’erano un paio di canzoni-perle e il resto era sbobba retorica). Poi, visto che la situazione si era ribaltata anche la scommessa creativa-artistica degli Skiantos andava in qualche modo ribaltata, o comunque ridimensionata. 77 Lo stesso linguaggio degli Skiantos non poteva essere sempre così crudo, così diretto, “ti spacco la faccia dal vivo”, “tutti fatti”, “io ti rompo il muro che c’è tra noi” ecc… a quel punto si poteva ricominciare forse a parlare di impegno, di questioni spirituali, di impegno poetico, di impegno sociale, si poteva iniziare a recuperare il messaggio. Il messaggio era appannaggio dei cantautori, insopportabili, degli anni ’70; verso la fine degli anni ’80 si poteva iniziare a recuperare l’odiato “messaggio”, “odiato” anni prima, e lo si poteva recuperare e trasformare in nuovo impegno. Per questo abbiamo deciso di modificare anche la nostra poetica, perché no? La nuova scommessa era parlare senza retorica di argomenti esistenziali, di solitudini spirituali. C’era una nuova scommessa da praticare, e quindi recuperare anche argomenti impegnati, perché no? Un esempio di differenza tra i due dischi è il modo in cui avete affrontato lo stesso tema in Vacci piano e in Non voglio più… È proprio diverso il registro. Più tragico nel secondo caso, perché abbiamo voluto in qualche modo recuperare anche la tragedia: perché la tragedia deve comunque restare fuori dall’ordito delle canzoni Skiantos? Perché questo tipo di espressività, questo tipo di tessuto non deve in qualche modo essere parte anche dell’espressività Skiantos? Sempre avendo come punto di riferimento l’ironia, che è il nostro modo di esprimerci; ma perché non passare a volte anche per dichiarazioni semiserie? Perché comunque non adottare un’ironia più seria, più partecipata, più sofferta? Dire cose serie attraverso un’apparente follia, insomma… Certo, la follia è sempre una delle componenti del demenziale. Naturalmente gli Skiantos esagerano anche in angustia e nel disagio esistenziale, però sì, perché no? Perché non percorrere anche questi altri sentieri che sembravano essere la negazione della poetica Skiantos dei primi anni? Ma ripeto: il paesaggio, il panorama sociale che si viveva nella seconda metà degli anni ’80, in qualche modo ci ha fatto orientare spontaneamente verso il recupero di una dimensione più passionale”. P er la mia strada continuer ò “Negli anni Novanta, l’aggettivo demenziale è diventato sinonimo di goliardia gratuita, turpiloquio banale, sciocchezzaio volgare e cretino… mentre secondo l’accezione primaria (…) voleva significare umorismo surreale, 78 pieno di non-sense e di assurdità, ma lucido e determinato” L’epoca vascorossiana si chiude nel ’90 con un live, Ze best in laiv, che continua a soffrire del suono “stadium- rock” o meglio “studium-rock”: la mania dei live registrati in studio per controllare meglio il suono, con annessi serissimi dubbi sulla vera fonte degli applausi del pubblico, colpisce anche loro. Una carrellata di classici che non risulterebbe neanche male, ma gli Skiantos che fanno i live come Ron non è un bel vedere (e le versioni originali per lo più erano meglio). Da notare che nel giro di soli tre anni i “ragazzotti-Ramazzotti del decoro” della versione originale di Sono Contro si sono trasformati in “ragazzotti-Jovannotti”… Lo stesso anno esce una videocassetta intitolata semplicemente Skiantos. Sul retro, l’elenco di canzoni e poesie fa pensare alla semplice ripresa di un concerto, ma un “grido” avvisa che si tratta della “videonovela” del gruppo. In pratica è il loro A Hard Days Night / Tutti per uno, in stile tra il demenziale, il minimalurbano e qualche gag metacinematografica, e racconta una storia nella quale i vari Skiantos sono degli sbandatelli che vengono arrestati in circostanze diverse (con un commissario che, dopo 79 aver preso le generalità, chiede a tutti consigli sulla schedina), e una volta in prigione decidono, sulle note di una quanto mai appropriata Karabigniere blues, di formare un gruppo, gli Skiantos, che grazie a/nonostante due improbabilissimi manager diventa famosissimo e amatissimo. Ogni tanto il film si perde, ma le scene di sogno che parodizzano Arancia meccanica sono esilaranti, e le facce di Freak Antoni anche. Nel film ogni tanto c’è, tra sogno e trama, qualche inserto live del gruppo (dal suono e dalle versioni si direbbe che la fonte è la stessa del Laiv), mentre altre canzoni elencate in copertina si sentono in versione originale come colonna sonora: raro che ce ne sia una completa, in un’alternanza frammento di canzone-scena comica che in qualche modo presagisce le modalità della partecipazione a Colorado Cafè Live. Ma più che la videocassetta, a riportare nel 1991 un po’ di seguito al gruppo è il successo del notevole libro di poesie di Freak Antoni omonimo al disco del rientro: Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (seguirà il dibattito) vende bene, e porterà all’autore la collaborazione con Comix e la ristampa del vecchio (1981) Stagioni del rock demenziale. Il libro alterna “poesie” vere e proprie ed epigrammi fulminanti, 80 futuri testi di canzone e qualche goliardata, contributi di amici e battute vecchie, pubblicità finte e calembours che già avevano fatto la loro comparsa nei concerti tra una canzone e l’altra e nella videocassetta. Tra gli epigrammi, il celebre “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”, cui negli anni aggiungerà “e spesso prende la mira”, “anche al buio”. Seguiranno per la “poesia” Badilate di cultura (1995) e Non c’è gusto in Italia ad essere dementi (2005), che contengono anche le teorie sul demenziale di Antoni, mentre su altri argomenti usciranno Vademecum per giovani artisti (1993), Per sopravvivere alla tossicodipendenza (1994) e Mia figlia vuole sposare uno dei Lunapòp (non importa quale) (2001). E anche per quanto riguarda i dischi, in questo periodo le cose vanno meglio: Signore dei dischi (RTI, 1992), promosso un po’ più degli altri (persino il santino…), ottiene anche più riscontri. La title-track è l’inno delle aspiranti stars (scritto da un gruppo che dal successo era stato mandato in crisi), il folk stile ’70 italiani di Non sopporto il Capodanno è quello (sacrosanto…) di chi odia i rituali festivi, Italiano terrone che amo è un altro riuscito ritratto del Belpaese e Nostalgia della miseria è uno sguardo insolito sull’argomento (specie se scritto da un gruppo che non vende davvero quanto i Beatles…), tra ironia e qualche squarcio memoriale affettivo assente nella versione di questo testo comparsa sul libro. Il nuovo corso qui è “serio” fino a un certo punto, e Calpesta il paralitico e Getta la mamma dal treno impongono il trattamento-Skiantos ai buoni sentimenti (tra parentesi: non c’era bisogno, per la prima, dell’introduzione parlata in cui si spiega che è stato proprio un disabile a chiedere un brano del genere contro il buonismo ipocrita: e che diamine, siete gli Skiantos…), ne La fattanza torna il linguaggio giovanile, in I fatti che contano si prende in giro quello dei media e così, insieme al filosofeggiare tra virgolette di Non hai vinto ritenta, il catalogo è completo. L’ispirazione generale è molto buona, la musica rimane su coordinate rock classiche (più stonesiane del solito), ma grazie anche a un suono finalmente come si deve brucia di più rispetto ai due lavori precedenti e risulta ben fusa coi testi: il rock fanfaroncello di Italiano…, per esempio, rende perfettamente il soggetto della canzone (inopinatamente tornata alle cronache quando nel 2011 l’allenatore del Verona Mandorlini la canta come sfottò verso i tifosi della Salernitana, con tanto di accuse di razzismo, scuse e polemiche da cui però il gruppo esce indenne: evidentemente, anche se se ne parla poco, sanno tutti benissimo chi sono gli Skiantos e che spirito hanno). 81 A conferma del buon momento creativo, gli Skiantos pubblicano, a solo un anno di distanza, Saluti da Cortina (RTI, 1993), scritto con orecchio attento e reattivo a quanto si agitava nell’ambito del rock internazionale (“il nuovo rock americano, il grunge americano, quello tosto tosto, Pearl Jam, Nirvana, queste cose qua”; Dandy Bestia). I Nostri svecchiano la formula musicale, finiscono di abbandonare il suono da radio (“quelli siamo noi, siamo noi davvero”) e tirano fuori un disco vivo e grintoso, il migliore dai tempi di Kinotto, caratterizzato da una felice vena satirica e polemica: su questo filone il crossover di Paese scarpa (“cosa pretendi da un paese / che ha la forma di una scarpa?”), il rap stile Zach de la rocha (più o meno) di Sdrucciole, e il ritorno della satira sulla divisa di Il vigile urbano. A proposito di satira e polemiche varie, il successo di Elio e le Storie Tese suscita il risentimento di Freak Antoni, che li accusa di fare denaro con una versione banale e goliardica delle sue intuizioni: Italiano ridens (parolacce a caso e poi “adesso ridi, italiano”) è, probabilmente, dedicata proprio a loro e al loro spirito. D’altra parte era difficile che a un gruppo uscito col punk potesse piacerne uno che ostenta ultratecnica, e al riguardo Antoni dice: “Un gruppo come Elio e le Storie Tese, 82 molto più inattaccabile dal punto di vista musicale, ha trovato la chiave del successo commerciale, nel senso che poi al pubblico ti devi sempre mostrare inattaccabile, ti devi sempre mostrare superiore nella perizia tecnica, in modo che tutti possano mostrare un “Ooooh!” di ammirazione, in modo che il pubblico si senta in qualche modo incapace. A me poi i loro testi sembrano spesso barzellette da bar”. Parleremo ancora dell’argomento, ma tornando intanto al disco, il difetto è aver messo in apertura le meno riuscite Frontale e L’unica risorsa, energiche ma di maniera, che rischiano di oscurare le ardite metafore tra Cristo, i punk e il ferramenta a tempo funkrock de Il chiodo, o la geniale Morroidi (il brano musicalmente più particolare del disco), o gemme da ripescare come l’inno rock di Io non mi lavo e Meglio un figlio ladro che un figlio frocio (anche questa tornata in mente a qualcuno quando Alessandra Mussolini, in un dibattito televisivo con Vladimir Luxuria, disse testualmente “meglio fascista che frocio”), mentre Preferisco morire (scherzavo) inaugura a tempo di punk il filone tematico sul tema della grande livellatrice di cui dicevamo all’inizio e Ho perso il filobus ribadisce il senso di inadeguatezza ed alterità rispetto ai valori dominanti. Un disco importante sebbene meno venduto del precedente: l’orribile cartolina in copertina deve aver scoraggiato qualche acquirente… Dandy: “Saluti da Cortina è un disco venuto di getto, ci abbiamo messo quattro giorni a registrarlo, tutto in presa diretta, pochissime sovraincisioni, direi che sono una o due. E’ stato buttato giù così come l’abbiamo inventato. Morroidi è nato perché si stava parlando con Freak, in un momento in cui ho avuto una colica renale, e son stato in ospedale una settimana. Non avendo un cazzo da fare uno cosa fa? Legge un sacco di roba: mi sono letto L’idiota di Dostoevskij, che è un bel tomo, e mi sono letto l’Ulisse di Joyce. E ho detto questa cosa: “quando uno è malato ha molto più tempo per se stesso e fa delle cose anche intelligenti”. Allora abbiamo fatto una canzone sulle malattie, così è nata Morroidi. Musicalmente è un esperimento su un accordo solo, mi piaceva l’idea di fare una canzone con un solo riff di chitarra, un po’ come potevano fare i Creedence Clearwater Revival con Run Through The Jungle, o cose simili, l’idea più o meno era quella. Il riff è venuto fuori durante le prove di un concerto, intonai la chitarra e mi misi a fare questo riff. Freak disse “questo qui è molto bello, ricordatelo” e 83 infatti poi lo mettemmo in Morroidi”. Freak: “E’ un disco che devo dire piacque abbastanza ai dirigenti dell’RTI, ma fu sbagliata completamente la promozione, che comunque fu molto scarsa come al solito. Penso che si attestò tra le cinquemila e le otto-diecimila copie, che sono le copie che noi vendiamo solitamente: tra le cinquemila e le diecimila copie scarse, non sempre diecimila comunque, quindi tra le cinquemila e le ottomila copie, che sono la nostra misura”. Su, su con quella bandiera A questo punto finisce anche il periodo RTI, esperienza che, pur registrando il successo di Signore dei dischi, ha riproposto i soliti problemi. La preghiera ha ricevuto poco ascolto, e per un po’ di dischi non si parlerà. I concerti però vanno avanti, con un buon seguito. Al riguardo, Antoni dichiara: “Noi siamo sempre stati molto consolati e sostenuti dal pubblico: questo ci ha motivato in tutti questi anni, altrimenti la situazione sarebbe stata veramente durissima, talmente dura da non avere nemmeno un briciolo di speranza. Il pubblico, nei concerti dal vivo soprattutto, ha sempre dimostrato di apprezzarci: noi ci manteniamo e riusciamo ad andare avanti e a prolungare il nostro mestiere perché facciamo un numero passabile di concerti durante l’anno – naturalmente più d’estate che d’inverno, tra alti e bassi, però riusciamo a mantenerci. Nello show dal vivo ci mostra interesse, partecipazione, sostegno e anche stima: esiste il famoso “zoccolo duro” anche per noi, cioè una serie di fan che ci consentono di andare avanti perché non hanno remore, difficoltà a mostrare il loro sostegno agli Skiantos. Abbiamo avuto anche un ricambio generazionale, ai nostri concerti vengono anche giovani, anche giovanissimi, anche adolescenti, teenager che cantano insieme a noi i testi delle canzoni, sanno tutte le parole delle canzoni a memoria, anche un po’ indirizzati dai genitori o dai fratelli maggiori, come qualcuno ci ha poi svelato in privato. Ad ogni modo noi continuiamo ad andare avanti per il sostegno del pubblico, non per altro. Noi abbiamo continuato ad essere bene o male, noi stessi, non è che ci siamo molto adattati. Però devo dire che rimanendo noi stessi siamo riusciti a dialogare abbastanza spontaneamente con le nuove generazioni, non abbiamo avuto molte difficoltà su questo. Direi che le nostre più grosse difficoltà sono nei confronti del potere: il potere della discografia, il potere della promozione 84 televisiva, radiofonica, eccetera, ma non con la gente, non con il pubblico, non con le persone che ci seguono”. Ma se i problemi con manager e discografici sono in qualche modo nel conto, a volte ne capitano invece di inattesi. Il 1995 vede infatti la controversa partecipazione a Materiale resistente (Il Manifesto), il disco collettivo di rielaborazioni di canti partigiani: qui il problema fu che gli organizzatori non presero in considerazione l’eventualità che i partigiani non approvassero il velo di ironia con cui i nostri avevano reinterpretato Fischia il vento (in realtà la versione non mancava di pathos e partecipazione) e ne seguirono polemiche. Un altro problema, inatteso e con i discografici, è invece quello che capita al gruppo nel momento in cui, dopo l’esperienza RTI, si mette alla ricerca di una nuova etichetta. Apparentemente gli anni ‘90 erano stati un buon decennio per il rock italiano: numerosi gruppi di origine “indipendente” si erano affacciati sulla scena riscuotendo anche un discreto successo di pubblico, che nel decennio successivo crescerà fino a portare qualcuna di queste band addirittura in classifica, come Marlene Kuntz, Afterhours, Subsonica (e gli Avion Travel a vincere Sanremo, ma questa è un’altra, lunga storia). In questa fioritura la Mescal aveva svolto un ruolo centrale, producendo e promuovendo come management quasi tutti i nomi più importanti del periodo, e occupandosi, oltre che dei sunnominati, anche di Marco Parente, Cristina Donà, Yo-Yo Mundi, ecc… Sembrava perciò un porto sicuro per un gruppo come il nostro, che doveva battezzarla come etichetta; ma ahimè, le cose trovarono il modo di andare storte anche stavolta, e gli Skiantos si scontrarono con la faccia mercantile della Mescal. L’unico frutto della collaborazione, infatti, fu Skiantologia vol. 1 (Mescal, 1996), che contrariamente al titolo non è una raccolta (che al limite un senso l’avrebbe avuto), bensì nuove registrazioni di una serie di classici, “nella versione in cui il gruppo le suona attualmente dal vivo”. L’operazione, proposta dal management con la promessa di produrre poi un disco di canzoni nuove, detta così lascia perplessi: esattamente come l’ascolto del disco, esattamente come il ripetersi di quanto successo con Caterina Caselli ai tempi di Ti spalmo la crema. Le versioni dei classici perdono il confronto con quelle originali, l’occasione e il tentativo di reincidere qualche brano del periodo Bollicine restituendogli un po’ di grinta non produce grandi risultati, e il disco (pur con un suono migliore di quelli del perio- 85 do Vasco) non è degno né della Storia, né dei concerti del gruppo (le uniche cose interessanti sono due collages delle canzoni di Inascoltable, che fanno così una prima non canonica comparsa su CD). Per di più, in quel periodo chi vi parla vide il gruppo suonare dal vivo, ed era molto meglio di questo parziale ritorno al mainstream, di questo piccolo passo indietro rispetto ai due dischi precedenti nel percorso che li aveva portati a sganciarsi da un suono “normalizzato”. Il pubblico non apprezza (gli Skiantos nudi di spalle in copertina non devono aver aiutato le vendite…), e il matrimonio con Mescal termina senza il promesso disco di inediti (ma anche, ed è un bene, senza un vol. 2 dell’antologia…). La sede della loro attività si sposta perciò di nuovo on the road, a suonare davvero dal vivo. Dandy Bestia: “Feci una mossa, cercai chi produceva musica un pochino più intelligente del resto della massa dei discografici italiani, con la Mescal. E lì subito ci si trovò d’accordo, poi il direttore artistico disse “lasciamo stare un disco di pezzi nuovi, perché non fate una compilation di pezzi vostri famosi come li suonate adesso dal vivo?”. Io ho detto “Bah… a me sembra una 86 vaccata, però …” Avevamo bisogno di tornare sul mercato perché era un pezzo che non facevamo dischi, avevamo tanti pezzi nuovi da fare, ma questa era l’idea, con la promessa di fare, immediatamente dopo questo rilancio sul mercato discografico (così lo chiamavano loro) attraverso tale operazione, un disco totalmente nuovo di pezzi nostri: cosa che poi non si è concretizzata. Un po’ per il cattivo andamento del disco, perché nonostante sia un disco anche suonato bene, però è roba vecchia riscaldata, come tutte le cose vecchie riscaldate alcune volte ci prendi, altre volte no. E in generale in quel disco, pur essendo secondo me suonato molto bene, in certi momenti anche entusiasmante, ci sono però delle cadute, delle cose che lasciano un po’ a desiderare. Per questo andò maluccio anche, credo”. 87 Slowdive 88 Abbiamo incontrato Rachel Goswell degli Slowdive per discutere di musica passata, presente e futura, dei rapporti interni con la band, di esperienze personali come donna, come madre e come professionista, di tecnicismi legati al suono e del suono dei sentimenti. Testo di Nino Ciglio Punti di (ri)partenza. Intervista a Rachel Goswell Forse non era una sex symbol, ma quando la guardavo, sbiadita in quelle foto in bianco e nero, mi rendeva euforico. Sembrava voler celare l’animo contrastato dietro una maschera di ghiaccio, voler camuffare le emozioni con la sua voce da bambina immersa in cascate di suoni multicolori. E poi mi capitava di farmi rimbalzare la voce eterea e sublime di Catch The Breeze o Avalyn nelle cuffie della mia stanzetta. E per me, che a loro, gli Slowdive, ho sempre preferito i Cocteau Twins o i Cure o i Jesus and Mary Chain, l’ascolto rimaneva un’esperienza mistica, onirica. Rachel Goswell, da quel lontano 1995 in cui ha messo in stop l’esperienza con gli Slowdive, le ha passate davvero tutte. Musicalmente e personalmente. Ma quando a gennaio 2014, il Primavera Sound Festival ha ufficializzato la reunion, nessuno si sarebbe aspettato un impatto simile. La band di Neil Halstead e Rachel Goswell, in mezzo al mare in tempesta che erano i primi Novanta, è riuscita a scalfire, nei corsi e ricorsi storici, un solco inesorabile nei ricordi e negli ascolti 89 di migliaia di fan. Come spesso accade, il loro culto è covato e maturato negli anni, restituendo, forse un po’ in ritardo, la gloria meritata ad una band che in patria era vista di cattivo occhio dalla stampa di settore. Ma la naturalezza, l’aspetto mistico e catartico della musica degli Slowdive, si è impresso inesorabile nelle esperienze dei musicisti che, in mezzo a mille difficoltà, hanno tenuto duro. E si è impreso anche in generazioni di artisti futuri che, magari inconsciamente, hanno fatto tesoro dello shoegaze macchiato onirico della band di Reading. Un’avventura finita troppo presto per essere goduta veramente. Ma Rachel, che dalla vita è stata messa alla prova da cose ben più serie della separazione di una band, si è conservata pura e sorridente. Lo è ancora oggi e ha promesso di esserlo anche in vista della prima ed unica data italiana il 16 luglio a Padova, in occasione del Radar Festival 2014. Lo sappiamo perché l’abbiamo incontrata per discutere di musica, di tanta musica passata presente e futura, degli Slowdive e dei loro rapporti interni, di esperienze personali come donna, come madre e come professionista, di tecnicismi legati al suono e del suono dei sentimenti. Nel relax di un qualunque pomeriggio di aprile, mentre la maggior parte degli umani è intenta a caricare la moka di caffè, il tintinnio della chiamata di Skype in entrata irrompe brusco, cogliendomi totalmente impreparato. Ma come? Non dovevo chiamare io? Non funziona così nelle interviste di solito? No, non per lei. È Rachel. Rispondo. “Sì?”. E il suo viso paffuto, sottolineato da un paio d’occhiali portati sulla punta del naso, da un’acconciatura rivedibile da british desperate housewife, compare su uno sfondo verde. L’aura non più intatta della mia personalissima femme fatale sembra un po’ svanire di fronte a quella donna quarantenne, che sembra aver appena finito di tagliare l’erba in giardino. Ma vuole vedermi. “Cacchio, questa mi vuole vedere in webcam” penso. Mi tocca trovare una scusa. Lei continua: “Mi vedi? Riesci a vedermi? Io non riesco a vedere te…”. Mi arrendo. Non prima, però, di sfoderare la prima battuta che mi viene in mente: “Ok, mi mostro, dammi un secondo… sono particolarmente brutto oggi”. Segue una risata sguaiata e diaframmatica che timbra i miei timpani. Ho fatto colpo. Siamo finalmente online. Insieme. Rachel Goswell è una classe 1971, è nata a Fareham, ma ha incontrato Neil a Reading, che è ufficialmente riconosciuta come la patria degli Slowdive. Da alcuni anni, dopo il matrimonio con Christopher Andrews dei Cuba, è legata a Joe Light, che è un distributore di pedali ed effetti di chitarra (era da dire…). Ha un 90 figlio, Jesse, che, da come ne parla e dalla sua attività (a dire il vero elevata) sui social, sembra essere davvero la sua unica ragione di vita. Tra l’esperienza degli Slowdive, quella dei Mojave 3 – la band con Neil di respiro country e folk – e l’annunciata reunion, Rachel ha avuto tempo e spazio per considerare i pro e i contro del ritorno sui palchi. Lo abbiamo già detto: si tratta di un evento storico principalmente per la band, che, con un po’ di soddisfazione, ma tantissima umiltà, si riprende quello che aveva assaggiato solo in parte nei primi anni Novanta. E lo ha dimostrato soprattutto in occasione del live di maggio a Barcellona, quando l’emozione non ha frenato la resa di un live cristallino, ad altissimo impatto catartico. Il più, allora, è scoprire le ragioni, che legano questo ritorno a quello di altre band del periodo, My Bloody Valentine su tutti. È inutile negarlo, ormai, il cosiddetto shoegaze, che negli anni passati aveva vissuto momenti alterni, sotterrato a volte, dai coevi brit pop e grunge, sta vivendo una nuova giovinezza. Perché ora, Rachel? “Già! Non pensavo che le persone potessero essere così interessate ad una nostra reunion… Ci ha preso tutti di sorpresa. Quando abbiamo ricevuto l’offerta dal Primavera Sound, abbiamo capito che quello era il nostro punto di partenza. Voglio dire, non ci siamo accorti dell’impatto finché non abbiamo visto il nostro nome sulla locandina. Poi l’abbiamo visto e ci siamo detti: ‘Oh my God, that’s ridiculous!’ E’ stato particolarmente emozionante e strano. Strano perché sta succedendo ora… ma in senso positivo. Musicalmente, poi, nell’ultimo decennio c’è stata una sorta di risurrezione dello [con le dita fa il segno delle virgolette, storcendo la bocca e l’intonazione, ndSA] shoegaze”. Eppure, qualcosa è dovuto scattare nelle teste dei cinque Slowdive, se non altro perché – stando a quando mi dice Rachel stessa – “non abbiamo dovuto convincere nessuno, eravamo tutti gasati”. “E’ il momento giusto a livello personale. – continua sorseggiando il tradizionale tè delle 5 -, ci hanno chiesto di riunirci alcune volte negli ultimi anni, ma pensavamo che non fosse il momento giusto. Io e Neil eravamo con i Mojave 3 per un po’ di anni e il progetto esiste ancora tecnicamente”. Poi, giusto per ricordarmi che ho davanti una persona di una sensibilità finissima e infinita, abbassa un po’ i decibel e racconta le dure esperienze degli ultimi anni: “Io mi sono ammalata poco dopo l’uscita del mio disco [Waves Are Universal, 2004, 4AD, ndr]; nel 2007 ho avuto un’infezione all’orecchio, chiamata labirintite, che mi ha lasciato quasi sorda dall’orecchio sinistro e con qualche problema di equilibrio per al- 91 92 cuni anni; ho dovuto fare fisioterapia per un po’, cercare di camminare dritta. Per questo ho smesso di fare concerti con i Mojave 3… non ce la facevo fisicamente. È stato molto difficile e mi sono dovuta prendere un paio di anni per provare ad andare avanti. Poi… ho avuto mio figlio Jesse, quasi quattro anni fa e …. [ride] è venuto con il suo pacchetto di problemi da gestire. Mi sono concentrata su di lui per quasi quattro anni… beh saranno quattro la sera che suoneremo al Primavera, il che sarà molto emozionante per me, a vari livelli”. Jesse, già… un bambino stupendo, affetto da una sindrome, nota come CHARGE, che è causa di alcune anomalie genetiche. Ma Rachel ride, è una combattente e, se fate un giro sul suo Twitter, troverete ogni giorno un’iniziativa nuova sulla ricerca, che lei fa di tutto per promuovere. Le chiedo di fare un piccolo salto indietro, partendo dall’impatto differente e non proprio entusiasta che gli Slowdive ebbero nel periodo di maggiore attività e confrontarlo con l’enorme risonanza di ora. Tre album e una manciata di EP non erano bastati alla critica britannica per farli inserire nei big del genere. Per qualche ragione, continuavano ad essere snobbati: “la stampa musicale inglese non ci ha visti di buon occhio. In America andò meglio e ci divertimmo molto a fare concerti. Ci siamo anche finanziati da soli il nostro ultimo tour, perché avevamo un’etichetta di merda, la Creation [di Alan McGee, ndr]. Lì eravamo un po’ le pecore nere e faceva schifo. Quindi volevamo prendere in mano la situazione e uscire da lì. Al tempo Melody Maker, NME erano il vangelo. Lo erano anche per me che compravo ogni numero per farmi la mia cultura musicale. In un paio d’anni, poi, ci siamo trovati dall’altra parte e ho smesso di leggere quei giornali, pensando che fossero tutti bastardi. Beh, la maggior parte… Ho conosciuto le persone che c’erano dietro a quei giornali e… sì, sono proprio dei rompipalle. Erano giornalisti con un ego enorme e credo che la maggior parte di loro avesse sufficiente potere da far sciogliere una band. Erano più importanti loro della musica. E attaccarono anche noi. Il nostro terzo Ep, Holding Our Breath, subì certamente questa sorte… Non so se è stato così anche per il nostro primo album. La differenza è che ora c’è internet…”. McGee, il manager di Creation, recentemente ha avuto modo di esporsi su Twitter, confessando che, secondo lui, gli Slowdive non hanno colto l’attimo quando potevano, agli inizi degli anni Novanta. Per lui, una reunion nel 2014 è carta bruciata. Ma Rachel insiste. “Non era semplicemente il periodo giusto per la nostra musica”, magari offuscata dalla freschezza del brit pop e dalla rabbia del 93 grunge. Gli Slowdive, al tempo, erano veramente giovani, il che, immagino, abbia influito tantissimo sul tenere a bada degli animi che scalpitavano a metà degli anni Novanta: “Eravamo sui 20, 24 anni… tre album, molti problemi legati all’etichetta, problemi economici… Siamo andati in bancarotta due volte perché abbiamo avuto un manager di merda. Tutto era uno schifo. Eravamo molto ingenui, ci fidavamo delle persone intorno a noi. Fa parte dell’essere una band, sai, è inevitabile. Tutti erano incazzati quando ci siamo separati. Non avevamo soldi…” Erano incazzati anche fra di loro? “Mmmm…. Forse un po’, non così tanto. Simon aveva lasciato la band con Pygmalion ed era stato rimpiazzato da una drum machine. Ma ci saremmo dovuti trovare un nuovo batterista comunque…. Neil ed io abbiamo continuato con i Mojave e Pygmalion è uscito un anno dopo rispetto a quando l’avevamo finito di registrare. Il primo dei Mojave, invece, è uscito in questo anno di buco, quando io e Neil abbiamo cominciato ad ascoltare cose in stile Bob Dylan. Le cose hanno seguito il loro corso…”. Eppure, le faccio notare, si dice in giro che le persone non riuscivano a trattenere le lacrime ai concerti degli Slowdive: “A dir la verità, c’è stata questa ragazza, forse cecoslovacca, che è venuta ad un concerto mio e di Neil l’anno scorso, ed era veramente in lacrime. Ho dovuto darle un abbraccio. È stana questa reazione che hanno le persone. La ragazza è venuta e mi ha detto che ha aspettato venti anni per poterci vedere dal vivo… Sai, fa un certo effetto”. Poi scherza: “Dio, ma piangono ancora? Forse non abbiamo fatto abbastanza sale prove!”. A proposito di sale prove, cerco di scovare qualche segreto riguardo alle sedute che precedono il ritorno sui palchi dopo quasi vent’anni… Mi chiedo se si sono ricordati tutti i brani con facilità o se c’è voluto un briefing apposito. “Beh, non ci siamo ricordati proprio tutto. Abbiamo iniziato con il pezzo Slowdive, che è sembrato ottimo. Come sempre… Ed è stato un momento fantastico. Ci siamo detti: ‘Wow, siamo forti!’