slowdive - Sentireascoltare

digital magazine | luglio-agosto 2014 | n. 117-8
slowdive
Punti di (ri)partenza
sommario
articoli – p. 4
SOHN
Fire + Ice
Antlers
Spartiti
The Drones
The Jay Llamas
Noise Trade Company
Aphex Twin
I migliori dischi rock ‘90
Viajeros Cósmicos
Skiantos
Slowdive
recensioni – p. 98
rubriche – p. 158
#117-8
luglio-agosto
Direttore
Edoardo Bridda
Ufficio Stampa
Alberto Lepri
Coordinamento promo
Gaspare Caliri, Stefano Pifferi
Art director
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Andrea Murgia, Andrea Napoli, Stefano Pifferi, Marco De Baptistis, Andrea Macrì, Diego Ballani,
Stefano Gaz, Tommaso Iannini, Nino Ciglio, Giulio Pasquali, Federico Pevere, Stefano Solventi,
Lorenzo Costa, Elia Galli, Riccardo Zagaglia, Marco Braggion, Alessandro Pogliani,
Alessandro Liccardo, Marco Frattaruolo, Stefano De Stefano, Edoardo Bridda, Christian Panzano,
Giulia Antelli, Sebastian Procaccini, Marco Boscolo, Teresa Greco, Enrica Selvini, Daniele Rigoli
Copertina
Slowdive
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2014 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,
è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Il musicista e producer inglese si racconta in una interessante intervista. Il processo creativo, i
progetti futuri e l’approccio al live show
Testo di Andrea Murgia
© A. Troubridge
SOHN Electromagnetic Tempest
Autore di uno dei dischi più attesi e controversi di questo 2014, Christopher Taylor in arte SOHN
ha accettato di scambiare qualche parola con noi. Una bella chiacchierata, in cui ci ha raccontato
le motivazioni del suo trasferimento in Austria, come è nato Tremors e come si evolvono le tracce
in sala di registrazione. SOHN, che ricordiamo suonerà ad agosto all’Ypsigrock Festival e a ottobre
a Roma e a Milano, ha risposto garbatamente a tutte le nostre domande, sbottonandosi su progetti
futuri e ascolti personali.
Sei andato via da Londra in un momento molto particolare, quando cioè la scena elettronica
e nu-soul inglese stava definitivamente esplodendo, per andare a cercare rifugio tra le Alpi
e gli eleganti edifici di Vienna. Una scelta coraggiosa. Cosa hai trovato in Austria e cosa stavi
realmente cercando?
Penso di aver trovato quello di cui avevo bisogno, ovvero pace. Vienna è una città tranquilla, qualche
volta anche in maniera spaventosa, e credo che lo stato d’animo di questa città si sia sposato perfettamente con la parte di me che ha dato vita a SOHN.
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Dopo il tuo EP di esordio (The Wheel EP)
c’erano molte aspettative per il tuo primo
album sulla lunga distanza. Come sei riuscito
a gestire la pressione creata da questa situazione?
Principalmente credo di non aver sentito tanto la pressione. Almeno, non ero consapevole
come tutti gli altri. La mia unica pressione era
che avrei voluto finire il disco entro la fine dello
scorso anno. Sapevo che se non ci fossi riuscito,
avrei perso un importante finestra per pubblicare il mio disco.
Tremors è raffinato e allo stesso tempo irregolare, e nonostante un cantato lineare e
non proprio tecnico, dimostra che il tuo stile
canoro si sposa perfettamente con i beats che
produci. Sei a tuo agio con una vasta gamma
di ritmi e ti muovi agilmente tra poliritmie
e breakbeats: come funziona il tuo processo
creativo? Puoi raccontarci qualcosa delle
recording sessions?
Beh, comincio con dei motivetti musicali. Molto
spesso mi vengono in testa così all’improvviso e
li canto e registro sul mio telefono. Credo che il
70% delle volte la linea vocale registrata si trasformi in una melodia complementare, registrata
anche questa sul telefono. Questo significa che
anche nelle fasi iniziali del processo compositivo
ho un’idea chiara delle melodie e delle strutture
ritmiche che poi costruirò attorno alla linea vocale. Se dopo una settimana trovo ancora l’idea
e la registrazione valide e interessanti, vado in
studio e ci suono sopra.
Sembra proprio che Tremors sia influenzato
dalle atmosfere del Paese che ti sta ospitando, e solo Artefice, con il suo sound metropolitano, sembra condizionato dal tuo Paese
natale. C’è un passaggio in cui dici: :“Is it
over? Did it end while I was gone? ‘Cause my
shoulders They couldn’t hold that weight for
long and it all just feels the same”. Sembra
quasi che tu stia ammettendo di essere una
sorta di guida per le nuove generzioni di musicisti inglesi. Come la vivi?
Interessante… Non sono proprio sicuro di quello che significhi – molte volte i testi e le parole
escono di getto e il loro significato acquista consistenza a volte dopo giorni, a volte dopo mesi.
Credo che spesso i miei testi siano già “settati”
nel futuro, nel mio future, intendo. Acquistano
significato solo sei mesi dopo, quando mi guardo
indietro.
Quest’anno suonerai anche in Italia. Se non
ricordo male è una delle tue prime volte nel
nostro Paese. Come approcci il set live?
In realtà sarà la mia seconda volta nel vostro
Paese; infatti ho suonato a Torino qualche mese
fa… Il live show ora è ben delineato; con la band
abbiamo suonato circa 50 concerti e ne ho confermati circa 65 fino al 2015. È un live set con
sintetizzatori, belle luci e tanta emozione.
Recentemente Giorgio Moroder è tornado
alla ribalta con i Daft Punk in Random Access
Memories e ha ripreso con ospitate in dj-set e
live show. Segui un po’ la nostra scena elettronica e conosci musicisti o produttori del
nostro Paese?
Giorgio! Non sono al corrente di quello che sta
succedendo dalle vostre parti sinceramente, ma
sto per rientrare nel mondo della esplorazione
musicale. La voglia di ascoltare nuova musica va
e viene…
Cosa stai ascoltando in questo momento e in
che modo quello che ascolti ti influenza nella
scrittura?
Ascolto molto Wild Beasts, Dream Koala, The
Knife e East India Youth. Credo che vedremo
molto presto quanto mi hanno influenzato!
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Tra il 27 giugno e il 9 luglio, “Fire + Ice” realizzerà undici concerti in dieci paesi europei
con un’unica e rara line-up, formata da Ian Read, Michael Moynihan, Annabel Lee e Robert
Ferbrache. L'occasione giusta per raccontarvi la loro storia e proporvi un'inedita intervista
Testo di Marco De Baptistis
Fire + Ice Intervista
Il 27 luglio i Fire + Ice daranno inizio al loro
The Fractured Europe Tour facendo tappa proprio in Italia, a Genova, nella Chiesa Anglicana
(Anglican Church of the Holy Ghost) di Piazza
Marsala. A causa della peculiarità della location i posti disponibili saranno soltanto 100. Per
l’occasione, vi raccontiamo la storia del progetto
neofolk di Ian Read, corredata da un’intervista
inedita all’artista inglese.
Ian Read non è solo un pilastro del genere, ma
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soprattutto un vero Galdr che segue la via di
Odino. Sin da adolescente si avvicina allo studio
della mitologia norrena e delle antiche tradizioni nordeuropee. Alla fine degli anni Ottanta
Read inizia a collaborare con band come Current 93 (in Swastikas for Noddy) e nei primissimi dischi dei Sol Invictus (Against The Modern World, In The Jaws Of The Serpent, Lex
Talionis, etc), partecipando anche alla scrittura
dei testi. Dopo un periodo di studio trascorso in
Germania, Ian Read torna in Inghilterra, dove
darà vita a un suo progetto musicale sotto il
nome di Fire + Ice. Nel 1992 darà alle stampe
Gilded by the Sun: il disco è formato da immancabili canzoni apocalittiche e senza tempo,
memori della lezione dei Death In June. Il
disco contiene brani come Long Lankin e Blood
of the Snow, quest’ultima una delle più famose
canzoni di Read, nonché classico immortale del
genere.
Tra i suoi dischi più importanti, dopo le ballate dark folk di album come Midwinter Fires
e Hollow Ways, è d’obbligo segnalare Rûna,
recentemente ristampato in vinile da Autre Que
per la gioia degli appassionati. Tra evocative
tastiere e cupe percussioni marziali, il disco
costituisce un viaggio in una sorta di etereo e
minimale folk-post industriale. L’opera è consacrata alla mitologia norrena e alla mistica delle
rune di cui Read è un profondo conoscitore,
essendo anche Maestro della Gilda della Runa.
Weirdstaves: Fyrstr Aettir / Annar Aettir / Þriði
Aettir è una lunga composizione di quindici
minuti, divisa in tre parti e presente in Rûna,
e può essere considerata l’emblema essenziale
della ricerca spirituale e musicale di Read.
Dopo Birdking, disco realizzato nel 2000 con
la partecipazione di Michael Moynihan e Annabel Lee ed un bellissimo split 7″ con i Death In
June, nel 2012 Ian Read torna finalmente con
un nuovo disco, ovvero Fractured Man. Anche
qui siamo in presenza di un dark-folk con una
personale vena cantautorale. E’ un lavoro che
riassume ed affina il percorso artistico del musicista inglese. Read non mancherà di collaborare
anche questa volta con Douglas Pearce nel brano di esordio (Fractured Man) e nel brano finale
del disco (Fractured Again), a suggello dell’amicizia fraterna tra i due.
Essenziale l’apporto di Michael Moynihan alle
percussioni e Annabel Lee al violino che, assieme a Robert Ferbrache, accompagneranno Ian
Read anche nel tour europeo: una scelta quasi
d’obbligo dopo l’ottima performance al Stella
Natura Festival in California del 22 settembre
2013.
Il progetto Knotwork (Michael Moynihan,
Annabel Lee and Robert Ferbrache) formato
dai musicisti che suoneranno assieme a Ian
Read durante il tour europeo, aprirà i concerti
di Fire + Ice con ballate tratte dalla tradizione
folk britannica e irlandese. Tutti e tre i musicisti
provengono dal famoso progetto martial neofolk
Blood Axis che, oltre a pietre miliari del genere come The Gospel Of Inhumanity, hanno
realizzato anche uno storico ed imprescindibile
disco live Blót: Sacrifice In Sweden realizzato
il 15 novembre del 1997 a Skylten, Linköping,
durante il decimo anniversario della label svedese di musica industrial, Cold Meat Industry.
La data genovese sarà aperta dal gruppo ligure Tears Of Othila, alfieri di un folk che si
pone nel segno della tradizione, disegnando un
paesaggio melanconico intriso di rune, boschi
incantati ed elementi provenienti dalla tradizione pagana, celtica e mediterranea. Qui di seguito, pubblichiamo nove domande (il numero non
è casuale per chi ha familiarità con la mitologia
nordica) a Ian Read:
Quando hai iniziato a sviluppare il tuo interesse per le rune, il paganesimo e la mitologia norrena?
Sono cresciuto in un mondo che aveva più
anima, con meno distrazioni e vanità. Ho iniziato ad interessarmi a queste cose quando ero
ancora molto giovane. Il mio interesse ed il mio
coinvolgimento è diventato molto più serio una
volta compiuto il mio giuramento a colui che
con un occhio cieco vede tutto [Odino, ndSA].
Oggi, molti giovani sono affascinati dal paganesimo e dalla ricerca delle proprie radici:
cosa ne pensi?
Credo che solo una minoranza d’individui abbia
ancora una scintilla che può portarli a cercare
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qualcosa di più. I più saggi tra loro, in verità,
sono alla ricerca di qualcosa che gravita attorno
a ciò che già sono. Ciò deve essere, per molti
versi, appagante.
Che cosa significa il nome Fire + Ice?
Una possibile risposta potrebbe essere che il
nome rappresenta due estremi tra i quali muoversi alla ricerca del necessario equilibrio.
Rûna è il tuo capolavoro ed è stato ristampato di recente. Perché quest’album è così
importante per te?
Perché una cintura nera è importante per un
artista marziale o il conseguimento di un dottorato di ricerca è fondamentale per uno studioso?
Come hai conosciuto Douglas Pearce, Tony
Wakeford e David Tibet? Oggi, quali sono i
tuoi rapporti con loro?
Douglas e Tibet li ho incontrati ad una festa a
casa di Freya Aswynn, nel nord di Londra. Tony
l’ho incontrato un po’ più tardi, tramite loro.
Douglas ed io siamo ancora molto amici e mi
sono esibito spesso in concerto con i DiJ nel
corso degli anni.
Raccontaci qualcosa della tua collaborazione
con Michael Moynihan, Annabel Lee e Robert Ferbrache. Sei un estimatore dei lavori
dei Blood Axis?
Sono tre amici, mi piace molto la loro compagnia e stimo tutti i loro lavori. Questa line-up
per il nostro tour è una rara opportunità, per noi
come band e anche, ovviamente, per il nostro
pubblico. Teoricamente, si potrebbe lavorare
con qualsiasi gruppo di musicisti competenti ma
lavorare con persone degne e fidate, con cui si
sta bene assieme, è un po’ la ciliegina sulla torta.
Che cosa pensi dell’attuale scena musicale
neofolk?
Non è un segreto che io abbia poco interesse per
la maggior parte delle band “neofolk”, perché
ritengo che la loro musica sia meno interessante rispetto a quella dei veri gruppi folk; inoltre,
le credenze rivendicate nei loro lavori, molto
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spesso, sono solo affettazioni. Credo che oggi il
termine neofolk abbracci così tanti stili diversi
che la parola abbia perso un po’ del suo significato originario.
Qual è il tema principale del tuo ultimo
album? Chi è oggi un fractured man e come
riconoscerlo?
Tutti i miei album contengono elementi della mia comprensione di qualcosa che non può
essere spiegato. La canzone Fractured Man,
in questo senso, vale sempre la pena di essere
riascoltata.
Che tipo di futuro immagini per l’Europa e
per i suoi popoli? Hai chiamato il tuo tour
“The Fractured Europe Tour”: puoi dirci
quali fratture affliggono l’Europa e il resto
dell’Occidente?
A meno che, dopo una fase d’incertezza ed oscurità, più anime degne non abbraccino la ricerca
di qualcos’altro, penso proprio che il futuro sarà
davvero triste. Trovare e aiutare queste persone
fa parte della Grande Opera ed è il lavoro della
mia vita.
A pochi giorni dalla release ufficiale di "Familiars", abbiamo incontrato il frontman degli
Antlers, per uno scambio di battute che ha toccato passato e presente della band, motivi, scelte
e retroscena del nuovo disco.
Testo di Nino Ciglio
Antlers
L’importanza di essere inclusivi.
Peter Silberman e i suoi Antlers sono una band
da ritmi estremamente distesi. Malgrado i due
EP che hanno rappresentato il seguito di Burst
Apart del 2011, la band newyorkese ha preso
l’andamento lento dei maestri artigiani nel limare il dettaglio, abbellire, decorare, sublimare,
nel concepire nuovo materiale su formato lungo.
Familiars è arrivato con un singolo di grande
impatto (Palace) e una manciata di canzoni che
– come spesso accade alla band di Silberman
– mette a fuoco l’emozionalità, i turbamenti
dell’anima, i flussi psichici come fonte primaria.
Come era successo in quel lontano 2009 che
– un po’ a sorpresa – li aveva consacrati nell’Olimpo dell’indie con Hospice, anche Familiars
ha una gestazione lunga e, per certi versi, dolorosa. Ma, come scopriremo chiacchierando
con Silberman, il processo di pacificazione che
soggiace al disco è decisivo già nel momento
dell’ideazione e non solo in quello catartico della
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performance.
A pochi giorni dalla release ufficiale di Familiars (7 giugno 2014), abbiamo incontrato il
frontman degli Antlers, in uno scambio che ha
toccato passato e presente della band, motivi,
scelte e retroscena del nuovo disco.
Qual è stato il cambiamento più significativo
dal 2012 di Undersea a Familiars?
Il cambiamento più grande è stato un cambiamento di ritmo. Il nostro tour si era esaurito e io
sono tornato alla mia solita vita a Brooklyn per il
periodo più lungo da prima di andare in giro nel
2009. Passare da una vita da tour a una vita da
casa può essere disorientante. Ho dovuto lavorare per sviluppare qualche tipo di compattezza,
per sistemare il tutto.
Hospice era stato ispirato da due anni in isolamento a Brooklyn. Qual è l’ispirazione che
sta dietro a Familiars?
L’isolamento a cui ti riferisci non è relativo a un
posto specifico, come se avessi vissuto in una
grotta. Familiars è stato ispirato da moltissime
cose, forse troppe per citarne solo una. Ma è
stato anche condizionato da alcuni stati mentali,
molti dei quali rientrano sotto “l’ombrello” del
crescere.
Quanto tempo ci è voluto per scrivere e registrare Familiars? Com’è andato il processo
di scrittura e di registrazione? Ci sono stati
momenti complicati?
Questa volta ci è voluto un po’ più del solito,
avendo lavorato quasi tutti i giorni per un anno.
Poiché si è dispiegato per così tanto tempo, il
processo di scrittura non è stato mai a senso
unico. In alcuni periodi è stato molto arduo, in
altri molto naturale e facile. È dipeso dallo stato
d’animo di ognuno di noi, ogni giorno.
Familiars ha un sound e una scrittura molto
intima e introspettiva, anche di più rispetto
ai precedenti lavori. È questa la direzione che
volete intraprendere o è un fattore isolato
dipeso da un particolare stato d’animo?
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A volte la scrittura vuole catturare un determinato stato d’animo di un determinato momento,
come un’esclamazione non filtrata di ciò che
sento in quel momento. Altre volte, è una meditazione di un sentimento complicato che ho e
che provo a risolvere. In un certo senso, questo è
un disco sul fare pace con se stessi, ma che spesso richiede di comprendere la guerra che già si
combatte.
Avete autoprodotto il disco. Non sentite mai
il bisogno di un ascoltatore esterno?
Ci ho pensato spesso, ma le nostre produzioni
sono così legate al nostro processo di scrittura,
che sarebbe arduo portare un produttore esterno senza che lui stesso sia un membro della
band.
Com’è stato il vostro rapporto con Chris Coady, che ha mixato Familiars?
Chris è magnifico. È stato una voce della ragione per noi, dal momento che abbiamo lavorato
sul disco per troppo tempo per avere una buona
prospettiva.
E Darby e Michael?
Beh, noi tre funzioniamo come se avessimo sempre una sorta di conversazione non verbale.
Sentite Familiars come la naturale evoluzione del vostro sound o avete forzato un po’ la
mano per farlo funzionare?
Probabilmente entrambe le cose. Abbiamo
seguito il nostro intuito durante il processo
di realizzazione, ma spesso l’intuizione ci ha
indirizzato verso tecniche che abbiamo dovuto
esercitare, per farle funzionare. Abbiamo tutti
un background jazz ed è stato naturale portare
questo elemento nel disco, ma per farlo suonare nel modo in cui volevamo, abbiamo dovuto
sviluppare maggiormente le nostre capacità di
musicisti.
Pensi che Hospice vi abbia fatto rivalutare o
rivedere le prospettive e le ambizioni della
vostra carriera? Vi aspettavate tutta questa
pressione su di voi?
Hospice ha cambiato tutto. La reazione a quel
disco ci ha aperto un intero universo. La mia
ambizione per questo progetto era abbastanza
bassa, comparata a quello che siamo riusciti a
fare dal 2009. Quel disco mi ha fatto riposizionare le traiettorie e gli obiettivi come musicista.
Non mi sono mai aspettato di avere pressioni
esterne su di noi; semmai, l’unica pressione a
cui vale la pena dedicare attenzione, è quella
che metti tu su te stesso. È l’unica che puoi controllare. La pressione delle critiche o del pubblico è una cosa reale, ma da cui devo provare a
mantenere le distanze. Non è mia responsabilità
soddisfare le idee che qualcuno ha su come io
debba fare musica.
Guardando il vostro percorso finora, quale
fra Hospice e Burst Apart riflette meglio
l’idea di musica che vi ha portato a concepire
Familiars?
Credo che entrambi i dischi siano nel DNA di
Familiars, ma credo anche che contemporaneamente l’album abbia un’identità propria. Non
ascolto i nostri vecchi dischi mentre lavoriamo
ai nuovi, per cui qualsiasi somiglianza si possa trovare nell’ultimo è probabilmente dovuta
al fatto che è suonato dalle stesse persone che
hanno suonato i dischi precedenti.
Ci sono canzoni preferite o storie legate ad
esse di cui puoi o vuoi parlarci?
L’estate scorsa ho passato una giornata guidando da solo verso la costa della California centrale, fermandomi in un motel a Big Sur. Verso
mezzanotte, ho deciso di allontanarmi per un
po’ dal motel ed esplorare il litorale fra le tenebre. Ho guidato un po’ e portato la macchina
nel mezzo di una piana con un forte vento e una
nebbia terribile. Per qualche momento, tutto
era in silenzio ed ero convinto di essere l’ultima persona viva sulla faccia della Terra. E poi
ho sentito un suono terrificante: tipo la risata
di un branco di predatori. Non potrei dire se
erano lontani o vicini, ma sembravano a caccia.
Sono tornato in macchina, rientrato nel motel e
ho scritto la maggior parte delle parole di Doppelgänger prima di dormire.
Palace, Hotel, Refuge… è tutto così inclusivo
in Familiars. Sembra che ci si proietti all’interno per fuggire da un esterno che fa paura.
È così?
Fantastico che tu ci abbia trovato questa cosa.
L’”inclusività” è importante. Ho sempre scritto
cose che volevano pianificare una distanza fra
me e l’ascoltatore. E sono sempre uscito da questo processo sentendomi egoista. Questa volta,
però, ero più interessato all’aspetto pacifico.
Molti problemi della nostra vita ottengono una
risposta dal conflitto, e spesso le battaglie che
abbiamo con gli altri sono semplici proiezioni
di battaglie che abbiamo con noi stessi. Se riesci
a creare un senso di pace e sicurezza con te
stesso, dovrebbe essere naturale diffonderlo agli
altri attorno a te. Questa è la mia speranza.
Il soul, Jeff Buckley, l’ambient, le ballate… la
tua voce sembra sempre migliorare. Hai trovato qualche nuova ispirazione negli ultimi
anni?
Grazie! Ultimamente le mie voci preferite sono
state Nina Simone, Leonard Cohen, Desmond
Dekker, Al Green, Otis Redding e tanti altri…
Amo i cantanti che lasciano che il loro cuore
parli attraverso la loro voce.
Quali sono le vostre aspettative per Familiars?
Non posso prevedere il futuro. Spero solo che
le persone riescano a trarre dal disco ciò di cui
hanno bisogno. Per quanto mi riguarda, concepire il disco mi ha aiutato a diventare più
compassionevole verso i miei amici e verso me
stesso. Spero che possa succedere altrettanto
anche a chi lo ascolta.
Correggimi se sbaglio, ma non siete mai venuti in Italia, giusto?
Mai! Speriamo disperatamente di rimediare!
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“Spartiti” è, soprattutto, la storia di Max Collini (Offlaga Disco Pax) e Jukka Reverberi
(Giardini di Mirò, Crimea X). E’ il racconto della loro amicizia e dell’immaginario unico che
sanno ricreare.
Testo di Federico Pevere
Spartiti il desiderio di essere come
l’Emilia
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“Spartiti” è la storia di tanti incontri, “sopra e
sotto tanti palchi in giro per l’Italia”. E’ una storia politica, nata “in una sezione del PCI”, coltivata ovunque, sempre, comunque. E’ il racconto
di una terra che racchiude tutto, l’Emilia, i suoi
cantori, i suoi frammenti e tutto il resto. “Spartiti” è, soprattutto, la storia di Max Collini
(Offlaga Disco Pax) e Jukka Reverberi (Giardini di Mirò, Crimea X), è il racconto della loro
amicizia e dell’immaginario unico che sanno
ricreare, andato perso, poi devastato, di nuovo
vivo. L’uno accompagna l’altro. Una cosa naturale, che mobilita l’istinto. Un racconto sulle
macerie e le dolcezze passate. Ma non chiamatelo reading. Perché, Max? “Perché alla parola
“reading” molti associano istintivamente l’idea
di una cosa parecchio noiosa, mentre io e Jukka
vogliamo rendere uno spettacolo come questo
il più coinvolgente possibile dal punto di vista
emotivo e magari pure divertente, nonostante i contenuti non siano sempre leggerissimi”.
Quando è arrivata la scintilla, l’idea dello spettacolo? “Io e Jukka abbiamo iniziato a collaborare
nel 2007, quasi per caso. Mi invitarono a Verona
a un piccolo festival per leggere delle cose e
non volevo andare da solo. Chiamai Jukka e gli
dissi: “oh, se vuoi darmi una mano facciamo che
io leggo quel che mi pare e tu suoni quel che ti
pare”. Puro estemporaneismo insomma. A un
certo punto fu chiaro ad entrambi che avremmo
potuto strutturarci meglio e mettere in piedi
qualcosa di più impegnativo, senza per questo
perdere di vista la motivazione iniziale: fare
qualcosa che piacesse ad entrambi senza troppe
pretese intellettuali”. Il tutto partendo da alcuni
stralci tratti da autori quali Pier Vittorio Tondelli, Simona Vinci, Paolo Nori e Gianluca
Morozzi, oltre naturalmente ad alcuni racconti
scritti appositamente, e per varie ragioni non inseribili in una dimensione ODP, da Max Collini.
Il tutto inondato dalle intuizioni e dalle divagazioni sonore di Jukka, sospese tra carezze ar-
peggiate, primitive, e sospiri dal sapore analogico: né accompagnamento, né sostegno insomma,
semplicemente parte integrante e indivisibile di
un racconto mirato, capace di rimbombare nelle
pance e nelle teste.
Leggo nella cartella stampa che “Spartiti”
vuole presentarsi come uno spettacolo che
ha “l’intento di portare al centro del dibattito l’insieme e non le singole parti”. L’insieme,
dunque, di un’epoca. Molti la chiameranno
operazione nostalgica. La nostalgia aiuta? E,
se sì, a fare cosa?
Abbiamo escluso dai nostri propositi qualunque
pretesa di rappresentazione storica e/o generazionale in senso universale, limitandoci a un
punto di vista molto personale e del tutto scevro da tentazioni pedagogiche. Per quanto mi
riguarda vale anche per gli Offlaga Disco Pax.
Per “Spartiti” ho scelto alcuni passi di autori a
cui sono particolarmente legato, tutti contemporanei e quasi tutti emiliani. E’ un omaggio a
chi in qualche modo può avere influenzato il
mio modo di raccontare, o più banalmente ad
alcuni libri che ho amato particolarmente. Il
nostro è un atto d’amore per quelle pagine, che
ho sempre trovato emozionanti e illuminanti.
La sonorizzazione che ne fa Jukka rende quelle
parole, secondo me, ancora più forti.
Come inserisci “Spartiti” nella tua carriera
artistica? O meglio, nella tua carriera umana…
E’ una cosa che mi piace fare, credo che questo
piacere nel farla venga percepito anche da chi
viene ad ascoltarci. Alcuni racconti miei inediti
che abbiamo scelto per lo spettacolo non sono
per vari motivi (vuoi per la lunghezza, vuoi
per l’argomento o semplicemente perché non
ci andava) stati usati per gli ODP, ma invece li
ho trovati molto adatti a un ascolto più intimo
come quello che richiede “Spartiti”.
Capovilla dice che “per cambiare questo
Paese, bisogna fare cultura”. I reading sono
il suo modo di fare cultura. Vuoi anche tu
cambiare questo Paese?
Io sarei già contento che questo Paese non cambi troppo me.
Clementi legge Emanuel Carnevali, Capovilla affronta Majakovskij e Pier Paolo Pasolini.
Entrambi lo fanno a modo loro. In che modo
bisogna rapportarsi agli scritti altrui?
Suppongo che ognuno si rapporti all’opera
altrui a modo suo. Per quelli che ho scelto per
“Spartiti” la questione è molto semplice: sono
brani, racconti o storie che avrei voluto scrivere
io, da quanto mi sono sentito coinvolto da essi.
Credo che ci sia una qualche forma di invidia di
fondo, oltre che di stima per chi li ha scritti.
Cito ancora Capovilla, ma questo parallelismo mi sembra interessante: “io sto cercando un po’ di approfittare di queste ali che mi
sono spuntate sulle spalle e non me le aspettavo: il successo. Vorrei approfittare del successo per fare qualcosa di più”. Perché non
approfittarne, Max?
Il nostro “successo” è talmente infinitesimale
rispetto alla dimensione reale delle cose che
sarebbe ridicolo anche solo pensare di poterne
approfittare per qualcosa, per quanto positivo
voglia essere quell’approfittarsi. Capovilla, nei
concerti de Il teatro degli orrori, si trova davanti migliaia di ragazzi molto giovani e si sarà
posto un problema di ruolo e di responsabilità
rispetto a questo.
L’impostazione dei reading è ormai standard, una cosa consolidata. Parole + accompagnamento musicale. Il gioco è fatto. Dietro
non sembra esserci particolare originalità.
Come potrebbe evolversi questo tipo di spettacolo?
Suppongo che la ricerca dell’originalità non
sia esattamente la cosa che spinge chicchessia
a fare uno spettacolo di questo tipo. Io credo
che la differenza la facciano i contenuti che
si scelgono, punto. Non basta mettere qualcu-
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no che legge e qualcuno che suona a rendere
interessante la faccenda. Conta cosa si legge,
cosa si suona, come si legge, come si suona. Ho
visto con questo schema spettacoli noiosissimi,
verbosissimi, lentissimi e altri invece freschi, divertenti, ironici. Per “Spartiti”, potendo scegliere, preferirei la seconda che ho detto.
L’impressione che una parte di pubblico potrebbe avere guardando questo tipo di spettacoli, è che siano “un modo di arrotondare
lo stipendio”, detto proprio grezzamente.
Una particolare evoluzione (tutta italiana,
direi) che porta gli artisti a mettersi in gioco
in diversi campi, la letteratura (e penso ai romanzi di Bianconi, Sangiorgi, Simone Lenzi,
etc.), i reading (voi, Clementi, Capovilla, Wu
Ming con Pillia e Sommacal nel bellissimo
e commovente Razza Partigiana) e chissà
cos’altro in futuro. Nel tuo caso, l’attività di
“Spartiti” non si discosta molto dalla attività di cantastorie di Max negli Offlaga Disco
Pax. Come giudichi “questi movimenti”?
Rispetto agli ODP “Spartiti” è un altro modo di
raccontare, le parole non sono solo mie, i suoni di Jukka non sono certo quelli di Enrico e
Daniele. Per inciso con questo progetto nessuno
di noi due arrotonda granché, io al massimo
tengo in allenamento l’ego, che non si sa mai.
Cambiano di molto l’approccio, lo stile, il senso
delle cose. E’ un altro campo di gioco, del resto
anche la mountain bike e il ciclismo su strada
non sono lo stesso sport, anche se si pedala in
entrambi i casi. Faccio presente, visto che li hai
citati, che Simone Lenzi dei Virginiana Miller ha scritto due libri davvero bellissimi e non
è detto che uno debba per forza essere buono a
bere solo la sua tazza di tè. Simone sa scrivere,
non è solo uno bravo con le canzoni. Un docente
universitario ha pubblicato qualche anno fa un
saggio (!) sui testi che scrive da sempre per il
suo gruppo e un editore importante ha commissionato a Simone una traduzione di Marziale
(!!!). Metterlo nel calderone assieme a Sangiorgi
mi pare una semplificazione eccessiva. La cosa
tutta italiana è la sufficienza, a volte, con cui si
giudica il lavoro altrui. Nel caso di Simone Lenzi
non parliamo di un artista sovraesposto che
gode di spazi di manovra infiniti (vedi Sangiorgi
appunto), ma al contrario di uno che nonostante un innegabile peso specifico si è fatto anni e
anni di gavetta e solo oggi raccoglie soddisfazioni che avrebbe meritato assai prima. Ah, volevo
dire che io scriverò un romanzo prima o poi,
con molta calma però…
Anticipaci qualcosa su questo romanzo,
Max…
E’ una idea che ho in testa da almeno sette o
otto anni, ma non ho mai iniziato a scriverlo se
non qualche appunto disarticolato. La storia
dovrebbe essere ambientata nel 1981, quando
avevo quattordici anni. Una specie di romanzo
di formazione insomma. Di più non saprei dire,
se non che magari prima o poi lo faccio sul serio,
invece che immaginarmelo e basta. Certamente
nel romanzo ci sarà Guido, un ragazzo un poco
più grande di me di Villastrada (un paesino sulla
riva del Po nel mantovano) che all’epoca allevava suini nell’azienda agricola di suo padre. Un
personaggio strepitoso che purtroppo ho perso
di vista da almeno una trentina d’anni e che non
ho mai più incontrato da allora. Ho controllato:
su facebook non c’è.
Chiudete lo spettacolo con “Qualcosa sulla
vita” dei Massimo Volume. Da brividi…
E’ un piccolo omaggio ad un gruppo importante
che amiamo entrambi moltissimo, da sempre. Il
brano non lo conoscevo e fu Enrico Fontanelli
degli Offlaga Disco Pax a suggerirmi di ascoltarlo ormai dieci anni fa. L’ho sempre trovato un
pezzo molto potente, pur essendo una canzone
dalle strutture delicate, all’apparenza fragili.
Ora dal vivo la dedichiamo a lui ed è inevitabile
che sia così. Anche Jukka era un grande amico
di Enrico. E’ un momento molto difficile. Do-
menica 6 Luglio a Mantova ci sarà un piccolo
festival per Enrico, organizzato dalla famiglia,
da qualche amico e da noialtri ODP. Si chiama
“Ancora festival” e sarà bello ritrovarci per lui.
Suoneremo anche io e Jukka, Enrico non ci aveva ancora visti e rimediamo in questo modo.
E’ previsto un album per “Spartiti”? Sarà
registrato dal vivo? I brani inseriti saranno
quelli già rodati sul palco? Raggiungerà i negozi o lo venderete solo durante i live?
Abbiamo da tempo deciso di dare una testimonianza dal vivo del nostro spettacolo, ed esce
proprio in questi giorni un CD con alcuni dei
brani registrati qualche mese fa a Pesaro, alla
Casa del Popolo di Villa Fastiggi, in occasione di un concerto davvero ben riuscito. E’ una
edizione limitata curata dall’etichetta Secret
Furry Hole, specializzata in questo tipo di
uscite molto particolari e curatissime. Al CD è
allegato un piccolo libro con i testi originali dei
miei racconti per “Spartiti”. Sarà disponibile
ai concerti e per corrispondenza. Per un vero e
proprio album di “Spartiti” c’è tempo, vedremo
se e quando sarà possibile.
Max legge gli ultimi versi di Qualcosa sulla Vita.
Si siede fra il pubblico. Tutti insieme guardano
Jukka piegato sulla chitarra. Una coda che sembra infinita, densa. Uno schiaffo alla vita dato ad
occhi chiusi.
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Ad un anno dall’uscita dell’epico “I See Seaweed” e in attesa della partecipazione dei Drones
al Vasto Siren Festival, facciamo il punto della situazione con Gareth Liddiard, figura di
riferimento del nuovo rock Australiano.
Testo di Diego Ballani
The Drones Intervista
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“Tutti assomigliano a qualcun altro“, secondo
Gareth Liddiard. “Nick Cave suona come David
Thomas o Johnny Cash o Elvis, Tom Waits sembra Captain Beefheart“. Spetta a lui completare
la genealogia. Quella di una genia di autori dal
cuore nero per cui la tradizione è una sequenza
di tragedie dell’ordinario issate allo status di
mito. Gente abituata a raschiare con le unghie
nei recessi più oscuri dell’animo umano.
E’ un tipo tosto Liddiard. Schietto e molto
pratico. Di certo un poeta vero, costruttore di
alchimie sonore che gli sono valse già un Australian Music Prize (nel 2004, con Wait Long
By The River…) e l’inserimento dei suoi dischi
nella lista dei migliori album mai usciti dal
nuovo continente. La vita della sua band (fatta
di continui cambi di line up, perenni problemi
legali, tour infiniti) ne riflette, in un certo senso,
il travagliato universo interiore. Eppure Gareth
è un instancabile lavoratore, che pur di riuscire
a campare con la propria musica non ha esitato
a dar vita a collaborazioni e progetti collaterali
che ne hanno consolidato lo status di artista e
figura di riferimento del moderno rock australiano. Per questo l’attesa del concerto dei Drones
che si terrà il 25 luglio, nell’ambito del Vasto
Siren Festival, è quanto mai spasmodica. Nel
frattempo abbiamo contattato lo stesso Gareth,
per cercare di fare il punto della situazione ad
un anno dall’uscita di I See Seaweed.
In prospettiva, cosa pensi oggi di quel disco?
C’è qualche risultato che, guardando indietro agli ultimi mesi, senti di aver raggiunto
grazie ad esso?
Penso che sia un disco abbastanza buono. Alcune parti sono davvero grandi, altre riascoltate
ora fanno schifo, ma non è che passi tutto il mio
tempo a riascoltarlo. Non sono una persona
così orgogliosa di quello che fa. Non vedo nessuna ragione particolare di essere fiero di I See
Seaweed se non per il fatto che è un buon disco
e che è stato divertente realizzarlo.
Perché ci avevi messo così tanto a realizzare
il seguito di Havilah?
So che sembra sia passato un sacco di tempo,
ma la verità è che siamo stati solo molto occupati. Dopo Havilah ho fatto un disco insieme ad
un ragazzo che si chiama Ben Salter. Poi uno
solista, che ho anche promosso con un tour. Poi
i Drones hanno realizzato un DVD live e promosso anche quello con un tour. Poi io e Fiona
(Kitschin, bassista della band, ndSA) abbiamo
fatto un disco con Spencer Jones e James Baker
e siamo andati nuovamente in tour. Quindi io,
Fiona e Dan (Luscombe, il chitarrista, ndSA)
abbiamo costruito uno studio nostro. Nel frattempo ho iniziato a scrivere i pezzi per il nuovo
album. Infine lo abbiamo registrato. Forse non
sembra, ma sono stati cinque anni piuttosto
impegnativi!
Cinque anni sono comunque molti. Come si
sono tradotti in termini di differenze fra i
due album?
Riascoltandolo ora, Havilah mi sembra più confuso e discontinuo, mentre I See Seaweed è più
uniforme.
E in termini di songwriting, soprattutto
rispetto ai tuoi primi lavori, che evoluzione
pensi di avere avuto?
Diciamo che non sono il tipo di persona che ha
ancora il poster dei Ramones appeso sul letto,
all’età di 38 anni. Amo la cultura degli adulti
come quella dei teenager, perché sono un uomo
a cui piace divertirsi. Non sono uno snob. Mi
piace Eric Satie e mi piacciono i Black Flag.
Sono quello che sono e in questo momento ho
38 anni e scrivo canzoni che parlano di cose che
pensa un trentottenne. Questa è la differenza
principale fra le mie prime canzoni e quelle
successive.
Quali sono questi temi da trentottenne?
Sono interessato a tutto. Davvero. Ci vorrebbero
anni per spiegartelo. Molto di quello che scrivo
è autobiografico. Altre sono solo stronzate.
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Nel corso di tutti questi anni la line up dei
Drones è cambiata diverse volte. A questo
punto può essere considerato un tuo progetto solista?
Che differenza fa? Bob Dylan scrive canzoni e
cazzeggia insieme ad un sacco di musicisti diversi, ma rimane sempre Bob Dylan. Jeff Tweedy scrive canzoni e cazzeggia con un sacco di
musicisti, ma per tutti è sempre i Wilco. Quando schiacci play è sempre la solita cosa.
Come cantautore abituato a toccare temi
non facili, mi piacerebbe sapere se credi che
la musica abbia ancora la forza di comunicare concetti complessi dal punto di vista
emotivo e politico, o se è rimasto solo l’intrattenimento…
Penso che la domanda dovrebbe essere: “Credi
che l’intrattenimento abbia la forza di comunicare concetti complessi?”. Tutta la musica è
intrattenimento, così come lo sono il football o il
sadismo. Chiunque dica il contrario soffre di un
terribile complesso di superiorità. Sì, penso che
la musica possa ancora essere utile a cambiare
le cose. A volte accadono cose alla The Times
Are A Changin’ di Bob Dylan e qualche altra
volta la musica rende gli accenti sud africani
accettabili alle orecchie degli occidentali, come
nel caso dei Die Antwoord.
C’è qualche nuovo gruppo o artista che ti
piace particolarmente?
Mi piacciono cose tipo My Disco e HTRK.
Ascolto un po’ di tutto, ma in generale apprezzo
tutto quello che non suona fasullo o non autentico.
Cosa pensi dello stato dell’arte dell’odierna
guitar music? E’ stato detto tutto o è ancora
possibile stupire con qualcosa di nuovo?
E’ sempre difficile ascoltare qualcosa di nuovo
quando hai più di trent’anni, soprattutto in ambito chitarristico. L’intero concetto di “nuovo” è
molto “ventesimo secolo”. Cosa dovrebbe significare oggi “nuovo”? Per alcuni la nuova guitar
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music è l’ultimo disco dei Muse, per altri è un
vecchio disco di Bill Orcutt che hanno appena
scoperto. Un fan dei Muse potrebbe pensare che
la musica di Bill Orcutt sia solo rumore e un fan
di Orcutt che quella dei Muse sia derivativa e
stupida. Non credo che ci possa essere qualcosa
di nuovo e credo che in fondo, nessuno lo voglia
veramente. Se gli appassionati di musica volessero qualcosa di nuovo avrebbero tutti familiarità con John Cage come io ce l’ho con Hendrix.
Gli appassionati di musica cercano solo nuove
interpretazioni di cose che sono loro familiari,
sempre che cerchino veramente qualcosa. Internet poi ha cambiato il significato di “attuale”.
La roba vecchia è talmente accessibile oggi, che
qualsiasi stile degli anni Sessanta può suonare
attuale.
In questo momento stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Sì, ho iniziato a lavorare al nuovo album dei
Drones. Siamo ancora alle fasi iniziali, non ho
ancora idea di che direzione prenderà.
Quando sarà pronto pensi che lo pubblicherai autonomamente? So che in passato hai
avuto rapporti difficili con le etichette…
Vedi, una volta le etichette erano quelle ti avrebbero dato i 50.000 dollari di cui avevi bisogno
per affittare uno studio e realizzare un disco.
Ora abbiamo Internet, con il crowdfunding,
iTunes, etc…mentre sui laptop abbiamo studi di
registrazione che non sono costati 2.000.000 di
dollari. Pertanto le etichette, come anche i CD,
dovrebbero semplicemente morire. Sono un
anacronismo.
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Tra etno-retrofuturismo, library music, (afro)psichedelia pesante e madchester sound,
l'esordio dei nostri Lay Llamas ha attirato le attenzione dell'underground che conta. Festival
psych europei, la firma per Rocket, il riconoscimento a tutte le latitudini fanno del duo/
quintetto italiano una delle più effervescenti storie da indagare
Testo di Stefano Pifferi
The Jay Llamas
A spacedelic afrokraut trip toward the spheres
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Psicogeografie post-italian occult psych che si
irradiano, proprio come il vento da cui traggono
l’ispirazione per il l’album d’esordio, dal sud del
mondo – un sud immaginario, luogo della mente
prima ancora che origine fisica dei personaggi
qui coinvolti – verso “su”, da intendersi come in
senso geografico come Europa, ma anche, metaforicamente, come “non più underground”, o
trascendentalmente come “cosmo”.
Dopotutto, è lo stesso percorso che ha mosso i
responsabili Nicola Giunta (anche summerTales) e Gioele Valenti (quest’ultimo già noto come
Herself) a muoversi dalla terra d’origine verso
nord, Roma, Venezia, Padova, ecc., e su verso
l’Inghilterra sede della Rocket, la Eindhoven
dello Psych Fest o la Liverpool dell’International
Festival Of Psychedelia, e che probabilmente li
ha portati ad assimilare, quasi avessero steso una
rete a strascico, storia e dinamiche, tendenze e
influenze onnivore. Perché Ostro, album d’esordio dopo un paio di lavori in formati minori
che minori non sono affatto (una tape d’esordio
su Jozik e una seconda in split con Eugenoise su
Old Bicycle), è esattamente quello che può venire in mente applicando l’origine del nome scelto
alle dinamiche che hanno portato all’elaborazione del disco su Rocket (la casa dei Goat, tanto
per dire): un mega-trip spacedelico che unisce
l’afflato afro-kraut con una dimensione retrofuturista deviata verso lande ucroniche. Paesaggi
immaginari e paesaggi psichici, storie deformate
come deformato è l’immaginario musicale messo in opera a suon di motorik krauto e influenze
mediorientali, slanci da melting-pot mediterraneo e variazioni cromatiche mai scontate che
sta avendo riscontri positivi un po’ ovunque e
che dimostra ancora una volta le potenzialità,
e in questo caso anche le capacità, di una fetta
dell’underground italiano che evita di guardare
al proprio orticello.
A stupire è l’immaginario evocato e (ri)creato
dal duo/quintetto. Paganesimo rituale e ritua-
listico com’è giusto che sia, muovendosi in un
territorio sonoro poroso e friabile come quello
della psichedelia occulta, ma ad interessare sono
i riferimenti alla sacralità ancestrale e utopica
disseminati lungo tutto il lavoro, così come la
mai celata predilezione per le ucronie e per le
storie immaginarie, materializzatesi nel “concept” legato alla inventata tribù africana dei
Lay Llamas e dei suoi viaggi siderali tra spazio e
tempo. Questa coesistenza di mondi immaginari,
continuamente e ambiguamente al crinale tra
realtà e invenzione e spesso giocata in sovrapposizione e stratificazione, si trasforma in una
sorta di archeologia allucinata e visionaria che
trova il giusto contraltare in una musica libera,
ondivaga, visionaria e selvaggiamente mistica.
Che mastica folk acido e psych 60s, tribalismi
afro e soundtrack music, Madchester e hauntology ponendosi “orizzontalmente” come summa
insieme originale e intimamente rielaborata di
molte delle musiche più coraggiose degli ultimi
tre o quattro decenni.
L’Ostro sembra spirare forte dal sud Italia
verso l’Europa intera. Qui a SA vi abbiamo
seguiti dagli esordi su nastro, ma volete farci
un riassunto delle puntate precedenti per i
più distratti?
Nicola Giunta: in effetti tutto ebbe inizio con
la tape a cui accennavi, pubblicata nell’ottobre
2012 dalla finlandese Jozik Records in sole 50
copie e sold out da un bel po’: una selezione
‘ragionata’ di quattro (fra le tante) tracce che
avevo registrato in studio durante gli anni precedenti. L’idea delle collaborazioni mi è sempre
piaciuta, fu così che invitai vari amici, fra cui
Gioele, a dare il loro contributo sonoro alla causa
Lay Llamas. Questo lavoro, pur breve e totalmente autoprodotto in casa, attirò fin da subito
l’attenzione di giornalisti, musicisti e addetti ai
lavori, cosa che sulle prime mi lasciò felicemente
stupito. Un paio di mesi dopo l’etichetta italosvizzera Old Bicycle Records mi propose di fare
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uno split, sempre su nastro, insieme al mitico
Eugenio Luciano AKA Eugenoise, mio caro amico e collaboratore attivo anche in Lay Llamas.
Incoraggiato da una reazione simile continuai
a mandare quelle tracce a varie etichette italiane e straniere. La Rocket Recordings fu una di
quelle. Il pezzo che apre la tape, ‘African Spacecraft’, entrò per direttissima nella loro playlist
e fu incluso nella compilation celebrativa per il
quindicesimo anniversario dell’etichetta, pubblicata nel novembre 2013. Insomma, già trovarsi sullo stesso pezzo di vinile con Goat, Gnod,
Teeth Of The Sea e altra gente simile era per me
un traguardo impensabile! Poco prima dell’uscita della compilation Chris e John – dopo aver
ascoltato alcuni nuovi brani che nel frattempo
avevo registrato – mi proposero di fare un disco
con loro. Erano passati solo dodici mesi dall’arrivo dei Lay Llamas sul pianeta Terra.
Il nome che vi siete scelti rimanda, seppur
in forme travisate, al buddismo e al delay: è
una psichedelia trascendente la vostra? o un
terzo/quartomondismo spiritual-ipnotico?
NG: Beh, ci sta dentro un po’ di tutto ciò… e tanto altro ancora! Il giornalista inglese Alex Deller
ha definito Lay Llamas “a gigantic patchwork of
weirdness”. Mi sembra una delle descrizioni più
azzeccate che abbia letto fino ad ora. Era proprio questo che avevo in mente quando iniziai a
pensare al progetto: creare un contenitore sonoro, visivo e immaginifico che potesse raccogliere
tutta una serie di input e influenze che avevano
lasciato un segno più o meno profondo su di me.
L’idea afrofuturistica della mitica tribù nigeriana, i Lay Llamas appunto, che affronta un
viaggio oltre il tempo e lo spazio per raggiungere un pianeta sconosciuto ma allo stesso tempo
stranamente familiare, ha solo fatto da trama
per imbastire la sceneggiatura del progetto.
Musicalmente poi il discorso assume connotati
meno definiti, più trasversali. C’è tanta roba nel
pentolone insomma.
22
Vedendovi live, infatti, mi sono reso conto
che il sound è più corposo, a tratti mi è venuto in mente il mondo made in Madchester:
acido e storto, ballabile ma con un evidente
retrogusto drogato.
NG: La versione live di Lay Llamas diciamo che
è nata un po’ per volontà e un po’ per necessità. Quando insieme agli altri ragazzi del gruppo (Matteo Pin alla chitarra, William Zancan
alla batteria e Gianluca Herbertson al sampler
e synth) iniziammo ad arrangiare i pezzi da
suonare live ci rendemmo subito conto che
provare a riprodurre le sfumature ‘da studio’
che si sentono in Ostro non era la direzione più
azzeccata probabilmente. Abbiamo così pensato
di lavorare maggiormente su struttura e impatto
ritmico dei brani. Riducemmo al minimo i pezzi
della batteria (solo cassa, rullante e timpano),
in modo da creare un suono piuttosto primitivo
e tribaloide, e ci lanciammo in lunghe jam che
riportavamo tutto ad una sorta di grado zero:
una nota, un accordo, un battito continuo. Quasi
inevitabilmente, il risultato fu lo sconfinamento
in territori quasi da dancefloor (seppur krauto
e psicotropo). In tutta sincerità conosco solo
marginalmente la scena maDchester di fine ‘80/
primi ’90, ma il tuo riferimento lo trovo comunque azzeccato.
Gioele Valenti: La nostra è una ‘collisione’ di
esperienze direi… personalmente, sono un appassionato di shoegaze anni 80, cose come The
Telescopes e Loop, o ancora derive più accattivanti come Stone Roses, Happy Mondays, An
Emotional Fish. Dunque quel suono largamente
ed eminentemente anglosassone ha informato
certamente il mio background. Naturalmente,
questo è solo il lato – come ben dici – “drogato”,
sicuramente una parte del lavoro su Ostro.
Vi siete avvicinati alla psych partendo da
lande psicogeografiche, immaginando mondi
tra l’arcaico e il fantascientifico. Qualcosa
sulle vostre influenze sonore possiamo intu-
irlo, ma sono quelle extra-musicali a incuriosirci…
NG: Come dicevo poco sopra, uno degli aspetti fondanti del progetto Lay Llamas è proprio
quello di comprendere al suo interno – o almeno queste sono le intenzioni di base – una serie
di input e suggestioni estremamente vari che
riescano comunque a fornire un’immagine unitaria. Magari non del tutto definita, multiforme,
ma miracolosamente unitaria! In ambito extramusicale personalmente ha avuto un ruolo fondamentale la visione di film di Jodorowsky quali
El Topo e La Montagna Sacra, Phase IV di Saul
Bass, tanta cinematografia weird italiana dei
’70, Live at Pompei dei Pink Floyd, documentari
e found footage sull’archeologia, i viaggi spaziali, la natura, etc. Per le arti visive, citerei su
tutte l’optical art ed esperienze come quelle del
Gruppo N ed Ennio L. Chiggio. Ma anche l’etnomusicologia, la grafica pubblicitaria, la letteratura di fantascienza e l’antropologia.
GV: Per quel poco (pochissimo!) che si è pianificato su Ostro, io desideravo apportare una
dimensione vagamente letteraria al lavoro…
qualcosa che restituisse il mood di una lisergia
di ampio respiro, non meramente musicale…
così le letture che ho coltivato in quel periodo
riguardano i lavori di etnobotanica di Terence
McKenna o le propaggini anarco-libertarie di
Hakim Bey… insomma un pot-pourri che ben si
sposasse con l’epopea dei Lay Llamas, fatta di
ricerca, esplorazione e trascendenza.
Venite da esperienze precedenti, anche
piuttosto diverse come Herself e summerTales: come siete arrivati a Lay Llamas e poi a
Ostro?
NG: summerTales, progetto condiviso con
Guido Broglio, ha rappresentato per certi versi
una fase embrionale di Lay Llamas. La fissa per
la ripetizione e il minimalismo, le suggestioni
‘esotiche’, l’uso di percussioni non convenzionali ed altri espedienti ritmici sono venuti a
galla proprio nell’ambito di quel progetto. Direi
quindi che quell’esperienza ha avuto un ruolo
fondamentale nella genesi di Lay Llamas. Il
lavoro affrontato da me e Gioele per Ostro ha
rappresentato invece quello che definisco un
‘upgrade’ del progetto. Quando iniziai ad immaginare l’impostazione del disco mi fu subito
chiaro che l’utilizzo di un cantato e di testi che
aggiungessero un ulteriore piano comunicativo,
sommato a quello musicale, potesse far crescere
notevolmente l’impianto narrativo del progetto.
Così fu. Contattai Gioele – che aveva già contribuito brillantemente ad un paio di tracce di Lay
Llamas comprese nelle prime due tape – ed iniziò un processo creativo molto fluido e naturale
che portò ad Ostro.
GV: Con Nicola, sul fronte Lay Llamas, ci conosciamo e collaboriamo in realtà da molto tempo,
anche se in maniera in passato molto più circoscritta e saltuaria… con Ostro abbiamo suggellato delle premesse che si sono via via affinate
negli anni e si sono concretizzate in un lavoro
pienamente condiviso… credo sia stato un processo piuttosto fluido, partendo da coordinate
stilistiche piuttosto differenti. Immagino sia per
questo che l’atmosfera di Ostro è risultata così
eclettica, nonostante le vaghe suggestioni più
decisamente psych che pure lo alimentano.