. Nessuno immaginava che avremmo suonato ancora così bene. Poi When The Sun Hits e alcune canzoni sulle quali abbiamo dovuto lavorare, perché avevano diverse tonalità. Abbiamo provato per un weekend al mese da gennaio, ma a dir la verità abbiamo provato anche prima dell’annuncio della reunion”. In un sound raffinato e sperimentale come quello degli Slowdive, è necessario tenere aggiornata la tecnologia, per cui – mi confessa – “abbiamo pedali nuovi, che, tra l’altro, ci vende il mio partner, che lo fa per professione. Nessuno di noi, comunque, ha gli stru- 94 menti che avevamo al tempo e quindi sarà tutto un po’ diverso. Simon ha un nuovo kit di batteria, che sarà magnifico mostrare sul palco”. E poi, i brani, che finalmente potranno prendere respiro proprio su palchi adeguati. Basti pensare che Pygmalion, il terzo e ultimo Lp, non è mai stato eseguito live perché “abbiamo provato e poi, poche settimane prima del tour, la Creation ci ha scaricato, quindi non abbiamo mai avuto la possibilità di suonare quell’album. Ma sembra che i pezzi stiano venendo molto bene. La cosa più interessante di suonare quei brani oggi è che prendono una vita nuova, completamente diversa, senza sradicarli dalla loro natura. Non è stato facile, perché molti brani erano concepiti su trucchi da studio, sovraincisioni, loop… i bassi, ad esempio, non erano acustici, ma suonati sulle tastiere e Nick doveva inventarsi cose strane per suonarli. Beh, mi sembra che ora i brani siano più eccitanti da suonare rispetto a prima. Stanno cambiando”. E i volumi? Suppongo che, in gruppi che si sono nutriti di volumi pazzeschi e da cui hanno tratto una loro peculiarità e una loro forza, la qualità del suono sia fondamentale. Chissà cosa cambierà nei prossimi live rispetto a vent’anni fa… “Non lo so! Ma è un’ottima domanda… Tra l’altro io indosso dei tappi per le orecchie mentre suono, a causa del mio problema… Il suono credo sia più o meno lo stesso di allora ed è di per sé abbastanza forte. Ne stavamo parlando alcuni giorni fa, proprio riguardo la nostra data a Londra e uno dei problemi che è venuto fuori era il limite di decibel dei locali. Quindi abbiamo dovuto scartare alcune location a causa di questo…”. Le faccio notare che in Italia ne abbiamo parecchi di questi problemi e lei mi risponde che gli Slowdive devono “necessariamente suonare sopra i 100 db”. Già che siamo finiti a parlare di volumi, condividiamo qualche memoria dei concerti dei My Bloody Valentine. “Ho visto i Valentines moltissime volte negli anni Novanta, ma non nel tour della reunion, perché le band non vengono oltre Bristol, si fermano a Devon. Ricordo che nei Novanta i bassi mi esplodevano in petto tanto forti da farmi sentire male. Erano magnifici…”. Sospiro e decido ancora di tornare indietro nel tempo. Insomma, ho davanti una leggenda di quel periodo, non posso perdere l’occasione di togliermi qualche dubbio. Sullo shoegaze, ad esempio. Sulla sua genesi, le sue gesta. Da dove è partito tutto? Da qualche parte si dice che tutto è iniziato a seguito di un tour inglese del 1990 dei Dinosaur Jr., il cui suono, mixato con l’effettistica della chitarra di Hendrix e l’appiglio dei Velvet Underground, ha creato un humus favorevole al genere. Ma, quando lo faccio notare a 95 Rachel, come spesso accade, i sogni s’infrangono sul frangiflutti. Mi liquida i Dinosaur con uno “yeah, they were interesting…” e rilancia sul personale: “per me, ebbero più impatto band come i Loop. Ero in prima fila ai loro concerti, quando avevo 17 o 18 anni. Non so, ci sono state molte band che hanno influenzato il nostro sound… I Jesus and Mary Chain su tutti, ma anche i Velvet Underground: prima degli Slowdive avevamo una loro cover band. I Cocteau Twins, un po’ dopo… ci sono serviti a compattare il nostro sound”. Dopo? “Li ho sentiti per la prima volta quando avevo 16 anni, con Treasure. Christian era un grande fan dei Cocteau Twins. La loro chitarra, certamente, ebbe un’influenza particolare sulla nostra musica. Dico ‘dopo’ solo perché all’inizio eravamo concentrati più sui Velvet Undeground e sui Mary Chain. A Neil piaceva molta musica twee indie come i Primitives, che io non amo. A me piaceva di più la roba un po’ gotica, tipo i Cure, i Banshees. E anche a Nick, a cui piace tuttora. Beh, insomma, anche se non so se a Neil sono mai piaciuti i Cure, sono sicura che avevamo tutti gusti abbastanza diversi…”. Nel momento di annunciare una reunion, ogni band si pone il dilemma del nuovo materiale. Gli Slowdive, ovviamente, non sono stati esattamente congelati per vent’anni. Hanno vissuto più vite, con i Mojave, con le esperienze soliste di Neil e Rachel, con i saltuari incontri, con i ricordi e, soprattutto, con gli imitatori inconsapevoli. Anche gli Slowdive hanno nuovo materiale, mi confessa Rachel: “Neil ha alcuni brani, che credo ci proporrà e noi ci jammeremo sopra. Come sempre. Le mie canzoni preferite degli Slowdive, come Souvlaki Space Station o Avalyn, sono uscite con noi che suonavamo a ruota libera in sala prove. Credo sia questa la strada, è più organico per la band. Bisogna suonare insieme e vedere cosa ne esce fuori”. Si sente libertà in queste parole, dette mentre si allontana per un po’ dalla webcam. Si sente la libertà di poter gestire le proprie risorse, le proprie ispirazioni: “La cosa bella per noi ora è che siamo più anziani e saggi e non abbiamo le pressioni di un’etichetta o del tempo. Non c’è pressione immediata. Solo alcuni concerti in giro per il mondo”. Peccato solo non poter ascoltare già qualcosa nei prossimi live. Come hanno fatto? continuo a domandarmi… Gli anni andavano e i suoni che loro avevano concepito erano sempre più attuali, le band suonavano come loro, ma non lo sapevano e, cosa peggiore, loro non potevano farci nulla, perché erano tenuti a distanza dalle logiche di un sistema, da cui si erano sentiti schiacciati. “Ci sono effettivamente alcune band che ho ascoltato negli anni – mi 96 rassicura Rachel- e che mi hanno fatto pensare ‘Jesus Christ… sono gli Slowdive!’. E ovviamente ho pensato che loro suonassero meglio di quanto abbiamo mai fatto noi! Non dirò i nomi… Ma lo prendo come un complimento… sai, molte band hanno bisogno di un punto di partenza per le loro referenze, come abbiamo fatto noi…”. Punti di partenza, punti d’incontro, di ripartenza. Con un po’ di sorpresa, scopro una Rachel onnivora di musica, che sa da che parti far maturare le sue ripartenze. “Adoro i Midlake, il nuovo dei The War On Drugs. Simon e Neil adorano Nils Frahm, che fa una cosa elettronica tipo spacey-melo… Ah, adoro il nuovo di Banks e soprattutto quello dei Sun Kil Moon, adoro più o meno tutto quello che fa Mark Kozelek”. Ah, tocchi un punto caldo, cara! Ho visto un suo live dieci giorni fa… “Già, è un grande songwriter… Lo conosco di persona da qualche anno, è davvero divertente. Neil è molto preso dal suo modo di scrivere, perché crede che sia uno dei migliori della sua generazione. Non potrei mai scrivere canzoni come fa lui…”. Ma Rachel, proprio come quella ragazza di vent’anni fa, ha nuovi obiettivi: “Un tempo mi ispiravo totalmente a Siouxsie. Era l’artista alla quale aspiravo ad arrivare, anche come persona. Era fantastica e lo è tutt’ora. Dall’altra parte, però, amavo Joni Mitchell, che è completamente diversa da lei… ma è una donna forte altrettanto. Ho amato anche Nick Cave e lo amo ancora. In effetti, sono una persona molto leale… Iggy Pop, Neil Young, Nick Drake…”. Provo a fermarla ma non ci riesco. Anella, uno dopo l’altro, i nomi degli artisti che ama di più, come una cannibale di musica. Alla faccia di chi è geloso delle proprie referenze…“Beh, mi piace quasi tutto… però faccio fatica ad ascoltare il death metal!” mi dice con una risata da vecchia zia del sud est britannico. Cerco di congedarmi nel modo più polite possibile, ma dopo i sorrisi e le risate che abbiamo vissuto non è facile. “Verrai a Padòva?” mi chiede marcando quel rotondissimo accento sulla “o”. “Ci saremo”, le rispondo. 97 / L u g l i o Alex G - DSU (Orchid Tapes,2014) Genere: techno C’è ancora magia nella musica degli Akkord, anche dopo la prova di un album, che per i meno capaci può diventare pietra tombale di un’idea, saturazione senza possibilità di ritorno per stilemi altrimenti futuribili. Invece, Indigo e Synkro – che da Manchester uniscono braccia e cervelli per la causa elettronica britannica – esplorano senza incertezze l’universo darkside-dub già introdotto lo scorso anno con l’omonimo numero sulla lunga distanza (Akkord, Houndstooth, 2013). Continuum, come la seconda traccia di HTH020, cioè la jungle che ritorna alla sua dimensione originaria di austero dub esotico, declinato techno tra i fumi della metropoli occidentale. Punti di contatto con una storia di rave e ambienti che non può essere dimenticata, e infatti viene riscritta con campionamenti, frammenti audio riciclati, prendendo in prestito fotografie del passato e proiettandole verso nuova vita futura. Quattro istantanee, con apertura e chiusura a fissare l’immagine del set, costruzioni di tensione horror a bassa battuta, sporcate con voci e rumori da un’altra dimensione (Gravure, Greyscale). Non casualmente, quindi, abbiamo tracciato simmetrie con Logos, Pinch e la sua Keysound, i minimalismi berlinesi di scuola Basic Channel e le più fredde ripercussioni Warp. 7/10 Elia Galli 98 Genere: indie, lo-fi Alex G, venti anni compiuti da poco e tutti i sintomi dell’appartenenza agli stereotipi dell’americano post-adolescente in preda agli slackerismi da cameretta. Philadelphia come contorno, l’intimità a bassa fedeltà come forma espressiva tradotta nella consueta moltitudine di release più o meno amatoriali caricate su Bandcamp. Quello che potrebbe sembrare l’ennesimo – anonimo – ragazzo annoiato con in mano una chitarra che scrive canzoni a raffica figlie più di una liberatoria urgenza comunicativa che di veri sogni di gloria è in realtà uno di quei fortunati eletti (Bored Nothing ad esempio) che puntualmente ogni anno vengono spinti dal basso verso dimensioni mediatiche di un certo rilievo (ovviamente non stiamo parlando di radio o televisione). L’attuale posizione di Alex Giannascoli, ovvero quella di potenziale nuovo grande culto del cantautorato lo-fi, è sicuramente stata galvanizzata da alcuni articoli introduttivi su importanti testate (per The Fader è l’”Internet’s Secret Best Songwriter“) ma è soprattutto l’assolutamente meritato punto di arrivo e di partenza di un talento naturale. Un plauso quindi alla Orchid Tapes – quest’anno già dietro ad un altro cult name Ricky Eat Acid – che ha pubblicato l’ultima creazione del nostro: DSU. Un artwork d’impatto immediato – curato dalla sorella Rachel – e tredici brevi tracce che raccontano al meglio quello che, per il momento, Alex ha da offrire in termini di sbilenchi affre- r e c e n s i o n i A g o s t o Akkord - HTH020 EP (Houndstooth,2014) Genere: indie, elettronica Secondo disco solista per l’ex Hot Chip, Alexis Taylor, dopo Rubbed Out del 2008. I suoni e le atmosfere che ci potevamo aspettare dopo la pluriennale avventura sonica con il main act r e c e n s i o n i A g o s t o Alexis Taylor - Await Barbarians (Domino,2014) / Riccardo Zagaglia e dopo aver pubblicato anche qualcosa con gli Avant Group (gruppo arty con membri di Spiritualized e This Heat), ci sono tutti. Il disco è infatti pieno di arrangiamenti ad effetto (leggi qualche tappetino elettronico non invadente) che si vanno ad aggiungere a una base tradizionale, fatta di semplici ballad voce e chitarra. Invece di concentrarsi su malinconie modaiole How To Dress Well, il sostrato armonico di Taylor si situa sulla tradizione del (synth) soul artigianale, dato che l’uomo ha suonato tutti gli strumenti (archi a parte), conferendo al disco una vena di DIY-ness che non guasta. Ingredienti storicizzati, che si adattano bene al timbro di voce del cantante, in buonissima forma anche da solo. Insomma, Taylor invecchia bene e avevamo già capito dell’EP del 2012 (Nayim from the Halfway Line, sempre su Domino) che non avrebbe mollato presto il mix di sperimentazione e di popness per cui è diventato famoso. Non per fare paragoni troppo azzardati, ma nella vicenda artistica di Taylor sembrano emergere le stesse movenze di David Sylvian quando iniza a pubblicare cose per conto suo separandosi definitivamente dai Japan. Con il main act, il cantante inglese aveva stabilito la sua statura sugli anni ’80, e con i progetti paralleli aveva iniziato una nuova vita, fatta di incontri col misticismo e con una parte di se stesso che non avrebbe potuto esplorare restando nella band. Destino parallelo per Taylor, che con gli Hot Chip ha blindato il soul dei 2000 e che oggi ripiega su un intimismo classico (vedi l’armonica di Without a Crutch, le atmosfere caldissime di Immune System), riprendendo in mano l’eredità di Robert Wyatt (che nel 2009 aveva cantato nell’EP degli stessi Hot Chip Made in the Dark e che qui ritorna prepotentemente in Am I Not a Soldier?) con un soul senza sbavature (Dolly and Porter, Elvis Has Left the Building), senza dimenticare qualche momento L u g l i o schi pop ancorati tanto al divano di casa quanto al nostalgie ’90s rivisitate da chi in quegli anni nasceva. Scorrono limpide le timide schegge dell’indie americano dei tempi andati (Pavement, Built To Spill e soprattutto i Beat Happening di Calvin Johnson) lungo gli intrecci – meno banali di quanto sembrino – delle composizioni di Giannascoli. A rendere DSU un piccolo gioiello dal repeat facile è una varietà strumentale e stilistica che, pur muovendosi tra i confini di un certo cantautorato indie, riesce a mantenere sempre vivo l’ascolto allontanando qualsivoglia rischio-sbadiglio: improvvise incursioni noise mai invadenti e sempre funzionali alla causa (Axesteel), richiami ai migliori Modest Mouse (l’appicicosa pigra cantilena di Harvey, l’ottima Black Hair con la sua sferzata quasi Slintiana), vaghi sensori indie-emo (Serpent Is Lord), assurdi vocalizzi che se non altro incuriosiscono (Rejoyce) e punte di slowness dilatate dai cori eterei dell’amica e concittadina Emily Yacina (Hollow). Tutt’altro che perfetto e potenzialmente bissabile in un’ottica meno casalinga, DSU è il classico breakthrough album per il piccolo pubblico, destinato a rimanere tale sia che si sia trattata di una micro-allucinazione collettiva di un paio di mesi sia che si riveli realmente essere il primo grande passo di un ipotetico protagonista della scena indipendente del prossimo decennio. 7/10 99 / L u g l i o Genere: metal, blackmetal Difficile trovare una smagliatura in questo quinto lavoro degli Agalloch, metalloni di Portland con diciassette anni di anzianità alle spalle e dunque a buon punto in quel processo storico che li porterà a un’anzianità segnata dal culto incondizionato. Ci sono tutti i presupposti: hanno una discografia sparuta ma integra e – soprattutto – sono tra le poche band in grado di maneggiare trasversalmente la materia dark, pescando tra black metal, folk, prog e post-. Rispetto ad altri lavori in cui – seppur di poco – era sempre una componente a prendere il sopravvento (si veda ad esempio il bellissimo esperimento prog di Ashes Against the Grain) The Serpent and the Sphere è un disco d’equilibrio, capace di fondere tutto il percorso sin qui intrapreso dagli Agalloch. Torna prepotentemente in auge l’aspetto teatrale della loro musica (e dunque le parentele con i Katatonia), a braccetto con la solita perfezione nella struttura: non c’è un passaggio che stoni, nemmeno quella cornice black a-ferina che spesso confluisce in un growl accomodante a mezz’aria su scale prog, perché in fondo è proprio il valore scenico che interessa ai Nostri. Quel nero di importazione scandinava raccontato tra paganesimi morte e natura che comprende anche gli intermezzi di folk acustico, a cura di Nathanael Larochette dei canadesi Musk ox, e i giochi pieni/vuoto nei dodici minuti di Plateu of Ages. Un’opera dark e l’affermazione di un gusto classico: questi sono i presupposti di The Serpent and the Sphere. Aggiungiamo alcuni episodi sopra le righe (Dark Matter Gods e Celestial Effigy), un’ottima amalgama sulla lunga distanza, ed ecco firmato un ritorno di grande personalità. 7.2/10 Stefano Gaz di estasi (splendido l’a-cappella su base cosmic di Closer to the Elderly), di cazzeggio (il fischiettare nella stupenda New Hours, forse la migliore canzone del disco) o di citazioni colte (il titolo dell’album è preso dal poema omonimo di Kavafis). Un inaspettato e piacevolissimo ritorno. Strappalacrime senza strafare, Taylor ha capito come costruire pezzi che restano non solo nell’hard disk ma anche nel cuore. 7.2/10 Marco Braggion 100 Alvvays - Alvvays (Cooperative Music,2014) Genere: pop, rock, indie, dream Cosa rimane di quel fuzz-pop spensierato e retrò che tra 2009 e 2010 invase le pagine delle webzine e dei blog musicali di tutto il mondo? Onestamente, poco o nulla. I piacevolissimi debutti, una manciata di singoli divenuti ormai piccoli classici indie (When I’m With You, Jail La La, I Can’t Stay e Never Come Around) ma soprattutto tanti dischi deludenti o, nel migliore dei casi, “carini ma dimenticati dopo una settimana”. Un mix tra l’universo surf-garage pop appena r e c e n s i o n i A g o s t o Agalloch - The Serpent and the Sphere (Profound Lore,2014) Riccardo Zagaglia Black Bananas - Electric Brick Wall (Drag City,2014) / Genere: rock Diciamocelo sinceramente: ci deve essere un progetto dietro la sigla Black Bananas; un progetto artistico provocatorio, qualcosa che abbia a che fare con l’art brut o col situazionismo, lo sberleffo come forma d’arte o chissà cosa. Perché a fare musica brutta, volendo, son capaci tutti, ma a reiterare quella bruttezza, a portarla sempre un passo oltre in una ipotetica scala discendente, ci vuole non solo coraggio o incoscienza, ma anche una visione d’insieme, un progetto, appunto. E la Herrema di Royaltruxiana memoria, responsabile numero uno di Black Bananas, sta facendo questo da almeno un paio di album e qualche singolo, per non parlare delle “evoluzioni” precedenti targate RTX: spostare sempre oltre una musica tronfia e vanagloriosa, pompata e apparentemente iconoclasta, eccessiva e maleodorante come una accozzaglia di A g o s t o r e c e n s i o n i essere nulla più e nulla meno di uno dei tanti gradevolissimi dischi d’esordio che però faticano ad andare oltre le barriere di genere. Ma non gliene facciamo una colpa: i brani scorrono infatti fluidi e leggeri. A difettare semmai è il tassello fondamentale, ovvero la capacità di imporsi con personalità, la grande missione che solo in pochi riescono a portare a termine, soprattutto in casi come questo dove ci si presenta con sonorità che, bene o male, hanno fatto il loro tempo. Accontentiamoci quindi di invaghirci per qualche settimana dell’ennesimo innocuo gruppetto da ascolto spensierato guidato dall’ennesima indie-diva minore (Molly Rankin) per poi passare oltre (Flowers?) senza troppi sensi di colpa. 6.7/10 L u g l i o citato e le immancabili influenze fine ’80/inizio ’90 – quest’anno sublimate perfettamente dai Fear Of Men di Loom – che hanno fatto la fortuna di molti noti indie-poppers è la base del sound riprodotto con gusto dai canadesi Alvvays, quintetto di Toronto che negli ultimi mesi si è fatto apprezzare grazie ad una manciata di encomiabili brani tra cui spiccano Adult Diversion – perfettamente in linea con l’immaginario pop più puro – e la più ariosa ma ugualmente orecchiabile Archie, Marry Me. Come uno strano incrocio tra Tracyanne Campbell ed una Juliana Hatfield riverberata, la leader Molly Rankin imprime fluide melodie che suonano candide ed innocenti: tanto basta a rendere l’omonimo album d’esordio degli Alvvays un facile candidato per il trofeo “disco da ombrellone 2014”. Non bisogna di certo mettersi di impegno per immaginare il sole all’orizzonte e la brezza marina sulla pelle durante l’ascolto di brani come l’impeccabile – e per certi versi senza tempo – Next of Kin, la melodicamente zuccherosa Atop a Cake o The Agency Group, dal malinconico retrogusto preautunnale. In un mare di riferimenti che spaziano tra le mellifue melodie dei primi anni sessanta, i rodatissimi e mai stancanti schemi twee, jangle e c86 di stampo eighties e sporadiche sferzate guitar-pop anni ’90 di scuola Teenage Fanclub (punto in comune con i non troppo distanti The History Of Apple Pie) è facile innamorarsi più delle singole canzoni che di scelte stilistiche che non brillano sicuramente per originalità. Nel loro caso a fare il bello ed il cattivo tempo è una scrittura che traduce semplici sequenze di note nella quintessenza dell’indiepop modellato da un approccio lo-fi mai snaturato dalla produzione di Chad VanGaalen e dal mixaggio di due pezzi da novanta, Graham Walsh (Holy Fuck) e John Agnello. Il debutto lungo degli Alvvays finisce per 101 rimasugli di discarica punk, noise, metal, hard, psych verso lidi di un imbarazzo unico, per di più accentuati da una produzione parossistica, che porta all’eccesso i suoni. Verso una cacofonia che è forse il giusto contraltare a simili “creazioni”: della serie, se ci si avventura a indagare simili brutture, è pur giusto che si soffra fisicamente qualche pena. Se possibile, peggio ancora del precedente Rad Times Xpress IV. 3/10 Stefano Pifferi / L u g l i o Genere: rock Dopo averci provato con l’elettronica – anche con la dance nel famigerato Modulate – e aver tergiversato alla fine degli anni Zero con il cantautorato più o meno lo-fi e indie, da un paio di album a questa parte Bob Mould sembra essersi messo sulle tracce del suo passato per riproporsi con convinzione in quello che gli riesce meglio: essere Bob Mould. Non è probabilmente un caso se con l’ormai fido Jason Narducy al basso e Jon Wurster alla batteria ha ricostituito un essenziale power trio, memore degli Hüsker Dü e degli Sugar e, se vogliamo, anche delle sue prove migliori da solista. Preso in un ciclo celebrativo tra il film See A Little Light – dedicato alla sua eredità presso le successive generazioni –, le ristampe degli Sugar e quella per il venticinquesimo anniversario del primo disco in solo Workbook, in Beauty and Ruin Bob segue un mood in verità crepuscolare, almeno nei testi, in cui si riflette un avvenimento tragico come la morte del padre – figura importante quanto controversa nella sua vita personale e di cui ha parlato a lungo nella propria autobiografia – ma anche disillusione e cinismo (Hey Mr. Grey non è esattamente la celebrazione della silver age di 102 Tommaso Iannini Brian Eno - High Life (Warp Records,2014) Genere: ambient, elettronica Presentato come una sorta di corollario di Someday World, questo High Life potrebbe invece rappresentarne il formidabile dark side. Soddisfatte le fregole pop – nel senso alto che si conviene quando ad essere coinvolti sono nomi di questo tipo – Eno e Hyde lasciano sbri- r e c e n s i o n i A g o s t o Bob Mould - Beauty and Ruin (Merge,2014) cui cantava un paio di anni fa). Un disco profondamente personale – come suggerisce anche la copertina, dove per la prima volta il Nostro mette la faccia – in cui il Mould maturo si rispecchia nel giovane. La musica sotto questo aspetto è totalmente autoreferenziale, anche se non in maniera stucchevole, per fortuna. Lo stile è quello “melodicoaggressivo” del cantautore punk rock che conosciamo meglio, addirittura semplificato rispetto all’hardrockeggiante Silver Age. Si inizia a dire il vero con un rock elettrico lento che ricorda le ballate scure e distorte del vecchio Black Sheets of Rain (Low Season), poi una sorta di grunge supersonico (Little Glass Pill) e scampoli di hardcore (Kid With Crooked Face), per infilare en passant due numeri di “poppunkpsichedelico” alla Sugar: il singolo I Don’t Know You Anymore e Nemeses Are Laughing. La vista sugli ultimi Hüskers di The War - non si sa se il pezzo più bello ma di sicuro il più trascinante – si gode anche dal pop-core che prevale nell’ultima parte dell’album. Alla fase dell’inquietudine artistica sembra subentrata quella della consapevolezza: Bob Mould is Bob Mould, questo è. Non il miglior Bob Mould: nonostante tutto, Beauty and Ruin è un disco onesto da parte di chi nella stima può vivere di rendita, ma sa ancora scrivere – e bene – le sue canzoni. 6.8/10 Genere: psych Sempre elaborato lungo l’asse della psichedelia chitarristica più o meno ruvida e/o sognante r e c e n s i o n i A g o s t o Brian Jonestown Massacre - Revelation (A Recordings,2014) / Stefano Solventi come da tradizione, il nuovo lavoro del progetto di Anton Newcombe – sono della partita il sodale old school Ricky Maymi e le new entry Constantine Karlis, Ryan Van Kriedt e Joachim Alhund dei limitrofi (per suoni e etichetta) Les Big Byrd – si va via via allontanando della intemperie del passato – leggi suono eroinomane e autoreferenziale – per avvicinarsi ad una visione musicale più piana e intelligibile. Come se volesse proseguire lungo un percorso iniziato con il precedente Aufheben, Revelation – anche qui nomen omen su ciò che si cela all’interno – allarga lo spettro delle possibilità includendo nuovi elementi nell’abbecedario made in BJM. Questa screziatura però non sembra mantenere alta la bandiera per l’intera durata del lavoro e se sull’asse delle ascisse regna sovrana la psichedelia – le minuterie kosmische-rock compresse come in What You Isn’t, l’intimismo drogato di Nightbird, la narcolessia desertica di Days, Weeks And Months, lo sfattume sixties di Unknown o quello umorale di Memory Camp – su quello delle (dis) ordinate si vanno a sovrapporre bislacchi folk medievali (Second Sighting), aperture weird quasi à la Beta Band (la trombetta storta di Vad Hande Med Dem?), riesumazioni gothpop à la Cure decisamente prescindibili (Food For Clouds), inserti electro-etno-psych sotto anfetamina che sembrano outtakes fuori tempo massimo dalla colonna sonora di “24 Hour Party People” (Memorymix) e una conclusiva Goodbye (Butterfly) sinceramente imbarazzante tra coretti e psych-rock diluito. Si sarà capito che se non si può parlare di passo falso, Revelation rimane comunque un disco malamente equilibrato tra ripetizione del trademark e tentativi di innovazione. Rimandato a settembre. 5.8/10 L u g l i o gliata la vena all’inseguimento dell’estro sonico, che va a raggrumarsi su pulsazioni etno/funky robotizzate e tessiture ambientali marezzate d’inquietudine. I meriti, a quanto pare, vanno così distribuiti: Hyde ha fornito gli spunti chitarristici su cui Eno ha edificato architetture suggestive, dinamiche e luminose. Visti i risultati, direi che si è trattato del miglior metodo possibile. Solo sei i pezzi in scaletta, di cui quattro però lasciati sviluppare tra gli otto e i nove minuti, col canto degradato ad ingrediente semplice, vibrazione melodica che significa solo in quanto risonanza nella tessitura di timbri e armonie caliginose: vedi Cells and Bells con le sue rarefazioni gospel, da qualche parte tra Before And After Science e le palpitazioni diafane del Canterbury, oppure il raga garbato e ipnotico di Return col suo gracidio luminoso di chitarre ed i cromatismi intrecciati di synth ad abbozzare un’enfasi etera non distante dagli U2 altezza Joshua Tree. Il resto è invece strutturato su funky ingegneristici, guizzanti e acidi, dal tiro urbano febbrile come il Miles Davis di On The Corner (le seriali DBF e Moulded Life), oppure più pacati e flemmatici come la sorniona Time To Waste It e la solennemente mesmerica Lilac. Si potrebbe obiettare che in fondo abbiamo a che fare coi soliti “enismi”, ok, ma in questo caso riportati ad una brillantezza di tutto rispetto e a tratti prodigiosa, al punto da permettergli di collocarsi senza affanno nel guazzabuglio della contemporaneità. 7.2/10 Stefano Pifferi 103 / L u g l i o Genere: freejazz, experimental Scongiurata l’ipotesi che il precedente Exit potesse essere un lavoro estemporaneo, Enter è, sin dall’indicazione fornita dal titolo, una sorta di dichiarazione di intenti per i tre Fire! Mats Gustafsson (sax ed elettronica varia), Andreas Werliin (batteria) e Johan Berthling (basso). Ricompattata l’orchestra da 30 membri ed espanse vertiginosamente le direttrici possibili del trio base – già ampiamente dimostrate negli album collaborativi – i tre invitano ad entrare in un mondo onnivoro e vario, caleidoscopico e etimologicamente eccentrico, schierandosi di diritto nella ristretta lega delle migliori big band della storia del free jazz. Il pensiero va alla Liberation Orchestra ovviamente, ma non è da meno certa Europa di fine anni sessanta (GUO, Peter Brotzmann Octet) che indicava già allora una strada più strutturata da seguire. E se Exit spingeva più il pedale sul kraut, Enter, il nuovo lavoro strutturato come nel passato in due movimenti, vede Gustafsson oltre che responsabile della sezione fiati e primo sax facinoroso, direttore a tutti gli effetti dell’ensemble. La prima differenza che balza agli occhi è questa: più riguardo alle sezioni e di rimando alla partitura, con bellissimi momenti soul. Mariam Wallentin, già cantante in alcuni dei lavori citati, adotta una tecnica vocale che la dipinge furiosa e nera, poi straripante e demoniaca sul primo quarto di movimento, dove il gruppo inizia a raccontare una storia di suoni al bivio. Ciononostante i registri non seguono una logica di facili costumi, tendendo a scontrarsi per poi rientrare in carreggiata. In questo l’approccio dell’altro cantante, Simon Ohlsson, rimanda a cadenze più rock, e riduce il peso dell’improvvisazione. È contemplato il caos, ma sempre in una dimensione onirica. Qui il trait d’union col secondo movimento: tratteggi elettroacustici e una passione che ritorna al soul come ad indicarne il dado tratto. I minuti successivi tendono a slabbrare la ritmica con incisi di batteria e tutta la sezione fiati richiamata all’ordine, ed è lo scioglimuscoli prima del recupero elettroacustico e del tema cantato da Sofie Jernberg, terza voce. A metà episodio Gustafsson vuole un andamento tronfio, iperconnesso e saturo; piegato su un proprio alfabeto, il canto si avviluppa in un corale chiudendo il lavoro nel migliore dei modi. Enter dona quiete e nevrosi allo stesso tempo, non può dirsi né prolisso né riduttivo e a caldo è un album che piace, piace veramente tanto. 7.8/10 Christian Panzano Caustic Window - Caustic Window LP (cat023) (Rephlex,2014) Genere: techno, breakbeat, idm Ogni notizia relativa a Richard D. James, alias Aphex Twin, acquista subito una grande riso- 104 nanza, soprattutto quando si dimostra fondata e non frutto di april fools fuori stagione. La pubblicazione ufficiale, seppure solo in digitale, di Caustic Window LP a vent’anni dalla sua realizzazione rompe un silenzio produttivo che r e c e n s i o n i A g o s t o Fire! Orchestra - Enter (Rune Grammofon,2014) A g o s t o r e c e n s i o n i / aphexiano (l’ex joyrex.com ora watmm.com, il prezioso forum “we are the music makers”) da un supposto possessore di uno dei press test (quasi certamente Mike Paradinas, alias µ-Ziq, responsabile della Planet Mu e collaboratore di James per il divertente album Mike and Rich del 1996). Nell’aprile del 2014 la notizia che uno dei set in vinile del Caustic Window LP sarebbe stato messo in vendita ha dato il via ad un’iniziativa, condotta dai prodi di wattm.com, che ha permesso il 16 giugno a 4.124 sottoscrittori di un’apposita campagna Kickstarter di scaricare la copia digitale delle tracce dell’album, rippate direttamente dal vinile (e immancabilmente finite su YouTube pochi minuti dopo…). E finalmente abbiamo la conferma: le informazioni del 1999 erano sostanzialmente corrette, l’album esiste e, al di là degli estremismi dei devoti aphexiani e dei denigratori dell’ultima ora, si tratta di un lavoro interessante e tutto sommato godibile, che contiene banalità ma anche colpi di genio, seppur (o forse proprio perché) da storicizzare. Si drizzano subito le orecchie con la modernità retromaniaca di Flutey, profonda pre-minimal a 122 bpm con riflessi balearici, rilucente di quelle piacevoli imprecisioni date dall’artigianalità dell’ordito, oggigiorno impossibili da ottenere nell’asetticità dei software, e di scelte sonore (un oboe presettato, per esempio) ai limiti del kitsch. Stomper rientra nei canoni caustici: una cavalcata a 140 bpm, tra il tribale e il kraftwerkiano, con una linea per Roland SH-101 acida e personalissima. Mumbly è di maniera, con sample tratti dal cartone animato Dastardly and Muttley (quello di “medaglia medaglia medaglia!”). Popeye dura meno di ottanta secondi: uno scherzo da videogame sulla falsariga di alcune Melodies From Mars (album del 1995 mai ufficialmente pubblicato, altro Sacro Graal della discografia aphexiana). L u g l i o per James dura ufficialmente dal 2006 (con l’uscita di Chosen Lords, una sorta di “best of” della serie Analord a firma AFX), ma da far risalire al 2001, considerando l’alias principale Aphex Twin (il discusso Drukqs). Con il moniker Caustic Window James aveva pubblicato per la sua label Rephlex nel periodo ’92-’93 una serie di EP di non facile reperibilità, poi quasi interamente raccolti nel 1998 in una preziosa Compilation: un side project, sviluppato in contemporanea all’ “electronic listening music” di Selected Ambient Works 85-92 e delle prime uscite IDM per Warp, dove coltivare le passioni più insane verso l’acid e l’hardcore techno o dove parcheggiare i brani “braindance” meno compiuti, sempre con una forte dose di humor (con sample tratti da Julie Andrews, Willy Wonka, film porno, videogames anni ottanta). Proseguendo su questa falsariga semi-schizofrenica, il 1994 vedeva l’uscita di Selected Ambient Works Vol.II da un lato, e del vol. 4 di Analogue Bubblebath dall’altro: tra i due estremi (l’eterea ambience – capolavoro! – del primo e la furia animalier del secondo), il progetto Caustic Window, in procinto di svilupparsi sulla lunga distanza, avrebbe dovuto rappresentare un’ulteriore valvola di sfogo per la frenetica creatività di James. L’album viene catalogato con il numero CAT023 e stampato in doppio vinile in quattro, forse cinque copie test, ma mai rilasciato ufficialmente. Delle 15 tracce che componevano l’LP, solo due furono rese pubblicamente note (le superdistorte e noisy Phlaps e Cunt, inserite rispettivamente nelle compilation “Trance Europe Express” e “Unity – Be Aware – Fight Back – Taking Liberties – The Criminal Justice And Public Order Act 1994 Is The Death Of Democracy”: titoli del tutto figli dell’epoca!): delle altre si ebbero notizie solo nel 1999, a seguito delle dettagliate informazioni fornite ad un fan-site 105 A g o s t o / L u g l i o Alessandro Pogliani 106 Chrissie Hynde - Stockholm (Caroline International,2014) Genere: cantautori, rock, alt Ci ha messo ben trentacinque anni, Chrissie Hynde, a concedersi il primo disco da artista solista. Era il 1979, infatti, quando i Pretenders si guadagnarono il proprio posto nel firmamento dell’alternative rock e della new wave grazie all’omonimo album di debutto e a due singoli indimenticabili come Kid (ripreso pochi anni dopo dagli Everything But The Girl) e Brass In Pocket, e oltre all’impegno con la band, da allora la Hynde si è limitata a poche, ma in più casi fortunate collaborazioni – ben due con gli UB40, la cover di Sonny and Cher I Got You Babe e Breakfast In Bed. Ora, a distanza di sei anni dall’ultimo Break Up The Concrete (in alcuni Paesi, Italia compresa, abbinato a una raccolta di successi), la cantante si propone con un album tutto suo, dal forte carattere pop, “leggero con brio”. E per farlo è andata agli Ingrid Studios di Stoccolma e ha voluto con sé Björn Yttling – bassista del trio Peter, Bjorn and John e produttore già al lavoro con Lykke Li, Primal Scream e Franz Ferdinand – che è anche polistrumentista e co-autore di dieci brani su dodici di Stockholm. Sulla carta il tutto si presenta come un’eccitante collezione di canzoni buone anche da ballare, “tra gli ABBA e John Lennon” (le parole sono della Hynde), ma basta andare avanti con la tracklist per accorgersi che purtroppo manca qualcosa, che forse la produzione di Yttling è fin troppo levigata e non fa sì che i pezzi possano decollare. Non c’è neppure un tonfo, eppure gli episodi da salvare e che non sfigurerebbero in un’antologia da tramandare ai posteri sono appena una manciata: la partenza con You And No One promette molto bene, con le sue atmosfere retrò dal sapore spectoriano già recuperate vent’anni fa da McAlmont e Butler e in seguito da Duffy, e funziona anche il piglio r e c e n s i o n i Il breakbeat acid di Fingertrips suona molto 808 State. Revpok è uno dei picchi dell’album: inventiva commistione industrial techno di metalli e rumore bianco, lanciato a 132 bpm per schiantarsi sul rapido AFX Tribal. Airflow è squadrata e marziale, e non si alza in volo. A detta di Paradinas, Squidge In The Fridge è una delle prime tracce in assoluto registrate da James, e non si fa fatica a crederlo: paragonandola alla successiva Fingry è evidente il passaggio tra mera banalità e semplicità creativa. Segue un’altra sorpresa che emerge dalla storia, un esercizio di stile inaudito per James: come esplicitato dal titolo, Jazzphase è house fusion di classe. Anche l’atmosfera di 101 Rainbows Ambient Mix rispecchia in pieno il nome attribuito, al punto da chiedersi se non siamo di fronte ad una semplice collezione di esperimenti demo. Dopo la brutale Phlaps e l’acid ipersatura di Cunt, le due già note scudisciate hardcore, l’album si chiude con gli scherzi telefonici: in Phone Pranks James parodizza l’uso delle telecomunicazioni del “telephone terrorist” Robin Rimbaud aka Scanner, coinvolgendo proprio quest’ultimo insieme ad altri amici musicisti (Morris “Mixmaster” Gould, Chris “Cylob” Jeffs, lo stesso Mike Paradinas) in assurde conversazioni su chi ha chiamato chi, per lo spasso del Nostro. Testimonianza del fecondissimo periodo predrill di Richard D. James, esaurita l’immediata emozione per il ritrovamento archeologico l’album va preso per quello che è: un prodotto non di prima scelta ma neppure da scartare in toto, variegato e altalenante come già erano le precedenti pubblicazioni a nome Caustic Window. 