A metà della seconda trilogia del progetto Noise Trade Company, abbiamo incontrato
Gianluca Becuzzi e Elena De Angeli per indagare gli aspetti cinematografici del loro sound
Testo di Stefano Pifferi
Noise Trade
Company Fuoco, riaccenditi con me
and the Melodies
Uno dei progetti più giovani e, insieme, produttivi che la mente di Gianluca Becuzzi – prime-mover
d’area grigia coi Limbo e artista elettronico sfaccettato nelle sue produzioni in solo o come Kinetix
– abbia mai partorito, giunge all’album numero cinque. Unfaithful Believers, l’ultimo lavoro targato Noise Trade Company (della partita sono anche, in questa ennesima configurazione della sigla,
Elena De Angeli a voce e testi e Francesco Biscontri alla chitarra), segna una nuova svolta nel suono
di un progetto che mai si è adagiato su una modalità stilistica definita ma ha preferito continuare
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a indagare, a muoversi ed esplorare a botte di
trilogie, l’immensa area grigia e derivazione
tutta, modulandosi di volta in volta a seconda
delle proprie ispirazioni e influenze, oltre che
concettualmente approfondire lo sguardo su
vari aspetti dell’immaginario popolare. Nella
prima trilogia – Crash Test One, Just Consumers, Post Post Post – lo ha fatto con un
“electro-harsh pop per la civiltà dei consumi
terminali”, come si autodefinì all’esordio, cioè
una miscela di post-punk, noise, industrial e
quant’altro atta ad indagare le melme più maleodoranti della cultura popular; poi, nella seconda,
giunta, dopo Reformation, al suo atto centrale
col citato Unfaithful Believers, ha abbracciato
una forma-canzone gloomy e oscura, elegante e
disturbante, meno irruente ma non per questo
meno affascinante.
In questa seconda fase, ad emergere con prepotenza è l’immaginario filmico, sviluppato secondo una doppia direzionalità: evocato, nel senso
di immaginato come se si trattasse di “imaginary
soundtrack” per immagini già esistenti, o a cui
si rimanda più o meno direttamente, tra citazionismo e sottolineature di elementi ben presenti
nell’immaginario grey area di riferimento.
Nell’ultimo lavoro, a colpirci è stato l’evidente
retroterra lynchiano, e nello specifico made in
Twin Peaks, serie dal culto non troppo sotterraneo che i tre hanno a loro modo voluto “celebrare” in occasione del venticinquennale dell’assassinio di Laura Palmer: reinventando un mondo
parallelo in cui si è avvolti da quelle atmosfere
così torbide eppure perfettamente radicate
nell’immaginario popular contemporaneo. Per
approfondire l’aspetto cinematografico delle
musiche di NTC abbiamo contattato Gianluca
Becuzzi e Elena De Angeli.
In tempi di social-networking, in cui la necrofilia scorretta ci porta a ricordare morti
famosi in un tripudio di futile appartenenza,
siete stati fra i pochi o forse gli unici a “ricor-
dare” la Laura Palmer di Lynchiana memoria. Mi confermate che Unfaithful Believers
ha a che fare con Lynch e Twin Peaks?
Gianluca Becuzzi: L’originalità assoluta e l’ispirazione pura sono utopie per ragazzini e ignoranti di tutte le età. Al contrario, aver ben chiaro
quali modelli prendere a riferimento, oltreché
saperli scegliere e combinare con gusto, rappresenta sempre un vantaggio notevole quando si
avvia un progetto artistico. Questo è tanto più
vero quanto più quei modelli stessi sono radicati in un immaginario collettivo ben preciso.
La sinergia tra il cinema di Lynch e le musiche
di Badalamenti ha creato un’estetica che tutti
noi siamo in grado di riconoscere a partire da
un suono che ci evoca una situazione/atmosfera/immagine e viceversa. Quindi sì, il vento di
Twin Peaks soffia forte in questo nostro ultimo
album perché siamo stati noi ad evocarlo volontariamente, con buona pace dell’anima di Laura
Palmer, la quale, in quanto defunta immaginaria
iconizzata, sa farsi ricordare con più forza dei
defunti reali.
Elena De Angeli: Credo che Twin Peaks sia uno
dei più potenti e suggestivi archetipi partoriti
dall’immaginario cinematografico. È singolare
come il fantasma di Laura Palmer emerga così
violentemente dall’album senza mai essere nominato in maniera esplicita. Mentre lavoravamo
all’album, l’elemento Lynchiano è emerso a poco
a poco fino a farsi prepotente, è stato il momento in cui abbiamo compreso che era la direzione
da seguire. Come in un incastro perfetto, anche
i testi e le melodie che avevo scritto sembravano
indicare quella strada, letti in fila formavano la
trama di un film parallelo. Credo che l’immaginario creato dai film di Lynch sia qualcosa di paragonabile a quello che Jung chiamava inconscio
collettivo, una mitologia nascosta nelle menti,
qualcosa che sembra esserci sempre stato. Se ti
dicessi che Unfaithful Believers è anche molto
personale direi qualcosa di scontato: è nell’inti-
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mo che ciò che viviamo, ascoltiamo, guardiamo,
si sedimenta, fondendosi in un unicum indistinguibile; ma rischierei anche di tradire il mistero
da cui la musica trae la sua forza. Sono proprio i
segreti ed il mistero, del resto, ciò che mi affascina nelle cose.
Noise Trade Company ha attraversato in 5
dischi tutto lo scibile musicale umano d’area
cosiddetta grigia (non proprio ma insomma,
ci siamo capiti) e si è “ricreato” dopo una
prima trilogia più corposa. Sembra esserci
un progetto a lungo termine o sbaglio?
GLB: Noi lo intendiamo sicuramente come un
progetto a lungo termine e ci auguriamo di
avere energie creative sufficienti per rinnovarci
sempre e riuscire così in questo nostro proposito. C’è inoltre un aspetto programmatico nel
nostro lavoro che ci porta a pensarlo organizzato in trilogie di album diversificate tra di loro
per finalità artistica, suono, stile, tematiche e
in parte anche line up. Il cambiamento è l’unica costante di questo mondo e io penso che la
regola debba riflettersi anche nelle musiche che
produciamo. È per questo motivo che evitiamo
staticità e ripetizioni, muovendoci in continuazione da un punto all’altro dello scenario determinato dal nostro sentire. Nell’arco di cinque
album siamo passati dall’electro post punk con
influenze noise/industrial alle attuali sonorità
che mescolano chitarre surf con cupi climi cinematici e profondi bassi cold dub.
EDA: È un progetto a lungo termine nel quale
convergono e nascono continuamente nuovi
stimoli e spinte a rinnovarci e a guardare al
prossimo passo. Cambiare è sempre una sfida, ma senza porsi delle sfide non si potrebbe
andare avanti. Se Reformation è stato l’inizio di
un nuovo capitolo, con Unfaithful Believers ci
siamo spinti ancora oltre sul binario intrapreso.
Lavorare con Gianluca è per me una fortuna,
posso continuamente imparare dalla sua grande
esperienza, la sintonia non manca mai e questo
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consente il continuo sviluppo di nuovi stimoli.
Ci siamo lasciati il post-punk alle spalle. Il cambiamento più audace è stato forse introdurre
la forma canzone, e questa è una direzione che
manterremo. Mi piace pensare che in tutto questo ci sia un fil rouge: si può indagare l’intimo,
la zona d’ombra, ciò che è fuori fuoco, restando
la compagnia che spaccia rumore, che è ciò che
non è codificato, indecifrato o indecifrabile.
Il ruolo di Elena si fa sempre più centrale a
mio parere, e non parlo soltanto del ruolo
come cantante, ma come autrice e perno
dell’intero progetto…
GLB: Elena ha sicuramente talento canoro e
compositivo e NTC è il mezzo attraverso il quale può esprimerlo e veicolarlo. Nel momento in
cui Elena è entrata in formazione NTC ha preso
un altro peso e un altro significato per me. Inizialmente si trattava di una sorta di diversivo ai
miei lavori in solo che mi permetteva di esercitarmi sul formato canzone giocando con elementi generazionalmente a me ben noti, come
le sonorità e i climi degli Ottanta, così in maniera anche un po’ ludica e disincantata. Adesso è
diverso, il gioco si è fatto decisamente più serio.
Ho sempre riscontrato nelle musiche di NTC
una certa tendenza cinematica e visionaria;
in UB questa vena mi è sembrata palesarsi,
come facevo riferimento prima con Badalamenti e Lynch…
GLB: È vero, anche la prima fase aveva riferimenti cinematografici e letterari, oltreché ovviamente musicali. Si potevano avvertire tracce
del Cronenberg che rilegge il postmodernismo
di Ballard e Burroughs, no? Così come in questa seconda fase, con particolare riferimento a
Unfaithful Believers, si percepisce l’influenza
di Lynch e Badalamenti per il gusto di certo
noir contemporaneo, ma a tratti anche Leone
via Morricone e Tarantino, credo. Sicuramente,
più passa il tempo e più il cinema sta diventando nutrimento essenziale per la mia sensibilità
sonora e compositiva. Di questi tempi, ad esempio, sto ascoltando moltissimo la colonna sonora
dell’ultimo Jarmusch Only Lovers Left Alive
composta da Jozef Van Wissen e SQURL. Si
parla sempre della musica nel cinema dimenticandosi di quanto cinema ci possa essere nella
musica.
EDA: Talvolta nel cinema si incontrano un regista e un compositore che sembrano fatti l’uno
per l’altro, artisticamente parlando… e allora
accade la magia. Lynch e Badalamenti hanno
creato un immaginario fatto non soltanto di
fotogrammi, ma anche di note, immediatamente
riconoscibili, quasi fossero esse stesse parte di
un inconscio collettivo. Un archetipo musicale.
Non è l’unica coppia che ha creato sinergie indimenticabili, penso anche a David Cronenberg
e Howard Shore, Sergio Leone e Morricone,
Kieślowski e Zbigniew Priesner…ultimamente Nicolas Winding Refn e Cliff Martinez, per
citare alcuni tra i miei preferiti. Quasi sempre
i miei film preferiti hanno una colonna sonora
che amo, non credo sia un caso. Quando esco
dalla sala, è una particolare sequenza di suoni
e di note ad amplificare i fotogrammi, a farli
sedimentare nella mente e a far scattare quel je
ne sais quoi che li rende eterni. Sembra quasi la
descrizione di un innamoramento, ma del resto
è così che succede. L’arte che resta, quella che
lascia un segno, quella che “è per sempre”, è
quella che ci fa innamorare di un amore ideale.
Unfaithful Believers è la colonna sonora di un
film mai impresso su pellicola.
Come vi sembra il panorama musicale italiano contemporaneo? E come vi ponete nei
suoi confronti? Ve lo chiedo perché pur non
suonando dal vivo – cosa che sembra essere
la discriminante ultimamente tra “successo”
e “silenzio” – avete uno zoccolo duro di fan e
critica che giustamente vi segue passo passo…
GLB: Frequento attivamente la scena musicale
italiana underground da 30 anni, ne conosco
molto bene vizi e virtù, luci e ombre. Ci sono
sempre stati e continuano ad esserci artisti di
valore, dotati di talento e passione autentica.
A fronte di questo però mancano politiche
che sostengano queste realtà e che creino una
sensibilità culturale diffusa rispetto ad essa. Ci
sarebbe tanto da fare e viene fatto pochissimo,
un po’ per mancanza di risorse ma anche molto
per incapacità di visione. In questa situazione
“chi fa” rimane solitamente da solo. Uno spreco,
purtroppo…
EDA: Il panorama musicale nostrano è vivo e
ricco di artisti di spessore e di talento. Quello
che temo di più è il settorialismo, la chiusura,
l’idea di dover rientrare in schemi e generi precisi; ammiro chi riesce a uscire da questi schemi
e da questa mentalità. Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, in un’epoca in cui
l’iperpresenzialismo è la regola e siamo malati
di sovraesposizione, avere un ottimo riscontro
senza aver suonato dal vivo è per noi positivo.
Tuttavia, non ci poniamo limiti nemmeno in
questo senso, e può cambiare domani stesso.
Anche l’assenza, la lontananza e tutto ciò che si
ascolta senza poterlo toccare con mano hanno
il loro fascino, del resto. Per citare Mulholland
Drive e il Club Silencio: “No hay banda! Il n’est
pas de orchestra!…And yet we hear a band… It’s
all a tape… It is an illusion”.
27
Proviamo a compilare la voce enciclopedica dedicata a Richard D. James, mettendo ordine
nella sua discografia in occasione dell’ufficiale riemersione del Caustic Window Album. Parole
chiave: acid, techno, ambient, IDM, drill’n’bass, genio.
Testo di Stefano Pifferi
A come Aphex twin
28
Quando si parla di Richard D. James ogni elemento biografico va preso con le molle. Le sue
relativamente rare interviste si risolvono spesso
o in monosillabi o in estemporanee invenzioni
(magari anche per colpa degli intervistatori,
come dimostra lo spassoso episodio russo del
1994 rivangato da FactMag). Il ghigno caricaturale che nel tempo è diventato uno dei più riconoscibili elementi della sua iconografia non è lì
per caso: il suo senso dell’humor, al tempo stesso
diabolico e infantile, pervade tutto ciò che lo riguarda, al punto che anche elementi in teoria rilevanti come l’origine del suo alias più fortunato
non sono assolutamente certi. Davvero “Aphex”
deriva da Aphex Systems Ltd., società americana produttrice di equipaggiamenti audio?
Non è più probabile una semplice storpiatura di
“Acid”, con il pH preso dalla chimica? E “Twin”
sarebbe un omaggio ad un supposto non-fratello
omonimo nato morto tre anni prima della nascita di Richard (la cui tomba sarebbe quella ritratta sulla cover dell’EP Girl/Boy del 1996)? O forse
è più plausibile un riferimento a Tom Middleton, cofirmatario di uno dei pezzi del primo EP
ufficiale ed effettivamente nato il suo stesso
giorno e anno? Ma soprattutto: è così importante saperlo? Limitiamoci ai dati strettamente
necessari e concentriamoci sulla sua carriera
musicale, anch’essa disseminata di trabocchetti
(i tanti moniker utilizzati, produzioni catalogate
e mai ufficialmente uscite, ecc.) che sembrano
essere messi apposta per far inciampare l’incauto compilatore della voce enciclopedica dedicata
ad una delle figure più influenti e riverite della
storia della musica elettronica.
Nato il 18 Agosto 1971 in Irlanda (a Limerick),
ma cresciuto in Cornovaglia (a Lanner, piccolo
paese vicino a Redruth), già dalla metà degli
anni ottanta James comincia a sperimentare
con strumentazioni elettroniche di recupero e si
esibisce come DJ nei locali della zona. In uno di
questi, il Bowgie di Newquay, entra in contatto
nel 1989 con Grant Wilson-Claridge, altro DJ
cornish che, incuriosito dal fatto che James nei
suoi set utilizzava cassette con materiale proprio, lo coinvolge nella fondazione dell’etichetta
Rephlex, con l’obiettivo di promuovere (come
recitava il Manifesto della label) “l’innovazione
nelle dinamiche dell’Acid” producendo “techno”
di qualità, principalmente per i dancefloor ma
anche per soddisfare il crescente interesse verso
l’”electronic listening music”. Ricostruire l’ordine esatto del catalogo della Rephlex è impresa
ardua, a cominciare dal numero CAT001: il singolo Bradley’s Beat, “scritto e prodotto da Brad
Strider”, presenta il 1991 come anno di copyright
ma circola ufficialmente a partire dal 1995 (ne
girano due versioni, dove la Part One è la stessa,
ma con le Part Two completamente diverse).
Ritmi più basici che acidi, banali e sempliciotti:
è questa la prima pubblicazione di Richard D.
James? Che sia lui è quasi certo (nel 1993 sempre per la Rephlex uscirà un altro 12” denominato “Strider. B. introduces Bradley’s Robot” di
più sicura attribuzione), ma il singolo non sarà
mai riconosciuto. Anche il CAT002 è un mistero: inserito come “4 track double 7”” a firma
Q:Chastic in un primo elenco di produzioni a catalogo compilato nel 1992 da Wilson-Claridge, il
prodotto non verrà mai rilasciato. Unico reperto:
il brano intitolato proprio CAT002 di Q-Chastic
contenuto nella compilation The Philosophy
Of Sound And Machine, pubblicata nel gennaio 1992 solo su CD da un’improvvisata joint
venture tra la Rephlex e la Applied Rhythmic
Technology (ART) di Kirk Degiorgio. Il disco
fornisce un’istantanea dello zeitgeist del periodo, con la partecipazione, sotto vari pseudonimi,
di vari esponenti della scena acid techno inglese:
lo stesso “As One” Degiorgio, B12, Black Dog
Productions, e Mike Cullen/Mike Dred/Kosmik
Kommando (nel primo periodo solo altro artista
ad essere pubblicato dalla Rephlex oltre a James, e poi con lui coinvolto nel progetto Univer-
29
30
sal Indicator). A James sono attribuiti tre tracce
delle compilation, firmate con gli alias Q-Chastic, Soit P.P. (n.IASP suona vagamente simile
a Ptolemy di Selected Ambient Works 85-92) e
Blue Calx (il brano omonimo ricomparirà pari
pari nel 1994 come unica traccia titolata in SAW
Vol.II). Tra i ringraziamenti riportati nella inner
sleeve del CD (dall’esplicativo sottotitolo “A
collection of Electronic Music… for Dance and
Thought”) spiccano significativamente i numi
tutelari di Detroit: Carl Craig, Derrick May e
Juan Atkins. Sta per prendere forma l’Intelligent
Dance Music, ma per ora la definizione coniata
dalla Rephlex è “Braindance”.
La prima produzione ufficiale a nome The
Aphex Twin esce nel settembre 1991 per la
Mighty Force Records (e secondo The Guardian
il momento rientra tra i 50 eventi chiave dell’intera storia della dance music): l’EP Analogue
Bubblebath contiene in nuce già tanti dei temi
topici della carriera di James. La traccia iniziale
e omonima è programmatica, unendo una base
ritmica acidamente 808 a linee di tastiere trance-ambient, il tutto punteggiato da gradicidanti
bolle synth. Nel mezzo della pastosa hardcore
Isopropophlex, di cui la quarta traccia AFX2 è
una sorta di industriale e distorto remix, fa umoristicamente capolino la voce di Julie Andrews
di Tutti insieme appassionatamente, cantando
“The flowers that bloom in the warmth of the
sun, are there to be loved by everyone” (ritroveremo altri sample della Andrews in Italic Eyeball – Caustic Window, 1992 – e in Supremacy II
– Polygon Window 1993). I poliritmi breakbeat
di En Trance To Exit sono realizzati con la collaborazione di Schizophrenia, ovvero il “twin”
Tom Middleton, futuro global communicator.
Nel dicembre 1991 vede la luce per la Rabbit
City Records il white label a 45 giri Analog Bubblebath Vol 2, contenente la seminale Digeridoo
(per il momento nominata Aboriginal Mix),
ipnotico etno-breakbeat lanciato a 146 bpm (ma
c’era anche chi, rallentandola a 33 giri, la suonava in una versione downtempo a 106 bpm), che
porta James all’attenzione della scena technoacid internazionale. Tra maggio e giugno del
1992, per la R & S, fondamentale etichetta belga
specializzata in produzioni techno, esce a nome
Aphex Twin la doppietta di 12” Digeridoo (che,
oltre alla traccia omonima e una versione di Isopropophlex, rinominata Isoprophlex, presentava
le altrettanto abrasive Flap Head e Phloam) e
Xylem Tube E.P. (nella cover del quale compare
per la prima volta il famoso logo futuristico),
con 158 bpm come punta massima di velocità
raggiunta da Tamphex, contenente sample tratti
direttamente dalla pubblicità: “are you one of
those girls for whom time stands still, once a
month? / Why stop when your period starts?”).
Tutta questa frenesia hardcore techno sarà poi
riassunta nell’uscita del 1995 Classics (R & S
Records), che raccoglie i due EP Digeridoo e
Xylem Tube, più Analogue Bubblebath, Metapharstic (traccia originariamente apparsa
nella compilation Mayday – A New Chapter
Of House And Techno ’92), due remix di We
Have Arrived di Mescalinum United (ritenuto
“il primo pezzo hardcore techno” della storia) e
una storica versione di Digeridoo suonata live in
Cornwall nel 1990. Un altro utile strumento per
fare un po’ d’ordine nelle produzioni di James
del periodo è la Compilation, uscita nel 1998,
che raggruppa quasi tutte le tracce pubblicate
dalla Rephlex dal 1992 al 1993 a nome Caustic
Window (gli EP Joyrex J4, J5, J9i e J9ii). Anche
qui troviamo distorte, ipersaturate, acide tracce
breakbeat dai 147 bpm in su (Joyrex J4, AFX 114,
Astroblaster, Joyrex J5, Fantasia, The Garden Of
Linmiri, quest’ultima poi utilizzata per il famoso
spot Pirelli con Carl Lewis) affiancate da brani
più ambient/IDM non selezionati per i progetti
più rilevanti (Cordialatron, Italic Eyeball – dove
la già citata Julie Andrews ripete, anche al
contrario, “Perhaps I had a wicked childhood”,
31
On The Romance Tip – che cita forse inconsciamente la Grande Porta di Kiev di Mussorgsky…)
e altri episodi minori. Degno di nota il 10” picture disc catalogato come 009i, edizione limitata
a 300 copie, che presenta le immagini fotografiche della TB-303 Bass Line (lato A – Humanoid
Must Not Escape, che cita il videogame Berzerk
e altre frasi dall’Uomo che cadde sulla terra) e
della TR-606 Drumatix (lato B – Fantasia, con
esplicito sample tratto dal porno “Seka’s Fantasies”, da cui un’altra citazione verrà utilizzata
per Come On You Slags! in …I Care Because You
Do), strumenti-feticcio Roland per tutta la generazione techno. Dalla Compilation rimangono
fuori solo Pop Corn, nel quale James affronta
alla leggera il remix breakbeat dell’immortale
moog tune, uno dei temi obbligati della dance
elettronica (solo nel 1992 si contano almeno
altre otto diverse versioni), e la quarta traccia
non intitolata di J5, identificata come R2-D2 per
l’uso di suoni del droide di Star Wars. Rimanendo tra i divertissements: nel maggio 1992 James,
con il moniker Power-Pill, riveste di breakbeat
over 130 bpm la musica di Pac-Man (12”, label
Ffrreedom).
Nel luglio del 1992 viene pubblicata la prima risposta Warp alle sempre più pressanti richieste
del mercato per l’“electronic listening music”:
“Quel suono, infarcito di sci-fi alle volte cupa
e altre estatica, insaporito talvolta di acidità e
spezzante del break che nasce dall’hop ma che
subito lo travisa, si impone subito come moda
e piccolo business” (E. Bridda / M. Braggion).
Nella compilation Artificial Intelligence, la
prima uscita della serie omonima, Richard D.
James apre le (non) danze firmando come The
Dice Man l’ouverture Polygon Window, davanti
a Musicology (cioè i B12), Autechre, I.A.O. (cioè
Ken “Black Dog” Downie), Speedy J, UP! (cioè
Richie Hawtin) e il Dottor Alex “The Orb” Patterson. E nel 1992 si fa ancora in tempo a vedere
l’uscita (per la Apollo, sublabel della R & S) del
32
primo album di Aphex Twin, storica pietra miliare dell’ambient techno (e migliore album degli
anni Novanta per FactMag): Selected Ambient
Works 85-92 è uno dei più compiuti risultati
della commistione di elementi tratti dalla tradizione kosmische kraut (passando per l’esperienza profetica di E2-E4 di Manuel Göttsching)
e di reminiscenze minimalistiche (Riley, Reich,
Glass) con i ritmi delle drum machines su cui si
è edificata la house. Rispetto ad altre release del
periodo (LFO, The Orb, Biosphere) le tracce qui
raccolte (che, se vogliamo dar retta alla datazione suggerita dal titolo, risalirebbero a lavori
realizzati da un James quattordicenne) spiccano
per creatività e ampiezza di ispirazione. I limiti
della tecnologia disponibile ai tempi diventano
un punto di forza, evidenziando l’artigianalità
delle composizioni: il suono è nebbioso ed etereo, le sequenze di synth pastosamente risonanti. Tutto è al posto giusto: il sognante sample
vocale di Xtal, la risacca elettrica in background
di Ageispolis, l’Eno che dura poco più di un
minuto di I, i suoni tratti da Robocop di Green
Calx, gli echi cosmici kraut in Schottkey 7th
Path, i riflessi industrial di Hedphelym, l’acid
house di Delphium… La frase da Willy Wonka
(“we are the music makers and we are the dreamers of dreams”) colloca l’album in una precisa
dimensione temporale: la citazione è una delle
più usate nella scena techno-acid del periodo
(vedi 808 State e Pied Piper N.R.G.).
Nel gennaio 1993 la Warp pubblica il secondo disco della serie Artificial Intelligence: Surfing on
Sine Waves, firmato da James con l’alias Polygon
Window, segna indelebilmente la strada IDM
della label inglese e prosegue l’esplorazione di
territori elettronici al confine tra rave techno
(Quoth, che uscirà anche come singolo, Supremacy II, Quixote), ambient techno (le linee melodiche di Audax Powder e If It Really Is Me) ed
evoluzioni acid (la settima traccia senza titolo).
Quasi contemporaneamente, nel febbraio 1993,
la Rephlex presenta il terzo volume di Analogue
Bubblebath (a nome AFX, a cui verranno attribuiti sia i due volumi precedenti in riedizione
che i due successivi), in due versioni: il vinile
è accompagnato da indicazioni turistiche su
luoghi interessanti della Cornovaglia (!) e dalle
istruzioni su come ascoltare .0180871, che in
realtà è composta da due tracce, una nel canale
destro e una nel sinistro; il CD contiene cinque
tracce in più, splittando inoltre .0180871). Il 1993
vede anche l’uscita, sempre per la Rephlex, di
uno dei due EP della serie Universal Indicator
(dal sistema chimico per indicare in ph l’acidità)
attribuibili a James: l’EP rosso, catalogato significativamente TR 606, è forse una delle produzioni più intransigentemente acid di sempre (il
triplo vinile blu è del 1995, ed è di attribuzione
meno certa). L’anno si chiude con la pubblicazione dell’EP On, prima uscita per Warp con
l’alias Aphex Twin: l’ennesima originale commistione di asprezze hardcore e inquietanti linee
melodiche ambient.
Il 1994 è l’anno di Selected Ambient Works
Volume II, il secondo album pubblicato a nome
Aphex Twin: “un classico che ha fatto e che fa
ancora scuola. Immortale”, dice Marco Braggion
nella sua recensione. I tre LP o due CD (che
qualcuno ha provato a suonare contemporaneamente, trovando un inaspettato – casuale?
– assonante amalgama sonoro) compongono
“uno dei più importanti lavori elettronici del
Novecento” (C. Zingales), dove il lato rave dance
viene del tutto accantonato per approfondire il
concetto di “ambient” in 25 (24 nella versione in
CD, per ragioni di spazio: la #19 è recuperabile
nella compilation Excursions in Ambience: The
Third Dimension) astratti, sospesi, bozzetti. Le
tracce non sono intitolate (a parte Blue Calx,
apparsa come già ricordato nella compilation
Art/Rephlex del 1992), ma nelle liner notes
ognuna è appaiata ad un’immagine. Loop eterei,
sognanti, ma a volte disturbanti: un caleidosco-
pio monocromatico tra estasi e incubo, che porta
alle estreme conseguenze il perseguimento
dell’obiettivo della “musica elettronica d’ascolto”, prendendo il testimone della ricerca verso
quella “musique d’ameublement” che da Satie,
passando per Cage, aveva portato a Eno. Un’opera così rigorosa nel suo approccio minimale
che c’è chi la considera un elaborato scherzo
nei confronti della scena elettronica del periodo (così come avverrà, anni dopo, per Drukqs:
ciò che si fa fatica a incasellare si smonta…).
Qualche mese dopo SAW II, la Warp, battendo
sul chiodo-James finché è caldo, pubblica l’EP
GAK, raccolta di quattro non memorabili esercizi techno tratti da demo inviate alla label nel
1990, mentre in agosto esce per la Rephlex il
quarto episodio della saga hardcore techno Analogue Bubblebath. Il 1994 sarebbe stato anche
l’anno di uscita per la Rephlex del primo album
a nome Caustic Window: registrato e catalogato
come CAT023, il disco dovrà aspettare vent’anni
per essere reso pubblico (solo due brani, Cunt
e Phlaps, erano comparsi in due compilation
del periodo), attraverso una raccolta fondi via
Kickstarter per finanziare il rippaggio digitale di
una delle quattro copie della prova di stampa in
vinile.
1995. La pubblicazione in aprile di …I Care
Because You Do, terzo album di Aphex Twin
(Warp), anticipato di qualche settimana dai due
EP di remix di Ventolin (la punta più spigolosa e claustrofobica del lavoro, con trapananti
altissime frequenze che simulano il tinnito),
riprende le tesi di Polygon Window e On, attingendo ancora allo stesso mondo sperimentale e cinematronico (quasi metà delle tracce
dell’album provengono da sessioni del 1990 e del
1993), insistendo sul versante melodico (vedi gli
sviluppi quasi pop di Alberto Balsalm), ma con
avvisaglie di inviluppo creativo. Prosegue l’ironia di fondo: sulla copertina compare una prima
versione, autoritratta, del famoso ghigno aphe-
33
xiano; i titoli sono spesso anagrammi autoriferiti
(Acrid Avid Jam Shred -> Richard David James; The Waxen Pith -> The Aphex Twin; Cow
Cud Is Twin -> Caustic Window) o citazione
di prodotti commerciali: l’antiasmatico Ventolin, lo shampoo Alberto Balsa(l)m. Alla fine del
1995 The Wire ospiterà un gustoso scambio a
distanza tra Karlheinz Stockhausen e James,
con il primo che, ascoltando Ventolin e Alberto
Balsam, consiglia ad Aphex Twin di ascoltare
il suo Gesang Der Jünglinge così “la smetterebbe subito con tutte quelle ripetizioni postafricane, e cercherebbe invece cambi di tempo
e di ritmo”, e il Nostro che replica: “penso che
lui dovrebbe ascoltare la mia Digeridoo, così la
smetterebbe di fare astratti pattern casuali che
non si possono ballare”. L’EP Donkey Rhubarb,
di poco successivo (agosto 1995, Warp) riassume il tutto e rilancia, con la festosa title track
dai rimandi orientaleggianti (popolarizzata da
MTV come sigla del programma mattutino), i
poliritmi a 140 bpm di Vaz Deferenz, la marcia
sinfonica di Pancake Lizard e l’orchestrazione di Philip Glass di Icct Hedral che enfatizza
il quarto di discendenza nobile (la casata del
minimalismo colto) dell’elettronica aphexiana
(James restituirà in seguito il favore, remixando Heroes dall’omonima postmoderna sinfonia). E’ plausibile datare 1995 altri due reperti
mai ufficialmente pubblicati dalla Rephlex ma
circolanti nel sottobosco della rete e facilmente
reperibili anche su youtube (nel 2014, seguendo
l’onda generata dalla riesumazione dell’album
Caustic Window, verranno messi in vendita su
ebay i due relativi test pressing in vinile, confermandone l’attribuzione ad AFX): le oblique
Melodies From Mars, raccolta di dodici sghembe e inventive tracce che sembrano pensate per
essere utilizzate come soundtrack di videogame
vintage (due delle quali – Fingerbib e Logan
Rock Witch – corrispondono alle versioni demo
ma già complete di brani che verranno inseriti
34
nel Richard D. James Album del 1996, mentre
gli archi pizzicati dell’ultima melodia sono una
preparazione a Girl/Boy) e l’interessante Analogue Bubblebath 5 (che nel 2005 una ventina di
clienti hanno ricevuto a sorpresa dalla Rephlex
a compensazione di ritardi nella consegna), che
condensa in nove pezzi i risultati degli ultimi
esperimenti con i macchinari analogici (da
segnalare in particolare lo sviluppo complesso e
intrigante della prima traccia, oltre nove minuti)
e che si conclude con Cuckoo, già presente nel
vol. 4. Sono questi gli ultimi esempi sulla lunga
distanza della prima stagione “analogica” di James, forse all’epoca non pubblicati ufficialmente
perché da lui stesso già sentiti come superati.
Nel 1995 si intensificano gli impegni di James
come remixatore sui generis, attività svolta
saltuariamente già dal 1992: spiccano i lavori per
Nine Inch Nails, Gavin Bryars e Wagon Christ,
ovvero il conterraneo e amico Luke Vibert. Ed
è proprio in particolare nella produzione per
quest’ultimo, pubblicata nel settembre 1995
nell’EP Redone (l’originaria Spotlight è assolutamente irriconoscibile), che incontriamo
il primo ufficiale approccio di James verso la
tecnica compositiva definita “drill and bass”:
l’estremizzazione del breakbeat jungle, mediante complessità ritmiche sparate a velocità folli,
impossibili in natura e realizzabili solo attraverso il computer, di cui proprio Vibert (con gli
EP Plug), Tom Jenkinson alias Squarepusher
(con l’EP Conumber), e James, con i due EP
Hangable Auto Bulb (ottobre e dicembre 1995,
Warp), costituiscono in quest’anno la trinità
creatrice. Firmati AFX, i quasi anagrammi di
Analogue Bubblebath non si limitano a rimescolare le carte, ma introducono (per pochi, tenuto
conto della limitatezza delle edizioni, almeno
fino alla riedizione su CD dieci anni dopo) le
sperimentazioni digitali che diventeranno di
lì a poco l’ossatura delle sue opere più famose,
innestandole nella falsariga aphexiana fatta di
35
humor (i sample di bambini in Children Talking
-“mashed potatoes” – e in Every Day) e di melodie (la lullaby di Wabby Legs) che con i nuovi
“spastic rhythms” acquistano un fascino nuovo.
Il quarto album ufficiale di Aphex Twin (in
uscita a novembre 1996) è anticipato ad agosto
dall’EP Girl/Boy (con in copertina la già citata
tomba di “Richard James, 23 novembre 1968”,
supposta prova fotografica dell’effettiva esistenza del fratello mai nato: privata citazione
familiare o umorismo nerissimo?), dove la title
track (linee melodiche pizzicate con campioni
di archi e il tracker computerizzato che seziona
l’amen break) è accompagnata da brevi flash
drill (vedi i due minuti scarsi del Girl/Boy £18
Snare Rush Mix) e da dissacranti canzoncine
infantilmente cantate da James stesso (Milk
Man e Beetles). Il Richard D. James Album (32
minuti) prosegue la commistione tra riferimenti personali (la famiglia, i luoghi dell’infanzia
cornish), vertiginose scariche drum e melodie
sintetiche (i malinconici tratteggi cameristici
di 4 e di Goon Gumpas), confermando Aphex
Twin come nome di punta della squadra Warp.
Il contrasto tra la vocina fanciullesca, la melodia
pentatonica e i furiosi ritmi drill di To Cure A
Weakling Child rappresentano la sintesi perfetta
della ricerca del contrasto estremo che caratterizza l’approccio creativo di questa fase, mentre
Peek 232421535 e Yellow Calx dimostrano la
maestria tecnica già acquisita nell’utilizzo dei
nuovi software di trattamento del suono.
Il periodo dal 1997 al 1999 vede un forte rallentamento nei ritmi produttivi di James che, a
parte qualche remix (tra cui una folle versione
di The New Pollution per Beck), si limita a far
uscire per Warp gli EP Come To Daddy (ottobre
1997, in effetti più lungo dell’album precedente)
e Windowlicker (marzo 1999): si riduce la quantità ma non la qualità. Questo è anche il periodo di maggior successo e di massima visibilità
mediatica, anche a causa dei due osannati video
36
girati per le rispettive title tracks da Chris Cunningham. In particolare il lavoro per Come To
Daddy interpreta alla perfezione il misto disturbante di horror e humor del pezzo (“I want your
soul, I will eat your soul”), con un impatto tale
da rendere poi impossibile slegare il brano dalle
immagini. I sei minuti del film devono molto
a David Cronenberg e Shinya Tsukamoto, ma
contengono riferimenti diretti anche del meno
famoso ma ugualmente inquietante video del
1995 girato da David Slade per Donkey Rhubarb,
con i suoi “rhubears” – orsi-teletubbies anch’essi tutti con il ghigno di Aphex Twin – precursori
della gang dei satanici aphexbambini. Nel video
è utilizzata anche la frase di Julie Andrews ripresa già in Isopropophlex del primo Analogue
Bubblebath, da cui è preso anche un sample dei
drum. Come è abitudine per James, rispetto al
“drill and death metal” della prima versione (il
Pappy Mix usato anche per il video), gli altri
mix di Come To Daddy contenuti nell’EP risultano tutt’altri brani: nel Little Lord Faulteroy
mix una vocina prima canticchia “Oh, you dirty
little boy!” e poi bisbiglia satanicamente versi tratti dal Piccolo Lord già utilizzati nel £18
Snare Rush Mix di Girl/Boy (continuano i corsi
e i ricorsi); il Mummy Mix è introdotto propriamente da mamma James (“You’ve got so many
machines, Richard”) per poi lasciarsi andare al
noise più astratto, con applauso finale. Bucephalus Bouncing Ball è esperimento onomatopeico,
dimostrazione di perizia tecnica e di inventiva.
La malsana Funny Little Man, la versione Contour Regard di To Cure A Weakling Child e la
melodica Flim completano un’opera che alza
ulteriormente l’asticella.
L’EP Windowlicker, dalla famosissima copertina
a cura di Chris Cunningham (il montaggio della
faccia ghignante di Aphex Twin sul corpo di
una pin-up in bikini), presenta solo tre tracce e
ricorre ad argute soluzioni paratestuali (la complessa formula ΔMi−1 = −aΣn=1NDi[n] [Σj∈ℂ{i}
Fij[n − 1] + Fexti[n−1];] come titolo della seconda
traccia, le immagini inserite negli spettrogrammi di questa e di Windowlicker, il CD accompagnatorio con il cortometraggio omonimo, feroce
e spassosa parodia dei video hip-hop più stereotipati) per rinforzare ulteriormente la proposta.
I campionamenti di sensuali mugolii stretchati e
arrangiati in coro e lo sviluppo ritmico midtempo fanno della title track, probabilmente la
traccia più popolare di James, una composizione
semplice solo in superficie. Il secondo brano,
chiamato sinteticamente “formula” o “equation”, rappresenta la più ardita escursione in
area sperimentale e astratta di James, che sembra in parte seguire i consigli di Stockhausen: le
“ripetizioni ritmiche post-africane” non vengono cancellate, ma trascese da un complesso
sviluppo sonico, con espressioni risalenti agli
esperimenti elettroacustici dell’avanguardia
del dopoguerra europeo. Nanou armeggia con
suoni carilloneschi per un finale melodicamente
aphexiano.
Nel 2000 non si registrano release ufficiali. Unica segnalazione: la funzionale colonna sonora
per “Flex“, un cortometraggio di Chris Cunningham presentato in occasione di un’installazione
alla Royal Academy di Londra (solo un estratto
di pochi minuti è disponibile nella raccolta di video del regista). Nel 2001 James fonda con Tom
Jenkinson la label MEN, per la quale pubblica il
12″ 2 Remixes by AFX, omaggiando 808 State e
DJ Pierre (componente dei Phuture) e aggiungendo una traccia non intitolata di due minuti
che altro non è se non la conversione audio di
un’immagine codificata in formato SSTV: altro
tecnologico trick semiesoterico. Nell’ottobre
del 2001 esce per Warp l’ultimo (ad oggi) album
firmato Aphex Twin: il doppio CD (o quadruplo
vinile) DrukQs. Percorrendo le due ore e venti
minuti e le trenta tracce dell’album (variegate di
aspetto e variabili di durata, dai tredici secondi
agli otto minuti e mezzo) si ripercorrono tante
fasi della carriera del Nostro (l’IDM polygonale di Bbydhyonchord, l’ambient selezionata
di Gwely Mernans e Btoum-Roumada, l’elettroacustica astratta di Gwarek2 – contenente
parti utilizzate per Flex, la drill vertiginosa di
Vordhosbn, Omgyjya-Switch7, Cock/Ver 10, Ziggomatic 17, Afx237 V.7 – che nel 2005 verrà poi
utilizzato per l’ennesimo, disturbante corto Rubber Johnny di Cunningham, fino alla velocità
siderale – oltre 200 bpm – del capolavoro sonico
Mt Saint Michel Mix+St Michaels Mount Drill),
si respira la familiare aria di casa (i molti titoli
nell’impronunciabile dialetto cornish, l’happy
birthday cantato alla segreteria telefonica dai
genitori in Lornaderek), si ritrova materiale già
usato (54 Cymru Beats comprende parti della
“formula” di Windowlicker), ma si scopre anche
un lato nuovo, o quantomeno mai rivelato: ben
dodici brani hanno come protagonista il piano,
spesso preparato à la John Cage (l’ouverture di
Jynweythek Ylow, il neocarillon di Hy A Scullyas Lyf A Dhagrow), a volte suonato via MIDI
(Kladfvgbung Micshk, Prep Gwarlek 3b) o con
sovraregistrazioni (Avril 14th), a volte oggetto di
improvvisazioni impressionistiche (la debussyana Strotha Tynhe, l’origami di Ruglen Holon,
la finale, poetica Nanou 2). Amato o snobbato
(come pastiche non più sorprendente), DrukQs
comunque non può lasciare indifferenti.
Le release di James continuano a diminuire: il
2002 non vede nuove uscite, mentre nel marzo
dell’anno successivo esce per Warp la raccolta in
doppio CD di “26 Mixes For Cash”. La compilation consente di avere sottomano i principali lavori su commissione di Aphex Twin. Nel giugno
2003 esce a nome AFX Smojphace, il secondo
(e ultimo) EP per la MEN con la side A dedicata al remix di Run The Place Red di The Bug &
Daddy Freddy, dove la velocità del già torrido
raggamuffin originario viene raddoppiata a 226
bpm, sparandola in orbita fino a liquefarla in un
calderone di rumore bianco. Per il loro totale
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estremismo rumoristico le due tracce nella facciata B, denominate ktpa 1 e ktpa 2, rappresentano la sfida definitiva per tutti i fan di James:
terribile presa in giro o radicalizzazione nichilistica sul versante Merzbow e Russell Haswell
(sulla falsariga di Satanstornade, album di Akita
e Haswell uscito per Warp pochi mesi prima)?
La compilation autocelebrativa Rephlexions! An
Album Of Braindance!, pubblicata con il numero CAT1000 dalla Rephlex nel novembre 2003,
viene chiusa da AFX con Mangle 11 (Circuit
Bent VIP Mix), che se possibile porta ancora più
all’estremo i risultati iperdrill di DrukQs.
Dopo un altro anno senza novità, nel dicembre
2004 compare in vendita sul sito della Rephlex
Analord 10, il primo di una serie di undici EP
che la label farà uscire fino a giugno 2005. Il
“mastodontico” progetto (oltre quattro ore
e mezzo di musica comprese le bonus tracks
pubblicate nel 2009, per un totale di 42 + 20
tracce) prende il nome da un brano apparso per
la prima volta nel 2000 in un 12” pubblicato da
Luke Vibert, fraterno costante riferimento di James. Analord è anche anagramma di A Roland,
esplicitando così l’omaggio alla casa giapponese
produttrice delle macchine utilizzate (MC-4,
SH-101, TB-303, TR-606, TR-808, TR-909).
Tranne il numero 10 (il primo, l’unico pubblicato a nome Aphex Twin, con le due tracce Fenix
Funk 5 e Xmd 5a, peraltro le migliori del lotto,
a rappresentare una sorta di traghetto dal digitale all’analogico) gli EP Analord sono firmati
AFX, per un’operazione complessivamente
definibile come “retro acid”, con riferimenti
diretti – ovviamente – a Detroit e Chicago (vedi
ad esempio il rimando evidente a Larry Heard
nel titolo Laricheard). Una traccia simbolica
su tutte? Pitcard da Analord 07, che sembra
riassumere nei vari layer gran parte del mondo
aphexiano: l’acid rolandiano, i pad ambience,
l’originale sequenza armonica. Nel 2006 il “best
of” del progetto Analord verrà presentato nel
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CD riassuntivo Chosen Lords che, “con qualche
aggiusto e variazione sul tema rispetto alle tracce originali, cerca d’aprire un ombrello comune
al calderone espressivo dei 12”, ma si risolve in
un lavoro piuttosto disorganico” (E. Bridda). Nel
settembre 2005 un 12” Warp in edizione limitata
presenta (in split con LFO) due ulteriori tracce analordiane: 46 Analord-Masplid e Naks 11
[Mono], versione più lenta di Naks Acid, presente nella colonna sonora del videogame Wipeout
Pure.
E’ opinione prevalente che le due release
Rephlex del 2007 firmate misteriosamente The
Tuss siano da inserire nella discografia aphexiana. Gli indizi di un coinvolgimento di James
(almeno parziale, in collaborazione con altri,
o quanto meno nell’elaborazione meticolosa
dell’eventuale burla) nella realizzazione dell’EP
Confederation Trough (“scritto e prodotto da
Brian Tregaskin”) e dell’album Rushup Edge
(“scritto e prodotto da Karen Tregaskin”) sono
tanti: il consapevole e inventivo uso retrò delle
strumentazioni analogiche, i riferimenti cornish,
l’utilizzo del raro e costoso synth Yamaha GX1
(di cui James è uno dei pochissimi possessori),
l’aver suonato una traccia dell’album durante
qualche DJ set aphexiano nel 2005 (quindi due
anni prima della release ufficiale), il fatto che i
brani dei due dischi siano registrati tra le 151 entry del repertorio ufficiale BMI a nome Richard
David James. Nel 1998 la compilation Warp (numero di catalogo WAP 100) We Are Reasonable
People presenta come brano iniziale Freeman
Hardy & Willis Acid a firma Squarepusher/AFX,
unica testimonianza ufficiale della collaborazione tra Jenkinson e James e da segnalare, più che
per i risultati artistici (un drill and acid di maniera), in quanto ultima traccia ufficiale ad oggi
di James.
Da allora le comparizioni pubbliche di James
si sono limitate a qualche remuneratissimo DJ
set e a due particolari eventi concatenati. In
occasione dell’esecuzione in prima mondiale
a Cracovia (10 settembre 2011) di due remix
di lavori di Krzysztof Penderecki commissionatigli dall’European Culture Congress polacco (la Trenodia per le vittime di Hiroshima e
Polymorphia, trattati dal Nostro con deferente
rispetto), James ha condotto in remoto un’orchestra di 48 elementi e un coro di 24 cantanti,
per una composizione microtonale dallo spirito
ligetiano. La performance è stata replicata il 10
ottobre 2012 al Barbican Theatre di Londra, in
un programma che ha visto anche un pianofor-
te elettronico sospeso su funi e 18 mirrorball
microfonate che oscillando emettono suoni
sinistri (riprendendo la Pendulum Music di
Steve Reich) e riflettono luci verdi al laser. Un
omaggio ad un secolo intero di suoni inauditi,
dall’Intonarumori di Russolo passando per gli
esperimenti di John Cage e l’ambient music di
Brian Eno: un filone nel quale anche Richard
D. James va annoverato come Maestro. Da lui
aspettiamo ancora buone nuove, ma tutto ciò
che finora ci ha dato (magari sfoltito di qualche
episodio) potrebbe ampiamente bastare.
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Dice: “I 90 stanno tornando”. Ok, ma quali
anni '90? Quelli dell'angst generazionale
made in Seattle o quelli della coolness
metropolitana britpoppara?
Testo di Andrea Macrì, Diego Ballani,
Stefano Gaz, Tommaso Iannini,
Stefano Pifferi
Si dice: “I ’90 stanno tornando”. Ok, ma quali anni ’90? Quelli
dell’angst generazionale made in Seattle o quelli della coolness
metropolitana britpoppara? Tornano, è vero. Vuoi per una legge non
scritta che vuole che qualunque cosa obsoleta dopo dieci anni, torni
di moda dopo venti; vuoi per il fatto che i ’90 (e forse l’inizio del
millennio successivo) rappresentano l’ultimo periodo in cui potevi parlare con il vicino di banco o di scrivania e sperare che avesse
ascoltato i tuoi stessi dischi o avesse visto i tuoi stessi video musicali. Quel che è certo è che chi li ha vissuti, quegli anni se li ricorda
come un periodo di commistione, rivisitazione, detournement, addirittura, ma non certo di innovazione. Per lo meno in ambito rock,
quello apparentemente più saccheggiato dai giovani artisti indipendenti e non.
Paradossalmente, solo oggi, constatando i tentativi più o meno
riusciti di emulazione, ci rendiamo conto di quanto, nel ricombinare esperienze passate, si sia stati in grado di sintetizzare formule
capaci di durare nel tempo. Da qui l’idea di tracciare una mappa di
nomi, titoli, esperienze che hanno definito un’epoca e la sua importanza, riverberando la loro influenza fino ad oggi in modo forse
non sempre evidente. Si tratta di un elenco ragionato ma realizzato
volutamente con poco distacco, vista la relativa vicinanza dell’oggetto trattato. Pertanto è da leggersi in modo laico (considerando
anche che il modo in cui ci si rapporta a ciascuno di questi dischi è
destinato continuamente a mutare) e, soprattutto, divertito. Pronti a
cominciare?
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35. Metallica – omonimo ( Black A lbum , 1 9 9 1)
Pochi album così importanti sono stati anche tanto controversi.
Maturità o sell-out? Lasciamo ad altri sentenze e processi alle
intenzioni, notiamo invece una scelta di campo applicata in tutto
e per tutto, con raziocinio, pervicacia e ispirazione: alzare l’asticella oltre l’essere di genere per atterrare nella serie A, anche
commerciale, del rock. Del rock, quindi più che del metal, anche
se il vero sacrificato è il punk, non il metallo pesante. È tutto consequenziale: la scelta di Bob Rock, produttore di Mötley Crüe e
Cult, le composizioni semplificate rispetto al virtuosismo barocco
di …And Justice for All, il privilegiare il suono rispetto ai tempi
mozzafiato, i riff a combustione lenta e quasi da vecchia scuola
heavy blues di Enter Sandman e di Sad But True – tra una Kashmir del post-thrash e una via metallica al grunge (l’ispirazione
viene dai Soundgarden e si sente) – o provare a essere melodici in
una percentuale in cui i Metallica non erano mai stati prima della
morriconiana The Unforgiven e di Nothing Else Matters, dove
nello stesso pezzo si autoinfrangono due tabù, la ballata romantica e l’arrangiamento orchestrale. Fermata obbligatoria per il metal anni ’90, volenti o nolenti, persino per i suoi titolari, da allora
rimasti al palo. (TI)
34. Flaming L ips – The Soft Bulletin (1 9 9 9)
Alla perfezione cinematica, i Flaming Lips avevano già preso la
mira con il progetto Zaireeka, l’album in cui il loro noise pop perdeva ogni scoria rumorista per farsi lisergica sinfonia. In pochi
se ne erano accorti, impegnati più ad osservare l’oggetto in sé (un
quadruplo CD da suonarsi all’unisono), piuttosto che ascoltarne i contenuti. Infine nel ’99 esce The Soft Bulletin e viene da
pensare che se Brian Wilson avesse avuto la stralunata ironia (e
l’efficienza) di Wayne Coyne forse avrebbe prodotto qualcosa di
simile. In verità il songwriting di Coyne paga solo in parte tributo
all’ex Beach Boys. L’album, con la sua cinedelìa spaziale, è più un
omaggio a compositori non allineati come Van Dyke Parks e Joe
Meek. C’è una voglia di portare questo pop allucinato alle masse
con inni ultraterreni come Race For The Prize, di cui ognuno può
scegliere se cogliere la carica anthemica o il destabilizzante sottotesto lisergico. E’ una caratteristica di Coyne quella di cercare
lo straordinario nell’ordinario. O viceversa, realizzare strumentali
che sembrano temi disneyani sotto acido. Anche negli spettacoli
i Flaming Lips si fanno interpreti di una concezione gioiosa della
psichedelia che diventerà paradigma per interpretare gran parte
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del pop a seguire, dalle trame oblique degli Animal Collective a
quelle danzerecce dei MGMT. (DB)
33. S epultura – R oots ( 19 9 6 )
Tra i tanti dischi metal di successo commerciale (vedi Metallica
e Pantera) Roots dei Sepultura rimane il più rappresentativo
della cultura 90s perché espressione massima del crossover in
zona heavy. Un’operazione musicale e culturale: c’è lo spostamento d’asse dal trash/death degli esordi verso le direttrici nu
metal (Lookaway), ma soprattutto l’orgogliosa riscoperta della
tradizione brasiliana, e in questo senso la presenza del percussionista Carlinhos Brown (già con Caetano Veloso in Estrangeiro) pare molto più significativa di quella del cantante dei Korn,
Jonathan Davis. E’ la radice etnica l’anomalia e la chiave di lettura
di Roots, che partorisce una brutalità sempre a braccetto con
djembe e timbe, sitar e berimbau, passando in rassegna chitarre
tradizionali (Jasco), fascinazioni indigene (Itsàri) ed esoteriche
(Ratamahatta), senza tralasciare classici anthem d’impatto come
Attitude. Ironia vuole che sarà proprio quel concetto di attitude
and respect a venire meno, tanto nel futuro dei Sepultura (complice la separazione dei fratelli Cavalera), quanto nel filone metal
sudamericano che sull’onda lunga di Roots troverà un discreto
spazio discografico. (SG)
32. Slowdive – Souvlaki ( 19 9 3)
Quando usciva questo disco, nel ’93, lo shoegaze era già stato
sbranato, digerito e deiettato. I MBV, con Loveless, avevano
indicato il punto di non ritorno. Nessuno sapeva che farsene di
questa band di Reading di cui tutti, a partire dalla loro etichetta,
avevano fatto in fretta a disinteressarsi. La colpa di Neil Halstead
e soci era quella di incarnare l’anima più dreamy e ultraterrena
della “scena che celebrava se stessa”. Canzoni come 40 Days e
Alison però non erano eccellenti solo grazie ad un utilizzo di
effetti e riverberi. Erano frutto di una visione che introiettava il
rumorismo del decennio precedente e lo espelleva in un pulviscolo atomico di chitarre, dando vita ad una sinfonia celeste, ad un
ambient iperuranico. Ecco perché la band voleva che a produrre
il disco fosse Brian Eno. Il maestro rifiuterà, esprimendo, però,
il suo apprezzamento e chiedendo di partecipare all’album. È
così che Souvlaki alterna il candore pop di When The Sun Hits
a rarefatte jam sperimentali (Souvlaki Space Station). Non mancano neppure i prodromi di quel folk mesmerico che porterà alla
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nascita dei Mojave 3. All’uscita verrà quasi snobbato. Vent’anni
dopo le band e le etichette che lo hanno preso a modello, non si
contano neanche. (DB)
31 . Kyuss – Blues For The R ed Sun (1 9 92)
Il deserto, il blues, la musica heavy. Tre elementi che hanno
sempre flirtato e che trovano una nuova vita agli inizi dei ’90
quando quattro debosciati del sud della California inclini all’uso
di droghe leggere e alla fusione degli ampli, trovano nel deserto l’illuminazione che prenderà il nome di stoner: psichedelia
desertica a base di peyote e erba applicata all’hard-rock primitivo e acido. Giri di basso enormi, chitarre che definire sporche
è poco, batteria come un locomotore più un frontman piuttosto
carismatico come John Garcia fanno di Green Machine il singolo
ideale per introdurre l’album e sfondare in un momento in cui
l’“alternative” comincia ad interessare le grosse label. Non sarà
così e Blues From The Red Sun sarà in pratica tanto un flop
commercialmente quanto una pietra miliare stilisticamente: inutile dire che la genia post-Kyuss – QOTSA, Fu Manchu, Unida,
Slo Burn in maniera più o meno diretta, una infinità di altri in
maniera indiretta – è a dir poco sterminata e per forza di cose
riconoscente ad una formazione che ha l’onore di aver letteralmente inventato un genere. (SP)
30. M otorpsycho – Timothy’s M onster (1 9 94 )
Un disco rock completo come capitava di sentire (solo) nei ’90.