6.8/10 Genere: indie Otto anni possono essere tanti o pochi per una band. Nel caso dei Clap Your Hands Say Yeah, l’aver esordito con il botto, nel 2006, ha sicuramente influenzato molti sviluppi futuri, a partire dall’attività discografica. L’hype ha caricato gli ascoltatori di aspettative a cui la band ha dimostrato di non dar troppo conto: sono passati quattro anni tra il secondo Some Loud Thunder ed il precedente Hysterical, e altri tre sono trascorsi per realizzare questo Only Run, album che vede in formazione soltanto il leader Alec Ounsworth e conta, come unico r e c e n s i o n i A g o s t o Clap Your Hands Say Yeah - Only Run (Autoprodotto,2014) / Alessandro Liccardo sopravvissuto, il batterista Sean Greenhalgh (ora session man). Sarà anche per questo, a voler pensare male, che a missare l’ora one man band – che da tempo si autoproduce – c’è un vate come Dave Fridmann, ovvero Mr Flaming Lips e Mr Mercury Rev (senza contare le decine di altre produzioni degli ultimi anni), uno che influenza le sorti del suono solitamente in maniera positiva e che qui aggiunge una serie di noti tocchi, come il trattamento delle chitarre (quasi shoegaze) dell’opener As Always. D’altro canto, la cifra stilistica di Ounsworth a partire da quel brano – fate conto i CYHSY degli esordi ma più maturi, dinamici negli arrangiamenti ed introspettivi nel mood – si sente ancora e pure ritmo ed energia non mancano nella tracklist: ascoltate, per dire, Coming Down, con la partecipazione di Matt Berninger dei National, un pezzo pop pestone con potenti riff di chitarra. Il tono generale del disco è maggiormente riflessivo, cupo quasi, e copre uno spettro che va dal synth-pop etereo all’indie austero, quasi new wave. L’ironia e lo spasso sono venuti meno in favore di sfumature più profonde e meno giocose. In generale, Only Run, al netto del produttore, conta sia buoni episodi (Beyond Illusion), sia brani non del tutto a fuoco (Little Moments). I CYHSY non hanno la forza e la vitalità dei primi tempi ma risultano godibili e soprattutto l’energia e il trasporto sono autentici. E di questi tempi è già moltissimo. 6.5/10 L u g l i o più rock del singolo Dark Sunglasses e di Down The Wrong Way (quest’ultima con la chitarra di un ospite d’onore, Neil Young). Poi però Chrissie graffia meno di quanto potrebbe in A Plan Too Far (stavolta con la curiosa partecipazione del tennista John McEnroe) e sembra più svogliata che rilassata in Adding The Blue, la conclusiva ballad malinconica che anziché rievocare i fasti di I’ll Stand By You ricorda di più i Roxette meno ispirati. C’è persino qualche analogia con gli ultimi Simple Minds dell’ex marito Jim Kerr nell’adult contemporary di House of Cards, mentre svetta Tourniquet (Cynthia Anne) con i suoi insoliti rimandi al Morricone degli spaghetti western. Se si prende questo disco per ciò che è, ossia l’opera di una signora del rock che sente ancora il bisogno di raccontare in musica piccole storie senza alcuna ansia da prestazione, Stockholm garantisce trentasette minuti scorrevoli e non privi di guizzi. Resta però un capitolo periferico, che non riuscirà ad aprirle nuove porte e che assai probabilmente suonerà più convincente dal vivo. 6/10 Andrea Macrì Club Voltaire - The Escape Theory (Lafleur,2014) Genere: pop, brit, rock, indie È ormai assodato che viviamo in un periodo storico complicato, a tratti angosciante, in cui l’ultima delle speranze è affidata al cambiare 107 / L u g l i o Genere: industrial, metal Passati i pochi secondi iniziali di scroscio noise, appena attaccano basso, chitarra e batteria elettronica il mondo si ferma, il tempo si ritorce su se stesso e lo spazio si modifica rispendendoci direttamente nella più grigia periferia inglese ai tempi della lady di ferro: Birmingham, fine anni ’80. Ossessione e ripetitività, malessere e heavyness, zona grigia revisited e alienazione socio-culturale di un Paese – microcosmo di un sistema più ampio ma lo stesso destinato alla consunzione – in totale abbandono e sfacelo. Quattro soli pezzi in formazione classica con Justin Broadrick e GC Green, questi ultimi mai come ora ringiovaniti e determinati a cristallizzare il tempo mettendo in scena il meglio del proprio repertorio in un tentativo (riuscito) di esorcizzare quella parentesi decennale che li ha tenuti lontani dalle scene e, soprattutto, le ultime uscite – ad esser buoni, almeno Us And Them e Hymns – non propriamente a fuoco. Quattro monoliti straight in your face che non si allontanano dal canovaccio di Streetcleaner o dell’omonimo EP d’esordio: riff monumentali di chitarra e basso all’unisono, batteria elettronica pestona sul solito midtempo, voce cavernosa che vomita testi iconoclasti e privi di ogni apparente barlume di speranza, ritmi marziali e ossessivamente circolari e atmosfere claustrofobiche d’ordinanza. Se state pensando dubbiosi all’ennesima reunion fuori tempo massimo escogitata solo per “monetizzare” un passato glorioso, siete fuori strada: i Godflesh sono tornati proprio in tempo per cantare un’altra decadenza, forse definitiva. 7/10 Stefano Pifferi aria e al mettersi in viaggio alla ricerca di fortuna, di lavoro, di nuovi modelli e stili di vita. I Club Voltaire, se non fisicamente, tentano di evadere dallo “stivale” almeno con l’immaginazione che dà vita a questi undici brani inseriti nel primo lavoro su lunga distanza della band, The Escape Theory, un disco che fa seguito alla pubblicazione di tre precedenti EP. The Escape Theory, punto di arrivo e coronamento del progetto dei Club Voltaire partito cinque anni or sono, si contraddistingue per una miscela di suoni riconoscibili: i quattro comaschi guardano con il cannocchiale alla lontana terra d’Albione, patria dei giganti Kinks 108 (la cui l’influenza si sente in Pieces of Beach, Rendez-Vous), degli spigolosi Oasis (al cui stile i Nostri ammiccano senza troppi fronzoli almeno in tre occasioni, tra cui Don’t, Friday 3 Am e nella ballata Words Don’t Cover), dei più sprizzanti Blur (Midnight Chance) e di mostri sacri come Beatles e Rolling Stones, i cui fantasmi aleggiano per tutti e i 38 minuti dell’album. L’armonia delle voci, le genuine melodie pop e il connubio tra sonorità ora vintage ora contemporanee riescono nel rendere omaggio alla cultura british, e quello che ne esce è un lavoro per lo più godibile e piacevole, almeno per noi italici. Chissà se però dall’altra parte della r e c e n s i o n i A g o s t o Godflesh - Decline and Fall (Avalanche,2014) Manica i sudditi di Sua Maestà saranno lì ad attenderli a braccia aperte… 6/10 Marco Frattaruolo Stefano De Stefano David Gray - Mutineers (Kobalt Label Services,2014) A g o s t o Genere: brit, cantautori, alt C’è stato un momento in cui David Gray aveva il mondo nelle proprie mani. Erano i primissimi anni Zero. Furono in molti ad innamorarsi, sebbene in leggero ritardo, di quel capolavoro insolito del New Acoustic Movement intitolato White Ladder e della sua originale commistione di folk, drum machine demodè e sopraffino artigianato pop, capace di rivoltare come un calzino un classico del synth-pop come Say Hello, Wave Goodbye dei Soft Cell e farlo sfociare come se niente fosse in Into The Mystic di Van Morrison. Erano anche i tempi dei Turin Brakes, dei debuttanti Coldplay di Parachutes e dell’exploit dei Kings of Convenience, e di lì a poco sarebbe stato Damien Rice a dominare, seppure per poco, la scena; nel frattempo, sul lato della strada, una certa Dido giocava con grande successo la carta del pop acustico miscelato con archi ed elettronica – proponendosi quasi come una versione “soft” di Sinéad O’Connor, meno complessa ma più rassicurante dell’originale. Babylon era diversa da tutte le altre canzoni che scalavano le classifiche, aveva una bellezza che entrava sotto la pelle, con quei suoni e quegli accordi intricati, / Genere: pop, indie, dream Craft Spells è il nome della creatura di Justin Vallesteros, impegnato dal 2011 a fare praticamente tutto da solo partendo dalla sua stanzetta e riscuotendo successi con Idle Labor e il successivo EP Gallery. Oggi le cose sono parzialmente cambiate e l’apporto di una vera e propria band dà i suoi frutti nello sviluppo artistico del progetto. Nausea è il titolo di un album che profuma di dream pop targato Eighties, fortemente debitore nei confronti di una certa new wave romantica. Atmosfere rarefatte e avvolgenti, un ambiente ovattato e fitrato da un uso massiccio ma intelligente dei riverberi, una voce doppiata che sembra arrivare da lontano: è questa l’impalcatura sonora di un disco dotato di belle composizioni pop e molto convincente nella sua prima parte. Siamo nei territori dei Marjorie Fair e The Clientele più asciutti o i Levy di Rotten Love: il trittico iniziale Nausea, Komorebi e Changing Faces (probabilmente il pezzo migliore del disco) è micidiale per il modo in cui confeziona la melodia all’interno di una scrittura allo stesso tempo classica ed efficace. L’uso delle tastiere e degli arrangiamenti orchestrali bilancia e addirittura arricchisce il tessuto sonoro, che resta comunque fortemente cupo e vicino a certe cose di band come i New Order (con il brano Dwindle, per esempio). Arrivano anche dei singoli più diretti e taglienti nelle sonorità, come nel caso di Twirl, che in un minuto consegna una delle melodie più chiare ed estive di tutto il disco: il classico sunny pop retromanico e dal gusto indie. L u g l i o r e c e n s i o n i Craft Spells - Nausea (Captured Tracks,2014) Nella seconda parte di Nausea la fa da padrone il brano First Snow, perfetto esempio di come si possano mettere d’accordo in tre minuti il lato scuro della wave britannica e l’indie pop di matrice americana. L’ascolto del disco si esaurisce in quaranta minuti e con l’impulso a immergersi di nuovo in queste raffinate trame; insomma, Justin Vallesteros ha realizzato con Nausea un prodotto di genere e allo stesso tempo buone canzoni. Non si inventa nulla, ma non è comunque cosa da poco. 6.9/10 109 A g o s t o / L u g l i o 110 È un disco sobrio che punta tutto sulle texture, questo decimo album di David Gray. Nessun singolo “ovvio” trova posto in scaletta, al contrario di quanto era accaduto con gli earworm The One I Love e You’re The World To Me in altre occasioni. Nessun instant classic controbilancia il peso di tanto materiale così introspettivo. Come nell’ultimo Ghost Stories di Chris Martin e soci, è palese il desiderio di tornare alle origini e al tempo stesso di suonare in sintonia con il presente (non si sa mai che qualche fan degli Elbow o degli XX, tanto per fare due nomi, finisca nella rete da pesca). Innegabile l’eleganza di Last Summer e di Cake And Eat It, che riporta al Gray pre-White Ladder (poco frequentato, ma da riscoprire); Girl Like You è invece l’unico possibile aggancio all’era di A New Day At Midnight, mentre nulla ha la “maestosità” che contraddistingue Life In Slow Motion. Ma forse non è neppure un male. L’intento di non incidere un disco uguale ai precedenti è parzialmente riuscito: Barlow ha fatto bene il proprio dovere, si nota una scrittura finalmente più agile dopo qualche anno in cui David si è sentito bloccato e incerto sulla strada da seguire, e c’è più di un brano memorabile – il che, per un disco di rilancio, di certo non guasta. Attenzione, però, perché la tendenza al monocolore e allo sbadiglio facile è ancora in agguato: un fuoriclasse può e si deve osare di più. La direzione è quella giusta, ma la risalita è appena all’inizio. 6.4/10 Alessandro Liccardo Death Grips - niggas on the moon (Autoprodotto,2014) Genere: hiphop È sempre una questione di dualismi, coi Death Grips. Ci sono o ci fanno? Sono sinceri o dei maestri furbi della visibilità? E le loro scelte, se sono così concettuali e votate al caos, come r e c e n s i o n i quell’interpretazione intensa, perfetta nella sua imperfezione, cui avremmo creduto con le lacrime agli occhi anche se ci stava raccontando una bugia clamorosa. In un certo senso era la nuova Twist In My Sobriety, si ripeteva la stessa strana magia dell’indimenticabile hit della giovane Tanita Tikaram, con quella voce profonda e androgina e l’ardita scelta dell’oboe al centro della scena durante il ritornello. Ma il pubblico dopo tanto amore ti scarica con una velocità sorprendente, specie se la tua discografia è macchiata da qualche album di troppo che rivela stanchezza e carenza di idee (Everybody’s Angel ed Eleven Kinds of Loneliness per la Tikaram, gli ultimi Draw The Line e soprattutto Foundling per Gray). Arriva il colpo di coda che non ti aspetti, a un certo punto, perché si matura, ci si lecca le ferite e si prova a lavorare in modo diverso con gente diversa, ma i più distratti hanno la testa altrove e rischiano di non accorgersene neppure. David ha imparato di sicuro qualche lezione, nei quattro anni che separano Mutineers dal farraginoso e incompiuto predecessore, e ha scelto di avere in sala d’incisione un produttore stimolante ma severo come Andy Barlow dei Lamb: arrivato in studio con una trentina di brani, si è ritrovato a scegliere pazientemente dal lotto gli undici più convincenti per entrambi. Lontani sono gli arrangiamenti rigonfi di Draw The Line: qui c’è solo ciò che serve. Torna l’elettronica, certo, ma non è affatto la protagonista. Torna la poesia – talvolta involuta e impenetrabile, ad esempio in Snow in Vegas – che nasce dai piccoli gesti, dalle piccole storie di tutti i giorni, dal semplice contatto con la natura (ben tre brani sono dedicati a uccelli: As the Crow Flies, la splendida Birds of the High Arctic e il bel finale con la boniveriana Gulls, la prima canzone lanciata via YouTube ad aprile) in grado di scatenare profonde riflessioni sulla vita. A g o s t o r e c e n s i o n i / co termine di paragone è il passato stesso del gruppo. E proprio rispetto al passato, infatti, il groove elettronico è maggiormente spezzettato in mille rivoli, meno corposo e unitario. Voce e suoni danno vita a pattern non più sloganistici (un brano come I’ve Seen Footage qui è praticamente inconcepibile), ma ciò non impedisce ai pezzi, anche se più oscuri e meno caciaroni (Big Dipper), di essere efficaci, immersi in architetture spesso ipnotiche. Ovviamente non si cerca l’intellettualismo concettuale, non si tratta di un pranzo di gala avanguardistico: qui l’obiettivo è il divertimento, magari trash e sporco quanto si vuole, ma comunque intelligente. In questo i Death Grips fanno bene il loro lavoro, pur non rivoluzionando nel profondo il suono né esarcerbando la loro attitudine da cattivi. Al di là di tutto il far parlare di sé, al di là delle scelte bizzarre, al di là di una certa disomogeneità di fondo (che però è minore rispetto al passato), la sostanza – seppur folle – c’è ancora, come anche la voglia di rischiare. Occorre ora semplicemente aspettare la fine dell’anno per il gemello, Jenny Death, parte seconda di The Powers That B, sperando che si tratti di un rilancio verso altri lidi e non, magari, di un semplice esercizio speculare a questo. 6.5/10 L u g l i o fanno poi a tradursi in una musica così fisica, concreta? D’altronde, quando in organico c’è un ex-Hella come Zach Hill, la sorpresa sarebbe semmai un percorso lineare, e già negli scorsi anni la band ha dimostrato di non essere fatta per la routine. Qui le decisioni storte sono due: la prima è quella di presentare solo la prima parte di The Powers That B, disco che vedrà la luce alla fine dell’anno. È un’operazione che semplicemente conferma il divertimento del gruppo a mettere i bastoni tra le oliate ruote dell’industria discografica. La seconda è la presenza di Björk, un nome che non è certo il primo a venire in mente pensando a possibili compagni di merende per i Death Grips (pur ricordandosi che i due universi musicali erano venuti già in contatto per alcuni remix di Biophilia) e che non ha mancato di segnalare il suo entusiasmo per la collaborazione al progetto. La voce di Björk è una presenza prevalentemente pleonastica, che viene usata come contrappunto ritmico inserito in uno schema che proprio del ritmo fa la sua dote principale. La parte hip hop c’è sempre, a partire dal groove fino al fatto che MC Ride spande sempre il suo flow stridente: solo che questi elementi sono stati inseriti (come già in Government Plates) in un percorso in cui le componenti grime, footwork e techno ora sono più presenti. Occorre capirsi sull’uso di questi ingredienti: nonostante non ci si trovi di fronte ad un passo avanti che scompigli la formula, la povertà sonora voluta dal trio riesce a coagulare queste istanze in momenti comunque omogenei come Say Hey Kid, un pezzo che pare adatto a una seduta in palestra per ex fan dei Prodigy. È musica fisica, ma con meno impatto rispetto ai passi precedenti. Anche per questo, trovare dei referenti nel presente pare esercizio sterile per capire l’universo Death Grips: con questa smaterializzazione parziale del suono, l’uni- Andrea Macrì Die Antwoord - Donker Mag (Zef Records,2014) Genere: rap, hiphop L’unica cosa positiva di questo terzo disco dei sudafricani è il campionamento da Ageispolis (su Selected Ambient Works 85-92) di Aphex Twin, già citato come fonte in molti video, posizionato guarda caso all’inizio del disco (Ugly Boy). Il trucco è furbo e funzionale, tanto più che AFX è un nome che Skrillex ha spesso fatto notare ai suoi fan. Guardando al resto, che 111 / L u g l i o Genere: pop, elettronica In un singolo del 2013 intitolato Boreal Remixes, alla traccia principale venivano accostati dei remix di Blood Diamonds, Brillz, Phantoms, Daedalus e Teebs. Ascoltando quei brani, si intuiva che il passaggio dall’esordio omonimo a questo sophomore sarebbe stato forse influenzato da bassi più pesanti, da accordi estatici che avrebbero richiamato lo stupore pop sublimato da Enya, e che sarebbero state utilizzate percussioni à la Four Tet, quella sorta di strumento tipico dell’elettronica degli anni Dieci caldo ma non troppo, utile ad alzare le frequenze medie e a far scaldare gli animi, e usatissimo infatti nella parentesi glo anche da Toro Y Moi. Per finire, potevamo ipotizzare che ci sarebbe stata qualche battuta hip-hop in slow motion e qualche ripetizione minimalista à la Gold Panda. Tutte cose che negli ultimi anni avevamo sentito nelle produzioni Cascine (Jensen Sportag, Chad Valley e altri più o meno sconosciuti), sui brani dei Braids, o nel folk illuminato di artisti del calibro di Julia Holter o altri della cricca Domino. Il suono del gruppo di Gainesville, Florida, è caratterizzato dal ritorno di un’estetica che assomiglia molto alle prime cose di Björk, un pop che per strumentazione si adatta benissimo sia al remix/dancefloor, che alla meditazione e al songwriting. Come a dire (il parallelo d’obbligo è con l’album Debut dell’islandese): anche qui il tappeto compositivo può essere preso e rivoltato secondo le mode del momento (nel Thistle EP del 2012 una traccia più o meno a cappella con qualche percussione in ostinato è stata rivista da nomi eterogenei: AraabMuzik, Tokimonsta e altri). Il passaggio dall’esordio è quindi stato modellato su una consapevolezza che va di pari passo con lo zeitgeist musicale indie-pop contemporaneo. Nel primo singolo Cavity ci sono ancora i richiami alla già citata Björk, ma con quella spocchia un po’ hipster che, se vogliamo, è anche farina del sacco di Lana Del Rey. Il secondo singolo Nowhere è invece pura percussività tribalistica che starebbe bene in uno strano mix vocale di Sade, Four Tet, Damon Albarn e i Police. Proseguendo troviamo poi cori a cappella che fanno meglio dei Fleet Foxes (l’opener Show Me Love) e una frontman femminile. La figura della cantante che gestisce la band è per certi versi passata di moda in molti gruppi di oggi; le cantanti fanno infatti band-a-sè, vedi ancora Lana, Lorde o Miley Cyrus, per dirne tre. Anni fa invece ci potevano essere i Lali Puna, gli Stereolab, i Broadcast o ancora più indietro i Cocteau Twins. Il sentimento femminile nel suono degli Hundred Waters torna su quei passi ed è una cosa intima, che riscatta in un lunghissimo attimo il femminile “buono”, quello che va contro le inutili pose finto incazzate (M.I.A.) e gli show sexy del twerking più becero (Iggy Azalea, Miley Cyrus e compagnia sculettante). Questo è il pop che (come direbbe Nanni Moretti) ci meritiamo oggi. Un disco che ingloba la lezione di Alt-J e xx vari (per la malinconia), ci mette una tonnellata di effetti nu-soul (Cavity), ma taglia tutto anche con una solida base disco sperimentale (Radiohead-meets-Brian Eno in No Sound), cineserie Björk (Out Alee, [Animal]), qualche tocco electro (il disco esce infatti sulla label di Skrillex), vocalizzi pop à la Coldplay (brividi per gli acuti di Chambers) e ovviamente intimismi James Blake (Broken Blue). 112 r e c e n s i o n i A g o s t o Hundred Waters - The Moon Rang Like a Bell (Owsla,2014) L’eredità post-millennial, che non sembra essere stata portata avanti da nessuno dei gruppi caduti prima del 2010 (vedi la sostanziale perdita di significatività dei vari Klaxons, Clap Your Hands Say Yeah, Akron/Family, etc.), viene sintetizzata mirabilmente dal digit-rock-folk degli Hundred Waters. I nuovi Arcade Fire? Verrebbe da dire di sì. Quello che deve accadere, accade, dicevano Ferretti e Zamboni. E allora eccoci qui: nessuno aveva pubblicato un disco pop “così giusto nel momento giusto”, un riassunto di tutto quello che ci siamo detti negli ultimi (quasi) tre lustri e che doveva essere rimescolato a puntino (i Dirty Projectors ci sono arrivati a un pelo, ma non hanno le potenzialità pop di questo combo). Disco dell’anno tout court per chi scrive. Grazie ragazzi, ora potete anche sciogliervi, il capolavoro l’avete già scritto. Da brivido. 8/10 Marco Braggion A g o s t o miottamento della stagione rave (la titletrack), andando a parare su un’ambient che si salva in corner. Speriamo che “La risposta” (questa la traduzione del moniker) arrivi da questo binario nel prossimo futuro; comunque, Donker Mag resta uno dei peggiori dischi dell’anno. 4/10 / dovrebbe essere farina del proprio sacco, ci si trova di fronte alla solita alternanza di vocina e rappato, con tagli crossover (sonorità che sarebbero state bene qualche anno fa nei dischi di Limp Bizkit e giro nu-metal) e qualche citazione di Eminem (Rat Trap 666 con DJ Muggs dei Cypress Hill). Nel precedente Ten$ion c’era un po’ di spocchia, qualche richiamo ai Novanta e campioni decenti che davano al tutto una parvenza di freschezza. Qui manca pure il guizzo e raschiando il barile rimane pochissimo, se non una lunga teoria di “fuck, fuck, fuck” che non risolve nulla. Offese a profusione utili a sedare la rabbia dei tardo-adolescenti ‘pseudo-contro’-tutto. Un plagio sì curato nella produzione, ma in ultima analisi subdolo, troppo artefatto, troppo finto. Qualche trick chip-tune, strizzate d’occhio, ammiccanti e post-tutto che svelano in realtà un nulla dilagante (baratro del post-moderno?). La voce della cantante ricorda i Pizzicato Five, ma dopo qualche minuto è già bollita. L’idea del post-rave che copia male i Prodigy (Happy Go Sucky Fucky) non tiene. Le ultime canzoni propongono una via di fuga da questo scim- L u g l i o r e c e n s i o n i Marco Braggion Embrace - Embrace (Cooking Vinyl UK,2014) Genere: pop, brit Figli di un dio brit-pop minore. Per anni gli Embrace sono stati considerati epigoni smorzati di gente ben più blasonata – leggi Oasis, The Verve e Coldplay su tutti. E infatti proprio al santo Chris Martin i fratelli McNamara si sono in passato votati proprio per cercare di massimizzare i benefici dati dalle loro tipiche ballatone strappalacrime si, ma con i muscoli. Niente. Il risultato è stato un silenzio di ben otto anni al termine del quale la band di Leeds torna con un disco, il sesto in carriera e omonimo, che la vede decisamente rinnovata tanto nelle sonorità quanto nell’approccio all’arrangiamento e alla vocalità. Nonostante la scrittu- 113 / L u g l i o Genere: avant, blues, vecesola Solito trafficare con ambienti sonori più estremi – vedi alla voce split con Merzbow, Maurizio Bianchi e K.K. Null, se si parla del Cris X in solo, oppure la purtroppo estinta esperienza Lendormin, di cui si recupera velatamente l’atteggiamento sperimentale in ambiti “jazz” –, il romano Cristiano Luciani annulla le distanze con l’amato Giappone e torna in coppia con la cantante e performer Keiko Higuchi. Registrato in modalità impro nel lontano 2010 e rodato live nel Sol Levante nella primavera scorsa, Melt sembra giocarsi sul filo dell’incontro/scontro tra personalità, background e sentire musicale. In questo senso i due, nel tentativo di fondere appieno i propri percorsi musicali, si “scambiano”, rivisitandoli, anche scampoli dei propri passati: una Sister presente in forme diverse nell’ultimo lavoro della Higuchi, (Ephemeral As Petals, Utech 2013) con proprio Luciani alla batteria e synth; una In Obscurity tratta dallo split citato con Merzbow in cui canto e piano sono ed erano della giapponese. E su quei canovacci labili, su quell’annusarsi elegiacamente nel tentativo di trovare una via di fuga ad una poetica comune, si posiziona l’intero Melt: voce e pochi, calibrati ed evocativi rintocchi di piano per Keiko, elettronica, field recordings, samples, una slide-guitar per Cris; pochi, essenziali elementi che riescono a creare paesaggi sonori di notevole intensità e profondità, innervati da una fusione sublime tra i due (il lavoro di Cris X è magistrale nel “seguire” la collega, cucendole addosso frattali sonori ad ampio spettro: ambient, noise, glitch, ecc.) e mossi da una passione molto equilibrata, diafana per certi versi e fortemente “nippo” (e qui è Keiko a guidare quasi in maniera “zen” gli sviluppi sonori). Roba che non deraglia, insomma, nemmeno nei momenti più accesi – una Sister/You Left Me So Insane in cui Keiko se la gioca alla pari con la Diamanda Galas meno ferina – così come in quelli più intensi e desertici – la conclusiva, immaginifica Melt: blues per sottrazione, estasi per macerazione – ma mantiene sempre la barra dritta, verso una sorta di “blues” catatonico o catacombale, fatto di sospiri e soffi, penombre e interstizi, assenze e fruscii (l’iniziale Ceaseless/Do You Care? è paradigmatica per certi versi) in cui la dimensione onirica prende spesso il sopravvento senza risultare “già nota”. Un lavoro pregevolissimo, dunque, in grado di costruire atmosfere evocative e suggestioni oscure e fiammeggianti, proprio come nella bellissima cover. 7.5/10 Stefano Pifferi ra dei brani resti fortemente ancorata al passato, a cambiare è proprio l’impalcatura sonica dell’intera produzione: tastiere ed elettronica si mischiano ora alle chitarre elettriche, mentre una solidissima sezione ritmica picchia duro e costante durante gran parte dei pezzi. 114 Le novità non sono finite, perché con questo nuovo album fa il suo ingresso alla voce principale di alcuni brani il fratello dello storico frontman Danny McNamara, vale a dire il chitarrista Richard; a differenza della riconoscibilissima voce nasale del primo irrompe qui r e c e n s i o n i A g o s t o Cris X - Melt (Musik Atlach,2014) Genere: folk Da dove cominciare per parlare di Stay Gold, r e c e n s i o n i A g o s t o First Aid Kit - Stay Gold (Columbia Records,2014) / Stefano De Stefano terzo album delle First Aid Kit? Intanto, occorre precisare che nulla è cambiato dall’ultimo disco The Lion’s Roar, e nemmeno dal debutto The Big Black And The Blue, se non l’etichetta discografica: stavolta è la Columbia ad accompagnare l’uscita del nuovo lavoro delle sorelle di Enskede, sintomo, probabilmente, della volontà di voler raggiungere una fetta di pubblico ancora più ampia di quella già acquisita. Dunque, lasciata per sempre la “piccola” Wichita, le fatine scandinave del folk-pop di nuova generazione si preparano alla conquista di una parte di mercato che guarda appunto agli stilemi del pop da classifica, sempre però caratterizzato dalla matrice acustica e vocale propria dei Fleet Foxes. Il quintetto di Seattle è ancora una prolificissima fonte di ispirazione per Johanna e Klara Söderberg, che senza rinunciare alle radici country/folk (ancora presenti, anche se in misura minore, modelli femminili quali Emmylou Harris, Dolly Parton, Joni Mitchell), presentano adesso una maggiore americanizzazione degli orizzonti musicali: seppelliti il fingerpicking e gli affreschi bucolici del folk britannico, sembra infatti che le First Aid Kit siano venute in contatto col rock in aria Jefferson Airplane e Fleetwood Mac. Così, a cominciare dalla prima traccia e singolo di lancio, My Silver Lining – e pure dalla copertina: non più i boschi di The Lion’s Roar, ma un cielo desertico a far da sfondo a delle novelle Grace Slick –, arrivano con un nuovo (si fa per dire) immaginario woodstockiano che ti rimane in testa al primo ascolto. Una formula neo-hippy presente anche nella successiva Master Pretender, altro pezzo che, sempre costruito sulle armonie vocali ormai marchio di fabbrica delle sorelle, sottolinea la facilità con cui tutti i brani di Stay Gold intercettano l’orecchio dell’ascoltatore al primo tentativo. Dunque, non parliamo di un brutto disco, per lo L u g l i o il timbro cristallino, limpido, del secondo, su un registro discretamente alto. Fa sensazione che il primo singolo estratto sia proprio Refugees, un pezzo cantato con tanto di vocoder da Richard e inframmezzato dalla voce di Danny solo nel finale, dove è da notare la spudorata virata verso i Coldplay di Viva La Vida. A volte le due voci si sovrappongono di un’ottava e l’effetto è decisamente efficace, data anche la natura super dance e power pop di alcuni pezzi; è il caso del secondo singolo estratto, Follow You Home, dove un’energica cassa a terra scandisce il tempo di un ritornello killer fatto di cori subito riconoscibili. Cosa resta dei vecchi Embrace? Ballate come At Once di ashcroftiana memoria e una I Run dove la voce grave di McNamara regala il ricordo delle loro prime produzioni avvicinandoli al contempo ad attuali giganti come gli Snow Patrol di Gary Lightbody (che oggi sembra essere il principale riferimento). Pop da stadio, epico, corale, muscoloso e tendente a una dimensione dance rock (fantastico il brano Quarters, tra Snow Patrol, Infadels e The Servant); resta il gusto per la melodia che è da sempre una caratteristica fondante degli Embrace. Otto anni sono serviti per riposizionarsi bene su un mercato rock che oggi propone grosse e antemiche produzioni fatte di melodie di forte impatto emotivo e sonoro: apprezzabile la voglia di rinnovarsi, anche se a conti e ascolti fatti si potrebbe tranquillamente dire che i Nostri hanno estremizzato il discorso che avevano iniziato con il precedente This New Day. Ci volevano otto anni per farlo? 