Se Demon Box aveva saputo proporre una via scandinava, del
tutto credibile e ispirata, al suono grunge, il doppio CD, segno
di una prolificità debordante che li contraddistinguerà durante
tutto l’arco della carriera, approfondisce meglio un altro aspetto
dell’estetica Motorpsycho: la psichedelia. Una psichedelia soffice e bucolica come nell’iniziale Feel, o che viaggia su lunghezze
da superjam e con cadenze panzer nella The Wheel degna di
un gruppo stoner. I due brani agli antipodi – in tutti i sensi – del
monumentale Timothy’s Monster danno già di per sé la misura
della versatilità sonora dei norvegesi. Manca di aggiungere tutto
quello che c’è in mezzo, gemme tra il folk più delicato ed esotico,
il pop chitarristico acido e rumoroso che mastica accordi e rumina sulle lezioni dei corrieri sonici d’oltreoceano (Dinosaur Jr. e
Sonic Youth) e un hard rock brillante ed evoluto. Il raggio d’azione è così ampio da abbracciare una fetta non indifferente dello
scibile rock, in cui è difficile trovare uno stile che Snah e Bent
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non sappiano abbracciare. (TI)
29. E lliot S mith – Either/Or ( 19 9 7)
Dopo che l’evoluzione del post-punk/post-hardcore ha compiuto la sua parabola fino al grunge e le major hanno prosciugato i
roster delle etichette “storiche” degli anni ’80, il ricambio generazionale e musicale in seno alle indipendenti porta alla riscoperta
della figura del cantautore. Da Damien Jurado a Mark Linkous,
da Bill Callahan a Mark Kozelek, una nuova genìa di singer/
songwriters fa sentire la sua voce addentrandosi nelle pieghe
nascoste della propria anima. Elliott Smith, assieme a Bonnie Prince Billy, è uno dei più dotati. Esordisce per una piccola
etichetta di Olympia quando è ancora il bassista degli Heatmiser,
per poi passare alla Kill Rock Stars. La vena preferita è intima e
acustica, tra Paul Simon, Elvis Costello e Nick Drake. Either/
Or dimostra tutte le sue potenzialità grazie agli arrangiamenti
più elaborati e ad alcune delle canzoni più brillanti del suo repertorio: Speed Trials, Alameda, Ballad Of Big Nothing, Pictures
Of Me, Say Yes. Verranno poi Gus Van Sant, la notte degli Oscar,
il contratto per la Dreamworks e il relativo successo. Il mal di
vivere, quello resterà fino alla fine. La sua voce fragile è stata tra
le più intense di una generazione. (TI)
28. Jon Spencer Blues Explosion – O range
( 1 9 94)
Non chiamatelo revivalista. Dopo la filologia drogata di modernismo dei Pussy Galore, Jon Spencer dà vita a un trio che chiama
Blues Explosion per mettere in scena la metacritica della “historia de la musica rock”. È il verso della medaglia del post rock: se
a Chicago e Louisville si procede in direzioni altre, Spencer va
all’origine dello specifico della musica chitarristica bianca (cioè
nel suo fondo nero) non per superarlo, ma anzi per dissezionarlo
e riscriverlo in chiave lo-fi, raschiarlo e scarnificarlo con l’irriverenza di un punk e l’interesse dello studente di semiotica che era
stato negli anni ’80. Con Orange poi si conferma l’Elvis del poststrutturalismo rock. Avremmo potuto scegliere altri lavori ma
l’album del 1994 contiene tutto ciò che promette, un’esplosione
blues che non è solo blues, riff inanellati su chitarre polverose e le
trovate più bizzarre, dai violini della rutilante Bellbottoms al rap
di Beck in Flavor e all’assolo di theremin in Dang. Jon è l’anello di
congiunzione tra i Jeffrey Lee Pierce di un tempo e gli Auerbach
e i White di oggi. Ed è anche molto di più. (TI)
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27. Blur – Parklife ( 19 94)
Si può parlare di britpop senza i Blur? No, perché di quel fenomeno sono stati la formazione più rappresentativa, la più articolata,
e persino la più coraggiosa. Dimenticati i trascorsi baggy, l’album
che li ha lanciati anche fuori dai patrii confini riannoda i fili di
una tradizione britannica selezionata per rientrare nel loro immaginario weird pop: i Beatles, i Kinks, gli XTC, i Who, Bowie,
Elvis Costello, ma anche il music-hall e il vaudeville. È un piccolo compendio della storia del rock inglese visto da una prospettiva un po’ eccentrica e leziosa, da parte di un gruppo giovane
con molti assi da giocare. Girls and Boys e Parklife sono quanto
di più esuberante e sbarazzino, End of the Century, To the End,
Badhead hanno melodie brillanti e malinconiche il giusto per
essere singoli perfetti. Le storie di personaggi alienati – inventati
ma veri – della middle class britannica scritte da Damon Albarn
sono icastiche come i bozzetti di un novello Ray Davies. Niente
Cool Britannia, semplicemente, this is England. (TI)
26. Red H ot Chili P eppers – Blood Sugar Sex
M agik (1 991)
Il quinto album in studio dei Red Hot Chili Peppers – Anthony
Kiedis al canto, John Frusciante alla chitarra, Flea al basso, Chad
Smith alla batteria – è sintesi e consacrazione di una carriera che,
rispetto all’austerity dell’underground americano, ha sempre avuto nel non prendersi troppo sul serio uno dei propri vessilli. D’altronde, le influenze sono quelle da muovi il culo e la tua mente gli
andrà dietro. Impegno e storie più serie sono sempre sullo sfondo di una goliardia che comanda. E la musica fa il paio a questo
modus operandi. Funk, rock, assoli, bassi da maglio allo stomaco,
batteria pestona, rapping mischiato alla melodia, sono gli ingredienti che rendono questo disco una cosa inaudita: la formula che
in tutti i dischi precedenti era stata continuamente perfezionata,
qui tocca la perfezione. Inutile dare testimonianza di una scaletta
epocale, 17 brani per più di settanta minuti che portano agli anni
Novanta un meltin’ pot che, da qui in avanti, sarà letteralmente
saccheggiato. Talmente sfruttato che, a guardarlo oggi, quel funkpunk-rap-rock-pop pare alquanto imbolsito. Ma non qui, perché
le canzoni (e qui sta la vera differenza con gli epigoni) dei Peppers sono frutto di penne mature e scintillanti, mai come ora e
mai più dopo così all’apice. (AM)
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25. B jörk – Post ( 19 9 5)
Non è un’artista rock in senso stretto, Björk. L’esperanto musicale
della cantante islandese appare piuttosto una commistione tra
trip-hop, dance elettronica e pop moderno, dove è però la forma
canzone a prevalere sui generi di riferimento. Per questo abbiamo comunque scelto di citarla, considerando che si tratta di una
delle artiste più innovative del decennio. Il suo successo nasce da
solide basi, una originalità indiscussa nel canto che andava di pari
passo con la scelta oculata dei collaboratori: per bissare il successo del primo album (intitolato apoditticamente Debut), la cantautrice islandese puntava tra gli altri su Nellee Hooper, Tricky e gli
arrangiamenti d’archi di Eumir Deodato, veterano delle colonne
sonore. Anche i brani più celebri che l’hanno lanciata come fenomeno mondiale hanno sempre qualcosa di spiazzante, da quel
mirabile incontro tra pop e techno (che è un’altra cosa dal techno
pop, proprio un’altra) di Hyperballad alla sottile angoscia di una
Isobel o alla cover di un brano da musical, It’s Oh So Quiet, in cui
Lars Von Trier doveva avere visto già in azione la sua prossima
vittima. E le imitazioni non si contano. (TI)
24. U2 – Achtung Baby ( 19 9 1)
Il passaggio tra il decennio che li ha eletti star assolute e un
futuro pieno di incognite coglie gli U2 esattamente nel luogo
simbolo della nuova era, la Berlino fresca di caduta del muro.
Tra mille difficoltà ma affidandosi alle mani sapienti di Lanois,
Eno e Flood, gli irlandesi vanno in autoanalisi e scardinano tutte
le certezze acquisite. La sfida è plasmare il nuovo rock del villaggio globale. Bono si reinventa istrione postmoderno mentre
The Edge traffica con settaggi, loop, batterie elettroniche e nuovi
effetti, oltre ai suoi arpeggi e chop in delay che al tipico staccato
adesso aggiungono vibrazioni funky e riflussi cacofonici. L’operazione riesce grazie alle canzoni: One, Who’s Gonna Ride Your
Wild Horses, So Cruel, The Fly o Ultraviolet sono il meglio degli
U2 “modernisti”. Un disco che storicamente si colloca tra Bowie
e Iggy Pop, che a Berlino avevano “inventato” la new wave, e i
discepoli Radiohead che dalla musica dance contemporanea trarranno ispirazione per un programma più radicale. (TI)
23. M ogwai – Young Team ( 19 9 8 )
Il post rock degli anni ’90 è nato in Gran Bretagna – almeno come
attitudine, secondo la teoria del critico Simon Reynolds che per
primo ne parlò apertamente su The Wire – ma è stata la scuola
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americana di Louisville e Chicago a definire le coordinate musicali con cui il genere si è poi identificato negli anni successivi.
Non a caso la punta di diamante del post rock europeo è la formazione scozzese di Stuart Braithwaite che dagli Slint ha appreso
una maniera nuova di usare le chitarre e tutta strumentale. Dinamiche che cominciano dal pianissimo quasi impercettibile a preparare imperiosi crescendo o lo scoppio improvviso di sequenze
alienanti con picchi distorti di rumore chitarristico: la lezione di
Spiderland portata a un nuovo livello, con l’aggiunta dei suoni
siderali, di cui parla una voce catturata in Yes! I Am a Long Way
From Home (un vezzo quasi pinkfloydiano più che slintiano), e
delle tempeste noise alla Kevin Shields, del quale i Mogwai sono
fedeli discepoli, ma fortunatamente non banali imitatori. Mogwai
Fear Satan è per metà un sabba rock e per l’altra si avvicina alla
maestosità di una sinfonia. (TI)
22. Shellac – At Action Park ( 1 9 94 )
Il disco più punk del math rock, sempre che di math si possa
parlare in senso stretto, ma le partiture tanto violente quanto
sofisticate porterebbero a dire di sì. Insieme a Bob Weston e al
tentacolare batterista Todd Trainer, Steve Albini crea uno dei
suoi migliori album come musicista, se non il suo migliore in
assoluto. Gli Shellac sviluppano il discorso di Big Black e Rapeman in un laboratorio sulla decostruzione, sublimazione e astrazione del suono di matrice post-hardcore stile Touch and Go, tra
il noise dei Jesus Lizard e il rock, questo sì, matematico dei Don
Caballero. Il passaggio dall’aggressività e dalla violenza sonora
ancora punk alle geometrie post si concretizza in mezzora di rock
acrobatico, spericolato quanto compatto e cerebrale. Il blues rock
autoptico di My Black Ass o The Admiral, le convulsioni di una
chitarra tignosa, cattiva, che scricchiola, si contorce e picchia
duro nello strumentale Pull the Cup, la ritmica sincopata di Crow
sono tra i momenti topici. (TI)
21 . Primus – Sailing The Seas O f C heese (1 9 9 1)
E fu così che un altro gruppo di alieni atterrò sulla terra. Inglobando gran parte della tradizione weird americana (dagli storici
Residents ai contemporanei Butthole Surfers e Melvins, senza
dimenticare Captain Beefheart) i Primus fecero di un approccio
strampalato al rock il loro punto di forza. Crossover è un termine
utilizzato dopo il loro passaggio: avevano un impianto hard rock
ma tra quelle pieghe viveva un mondo fatto di infusioni etniche,
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funk, blues epilettico, psichedelia che riuscì a condensare in un’unica formula l’anima alternative della musica americana. Non a
caso, il pubblico della band veniva dai nuclei più disparati: quello
rock certo, ma anche fricchettoni e metallari. Sailing The Seas
Of Cheese è il disco della rivelazione al grande pubblico e incarna tutti gli elementi del Primus-pensiero, a partire dal concept
cartoonistico che ben identifica l’ironia sghemba del trio di San
Francisco; a dispetto dei molti classici (Here Come The Bastards,
American Life, Jerry Was a Race Car Driver, Tommy The Cat
impreziosita dalla voce di Tom Waits), la minuzia compositiva di
Claypool e soci viene alla luce nelle tracce accidentali come l’incipit barcollante di Seas of Cheese, il fast’n’bulbous di Is it Luck? o
nelle trame orientali di Sathington Waltz. Paradossalmente sarà il
minore Antipop a fornire il termine giusto per descrivere la loro
musica. (SG)
20. Jeff Buckley – G race ( 19 94)
Per una volta tanto, figlio d’arte non era una frase fatta. Guai però
a parlare a Jeff di Tim, con cui ebbe pochi contatti nella breve
vita – di entrambi – ed evitava a priori qualsiasi paragone. Del
padre aveva però ereditato tutto, e specialmente la formidabile
voce, dall’estensione vertiginosa. Grace è un album diviso tra gli
originali sospesi tra rock, soul, folk, psichedelia e musica lirica, e
una versatilità d’interprete già provata nei concerti che si misura
con un classico di Nina Simone, un brano di Benjamin Britten e
una versione di Hallelujah di Leonard Cohen, talmente personale da diventare una delle migliori cover di sempre. I vocalizzi
sovracuti di quel falsetto teso, vibrante e quasi incorporeo sono il
tratto distintivo di un talento cristallizzato in quest’unico disco
di studio. Buckley il giovane ha lasciato però un’impronta profonda, su cantautori come Rufus Wainwright ma pure Antony and
The Johnsons o su Joan Wasser, che fu la sua compagna, e ha
ispirato molti gruppi inglesi di area mainstream, tra cui i Muse o i
primi Coldplay. (TI)
1 9. J esus Lizard – G oat ( 19 9 1)
Quando nel 1991 i Jesus Lizard fanno uscire Goat, al loro attivo
hanno già la fine di una band come gli Scratch Acid, e la pubblicazione di EP (Pure) e di un LP (Head) che certificano il loro
ruolo di guida del noise americano. Meno cervellotici e stilosi dei
Sonic Youth, più blues dei Big Black ed ugualmente aggressivi
(e con Steve Albini a produrre), con Goat i quattro partoriscono
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quel che si suol dire una cannonata. Fin dall’incipit di Then Comes Dudley, i JL viaggiano su quattro vettori: aggressività chitarristica fantasiosa (Denison, un principe della chitarra), sezione
ritmica bulldozer, testi scatologici e malsani e voce grottesca. È
musica che, nonostante si infili in un alveo che potrebbe risucchiare fino al monotono, nel monotono non scade mai: merito di
musicisti capaci, autentici, realmente creativi. E di un invasato
come David Yow alla voce, che all’austerità mostruosa del suono
contrappone una disperazione canora che non risulta mai meno
che autentica nel suo essere totalmente sbilenca. È questo forse il
segreto dei Jesus Lizard: in un genere che si prende spesso terribilmente sul serio, loro stanno dalla parte dell’assurdità. Della
vita, quasi. (AM)
1 8. Yo La Tengo – I Can Hear Your H eart
B eating A s O ne ( 19 9 7 )
Così come ai Radiohead spetta il compito di chiudere i conti
con il Britpop, dall’altra parte dell’oceano sono gli Yo La Tengo
a inventare l’exit strategy dal manierismo lo-fi e alternative. Nel
’97 i tre di Hoboken sono già dei veterani ed è proprio per questo
che il loro settimo lavoro funge da punto di partenza per la maturazione di tutta la scena. Il rinnovamento, ancora una volta si
realizza guardando al passato, andando oltre il marchio di fabbrica del gruppo (la melodia velvetiana infusa di scorie noisy) e facendo proprie le pulsazioni metronomiche e le derive spacey del
kraut rock. Tutti questi sperimentalismi su ICHYHBAO convivono all’insegna di un pop polimorfo e artisticamente vorace, che fa
della misura e del rigore la propria carta vincente. La risultante è
una nuova e ambiziosa forma di drone music, che prende di volta
in volta la forma di meditazione folk (Green Arrow), romantica
poesia shoegazy (We’re An American Band), giustapposizione
fra pop, cacofonie e scale jazzy (Moby Octopad). Il twee pop di
Stockholm Syndrome e il lungo exploit, a metà fra Neu! e Sister
Ray, di Spec Bebop, sono le Colonne d’Ercole di un album il cui
range stilistico anticipa gran parte del pop del nuovo millennio.
(DB)
1 7. R.E .M . – Automatic For The People (1 9 92)
Strane cose succedevano nelle parti alte delle classifiche nel ’92.
Poteva accadere persino che una mantra mesmerico come Drive
circolasse furiosamente per tutti i maggiori network. Una cosa
resa possibile dall’exploit di Out of Time, avvenuto appena pochi
50
mesi prima, e da un clima più generale di grande attenzione verso
l’underground. Anche per questo la band di Athens, stordita da
un successo che non si sarebbe mai aspettata in simile misura,
abbassava i volumi e sfornava il suo lavoro più rigoroso e ascetico dai tempi di Murmur. Automatic è in tutti i sensi il Murmur
degli anni ’90. Quello in cui la band recupera il misticismo della
primissima produzione e ne restituisce il senso di mistero attraverso ballate trasfigurate e solenni. Dove i pochi momenti elettrici fungono da mero alleggerimento, mentre agli episodi acustici
come Nightswimming, Find The River ed Everybody Hurts spetta il compito di scavare in fondo, recuperare il rapporto fra vita e
memoria, descrivere un paesaggio sospeso che è lo specchio della
coscienza collettiva di quegli anni. Saranno in molti a considerarlo un album importante, già al momento della sua uscita. Chiedere a Kurt Cobain e a tutti quei fragili campioni del rock che in
quei suoni così classici e così freschi, avevano intravisto un via di
uscita dal circo del grunge. (DB)
16. Mercury R ev – Deserter’s Songs (1 9 9 8)
Rispetto agli esordi del gruppo di Jonathan Donahue e Grasshopper, Deserter’s Songs lascia fuori i cicloni di chitarre rumorose
e distorte e propone un altro wall of sound, di marca quasi spectoriana. È il biglietto da visita dei nuovi Mercury Rev, campioni
di una canzone nobile americana tra Tin Pan Alley e i Beach
Boys di Pet Sounds. Questo aspetto “neoclassico” è evidente nel
soft rock orchestrale, elegante e sontuoso, anche piacevolmente
ridondante, in cui si ritrovano le atmosfere pastorali, la vocazione per le colonne sonore care al gruppo di Buffalo, ma anche
scampoli di musica sinfonica e le note blu del jazz, nel solo di
sassofono di Hudson Line suonato da Garth Hudson della Band –
altra influenza maggiore. Più che un disco degli anni ’90, sembra
sospeso nel tempo, segno di grande libertà espressiva, e prefigura
già un’epoca in cui le varie tradizioni vivranno simultaneamente
in unico presente “storico” indistinto, come saranno gli anni Zero
e oltre. (TI)
1 5. Nine Inch Nails – T he Downward Spiral
( 1 9 94)
Trent Reznor è il neuromante di William Gibson, lo sciamano
tecnologico che s’interfaccia direttamente con il sistema nervoso delle macchine, il mago dello studio di registrazione che dal
perfezionismo maniacale di producer cava i suoni più viscerali.
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È il primo cantante showman – la prima rockstar – della musica
industriale, genere che contribuisce a sdoganare presso il pubblico rock sfruttandone la valentia rumorista all’interno di una
forma canzone sperimentale finché si vuole ma in fin dei conti
vendibile. The Downward Spiral, concept album maledetto e
ammantato di un’aura disturbante, prosegue un bel passo oltre
il connubio di melodie claustrofobiche, ritmi dance e scariche
metal dell’album di debutto Pretty Hate Machine con un programma multitasking di atmosfere torbide e sinistre che incrociano il terrorismo sonoro di un Foetus, un techno pop perverso, un
martellante heavy rock, paesaggi sonori al limite dell’ambient e
canzoni acustiche. I brani simbolo, non per niente, sono il cyberpunk di March of the Pigs, il synth pop decadente di Closer e la
ballata esistenziale Hurt. (TI)
14. Neutral Milk Hotel – I n The A eroplane
Over The Sea ( 19 9 8)
I gruppi del collettivo Elephant 6 di cui Jeff Mangum è stato uno
dei fondatori insieme ai membri di Olivia Tremor Control e
Apples In Stereo condividevano l’amore per il sound degli anni
’60 e in particolare per i Beach Boys. Anzi, avevano eletto l’artigianato da studio di Pet Sounds a nume tutelare per le loro prove
discografiche, ma non si sono fortunatamente fermati al 1966. Il
secondo album dei Neutral Milk Hotel dimostra, per esempio,
che l’attitudine punk e lo-fi si sposa benissimo con un’idea pop
di stampo sixties. Le composizioni di Jeff Mangum seguono un
canovaccio in teoria abbastanza lineare partendo da un’acustica
in primo piano che macina accordi, però sono tali la qualità della
scrittura di musica e testi, l’abilità nell’arrangiamento e il pathos
interpretativo che il risultato dimostra come si possano scrivere
canzoni classiche e incrostarle di rumori, galvanizzarle di fiati
squillanti e, più in generale renderle nuove e fresche anche in
ossequio a modelli mai superati. Pensate pure a una band come
gli Okkervil River, che a questi solchi devono veramente tanto,
se non tutto. (TI)
1 3. Bonnie Prince Billy – I See A Darkness
( 1 9 9 9)
Will Oldham, con le sue varie incarnazioni e sigle, ha contribuito
rilanciare la figura del cantautore folk nell’ambito della musica indipendente americana, a metà tra l’alternative country più
brillante propugnato da band come i Wilco e la tecnica spartana
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del lo-fi. Dopo Palace Brothers, Palace Songs, Palace Music e
Palace, e il disco omonimo del 1997, è l’alter-ego Bonnie Prince Billy a monopolizzare la sua produzione. Che non cambia in
modo sostanziale. L’esordio del nuovo pseudonimo può essere
preso ad esempio per l’atmosfera da waste land esistenziale e un
tipo di scrittura toccante e intimista, dagli accenti gotici piuttosto marcati, da man in black del terzo millennio, che aderisce ai
canoni del folk, dal country o del blues senza tentativi olografici.
A Minor Place, Nomadic Revery (All Around), I See A Darkness
e gli altri brani del disco non si pongono il problema di suonare
tradizionali, semplicemente suonano, bene, tra arrangiamenti
essenziali e una voce dolente e carica di romanticismo. (TI)
1 2. Smashing Pumpkins – Siamese D ream (1 9 94 )
Come avreste immaginato a caldo una fusione tra Nevermind e
Loveless? Billy Corgan non l’ha solo immaginata. Del resto, come
per molti loro pari dei primi ’90, anche lo stile dei Pumpkins è un
furioso ricombinare altri stili dall’intero spettro del rock (meno,
forse, il punk), ma lui non aveva paura nemmeno di sporcarsi
le mani con l’AOR di Boston, Queen ed ELO, che altri della sua
generazione avrebbero schifato o al massimo fatto entrare dalla porta di servizio. È stato questo il suo segreto meglio e meno
nascosto allo stesso tempo. Chiarificare un impasto di distorsioni
pesanti con la levigatezza pop, innalzare sbarramenti di chitarre
per smuovere le montagne senza nascondere il cuore melodico
(e mélo) delle canzoni, dosare il grunge e l’indie pop, la mano
pesante e la carezza, il sangue e le fragole, il rombo delle chitarre
distorte e il suo lamento nasale dai toni accorati e suadenti, non
c’era cosa che Mr. Corgan non sapesse fare destreggiandosi sul
filo del rasoio tra preziosismi di scrittura e arrangiamento. Disarm, tutta chitarra acustica, campane tubolari, violino e violoncello rimane un bijou. (TI)
1 1 . Rage Against The Machine – Rage Against
T he Machine ( 19 92)
Avvisaglie sparse ce ne erano già state, ma è indubbio che per
portata e impatto è questo l’album “crossover” per antonomasia.
Quattro personalità diverse, quattro provenienze differenti, un
unico obbiettivo: la destabilizzazione della “macchina” con uno
sfogo di rabbia strumental-testuale da brividi. Merito di una sezione ritmica compattissima, un chitarrista che definire eclettico
è poco e un frontman invasato: tutti e quattro fulminati sulla via
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della protesta, politicamente impegnati e pronti a trasformarsi
in una macchina piena di rabbia. Punk, funk, noise, metal, rap,
impeto hc e quant’altro in un tourbillon sonoro spesso anthemico
– Killing In The Name divenne inno nel giro di un passaggio televisivo – che regge il passare del tempo infinitamente meglio di
altri dischi magari tecnicamente più ricercati. Era l’energia quella
che i quattro volevano trasmettere al pubblico e quella contava:
vedere centinaia di migliaia di teste muoversi all’unisono in quel
di Reading, anno domini 1993, vi assicuro, vale come descrizione
del portato dei RATM più di mille parole. (SP)
1 0. Fugazi – R epeater ( 19 9 0)
Difficile scegliere un solo disco per illustrare l’avvento della
stagione post hc ma indubbiamente Repeater è quello con più
frecce al suo arco. Non è una questione prettamente musicale: i
Fugazi sono il più evidente paradigma del cambiamento hc/post
hc, il passaggio dalla violenza dei sobborghi americani ai campus
universitari, dalle corpulenze rocciose e pugilistiche di un Henry
Rollins a quelle più emaciate e dinoccolate di Ian MacKaye. E
poi una carriera che ha attraversato trasversalmente tutte le fasi
salienti di questa trasformazione. I Minor Threat di MacKaye,
la Revolution Summer dell’85 con il passaggio emotional di Guy
Picciotto e i Rites Of Spring (e ancora MacKaye con gli Embrace), l’esplosione della Dischord Records. Non da ultimo, le canzoni. Repeater racchiude una serie infinita di hit (Merchandise,
Turnover, Repeater, Blueprint) in cui a dominare sono i contrasti:
la violenza con il cerebrale, la politica (indimenticabile lo slogan
You Are Not What You Own) con il nichilismo (Shut The Door),
la standardizzazione e il fuck you (Repeater). L’entrata nei 90s
non poteva essere più destabilizzante. (SG)
9. Oasis – D efinitely, Maybe ( 19 94 )
È facile sottovalutare l’importanza dei fratelli Gallagher, alla luce
del loro primitivo savoir faire, della sovraesposizione mediatica e
delle ultime prove non certo entusiasmanti. Altra cosa è tornare
con la memoria a quei mesi del ’94, quando in seguito all’exploit
di Supersonic, faceva il roboante debutto questo impeccabile
album. Definitivo, forse. Non certo per l’originalità della proposta, ma perché una sintesi così perfetta fra la grazia dei Beatles
e l’arroganza dei Sex Pistols non si era mai sentita. Se il Britpop
è stato il modo in cui le band dei 90s attingevano al patrimonio
nazionale, gli Oasis furono quelli che seppero scegliersi i beni
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migliori. Compresa quella sfacciataggine che è comune denominatore di ogni act di successo. Live Forever, Cigarettes and Alcohol
e Rock’n’roll Star si imponevano con l’autorevolezza di chi non si
limitava a replicare il passato, ma pretendeva di giocarsela con i
grandi. Poi certo, i Gallagher saranno importanti anche per i numeri. Per il fatto che con loro il rock ritorna ad essere popolare. Se
ne riappropria l’uomo della strada e il lad della curva. Perché qui
dentro ci sono inni da cantare assieme con i lucciconi agli occhi e
con una strafottenza che verrà passata come un testimone a Kasabian e Arctic Monkeys. Tutti ansiosi di diventare, a modo loro, i
nuovi Oasis. (DB)
8. P. J. Harvey – T o Bring You My Love (1 9 9 5)
To Bring You My Love è il disco della liberazione per Pj Harvey,
un gettarsi alle spalle l’etichetta ingombrante di riot girrrl e i paragoni con Patti Smith, per intraprendere una carriera sempre più
personale e dalle molteplici maschere. Un’evoluzione che va di pari
passo con il make up: c’era lo slabbrato Dry, poi il naturale Rid Of
Me e ora il rossetto di To Bring You My Love, che porta in dote
teatralità, intimismo e marcescenze blues. Siamo di fronte a una
Harvey femme fatale, in cui il tema centrale dell’amore è tutt’altro che sdolcinato, anzi è uno strumento per parlare di Dio e del
Diavolo, di morte, di maternità e orgasmi in Cadillac. L’ispirazione
principe è chiaramente Nick Cave (Down By the Water), eppure
non siamo davanti a una copia al femminile del Sinner Saint, semmai a un alter ego: i testi sono quanto di più profondo e sanguinoso
la Nostra abbia mai realizzato, mentre la musica è sì avviluppata
nel blues ma con un ventaglio apertissimo, dallo lo stomp waitsiano di Meet Ze Monsta al lirismo struggente di The Dancer, che
conferma anche il grande lavoro alla produzione – e alla chitarra
– di John Parish. E’ lo sbocciare della Harvey come artista a tutto
tondo, nonché uno dei punti più alti della sua discografia. (SG)
7. B eck – Mellow G old ( 19 94)
In realtà c’erano già stati i due album quasi coevi su Sonic Enemy
e Flipside. Per molti, però, l’apparizione di Beck Hansen è legata
all’uscita di questo disco, non fosse che contiene il brano simbolo
dello scetticismo universale della Generazione X. A 23 anni Beck
è un giovane autodidatta che già da qualche anno frequenta il giro
anti folk di New York. Dalla gavetta delle open mic nite ha imparato a realizzare lunghi stream of consciousness in cui ingloba i segni
dell’america post-reaganiana e li risputa in canzoni in cui la musica
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di Dylan si scandisce al ritmo dell’hip hop e il blues di Tom Waits
si impasta con schegge noise, campionamenti ed esperimenti digitali. È il disco più genuinamente postmoderno che finisca fra le
maglie di MTV. Realizzato appena con 200 dollari, Mellow Gold
non è solo l’apice di quel fai-da-te narcolettico che pure produrrà
lavori significativi. C’è un mondo intricatissimo qua dentro, in
cui è possibile raccapezzarsi solo decrittando il coacervo rumorista di Mutherfucker e Soul Sucking Jerk, il nonsense di ballate
surreali come Truckdrivin’ Neighbors Downstairs, la psichedelia
metropolitana di Pay No Mind, fino ad arrivare al cuore di quella
romantica disillusione che segnerà il resto del decennio. (DB)
6. Radiohead – OK Computer ( 1 9 9 7)
Esce nel ’97, Ok Computer, e di colpo il Britpop sembra la cosa
più obsoleta del mondo. Il gruppo ci arriva dopo che con The
Bends aveva moltiplicato le intuizioni di Creep in una sorta di
psicodramma pop. A sua volta Ok Computer ne amplia le prospettive, innalzandole a tensioni millenaristiche e dando loro la
forma di visioni distopiche come quelle di Karma Police e Paranoid Android. Tom Yorke assurge a fulcro, anche estetico, di tutto
il discorso. Il suo lamento afflitto si innalza come quello di un
muezzin, dando vita ad un soul ancestrale a metà Tim Buckley
e Freddy Mercury, ovvero fra poesia e sceneggiata. Questo equilibrio precario (frutto di ascolti bulimici di artisti disparati e di
un utilizzo massivo, ma ancora non del tutto consapevole, dello
studio) provoca una continua tensione fra alto e basso, fra rarefazione ed eccesso, fra ambizione e svaccamento che si fa cifra stilistica. A partire dagli arrangiamenti stratificati, infusi di elettronica, che lambiscono il progressive ma se ne allontanano grazie
all’ispirata vena pop e alle prime, timide, oasi di sperimentazione
kraut. Si tratta di un album più importante, che bello. Foriero di
una formula così instabile che basterà alterare un elemento anziché un altro, per dar vita a cose eccelse o riprovevoli. (DB)
5. Primal S cream – Screamadelica (1 9 9 1)
Fino alla fine degli anni ’80 la musica indie era l’antitesi del ballo
e i Primal Scream vivevano in un blando sogno regressivo da
generazione C-86. Poi Andrew Weatherall fa il miracolo, remixa
una ballata un po’ oleografica del secondo disco, I’m Losing More
than I’ll Never Have, e la trasforma in Loaded, manifesto dell’indie dance. Folgorati da quel tripudio di fiati, pianoforte boogie,
cori gospel, loop vocali e breakbeat, i Primal Scream richiamano
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Weatherhall a lavorare sull’album insieme agli Orb e al produttore di Exile On Main Street Jimmy Miller. Primo comandamento, il groove, la ritmica di Sympathy for the Devil – una specie di
mantra che continua da Loaded alla giubilante Movin’ On Up – e
le visioni lisergiche di Rocky Erikson trapiantate nel paradiso
artificiale della dj culture. Il nuovo indie rock viaggia in sintonia
con la house e il dub in pastiches inclassificabili dalle pulsazioni magnetiche – Higher Than the Sun e Come Together. È l’incontro tra due culture psichedeliche, quella dell’LSD e quella
dell’ecstasy. A riprenderlo, con il percorso inverso, saranno musicisti dance come i Chemical Brothers, fondamentali per gli anni
’90 (TI).
4. Nirvana – Nevermind ( 19 9 1)
Esistono moltissimi dischi “spartiacque” nella storia della musica
ma pochi hanno avuto l’impatto di Nevermind. Sì, perché il disco
in questione ha travalicato l’ambito musicale – in realtà, ad esser
pignoli, piuttosto scarso, essendo un riciclo ben organizzato di
influenze precedenti – per diventare il punto di svolta tra l’ancien
régime del mercato discografico e un qualcosa di nuovo pronto
a manifestarsi di lì a poco. Prima di Napster e degli mp3 colpevoli di aver ucciso la moribonda industria discografica ci furono
questi tre drop out da Aberdeen, Seattle, che dimostrarono al
mondo ciò che il punk dimostrò trenta anni prima e aprirono gli
occhi agli avidi discografici convinti di poter trovare nell’underground più disturbato l’ennesima gallina dalle uova d’oro. Con i
Nirvana funzionò e milioni di copie vendute lo dimostrano; con
moltissimi altri – Melvins?, Jesus Lizard??, Butthole Surfers?!?
– assolutamente no, aprendo di fatto la (pre)crisi delle major e
testimoniando il predominio dell’indiestream. I Nirvana di Nevermind – pop, punk, disagio, melodie appiccicose, richiami 60s,
ecc. – furono innegabilmente gli iniziatori (nonché profeti) della
(propria) fine. (SP)
3. Pavement – Slanted And Enchanted (1 9 92)
Slanted And Enchanted, esordio sulla lunga distanza della band
di Stockton, viene pubblicato da Matador, label che poi sarebbe
diventata leader nell’underground. Il suono dei Pavement è qui
al perfetto crocevia tra il dilettantismo creativo degli EP precedenti ed il suono scintillante e pop del successore Crooked Rain,
Crooked Rain. Ogni suono ripulito potrebbe assomigliare ad
una melodia, ma i Pavement proprio non se la sentono: il carat-
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tere amatoriale delle registrazioni è il classico caso di necessità
che diventa virtù. E così canzoni pop come Summer Babe, Zurich is Stained e Loretta’s Scars sono immerse in distorsioni, più
che strumentali, produttive. Eppure ciò non indebolisce mai le
canzoni: esse rivelano anzi un talento melodico eccezionale, per
assurdo. Le contrapposizioni generano un suono che più obliquo
nel pop non si potrebbe (la strumentale Jackals, False Grails: The
Lonesome Era è Morricone chiuso in un cassonetto coi Chrome),
i testi sono postmodernismo puro nell’uso delle immagini e dei
riferimenti – forse merito della passione di Malkmus per Calvino
-, la voce è puro scazzo. Il tutto per dire di un’autenticità magari
ingenua, ma mai minimamente simulata. (AM)
2. S lint – Spiderland ( 19 9 1)
Spiderland è un miracolo. Questo si può dire di apparentemente nuovo su un disco (edito da Touch and Go) che è allo stesso
tempo una terra deserta e un oceano. Il territorio desolato è
quello della vita della band, devastata dalle registrazioni e che
non terminerà dopo di esse, e quello del rock: inscheletrito, gelato
dove prima c’era il calore del “sesso e droga”, rallentato nei suoi
germi hardcore (da lì venivano alcuni degli Slint) ma non nella
disperazione. L’oceano è la figliata interminabile di band cosiddette post-rock che da qui in poi spunteranno, direttamente e
non, e la mole di idee, possibilità, direzioni che le canzoni prendono: dall’attacco in arpeggio geniale di Breadcrumb Trail agli
arabeschi di Good Morning Captain, non c’è un momento che
non sia inaudito. Pochi come gli Slint hanno rivoltato il rock con i
suoi strumenti: qui c’è forse del jazz ma è privo di sentimento, là
del noise ma senza la liberazione di certe deflagrazioni, qui c’è un
accenno di melodia ma la voce o non c’è o è impaurita, là c’è del
punk ma sotto anoressizzanti dove prima c’era anfetamina. Una
musica che ancora oggi riesce a svelare il suo mistero senza mai
bruciarlo del tutto. (AM)
1 . My Bloody Valentine – L oveless (1 9 9 1)
Il muro di suono, le casse che friggono, gli ampli in fiamme, i
concerti insostenibili, le ambulanze e i tappi per le orecchie, i tecnici del suono licenziati, la mitologia legata al comeback, la follia
perfezionista di Kevin Shields, i due anni in studio, la rottura con
una Creation buttata sull’orlo del fallimento, le quotazioni stratosferiche del vinile originale, il silenzioso iato pluriennale, gli attestati di stima, la frattura tra i membri della band, la lezione della
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melodia affogata nel rumore portata a livelli parossistici e il dio
del rumore solo sa quant’altro possa rimandare a quelle 11 tracce
per 45 minuti che, indubbiamente, contribuirono a cambiare un
certo tipo di musica. O meglio, a porre un punto di approdo mai
più minimamente avvicinabile in futuro di cui gli estremi citati
sopra non sono che il corrispettivo di una musica portata agli eccessi. Dolce e ruvido, potente e sognante, grezzo e ricercato, Loveless è un disco fondamentale (e rumoroso) nella stessa misura
in cui il silenzio e lo iato più che ventennale l’ha fatto maturare
nelle orecchie di generazioni diverse, crescere come referente
principale di un certo suono, di volta in volta definito noise-pop,
shoegaze o quel che volete, divenire mito irraggiungibile e mai
replicato. Nemmeno dagli stessi autori quando, a sorpresa, hanno
deciso di tornare col famigerato comeback. Il rumore è grande, i
MBV sono i suoi profeti e Loveless è il punto di non ritorno. (SP)
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Viajeros
Cósmicos
La psichedelia del “sur del mundo”
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Uno sguardo sulla psichedelia in salsa
krauta che sta uscendo da uno dei paesi
apparentemente "meno rock" del mondo
ma di sicuro molto vicino alle stelle
Testo di Stefano Pifferi
Probabile che, come vuole la vulgata complottistica e dietrologica, qualche criminale nazista in fuga dalla Germania a fine
seconda guerra mondiale abbia riparato in Sud America travisandosi da pacioso vecchietto magari in fissa con la botanica o con
l’artigianato locale, aspettando la fine dei propri giorni in qualche sperduto squarcio di America Latina. Probabile pure che nei
geni dei tedeschi, a furia di alimentarsi di “krauti” (double senses
here), risieda larvatamente una tendenza al pensare in grande
anche fuori dai confini standard (il film-culto dei nazisti sulla
dark side of the moon, “Iron Sky”, è abbastanza stimolante da
questo punto di vista), alla ricerca dell’affermazione totalizzante
di sé o alla astrazione cosmica e alla dilatazione psicotropa (leggi
“viaggione”) che non può passare sotto silenzio. Altrimenti non si
spiegherebbe come in una musicalmente periferica città del Sud
America come Santiago del Cile, si sia concentrata una masnada
di capelloni un po’ freak, un po’ scoppiati, in fissa totale con la
psichedelia e il kosmische sound – da cui i “viajeros còsmicos”
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del titolo – che sta tirando fuori dischetti niente affatto male e
che stanno gettando le luci della ribalta underground su formazioni dai nomi esotici e dai riferimenti bizzarri – droghe, inferno, deserto, cosmo ma anche molto altro – che, viste live anche
su palchi prestigiosi e impegnativi come quello dell’ATP, hanno
dimostrato di avere il giusto tiro e la necessaria faccia tosta per
non soffrire di timori reverenziali. Follakzoid, The Holydrug
Couple e La Hell Gang sono la punta di un iceberg psych cileno
che ci immaginiamo piuttosto ampio e vario nel suo genuino ed
entusiasta sviluppo orizzontale – lo space rock dei The Pontiacs,
il cui ultimo disco si intitola non a caso Atacama Dreaming; gli
WatchOut!, la BYM records (Blow Your Mind, cos’altro?), ecc.
– e che nel frattempo stanno facendo da ambasciatori psichici
nel sottobosco (ma non solo) underground, visto che sono finite
in catalogo presso label di tutto rispetto come Sacred Bones – i
primi due – e Mexican Summer (gli La Hell Gang).
Lasciando da parte riflessioni più o meno serie e/o “dietrologiche” di cui sopra così come quelle in cui la storia sfiora il mito
sull’onda del misticismo pagano più “intrippante” e freak (Nazca
e le sue linee sono lì, non troppo distanti) è indubbio che una
ragione antropologica per questa “affezione al cosmo” sub specie hard-psych/kosmiche si può rintracciare. Basti pensare al
deserto, in generale, e a quello di Atacama, in particolare: luogo
di ispirazione per musiche più o meno polverose e hard (vedi
alla voce stoner) e più o meno diretta per le band qui trattate (la
cover del nuovo La Hell Gang, ad esempio), il deserto in oggetto
non lascia solo spazio a idee musicali dilatate, ma diventa quasi
l’obbligatorio punto di partenza per cercare di comprendere tale
ammirazione per il cosmo. È in quel deserto – uno dei più secchi del pianeta tanto da essere definito come “simil-marziano”
da una equipe di ricercatori su Science Magazine – che si trova
la maggioranza dei telescopi spaziali mondiali: è lì che è situato
l’ALMA, il progetto astronomico che tenta, grazie a 66 radiotelescopi atti a catturare le lunghezze d’onda cosmiche, di ascoltare
e comprendere la nascita delle stelle ed infine è sempre in quella
zona che è presente il VLT, il Very Large Telescope, attualmente
il più grande complesso di telescopi al mondo.
Non di soli sguardi al cosmo vive però il retroterra di queste
band. A scavare in un territorio “vergine” come quello cileno ci si
renderà conto che esisteva una effervescente scena psych e progrock tra la fine dei ’60 e gli inizi dei ’70, roba ovviamente sacrificata sull’altare del golpe militare di Pinochet: Los Jaivas, Agua-
62
holy drug couple
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turbia, Los Blops e tutte le band ritratte nel volume numero 10
della collana Love, Peace And Poetry dedicato interamente alla
Chilean Psychedelic Music. Roba naive com’è naturale che sia, a
base di summer of love, atmosfere da hippy e freakettonate varie,
ma in cui è riscontrabile l’humus su cui, dapprima band come
The Ganjas o Pànico (quest’ultimi baciati anche da una effimera
popolarità internazionale in epoca p-funk), e poi l’operato di label
come la citata BYM, hanno di fatto germinato i giusti frutti. Corsi
e ricorsi storici, intrecci e modificazioni del canovaccio psych:
non a caso una storica compilation d’ambito weird-folk/psych
americana aveva come titolo il monito “by the fruits you shall
know the roots”.
Facile pensare che – crescendo da un lato con la fascinazione
per questa musica psichedelica (da intendersi, si sarà capito, nel
senso più ampio e onnicomprensivo della definizione) e dall’altro
con un luogo così misterioso e al limite dell’umano, vero ponte di
lancio per viaggi siderali – alla convergenza tra queste due ascisse
risieda l’attrazione per una musica che, parola di Domingo dei
Follakzoid, “trascende e trasfigura l’uomo verso le stelle e l’universo più lontano”. Essendo da sempre interessati all’indagine
critica di stampo sociologico, è naturale tentare di allungare lo
sguardo su quelle realtà in apparenza periferiche ma che rappresentano pur sempre le più vitali movimentazioni di un underground in continua evoluzione e (ri)scoperta.
Follakzoid, Holydrug Couple e La Hell Gang, in rigoroso
ordine di apparizione fuori dai confini cileni, sono le band prescelte per iniziare questo breve scandaglio della psych del sud
del mondo. Dei primi basterebbe citare label, festival a cui sono
stati invitati e personaggi che ne hanno tessuto le lodi per rendersi conto di come il kraut messo in atto da Domingo GarciaHuidobro (chitarra), Juan Pablo Rodrigues (basso e voce), Diego
Lorca (batteria) e Alfredo Thiermann (synth, ma apparentemente
dimissionario) sia quanto di più fresco, esotismo di risulta a parte,
prodotto negli ultimi anni: bastano i nomi di Robert Hampson
(Loop, Main) e l’ATP End Of An Era da lui curato, oppure il solito
Primavera, il redivivo Lollapalooza o l’Eindhoven Psych Fest per
rendere l’idea?
Non è un caso, dunque, che sia stata Sacred Bones a farli conoscere al mondo underground dopo che la benemerita etichetta
di casa Blow Your Mind li aveva svezzati con l’esordio omonimo
del 2009. Krautrock classico che punta alle stelle con iniezioni di
massicce dosi di ritmi “dancey”, vedi alla voce “remix” contenuti
64
Follakzoid
nel 12” RMX sempre su Sacred Bones, e immaginario ben evidenziato da cover dal sapore stellare e titoli come Pulsar, Loop,
Directo Al Sol ecc. L’album lungo II e l’EP omonimo, entrambi
per la label newyorchese, ne hanno fatto uno dei nomi più in vista
della nuova krauteria e chiunque li abbia visti dal vivo ne conosce il portato e la forza evocatrice, ma da non disprezzare anche
l’esordio self titled: Loop e Spacemen 3 a manetta, reiterazione e
ossessività ritmica come trademark, sguardo al kosmo come way
of life e dilatazioni d’ordinanza (5 pezzi per 40 minuti, ad esser
precisi) tra wah-wah, fuzz e saturazione. Un lavoro evidentemente figlio delle prime session della band, in fissa con le evoluzioni
free-form e il motorik, ma già ben centrato e in cui emergono l’attrazione per l’ambito ritualistico e per un suono trance-inducing.
I lavori per Sacred Bones, poi, non hanno che migliorato un tiro
già ottimo, esaltando le capacità visionarie della band, bagnando la psych nel groove acido e infinito e allargando un pubblico
potenziale che ha giustamente risposto in massa: a testimonianza
della credibilità dei quattro si vedano i remix officiati da culti
dell’underground psych come Moon Duo e Psychic Ills.
Sempre sull’asse Blow Your Mind/Sacred Bones sono finiti Ives
Sepulveda (chitarra, voce, tastiere) e Manuel Parra (batteria), in
arte Holydrug Couple: meno krauti e più psych sixties, al punto da essersi guadagnati la calante definizione di “psychedelic
drone-pop”, i due imbastiscono lavori da trip e minimali in cui
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ad essere evocata, oltre allo spazio più profondo dentro al quale
perdersi, è anche la dimensione pastorale e bucolica a cui probabilmente la natura dei luoghi d’origine rimanda, tra sublimazioni
e ritualità pagane. Dopo un esordio “casalingo” – Awe, uscito nel
2011 per la solita BYM, ben accolto e praticamente introvabile ora
se non in forme digitali – in cui mostrano già le coordinate narcolettiche tipiche da dormiveglia drogato, Sacred Bones li fa suoi
per un EP pubblicato nello stesso anno (Ancient Land, anche
qui velatamente si affacciano richiami atavici al servizio di una
musica dopata e “ascensionale”) e per un disco lungo, Noctuary
pubblicato nel 2013.
Melodie affogate, sfumature e scontornamenti da psichedelia
drogata anni ’60, avanzare languido e psicotropo da spiaggia
all’alba in hangover, minimalismo strutturale e fantasia negli
arrangiamenti hanno fatto del suono degli Holydrug Couple un
trademark riconoscibile, rendendo giustizia all’etichetta di “sleepless dreamers” affibbiata loro da una rivista inglese. È proprio
quel senso di torpore onirico ad assalire ogni nota composta dai
due, spingendo l’ascoltatore verso dimensioni “altre” pur essendo, nelle dinamiche interne, i meno apertamente “cosmici” del
lotto.
Infine, last but not least, i tre La Hell Gang che esondano dal percorso dei sodali viaggiatori cosmici e dopo una release su BYM si
accasano presso una sempre più brillante Mexican Summer, non
prima però di essere apprezzati e sostenuti dalla solita Sacred
Bones. I più hard-psych del lotto, Francisco “KB” Cabala (chitarra, voce), Ignacio “Nes” Rodriguez (batteria) e Rodrigo “Sarwin”
Sarmiento (basso) sono in tremenda botta per il motorik teutonico così come per le declinazioni più ossessive di certi intarsi chitarristici alla Black Angels. Se l’esordio Just What Is Real (BYM,
2009) paga pegno a un heavy rock che macina Velvet, fuzz, primi
Stooges e genia tutta (i Black Rebel Motorcycle Club degli esordi, per dire, non sono proprio distanti), il citato nuovo lavoro per
Mexican Summer, Thru Me Again sposta l’asse verso Spacemen
3 e rimasugli kraut alla Can e Neu!, disegnando paesaggi alieni
come quello ritratto in copertina – un deserto rosso sangue che
può tranquillamente essere un fermoimmagine marziano inviato
dal rover Curiosity – ma mantenendo sempre i piedi ben piantati
al suolo.
Volete presentarvi al pubblico italiano?
Francisco Cabala KB (La Hell Gang): La Hell Gang nasce nel
2009, dopo la fine dell’esperienza Cindy Sisters, la band che avevo
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nel periodo 2005-2008 e che uscì per l’americana Hozac (l’altro
chitarrista formò poi i The Psychedelic Schafferson Jetplane),
ma da prima – e ti sto parlando dei miei 15 anni, più o meno –
ascoltavo Spacemen 3, JandMC, Stooges, MBV, Velvet, Loop,
ecc. Siamo io, Ignacio Rodriguez a.k.a. Nes, capo della BYM, alla
batteria e Rodrigo Sarmiento “Sarwin” al basso e consideriamo la
nostra musica come un fluire continuo, da disco a disco, da progetto a progetto. Non a caso nel nostro primo disco c’è un pezzo
che suonavamo coi Cindy Sisters, così come coi Chicos De Nazca
(progetto collaterale di Francisco col batterista dei Follakzoid)
riprendiamo alcune tracce dei Cindy Sisters.
Ives (Holydrug Couple): Io sono Ives, voce, chitarra e tastiere in
sede live, autore e produttore in studio. Il mio partner è Manuel,
batterista e ispiratore. Non so che tipo di musica facciamo, a volte
ha a che fare con altri stili conosciuti, ma non voglio definire
qualcosa così “potenzialmente pop”. Veniamo da Santiago del
Cile e abbiamo iniziato 4 anni fa.
Come siete arrivati a label così importanti dell’underground
mondiale come Sacred Bones e Mexican Summer?
La Hell Gang
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KB (La Hell Gang): Ci siamo arrivati tramite Sacred Bones, che
ci contattò tempo addietro perché intenzionata a pubblicare il
nostro disco, poi transitato alla Mexican Summer
HC: Non siamo su Mexican Summer, ma su Sacred Bones e non
posso raccontarti come ci siamo finiti. Vorrebbe dire parlare di
patti segreti che non posso rivelare in questa intervista.
Domingo Garcia Huidobro (Follakzoid): Ci contattò Sacred Bones direttamente dopo l’esordio per BYM.
Corrieri cosmici tedeschi o psych anglo-americana tipo Loop,
Spacemen 3, 13th Floor Elevators, Velvet? Cosa apprezzate di
più e che più ha influito sul vostro sound?
KB (La Hell Gang): Non so se si tratti di psichedelia cosmica o
semplicemente di essere stati a contatto ravvicinato con certi
posti, come le linee di Nazca. Mia sorella vive in Perù e sono stato
spesso a Nazca (tanto che la mia altra band si chiama proprio
Chicos De Nazca), così come nella selva peruviana di Iquitos a
ruota di ayahuasca: una esperienza che ti “canalizza” letteralmente col cosmo.
Ives (HC): Cosa intendi, se ci piacciono una o più band di quelle
che citi? In sincerità, preferisco i Velvet.