6.7/10 115 / L u g l i o Genere: drone, industrial, noise, electro Torna sul luogo del delitto Mai Mai Mai, nel bel mezzo dell’(immaginario) Mar Egeo, ed è di nuovo un viaggio nei meandri più disturbanti dell’elettronica bastarda di questi tempi. Se Theta ci aveva mostrato la via, Delta approfondisce il discorso di un percorso senza spazio né tempo in una dimensione “altra” fatta di cupe dissolvenze alla Demdike Stare – e di conseguenza, library music italiana dei 60s e 70s – beat minacciosi e atmosfere cupe da hauntology de noantri, textures minimali e droni possenti e circolari, ambient malsana che spesso vira verso lidi dark: il tutto messo al servizio di un fluire musicale per flutti e ondate, quasi a voler rimarcare ancora il legame col mare nostrum. Le ospitate di Donato Epiro, Gianni Giublena Rosacroce e Piovs a organi, clarinetti e moog arricchiscono un programma di per sé allettante, tra esoterismo di ritorno (per approccio, sembrano tornare a galla esperienze borderline come T.A.G.C.) su cui spuntano ipotesi di casse dritte affogate nel rumore (Euphróne), dilatazioni da droning chiesastico (Byzàntion), astrazioni da noise (quasi) concreto (Tetraktys). Menzione speciale per la conclusiva Phuge: oscuro fluire di droni in libertà nella prima metà ed esplosione ritualistica circolare che rimanda alla dark-ambient ipnotica e “etno” di certi passaggi di Deutsch Nepal o ad alcune atmosfere alla The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud: come dire, paganesimo, occultismo, “naturalismo”, elettronica, droning e molto altro ancora in una traccia sola. Il naufragar, si sarà capito, è dolce in questo mare. 7/10 Stefano Pifferi meno non nel senso letterale del termine: procedendo con l’ascolto, infatti, ad esempio con la title-track (un semi plagio di Rumours), o con la super ballad Cedar Lane, si capisce che l’obiettivo dell’album è stato raggiunto. Canzoni ultra orecchiabili, voci impeccabili, una retorica buona e a tratti moralista volta a distanziarsi da ragazzacce come Miley e Rihanna: giovani e carine, ma tutt’altro che ingenue, le First Aid Kit hanno trovato una nicchia che prima di loro non era ancora stata occupata nel mondo del mainstream, e che con Stay Gold mostrano ancora una volta di saper sfruttare appieno. In altre parole, è lo stereotipo di due ragazze 116 sinceramente amanti di una musica nostalgica, passata e retromaniaca, tuttavia ripulita da ogni eccesso (di una Janis Joplin o Courtney Love, per dire, non c’è nemmeno l’ombra), con modelli votati a costruire un’immagine pulita e mai sopra le righe. È un gioco di opposti in cui si condanna, anche se non apertamente, l’iper sessualizzazione del pop da classifica (risale giusto al mese scorso la polemica suscitata da Theresa Wayman, voce e chitarra delle Warpaint, contro Beyoncé e la già citata Rihanna), a cui contrapporre abilmente – e non potrebbe esserci davvero nulla di meglio – due facce d’angelo “che si sono fatte da sé”: come non r e c e n s i o n i A g o s t o Mai Mai Mai - Delta (Yerevan Tapes,2014) Genere: pop, cantautori, folk Non è un caso che da queste parti la pagina album dell’EP Did You Hear The Rain? sia la terza più visualizzata dell’anno, tra le visite provenienti da motori di ricerca: il bristoliano George Ezra è stato un fulmine al ciel sereno, protagonista assoluto dei palinsesti radiofonici r e c e n s i o n i A g o s t o George Ezra - Wanted On Voyage (Columbia Records,2014) / Giulia Antelli in madrepatria, in tutta l’area mitteleuropea e dalle nostre parti grazie al singolo Budapest (lo scorso anno inserito all’interno della playlist Tracks from EPs 2013), ad oggi uno dei dieci singoli più scaricati nel 2014 in Italia. Quello di George Ezra (già tra i candidati del BBC Sound of 2014 e in curriculum un Glastonbury davanti a qualche migliaio di teste) è il classico nome che rischia – come quello di Vance Joy – di trasformarsi in un one hit wonder ancora prima della pubbicazione dell’album di debutto, Wanted on Voyage. Questo sospetto non deriva tanto dagli scarsi risultati del secondo EP Cassy O‘ (era infatti evidente la sua natura di tappabuchi in attesa dell’esordio lungo), quanto dalla quasi-certezza del fatto che difficilmente il giovane inglese riuscirà a ripetere i risultati di Budapest. Lungo le dodici tracce – sedici nella versione deluxe – in parte provenienti dagli EP (e influenzate da un viaggio tra le grandi città europee), nonostante la continua ricerca della melodia radiofonica, è infatti difficile individuare una possibile Budapest-bis. L’iniziale Blame It On Me lo è, ma solo nelle intenzioni. Poco male, abbiamo comunque piacevoli filastrocche rese vivide dal variegato timbro di George – in grado di spostarsi senza fatica dalle tonalità più basse agli pseudo-ululati, passando ad altezza Caleb Followill – che accompagna atmosfere dal sapore americano provenienti direttamente dal Delta-blues, dal gospel e dal vecchio folk variegato roots-rock seguendo in un certo senso il revivalismo (maggiormente folk) di Edward Sharpe and the Magnetic Zeros, dell’ultimo (prevalentemente soul) Paolo Nutini o dell’astro nascente (blues-oriented) Hozier. Nascono motivetti da fischiettare in situazioni bucoliche – Cassy O’ in cui si impone come un moderno Lonnie Donegan – che si alternano in modo funzionale a sing-along in solitaria ai margini della palude (Barcelona). L u g l i o ricordare, a questo proposito, il boom internettaro generato dalla cover di Tiger Mountain Peasant dei Fleet Foxes? Una band che, per prima in questi anni Zero, ha riportato in auge gli archetipi della pace pastorale e della grazia acustica, attraverso (anche) un’immagine lontanissima dai soliti cliché del “maledettismo” rock. A ribadire il loro fascino di lolite nella forma ma non nella sostanza, c’è infine il brano Waitress Song: la storia (già splendidamente raccontata, anche se in termini ed esiti diversi, da Townes Van Zandt in Tecumseh Valley) della fanciulla alla dura scoperta del mondo, alle prese con le difficoltà dell’età adulta e più in generale della vita, dove spicca un verso – girls, they just want to have fun, and the rest of us hardly know who we are – che sintetizza al meglio quanto elencato fino a qui. Johanna e Klara sono cresciute e sono diventate delle piccole donne del pop, senza però aver perso una grammo di quella dolce innocenza che le rende due insopportabili angioletti. Chi le ha amate fino ad ora non farà nessuna fatica ad apprezzare Stay Gold, né, immaginiamo, mancheranno nuovi proseliti. Ma oltre l’interpretazione, seppur ottima, di buone canzoni pop, di folk non è rimasto (o, probabilmente, non c’è mai stato) nulla, se non forse le impervie foreste svedesi. 6.2/10 117 A g o s t o / L u g l i o Riccardo Zagaglia Ghemon - Orchidee (Macro Beats,2014) Genere: rap Per chi non conoscesse Ghemon riassumiamo in pochi aggettivi la persona: sincero, coscienzioso e ambizioso. Questi tre aggettivi, che potrebbero far sorridere il lettore alla ricerca di caratteristiche più ambigue, rappresentano in maniera abbastanza verosimile il percorso artistico di un rapper che fin dal primo momento si è schierato in posizione antitetica a molte delle tendenze dell’hip hop nostrano, pur rimanendo fedele ai capisaldi di questa cultura. La grande ambizione di Ghemon lo ha spesso portato, a volte con un atteggiamento che ha provocato in alcuni una certa irritazione, a ribadire questa distanza dalle suddette tendenze. 118 Orbene, in Orchidee, la sua ultima fatica, non succede. Siamo dunque di fronte a un disco che costituisce una tappa importantissima per il lungo percorso di Ghemon (sono 15 anni che il Nostro gira da solo, e se si considera anche il lavoro fatto con i Sangamaro le candeline sulla torta aumentano). Ovviamente l’elemento che colpisce subito è la sfida che ogni rapper maturo e ambizioso prima o poi si pone: il canto e gli strumenti. Pur non essendo un disco interamente orientato al cantato (chi ha pensato a un passo à la Neffa è in errore, il taglio con la cultura hip hop che caratterizzò il “tradimento” del Pellino non è qualcosa di ravvisabile in Ghemon), l’album è infatti caratterizzato da preziosi arrangiamenti e da un suono che strizza l’occhio al soul del passato (basta dare un’occhiata a chi suona, troverete almeno tre elementi dei Calibro 35, un progetto che con il passato ha un rapporto che è eufemistico definire di continuità), e al contempo non disdegna di strizzare l’occhio al cosiddetto nu soul (ovviamente declinato in chiave rap), incrociando in maniera assai personale il percorso di artisti come Mos Def, i The Roots o anche Phonte (da solista, senza i Foreign Exchange). Buona musica e produzione ottima, dunque, con all’interno persone la cui professionalità è fuori discussione (si veda Enrico Gabrielli, ma non dimentichiamo il buon Kikke dei Casino Royale o Rodrigo D’Erasmo, violino familiare a chi ha seguito gli Afterhours negli ultimi anni), e la parola d’ordine assoluta è ELEGANZA. I casi di eccellenza, nello specifico, sono l’ottima Da Lei (con lo scudo e la spada) - prodotta inzialmente dallo stesso Ghemon con Fid Mella, e poi successivamente riarrangiata – così come Il Mostro (bellissimo l’arrangiamento nel ritornello), e funziona anche il singolo Adesso sono qui. Non che le altre tracce siano da meno, ma sfortunatamente la ricerca di omogeneità tra i vari brani va fin r e c e n s i o n i Il songwriting di George fa leva su una sottile ironia dei testi che ben si sposa con le atmosfere spensierate del disco figlie di una proposta tutto sommato coerente, difficile da inquadrare freddamente in qualche attuale macromovimento di facile mercificazione, a parte qualche sporadica incursione nella Age of Folk Prostitution. Meno in linea con il resto della produzione – ma comunque nel complesso discretamente riuscite – la conclusiva Spectacular Rival (tra la murder ballad e i Crash Test Dummies), una Did You Hear the Rain? impregnata di una apprezzabile tensione di fondo e Stand By Your Gun, uptempo dai colori pop-funk. Wanted on Voyage è quindi il convincente risultato di un ovvio compromesso tra qualità che nascondono un buon potenziale compositivo e necessità commerciali confermate anche dalle tre tappe-vetrina italiane di fine luglio come spalla dei Bastille, con i quali il Nostro non condivide assolutamente nulla a livello stilistico. 6.3/10 / A g o s t o Genere: house Martyn, ovvero l’olandese Martijn Deykers di stanza a Washington, è sempre stato uno attento ai venti più freschi del sottobosco elettronico. Non fa eccezione questo The Air Between Words, album pubblicato sul Ninja Tune a tre anni dal precedente lavoro lungo Ghost People edito dalla Brainfeeder di Flying Lotus. Nell’ultimo disco il producer abbandonava le ritmiche dubstep abbracciando UK Funky e false memories sottoforma di prima house e techno (versante Carl Craig ma non solo), mentre qui, in quest’album con un titolo che fa molto Brian Eno, si viaggia con la solita calda ed impeccabile produzione, continuando il lavoro sui menzionati bastioni e aggiungendo alcune freschezze che a prezzemolo anche altri “sgamati” produttori hanno aggiunto ai loro intingoli (Hercules Love Affaire, per far un nome). Parliamo di una rinnovata voglia acid che riprende tanto Luke Vibert quanto Last Step (e indietro Sweet Exorcist e LFO), magari intersecata con booty dance e drum machine molto ghetto dalla serie Dance Mania e Trax (Two Leads and a Computer), tanto amore per la deep, breakbeat (Forgiveness Step 2), il tutto infiorettato da vaporose visioni synth e richiami warpisti stagliati con la solita mano ferma, tutti elementi con i quali l’olandese lavora almeno dal 2007. Il disco non stacca così nettamente come l’esordio Great Lenghts si discostò dal successivo Ghost People, anzi, è un lavoro in continuità con quest’ultimo dove non mancano le bombe (fate ascoltare Like That a Scuba o Empty Mind ai Disclosure) e non si perde di vista la coerenza richiesta dal formato album. Le ospitate – Four Tet in Glassbeadgames che mette la firma melodica, la funzionale Inga Copeland (non pensate a Because I’m Worth It) in Love of Pleasure, vanno intese come joint venture strategiche, ovvero, non spostano il baricentro da una tracklist robusta e generosa, dai tocchi anche jazzy e con una chiusura melanconica – ma uplifting – in perfetto stile Martyn (Fashion Skater). 7.3/10 L u g l i o r e c e n s i o n i Martyn - The Air Between Words (Ninja Tune,2014) Edoardo Bridda troppo a buon fine , livellando eccessivamente le differenze. Quello che ogni tanto sembra un po’ mancare è l’amalgama di beat e voce, nel senso che pur essendo entrambi ad alto livello, in alcuni casi capita che si perda questo o quell’aspetto, spesso per eccessivo accumulo di elementi suonati (questo succede soprattutto nei ritornelli, a dire il vero, mentre il rap riesce sempre a rimanere in primo piano, grazie a una preponderanza dell’aspetto ritmico durante le strofe): un esempio in questo senso è offerto da Tutto Sbagliato, potenzialmente ottima e invece soltanto gradevole. Musica a parte, bisogna soffermarsi, prima di passare al punto di forza del disco, sull’aspetto più claudicante di Orchidee: il cantato. Intendiamoci, sono in tanti a non cantare benissimo, è dai tempi di Battisti che il bel canto non è una necessità, e infatti il problema è nel come: l’approccio al canto è un po’ troppo serioso e, pur 119 / L u g l i o Genere: pop, rock Chi ha avuto la fortuna di leggere (in inglese, of course, dal momento che l’editoria italiana ancora non ci ha fatto questa grazia) Autobiography di Morrissey, non ha impiegato molto ad immaginare il piccolo Steven Patrick, rinchiuso nella stanzetta di Manchester ad ascoltare i gruppi punk, glam, camp, leggere di musica, NME, Melody Maker, la beat generation, guardare soap alla Coronation Street insieme all’amata madre (che, a quanto pare, ha quasi ucciso alla nascita, perché la sua testa era troppo grande). Lo ha immaginato perpetuare questo gesto a lungo e, magari, in una possibile ucronia, per sempre, come forse lui stesso avrebbe voluto… una vita a scrivere poesie, prosa o articoli giornalistici. Sarebbe successo se… Johnny Marr non avesse bussato quel giorno alla porta del 384 di Kings Road. Morrissey è diventato uno dei più grandi parolieri pop della canzone, un giocoliere acuto, severo ed estremamente (auto)ironico, anche grazie a Marr. Lo è stato e lo è da The Smiths a World Peace Is None Of Your Business, senza discussioni. Ma, tanto per toglierci le banalità di torno, non avrà mai nessuna spalla all’altezza dell’ex chitarrista degli Smiths, né con Viva Hate né con World Peace Is None Of Your Business. Onore dunque a Boz Boorer e combriccola che, in questa difficile impresa, sono riusciti a sostenere l’estro di una grande, importantissima metà artistica, non solo con qualità chitarristica di altissimo livello, ma anche con una cura meticolosa per arrangiamenti orchestrali, variegati e trasversali. Il nuovo album di Morrissey si pone, dal punto di vista dell’ispirazione, alle soglie di un’esperienza gratificante a livello creativo e remunerativo (dato che si è classificato best seller in un battibaleno): la prosa autobiografica. Nessuno aveva dubbi sulle peculiarità di scrittore di Morrissey, ma l’accoglienza positiva, pressoché unanime, l’elogio delle sue qualità di prosatore, lo hanno evidentemente fatto sentire a suo agio, al punto da spingersi ad ultimare il nuovo lavoro. Il contratto, previsto per due album, con Harvest/Capitol ne è la coronazione. Grande ottimismo, per uno che ha dovuto annullare un terzo dei concerti previsti negli ultimi due anni e ha passato più tempo in ospedale per problemi di salute che a casa. Ma, tant’è… forse la convalescenza ha stimolato la vena creativa. Ma non di certo le idee di promozione, che con l’epopea degli spoken word fra Nancy Sinatra e Pamela Anderson, non hanno granché contribuito a creare l’atmosfera adeguata. D’altronde per questo ed altri fattori, Morrissey lo si odia o lo si ama o lo si odia e lo si ama incondizionatamente. Joe Chiccarelli, chiamato a produrre il disco e a sostituire lo scomparso Jerry Finn (che aveva lavorato su You Are The Quarry e Years Of Refusal), è la vera sorpresa. Se You Are The Quarry aveva brani dalle melodie impeccabili e radiofonicamente fortissimi, la sua produzione non si è dimostrata altrettanto raffinata, risultando, nel tempo, un po’ didascalica e artificiosa. Malgrado ciò, è proprio al disco del 2004 che le orecchie di tutti si indirizzeranno nell’ascoltare World Peace; simili appaiono gli intenti, le atmosfere noir e, soprattutto, l’atteggiamento mascherato, auto-parodistico, che proprio da quel disco avevano preso il via. Chiccarelli asseconda il nuovo 120 r e c e n s i o n i A g o s t o Morrissey - World Peace Is None Of Your Business (Harvest,2014) / A g o s t o r e c e n s i o n i L u g l i o corso morrisseyano, che, un po’ per deviazione nevrotica, un po’ per reale interesse di frontiera, ha portato il Nostro verso lidi latineggianti o orientaleggianti, già dai tempi di Years Of Refusal. Ma, se nel 2009 alcune di queste idiosincrasie avevano raggiunto il limite dell’inascoltabile (One Day Goodbye Will Be Farewell, Sorry Doesn’t Help) o dell’abominio hard che snaturava la verve dell’ex leader degli Smiths (Something Is Squeezing My Skull, All You Need Is Me, ecc.), oggi, grazie al sapiente lavoro di produzione, è tutto più a fuoco. Musicalmente vario, a tratti persino audace, World Peace gioca su un triplo binario, che mette d’accordo diversi momenti emozionali della carriera di Moz. Il primo è quello erede del nuovo corso, un po’ più duro e maturo rispetto agli altri: contiene al suo interno la forza del rock classico (la titletrack, Neal Cassidy Drops Dead), ma anche la potente lama delle ballate in crescendo (I’m Not A Man, Smiler With Knife). È un binario solenne che tocca l’apice proprio in I’m Not A Man, candidata a raccogliere l’eredità delle struggenti I Know It’s Over e Meat Is Murder, trasformandole prima in stranianti carillon impolverati, poi in anthem. Il secondo binario raccoglie le atmosfere etniche o latineggianti di cui sopra: lo fa con dedizione e cura invidiabili, ma, soprattutto (e qui sta la differenza con i lavori precedenti), in punta di piedi, senza invadenza, sporcando di varietà un sound che sarebbe sembrato buffo, anacronistico e didascalico (Earth Is The Loneliest Planet, Istanbul); il terzo è la novità stilistica rispetto al disco precedente: è il ritorno alla melodia pop più pura, che, con un sorriso in tasca, ci riporta se non ai tempi degli Smiths, almeno a quelli di Viva Hate. Kiss Me Alot, Staircase At The University e The Bullfighter Dies incrociano i binari citati, staccando un biglietto per l’instant classic. Resa emozionale, ballabilità, nostalgia, sorrisi amari: c’è la ricetta del brano morrisseyano perfetto. Anche se noi, con un filo d’orgoglio, ci sciogliamo di più nei pressi di Mountjoy, ibrido di Speedway e degli episodi migliori di Ringlead Of The Tormentors come Life Is A Pigsty. La narrazione, d’altra parte, è, come sempre, in gran spolvero. Moz non ha perso la verve polemica e ironica, laddove qualcuno può giustamente leggere “moralista”. È quello che è, in fondo… un vecchio brontolone, o meglio, una zia in ciabatte. Si va dal manifesto “each time you vote/you support the process/ogni volta che votate, supportate il processo” della titletrack, che incita un anarchismo politicizzato, se ci passate l’ossimoro, al solipsismo del teenager Steven Patrick che, solo contro il mondo, scopre che “Earth Is The Loneliest Planet of all”. Si va dal preziosissimo citazionismo in chiave beat generation di Neal Cassady Drops Dead, che completa il set che parte da Cemetery Gates e arriva a You Have Killed Me, al caos delle notti d’Oriente di Istanbul, suonata con chitarra cigar-box e lap steel. Spazio anche alle amate atmosfere noir e melodrammatiche in Staircase At The University, storia di una giovane che si uccide perché non riesce a conseguire valutazioni positive a scuola; o in Kick The Bride Down The Aisle, ennesima velata frecciatina al matrimonio. Torna il tema del vegetarianesimo in una pungentissima The Bullfighter Dies: “il torero muore, ma non piange nessuno perché tutti vogliono che il toro sopravviva”. Come dargli torto? C’è, infine, lo scherno nei confronti dei sex symbol della storia in una I’m Not A Man che chiosa “non sono un uomo, non ucciderei o mangerei mai un animale… quindi, cosa pensi che sia? Un uomo?”. È difficile far entrare tutto nell’universo-Morrissey. È vero che World Peace è un disco decisa- 121 mente più ispirato di molti precedenti, anche perché, chi è riuscito ad ascoltare la Deluxe Edition, ha potuto scovare altri sei grandissimi brani: da One Of Our Own, che quasi fa il verso ad America Is Not The World del 2004 ad Art-Hounds che, fosse uscita nel 2009, sarebbe stato un singolo al pari di I’m Throwing My Arms Around Paris. Non delude, Morrissey, e anzi, fa rivivere la sua vena ispirata che un po’ si era afflosciata nello scorso decennio, quando, per qualche ragione sembrava che il Nostro volesse forzare la mano e “apparire ancora giovane”, quando forse noi l’avremmo preferito robusto e maturo, come è in questo decimo album solista. Chi non lo amava, non inizierà a farlo con World Peace (e i continui fatti di cronaca non lo aiuteranno), ma chi lo ha sempre seguito troverà una piacevole conferma che innalza l’asticella delle prestazioni più in alto rispetto a molti dischi precedenti. 7.4/10 / L u g l i o fregandonsene delle imperfezioni, non riesce a rimanere in testa. Da semplice ascoltatore verrebbe da dire che il problema sia a livello di scrittura, troppo complessa in punti che quasi impongono una maggior semplicità, i ritornelli. Da questa “lista nera” vanno tuttavia esclusi il singolo di cui abbiamo parlato prima e una Da Lei che sarebbe interessante vedere su queste traiettorie. Dulcis in fundo: il rap. Per chi non fosse pratico di metriche e tecniche, è giusto rivelare una verità banale: Ghemon è bravissimo a fare rap, che sia interessante o meno la tematica trattata (in questo album il Nostro parla principamente di tre cose, ovvero amicizia, amore e vita, ma lo fa in modo invidiabile). La cosa che stupisce di Ghemon è la sua dimestichezza con la pause, la sua musicalità è accostabile al miglior Q-Tip ed è una splendida alternativa tanto al flow serrato di buona parte dei dischi underground italiani, quanto al rap ipertecnico dei dischi di avanguardia. Il tutto con una precisione che non è comune. In conclusione: il disco è ben fatto, ci sono brani che funzionano più di altri, ma nessuno di essi offende in alcun modo l’ascoltatore, e il fare da crooner del rap (è un complimento) 122 di Ghemon ha forse trovato la giusta direzione ma non ancora il giusto assetto. Se da una parte è sacrosanto complimentarsi con l’artista per aver scelto un approccio inedito in Italia, dall’altra è lecito sperare in un disco più incisivo nei ritornelli e in generale nel cantato, per il prossimo futuro. Un ottimo inizio, comunque. 6.8/10 Sebastian Procaccini Glass Animals - Zaba (Wolf Tone,2014) Genere: pop, art, bassmusic, triphop Non si può certo dire che i Glass Animals siano nuovi su queste pagine, dato che abbiamo avuto modo di seguirne l’evoluzione artistica fin dall’EP d’esordio Leaflings, recensito sul finire del 2012, quando le informazioni disponibili sulla band di Oxford erano pressoché nulle. Accolti come uno dei primi progetti pronti a raccogliere l’eredità dei Wild Beasts e quella – all’epoca ancora fresca – degli Alt-J, i Glass Animals, dopo la pubblicazione di Leaflings, hanno preferito frenare la foga discografica per terminare gli studi e tornare con grande ambizione verso la conquista – lenta e raggiunta a piccoli passi – di qualche sprazzo di una r e c e n s i o n i A g o s t o Nino Ciglio Riccardo Zagaglia GusGus - Mexico (Kompakt,2014) A g o s t o Genere: dance-pop, house, dance Già con Arabian Horse avevano raggiunto una delle più alte vette della house degli ultimi anni. Il difficile bis non spaventa comunque i GusGus, e anche in questo loro decimo disco (il terzo su Kompakt) riescono a portare avanti il loro stile personale coniugando la proposta allo zeitgeist pop-dance. Se ad un ascolto superficiale Mexico può sembrare virato su una diminuzione della componente “anima” che da sempre caratterizza il suono del combo islandese, è con l’iterazione del tasto play che la proposta aumenta di spessore. I pezzi sono vicini all’estetica Kompakt, a quel modo di coniugare precisione e bassi caldi, produzioni tedesche puntuali con la voglia di riscaldare, come avevamo sentito qualche tempo fa nel full length di Kölsch, 1977, e come aveva già anticipato il remix di Crossfade di Maceo Plex. Saranno i bassi caldi mescolati con archi di Obnoxiously Sexual, i classici stab in eco distorto di Another Life, l’aura nordicoMelody A.M. di Sustain e Crossfade (stupendo anthem pop-disco per l’estate), fatto sta che anche questa volta i GusGus dicono la loro. Si / r e c e n s i o n i sue allucinazioni, Cocoa Hooves da Leaflings, qui in versione riadattata al mood generale del disco, e ovviamente le tre main track delle uscite pre-Zaba (Gooey, Pools e Black Mambo, mentre manca all’appello Psylla). Con Zaba i Glass Animals si sono presi il rischio – scampato, ma di poco – di risultare leggermente ripetitivi pur di presentarsi al mondo con un lavoro compatto, elegante ed eccentrico al punto giusto. Più che un’inaspettata sorpresa, una conferma da un gruppo che ha saggiamente trovato la propria – si spera gloriosa – strada, senza rinnegare le origini. 69/10 L u g l i o luce mediatica sempre più luminosa (il singolo Gooey non è passato inosservato e il tour a supporto di St. Vincent ha allargato alcuni orizzonti). Tra Leaflings EP e l’album di debutto Zaba i quattro inglesi (Dave Bayley, Drew MacFarlane, Edmund Irwin-Singer e Joe Seaward) hanno avuto modo di affinare la propria direzione distaccandosi sempre più dagli ingombranti modelli di riferimento attraverso alcune scelte stilistiche limpide ed azzeccate: i profondissimi bassi di scuola londinese sono sempre protagonisti ma attorno ad essi è stato sviluppato un organico microcosmo colorato composto da tonalità lisergiche allungate con esotismo tribal-world music, una sorta di fantascientifica e vivida foresta sottomarina in perenne movimento ondulatorio messa in scena come se le menti cinematografiche di Méliès e Tim Burton si fossero unite per rappresentare ‘The Zabajaba Jungle’ di William Steig (l’opera che ha ispirato l’intero lavoro). Tre sono gli aspetti principali che colpiscono di Zaba: l’incredibile pulizia sonora resa possibile da una grande attenzione per i dettagli (fate caso agli svariati sample vicini all’universo animale e nascosti un po’ dappertutto) e dalla produzione di Paul Epworth, già dietro a molti bestseller made in UK nell’ultimo decennio e fondatore della label Wolf Tone; il timbro suadente e sempre più riconoscibile di Dave Bayley; l’astuzia con cui vengono condensati groove, battute downtempo (Intruxx) figli di influenze che arrivano più o meno direttamente dall’universo hip hop (non a caso i Nostri hanno riletto Love Lockdown di Kanye West) e pseudo-ritornelli a taglio r'n'b spesso ripetuti a dismisura creando un apprezzabile ed ipnotico effetto mantrico. In particolare, l’ultimo aspetto regala brani immediatamente contagiosi e dal repeat facile: Flip (tipo Underwater Love 2.0 cantata da Hayden Thorpe), Walla Walla e le 123 / L u g l i o Genere: avant, impro Agli albori della loro carriera, quando andavano in giro aprendo i concerti per i Sonic Youth con adesivi sui tasti della chitarra e del basso per vedere quale note toccare, sulle OOIOO (si legge oh-oh-eye-oh-oh) nessuno avrebbe scommesso un nichelino. Ben diciassette anni dopo The Wire, uno dei più autorevoli (se non il più autorevole) mensile di musica, dedica loro la copertina: un onore toccato in precedenza a personaggi come Rob Mazurek, Peter Brötzmann e Scott Walker, giusto per fare tre nomi. Una discografia di primissimo ordine, che le ha viste confrontarsi con krautrock e post punk, senza perdere mai il piglio naive che le aveva fatte conoscere e apprezzare sin da subito, quando la tecnica era di gran lunga inferiore alla fantasia e alla sana follia di cui erano e sono portatrici. Capitanate come sempre da Yoshimio (o per i nostalgici Yoshimi P-Wee), polistrumentista e batterista dei Boredoms di Yamataka EYE, questa volta le OOIOO si sono cimentate in una personalissima e contemporanea rivisitazione del Gamelan (antica forma musicale indonesiana/giavanese che stregò letteralmente Claude Debussy, tanto da ispirarlo nella composizione di Pagodes), regolarizzato in questo caso da una sorta di primitivissima conduction. Niente a che vedere quindi con il complesso sistema di Butch Morris o i Game Pieces di Zorn, ma un semplice linguaggio di segni, quasi un gioco, per coordinare e spostarsi tra i pattern prettamente percussivi messi in piedi da Yoshimio, nelle vesti questa volta di gran cerimoniere. Sonorità giocose e incalzanti che a tratti ricordano il progetto Yamasuki di Daniel Vangarde (il figlio Thomas Banglater ha fatto una discreta carriera con i Daft Punk), ma che nascondono in realtà complessi scambi armonici e ritmici: la classica pillola edulcorata, cavallo di Troia per portare profondità laddove sembra si nasconda solo frivolezza. La componente improvvisativa è in realtà molto limitata in Gamel: le strutture, che sembrano frutto di jam, sono in realtà strutture provate e riprovate in rehearsal e anche se fanno perdere un po’ la magia della libertà assoluta, non intaccano il prodotto finale. Registrato quasi totalmente in presa diretta (Yoshimio ha comunque lavorato duro in post-produzione limando tutte le imperfezioni senza snaturare l’essenza del progetto), Gamel è di gran lunga il miglior lavoro del collettivo giapponese, sicuramente il più stimolante e ispirato. 8/10 Andrea Murgia assestano un po’ sulla poltrona da studio con soluzioni già esplorate (Airwaves, This Is Not The First Time) e ci può anche stare, dati i quasi vent’anni di onorata carriera, ma risultano freschi e pronti a rivedere il loro stile con 124 tagli e prospettive diverse, vedi gli insert “pesanti” à la Chemical Brothers della titletrack, le atmosfere retrò ’70 di God-Application o la ballad This Is What You Get When You Mess With Love. r e c e n s i o n i A g o s t o OOIOO - Gamel (Thrill Jockey,2014) Quando si parla di stile, prendete ad esempio i ragazzi di Reykjavik e non resterete delusi. La loro pulizia da studio crea atmosfere perfette, che coniugano la sensibilità per il dancefloor con un gusto pop sopraffino. Adatto ad un pubblico eterogeneo, che ama l’atmosfera più che il ballo, la sensazione più che la teoria. Vicini in qualche modo a Booka Shade e Depeche Mode, i GusGus restano ancora sul podio della dance mondiale. Techno and Soul are here to stay. 7.1/10 Marco Braggion How To Dress Well - What Is This Heart? (Domino,2014) A g o s t o Genere: pop Vicino alla soglia dei trenta e con addosso il fardello di un hype che non l’ha mai abbandonato, Tom Krell/How to Dress Well nella sua opera terza What Is This Heart? si guarda indietro ripercorrendo alcuni aspetti che, direttamente o indirettamente, hanno segnato la sua vita, e contemporaneamente guarda al futuro solidificando le basi stilistiche del proprio suono. Tom, uno che non ha mai avuto paura di mettere in musica gli stati d’animo più intimi (Just Once EP era dedicato a un suo grande amico scomparso poco tempo prima), affronta il passato con gli occhi malinconici di chi ha ancora vividi i ricordi formato-famiglia e le pressioni psicologiche di situazioni non facili vissute con l’attitudine di un emo-kid primi anni Zero (in un paio di brani sono presenti riferimenti a Taking Back Sunday e Saves the Day). In questo senso l’iniziale 2 Years On (Shame Dream) è uno degli episodi più toccanti (“no one ever told you that life would be this unfair but oh it is“), sorretto da una chitarra acustica arrangiata come andava di moda nelle ballad patinate anni Novanta. Svolta pop? In un certo senso. Infatti, se What Is This Heart? è un disco in cui emerge ancora una volta tutta la sincerità di un ragazzo che, nonostante il successo, non ha mai perso i contatti con la realtà (sta portando avanti un dottorato in filosofia alla DePaul Uni- / Genere: easy_listening, psych, ambient, electronica Torna Marco Acquaviva con il progetto HDADD: il seguito dell’eccellente Mondo Mzk dello scorso anno cambia passo e invece di esplorare il dark side dell’elettronica postbass, si insinua su coordinate più cinematiche e lineari, meno shock e più smooth. Gli ingredienti sono una buona insalata di ambient con synth, qualche accenno jazz, ripiegamenti su cinematicità à la Boards of Canada (The Crystal Shoal) e l’inevitabile rimando a krauterie analogiche à la Tangerine Dream (Travelin). Qui non si può parlare di rock in senso stretto, bensì di viaggio psichedelico in una bolla estatica, una lunga pausa che evita i drop d’effetto. Il disco di Acquaviva è come quel dipinto di Magritte con la pietra sollevata sul mare (Le chateau des Pyrénées): non sai bene se cadrà o se resisterà per sempre in continua tensione sulle onde che si rifrangono sulla battigia. La tensione – musicalmente parlando – è data dal ripetersi dei loop, mentre l’estasi è costruita su suoni soffusi, sorprese analogiche che si mescolano bene con i pad e che in qualche punto sembrano venire fuori dall’hard disk dell’ultimo Lopatin o da un outtake dei Broadcast Marco Braggion L u g l i o r e c e n s i o n i HDADD - Grace (Queenspectra,2014) (Saudubby). Nel complesso, il disco è un’ottima costruzione loungey, che fa da contraltare “spiritual healing” all’album precedente. Le molte facce di un artista da conoscere e che purtroppo non è stato ancora valorizzato a dovere. 7.2/10 125 A g o s t o / L u g l i o 126 tale di Tom Krell. Manca il fascino imperfetto di Love Remains e l’effetto-conferma di Total Loss, ma quella di What Is This Heart? era inevitabilmente l’unica strada percorribile per evitare di rimanere impantanati sulle stesse orme e, contemporaneamente, non perdere di vista quelli che sono i capisaldi di un progetto ancora credibile e convincente. 7.1/10 Riccardo Zagaglia Il lungo addio - Pinarella blues (Wallace Records,2014) Genere: wave Ma che si sono messi in testa gli artisti della Riviera, di giocare a guardie e ladri come nei film di Peckinpah? Un drappello generazionale dedito al revival che sa forse dove andare, ma non sa come farvi ritorno. Fabrizio Testa e il suo Il lungo addio va da anni dicendo di sé in vuoti stabilimenti balneari con aplomb languido dietro vetrate opaline (Bagno Franco); trasfigura memorabilia sotto catadiottri impersonali che parlano a polaroid. Pinarella blues è da poco edito per Wallace records ed è l’ultimo riparo per fermare un tempo, isolarlo nei ricami da souvenir e renderlo più che vivo, vegeto. In questo il cantautore fa fiasco, ma io dico a bella posta. Il suo non è propriamente un giocar a guardie e ladri quanto un “melodizzare” quella tensione che convoglia ad una liaison (Lido Adriano) tra più fili emozionali, dove sceriffo è il tempo e fuggiasco è l’arte. Dietro le sette tracce e i diciotto minuti c’è, si badi bene, l’innodia tardo romantica – quasi come nei western – che regge i temi baritonali o le frasi concluse non tanto sulle dominanti, quanto sulle ampiezze scure. A ogni modo frasi sospese nel nero provinciale. Testa poi ci gira intorno con filtro wave tutto peninsulare (Arcipelago Zadina) e qui Il lungo addio ripassa r e c e n s i o n i versity di Chicago, dove attualmente vive con la dolce metà), stilisticamente mostra a chiare lettere la volontà di smussare gradatamente gli angoli dei primi tempi in favore di sonorità a più ampia fruibilità. Repeat Pleasure, ad esempio, se la gioca con and It Was U (dal precedente Total Loss) per il titolo di brano più orecchiabile mai scritto da Krell, in un retrogusto groovy-r'n'b anni Ottanta non troppo distante dai contesti cari all’ultimo Blood Orange - e non è un caso che Michael Jackson (in particolare quello mid-90s) continui ad essere un punto di riferimento non troppo velato, come dimostrano brani del calibro di Precious Love e Very Best Friend. Dopotutto il nostro afferma “I want to be #1 on Billboard, but I want to do it on my own“, anche se dubitiamo fortemente che l’operato targato How To Dress Well possa scalare le classifiche generaliste, almeno fino a quando Tom non si metterà d’impegno nell’ottica di scrivere l’hit single veramente paraculo a tutto tondo. Una mossa di lato che viene fatta con la consapevolezza di chi, nel suo piccolo, la Storia l’ha già scritta con un disco come Love Remains – bissato due anni più tardi da Total Loss – capace di influenzare alcuni dei nomi caldi del post-r'n'b anni Dieci (The Weeknd, Autre Ne Veut, Active Child e recentemente Gallant). Di quell’approccio squisitamente lo-fi sommerso in un mare di riverberi, saturazioni vocali e oscurità spettrali rimane comunque qualche apprezzata traccia: il finale di Pour Cryll e alcune soluzioni presenti nell’ottima Face Again. Un po’ fuori dal coro la chitarra elettrica in Childhood Faith in Love (Everything Must Change, Everything Must Stay the Same), mentre funzionano meglio i background acustici che ritroviamo anche nella conclusiva House Inside e gli archi in See You Fall, altra ballatona d’altri tempi (qui è il piano la base di tutto), solo in parte stravolta dall’approccio sperimen- l’allegoria romagnola calando quel revival in un altro revival. Ottavo episodio da minisaga, Pinarella blues è il primo vero CD del progetto, dopo vari cd-r e 7” sparsi in quattro anni di vita; la copertina è tutto un non dire fra il basso di Monsieur e la batteria di Lou Gravita – altrettanti illustri sconosciuti – calando Ravenna e Cesenatico nei momenti sbagliati per un immaginario collettivo. Ecco perciò l’altro e ultimo filone tematico: il voler essere necessariamente fuori tempo massimo. 6.8/10 Christian Panzano / A g o s t o Genere: dream, dance, elettronica Secondo un guardingo Guardian, la biografia documentata di Inga Copeland – ovvero, in realtà e con tutta probabilità, Alina Astrova – inizia quando, nel ’96 incontra Dean Blunt a Knebworth, a un concerto degli Oasis. Lui è attratto da Cast No Shadow cantata con un pronunciato accento russo, lei, che sbaglia le strofe, attacca bottone ed è fatta: i due iniziano un sodalizio umano e musicale che li porterà ad affiliarsi a Hype Williams, un confusionario alias per un altrettanto non ben precisato collettivo di cui fanno parte da circa il 2009, anno in cui esce il primo EP autoprodotto, High Beams. L’Ep è il primo di una serie di depistaggi sonori, il primo trip di una coppia che pastura, sia con sintetiche che strumenti, un allucinato post-punk che ha molto a che fare con l’ondata di produzioni hauntologiche fine noughties, e dunque con i ceppi sonici di Ariel Pink e James Ferraro. Poi per Copeland / Blunt arriva lo split e l’allontanamento da Hype Williams. Entrambi pubblicano separatamente un paio di uscite, lui il break-up album The Redeemer, con lei comunque ospite, e lei l’emblematico L u g l i o r e c e n s i o n i Maria Minerva - Histrionic (Not Not Fun,2014) 12” Don’t Look Back, That’s Not Where You’re Going, più una collaborazione con John T. Gast e – non dimentichiamolo – il buon mixtape Higher Powers. L’esordio di Inga Copeland, prodotto (seppur non dichiaratamente) sempre da Dean, risale invece al 2011 ed è qui che i fili con Maria Minerva, ovvero Maria Juur, si intrecciano. E’ un lavoro, che al pari della prima discografia della ragazza estone (che all’epoca è in stage da Wire Magazine a Londra), tira in ballo i TG, il dub e una certa mentalità elettronica. “E’ come se i Throbbing Gristle o Chris and Cosey avessero fatto il loro album r’n’b del XXI secolo” riporta Stefano Pifferi in coda alla recensione di Cabaret Cixous dello stesso anno, un parallelo ineludibile dal quale si dipanano due carriere in scacchiera, entrambe caratterizzate da un profondo estraneamento, eppure specchiate nel rappresentarlo. La dama bianca e la dama nera. Maria Minerva punta da sempre a un’effervescente e colorata confusione di stili, generi e rimandi, il suo vocalizzo etereo e dreamy conferisce, fin da subito, uno smalto aereo alla sua musica; Inga Copeland, al contrario, preferisce rimestare nel torbido, si stordisce di joint e pastiglie, è terrigna, fangosa. Entrambe trafficano con un anemico concetto di incanto e bellezza, la prima lo infonde nella musica come profumo, la seconda come fugace squarcio di luce tra le nuvole su un cumulo di macerie a terra. Stanno in queste economie la principale forza della seconda e il primario difetto della prima. Il richiamo da sirena della Juur, al netto dell’effetto sorpresa e del bonario endorsment di Simon Reynolds che all’epoca, la inseriva in un interessante mazzo di ragazze da cameretta con le tastiere (vedi anche Laurel Halo, Stellar Om Source e pure Grimes), si risolve in una stilosa inteterminatezza. Non che a contrasto non siano stati escogitati dei rimedi: Maria 127 / L u g l i o Genere: rocknroll, punk, indie, garagerock C’era una certa attesa per il nuovo album dei Parquet Courts da Brooklyn. Vuoi perché molti erano gli addetti ai lavori ad aver tessuto le lodi del precedente Light Up Gold, vuoi perché tanta era la curiosità di sentire se la band avrebbe spinto più sull’acceleratore, sulla melodia o – peggio – sulla ripetizione di sé stessa. Con Sunbathing Animal i quattro arrivano alla terza prova sulla lunga distanza, quarta in tutto dopo l’EP Tally All the Things That You Broke dello scorso anno. Come per quello, anche questo disco esce per What’s Your Rupture?. Ma confrontando ciò che è stato con ciò che è oggi, le cose paiono un tantino cambiate. Cominciamo col dire ciò che i Parquet Courts non sono, in questo disco. Non di certo i Pavement, cui alcuni li hanno associati per una certa stortura sonora: dalla penna di Malkmus i Nostri non hanno ripreso la tendenza allo sfarfallamento, al cambio repentino e spesso assurdo. Non i Meat Puppets (troppo agresti), non i Television (dal chitarrismo molto più astratto), non i Wire (dal “cerebralismo” colto, qui invece è più una questione fisica, epidermica). Per comodità potremmo dire che la band è qualcosa in più e in meno. Da un lato tutte queste influenze vengono rivisitate e miscelate in una maniera che, se non è originale, è perlomeno personale. Dall’altro, c’è un lavoro di sottrazione non tanto nei confronti dei propri idoli, quanto del proprio passato. Sembra infatti, all’ascolto del disco, che la maturità sia arrivata anche per i quattro. Dove prima c’era un attacco a testa bassa, ora c’è una tenue tensione (Dear Ramona) che però produce frutti pop succosissimi, che in certi frangenti ricordano quasi quelli degli Strokes degli esordi. Alcune aperture, alcuni ritornelli sono così ariosi che paiono fatti apposta per una stagione estiva, pur non trattandosi di surf music: pare un miracolo che questa band venga da Brooklyn e non dalla California. Dove invece la melodia è subissata dalla ripetizione, come nei sette e oltre minuti di Instant Disassembly, quel che esce fuori non è monotonia, ma semplicità mai superficiale, a volte bellissima. In altri momenti è semplicemente dolcezza, come nella finale Into The Garden. Poi, ovvio, sono pur sempre i Parquet Courts, e nonostante una consapevolezza maggiore di ciò che possono fare, qualcosa all’energia e al frastuono devono pur cedere, come nella title track. Ma se l’aggressione è più contenuta, se la velocità è più quella di un boogie che non di una slam dance hardcore, ciò serve a dimostrare che la band è capace di scrivere brani godibili pur non risultando mai furba. Di cedere un po’ ad un classicismo rock senza cadere in tentazioni facilone. Al di là dei giri di parole, Sunbathing Animal è il degnissimo seguito di Light Up Gold. Là dove si è tolto in potenza, si è aggiunto in ampiezza, e la cosa fondamentale è rimasta: il grandissimo divertimento. Basta pescare nel mazzo e tirare fuori, ad esempio, una Black and White punk e “clappeggiante”, per rendersene irrimediabilmente conto. 7.3/10 Andrea Macrì 128 r e c e n s i o n i A g o s t o Parquet Courts - Sunbathing Animal (What’s Your Rupture?,2014) Edoardo Bridda Ismael - Tre (Autoprodotto,2014) A g o s t o Genere: cantautori, rock Fin dall’omonimo esordio – correva il 2008 – gli Ismael mi colpirono per la tensione letteraria e aspra assieme, un cantautorato rock di quelli che sanno regolare l’intensità e l’asciuttezza al giusto grado d’efficacia. Certo, in questi casi fa comodo avere in formazione un vocalist/chitarrista/compositore che è pure scrittore (Sandro Campani, già tre libri alle spalle di cui l’ultimo per Rizzoli). Ma se i testi possono vantare peso specifico e misura non proprio comuni, il piglio rock non passa certo in secondo piano, intrecciando trame ruvide, nervose e accalorate. All’epoca, tuttavia, non raccolsero i consensi che mi attendevo, forse perché nel frattempo gli anni Zero decidevano di consumarsi all’insegna della facinorosità sloganistica de Le luci della centrale elettrica, mettendo fuorigioco la loro idea di canzoni “narrative”. Il tempo però – si spera – è galantuomo, le buone gocce scavano la roccia e via discorrendo. Insomma, oggi che dal trio originale si è stabilizzata in quintetto (ottimo l’innesto dei sax di Piwy Del Villano), la band reggiana sforna un terzo album che porta a compimento un po’ tutte le premesse, undici tracce accorate e sferzanti col potenziale evocativo ben distribuito tra suggestioni liriche e sonore. Un’onda di piena che convoglia detriti De Gregori (nell’allegoria desertica di Canzone della volpe e nell’erratica Canzone del bisonte), rovelli cinematici col cuore infiammato (Palinka, il post-post-rock della strumentale Tema di / r e c e n s i o n i album di consistente fugacità, terribilmente affascinante in questo, sempre con una certa dose di imprevedibilità, dalle soluzioni povere ma nessuna dispensabile. 7.2/10 L u g l i o Minerva è un progetto che è evoluto secondo traiettorie piuttosto comuni: gli arrangiamenti si sono aggiornati, lo spostamento a New York ha coinciso con un timido spostamento di dinamiche (PS le novità sono sempre sbilanciate sul fronte londinese) e, ciò che più conta, nei testi e nel portamento, Juur tenta la difficile strada della songwriter a metà tra ritmi (breakbeat, post-garage) ed smalti sintetici. Così se Histrionic, anche quando tenta la strada dell’alternative r’n’b, non è l’ingenua hipsterata che qualcuno potrebbe immaginare, rimane comunque un prodotto a metà del guado che la profonda solitudine della Juur riesce solo in parte a sbilanciare (e figuriamoci capovolgere). La Astrova, all’opposto, non traduce alcuna tendenza, mette a fuoco una serie d’espedienti già affrontati negli EP precedenti, rimesta il tutto al servizio del solito, elusivo, gioco in sottrazione. Senza ansie da prestazione, l’ex Hype Williams sfrutta una culto costruito negli anni (Black Is Beautiful, per noi un classico anni 10) senza perdere di vista alcune glabre e alienanti necessità espressive. Assomiglia ad Actress in questo. E Darren Cunningham, in carne e ossa, è infatti presente in Advice For Young Girls, traccia il cui snippet era stato allegato nel messaggio di split degli Hype Williams su Soundcloud un anno fa. La forza di Because I’m Worth It si basa su semplici accostamenti: tra torridi sibili e morbose drum machine si stagliano piccoli tocchi luminosi (Faith OG X) e qualche obliqua nota ai synth, su pennellate di ricordi, Inga taglia corto con secche tribalità, effetti cheap e qualche cartografia urbana londinese, scenari pensosi, pennellate grigio brit, ancora, Actress che guarda dalla finestra. Come per la Minerva degli esordi, il dub indica alcune piste; da altre parti un deragliato approccio Portishead porta a brandelli di canzone (Diligence, Inga, Fit1) minimo comun denominatore espressivo di un 129 Irene), guittezza irruvidita tra Tenco e Conte (Canzone del cigno) e fregola art/punk col ritorno di fiamma languido (Se non a te). Altrove è una lotta tra cromosomi post-grunge e piglio jazzy (l’impetuosa Canzone per quello), uno spicciare sottrazioni psichedeliche e disincanto ieratico CSI (San Giovanni di Querciola), mentre Andiamo sfiletta a crudo un piglio Godano tra riff à la Jumpin’ Jack Flash conditi di sincopi nevrotiche, candidandosi d’amblé tra i migliori pezzi rock (in) italiano dell’anno. Album robusto e vibrante quindi, una moneta di quelle buone nel calderone rock d’autore nostrano. 7.3/10 / L u g l i o James Walsh - Turning Point (Pledge Music,2014) Genere: pop, brit, cantautori James Walsh ha avuto una carriera fatta di alterne fortune con i suoi Starsailor, nel senso che la prima metà della stessa è stata davvero di alto profilo (con Love Is Here e Silence Is Easy), perdendosi poi strada facendo con i successivi due album. Dopo un prevedibile momento di stop con la band, James si è concentrato su progetti personali e collaborazioni importanti (leggi Suzanne Vega) che lo hanno portato prima a realizzare un disco totalmente incentrato su un racconto dell’autore americano Palahniuk (Lullaby del 2012) e poi questo Turning Point, uscito per Pledge Music ad aprile. Si può dire che il Nostro sia tornato alle fortunatissime suggestioni dei primi due album, quelli più acustici e intimi per intenderci, accentuando il suo songwriting e soprattutto mettendo in evidenza la voce limpida e cristallina. In questo secondo disco solista c’è dentro probabilmente quella che è la vera anima di Walsh da un po’ di tempo a questa parte: de- 130 Stefano De Stefano Jonathan Richman - No Me Quejo De Mi Estrella (Munster Records,2014) Genere: pop, folk Oggettivamente versi come “café solo, café solo/la guitarra flamenca rubia/cafelate/ la guitarra flamenca negra” (dall’opener La guitarra flamenca negra) lasciano poco spazio a interpretazioni sulla totale assenza di profondità, nei testi così come nell’impegno, di questo r e c e n s i o n i A g o s t o Stefano Solventi licati accenni di soul, ballate di stampo folk che si colorano di arrangiamenti in forte odore Seventies. Su tutto c’è il pop a farla da padrone, nella accezione nobile del termine: si potrebbe infatti parlare tranquillamente di undici potenziali singoli. C’è spesso una precisa intenzione, ovvero quella di spingere sul pedale dell’emotività e della coralità attraverso una costruzione della perfetta pop song che parta in sordina per poi crescere in un climax sonoro; Paolo Nutini, James Taylor e Van Morrison sono alcuni dei riferimenti che si possono trovare in Turning Point (se facciamo finta di non percepire, in un paio di casi, una chitarra in perfetto stile The Edge). Tra i momenti da segnalare in un disco di pregevole fattura, ci sono il malinconico ritornello killer dell’acustica Broken You, l’intenso duetto con Suzanne Vega (squadra che vince non si cambia) nella slow soul ballad Firing Line e poi ancora l’incedere maestoso di Fading Grace, che con quel refrain così lirico si candida ad essere il momento più intenso di tutto il disco. Better Luck Next Time chiude il cerchio con una morbidissima ballata sporcata ancora una volta da umori soul: parafrasando il titolo, possiamo tranquillamente affermare che non c’è bisogno di aspettare la prossima volta. Con questo album James Walsh è già fortunatissimo. 7.2/10 Joseph Arthur - Lou (Vanguard,2014) A g o s t o Genere: cantautori, rock, folk L’idea stessa di un tributo a Lou Reed è quanto di più ozioso si possa concepire, dal momento che fanno una quarantina d’anni (abbondanti) che il rock paga ogni giorno tributo al fu scontrosissimo genio newyorkese. Nel caso di Joseph Arthur, c’è da mettere in conto però un’amicizia reale che si esplicita fin dal titolo, un “Lou” intimo ed essenziale proprio come la veste sonora dei dodici pezzi pescati dal repertorio reediano. Lo stesso Arthur dichiara di averli selezionati in base ai propri gusti personali su esplicito invito di Bill Bentley, boss della Vanguard Records, con l’intenzione di ricavare il massimo dell’autenticità emotiva dall’operazione. C’è da credere che sia andata realmente così, a giudicare da come il buon Joseph ha saputo sfrondare la propria naturale ipertrofia espressiva aggirandosi tra le melodie e quei testi lancinanti con la più accorta devozione. Sembra proprio un disco suonato (chitarra e / r e c e n s i o n i Marco Boscolo piano) e cantato con gli occhi socchiusi, nel tentativo di cogliere i riverberi e le sfumature di canzoni che dopo tanti anni sono ancora in grado di liberare energie nuove. A partire dalla opening Walk On The Wild Side ovviamente, così diafana e vibrante che sembra esalare dai marciapiedi della Grande Mela come un fantasma dolciastro. Tra i titoli spicca la presenza di ben due tracce da Magic And Loss (la title track e la formidabile Sword Of Damocles), scelta forse dettata in parte dall’età anagrafica di Arthur – che ai tempi dell’uscita dell’ultimo capolavoro di Reed aveva quei ventuno anni giusti per restarne intrappolato (al sottoscritto accadde più o meno la stessa cosa) – ma anche perfettamente in tono con l’atmosfera elegiaca. Su questa falsariga ad esaltarsi sono come era prevedibile i momenti a più alto tasso di languore, come Stephanie Says (da lacrime), Pale Blue Eyes e la meravigliosa (inutile fingere distacco) Coney Island Baby, così come una NYC Man resa struggente dal piglio morbido e sornione. Altrove affiora un pizzico di prevedibilità, soprattutto in Dirty Blvd. e Satellite Of Love, mentre Heroin semplicemente si avvicina troppo alle corde dell’originale (già abbastanza scarna di suo) per non soffrirne il confronto. In ogni caso Arthur riesce a tenersi sempre in piedi, sceglie di abbandonarsi con la disinvoltura di chi non nasconde di avere ben poco da perdere e ancora molto da ringraziare. Come tutti noi. 7.1/10 L u g l i o nuovo disco per Jonathan Richman. Non c’è nulla di male a prendere la vita con leggerezza, anche con un certo scazzo (come hanno insegnato i Pavement, non è per forza una scelta artisticamente negativa), ma l’infatuazione da cui sembra essersi disintossicata Josephine Foster, sembra invece aver colpito da un po’ di tempo Richman, che per questo disco ha fatto ricorso alle sue esperienze flamenche in terra di Spagna. Tanta ironia, più cercata che trovata (vedi alla voce No one was like Vermeer), e un giro latino tra Andalucia, jaleo e Gipsy Kings. Nessuno dubita del talento che si nasconde sotto quello sguardo fintamente distaccato, ma c’è da domandarsi se questo “regalo per i fan spagnoli” sia più una punizione che un atto d’affetto vero. 5.5/10 Stefano Solventi Kein - In Bloom (Audiobulb Records,2014) Genere: ambient, glitch Primo full-length dopo due extended plays, per l’italiano Kein, artista che bazzica l’idm con un occhio alla performing art. In Bloom è composto da sette tracce di microhouse, lievi 131 / L u g l i o Genere: hiphop Se i Death Grips hanno rappresentato una supernova nel panorama alternative hip hop internazionale, e i clipping stanno rapidamente prendendo il loro posto con un mix altrettanto eclettico e frontale, gli Shabazz Palaces stanno proprio su un altro pianeta e non solo per attitudine di base – quell’approccio spaced out che da sempre li contraddistingue – ma proprio per inimitabilità e ricchezza della formula. Il portato jazz rap dei Digable Planets e il funk dei Cherrywine, entrambe formazioni di cui Ishmael Butler faceva parte, unito agli strumenti zimbabweiani e alle percussioni di Tendai ‘Baba’ Maraire, i synth e i campioni di entrambi, costituiscono fin dall’esordio, Black Up, l’ossatura di un progetto che è qualcosa di più della somma delle singole parti. Lo scarto che separa l’approccio “in chiaro” nel rappato e negli arrangiamenti delle precedenti esperienze di Ish, come la distanza tra il fantomatico collettivo e l’indie di casa Anticon, cLOUDDEAD in testa, è grossomodo la distanza che ci separa dai 90s e dall’inizio del 10s. Negli Shabazz Palaces, pur non negando i fondamenti dell’attitudine libera degli Antipop Consortium degli esordi, siamo oltre l’indieness, oltre le dialettiche tra establishment e alternativa. Il duo di Seattle si pone in modo originale rispetto a certa frontalità hip hop preferendo una conduzione fatta di rappato suburbano astratto, ritmi morbidi che non si fanno mancare qualche “bassone”, in generale un’abbondanza di synth ondivaghi e voci in echo in “layeraggio” caleidoscopico psichedelico, anche pastorale e in senso indietronico se vogliamo, e di fatto lo sguardo è sempre puntato altrove, alle stelle, ad altri pianeti. Lese Majesty, il nuovo disco, continua il loro viaggio con uno sguardo se vogliamo ancora più rotondo, cosmico. Rimangono le imperscrutabilità, i testi cubisti, i paraventi colorati, i cori (non più la voce) di Catherine Harris-White delle THEESatisfaction, e il via vai di vocalizzi nello spazio, eppure qui le strutture sono più rispettate che depistate, all’etno subentra il sintetico, il cinematico demodé, persino un tocco disco-punk (MindGlitch Keytar TM Theme). I brani, imbottiti di polveri e stelle, filano tutto sommato più lineari rispetto all’esordio ed anche qui gli spunti sono tanti, generosi, geniali, parti di un nuovo eccitante mosaico sonoro da ascoltare dall’inizio alla fine, come l’hip hop sognato a occhi aperti da Dave Fridmann. 7.5/10 Edoardo Bridda glitch, minimal in 60 bpm o poco più, tra ipnosi e placenta. Il metronomo lento indica pulizia del suono come pure poca creatività. Si tenta di superare la scansione del ritmo esibendo oscillazioni più animate, ambienti (Look Af- 132 ter Me) e abboccamenti groove (Brixton Rd.), finendo però in un impero di mezzo fra dream pop e classica. Su tutte Sugar, per il rotto della cuffia, dona caustici spazi un po’ dark un po’ balearic, tutto in punta di fioretto, percependo r e c e n s i o n i A g o s t o Shabazz Palaces - Lese Majesty (Sub Pop,2014) quasi sempre l’ombra di un Trentemøller o di un Kettel meno giocherellone. Meno rispetto e molta più audacia. 5.5/10 fiamma della prolificità è ancora lontana dallo spegnersi. Risultato non proprio raggiunto. Per appassionati. 5.8/10 Andrea Murgia Genere: rock Trentuno anni passati con i Melvins contornati da più di trenta dischi in studio non hanno fatto passare la voglia di divertirsi al buon vecchio King Buzzo. Con un titolo che cita e quasi sbeffeggia il noto messaggio appuntato sulla chitarra del folkman Woody Guthrie, This Machine Kills Artists raccoglie diciassette tracce acustiche – sì, avete capito bene – registrate senza l’utilizzo di chitarre elettriche, amplificatori e direct imput. Niente elettricità è sinonimo di meno potenza? Nient’affatto, anzi. Dotato di una manina non proprio leggerissima, Buzzo va giù pesante suonando la sua fida Buck Owens American acoustic come se stesse brandendo un’ascia bipenne. Affermando di non avere “nessuna intenzione di suonare come una versione merdosa di James Taylor“, Buzzo non si discosta in realtà tantissimo dal songwriting apprezzato nella sua produzione con i Melvins, condividenso stesso peso specifico e iconoclastia. Con un alternarsi di momenti ispirati (Rough Democracy, Laid Back Walking e How I Become Offensive) e episodi non proprio riuscitissimi (Vaulting Over a Microphone), This Machine Kills Artists risulta tuttavia troppo discontinuo e a volte caricaturale, con un Osbourne sì divertito, ma forse fuori luogo. La sensazione di fondo è che l’esordio solista di Buzzo sia in realtà una collezione di canzoni scartate nel progetto madre. Il disco acquista ascolto dopo ascolto le fattezze quasi di un capriccio, giusto per mostrare ai più che la Genere: pop, art Lighght è il secondo album solista di Kishi Bashi, un nome che non suonerà sconosciuto a chi segue gente come Of Montreal (di cui è il volinista) e Jupiter One (progetto parallelo di upbeat indie pop). Il rischio di trovarsi davanti a un lavoro in cui lo strumento principale del musicista la facesse da padrone era certamente ragionevole, ma spazzando via ogni paura possiamo affermare che qui c’è l’abbecedario di un certo pop “scrauso”, contaminato e sbilenco che mostra il fianco alle più varie inclinazioni. Certo, il pop è un macrogenere così vasto che bisogna pur dare dei riferimenti. E allora diciamo che i maestosi umori campestri a metà tra Dry The River e Los Campesinos dell’iniziale Philosophize in it! Chemicalize with it! depistano l’ascoltatore, perché in un attimo si è già sul dancefloor con la successiva The Ballad of Mr. Steak, scandita da una cassa a terra che fa il paio con suoni sintetizzati e coretti in falsetto (occhio al ritornello killer). E’ un continuo patchwork sonoro in cui il violino è messo al servizio della forma pop senza mai eccedere, e anzi mischiandosi all’uso massiccio delle tastiere; è il caso di un brano come Carry On Phenomenon, all’interno del quale convivono diverse suggestioni 70′s, dagli ELO a un certo Phil Collins solista. Indie pop, prog pop, electro pop: tutto rientra nel macrogenere di massima fruzione musicale, tanto che persino la ballata folk di donovaniana memoria riesce a trovare il suo momento (QandA, brano di una bellezza assoluta). A g o s t o Kishi Bashi - Lighght (Joyful Noise,2014) / King Buzzo - This Machine Kills Artists (Ipecac Recordings,2014) L u g l i o r e c e n s i o n i Christian Panzano 133 / L u g l i o Genere: ambient, electronica Da una parte, Mantova, i Tempelhof. Dall’altra, Venezia, Gigi Masin. Scintilla nata per caso, o quasi, con Marco “Peedoo” Gallerani di Hell Yeah a fare da tramite. Il duo mantovano, Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani, che con l’etichetta di Ferrara lavora dal 2012, inizia il suo percorso post-rock elettronico con We Were Not There For The Beginning, We Won’t Be There For The End, per Distraction Records, nel 2009. Poi, con Hell Yeah, oltre ai numeri in extended play, anche un album, Frozen Dancers. Gigi Masin debutta con Wind, nel 1986. Una magnifica raccolta di immagini di wilderness analogiche che segnano una carriera, ormai trentennale, fino ad arrivare alla recente riscoperta di certo suo materiale da parte dell’olandese Music From Memory, che rilascia la retrospettiva Talk To The Sea. Due parabole artistiche che si uniscono, oggi, con Hoshi. Dieci tracce che sono disegni pastorali, slanci umorali che si perdono tra le nuvole, raggi di luce sintetica dopo la tempesta. Immagini che difficilmente mettiamo a fuoco, non c’è solamente la laguna, non ci si ferma alla sconfinata piana emiliana. Si va oltre. Un viaggio, dalle pianure nascoste dalla nebbia e bagnate dalla pioggia (Jolla, The Dwarf ) agli orizzonti infiniti squarciati dal sole (My Velvet Book), fino a toccare gli antipodi, l’oriente irraggiungibile, sognato sulle cartoline (Red Venus). E probabilmente proprio per queste sue suggestioni, per questa sua vena disincantata, immaginifica, il disco si presta ai paralleli con tutte quelle opere d’arte che costruiscono visioni partendo da un segno, un gesto, un frammento sonoro. Si riconosce, almeno per chi scrive, la stessa sensibilità del Luigi Ghirri – non a caso, nato a Scandiano, provincia di Reggio Emilia – che concepisce l’Atlante, e che ferma nello spazio di una fotografia tutto quel cinema, quegli odori e quelle sensazioni che una mappa geografica si pensava non potesse rilasciare. Una lente sfocata, ingrandita in maniera esponenziale su un dettaglio, un simbolo, un toponimo. Significanti, quindi, che lasciano i significati liberi di perdersi nel vento. Così, Masin e i Tempelhof si muovono nella notte accennando motivi jazz (Interstellar Bop), vagabondeggiano in mitteleuropa (Joe Jordan), si tuffano negli oceani (Silver Wave, Buena Onda) e tornano a casa, alla campagna rarefatta, accompagnati dal lamento nostalgico di un pianoforte (Bow Down, She Left Home). Poco importa chi ha fatto cosa, dove è iniziato il lavoro di Masin, dove è finito quello di Ermondi e Mazzacani. Quello che importa è che – tra gli echi di mondi distanti, le voci leggere come l’aria, le fantasie sintetiche – emerge un gran disco. 