Domingo (Follakzoid): Nessuna in particolare. È inevitabile essere influenzati da entrambi i filoni, anche se creiamo la nostra
musica prendendo spunto da una profonda esperienza “di viaggio” che si distacca dalla razionalità.
Da dove viene questa attrazione cilena per la psichedelia? So
di alcuni gruppi dei 60s e 70s abbastanza quotati, prima di
essere spazzati via dal golpe di Pinochet…
KB (La Hell Gang): È una storia molto lunga. Comincia intorno al
1966, con gruppi come Los Vidrios Quebrados o Los Macs; immagina che anche mio padre all’epoca aveva un gruppo i Los Solos…
Ives (HC): C’erano molte band prima di Pinochet, ma non le definirei “cosmiche” perché esistevano in un momento in cui la roba
cosmica non era rilevante. Era sicuramente un periodo di grossi
cambiamenti socio-culturali, soprattutto per la musica anglofona come Beatles, Bob Dylan o Hendrix. Musica che aveva a che
fare con la gente, con l’idea di comunità, con l’amore per la stessa
terra o per il paesaggio cileno. I cileni hanno a che fare con la
roba psichedelica perché sono molto sensibili e ricettivi, per non
parlare poi delle suggestioni dell’ambiente naturale, delle montagna e degli oceani.
Domingo (Follakzoid): Dici sia un trend? Non credo. Questa pratica musicale è millenaria, per lo meno in Sud America.
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Il Deserto di Atacama, la storia mitica del Cile, le linee di
Nazca non così distanti… mi chiedo come mai siete così ossessionati dall’universo…
KB (La Hell Gang): Io sono cresciuto con questo tipo di musica:
se penso alla prima band che ho ascoltato nell’infanzia mi viene in mente la Jimi Hendrix Experience, anche se poi mi sono
interessato a roba più “psicotropa”. In Cile comunque non siamo
ossessionati dal cosmo, siamo semplicemente parte di esso, qui
come in Giappone. E non è un caso che io adori la cultura giapponese: il Tao, la meditazione, sintonizzarsi con la natura e con
ciò che è atavico al fine di vedere tutto con maggiore chiarezza e
essere in linea con l’esistenza.
Ives (HC): Non sono proprio ossessionato dal cosmo. Diciamo
che non lo sono più di altri esseri umani.
Domingo (Follakzoid): Credo che il tuo presupposto non sia
corretto: non c’è una ossessione col cosmo in Cile. È che la nostra
cultura è cosmogonica e “cosmosofica”, diversamente da quella
antroposofica, pertanto tutto ciò che è relazionato col cosmo è
qualcosa di naturale e vicino al nostro immaginario.
Cosa cercate e cosa volete comunicare con la vostra musica?
Ives (HC): non so, non me ne curo molto. Ha molto più a che fare
con l’ascoltatore. Posso dirti che nella mia musica cerco di esporre il più possibile la mia visione del mondo, per come lo vedo io. E
cioè una sorta di sognante, bucolica bellezza mischiata con l’oscurità della notte o con l’idea di una ombra affascinante.
Domingo (Follakzoid): Quello che ci siamo posti come obbiettivo
è quello di costruire atmosfere trance attraverso la reiterazione,
affinché mente e corpo astrale si uniscano in viaggi spirituali
collettivi.
Com’è la scena di Santiago: ci sono molte altre band interessanti delle vostre parti che stanno facendosi notare…
Ives (HC): sì, molte e molte di loro sono nostre amiche. Siamo un
bel gruppo di persone che cerca di fare bella musica.
Domingo (Follakzoid): Al momento è ottima e la nostra etichetta
BYM è un vero concentrato di band notevoli.
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Skiantos
Sbagliando nota. Parte terza
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In questi anni gli Skiantos assumono uno status
stabile di gruppo di culto che fa i suoi dischi,
senza i terremoti degli anni passati.
Testo di Giulio Pasquali
Un gruppo di tabernacolo
“Gli Skiantos hanno superato
la dimensione del gruppo di nicchia
per attestarsi sulla qualità del gruppo di tabernacolo,
in quanto anche protetti dalla setta religiosa
dei “Santi sballati del penultimo giorno,
tranne il sabato e prefestivi”.
Skiantos, comunicato stampa.
“Che peccato buttare le perle ai porci…
ma pensate che casino buttare i porci alle perle!”.
Skiantos, Sconcerto, 1987
Negli anni ’80 in classifica non c’era solo il Sudamerica annacquato del pop balneare, il proseguire della disco o il synth-pop/new
wave sbiadito: in qualche modo c’era anche il rock. Tolti Springsteen e pochi altri, però, si trattava o di vecchie star degli anni
’60, bollite e ripulite, 40enni “sistemati” nella moda e nel suono
orrendo d’epoca: come esempi emblematici, gli Starship che
nulla più serbavano dei tempi in cui, come Jefferson Airplane
incarnavano lo spirito della California anni ’60, e l’Eric Clapton
prodotto da Phil Collins. Di quest’ultimo bisogna parlare, perché
se “il rock” come lo intendeva il grande pubblico si era trasformato, tra ’70 e ’80, in una scelta tra eredi più o meno coatti del glam
e degli Zeppelin, il country rock da cartolina post- West Coast e il
rock ripulito da radio, l’attività di produttore del batterista/cantante dei Genesis, che già aveva portato il suo gruppo verso lidi
da classifica, segna una tappa importante nel pop rock di quegli
anni. Infatti, tra i dischi del suo gruppo, quelli da solo e quelli che
produce, Collins arriva ad elaborare un suono fatto di batterie
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fragorose ma disciplinate, chitarre addomesticate dagli effetti
usati nella new wave e qui piegati a una pulizia generale che liofilizza e irreggimenta gli eccessi del rock. Il tutto in un sound che,
nel suo fingersi cattivo mentre in realtà è studiatissimo e controllatissimo, viene perfettamente incontro sia all’imborghesimento
di una musica e di una generazione, sia ai progressi tecnologici
nell’ambito delle autoradio, i cui possessori richiedevano sempre più pulizia e potenza di suono, strumenti isolati ed isolabili
contro l’impasto di una volta (anche qui individualismo contro
collettivismo).
Agli Skiantos, destinati ad essere sempre al passo coi tempi, toccherà anche questa tappa.
Rantola ancora
L’avventura che ricomincia nel 1987 non ha più la fama e la rilevanza di un tempo: il “rock demenziale” comincia a contare
svariati adepti, ma se si eccettua qualche ritorno di fiamma e la
partecipazione nei primi anni ‘00 alla trasmissione televisiva
Colorado Cafè, gli Skiantos sono ormai un gruppo “di nicchia,
anzi di tabernacolo”, seguito più per il passato che per i pur interessanti nuovi lavori. Ma anche se i loro concerti non sono più
gli eventi di un tempo, se pure la loro natura è semplicemente
quella di una band che fa dischi, i Nostri non rinunciano a dire la
loro sul Paese in cui vivono con verve e ispirazione che, pur con i
fisiologici alti e bassi, non lesinano grandi momenti.
Il tutto nonostante la voglia del gruppo di provocare e far riflettere sia condannata a scontrarsi con la miopia e le logiche (nonché le tasche) ristrette dei discografici (anche quando animati
da buone intenzioni), le cui opzioni nei confronti degli Skiantos
sembrano limitarsi a due: tentare di cambiarli, oppure non spendere una lira per promuovere i loro dischi, fidandosi della fedeltà
del pubblico o della curiosità verso il nome storico. Dandy Bestia:
“E continuammo in cantina praticamente, facendo pochissimi
concerti, fino a quando nell’86 ne facemmo uno grosso al Q-BO
che ebbe un grossissimo successo, per cui a quel punto ci sentì
Roberto Casini che era batterista e in qualche caso anche paroliere di Vasco Rossi – per dire, Va bene, va bene così è sua. E ci
produsse questo disco per la Targa Bollicine che per l’appunto è
la casa discografica di Vasco, che è Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti. Ecco diciamo che quello è il vero disco del rientro;
e vendette anche parecchio…”
I Nostri ricominciano così sotto l’egida dell’etichetta di Vasco,
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per la quale tra il 1987 e il 1990 incideranno due album di studio
e uno live. Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (Targa
Italiana-Bollicine, 1987) fin dal titolo indirizza gli strali su una
decadenza culturale già in evidente corso all’epoca e sempre di
più col passare degli anni. Tra le canzoni che si iscrivono tranquillamente nel registro dei classici del gruppo, Sono contro e
Gli italiani son felici ritraggono i vizi del Belpaese (la prima più
rabbiosamente, la seconda col solito spirito beffardo e con una
rara voce guida di Dandy Bestia), Sono un ribelle mamma (l’ennesima Sono… del loro canzoniere, come i suddetti Ramones con
I wanna…) invece satireggia certi giovani divisi tra genuini slanci
“alternativi” e un’eccessiva abitudine alle comodità domestiche.
Ma funziona anche il grido di gioia anti-divisa di Riformato,
l’autoritratto “contro” di Picchiatello (con un’altra falsa partenza,
come Permanent Flebo) e, tutto sommato, anche il blues di Vacci
piano, tardivo – almeno per quanto riguarda la “loro Bologna” –
appello ad evitare l’eroina, più serio di quanto non dica l’interpretazione della canzone.
Il disco insomma, più che vedere i Nostri in forma ritrovata, li
rivede finalmente nei loro panni, che avevano temporaneamente
smesso per indossare a forza le improbabili e inadatte vesti di pop
band. Ma qualche straccio addosso è rimasto: Non c’è gusto…
infatti è indebolito da una produzione che paga un tributo al rock
mainstream del periodo (e del padrone dell’etichetta, appunto
Vasco Rossi e al suono di certi suoi dischi come C’è chi dice no),
la quale impedisce di gridare compiutamente al grande ritorno,
e che inoltre danneggia oltre i loro limiti l’appassionato tributo
al rock di Rantola ancora (quasi un bentornato alla musica) e la
successiva Promesse, una satira sui discografici di drammatica
attualità in qualsiasi momento della storia del gruppo. Non è per
niente un caso che, dopo quanto passato, ad aprire il disco del
rientro si trovino due canzoni simili. In mezzo all’album le poche parole recitate di Sconcerto, alla fine C’è sempre una ragazza
che mi piace ha una lieve malinconia sotterranea che sorge dai
suoi tempi dilatati e va oltre il testo e i limiti dell’arrangiamento
leccato.
Insomma, pur col rammarico per l’abbandono di Stefano Sbarbo
e della sua inconfondibile voce, pur dovendo ancora lottare per
essere se stesso, il gruppo torna finalmente in corsa e in salute.
Questo disco però – e anche gli altri due usciti per la Targa
Bollicine – ha un suono un po’ “Vasco”…
Dandy:
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“Sì, ma più che “Vasco” direi
molto pop. Cosa che a noi ha
sempre riguardato molto poco,
oppure noi il pop l’abbiamo
usato ma per prenderlo per il
culo, non facendolo sul serio.
Invece lì ci han fatto fare il pop
sul serio. C’è voluto il nostro
bel da fare per metterci dentro più chitarre possibile e più
ironia possibile. Le canzoni,
ascoltate adesso, secondo me
erano bellissime, ma sono state
arrangiate troppo alla moda
dell’epoca, meno rock e più
pop, insomma, per cui alla fine
eravamo contenti del fatto di
essere tornati in pista con le
nostre canzoni, ma ecco il suono non era il nostro, non era
quello che volevamo.
Erano tutte canzoni composte
e arrangiate da noi per chitarra, basso e batteria, e invece lì
c’erano solo tastiere, un casino
bestiale. Però allora funzionava
così, io non ce l’ho con Roberto
Casini, perché Roberto ha fatto
quello che gli sembrava più
giusto fare in quel momento:
cercare di vendere dei dischi,
che per un produttore è una
cosa assolutamente indispensabile. Però non centrava perfettamente l’argomento, perché
poi erano canzoni costruite su
dei giri di chitarra, e mettendoci delle tastiere l’ibrido era a
volte un po’ inquietante”.
Freak:
“Il produttore era Roberto
Casini, lui voleva rendere più
74
commerciali gli Skiantos, in qualche modo, sempre affrontando la
nostra ostilità di rocchettari abbastanza intransigenti, ma comunque alla lunga non chiusissimi.
Nel senso che quando un produttore ti martella tutti i giorni sul
fatto che qualcosa devi concedere alla radiofonicità del suono,
alla televisività ecc… ecc… alla fine un minimo di compromesso
lo accetti; ma non è servito a granché. Cioè questo produttore voleva renderci più commerciali “senza snaturarci”, per cui
voleva rendere leggermente più pop, quindi più udibili radiofonicamente, i suoni degli Skiantos, li voleva far passare per le radio,
con un ragionamento per certi versi molto furbo ma ineccepibile: lui ci diceva “perché gli Skiantos, che hanno delle canzoni
valide, interessanti e comunque originali devono essere tagliati
fuori regolarmente dalla sfera delle canzoni che si ascoltano
per radio? Allora facciamo arrangiamento e soprattutto suoni in
sede di mixaggio che siano papabili dalle varie radio, che siano in
qualche modo radiofonici perché hanno un suono potente, molto
chiaro, molto pulito e quindi diamogli un minimo di quello che
vogliono perché è giusto che gli Skiantos colgano anche una loro
fetta di successo, visto che lavorano da anni, da anni hanno un
loro discorso ecc… bla bla…”. Va bene, concediamo qualcosa alla
radiofonicità dei dischi, questo però non è servito granché, nel
senso che poi se tu ascolti le radio principali gli Skiantos non li
mettono quasi mai. Non so perché, ho la presunzione di pensare
che le nostre canzoni non siano peggiori di tante altre, sento delle
cose vomitevoli per radio, credo che le canzoni degli Skiantos potrebbero essere tranquillamente trasmesse dagli enti radiofonici
più grossi, ma noi siamo regolarmente esclusi da quel giro, quindi
è tutto un combattere contro i mulini a vento”
T i voglio così
Buone notizie comunque a livello artistico, un po’ meno per il
resto: sebbene infatti il disco riscuota successo e il ritorno faccia
clamore, l’effetto si spegne prima del successivo Troppo rischio
per un uomo solo (Targa Italiana-Bollicine /Ricordi, 1989).
Peccato perché, nonostante la solita produzione “hardrocchettara” da radio (tastiere coattelle, sax ruffiani del pur bravo Charlie
Molinella, batterie alla Phil Collins produttore…) e l’ispirazione
altalenante, questo è un disco che segna un cambiamento importante nella poetica dei Nostri. Vi compare infatti, accanto ai
classici registri ironico-grotteschi su toni sopra le righe da attore
Dada, una finora inedita dimensione cantautorale, la capacità di
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raccontare storie con un tono più “umano”, di scrivere canzoni
“serie” ed inserire un nuovo registro nel ventaglio espressivo del
gruppo. Gli Skiantos cominciano qui ad usare uno sguardo che
non coglie più solo il surreale ma anche il tragico, cercando però
di evitare la retorica di cui si sono fatti beffe fin dagli esordi (un
rischio talvolta non scampato, ma per fortuna raramente).
Più che dalle canzoni vere e proprie, che risultano un po’ nascoste dalla produzione, la svolta è segnata dai testi, centrati su un
intimismo malinconico ed emarginato – l’uomo solo e la marginalità, declinati in varie forme, sono infatti il tema centrale
del lavoro: vedi Ancora sovversivo, Le ragazze mi dicono di no,
Brutte figure e l’elogio della donna sgraziata di Ti voglio così. Tra
i brani migliori troviamo un pezzo “serio” come l’apertura rock
di Non voglio più (Antoni parla del vizio dell’eroina in termini
decisamente più chiari e forti di quelli usati in Vacci piano, a
conferma della “svolta”), poi la canzone preferita del buon Freak
Sbagliando nota, e lo splendido, sgangherato Blues degli orti metropolitani (che il produttore, in controtendenza rispetto al resto
del disco, ha fortunatamente lasciato grezza). Odio tutti (canzone
di Natale), d’altro canto, dribbla la prevedibilità – come altre volte
– grazie a qualche improvviso scarto di senso e al timbro vocale
del leader (altrettanto importante delle parole per comunicare
il significato), con la sua intonazione capace di scompaginare il
prevedibile.
Freak:
“Il processo di investigazione dell’intimo, di proposta dell’intimo,
era accennato già in Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti
ma probabilmente è Troppo rischio che segna l’inizio di un percorso più intimista, più riflessivo per certi versi. Il fatto è che noi
iniziammo come gruppo d’assalto, da barricata quasi, da barricata
creativa; gruppo d’assalto, gruppo offensivo, gruppo battagliero,
gruppo anche rapace, per certi versi, con gli artigli sempre sfoderati. A un certo punto ci sono altre sfumature, ma ripeto secondo
me già ai tempi di Non c’è gusto… perché dopo gli anni ’80 o negli
anni ’80 – gli anni del riflusso che hanno ribaltato ogni cosa- nel
vuoto e nel deserto creativo, compositivo, artistico-culturale la
scommessa poteva essere ribaltata, considerato anche il fatto che
erano nati intanto molti gruppi sedicenti demenziali. La cosa ci
piaceva, ci piaceva che molti gruppi provassero ad essere demenziali, a dare sfogo al loro lato ironico, però diventava anche molto
scontata, e a noi cominciò a non piacere il fatto di essere solo e
soltanto in un modo.
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Voglio dire: quando iniziammo la rima baciata serviva per sottolineare le nostre distanze dai cantautori, per esempio, da quel
tipo di presunzione impegnata, da quel tipo di impegno di livello
poetico alto (quando in realtà poi andavi ad analizzare le loro
cose scoprivi che spesso era sbobba letteraria da quattro soldi,
o che perlomeno in un disco c’erano un paio di canzoni-perle
e il resto era sbobba retorica). Poi, visto che la situazione si era
ribaltata anche la scommessa creativa-artistica degli Skiantos
andava in qualche modo ribaltata, o comunque ridimensionata.
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Lo stesso linguaggio degli Skiantos non poteva essere sempre
così crudo, così diretto, “ti spacco la faccia dal vivo”, “tutti fatti”,
“io ti rompo il muro che c’è tra noi” ecc… a quel punto si poteva
ricominciare forse a parlare di impegno, di questioni spirituali,
di impegno poetico, di impegno sociale, si poteva iniziare a recuperare il messaggio. Il messaggio era appannaggio dei cantautori,
insopportabili, degli anni ’70; verso la fine degli anni ’80 si poteva
iniziare a recuperare l’odiato “messaggio”, “odiato” anni prima, e
lo si poteva recuperare e trasformare in nuovo impegno. Per questo abbiamo deciso di modificare anche la nostra poetica, perché
no? La nuova scommessa era parlare senza retorica di argomenti
esistenziali, di solitudini spirituali. C’era una nuova scommessa
da praticare, e quindi recuperare anche argomenti impegnati,
perché no?
Un esempio di differenza tra i due dischi è il modo in cui
avete affrontato lo stesso tema in Vacci piano e in Non voglio
più…
È proprio diverso il registro. Più tragico nel secondo caso, perché
abbiamo voluto in qualche modo recuperare anche la tragedia:
perché la tragedia deve comunque restare fuori dall’ordito delle
canzoni Skiantos? Perché questo tipo di espressività, questo tipo
di tessuto non deve in qualche modo essere parte anche dell’espressività Skiantos? Sempre avendo come punto di riferimento
l’ironia, che è il nostro modo di esprimerci; ma perché non passare a volte anche per dichiarazioni semiserie? Perché comunque
non adottare un’ironia più seria, più partecipata, più sofferta?
Dire cose serie attraverso un’apparente follia, insomma…
Certo, la follia è sempre una delle componenti del demenziale.
Naturalmente gli Skiantos esagerano anche in angustia e nel disagio esistenziale, però sì, perché no? Perché non percorrere anche
questi altri sentieri che sembravano essere la negazione della poetica Skiantos dei primi anni? Ma ripeto: il paesaggio, il panorama
sociale che si viveva nella seconda metà degli anni ’80, in qualche
modo ci ha fatto orientare spontaneamente verso il recupero di
una dimensione più passionale”.
P er la mia strada continuer ò
“Negli anni Novanta, l’aggettivo demenziale
è diventato sinonimo di goliardia gratuita,
turpiloquio banale, sciocchezzaio volgare e cretino…
mentre secondo l’accezione primaria (…)
voleva significare umorismo surreale,
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pieno di non-sense e di assurdità,
ma lucido e determinato”
L’epoca vascorossiana si chiude nel ’90 con un live, Ze best in
laiv, che continua a soffrire del suono “stadium- rock” o meglio
“studium-rock”: la mania dei live registrati in studio per controllare meglio il suono, con annessi serissimi dubbi sulla vera fonte
degli applausi del pubblico, colpisce anche loro. Una carrellata di
classici che non risulterebbe neanche male, ma gli Skiantos che
fanno i live come Ron non è un bel vedere (e le versioni originali
per lo più erano meglio). Da notare che nel giro di soli tre anni
i “ragazzotti-Ramazzotti del decoro” della versione originale di
Sono Contro si sono trasformati in “ragazzotti-Jovannotti”…
Lo stesso anno esce una videocassetta intitolata semplicemente
Skiantos. Sul retro, l’elenco di canzoni e poesie fa pensare alla
semplice ripresa di un concerto, ma un “grido” avvisa che si tratta
della “videonovela” del gruppo. In pratica è il loro A Hard Days
Night / Tutti per uno, in stile tra il demenziale, il minimalurbano e qualche gag metacinematografica, e racconta una storia
nella quale i vari Skiantos sono degli sbandatelli che vengono
arrestati in circostanze diverse (con un commissario che, dopo
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aver preso le generalità, chiede
a tutti consigli sulla schedina),
e una volta in prigione decidono, sulle note di una quanto
mai appropriata Karabigniere
blues, di formare un gruppo,
gli Skiantos, che grazie a/nonostante due improbabilissimi
manager diventa famosissimo
e amatissimo. Ogni tanto il film
si perde, ma le scene di sogno
che parodizzano Arancia meccanica sono esilaranti, e le facce di Freak Antoni anche. Nel
film ogni tanto c’è, tra sogno e
trama, qualche inserto live del
gruppo (dal suono e dalle versioni si direbbe che la fonte è
la stessa del Laiv), mentre altre
canzoni elencate in copertina
si sentono in versione originale come colonna sonora: raro
che ce ne sia una completa, in
un’alternanza frammento di
canzone-scena comica che in
qualche modo presagisce le
modalità della partecipazione a
Colorado Cafè Live.
Ma più che la videocassetta,
a riportare nel 1991 un po’ di
seguito al gruppo è il successo
del notevole libro di poesie di
Freak Antoni omonimo al disco
del rientro: Non c’è gusto in
Italia ad essere intelligenti (seguirà il dibattito) vende bene, e
porterà all’autore la collaborazione con Comix e la ristampa
del vecchio (1981) Stagioni
del rock demenziale. Il libro
alterna “poesie” vere e proprie ed epigrammi fulminanti,
80
futuri testi di canzone e qualche goliardata, contributi di amici
e battute vecchie, pubblicità finte e calembours che già avevano
fatto la loro comparsa nei concerti tra una canzone e l’altra e nella
videocassetta. Tra gli epigrammi, il celebre “La fortuna è cieca
ma la sfiga ci vede benissimo”, cui negli anni aggiungerà “e spesso
prende la mira”, “anche al buio”. Seguiranno per la “poesia” Badilate di cultura (1995) e Non c’è gusto in Italia ad essere dementi
(2005), che contengono anche le teorie sul demenziale di Antoni,
mentre su altri argomenti usciranno Vademecum per giovani artisti (1993), Per sopravvivere alla tossicodipendenza (1994) e Mia
figlia vuole sposare uno dei Lunapòp (non importa quale) (2001).
E anche per quanto riguarda i dischi, in questo periodo le cose
vanno meglio: Signore dei dischi (RTI, 1992), promosso un po’
più degli altri (persino il santino…), ottiene anche più riscontri.
La title-track è l’inno delle aspiranti stars (scritto da un gruppo
che dal successo era stato mandato in crisi), il folk stile ’70 italiani di Non sopporto il Capodanno è quello (sacrosanto…) di chi
odia i rituali festivi, Italiano terrone che amo è un altro riuscito ritratto del Belpaese e Nostalgia della miseria è uno sguardo
insolito sull’argomento (specie se scritto da un gruppo che non
vende davvero quanto i Beatles…), tra ironia e qualche squarcio
memoriale affettivo assente nella versione di questo testo comparsa sul libro. Il nuovo corso qui è “serio” fino a un certo punto,
e Calpesta il paralitico e Getta la mamma dal treno impongono il
trattamento-Skiantos ai buoni sentimenti (tra parentesi: non c’era
bisogno, per la prima, dell’introduzione parlata in cui si spiega
che è stato proprio un disabile a chiedere un brano del genere
contro il buonismo ipocrita: e che diamine, siete gli Skiantos…),
ne La fattanza torna il linguaggio giovanile, in I fatti che contano
si prende in giro quello dei media e così, insieme al filosofeggiare
tra virgolette di Non hai vinto ritenta, il catalogo è completo.
L’ispirazione generale è molto buona, la musica rimane su coordinate rock classiche (più stonesiane del solito), ma grazie anche
a un suono finalmente come si deve brucia di più rispetto ai due
lavori precedenti e risulta ben fusa coi testi: il rock fanfaroncello
di Italiano…, per esempio, rende perfettamente il soggetto della
canzone (inopinatamente tornata alle cronache quando nel 2011
l’allenatore del Verona Mandorlini la canta come sfottò verso i
tifosi della Salernitana, con tanto di accuse di razzismo, scuse
e polemiche da cui però il gruppo esce indenne: evidentemente, anche se se ne parla poco, sanno tutti benissimo chi sono gli
Skiantos e che spirito hanno).
81
A conferma del buon momento creativo, gli Skiantos pubblicano,
a solo un anno di distanza, Saluti da Cortina (RTI, 1993), scritto
con orecchio attento e reattivo a quanto si agitava nell’ambito del
rock internazionale (“il nuovo rock americano, il grunge americano, quello tosto tosto, Pearl Jam, Nirvana, queste cose qua”; Dandy Bestia). I Nostri svecchiano la formula musicale, finiscono di
abbandonare il suono da radio (“quelli siamo noi, siamo noi davvero”) e tirano fuori un disco vivo e grintoso, il migliore dai tempi
di Kinotto, caratterizzato da una felice vena satirica e polemica:
su questo filone il crossover di Paese scarpa (“cosa pretendi da
un paese / che ha la forma di una scarpa?”), il rap stile Zach de
la rocha (più o meno) di Sdrucciole, e il ritorno della satira sulla
divisa di Il vigile urbano. A proposito di satira e polemiche varie,
il successo di Elio e le Storie Tese suscita il risentimento di Freak Antoni, che li accusa di fare denaro con una versione banale e
goliardica delle sue intuizioni: Italiano ridens (parolacce a caso
e poi “adesso ridi, italiano”) è, probabilmente, dedicata proprio
a loro e al loro spirito. D’altra parte era difficile che a un gruppo
uscito col punk potesse piacerne uno che ostenta ultratecnica, e
al riguardo Antoni dice: “Un gruppo come Elio e le Storie Tese,
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molto più inattaccabile dal punto di vista musicale, ha trovato la
chiave del successo commerciale, nel senso che poi al pubblico
ti devi sempre mostrare inattaccabile, ti devi sempre mostrare
superiore nella perizia tecnica, in modo che tutti possano mostrare un “Ooooh!” di ammirazione, in modo che il pubblico si senta
in qualche modo incapace. A me poi i loro testi sembrano spesso
barzellette da bar”.