7.6/10 Elia Galli Senza scendere in eccessivi barocchismi l’ascolto di Lighght scorre liscio per tutta la prima parte, perdendo qualche colpo nella 134 seconda metà, dove prevale una certa cupezza nei suoni e una scrittura maggiormente ripiegata su sé stessa. Un buon esempio è il brano r e c e n s i o n i A g o s t o Tempelhof - Hoshi (Hell Yeah,2014) Hahaha pt. 2, pieno di acidissime dilatazioni floydiane date dallo spiazzante miscuglio di armonizzazioni Sixties, tastiere e batteria vintage. Questo secondo lavoro di Kishi Bashi è un buon esempio di pop schizoide che non offre mai alcun punto di riferimento: da provare. 6.8/10 Stefano De Stefano / A g o s t o Genere: pop I Kitten, che fortunatamente non sono né le oscene Kittie aggiornate all’era dei gattini su Instagram, né le Atomic Kitten riunite in versione atomic-free e neppure quella Kitty in questi giorni con loro in tour e lanciata dal recente singolo Marijuana, provano a liberarsi dell’etichetta di eterna promessa mai concretizzata con un – lungamente atteso – omonimo album di debutto. Seguendo la sempre più frequente tendenza usa and getta che vede alcuni artisti passare di moda – o quanto meno perdere dosi di hype – ancora prima della release dell’esordio lungo, i Kitten danno alle stampe la prova del nove con parte di quei media che li hanno supportati inizialmente già intenti a guardare altrove. Rallentati da problemi di formazione (tre membri sono passati definitivamente ai FIDLAR), i Kitten hanno probabilmente perso il treno giusto e a conti fatti è un vero peccato perchè come si era già intuito dagli EP Like a Stranger (2013), Sunday School (2010) e soprattutto dal Cut It Out EP di due anni fa, il progetto che ruota attorno alla figura della cantante Chloe Chaidez non difetta certamente della capacità di tirare fuori dal cilindro potenziali pezzi pop di successo. La giovanissima Chloe Chaidez – “Been waiting for this moment for nearly 5 of my 19 years” ammette sulla pagina Facebook della band – ha indubbiamente talento, anche se L u g l i o r e c e n s i o n i Kitten - Kitten (Elektra,2014) va detto che l’età in alcune tracce gioca brutti scherzi, innalzando una fastidiosa patina teen che tende a privare di spessore un progetto che comunque non ha certo intenzione di portare un forte contributo artistico alla musica contemporanea. Quello che conta, in un ambito come quello in cui si muovono i Kitten, sono le canzoni, e le canzoni fortunatamente non mancano. Kitten, che per metà eredita brani dagli EP precedenti (gli highlights Like a Stranger, I’ll Be Your Girl, Doubt, Cut It Out, G#, Kill the Light), non si muove su coordinate troppo distanti da quel concentrato di synth e chitarre che era Night Time, My Time di Sky Ferreira, alternando con furbizia riferimenti ’80-’90 e sviluppi melodici da classifica. I momenti eighties sono indubbiamente quelli che regalano i maggiori sussulti – specialmente l’accoppiata degna della Madonna del decennio degli one hit wonders formata da Like a Stranger e Doubt – grazie ad una produzione sicuramente a grana grossa ma non per questo “tamarra”. Merita invece un capitolo a parte Cathedral, vicina ad un certo tipo di goth-pop e contenente un prorompente assolo di sax. Se Why I Wait è l’episodio meno revivalistico con un set elettronico figlio delle intuizioni targate Purity Ring, poco invece è rimasto dei primi vagiti popgaze via-Garbage (se non la già apprezzata epicità ad altezza M83 di G#), sostutiti da un paio di incursioni in zona funk-pop – la virata da cocktail sulla spiaggia di Sex Drive e Devotion, brano che probabilmente non dispiacerebbe a Samantha Urbani – e dalla poco convincente ballad acustica dal retrogusto mid-90s Apples and Cigarettes. In definitiva siamo di fronte ad un buon disco pop che svolge umilmente e degnamente il proprio – non così facile – compito, e non è detto che quel famoso treno non torni a passare. 6.1/10 Riccardo Zagaglia 135 / L u g l i o Genere: synthpop, electronica Fissati con il binomio pop ed elettronica analogica, con predilezione per la fatidica forbice temporale ’78 / ’84 spesso in declinazione ballabile EBM di stampo D.A.F. e Front 242, applauditi da uno spirito affine come John Foxx ma anche da un artista elettronico come Philippe Laurent, gli Xeno and Oaklander, coppia lui/lei composta da Liz Wendelbo (francese di nascita ma cresciuta in Norvegia) e dall’americano Sean McBride, sono da sempre legati alle wave storiche ma hanno saputo infondere al loro interno un personale romanticismo, melanconico e tutto mitteleuropeo, oltre alla peculiarità e alla coerenza di un progetto che, con il quarto album Par Avion, compie dieci anni d’attività. Il nuovo lavoro, anticipato alla stampa sotto lo slogan “postcards of love for a cold age” e missato da Chris Coady (quello, tra le altre cose, di Cherish The Light dei Cold Cave), introduce elementi luminosi e barocchi al ballabile minimalismo del sound (oltre all’uso di un synth modulare della Serge con risultati “shoegaze”), una piccola svolta che si rivela un preciso scarto rispetto al precedente Sets and Lights e una perfetta quadratura del cerchio. L’electro in 4/4 lì approfondito – presente anche da queste parti in brani come Sheen - trova, in generale, armonizzatori piegati su domestici 8bit giocattolo (Interface) o stesi su layer drappeggio melodico con colori, sfumature e intrecci di buona compattezza e spessore. Da più parti tornano alla mente i Depeche Mode più innamorati dei Kraftwerk (Lastly), anche se il duo, nel refrain iniziale del brano che dà il nome al disco, ci ricorda anche quanto sia ancora potente nella sua poetica e nella contemporaneità (vedi la colonna sonora di Drive, un brano come Tick of the Clock dei Chromatics) un preciso immaginario elettronico minimale fatto di circolari vibrazioni analogiche condite con visioni (retro)futuriste. D’altro canto, quando le cose si fanno assai stoiche, il duo da sempre stempera e bilancia con il consueto affascinante canto dream à la Jane Birkin o Françoise Hardy della Wendelbo o con il vocalizzo più à-la-Phil Oakey-narcotico di McBride, caratteristiche queste che, assieme agli inediti intrecci armonici (ottimo anche lo strumentale Providence) e tutto un oculato gioco chiaroscurale di stampo barocco, fanno di questa prova l’album più efficace finora prodotto da Xeno and Oaklander. 7.2/10 Edoardo Bridda Klaxons - Love Frequency (Akashic Records,2014) Genere: rock, indie, rave Riascoltandolo oggi, Myths Of The Near Future, al netto di tutto il rumore di fondo (la grande sbornia del nu rave, i confronti impa- 136 ri con i Faint, i primi singoli incendiari vs il falsetto 80s kitsch ecc.), rimane un epico disco pop. Aveva i brani, diverse anime, melodie appiccicose e pontificava egregiamente l’avvenuta transizione all’elettronica – e alle “produzioni” – dall’energia grezza del post-punk r e c e n s i o n i A g o s t o Xeno and Oaklander - Par Avion (Ghostly International,2014) Edoardo Bridda La Madonna di MezzaStrada Lebenswelt (il mondo della vita) (La Fame Dischi,2014) A g o s t o Genere: indie, wave, post-rock, folk Sestetto perugino attivo dal 2008, La Madonna di MezzaStrada fa folk strutturato e arrembante, con due violini, piano e synth a svariare sulle trame energiche di chitarra-basso-batteria. L’obiettivo sembra essere quello di mettere a punto un cantautorato combattivo, dal segno forte e disposto alla complessità sonora di derivazione psych-prog (la spersa, desertica e trasognata Io), anche se si finisce per fermarsi alla linea evolutiva del tardo post-rock (ma già ampiamente rientrato nei ranghi della canzone canonica). Capita cioè di pensare all’estro arty evocativo e nervoso dei Venus (Le vite degli altri), quando non a dei CSI che hanno imboccato la china cinematica dei Dirty Three (Regione), o ancora ad un impeto lunare Waterboys inciampato nel rockismo Battiato altezza L’imboscata (Il mondo della vita). E’ questo il lato migliore della proposta, quando cioè dimostra apprezzabili capacità evocative, tanto nel piglio espanso degli arrangiamenti quanto nell’attitudine ad avventurarsi senza stradario in digressioni ipnotiche e trasognate. Però poi t’imbatti in una verve da figliocci didascalici di Ferretti, uno sdegno critico da pamphlet che sfiora l’invettiva e smorza le ali della suggestione, roba che soprattutto quando / r e c e n s i o n i nostalgica/sci-fi che Jamie Reynolds, James Righton e Simon Taylor-Davis hanno in mente. Sfuggono alle critiche più severe Rhythm Of Life e Children Of The Sun, dai pigli più decisi che sembrano liberazioni; in verità, sono brani appena discreti all’interno di una scaletta che si strozza con gli strati di un patetico prima cavalcato e ruggito e ora soltanto subito. 5/10 L u g l i o revival d’inizio decennio. Inoltre, ritornando sul travagliato seguito – Surfing The Void – come già affermavamo al tempo, impossibile non pensare al miracolo. Sperimentare con successo un’evoluzione in complessità di quel (contraddittorio, kitsch, ultra stratificato) sound che toccasse, tra le altre cose, anche il nu metal, oltre a tentazioni prog Muse annesse e connesse – sembrate, sulla carta, il più sadico dei suicidi – si rivelò un ottimo collante di mondi, anche molto distanti, come l’hard rock degli Zeppelin e la disco o la techno o, ancora, la psichedelia. Detto questo, c’è sempre stato alla base del progetto un ineludibile strato di patetica autoreferenzialità melodica: tutti quei falsetti imbalsamanti e sparati al cielo, gli strati di tastiere psych-glowstick, per non parlare della pomposità di certi arrangiamenti, sono limiti più volte sfiorati, anche toccati, eppure, bellamente svoltati a botte di ayahuasca, produttori e tanta energia. In Love Frequency molti di questi nodi vengono al pettine amplificandosi, purtroppo, per carenze melodiche. Il disco non ha grandi numeri pop da offrire: inizia con le deboli strofe new age di New Reality imbottendole di tastiere emozionali e riff da autoscontro, punta su un frigido singolo come There Is No Other Time che lavora sull’omonimo ritornello, la solita base discomusic e arrangiamenti fin troppo noughites, revival involontario che ritroviamo anche in un pezzo come Show Me A Miracle, episodio dal maggior piglio melodico ma fermo al 2007 e con un altro ritornello assolutamente dimenticabile. Con James Murphy, la cui presenza è palpabile in Out Of The Dark o in una psych song dalle parti degli MGMT come The Dreamers, le cose non vanno meglio. Il ruolo dei produttori del resto – presenti anche il Chemical Brothers Tom Rowlands e Erol Alkan – è funzionale a questa ampollosa idea pop confidenziale/ 137 si accompagna a formalismi hard/prog abbastanza risaputi (Mosche, Piccoli drammi) conduce ad un millimetro dalla pelosità retorica. Non mancano quindi i motivi di interesse, ma urge una scelta di campo: difficile far conciliare epica ed etica senza prendere le distanze dal canovaccio ozioso del Primo Maggio. 6.3/10 Stefano Solventi / L u g l i o Genere: pop Incipit. “Le avventure di un giovane i cui principali interessi sono lo stupro, l’ultra-violenza e Beethoven”. (da Arancia Meccanica di Anthony Burgess) Riassunto delle puntate precedenti. Mrs. Grant si afferma alcuni anni fa, cavalcando l’onda dell’hipsterismo mainstream, per cui basta avere la coroncina di fiori e l’aria annoiata/riluttante alla Marla Singer per essere cool; lo fa appoggiandosi (ebbene sì) anche alla musica: una musica che racconta storie languide di vita urbana, di amori e di uomini trattati a bastonate dalla tosta dal cuore tenero Del Rey; una musica che, abbagliata dal retro-pop 50s (?) o 90s (?), punta(va) su piccole scie elettroniche, su una ritmica corposa e riverberata e, soprattutto, sulla forza catartica e catalizzante dei suoi anthem. E le radio, ben più che le ragazzine, ci sono cascate. Poi, sempre per la serie “il mainstream che ha bisogno di indiezzarsi“, anche la Del Rey (come già Adele, Beyoncé, Kanye and tutto il gruppo, Diplo and tutta la combriccola e, molto probabilmente, dal prossimo album, anche Madonna) ha pensato bene di portare dentro una figura dell’upside mondo parallelo e complementare: Dan Auerbach dei Black Keys. Il chitarrista dell’Ohio si è fatto trascinare nel progetto del nuovo disco della Del Rey in qualità di produttore, con il fine di 138 r e c e n s i o n i A g o s t o Lana Del Rey - Ultraviolence (Interscope Records,2014) “chitarrare” e rendere più graffiante il sound mieloso-cuoricini-e-bollicine del precedente Born To Die. Il punto è che il buon Auerbach è stato chiamato dentro a disco bello e finito, quando il suo lavoro poteva limitarsi solo alla tappezzeria. Intermezzo. Due lati della promozione di UV. Uno, il visual. Lana Del Rey, prima di arrivare ad un album potenzialmente indirizzato a una fetta se possibile ancora più ampia di fan, è passata attraverso la felice esperienza del visivo. Da sempre la cantante newyorchese ci ha abituati (deliziati? torturati?) con una varietà di stili (di look, di palco, di Twitter) che sono diventati iconici. Ma la vera sorpresa è stato il corto Tropico, lanciato a dicembre forse un po’ per creare aspettativa su Ultraviolence. Neon, colori accesi e strane storie mitologico-religiose sono sembrati onesti risultati di un sentire comune che sulle coste occidentali e orientali degli USA sembra andare per la maggiore (leggere alla voce Spring Breakers, che, di certo, a uno come Lynch, regista del seminale Mulholland Drive e fan della Grant, deve un bel po’). Due, il cattivo gusto. Quello che, a pochi giorni dall’uscita del disco, le ha fatto confessare ai media che Brooklyn Baby doveva essere cantata con Lou Reed praticamente il giorno della sua morte. Non una mossa onorevole, diciamolo. Eppure ci abbiamo tutti un po’ creduto o sperato. Abbiamo quasi apprezzato il singolo West Coast: un up-tempo metropolitano che all’inizio ricorda Disintegration, poi il garage in versione intimista di qualcosa intorno a Jack White: la voce non più annoiata - che nel bridge ricorda quasi la sua gemella buona Florence Welch – risalta sul delay dell’elettrica. Svolgimento. La narrativa che sta alla base di Ultraviolence è già stata esposta in Born To Die e nelle frequenti interviste: non c’è femminismo o neo-f. (come in Beyoncé), non c’è finta trasgressione (come nella Cyrus) e non A g o s t o r e c e n s i o n i / raneità, della solita languidezza senza speranze, dello pseudo-jazz, female-diva orchestrale: il tutto contribuisce a rendere Ultraviolence decisamente meno attuale di Born To Die. La Del Rey si è schierata e ha detto di preferire il neoclassico alla sperimentazione, il patinato e laccato al groviglio, la tradizione all’avanguardia. Sì, forse in questo disco c’è più musica suonata rispetto al precedente, c’è più consapevolezza e, sicuramente, meno spocchia, ma la corona e lo scettro del video di Born To Die giacciono ai piedi di un revival di cui nessuno sentiva veramente il bisogno. Ascoltare Pretty When You Cry, Fucked My Way Up To The Top, Old Money, ecc. per intero sembra davvero un’impresa. Epilogo. L’impressione è che Lana sia caduta nella trappola del suo peggior difetto: quello di risultare estremamente noiosa, al di là del gusto personale che può far odiare o amare il suo stile canoro. Lo è fin troppo in Ultraviolence, perché si impegna ad essere diva in bianco e nero; s’impegna a ringiovanire l’age d’or dei locali fumosi, si re-ispira a Blue Velvet di Lynch, si fa contaminare dal finto-gotico dei colossal d’animazione come Maleficent (in cui canta una canzone della Bella Addormentata Nel Bosco), si illumina di beat e post-beat generation senza sfogliare mai una pagina di Ginsberg, si porta dietro il rumore dei party in declino a bordo piscina, poco prima di assistere alla fine de Il Grande Gatsby con Young and Beautiful. A poco vale una preziosa Florida Kilos, scritta insieme ad Harmony Korine, che avrebbe potuto far svoltare il disco verso un malumore esistenziale più schizoide, grottesco e tossico. Ultraviolence rimane orgogliosamente in contro-tendenza rispetto a tutto, ma è un controtendenza che fa fatica ad appartenere a qualcuno. Perlomeno sul piano musicale. 5.9/10 L u g l i o c’è nemmeno voglia di aggiornarsi e rimettersi in carreggiata (come in Katy Perry e Lady Gaga). La Del Rey di Ultraviolence ragiona (o vuole ragionare) come una gangster in tailleur, come una Nancy Sinatra con i denti di ferro e i tatuaggi sul braccio. Ed ecco dunque: “I’m a sad girl/I’m a bad girl” in Sad Girl, “He hit me and it felt like a kiss” nella title-track e il poetico manifesto del disco “I want Money Power Glory“; per non parlare di Fucked Me Way Up To The Top (“I’m a dragon, you’re a whore“), in cui sembra prendersi in giro da sola o Guns And Roses, punto di non ritorno del “tamarrismo”, in cui fra “Heavy Metal [...] You were so much better then the rest of them” e “He loved Guns and Roses“, Lana dà veramente il meglio di sè. L’album è effettivamente più “chitarroso” di Born To Die. Epurato qualsiasi salto nell’”elettronichina”, Auerbach pare si sia voluto concentrare sull’insieme delle quindici canzoni, più che affondare col coltello blueseggiante nelle singole, come ci si sarebbe aspettato. Il suo lavoro si limita a rendere più profondi i suoni, a regalare dei poco memorabili assoli di chitarra, a far suonare la batteria più secca, togliendo quei bellissimi riverberi del precedente disco. L’apertura, affidata a Cruel World - che col titolo e la durata (quasi sei minuti) sembra richiamare ancora i Cure -, è un songwriting equilibrato, quasi rurale, con le chitarre che sembrano quelle dei Mazzy Star e la voce biascicata (e quasi stonata) che fa pensare a Nico. Ci illude ancora. Ci illudono le successive Ultraviolence e Brooklyn Baby, l’una che vuole ricalcare gli anthem del disco precedente (riuscendoci in parte), l’altra che si prende gioco degli hipsterismi newyorchesi con Lou Reed nelle corde e un aplomb 60s che quasi la salva. Shades Of Cool segna, invece, il solco che seguiranno le successive canzoni del disco. Un solco all’insegna della non contempo- Nino Ciglio 139 / L u g l i o Genere: pop Vecchie volpi dell’indie-pop italiano i Le Man Avec Les Lunettes, tornano con un nuovo album di delicata fattura. Lontana dalle scene da ben tre anni – l’ultimo Ep, Sparkles, è infatti datato maggio 2011 – la band italiana continua, con risultati davvero apprezzabili, la propria ricerca nei territori del pop di classe, tenendo come stella guida sempre i pilastri The Beatles, The Beach Boys e Belle And Sebastian. Raffinati negli arrangiamenti e nel songwriting, in Make It Happen i Le Man Avec Lunettes sfornano con facilità – caratteristica che li ha sempre distinti e fatti apprezzare – tracce convincenti, come l’opener Former Leader o Dancing All The Night, a metà strada tra i baronetti di Liverpool e i tessitori di melodie più famosi di Scozia. Make It Happen è una gioia per le orecchie: non stanca mai, è leggero quanto basta e dimostra che anche in Italia si può fare del gran pop senza scadere in cliché o smancerie. Il pericolo più grande per i Les Man potrebbe essere quello di sentire un po’ la pancia piena dopo dieci anni di carriera, ma se continueranno a scrivere con questa passione e mestiere, ne vedremo ancora delle belle. 7/10 Andrea Murgia Lee Fields and The Expressions - Emma Jean (Truth and Soul,2014) Genere: soul Una tra le conseguenze più interessanti e positive dell’esplosione del movimento nu soul e nu r'n'b è stata sicuramente la rivalutazione e la scoperta di quei musicisti che hanno lavorato per tanti anni lontani dalle luci della ribalta, offuscati magari dallo sbrilluccichio di quei 140 grandi profeti del genere che hanno monopolizzato scene e platee. Dopo il fortunato caso di Charles Bradley – autore di una cover da applausi di Changes dei Black Sabbath per il Record Store Day e ospite quest’anno al Primavera Sound di Barcellona nella programmazione dello stage Ray-Ban -, anche Lee Fields è stato ripescato e reso fruibile ai più grazie al lavoro della Truth and Soul Records. Classe 1951, il cantante del North Carolina può vantare una carriera lunga ben quarantré anni, che gli ha permesso di condividere il palco con pezzi grossi come Earth, Wind and Fire e Sammy Gordon. Little J.B, nomignolo affibbiatogli per l’incredibile somiglianza con il Godfather of Soul James Brown, torna quindi a distanza di due anni da Faithful Man con un nuovo disco, lavorando di mestiere e dispensando in 43 minuti piccole perle di classe cristallina. Accompagnato anche qui dai The Expressions – back drop band già al lavoro con Jay-Z, Adele e Aloe Blacc in Good Things - Lee Fields indossa l’abito migliore, rendendo omaggio ai grandi del passato, come i preferiti del maestro Quentin Tarantino, The Delfonics (Paralyzed), e Otis Redding (Eye To Eye), e mostrando personalità incredibile e un songwriting maestoso. Si parlava di cover in precedenza e Fields rilegge – in maniera molto fedele, in realtà – il JJ Cale di Magnolia, ma con un cantato da sverniciare le pareti. Chiude la partita Don’t Leave Me This Way, struggente saluto alla madre Emma Jean a cui l’intero disco è dedicato Come sia rimasto in passato nelle ombre impietose dello showbiz resterà un mistero, ma Lee Fields, con Emma Jean, almeno si è assicurato un dignitoso presente. 7.4/10 Andrea Murgia r e c e n s i o n i A g o s t o Le Man Avec Les Lunettes - Make It Happen (We Were Never Being Boring Collective,2014) r e c e n s i o n i Genere: elettronica, experimental La ricerca sonora collezionata in questo Overtones da Mario Conte si concentra sull’interazione tra suoni digitali e strumentazione acustica, o meglio, nelle parole dell’autore, sulla “reinterpretazione del suono come fenomeno fisico naturale”. In soldoni, partire da registrazioni di suoni “reali” e trasformarli in via digitale, in un incontro/scontro in cui ai beat elettronici corrispondano percussioni reali, ai synth faccia da specchio un corrispettivo sonoro “naturale” particolare, ai field recordings seguano rielaborazioni in studio e alla presa diretta con cui molti degli “strumenti” analogici sono stati catturati, succeda l’editing in fase di post-produzione. Da un lato le percussioni etno-rurali delle “cupa cupe” pugliesi colte nelle lunghe improvvisazioni del collettivo Cupe Trance diretto da Pino Basile o i suoni alieni del Sea Organ di Nikola Basic eretto a Zadar, in Croazia; dall’altro il lavorio di studio che, con l’aiuto di Climnoizer e Alessandro Quintavalle (l’altro fondatore di Zoff82), ha plasmato, destrutturato, riassemblato, risemantizzato e decontestualizzato i suoni “naturali” precedentemente catturati, in una perfetta interazione tra ambiente naturale e laboratorio “scientifico”. Se in alcuni momenti, ad esempio nell’iniziale Harmonic Field #1 con la sua “techno-trance” a cassa dritta, l’alchimia non scatta, in altri passaggi – la doppietta Organic Wave #1 e #2 e la conclusiva Modern Country Side – le atmosfere si inspessiscono, la dimensione si fa “altra” e l’incontro/scontro di cui sopra si fa confronto e ricreazione, elaborando giochi di luci e ombre, interstizi e visioni tra fattuale droning naturale (il Sea Organ rivisitato offre visioni lunari), rumoristiche asimmetrie di percussioni fatte glitch e stranianti flussi ipnotici. 7/10 Teresa Greco Stefano Pifferi A g o s t o Genere: pop, cantautori Buon sangue non mente: la famiglia Finn colpisce ancora. Dopo il bell’album del genitore Neil (Dizzy Heights, pubblicato la scorsa primavera), Liam Finn ritorna, a distanza di tre anni da Fomo, con The Nihilist. Detto che i due album precedenti (I’ll Be Lightning era l’esordio nel 2008) avevano rivelato un talento in evoluzione declinato in chiave pop come da tradizione familiare (non dimentichiamo lo zio Tim), The Nihilist conferma quanto fatto finora dal musicista neozelandese ora di stanza a New York. Un buon curriculum già in possesso (un inizio post grunge, tour con Eddie Vedder e Black Keys, il progetto 7 Worlds Collide, concerti con i riformati Crowded House) è la base di partenza per una carriera solista avviata. Nei precedenti dischi era forte l’impronta pop dreamy, così come in quest’ultimo, dove predominano i falsetti, le sovrapposizioni vocali (Ocean Emmanuelle) e le rarefazioni che avvicinano il musicista al padre (Arrow, Miracle Glance), gli arrangiamenti elaborati e postprodotti (la sua predilezione per loop e suoni vari), insomma la conferma di quanto di buono già si era visto finora. Ci sono echi di Beck, di Elliott Smith, tanta psych à la Flaming Lips (Burn Up The Road, Preary Pop), tentazioni desert e atmosferiche (I), funk (la title track, richiami a Prince) e in generale molto perfezionismo (qui Liam ha suonato ben 67 stumenti, con l’aiuto dei soliti Eliza Jane Barnes alla voce, il fratello Elroy alla batteria e Jol Mulholland al basso), il tutto con una sensibilità indie (si citava prima il buon Beck). Liam Finn si conferma quindi un buon songwriter, con molte potenzialità tutte da esplorare. 7.1/10 / Mario Conte - Overtones (Zoff82,2014) L u g l i o Liam Finn - The Nihilist (Yep Roc,2014) 141 A g o s t o / L u g l i o Meshell Ndegeocello - Comet, Come To Me (Autoprodotto,2014) Genere: metal Sesto album in studio per i Mastodon, metal band di Atlanta tra le più osannate degli anni ’00, soprattutto dopo quel Leviathan cui Discogs attribuisce ben 31 versioni e che continua ad essere lo zenit della loro discografia. Il nuovo Once More ‘Round The Sun prosegue invece sulla linea del precedente The Hunter con un metal sludge sempre più vicino allo stoner e perché no all’alt-rock, continuando un processo di evoluzione che pare sempre più imbucato in un cul de sac. Erano i re di un heavy metal classico eppure violento, contemporaneo, ma – come già suggerivamo qui – pare proprio che i Mastodon non abbiano le spalle abbastanza larghe per sostenete lo scettro dell’heavy metal odierno. Once more ’round the sun è un certamente un disco ben fatto (migliore di The Hunter), però questa formula meticcia che sembra alla ricerca di un pubblico mainstream non scalda, nonostante qualche buon episodio in tracklist (Chimes at Midnight) e la solita perizia tecnica. Il punto è che si ha l’impressione di una band intrappolata nei dogmi da grande carrozzone metal, tra un tour con i Metallica e uno con i Deftones (non a caso Aunt Lisa risente di echi nu metal), perdendo per strada quelle caratteristiche prog-hard rock che avevano fatto la fortuna del citato Leviathan o Blood Mountain. Once More ‘Round The Sun è in definitiva l’ennesima prova in chiaroscuro che impone la necessità di uno scatto d’orgoglio da parte dei Mastodon, a meno che non ci si voglia rinchiudere nel proprio limbo dorato e chi si è visto si è visto. 5.9/10 Genere: soul, rnb Dopo vent’anni di carriera, con un basso prestato ad act del calibro di Alanis Morisette e Rolling Stones, Meshell Ndegeocello ha ancora energie e voglia per esplorare territori nuovi e per esprimere una vena cantautorale che si sta mostrando sempre più matura. Messi da parte gli scalpitii giovanili, che oltre alla famosa cover di Wild Night di Van Morrison in compagnia di John Mellencamp nel 1994, l’hanno anche vista fare l’occhiolino al dancefloor (Never Miss The Water del 1996, con Chaka Khan), la bassista e cantante nata nella Berlino divisa del 1968 ha intrapreso una propria rilettura della blackness musicale passando per dub, nu soul, funky e folk in due album di certo impatto (Devil’s Halo e Weather), oltre che grazie a un esplicito omaggio alla regina del jazz Nina Simone (Pour une Âme Souveraine: A Dedication to Nina Simone). Questo terzo disco per Naive continua questo percorso, iniziando con la cover di un brano hip hop firmato dei brooklynesi Whodini nel 1984 e vedendo la partecipazione illustre di Jonathan Wilson (per una tiletrack tinta di folk impalpabile e caldo, quasi hawaiano). Meshell gioca con gli anni Ottanta di marca Prince (Convinction) e con gli stilemi del jazz patinato (Tom, Shopping For Jazz), si impegna in groove black/dub (Forget My Name), sempre con una padronanza di mezzi notevole. Mentre della sua “protetta” Selah Sue si sono perse le tracce da un paio d’anni a questa parte, la salute della scrittura di Meshell fa ben sperare che il sogno di un disco con Lee Scratch Perry non rimanga solo tale. Qui ci sono buoni motivi per solleticare la vena di remixer e producer. 7.1/10 Stefano Gaz Marco Boscolo 142 r e c e n s i o n i Mastodon - Once More ‘Round the Sun (Reprise,2014) Stefano Pifferi Nebelung - Palingenesis (Temple of Torturous,2014) A g o s t o Genere: dark, folk E’ effettivamente una palingenesi, quella dei Nebelung, trio tedesco di cui si erano perse le tracce parecchi anni or sono (l’ultimo disco è targato 2008) e che ora rinasce dalle ceneri neo/dark/folk per l’etichetta svedese Temple Of Torturous. Non è un caso che i tre siano approdati in Svezia. La musica dei Nebelung ha da sempre due influenze: da un lato, la matrice romantica mitteleuropea in scia ai Rome, dall’altro – e qui si chiude il cerchio – le fascinazioni per il naturalismo scandinavo (leggi Wardruna), legame forte e intuibile anche nell’artwork di questo disco. Venendo a Palingenesis, ci troviamo davanti a un dark folk inspirato, sentimentale, che riesce a superare i tanti ostacoli posti sul tracciato (gli svariati cliché new age/ritual/ pagani) con la forza del fingerpicking. A dominare queste sei lunghe suites sono sempre le corde delle chitarre e del violoncello, cui si affiancano come sfondo e corredo pochi altri elementi, magari un tamburo (Mittwinter) o un vecchio harmonium (Polaris), che non distolgono mai l’attenzione da un approccio volutamente intimo e minimale. E’ un lavoro di grande sensibilità: fioccano le emozioni – fondamentalmente legate al rapporto natura/ bellezza – e la tensione è sempre costante perché il disco è strutturato in maniera assolutamente omogenea, e questo in definitiva potrebbe essere l’unico limite. Siamo davanti a un classico disco di nicchia che imporrà al proprio pubblico una scelta amore/ noia. Se non vi spaventa il romanticismo e siete avvezzi a quell’area pagana tra neofolk e black / Genere: wave, avant, industrial, noise, world_etnica Registrato completamente in presa diretta, Terzo Mondo è, nomen omen, la terza prova per i Nastro – definitivamente un duo, con Manuel Cascone e Francesco Petricca – dopo un omonimo esordio piuttosto standardizzato su panorami electro-rock mutanti e 300mq, il bizzarro passo numero due. Se lì il commiato dal quartier generale in procinto di essere demolito si mostrava sotto le forme musicali della disgregazione e dell’accumulo per cutup, in cui si mescolavano input tra i più diversi in un fluire senza soluzione di continuità, qui il procedere è in apparenza opposto ma in realtà porta a risultati simili. Non più taglia e cuci digitale, ma tutto registrato in presa diretta con l’ausilio di un microfono ambientale e privo di qualsiasi sovrincisione, in cui synth e batteria, chitarre acustiche e percussioni “guaste” – ossia strumenti d’uso quotidiano come secchi, pentole, coperchi, bicchieri, monete – si aggiungono l’una sull’altra, l’una dietro e dentro l’altra, sempre nella stessa sessione di registrazione. Il risultato è un melting-pot di matrice tribal-industriale brutista con forti tinte afro, ipnotico e stordente nel suo accumulo stratificato di fonti sonore distanti e indistinte che stritola synth-wave, mutant-etno, retro-futurismo terzomondista, patchanka da grey area, weird music concreta, no-funk astratto. Perfettamente in linea col percorso del duo, ma portato a livelli parossistici. C’è, dopotutto, del forte rigore di metodo in Terzo Mondo: la ricerca del metodo, e la lavorazione dei suoni, è durata ben due anni, un periodo in cui nulla è stato registrato ma soltanto concepito a livello di procedimento compositivo, per poi essere applicato nella registrazione in presa diretta. Con eccellenti risultati, si direbbe. 7.2/10 L u g l i o r e c e n s i o n i Nastro - Terzo Mondo (Upside Down,2014) 143 metal, troverete in Palingenesis un disco più che affascinante. 7/10 Stefano Gaz (Terrormaze) e industrial wave (In Blood). I Nun sembrano già belli e pronti per scalare le classifiche, non gli resta che trovarle. 7.1/10 Stefano Gaz / L u g l i o Genere: wave, dark Vengono da Melbourne i Nun, quartetto capitanato dalla cantante Jenny Branagan che schizza fuori da una scena australiana ancor più sotterranea degli ormai semi conosciuti post punkers Slug Guts, Uv Race e Total Control, nell’ambito di una synth wave che fa riferimento al lavoro dell’autoctona Nihilistic Orb. Li ritroviamo ora catapultati sul palcoscenico internazionale grazie al lavoro – sempre di culto – della Avant, che co-produce il disco insieme ad Arrght records. Il punto di partenza, per il combo, sono gli 80s, sia per un suono dark/minimal di impasto analogico (i necrofili potrebbero ripescare gli Iron Curtain), sia per l’immaginario orrorifico che va a braccetto con un Carpenter e un Cronenberg d’annata, a cui tra l’altro viene dedicato un brano in tracklist. Ma ai Nun riesce la magia di far suonare questo debutto contemporaneo e variopinto, ovviamente in scala di grigi. E’ la voglia di fisicità l’arma in più dei quattro, pronti a scendere sul dancefloor con un paio di episodi spooky che in un mondo migliore sarebbero anche delle hit radio (il singolone Evoke the sleep e Kino), per poi alternare ritmi frenetici dominati però dalle distorsioni (Cronenberg) a momenti di calma apparente, perché rinunciare al beat non vuol dire abbandonare l’aggressività, vedi l’incipit industrial di Immersion II. E’ un lavoro omogeneo ma con molte frecce al suo arco, questo, in cui arriva anche l’electro pop grigiastro di Subway e quello un po’ più didascalico di Uri Geller, prima di un trittico finale che prevede sci-fi (Lost Souls), synth punk 144 Pierpaolo Capovilla - Obtorto collo (Virgin,2014) Genere: cantautori, rock, electro, folk Che Pierpaolo Capovilla tendesse ad esondare in un percorso da solista era ampiamente prevedibile, così come lo scarto rispetto ai (diversi) solchi stilistici scavati con One Dimensional Man e Teatro degli orrori. L’esperienza di Majakovskij poi raccontava appunto di un Capovilla più intenso che impetuoso, sulle tracce di suggestioni letterarie e teatrali che francamente non avremmo mai sospettato ai tempi in cui maltrattava il basso e blaterava assalti furibondi come frontman dell’omino monodimensionale. Nulla di male in questo, anzi, sarebbe stato più triste e arido un perpetuarsi a dispetto dei santi e dell’età. Resta il fatto che, al netto di ciò che un ascoltatore medio rimpiange di ciò che ha amato, se nasci spigoloso non muori felpato, o almeno non del tutto. Certe attitudini rimangono impronte forti, calligrafie su cui puoi lavorare senza però evitare che mantengano quel segno e quell’andatura, che d’altra parte è ciò che le rende inconfondibili. Affidando la parte musicale a Paki Zennaro (assieme al quale ha già collaborato per l’allestimento di La religione del mio tempo di Pierpaolo Pasolini), Capovilla tenta quindi di ritagliarsi addosso la figura di autore e interprete, accollandosi eredità eterogenee che spaziano da Brel a Waits, dal reading brumoso Massimo Volume alle sofisticazioni pop (electro e orchestrali) di uno Scott Walker, passando dagli assalti wave blues Depeche Mode con licenza di intrecciare trame etno-funky. r e c e n s i o n i A g o s t o Nun - Nun (Aarght!,2014) Stefano Solventi Acre - CO.LD (Computer output Loop Dance) (Cold Recordings,2014) A g o s t o Genere: techno “La dance music britannica sta vivendo un vitale ed estremamente interessante periodo di transizione“, afferma nella press Mumdance, ovvero Jack Adams, che, assieme a Pinch, è il protagonista di questo b2b. Tutto questo altro non è che una fotografia di cosa stia bollendo in pentola a casa Tectonic e per noi anche un gancio ideale, visti producer esterni coinvolti, per parlarvi di un’altra bella mappa di uscite che è CO.LD, compilation celebrativa a un anno dalla nascita di Cold Recording (l’ultima delle etichette dello stesso Rob Ellis che raccoglie il meglio delle produzioni di alcuni giovani pupilli lungamente collaudati sul dancefloor). Poco da obiettare, l’elettronica che stiamo monitorando in questi mesi in Inghilterra è un laboratorio a cielo aperto che non conosce sosta, uno stordente caos di dub, grime, ardkore, ambient, techno, house, jungle ma anche una terra di mezzo dove un’idea techno rivive su basi squisitamente UK, imbevuta di tutto un portato di step tra cui lo UK funky, uno dei punti di partenza dello stesso Mumdance nel 2010 quando, a casa Mad Decent, trafficava con colorati ed incalzanti ritmi, spremuti poi a dovere dal solito Diplo. Curioso il percorso di Adams, uno che in soli due anni è passato da un certo tipo di prospettive ed evoluzioni dance a un terreno di personale revisionismo ardkore con e senza Logos, quest’ultimo personaggio chiave che – come sappiamo – a casa Keysound ha sganciato lo scorso anno quella sfinge grime che è Cold Mission, ma anche il sodale amico con il quale / r e c e n s i o n i questa non possono che fare bene ad una scena troppo spesso incapace di smuovere le acque. 6/10 L u g l i o Un menu troppo vario solo sulla carta, perché in realtà ad unificare il tutto pensa il timbro, il piglio, la personalità di Capovilla, il suo reading come un bulino di tracotanza e affettazione (Come ti vorrei) oppure quel lirismo sdegnoso attraversato da una vena di febbrile misantropia (Invitami). Il cambio di scenario fa spiccare più che in passato il vezzo di mettersi sullo scranno dell’interprete per sputare addosso a quelli che si aspettano una prestazione canonica, ed è un bene quando come nell’accattivante/struggente Irene funge da antidoto alla banalità, altrove però stride e sballa gli equilibri, come nella tensione desert con sofisticazioni da chansonnier de Il cielo blu. Nel complesso quindi, valutata la qualità di intenzioni, intuizioni (soniche e dei testi) e impegno profusi, ad affiorare ahinoi è la scollatezza della proposta: se la tracotanza ruvida e la scontrosità beffarda da mattatore ribaldo erano il valore aggiunto del bailamme elettrico ODM (e del Teatro), calato in questa dimensione diventano zavorre fastidiose, inclinazioni che soffocano il potenziale di pezzi che meriterebbero più respiro e meno “personaggio” al timone. Vedi la waitsiana Quando, l’estrosa La luce delle stelle o la tensione “civile” di Ottantadue ore. Di contro c’è una Bucharest che da buona eccezione è una conferma, visto come il canto sa abbandonarsi al giusto grado di languore facendo respirare come si deve l’estro da Sanremo “alto” ed il sottotesto irrequieto. Finisce che gli aspetti più apprezzabili sono certe scelte d’arrangiamento, su tutte quelle della title track coi synth ora traslucidi e ora agghiaccianti in un contorno di fiati e piano. Nel complesso la ricetta è interessante, con la giusta dose di capovillismo (in meno) potrebbe diventare notevole. Possa o meno piacere il personaggio – e va detto che Pierpaolo fa di tutto per non vincere il titolo di mister simpatia – scelte forti e persino presuntuose come 145 A g o s t o / L u g l i o 146 techno remix del tedesco Shed, del nuovo pezzo di Pinch, Obsession. Un panzer che ritroviamo anche nella Ghostrunner di Ipman. Interessante osservare anche il lavoro di Mumdance per differenza rispetto all’ormai iconico tocco glaciale di Logos o alla mano nera di Ellis. The Sprawl di Adams è un gancio all’estetica eski circuitata con mentalità ardkore, come la Sinners di Alex Coulton (altro personaggio da non lasciarsi scappare, primo peraltro ad avere l’onore di inaugurare la Mistry) è un riportare l’uk funky nell’oscurità dell’estetica del primo dubstep, operazione che Beneath ha fatto fin dall’inizio, sempre nel citato 2010, ovvero l’anno in cui Pinch pubblicava Croydon House. L’inizio – uno degli inizi – della grande transizione. 7.5/10 Edoardo Bridda Plastikman - EX (Mute,2014) Genere: techno EX è stato registrato dal vivo il 6 novembre 2013 al Guggenheim Museum di New York. Un evento sponsorizzato da Dior, con il ricavato di questo – ingresso popolare a 125 dollari, VIP a 500 – destinato a sostenere le attività della fondazione del museo, arte moderna e contemporanea in primis. Una location, parole di Hawtin (per l’occasione Plastikman), che aiuta l’interscambio di flussi creativi tra musica, architettura, pittura, scultura. L’album arriva undici anni dopo Closer, ultimo numero sulla lunga distanza, e una manciata di EP rispetto a questo successivi (la trilogia Nostalgik, I Don’t Know, fino a Slinky, datato 2010). Un ritorno in stile Plastikman, fatto di grande pulizia sonora, kickdrum austere, guizzi sintetici e 303 disegnate con precisione millimetrica. 53 minuti di disco che regalano momenti di magia, spunti degni di nota, come il coro di archi sintetici a chiudere il lavoro. r e c e n s i o n i in coppia il Nostro sfodera, proprio qui nel mix, pezzi come Legion nella versione VIPinch, in cassa dritta e attitudine rockish (vedi anche l’ultimo Tessela, Rough 2, su questo), oppure un’altra bordata borchiata come Noctis, tra bleep da sottomarino, charleston incalzanti e synth minaccioso in perfetto stile darkwave (come piace a Pinch). Ascoltando queste tracce nelle loro evoluzioni, imprevedibilità, e certo, pure ruvidezze (suoni in reverse, street sound, onde quadre, bleep ecc.), la sensazione di trovarci di fronte a un nuovo 92-94 del continuum ardkore è palpabile e non di meno eccitante. Già in Back To Eskimo Jungle puntavamo la lente su tutto un giro produzioni nu eski / grime 2.0 e una serie di ipotesi che rimettevano in gioco la jungle; qui stiamo su un altra declinazione: c’è la techno come “ombrello ideologico”, ma soprattutto c’è in atto qualcosa dai contorni ancora sfumati da osservare con attenzione perché tra poco diventerà altro e altro ancora. Da questi movimenti, in passato, è sempre nato un nuovo genere ma, come ribadivamo, è proprio il proto-qualcosa ciò che più tiene viva una scena. Esaltante pertanto ascoltare le prodezze dei protagonisti della compilation Cold Recordings: Ipman (già avvistato in combutta con Kahn in vesti dubstep e dancehall), il mancuniano Acre (avvistato già sulla label di Visionist), Elmono da Cardiff e Batu del giro Bristol (con Asusu e molti altri), ventenni infuocati cresciuti a radio pirata, dubstep, uk funky e grime che liberano bestie come Burning Memories, crocevia manchesteriano (leggi Akkord) anche molto Kevin Martin, tra jungle, implosioni industrial hip hop e micro tocchi dubstep, oppure una Stairwells con quelle percussioni etno contrappuntate dub, oppure ancora la Ventricle di Ipman, come a dire i Sandwell District lavati in candeggina. Tornando al b2b, da menzionare anche il Genere: pop, rock, indie, lo-fi Va bene la filosofia del lo-fi, va bene assecondare un certo filone stilistico e di approccio sonoro, però va detto che per fare i dischi devono esserci dei contenuti. Delle idee. Non basta ricevere la benedizione da Pitchfork per vivere di rendita e impressionare il recensore di turno. Un drumming impreciso, chitarre elettriche in pieno stile dream pop che non si discostano dalla canonica formula composta da base ritmica più overdub di arpeggio, e un cantato (maschile o femminile, a seconda dei casi) missato male: va bene sposare l’estetica del grezzo, della spontaneità del garage, ma a tutto c’è un limite. E quando non ci sono nemmeno le canzoni il problema sorge eccome. C’è un confine sottilissimo tra la chitarra dissonante e quella fastidiosa messa lì a creare una sensazio- r e c e n s i o n i A g o s t o Posse - Soft Opening (Autoprodotto,2014) / Elia Galli ne di disagio (Talk); così come c’è un labile filo rosso tra canzoni uguali e simili (Interesting No. 2 e Afraid). In questo caso Soft Opening, il secondo disco degli americani Posse (da Seattle), non riesce a salvarsi, pur restando gloriosamente ancorato agli stilemi del dream e tweet pop, di Sarah Records, dei Pavement più sbilenchi e delle ambientazioni slowcore di gente come Galaxie 500. Intendiamoci: le melodie, seppur flebili, hanno il loro peso in questo album, ma non arriva quella forte ispirazione che in questo caso può salvare un prodotto fortemente di genere. Tranne qualche sparuto caso, come ad esempio Shut Up e la sua lunga cavalcata sonora, oppure l’indovinato e soleggiato pop di Jon, la sensazione è che non ci sia davvero nulla di rilevabile all’orizzonte, per questo trio pressochè uguale a tanti altri sulla faccia della terra. E allora lunga vita al pop e all’estetica del non troppo levigato, del lazy indie targato ’80/’90, della musicassetta e dell’old fashioned: se avrete la costanza di mantenere questa visione per tutta la durata dell’ascolto di Soft Opening, o semplicemente se siete fan del genere senza troppi peli sullo stomaco, avrete passato del tempo piacevole. Se invece cercate qualcosa di diverso o almeno una variazione sul tema, magari eseguita e resa adeguatamente a livello sonoro, passate oltre. 5.7/10 L u g l i o Intuizioni che, però, rimangono troppo spesso nascoste tra le progressioni di maniera. Esplorazioni sonore poco originali, forse, ma che non sempre devono considerarsi prerogative negative di un’opera, soprattutto quando l’accademia che si dispensa è la propria, perfezionata durante anni di produzioni, e non quella di altri, presa in prestito per il tempo di una stagione. EX descrive il Richie Hatwin dei nostri giorni. Levigato, scolpito minuziosamente, pulito da tutte le imperfezioni. Descrive un Plastikman che cerca punti di contatto, almeno a parole, con altre arti, figurative o di organizzazione degli spazi. Poi, meno poeticamente, con sguardo più cinico da businessman, assieme al disco vende anche un bass system. Per arrivare ad una “nuova dimensione fisica dell’esperienza musicale”. 6.4/10 Stefano De Stefano Sons Of Magdalene - Move To Pain (Audraglint,2014) Genere: ambient, techno, glitch, idm Debutto solista per Joshua Eustis dei Telefon Tel Aviv, gruppo sciolto in seguito alla morte del secondo membro Charlie Cooper, scomparso nel 2009. Molti dei brani compresi in questo lavoro sarebbero dovuti finire nel nuovo album del combo americano. Sonorità attese: 147 A g o s t o / L u g l i o 148 lacrimuccia la fa scendere anche ai cuori più scafati. Ben tornato, Joshua. 7.4/10 Marco Braggion Sprained Cookies - Drifted On A Oaken Mirror (29 Records,2014) Genere: rock, psych, blues, experimental Con un piede nel blues e la tradizione americana e l’altro sospeso tra psichedelica made in UK ed elettronica, gli Sprained Cookies confezionano un album d’esordio (dopo il promettente EP Deliverin’ the Sacred Feathered One, edito nel 2011) capace di sorprendere per maturità e songwriting. La compagine romana, pur muovendosi entro coordinate ampiamente già battute, dimostra ottima personalità sia nei momenti più evocativi (Lonely Are The Brave e la cinematografica Lisergic), sia in quelli più debitori verso un certo revival garage rock (Despicable e Music Sucks potrebbero essere b-side dal primo disco dei The Kills, anche se la seconda vanta un’apertura che pare più un inaspettato omaggio ai Portishead), riuscendo a mantere uno standard compositivo abbastanza alto e una certa coerenza stilistica, anche nei momenti apparentemente più lontani dal fil rouge su cui si dipana il disco (l’elettronica e conclusiva That’s Me Dazzlin’, che si tinge di sfumature quasi trip hop, e l’opening Mental Room, dai chiari rimandi anni ’80). Non è un caso che il disco più recente a cui questo Drifted On An Oaken Mirror pare far riferimento nel suo insieme sia quel Blues Funeral di Mark Lanegan che, alla sua uscita, nel 2012, aveva segnato un deciso avvicinamento dell’autore di Ellensburg verso sonorità più elettroniche. Menzione a parte per il gran lavoro di Corrado Maria De Santis – che di fatto compone/suona/registra/produce l’intero lavoro – e per la voce di Cecilia Frusciante, che tra tutte le figlie illegittime di PJ Harvey r e c e n s i o n i aura di ricordi anni ’80, pad ambient à la Boards of Canada e qualche malinconia Morr. Al lutto per l’amico d’infanzia, si aggiunge pure la perdita del padre (Crowes On The Eaves Of My Father’s House), e quindi l’analisi della malinconia s’infittisce sì dei ricordi che caratterizzavano le produzioni precedenti, ma anche di sensazioni spossanti, quasi inconfessabili. L’elettronica si aggancia a un sentire cupo e definito su coordinate ottantiane, cose ovviamente già sentite ma qui prodotte in maniera “sbeccata”, aggiungendo qualche sporcizia analogica che conferisce alla proposta un nonsoché di privato e di morboso. In un’intervista a proposito del suono del disco e di questa particolare resa acerba, Joshua ha dichiarato che “il suono dovrebbe avere la stessa velatura di quando si sente qualcosa attraverso un muro, o quando si guarda su un vetro sporco, o più specificatamente, quando si cerca di ricordare qualcosa che una volta sembrava vivido e che col passare del tempo è diventato appannato”. Lo stile viaggia a cavallo fra ricordi New Order (The Whip), Nine Inch Nails (Eustis ha collaborato con il gruppo di Reznor nel 2013), Depeche Mode (citazione a Everything Counts nei pad della titletrack), George Michael (Hold On Hold Still For A Second), glo-fi (A Strange Sound) e deep house (O, Death). Senza conoscere il dietro le quinte, qualcuno potrebbe benissimo etichettarlo come un buon disco electro pop retrofilo. Quello che invece esce dalla penna e dalla mente di Joshua Eustis è un piccolo diario intimo di un mondo che non tornerà più, l’evocazione di troppe persone scomparse o dimenticate. Il tutto è reso con una semplicità disarmante, che potrebbe piacere sia agli amanti del pop, che a quelli più vicini al clubbing. Una delle prove più sentite dell’intera annata sintetica, affine alla sensibilità di Circlesquare, Pet Shop Boys, Talk Talk e Jori Hulkkonen. Qualche appare senz’altro come una delle più credibili e dotate di personalità propria, capace com’è di infondere un senso di tensione e costante inquietudine in ogni episodio di questo esordio. Un ottimo disco, a cui manca forse solo qualche “picco” per eccellere, che ci presenta una band che se saprà confermarsi su questi standard potrà togliersi nel prossimo futuro numerose soddisfazioni. 7/10 Enrica Selvini Sully - Blue EP (Keysound,2014) A g o s t o Genere: jungledrumnbass “Un vero e proprio gioco citazionista, abile, stuzzicante e ben architettato”, diceva Carlo Affatigato, recensendo Carrier, prima – e fin’ora unica – uscita in formato album per Sully. Un disco che custodiva tutto quello che Londra aveva da offrire a livello dance (electro-funk, grime, 2step), comprese le puntate transoceaniche verso Chicago (leggasi juke e footwork). Con Blue, presentato come doppio extendedplay, ma di durata tale da potersi considerare lavoro più corposo e meno estemporaneo, il gioco di citazioni rimane, ma a cambiare sono i riferimenti: la tradizione jungle tipicamente britannica, le atmosfere surreali dell’immaginario vaporwave. Sintetizzatori scintillanti e campioni vocali, modulazioni digitali, giochi di sample stirati e manipolati a piacere, e per fortuna che l’italiano ci soccorre, perchè scrivere di tweaking, pitching and stretching sarebbe abbastanza per una segnalazione alla buoncostume. Impastato sul breakbeat, frammentazioni vecchia maniera colorate funk, il basso arriva prima monolitico, profondo, poi virato wobble. Senza cali di tensione, forse con qualche trucco un po’ troppo d’accademia, Blue segue la strada di una jungle hauntologica che si muove tra il cosmo e l’oceano. E se a metà strada tra Ferrara e la luna ci può essere il mondo (ciao Lucio!), nei disegni dub di Jack Stevens, a metà strada tra l’Inghil- / Genere: rock Staré M’sto è un progetto nato tra Ferrara e Bologna grazie all’incontro di Enrico Bongiovanni, Giovanni “Fuzzbinder” Sassu, Tommaso “Delay” Lampronti e Ruggero Calabria; il disco d’esordio della formazione, uscito per la validissima label abruzzese I dischi del Minollo, è un bell’indie rock, con testi che evocano percezioni di rancore, spazi misurati ma lontani, effettati con riverbero decadente, ed echi à la C.S.I.. Ascoltando Punto di Fuga vengono in mente i primi Diaframma (quanto mai allusivi nella cover di Cielo d’Africa, ma anche in Riparo) o il narrativismo post punk di Massimo Volume e ManzOni. Quindi derivativo, ma bello perchè celebra ambienti di devozione e strutturalismo sbriciolato dalla Storia. Lirismo e scontento, in brani come Ultima cena e l’apocalittica Thalia, si fondono al diniego che sbrodola sempre nel racconto. Nei testi questa angustia pesa molto, quasi si sfigura con l’accetta per quanto è fitta. Affascinati sì dai primi anni Ottanta, il quartetto non gradisce tuttavia, di quella stagione, il chiarore di certe sonorità o di alcune pregevoli composizioni pop, preferendo colorarsi di una bruna inedia fra ritmi asmatici e rapidi. Quindi, più che un senso forte di contaminazione, voluto già dalla scelta del Christian Panzano L u g l i o r e c e n s i o n i Staré M’sto - Punto di fuga (I Dischi Del Minollo,2014) moniker (Staré Město è il distretto più antico e multietnico di Praga), quello che più domina è un discorso lanciato in aria per essere discusso, trascinato in terra per essere debitamente calpestato (Menodizero), recluso e di nuovo liberato. Questo, e non la proposta sonora che alla lunga logora, è l’asso nella manica del gruppo. 6.8/10 149 A g o s t o / L u g l i o Elia Galli Super Tempo - 29 (Go Down Records,2014) Genere: rock Powerpop pieno e divertente, quello dei Super Tempo, trio della provincia di Venezia al terzo album, secondo per Go Down Records. Potremmo inserirli sotto Panda Kid, Lava Lava Love e Charlestones a beneficio di un animato panorama nord-est nostrano dell’ultima ora, con nume i Mojomatics. Il loro limite è che trattengono poco fra le braccia i loro CD preferiti. Infatti, in I’d Rather Born Then Get Burned ci sono i loro Pogues, in You’re Always Late la loro idea di surf non poi così dissimile da quella propagandata dai Man or Astro-man? (ma meno core e più originaria), in 8 hours man i loro Rolling Stones, in St. Eve il loro swamp, 150 in Swear Your Fats il loro grunge, in The Kids Are Connected e in Blue Rock il loro punkabilly a lambire il fuzz. Rielaborano, setacciano e pescano nel mare magnum dell’immediatezza rock temi ricorrenti e solubili. C’è una marea di gruppi così, motivo per cui spesso si ingarbuglia il fiore con il letame e viceversa. I brani sono discretamente legati fra loro, il prodotto è stato registrato con coerenza, senza strani orpelli, e arriva diretto come è giusto che sia. Nell’attesa che il tempo sedimenti. 6.2/10 Christian Panzano System Hardware Abnormal - S.Tart (Autoprodotto,2014) Genere: noise Perno della scena noise capitolina, System Hardware Abnormal giunge con S.Tart alla conclusione della trilogia robotica, dopo il passo 1, This Aster, e il passo 2, Re-soosh, sempre in nome di un noise dalle tinte harsh e prodotto in condizioni di assoluta ma ricercata “povertà” tecnologica. Come una sorta di presa di posizione contro la iper-tecnologizzazione della contemporaneità, System Hardware Abnormal devasta e stantuffa avvalendosi di strumentazione povera – Gakken sx 150, Korg Monotron, Eko dream box 15 rhythm machine, Korg M1R, Akai pop keyboard, Mixer Bheringher, Korg Kaossilator, ecc. come da indicazione della press – per “ricreare” mondi in una sorta di clash retro-futurista in cui il punto di vista dominante è quello del “dominato”, la macchina, piuttosto che del “dominatore”, l’uomo. Della serie, se nell’evoluzione robotica del mondo qualcosa fosse andato storto – cortocircuiti, errori di programmazione, addirittura ipotesi di macchine divenute indipendenti dal volere umano – probabilmente la colonna sonora non sarebbe stata dissimile dai 70 e passa r e c e n s i o n i terra e l’oriente – un oriente non geografico, ma declinato come altrove, come mistero da risolvere – si sfiora la recente Fatima Al Qadiri di Asiatisch, si accenna al James Ferraro d’annata, si esplorano civiltà subacquee e intere galassie, sempre e comunque tenendo ben salda in testa l’idea ritmica di fondo. Le ragioni di Sully sono quelle dei rave party di inizio Duemila, quando grime strumentale e jungle trovavano interessanti punti di contatto. Ora, Stevens rilegge quella stagione alla luce della miscela eterogenea di nomi e impressioni citati sopra. Se si escludono le utopie astratte marcate Logos, ospite con un breve vapor dub, non ci sono deviazioni di percorso, cambi di scena, neanche tentati e mal riusciti, rispetto ad un’ortodossia in cassa spezzata che risulta chiarissima fin dall’incipit. Caratteristiche che diventano sigillo di qualità per una combo di EP, ma che segnano un punto in meno se – valutando la mole della release – ci si aspettava qualcosa di più. 6.8/10 minuti qui raccolti (suddivisi in 5 tracce selftitled e tributo a Talo, primo robot della storia). La materia sfocia spesso in derive harsh-noise ipnotiche e devastanti, ma è il senso del tutto a farsi apprezzare: musica del limite, “borderline” per intuizione e applicazione, sempre sul punto del collasso, della fuoriuscita dall’orbita prestabilita, del deragliamento impazzito verso una specie di anarchia sonora fatta di mille input in totale e libero scontro, S.Tart è tranceinducing come un Tetsuo tecnologico sul punto di andare fuori controllo. Alternate future is next to come. 7/10 Stefano Pifferi A g o s t o r e c e n s i o n i / Genere: industrial Te/DIS ovvero “Tempted Dissident” è la nuova scoperta della label tedesca Galakthorrö, etichetta dedita a sonorità industrial / “angstpop”. Il progetto solista del musicista tedesco, la cui reale identità non è dato conoscere, è intriso di un oscuro nichilismo “oltranzista”. Te/DIS sembra evocare il fantasma di Ian Curtis sotto psicofarmaci mentre recita su un tappetto di frequenze pulsanti alla Pan Sonic e ritmiche industriali degne dei primi Cabaret Voltaire. Dopo l’EP del 2013 Black Swan, capace di fondere cold wave e sonorità elettroniche industriali, Tempted Dissident esordisce quest’anno con l’altrettanto ottimo LP Comatic Drift, sempre per Galakthorrö, la leggendaria label tedesca di Mrs. e Mr. Arafna. Per chi non la conoscesse, la coppia di musicisti è responsabile di due progetti di culto della musica industriale: Haus Arafna e November Növelet, entrambi dediti ad un perverso “minimalist power electronics/industrial” che loro stessi hanno definito “angstpop”, per distingue il loro particolare approccio alla musica elettronica L u g l i o Te/DIS - Comatic Drift (Galakthorrö,2014) d’ispirazione post-industriale. Te/DIS espande le sonorità abitualmente proposte dalla label tedesca: non mostra elementi harsh noise e power electronics, come il compagno di etichetta Subliminal, ma conserva le soffocanti e morbose sfumature melodiche dei November Növelet e degli ultimi Haus Arafna, aprendo anche a sonorità dark e cold-wave. Il lavoro del musicista tedesco sulle frequenze, ha del maniacale, come ci aveva già abituato il suo collega Maska Genetik, prematuramente ritiratosi dalle scene, sembra per un crollo nervoso. Tra i brani più rilevanti di Comatic Drift ci sono sicuramente Reject e Fixer, che ricordano i momenti migliori della collaborazione tra Alan Vega e i Pan Sonic. Smother the Pain rappresenta uno dei punti più alti del disco, con il suo riuscito contrasto tra oscure melodie dark-wave ed un ossessivo trapano industriale, memore dei Throbbing Gristle, che non sembra dare tregua all´ascoltatore. La traccia Groundfog ci mostra un battito cardiaco solitario disperso nelle nebbie, sul filo sottile di un evocativo synth, sfacciatamente cold wave. Set Minds on Fire apre il lato B del disco ed è il lento e pesante incedere marziale di un Golem di metallo che, a tratti, sembra liquefarsi. Il finale con la doppietta If I Die e Optimism Bias, rappresenta il vertice dell’opera mostrando anche la faccia più melodica e dark/new wave del progetto, in cui compaiono spettri emozionali di paesaggi desolati (e desolanti) memori degli ultimi Joy Division. Optimism Bias si conclude degnamente con la frase “Burning sun arises crushes a million lifes”, la quale non lascia speranze di sorta: in pratica, è la severa lezione dei Suicide trasposta nel 2014 in chiave “angstpop” industrial. Comatic Drift, trasporta l’ascoltatore in una spirale nera di disperato isolazionismo mentale avvolto su se stesso. Un lavoro affascinante 151 e coinvolgente, nel suo essere oltre qualsiasi forma di compassione umana o possibile redenzione. L’unico difetto del disco è una certa monoliticità di fondo che si stempera però nella seconda parte, aprendosi di più alla forma canzone e mostrando appieno la capacità dell’artista tedesco di creare convincenti atmosfere evocative ed oscure come la morte. Come ogni album Galakthorrö, Comatic Drift, è stato rilasciato sia come LP a tiratura limitata, in questo caso a 460 copie tutte numerate a mano, sia come CD, anch’esso a tiratura limitata. Ovviamente, entrambi i formati sono andati subito sold out come tutte le uscite della cultlabel tedesca. 7.2/10 / L u g l i o The Acid - Liminal (Infectious,2014) Genere: pop, cantautori, art, elettronica Proprio nel momento in cui RY X sembrava potesse essere alle porte di un successo in solitaria (l’EP Berlin, recensito lo scorso dicembre) sono iniziate a circolare le prime voci riguardanti un nuovo progetto, chiamato The Acid, con il Nostro nel ruolo di protagonista vocale, coadiuvato da Adam Freeland e Steve Nalepa. Con il solito alone di mistero virale che ha inizialmente caratterizzato numerosi proggetti post-Blake, i The Acid hanno mosso i primi passi nella seconda metà del 2013 con un autoprodotto ed omonimo EP (contenente Animal, Basic Instinct, Fame e Tumbling Lights) ristampato poi questa primavera per la Infectious. Alle spalle nessuna cinematografica ed appassionante storia di ragazzi che deciedono di fare musica insieme sui banchi di scuola, ma quello che potrebbe sembrare un freddo calcolo discografico di tre artisti distanti – in tutti i sensi – tra loro: RY X è un cantautoregiramondo australiano che abbiamo già saputo 152 r e c e n s i o n i A g o s t o Marco De Baptistis apprezzare, Adam Freeland è un dj inglese di lunga esperienza (suo il fabriclive n. 16, risalente al 2004) mentre Steve Nalepa è un produttore audiovisivo californiano che insegna Ableton Live alla Dubspot, importante scuola per produttori e dj. Tre figure che conoscono bene l’industria musicale – pur avendo sempre, piccoli sprazzi a parte, lavorato dietro le quinte, lontano dai riflettori – e che, unendo le forze, potrebbero aver trovato la strada vincente verso una maggiore notorietà. Liminal, l’esordio lungo, è il corrispettivo in musica del titolo stesso, ovvero qualcosa che si muove lungo il livello di soglia della coscienza e della percezione, dando vita ad illusioni ipnagogiche. Ereditando le tracce principali pubblicate fino ad ora, Liminal offre cinquanta minuti di solitario minimalismo pop oscuro, sussurrato, che lavora sia in superficie che in profondità. L’eredità di James Blake viene stravolta su traiettorie meno soulful e più marziali, figlie della spiccata alchimia tra le tre menti. A volte sembra di entrare in rotta di collisione con un Thom Yorke meno algido e più sinistramente sensuale (Creeper, “I want to love you like a creeper”) che si muove su battute lente e secche, dove la preziosa chitarra “echizzata” di RY X fa da – mai invadente – collante (la Bon Iveriana Basic Instinct). A rendere l’ascolto ancora più appagante pensano intarsi rumoristici (le distorsioni aliene in Animal) che donano fascino a brani che non sempre si fanno apprezzare nella loro interezza (Tumbling Lights), specie nella seconda metà dell’opera. Altrove primeggiano influenze del contesto berlinese caro ai tre: cassa dritta e ritmiche taglienti ad altezza minimal-industrial di Creeper (chiaramente una delle standout tracks), i synth di Fame - che, tra le altre cose, presenta un gioco di chitarre+beat non troppo distante dai territori The xx -, il groove prima sottopel- dula Machine Gun Stars) e turbe arcigne (una Dead Caravan che manda i Gun Club a sbattere col miraggio Black Sabbath), svetta quella The River Song col cuore rapito, l’armonica a precipizio e l’asprezza sabbiosa, come potrebbero dei Calexico prima inaciditi dEUS e poi inteneriti Al Stewart. Un lavoro generoso, dal carattere forte e dal taglio sempre più riconoscibile. In attesa di capire se ci sono ancora margini di crescita, aggiungiamo senz’altro i The Great Northern X tra i nomi da seguire con attenzione. 7/10 Riccardo Zagaglia The Pack AD - Do Not Engage (Nettwerk Music Group,2014) The Great Northern X - Coven (Fooltribe,2014) A g o s t o Genere: rocknroll, garagerock Con il quarto disco (il primo per Nettwerk), il duo formato dalla chitarra di Becky Black e Maya Miller avrebbe dovuto dimostrare definitivamente che i proclami della stampa canadese e del loro management sono fondati. Da anni, infatti, si parla di loro come della next big thing del garage, quasi dovessero raccogliere la semina di White Stripes e The Black Keys per quanto riguarda quel blues suonato a due che ha avuto una certa fortuna durante i 2000. Non sarà così. Non perché Do Not Engage sia un disco mal riuscito, tutt’altro: è calibrato come meglio i Nostri non hanno mai fatto. Il problema è che il settore è piuttosto affollato, oltre che dai due gruppi citati, anche da decine di altri gruppi (pescate a occhi chiusi dal catalogo Sacred Bones o chiedete direttamente al nostro Stefano Pifferi, che ve ne sciorinerà una dozzina all’impronta). Per mettere in mostra il proprio valore, quindi, servirebbe un guizzo di originalità in più. E va bene assottigliare (solo apparentemente) la componente blues per sottolineare il legame con il grunge di marca 90s che sta tornando di / Genere: rock, grunge, alt, folk Ci lasciammo due anni e mezzo fa con un album d’esordio omonimo che, pur sfilandosi dalla partita delle sonorità inedite, metteva in mostra un’attitudine senza infingimenti, uno stare sul pezzo con pienezza e disincanto, in bilico tra le brume irrequiete del post-rock ed il trasporto ventrale del folk elettrificato. L’opera seconda Coven arriva oggi a confermare tutte le buone impressioni aggiungendo il coraggio di un piglio melodico più marcato, come se i quattro padovani potessero ormai contare su una solidità di intenti tale da evitare qualsiasi gioco al risparmio. Scritte dal vocalist nonché leader Marco Degli Esposti, le sette tracce squadernano un piglio cantautorale mandato a deflagrare in un crogiolo di frontiera Paisley (la graffiante Let’s Down Our Sorrow), inseguendo un fiabesco vibratile vagamente Billy Corgan (come in Carol) incalzato da vampe ipnotiche Polvo e languore ruggente Buffalo Tom (Skunk). Tra palpitazioni ciondolanti (l’accorata Fever, l’aci- Stefano Solventi L u g l i o r e c e n s i o n i le poi sempre più austero di Ghost ed alcune soluzioni sonore che sembrano provenire dai Factory Floor rallentati di dieci volte. Meno forte l’impronta The Acid, invece, in passaggi come Ra in cui ci si avvicina più alle sonorità targate RY X. In definitiva, non ha torto chi tende ad etichettare Liminal come l’ennesimo – buon – disco infuenzato dai soliti nomi e dall’ormai consolidato modo “anni Dieci” di intendere un certo tipo di pop elettronico, ma non dare neanche una possibilità ai The Acid significherebbe perdere uno dei dischi più intriganti e silenziosamente contagiosi degli ultimi mesi. 6.7/10 153 A g o s t o / L u g l i o Marco Boscolo Soft Pink Truth - Why Do The Heathen Rage? (Thrill Jockey,2014) Genere: elettronica Mentre Drew Daniel, assieme al compagno M.C. Schmidt, si diverte ancora a suonare quasi objects, glitcherie, clicks’n’cut e altre avanguardie cosmiche (e non) con l’ormai storica ragione sociale Matmos – li abbiamo visti di recente al Freakout -, la scommessa fatta con Matthew Herbert all’inizio dei noughties è ancora aperta e l’ora insegnante universitario torna a far – diciamo – ballare. A ben dieci anni di distanza dall’ultima prova, Do you want new wave or do you want pink truth?, che in sostanza reinterpretava, inserendoli in un simulato, caotico, streaming radiofonico, brani punk hardcore britannici e americani in chiave electroclash, house, bassi wobble à la Oizo ecc., Daniel torna ora con un 154 nuovo lavoro a tema, questa volta proponendoci alcuni classici black metal rivisitati secondo alcune tendenze dancefloor attuali e qualche “frullata” delle sue. Non pensate quindi a un disco monolitico che suona tutto come la cover dei Venom, Black Metal (accompagnata anche da un divertente videoclip) e che ricalca vecchi vezzi da frullatore à la Mouse On Mars in chiave elettro-gore: l’album piuttosto si rivela come una divertita presa in giro di bro step, edm e altre Diploneo-Prodigy-non-ultimo-Nine Inch Nailsderive, tutte musiche che hanno tra i propri fan frange di aficionados estremi non troppo differenti dalle ali più toste del black metal storico. Aspetti che si ricollegano all’amore per il concettuale del solito Drew che, con Soft Pink Truth, da sempre fa dialogare la cultura gay con alcune manifestazioni musical culturali apparentemente agli antipodi (vedi Antony Hegarty che, in Incocation For Strenght, declama versi tratti da Witchcraft And the Gay Counterculture dell’attivista gay, Arthur Evans). Impianto teorico a parte, Why Do The Heathen Rage? è spassoso. Beholding the Throne of Might sembra una risposta più pervertita di quanto i Die Antwoord possano ragionevolmente auspicare di essere o diventare; inoltre Daniel sa bene cosa si sta muovendo attualmente sul dancefloor, trap e jungle compresa: Let There Be Ebola Frost, ad esempio, sfodera un remember ’93 in piena regola tra house, rave e rullanti, mentre Buried by Time and Dust riprende il techno pop dei Kraftwerk ammiccando a tutto un immaginario da ghetto globale di cui abbiamo già parlato a proposito dell’anniversario Hyperdub. Poi ci sono i mix che oscillano anche su lati più morbidi e di cultura diciamo chicagoana, come la deep Ready to Fuck dei Sarcofago – con ospite Jenn Wasner dei Wye Oak – o una Manic che pastura trax house intervallando con deformanti visioni à r e c e n s i o n i moda, ma la formula a duo comporta comunque una limitazione di possibilità espressive che solo una penna fuori dal comune può far diventare l’occasione per brani che lascino il segno. Non basta nemmeno la strizzata d’occhio colta di una The Water in territorio Suicide (estrema trasfigurazione di blues qui ridotta a citazionismo da aperitivo). Cercare di mettere da parte il blues lo-fi delle origini per suonare come un gruppo alt rock di vent’anni fa, insomma, potrebbe non avere giocato un buon servizio. Rimane una manciata di buone canzoni da aggiungere alla propria personale playlist garage rock (il singolo Big Shot con un riff di chitarra che si stampa nella memoria, la sincope di Animal e Battering Ram), materiale che basta solo per una sufficienza piena meritata per l’energia (che non manca), ma mancata sul fronte della scrittura e della proposta estetica. 6/10 la Venetian Snares. Insomma, una quarantina di minuti (quasi tutti) con il sorriso. Frivoli e intelligenti, come Drew sa fare. 7/10 Edoardo Bridda A g o s t o Edoardo Bridda / Genere: elettronica C’è qualche novità importante nel nuovo album dell’alias storico di uno dei pilastri del breakcore, Aaron Funk. Il seguito dell’istintivo My So-Called Life del 2010, My Love Is A Bulldozer, è ciò che di più vicino alla (prog) operetta si possa pensare avendo in mente le fondanti del progetto Venetian Snares; inoltre il canadese, in ben tre brani, questa volta canta davvero (quindi non si limita alla mono strofa come in Horsey Noises del 2009) inserendo anche alcuni delicati momenti gotici, per archi e venature jazz, nella consueta fitta trama di poliritmi impazziti. Le orchestrazioni del disco, voce compresa, sono il portato della recente parentesi Poemss, duo folk che Funk ha condiviso con Joanne Pollock, mentre le atmosfere chamber che ricordano l’Est Europa, certe angolarità jazz sparse à la Squarepusher e il melodramma esisitenzialista di alcuni espisodi, sono elementi che già avevamo incontrato nella sua impetuosa discografia (vedi Rossz Csillag Allat Szuletett); la differenza sta in una rinnovata, inconsueta e nondimeno entusiasmante veste (ironico)romantica. I quattro anni che separano il nuovo disco dalla precedente prova sulla lunga distanza - e dall’altra parentesi che ha tenuto impegnato il musicista, ovvero Last Step - hanno senz’altro un ruolo nella rinnovata vena compositiva di questo Funk innamorato come un bulldozer. L’album, colorato o chiaroscurale, non si vergogna di essere poetico (Too Far Across), esotico L u g l i o r e c e n s i o n i Venetian Snares - My Love Is A Bulldozer (Planet Mu Records,2014) e seriosamente avant-classico (Dear Poet ricorda per soluzioni à la Cage alcuni passaggi di Drukqs, She Runs) e non si vergogna neppure di giocare con il ridicolo e il caricaturale. Proprio grazie a queste alternanze, Vsnares torna ad antichi fasti e alle scintille di genio che John Peel vide in lui già ai tempi di Printf. E proprio le prime prove di Funk tornano utili per evidenziare quanto queste si specchino nell’ultimo lavoro come lo ying nello yang. All’inizio, Aaron spremeva gli aspetti più torbidi della sottocultura rave, ora pastura precisi e scintillanti amen break calandoli in cocktail lounge pre war (10th Circle Of Winnipeg …fate conto i Portishead in versione jungle-rave), medioevali visioni savonarolesche (1000 Years) o inclassificabili stramberie perse in chissà quale parallasse temporale (Amazon, My Love Is A Bulldozer). Funk non prende in giro l’amore, prende in giro se stesso. Consigliato e, per una volta, non solo ai fan die hard del canadese. 7.2/10 Viet Cong - Cassette (Mexican Summer,2014) Genere: psych, alt, wave, post-punk, garagerock Cassette, tecnicamente passo numero uno nella discografia dei canadesi Viet Cong ma in realtà già circolato lo scorso anno come cassetta, appunto, tour-only, è un disco godibilissimo ma senza un vero centro che non sia quello “chitarristico” in ogni sua forma. Nuovo nome ma vecchie conoscenze, dato che i quattro Viet Cong da Calgary non sono che un paio di ex Women (la sezione ritmica composta dal cantante e bassista Matt Flegel e il batterista Mike Wallace, fuoriusciti dopo una scazzottata interna alla band che ha in pratica messo fine alla formazione) e gente del giro Chad VanGaalen: in soldoni, garanzia di spessore, bel 155 A g o s t o / Stefano Pifferi White Lung - Deep Fantasy (Domino,2014) Genere: punk Il terzo disco dei White Lung da Vancouver è anche il loro esordio per Domino. Ed è un disco – ancora una volta – fondamentalmente punk, sia per la durata (10 brani per 22 minuti), che per il suono: battente senza tregua, chitarre lancinanti, batteria pestona, basso a seguire. Tutto, dunque, è al posto giusto, sotto la produzione di Jesse Gander, già presente in Sorry: la voce sopra le righe della cantante (Mish Way), il ripescaggio dell’hardcore qui (Sychopant), del punk anni Novanta lì (In Your Home, quasi emo). Chi ha parlato di foxcore resterà deluso, poiché le coordinate entro cui si muove il suono non hanno (o hanno molto poco di) quel metal che tanto aveva dato al sottogenere in questione. Qui si tratta invece di una via di mezzo tra la potenza di certo hardcore (senza mai i suoi tempi rapidissimi) e il primo punk americano. 156 Forse la cosa più riot grrl, invece, è la voce di Mish Way, che varia su registri prima più tenui poi più aggressivi: con un po’ di schizofrenia in più saremmo dalle parti delle Babes in Toyland di Fontanelle. Rispetto ad esempio ai contemporanei Perfect Pussy, i testi hanno sì introspezione, ma minore sofferenza da vissuto traumatico/disperato: qui la carica negativa è tutta nell’urgenza del suono, che forse paga in autenticità ciò che guadagna in brillantezza, soprattutto per quel che riguarda la produzione. Certo, siamo sempre nell’alveo punk, quindi le possibilità di aggiornamento del canone hanno possibilità risibili, e magari i pezzi non sono tutti memorabili, ma il disco conserva (anche per l’esigua durata) una certa compattezza di intenti e di sound, nel suo rifiutare gli intellettualismi e procedere tutto di pancia. La ragione per cui questo album merita non è dunque (come motivato da certa stampa straniera) il suo essere un prodotto del tempo in cui viviamo, in cui l’immagine della donna viene prima della sua essenza. E non lo è nemmeno il suo essere un disco che può ricordare quelle band femminili dei primi Novanta (cosa tra l’altro tutta da dimostrare). Deep Fantasy ha la sua ragion d’essere, come spesso nel punk, fuori da questi discorsi sulla metafisica attorno alla musica: è un disco che fa il suo dovere di macinare un suono aggressivo in maniera omogenea, senza lampi di imprevedibilità ma senza nemmeno scadere nel ridicolo. Ridurre questi pregi con discorsi sull’hype sarebbe davvero il torto peggiore che si può fare, oggi, ai White Lung. 6.3/10 Andrea Macrì Wife - What’s Between (Tri Angle,2014) Genere: dark, industrial, rnb, elettronica Nel 2012 lo Stoic EP già aveva definito delle r e c e n s i o n i L u g l i o tiro chitarristico, invenzione e fantasia, sagacia compositiva. “Labyrinthine post-punk”, per dirla con le loro stesse parole, e cioè un garage-rock mai aggressivo e piuttosto screziato, dalle forti tinte visionarie, che prende e centrifuga psichedelia docile, neo-garage sixties oriented alla Thee Oh Sees/Ty Segall, echi velvetiani nel saper dosare melodia e (r)umore, intrecci alla sei corde in stile Television con sconfinamenti “altri” – il techno-rock bluesy à la Young Gods di Structureless Design, una cover energica di Dark Entries dei Bauhaus, oppure la chiosa in una ghost track a mo’ di scherzo che sembra Warszawa di Bowie via Eno – che non fanno che aumentare le aspettative per l’album d’esordio. 6.8/10 Genere: pop, rock Purtroppo il successo planetario – annunciato a tempo debito – degli Imagine Dragons non si è limitato esclusivamente a ridimensionare (ulteriormente) a livello qualitativo ciò che l’offerta radiofonica ci propone in ambito “pop-rock”, ma ha anche fornito una discreta esposizione mediatica agli immancabili ed evitabilissimi proseliti (American Authors su tutti). Se non fosse che a volte è meglio mettere le mani avanti quando ancora si è in tempo, sarebbero evitabilissime anche queste righe r e c e n s i o n i A g o s t o X Ambassadors - The Reason EP (Interscope Records,2014) / Marco Braggion che presentano il secondo EP – intitolato The Reason – di una formazione pronta a raccogliere i frutti della band di Dan Reynolds, gli X Ambassadors, ovvero una versione più sfigata degli Imagine Dragons, (ancora) più vicina al target redneck. I punti di contatto con il gruppo del milionario Night Visions non sono pochi, ad iniziare dal grande supervisore di entrambi i progetti: Alex Da Kid. Il produttore inglese fondatore dell’etichetta KIDinaKORNER ha rinnovato il proprio fiuto per le hit (dopo aver collaborato anche con Rihanna ed Eminem), delineando un suono bombastico e sfacciatamente furbo che troviamo ben presente anche all’interno della proposta di Sam Harris (voce e degli X Ambassadors) e compagni. The Reason EP, sebbene non presenti in tracklist la traccia con cui il gruppo si è fatto conoscere (Unconsolable, compresa nell’EP Love Songs Drug Songs dello scorso anno), contiene sei brani di potenziale successo. In particolare Free and Lonely – slow-ballad dal sapore 100% americano con alcune flessioni gospel – e Jungle, rafforzata dall’animo bluesy di Jamie N Commons. Indefinibili nella loro bruttezza The Business (un pasticcio di didattiche contaminazioni elettroniche), le ridicole velleità struggenti di Unsteady e la ripetitiva Giants, probabilmente adatta a qualche telefilm di dieci anni fa nelle sue sparate alla Nickelback. Nella migliore degli ipotesi i Nostri diventeranno – e rimarranno – un fenomeno esclusivamente statunitense. 3.9/10 L u g l i o coordinate intimiste post-nu-soul su binari solidi. Gli ingredienti erano trattamenti alla voce che ampliavano lo spettro e lo straniamento, qualche percussione in linea con le teorie dei Portishead e inevitabili rimandi alla scuola James Blake. Il tutto era comunque sintonizzato su una direzione che puntava più sulla canzone che sull’effetto, sulla nitidezza delle melodie più che sull’ostentazione delle macchine e degli effetti usati in studio. Anche nel full-length James Kelly fa spuntare molti echi di pop. La voce maschile assomiglia infatti ad uno strano miscuglio fra Sting (Like Chrome), Jeff Buckley e Chris Martin dei Coldplay (Tongue), il tutto servito su un tappetino di basi nu-soul che piacciono molto alle malinconie post-How To Dress Well. In generale il tono del disco si mantiene su una buonissima capacità produttiva, che però sembra perdere mordente sulla lunga durata. Un buon lavoro “di genere” che non trattiene la tensione fino in fondo, scopiazzando il verbo di una moda già codificata. Molti brani sono comunque ascoltabilissimi e piaceranno anche agli amanti del pop tout court. 6.5/10 Riccardo Zagaglia 157 G imme S o me I nc h es # 5 0 Questo mese allunghiamo lo sguardo su vinili grossi e piccoli, nastri e digitali per Gazebo Penguins, Johnny Mox, Gli Putridissimi, Panzanellas, Alien Whale, System Hardware Abnormal, Luca Sigurtà, Believer/Law, Shallow Sanction, Lakes 158 Sempre più i formati piccolo sono terreno di incontro e/o sperimentazione, quasi un recinto in cui lasciarsi andare all’ombra dei pezzi grossi. È il caso dello split Santa Massenza, 12” dalla copertina rosso fuoco edito da To Lose La Track in cui Gazebo Penguins e Johnny Mox, apparentemente distanti l’uno dagli altri, uniscono le forze e ci regalano 5 pezzi e due racconti. Sì, letto bene, perché i formati strani permettono robe strane, come l’assemblare qualche pezzo nuovo con due racconti lunghi (il reverendo trentino e Capra dei Gazebo gli autori). Limitandoci alla musica, le due fiondate degli emiliani sono al solito nervose e chitarrosissime – doppia chitarra anche in questi due inediti, come nell’ultimo tour – tra sing-a-long, stacchi maledetti e sottile malinconia che ben si esplicita nella toccante e intima RiposaInPiedi; il lato di Johnny Mox, invece, viaggia al doppio della velocità perché a far da backing band ci sono proprio i Gazebo. Ciò significa urticante post-hc al servizio delle rime del nostro in una sorta di riproposizione del mash-up alla “Judgement Night”. L’inedita Hollow Prayers va di funk-metal d’antan mentre la rendition del cavallo di battaglia Oh Reverend ci ricorda come Johnny sia il più “rock” tra i musicisti non-rock e i Gazebo i suoi più fidi scudieri. Scendendo di giri, apprendiamo con piacere il nuovo progetto Alien Whale, sigla dietro al quale si cela Matt Mottel dei Talibam! in compagnia di Colin Langenus dei mai troppo compianti Usaisamonster e Nick Lesley dei Necking. Un 10” da 20 minuti scarsi uscito per l’inglese Care In The Community in cui i tre danno fondo ai rispettivi background, tirando fuori tre pezzi di noise psichedelico, spruzzato di avant-rock e reiterazioni kraut alla Oneida (Astral Projections And Suicidal Thoughts), classic rock e pantani cosmici e sludge (Anointus Venomous Atlanticus), afro-funk mutante e free-form. Ossessivi è dir poco. A scendere di formati, segnaliamo un paio di split-tape. In Comete, made in Lepers, perciò garanzia di follia strumentale e devasto sonico, troviamo a indagare lo spazio e gli astri i baresi Gli Putridissimi e i fiorentini Panzanellas: cosmica, drones, fiati, avant-jazz e deliqui in libertà per i primi, sempre pronti a rendere mobile la propria offerta musicale; avant-jazz screziato di afro-psych per i secondi, abili nell’infilarsi nella marea montante d’area toscana (dal giro Burp agli Umanzuki, per intendersi). L’altra tape vede protagonisti due celebrità del noise italico: System Hardware Abnormal e Luca Sigurtà si dividono i lati della tape uscita per la italo-belga Jus De Balles e vanno di ambient disturbante con glitch e rumorii vari in crescendo straniante (le due tracce di Sigurtà) e staffilate noise, G imme S o me I nc h es # 5 0 accartocciamenti sonori, sferragliare di hardware in disuso e minacciosi vuoti pneumatici per il romano. Stay noise, as usual. Altri due nuovi debutti ad accompagnare il clima altalenante di questa prima mandata d’estate. Il primo vede protagonisti i newyorkesi Believer/Law che, dopo le due tape rispettivamente su Cae-Sur-A e Robert and Leopold, arrivano al traguardo su 12 pollici per la connazionale Chondritic Sound (label gestita da Greh Holger, già Hive Mind e Pure Ground). Passati da duo (in origine composto solo da Erik Proft e Michael Berdan) a quartetto (con l’avvento di Sean Ragon e dello stesso Greh), i nostri rilasciano Matters Of Life And Death, EP di quattro brani che prosegue sulla strada intrapresa con le due pubblicazioni su nastro appena citate. Per chi non avesse ancora posato l’orecchio sulle tribolazioni sonore in questione andrà detto che tutta la paranoia, il malessere e lo spleen (tanto romanzato quanto reale) che può trasudare dai vicoli di una metropoli come NY, lo ritroviamo qua, impresso in profondità nei solchi di brani come War Story dove i synth si fanno taglienti come raggi laser, le drum machine hanno il suono di vecchi pezzi di ferraglia industriale, la voce è talmente filtrata che sembra emergere dalle fogne della città. Chiamatela come preferite: EBM, minimal-synth, industrial-wave – i pezzi dei Believer/Law sono una mistura ribollente di bad vibes, un viatico di insofferenza urbana, un incubo retro-futurista dove la strumentazione analogica serve per esprimere al meglio l’angoscia del vivere nell’era digitale. Decisamente non per tutti, ma se per voi post-punk significa ancora disagio in musica qui avrete pane per i vostri denti. Secondo debutto, stesso dosaggio di negatività ma questa volta in chiave punk rock. Parliamo dei londinesi Shallow Sanction, nuovo progetto capitanato da Jesse Cannon (già frontman nei Natural Assembly) in uscita con un 12 pollici omonimo per la Hospital di Dominick Fernow. Sei brani brevi e diretti che assimilano influenze death-rock, anarchopunk e dark-wave, in bilico tra Rudimentary Peni, Christian Death, Amebix e Conflict. Per farvi un’idea prendetevi qualche minuto per ascoltare Ouroboros o la title-track e vi renderete subito conto dell’oscurità che avvolge le sonorità di questi neo-punx. Forse niente di particolarmente originale, ma senz’altro una boccata d’aria fresca per chi è stanco di vedere il revival 80s declinato sempre più di frequente in chiave glitter-pop. L’ultima uscita del mese vede infine il ritorno di un altro gruppo dalle sonorità color pece relativamente già noto, per lo meno a chi è solito frequentare questi slums musicali (e questa rubrica). Carved Remains è infatti il nuovo singolo dei Lakes. Australiani di Melbourne con all’attivo già diversi album, il trio goth-folk guidato da Sean Bailey torna sul luogo del delitto dopo l’ultimo LP Blood Of The Grove con due nuovi pezzi che se poco aggiungono poco tolgono alla capacità compositiva del nostro: ancora una volta infatti ci imbattiamo nel marchio di fabbrica di un gruppo che mescola in chiave personale dark-punk e neo-folk con percussioni marziali, solenni chitarre semi-acustiche e grevi invocazioni baritonali. La ricetta è nota e dunque nessuna novità, ma i fan non resteranno delusi. Nel frattempo ci auguriamo che il prossimo album porti anche qualche nuova idea perché è tempo di rinnovare un po’ la formula. Andrea Napoli, Stefano Pifferi 159 Soundgarden classic alb u m Superunknown – Deluxe Edition (Universal,2014) 160 L’8 marzo 1994 Seattle ha ancora in pugno lo scettro di capitale del nuovo rock americano. Il grunge è un fenomeno musicale, commerciale e di costume dove convivono ammassati tutto e il suo esatto contrario: il revival dell’hard rock e l’utopia del punk, i valori del rock indipendente e i contratti delle multinazionali, l’autenticità delle origini e il carrozzone di MTV (e degli stilisti che copiano l’abbigliamento “straccione” dei nuovi profeti Vedder e Cobain, e del pessimo film Singles ecc. ecc. ecc.). Tra pressioni e aspettative, i Soundgarden si misurano con il disco di vertice che dovrebbe consacrarli nell’Olimpo delle migliori rock band contemporanee e ai piani alti delle classifiche. Li attende, insomma, il grande passo per cui si sono preparati meticolosamente dall’inizio della loro carriera. Fin dai primi giorni, Cornell e compagni hanno infatti cercato di essere heavy senza essere metal – o meglio troppo metal -, come di farsi ascoltare anche da un pubblico diverso da quello “elettivo” aprendo per Skid Row e Guns and Roses nelle arene, ma pure di non abiurare alle origini indipendenti. Hanno fatto anche un po’ i cani sciolti. Avevano cominciato per la Sub Pop quando non era ancora l’etichetta hip pupilla della stampa musicale. Dopo l’EP rivelatore Screaming Life si erano accasati alla SST – la quintessenza del punk metal dove poteva trovare spazio se non sull’etichetta dei Black Flag? – quale passo intermedio per l’approdo alla major AandM. In Louder Than Love ci avevano “provato” a fare un disco metal, con il loro stile un po’ dark e cerebrale, e allo stesso tempo a prendere in giro le pose corrive del genere. Metallo o non metallo? Il physique du role e gli urlacci a petto nudo di Chris Cornell, acuiti da una certa dose di tamarraggine in alcuni video, lasciavano l’ambiguità viva e fruttuosa. Da alcuni neppure riconosciuti come parte della scena di Seattle che avevano contribuito a creare, i quattro si erano presi una bella rivincita con Badmotorfinger. Il “white album dell’heavy metal” restituiva senza residui dubbi la policromia d’ispirazione che li rendeva speciali. Nessuno si era scordato la lezione di Led Zeppelin e Black Sabbath, semmai i riff di scuola hard blues anni ’70 respiravano in strutture armoniche e ritmiche articolate, nelle quali le linee tenorili di Chris Cornell sapevano dialogare su un ampio spettro di soluzioni e in modo serrato ed efficace con i pattern muscolari ma anche molto mentali e i groove ermetici di Kim Thayil e Matt Cameron, il duo che aveva in mano le sinapsi sonore del gruppo. Il terzo best-seller targato Seattle del 1991 dopo Nevermind e Ten, anche se staccato di parecchio in termini di cifre di vendita, lasciava presagire che anche i suoi titolari fossero pronti comunque per quel livello di popolarità. Con Superunknown ai Soundgarden riesce il doppio salto quantico: il risultato è la somma del loro apice creativo, degli sforzi compiuti degli anni di dura gavetta e di una produzione più accessibile che li rende fruibili al grande pubblico senza ridurli alla piattezza del bieco metal commerciale. Anzi, se c’è un disco che corona la loro visione a trecentosessanta gradi dell’hard rock è proprio questo, dove il suono più che marmoreo appare marmorizzato, ricco di sfumature di cui la proverbiale potenza è la base per una palette di timbri e di tasselli sonori ampliata e sfruttata in lungo e in largo. Un disco di canzoni basate sui riff e sulla melodia, scritte in prevalenza da Chris Cornell, grande protagonista compositivo (oltre che vocale, con i brillanti tour de force di The Day I Tried to Live o Fresh Tendrils e non solo). Un campionario di idee attinte a tutto lo scibile rock con l’hard sempre in prima linea, dal riff ipnotico di Let Me Drown al martellante power blues di Mailman, in una title-track che certifica il ruolo di Led Zeppelin degli anni ’90 e in Spoonman, una Black Dog più sincopata e corredata di controcanti e contro-riff, dedicata a un percussionista di strada che contribuisce alla parte ritmica suonando i suoi cucchiai. La parte più psichedelica, melodica e sperimentale dei Soundgarden esce allo scoperto nella drammatica Like Suicide come in Head Down, firmata dal bassista Ben Shepherd che ai tempi di Badmotorfinger era appena entrato nel gruppo ma già faceva sentire il suo apporto in termini di scrittura. È dalla sua penna che escono le cose più insolite (vedi la bizzarria/riempitivo di Half ). Se è per questo, il quartetto di Seattle non rinuncia affatto agli aspetti alternativi del proprio rock pesante – vedi le accordature di Thayil quasi alla Sonic Youth di My Wave – né a quelli “progressivi” come i cambi di metrica e i tempi dispari, composti o irregolari che ravvivano persino i pezzi più orecchiabili, primo tra tutti il pop felpato e acido della beatlesiana Black Hole Sun, insieme alla ballata dai potenti chiaroscuri Fell On Black Days. I Soundgarden ingranano le «marce alte», come ha scritto bene Chris Nixon nella sua monografia. È una percezione che da subito unisce la stessa band, le persone a lei vicine e, naturalmente, i fans. Di fronte all’”album più bianco” dell’heavy metal (come lo ribattezza Kim Thayil sottolineando lo spunto ulteriore rispetto a Badmotorfinger) anche il loro vecchio produttore Jack Endino applaude al fatto che abbiano ottenuto un album di canzoni senza cadute di tono: «Gli altri erano la ricerca di qualcosa, questo l’ha trovata». La ristampa per il ventennale dell’uscita ha fatto le cose in grande come si usa di questi tempi. La versione deluxe base in doppio CD abbina alla riedizione rimasterizzata (completa della bonus track di allora, She Likes Surprises) una raccolta di provini e lati B dei singoli. Rifatta anche la grafica del booklet, ma alla nuova preferiamo l’originale. Addirittura quattro CD e un Blu-Ray disc audio con il mix in 5.1 per la versione espansa. In molti demo – quelli di Superunknown erano «straordinari» a detta del sound engineer Adam Kasper – si possono ascoltare già i pezzi fatti e finiti, almeno nella struttura portante. Tuttavia, la registrazione non fu una passeggiata, le tensioni con il produttore Michael Beinhorn («tutti i musicisti che hanno lavorato con lui hanno detto di avere gradito affatto l’esperienza… e di solito se ne usciti con il miglior disco della loro carriera», disse una volta Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora moglie di Chris Cornell) durarono per tutto il lavoro e solo dopo il mixaggio di Brendan O’Brien il gruppo si rese conto di avere in mano il proprio vertice creativo. Appena uscito, Superunknown debuttava al numero uno in classifica e i Soundgarden si lanciavano nel primo tour mondiale da headliner. Esattamente un mese dopo l’uscita del disco, tutto cambiava. Cambiarono anche i Soundgarden che quando Kurt morì erano in pieno tour. «Non abbiamo avuto l’opportunità di piangerlo e di stare assieme alle nostre famiglie durante quel periodo». Qualcosa si era incrinato pure all’interno del gruppo, e il successivo Down On The Upside fu solo l’anticamera dello scioglimento. La recente reunion non ha dato grandi risultati, ma sarebbe utopia pensare a un nuovo Superunknown. Lo slancio del momento non si può certo replicare in vitro. E tantomeno i risultati. Tommaso Iannini 161 TRA I TANTISSIMI IN ARRIVO! 29 MAGGIO 2014: LOREDANA BERTE' 03 GIUGNO 2014: BOMBINO 05 GIUGNO 2014: CLOUD NOTHINGS 07 GIUGNO 2014: MULATU ASTATKE 11 GIUGNO 2014: ESTRA 22 GIUGNO 2014: PIERS FACCINI 24 GIUGNO 2014: MASSIMO VOLUME 26 GIUGNO 2014: CALIBRO 35 03 LUGLIO 2014: LEVANTE 07 LUGLIO 2014: NEW YORK SKA JAZZ ENSEMBLE 15 LUGLIO 2014: JOHN BUTLER TRIO 16 LUGLIO 2014: GORAN BREGOVIC 18 LUGLIO 20143: BANDABARDO' 22 LUGLIO 2014: PAOLA TURCI 24 LUGLIO 2014: WILLIAM FITZSIMMONS 27 LUGLIO 2014: EASY STAR ALL STARS 03 AGOSTO 2014: NOFX Via Granelli 1, Sesto San Giovanni (MI) www.carroponte.org Prevendite disponibili sui circuiti TicketOne e VivaTicket
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