Parleremo ancora dell’argomento, ma tornando intanto al disco, il
difetto è aver messo in apertura le meno riuscite Frontale e L’unica risorsa, energiche ma di maniera, che rischiano di oscurare le
ardite metafore tra Cristo, i punk e il ferramenta a tempo funkrock de Il chiodo, o la geniale Morroidi (il brano musicalmente
più particolare del disco), o gemme da ripescare come l’inno
rock di Io non mi lavo e Meglio un figlio ladro che un figlio frocio
(anche questa tornata in mente a qualcuno quando Alessandra
Mussolini, in un dibattito televisivo con Vladimir Luxuria, disse
testualmente “meglio fascista che frocio”), mentre Preferisco
morire (scherzavo) inaugura a tempo di punk il filone tematico
sul tema della grande livellatrice di cui dicevamo all’inizio e Ho
perso il filobus ribadisce il senso di inadeguatezza ed alterità
rispetto ai valori dominanti.
Un disco importante sebbene meno venduto del precedente: l’orribile cartolina in copertina deve aver scoraggiato qualche acquirente…
Dandy:
“Saluti da Cortina è un disco venuto di getto, ci abbiamo messo
quattro giorni a registrarlo, tutto in presa diretta, pochissime
sovraincisioni, direi che sono una o due. E’ stato buttato giù così
come l’abbiamo inventato. Morroidi è nato perché si stava parlando con Freak, in un momento in cui ho avuto una colica renale, e
son stato in ospedale una settimana. Non avendo un cazzo da fare
uno cosa fa? Legge un sacco di roba: mi sono letto L’idiota di Dostoevskij, che è un bel tomo, e mi sono letto l’Ulisse di Joyce. E ho
detto questa cosa: “quando uno è malato ha molto più tempo per
se stesso e fa delle cose anche intelligenti”. Allora abbiamo fatto
una canzone sulle malattie, così è nata Morroidi. Musicalmente è
un esperimento su un accordo solo, mi piaceva l’idea di fare una
canzone con un solo riff di chitarra, un po’ come potevano fare i
Creedence Clearwater Revival con Run Through The Jungle,
o cose simili, l’idea più o meno era quella. Il riff è venuto fuori durante le prove di un concerto, intonai la chitarra e mi misi a fare
questo riff. Freak disse “questo qui è molto bello, ricordatelo” e
83
infatti poi lo mettemmo in Morroidi”.
Freak:
“E’ un disco che devo dire piacque abbastanza ai dirigenti dell’RTI, ma fu sbagliata completamente la promozione, che comunque
fu molto scarsa come al solito. Penso che si attestò tra le cinquemila e le otto-diecimila copie, che sono le copie che noi vendiamo
solitamente: tra le cinquemila e le diecimila copie scarse, non
sempre diecimila comunque, quindi tra le cinquemila e le ottomila copie, che sono la nostra misura”.
Su, su con quella bandiera
A questo punto finisce anche il periodo RTI, esperienza che, pur
registrando il successo di Signore dei dischi, ha riproposto i soliti
problemi. La preghiera ha ricevuto poco ascolto, e per un po’ di
dischi non si parlerà. I concerti però vanno avanti, con un buon
seguito. Al riguardo, Antoni dichiara: “Noi siamo sempre stati
molto consolati e sostenuti dal pubblico: questo ci ha motivato in
tutti questi anni, altrimenti la situazione sarebbe stata veramente
durissima, talmente dura da non avere nemmeno un briciolo di
speranza.
Il pubblico, nei concerti dal vivo soprattutto, ha sempre dimostrato di apprezzarci: noi ci manteniamo e riusciamo ad andare avanti e a prolungare il nostro mestiere perché facciamo un numero
passabile di concerti durante l’anno – naturalmente più d’estate
che d’inverno, tra alti e bassi, però riusciamo a mantenerci. Nello
show dal vivo ci mostra interesse, partecipazione, sostegno e anche stima: esiste il famoso “zoccolo duro” anche per noi, cioè una
serie di fan che ci consentono di andare avanti perché non hanno
remore, difficoltà a mostrare il loro sostegno agli Skiantos. Abbiamo avuto anche un ricambio generazionale, ai nostri concerti
vengono anche giovani, anche giovanissimi, anche adolescenti,
teenager che cantano insieme a noi i testi delle canzoni, sanno
tutte le parole delle canzoni a memoria, anche un po’ indirizzati
dai genitori o dai fratelli maggiori, come qualcuno ci ha poi svelato in privato. Ad ogni modo noi continuiamo ad andare avanti per
il sostegno del pubblico, non per altro.
Noi abbiamo continuato ad essere bene o male, noi stessi, non è
che ci siamo molto adattati. Però devo dire che rimanendo noi
stessi siamo riusciti a dialogare abbastanza spontaneamente
con le nuove generazioni, non abbiamo avuto molte difficoltà su
questo. Direi che le nostre più grosse difficoltà sono nei confronti
del potere: il potere della discografia, il potere della promozione
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televisiva, radiofonica, eccetera, ma non con la gente, non con il
pubblico, non con le persone che ci seguono”.
Ma se i problemi con manager e discografici sono in qualche
modo nel conto, a volte ne capitano invece di inattesi. Il 1995 vede
infatti la controversa partecipazione a Materiale resistente (Il
Manifesto), il disco collettivo di rielaborazioni di canti partigiani:
qui il problema fu che gli organizzatori non presero in considerazione l’eventualità che i partigiani non approvassero il velo di
ironia con cui i nostri avevano reinterpretato Fischia il vento (in
realtà la versione non mancava di pathos e partecipazione) e ne
seguirono polemiche.
Un altro problema, inatteso e con i discografici, è invece quello
che capita al gruppo nel momento in cui, dopo l’esperienza RTI,
si mette alla ricerca di una nuova etichetta. Apparentemente gli
anni ‘90 erano stati un buon decennio per il rock italiano: numerosi gruppi di origine “indipendente” si erano affacciati sulla
scena riscuotendo anche un discreto successo di pubblico, che nel
decennio successivo crescerà fino a portare qualcuna di queste
band addirittura in classifica, come Marlene Kuntz, Afterhours,
Subsonica (e gli Avion Travel a vincere Sanremo, ma questa è
un’altra, lunga storia).
In questa fioritura la Mescal aveva svolto un ruolo centrale, producendo e promuovendo come management quasi tutti i nomi
più importanti del periodo, e occupandosi, oltre che dei sunnominati, anche di Marco Parente, Cristina Donà, Yo-Yo Mundi,
ecc… Sembrava perciò un porto sicuro per un gruppo come il
nostro, che doveva battezzarla come etichetta; ma ahimè, le cose
trovarono il modo di andare storte anche stavolta, e gli Skiantos si
scontrarono con la faccia mercantile della Mescal.
L’unico frutto della collaborazione, infatti, fu Skiantologia vol.
1 (Mescal, 1996), che contrariamente al titolo non è una raccolta
(che al limite un senso l’avrebbe avuto), bensì nuove registrazioni
di una serie di classici, “nella versione in cui il gruppo le suona
attualmente dal vivo”. L’operazione, proposta dal management
con la promessa di produrre poi un disco di canzoni nuove, detta
così lascia perplessi: esattamente come l’ascolto del disco, esattamente come il ripetersi di quanto successo con Caterina Caselli ai
tempi di Ti spalmo la crema.
Le versioni dei classici perdono il confronto con quelle originali,
l’occasione e il tentativo di reincidere qualche brano del periodo Bollicine restituendogli un po’ di grinta non produce grandi
risultati, e il disco (pur con un suono migliore di quelli del perio-
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do Vasco) non è degno né della Storia, né dei concerti del gruppo
(le uniche cose interessanti sono due collages delle canzoni di
Inascoltable, che fanno così una prima non canonica comparsa su
CD). Per di più, in quel periodo chi vi parla vide il gruppo suonare
dal vivo, ed era molto meglio di questo parziale ritorno al mainstream, di questo piccolo passo indietro rispetto ai due dischi
precedenti nel percorso che li aveva portati a sganciarsi da un
suono “normalizzato”.
Il pubblico non apprezza (gli Skiantos nudi di spalle in copertina
non devono aver aiutato le vendite…), e il matrimonio con Mescal
termina senza il promesso disco di inediti (ma anche, ed è un
bene, senza un vol. 2 dell’antologia…). La sede della loro attività si
sposta perciò di nuovo on the road, a suonare davvero dal vivo.
Dandy Bestia: “Feci una mossa, cercai chi produceva musica un
pochino più intelligente del resto della massa dei discografici italiani, con la Mescal. E lì subito ci si trovò d’accordo, poi il
direttore artistico disse “lasciamo stare un disco di pezzi nuovi,
perché non fate una compilation di pezzi vostri famosi come li
suonate adesso dal vivo?”. Io ho detto “Bah… a me sembra una
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vaccata, però …” Avevamo bisogno di tornare sul mercato perché
era un pezzo che non facevamo dischi, avevamo tanti pezzi nuovi
da fare, ma questa era l’idea, con la promessa di fare, immediatamente dopo questo rilancio sul mercato discografico (così lo
chiamavano loro) attraverso tale operazione, un disco totalmente
nuovo di pezzi nostri: cosa che poi non si è concretizzata. Un po’
per il cattivo andamento del disco, perché nonostante sia un disco
anche suonato bene, però è roba vecchia riscaldata, come tutte
le cose vecchie riscaldate alcune volte ci prendi, altre volte no. E
in generale in quel disco, pur essendo secondo me suonato molto
bene, in certi momenti anche entusiasmante, ci sono però delle
cadute, delle cose che lasciano un po’ a desiderare. Per questo
andò maluccio anche, credo”.
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Slowdive
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Abbiamo incontrato Rachel Goswell
degli Slowdive per discutere di musica
passata, presente e futura, dei rapporti
interni con la band, di esperienze
personali come donna, come madre e
come professionista, di tecnicismi legati
al suono e del suono dei sentimenti.
Testo di Nino Ciglio
Punti di (ri)partenza.
Intervista a Rachel Goswell
Forse non era una sex symbol, ma quando la guardavo, sbiadita in
quelle foto in bianco e nero, mi rendeva euforico. Sembrava voler
celare l’animo contrastato dietro una maschera di ghiaccio, voler
camuffare le emozioni con la sua voce da bambina immersa in
cascate di suoni multicolori. E poi mi capitava di farmi rimbalzare la voce eterea e sublime di Catch The Breeze o Avalyn nelle
cuffie della mia stanzetta. E per me, che a loro, gli Slowdive, ho
sempre preferito i Cocteau Twins o i Cure o i Jesus and Mary
Chain, l’ascolto rimaneva un’esperienza mistica, onirica. Rachel
Goswell, da quel lontano 1995 in cui ha messo in stop l’esperienza con gli Slowdive, le ha passate davvero tutte. Musicalmente e
personalmente. Ma quando a gennaio 2014, il Primavera Sound
Festival ha ufficializzato la reunion, nessuno si sarebbe aspettato
un impatto simile.
La band di Neil Halstead e Rachel Goswell, in mezzo al mare in
tempesta che erano i primi Novanta, è riuscita a scalfire, nei corsi
e ricorsi storici, un solco inesorabile nei ricordi e negli ascolti
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di migliaia di fan. Come spesso accade, il loro culto è covato e
maturato negli anni, restituendo, forse un po’ in ritardo, la gloria
meritata ad una band che in patria era vista di cattivo occhio dalla
stampa di settore. Ma la naturalezza, l’aspetto mistico e catartico
della musica degli Slowdive, si è impresso inesorabile nelle esperienze dei musicisti che, in mezzo a mille difficoltà, hanno tenuto
duro. E si è impreso anche in generazioni di artisti futuri che,
magari inconsciamente, hanno fatto tesoro dello shoegaze macchiato onirico della band di Reading. Un’avventura finita troppo
presto per essere goduta veramente. Ma Rachel, che dalla vita è
stata messa alla prova da cose ben più serie della separazione di
una band, si è conservata pura e sorridente. Lo è ancora oggi e ha
promesso di esserlo anche in vista della prima ed unica data italiana il 16 luglio a Padova, in occasione del Radar Festival 2014.
Lo sappiamo perché l’abbiamo incontrata per discutere di musica, di tanta musica passata presente e futura, degli Slowdive e dei
loro rapporti interni, di esperienze personali come donna, come
madre e come professionista, di tecnicismi legati al suono e del
suono dei sentimenti. Nel relax di un qualunque pomeriggio di
aprile, mentre la maggior parte degli umani è intenta a caricare
la moka di caffè, il tintinnio della chiamata di Skype in entrata
irrompe brusco, cogliendomi totalmente impreparato. Ma come?
Non dovevo chiamare io? Non funziona così nelle interviste di
solito? No, non per lei. È Rachel. Rispondo. “Sì?”. E il suo viso
paffuto, sottolineato da un paio d’occhiali portati sulla punta del
naso, da un’acconciatura rivedibile da british desperate housewife, compare su uno sfondo verde. L’aura non più intatta della
mia personalissima femme fatale sembra un po’ svanire di fronte
a quella donna quarantenne, che sembra aver appena finito di
tagliare l’erba in giardino. Ma vuole vedermi. “Cacchio, questa mi
vuole vedere in webcam” penso. Mi tocca trovare una scusa. Lei
continua: “Mi vedi? Riesci a vedermi? Io non riesco a vedere te…”.
Mi arrendo. Non prima, però, di sfoderare la prima battuta che mi
viene in mente: “Ok, mi mostro, dammi un secondo… sono particolarmente brutto oggi”. Segue una risata sguaiata e diaframmatica che timbra i miei timpani. Ho fatto colpo. Siamo finalmente
online. Insieme.
Rachel Goswell è una classe 1971, è nata a Fareham, ma ha incontrato Neil a Reading, che è ufficialmente riconosciuta come
la patria degli Slowdive. Da alcuni anni, dopo il matrimonio con
Christopher Andrews dei Cuba, è legata a Joe Light, che è un
distributore di pedali ed effetti di chitarra (era da dire…). Ha un
90
figlio, Jesse, che, da come ne parla e dalla sua attività (a dire il
vero elevata) sui social, sembra essere davvero la sua unica ragione di vita. Tra l’esperienza degli Slowdive, quella dei Mojave
3 – la band con Neil di respiro country e folk – e l’annunciata
reunion, Rachel ha avuto tempo e spazio per considerare i pro e
i contro del ritorno sui palchi. Lo abbiamo già detto: si tratta di
un evento storico principalmente per la band, che, con un po’ di
soddisfazione, ma tantissima umiltà, si riprende quello che aveva
assaggiato solo in parte nei primi anni Novanta. E lo ha dimostrato soprattutto in occasione del live di maggio a Barcellona,
quando l’emozione non ha frenato la resa di un live cristallino,
ad altissimo impatto catartico. Il più, allora, è scoprire le ragioni,
che legano questo ritorno a quello di altre band del periodo, My
Bloody Valentine su tutti. È inutile negarlo, ormai, il cosiddetto
shoegaze, che negli anni passati aveva vissuto momenti alterni,
sotterrato a volte, dai coevi brit pop e grunge, sta vivendo una
nuova giovinezza.
Perché ora, Rachel? “Già! Non pensavo che le persone potessero
essere così interessate ad una nostra reunion… Ci ha preso tutti
di sorpresa. Quando abbiamo ricevuto l’offerta dal Primavera
Sound, abbiamo capito che quello era il nostro punto di partenza.
Voglio dire, non ci siamo accorti dell’impatto finché non abbiamo
visto il nostro nome sulla locandina. Poi l’abbiamo visto e ci siamo
detti: ‘Oh my God, that’s ridiculous!’ E’ stato particolarmente
emozionante e strano. Strano perché sta succedendo ora… ma in
senso positivo. Musicalmente, poi, nell’ultimo decennio c’è stata
una sorta di risurrezione dello [con le dita fa il segno delle virgolette, storcendo la bocca e l’intonazione, ndSA] shoegaze”. Eppure, qualcosa è dovuto scattare nelle teste dei cinque Slowdive, se
non altro perché – stando a quando mi dice Rachel stessa – “non
abbiamo dovuto convincere nessuno, eravamo tutti gasati”. “E’
il momento giusto a livello personale. – continua sorseggiando il
tradizionale tè delle 5 -, ci hanno chiesto di riunirci alcune volte
negli ultimi anni, ma pensavamo che non fosse il momento giusto.
Io e Neil eravamo con i Mojave 3 per un po’ di anni e il progetto
esiste ancora tecnicamente”. Poi, giusto per ricordarmi che ho
davanti una persona di una sensibilità finissima e infinita, abbassa
un po’ i decibel e racconta le dure esperienze degli ultimi anni:
“Io mi sono ammalata poco dopo l’uscita del mio disco [Waves
Are Universal, 2004, 4AD, ndr]; nel 2007 ho avuto un’infezione
all’orecchio, chiamata labirintite, che mi ha lasciato quasi sorda
dall’orecchio sinistro e con qualche problema di equilibrio per al-
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cuni anni; ho dovuto fare fisioterapia per un po’, cercare di camminare dritta. Per questo ho smesso di fare concerti con i Mojave
3… non ce la facevo fisicamente. È stato molto difficile e mi sono
dovuta prendere un paio di anni per provare ad andare avanti.
Poi… ho avuto mio figlio Jesse, quasi quattro anni fa e …. [ride] è
venuto con il suo pacchetto di problemi da gestire. Mi sono concentrata su di lui per quasi quattro anni… beh saranno quattro la
sera che suoneremo al Primavera, il che sarà molto emozionante
per me, a vari livelli”. Jesse, già… un bambino stupendo, affetto da
una sindrome, nota come CHARGE, che è causa di alcune anomalie genetiche. Ma Rachel ride, è una combattente e, se fate un giro
sul suo Twitter, troverete ogni giorno un’iniziativa nuova sulla
ricerca, che lei fa di tutto per promuovere.
Le chiedo di fare un piccolo salto indietro, partendo dall’impatto
differente e non proprio entusiasta che gli Slowdive ebbero nel
periodo di maggiore attività e confrontarlo con l’enorme risonanza di ora. Tre album e una manciata di EP non erano bastati alla
critica britannica per farli inserire nei big del genere. Per qualche
ragione, continuavano ad essere snobbati: “la stampa musicale
inglese non ci ha visti di buon occhio. In America andò meglio e
ci divertimmo molto a fare concerti. Ci siamo anche finanziati da
soli il nostro ultimo tour, perché avevamo un’etichetta di merda,
la Creation [di Alan McGee, ndr]. Lì eravamo un po’ le pecore
nere e faceva schifo. Quindi volevamo prendere in mano la situazione e uscire da lì. Al tempo Melody Maker, NME erano il
vangelo. Lo erano anche per me che compravo ogni numero per
farmi la mia cultura musicale. In un paio d’anni, poi, ci siamo trovati dall’altra parte e ho smesso di leggere quei giornali, pensando
che fossero tutti bastardi. Beh, la maggior parte… Ho conosciuto
le persone che c’erano dietro a quei giornali e… sì, sono proprio
dei rompipalle. Erano giornalisti con un ego enorme e credo che
la maggior parte di loro avesse sufficiente potere da far sciogliere
una band. Erano più importanti loro della musica. E attaccarono
anche noi. Il nostro terzo Ep, Holding Our Breath, subì certamente questa sorte… Non so se è stato così anche per il nostro primo
album. La differenza è che ora c’è internet…”. McGee, il manager
di Creation, recentemente ha avuto modo di esporsi su Twitter,
confessando che, secondo lui, gli Slowdive non hanno colto l’attimo quando potevano, agli inizi degli anni Novanta. Per lui, una
reunion nel 2014 è carta bruciata. Ma Rachel insiste.
“Non era semplicemente il periodo giusto per la nostra musica”,
magari offuscata dalla freschezza del brit pop e dalla rabbia del
93
grunge. Gli Slowdive, al tempo, erano veramente giovani, il che,
immagino, abbia influito tantissimo sul tenere a bada degli animi che scalpitavano a metà degli anni Novanta: “Eravamo sui 20,
24 anni… tre album, molti problemi legati all’etichetta, problemi
economici… Siamo andati in bancarotta due volte perché abbiamo
avuto un manager di merda. Tutto era uno schifo. Eravamo molto
ingenui, ci fidavamo delle persone intorno a noi. Fa parte dell’essere una band, sai, è inevitabile. Tutti erano incazzati quando ci
siamo separati. Non avevamo soldi…” Erano incazzati anche fra di
loro? “Mmmm…. Forse un po’, non così tanto. Simon aveva lasciato la band con Pygmalion ed era stato rimpiazzato da una drum
machine. Ma ci saremmo dovuti trovare un nuovo batterista
comunque…. Neil ed io abbiamo continuato con i Mojave e Pygmalion è uscito un anno dopo rispetto a quando l’avevamo finito
di registrare. Il primo dei Mojave, invece, è uscito in questo anno
di buco, quando io e Neil abbiamo cominciato ad ascoltare cose in
stile Bob Dylan. Le cose hanno seguito il loro corso…”.
Eppure, le faccio notare, si dice in giro che le persone non riuscivano a trattenere le lacrime ai concerti degli Slowdive: “A dir la
verità, c’è stata questa ragazza, forse cecoslovacca, che è venuta
ad un concerto mio e di Neil l’anno scorso, ed era veramente in
lacrime. Ho dovuto darle un abbraccio. È stana questa reazione
che hanno le persone. La ragazza è venuta e mi ha detto che ha
aspettato venti anni per poterci vedere dal vivo… Sai, fa un certo
effetto”. Poi scherza: “Dio, ma piangono ancora? Forse non abbiamo fatto abbastanza sale prove!”.
A proposito di sale prove, cerco di scovare qualche segreto riguardo alle sedute che precedono il ritorno sui palchi dopo quasi
vent’anni… Mi chiedo se si sono ricordati tutti i brani con facilità
o se c’è voluto un briefing apposito. “Beh, non ci siamo ricordati proprio tutto. Abbiamo iniziato con il pezzo Slowdive, che è
sembrato ottimo. Come sempre… Ed è stato un momento fantastico. Ci siamo detti: ‘Wow, siamo forti!’. Nessuno immaginava
che avremmo suonato ancora così bene. Poi When The Sun Hits
e alcune canzoni sulle quali abbiamo dovuto lavorare, perché
avevano diverse tonalità. Abbiamo provato per un weekend al
mese da gennaio, ma a dir la verità abbiamo provato anche prima
dell’annuncio della reunion”.
In un sound raffinato e sperimentale come quello degli Slowdive,
è necessario tenere aggiornata la tecnologia, per cui – mi confessa
– “abbiamo pedali nuovi, che, tra l’altro, ci vende il mio partner,
che lo fa per professione. Nessuno di noi, comunque, ha gli stru-
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menti che avevamo al tempo e quindi sarà tutto un po’ diverso.
Simon ha un nuovo kit di batteria, che sarà magnifico mostrare
sul palco”. E poi, i brani, che finalmente potranno prendere respiro proprio su palchi adeguati. Basti pensare che Pygmalion, il
terzo e ultimo Lp, non è mai stato eseguito live perché “abbiamo
provato e poi, poche settimane prima del tour, la Creation ci ha
scaricato, quindi non abbiamo mai avuto la possibilità di suonare
quell’album. Ma sembra che i pezzi stiano venendo molto bene.
La cosa più interessante di suonare quei brani oggi è che prendono una vita nuova, completamente diversa, senza sradicarli dalla
loro natura. Non è stato facile, perché molti brani erano concepiti
su trucchi da studio, sovraincisioni, loop… i bassi, ad esempio, non
erano acustici, ma suonati sulle tastiere e Nick doveva inventarsi cose strane per suonarli. Beh, mi sembra che ora i brani siano
più eccitanti da suonare rispetto a prima. Stanno cambiando”. E
i volumi? Suppongo che, in gruppi che si sono nutriti di volumi
pazzeschi e da cui hanno tratto una loro peculiarità e una loro
forza, la qualità del suono sia fondamentale. Chissà cosa cambierà nei prossimi live rispetto a vent’anni fa… “Non lo so! Ma è
un’ottima domanda… Tra l’altro io indosso dei tappi per le orecchie mentre suono, a causa del mio problema… Il suono credo sia
più o meno lo stesso di allora ed è di per sé abbastanza forte. Ne
stavamo parlando alcuni giorni fa, proprio riguardo la nostra data
a Londra e uno dei problemi che è venuto fuori era il limite di
decibel dei locali. Quindi abbiamo dovuto scartare alcune location a causa di questo…”. Le faccio notare che in Italia ne abbiamo
parecchi di questi problemi e lei mi risponde che gli Slowdive
devono “necessariamente suonare sopra i 100 db”. Già che siamo
finiti a parlare di volumi, condividiamo qualche memoria dei concerti dei My Bloody Valentine. “Ho visto i Valentines moltissime
volte negli anni Novanta, ma non nel tour della reunion, perché le
band non vengono oltre Bristol, si fermano a Devon. Ricordo che
nei Novanta i bassi mi esplodevano in petto tanto forti da farmi
sentire male. Erano magnifici…”.
Sospiro e decido ancora di tornare indietro nel tempo. Insomma,
ho davanti una leggenda di quel periodo, non posso perdere l’occasione di togliermi qualche dubbio. Sullo shoegaze, ad esempio.
Sulla sua genesi, le sue gesta. Da dove è partito tutto? Da qualche
parte si dice che tutto è iniziato a seguito di un tour inglese del
1990 dei Dinosaur Jr., il cui suono, mixato con l’effettistica della
chitarra di Hendrix e l’appiglio dei Velvet Underground, ha creato un humus favorevole al genere. Ma, quando lo faccio notare a
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Rachel, come spesso accade, i sogni s’infrangono sul frangiflutti.
Mi liquida i Dinosaur con uno “yeah, they were interesting…” e
rilancia sul personale: “per me, ebbero più impatto band come
i Loop. Ero in prima fila ai loro concerti, quando avevo 17 o 18
anni. Non so, ci sono state molte band che hanno influenzato il
nostro sound… I Jesus and Mary Chain su tutti, ma anche i Velvet Underground: prima degli Slowdive avevamo una loro cover
band. I Cocteau Twins, un po’ dopo… ci sono serviti a compattare il nostro sound”. Dopo? “Li ho sentiti per la prima volta quando avevo 16 anni, con Treasure. Christian era un grande fan dei
Cocteau Twins. La loro chitarra, certamente, ebbe un’influenza
particolare sulla nostra musica. Dico ‘dopo’ solo perché all’inizio eravamo concentrati più sui Velvet Undeground e sui Mary
Chain. A Neil piaceva molta musica twee indie come i Primitives, che io non amo. A me piaceva di più la roba un po’ gotica,
tipo i Cure, i Banshees. E anche a Nick, a cui piace tuttora. Beh,
insomma, anche se non so se a Neil sono mai piaciuti i Cure, sono
sicura che avevamo tutti gusti abbastanza diversi…”.
Nel momento di annunciare una reunion, ogni band si pone il
dilemma del nuovo materiale. Gli Slowdive, ovviamente, non
sono stati esattamente congelati per vent’anni. Hanno vissuto più
vite, con i Mojave, con le esperienze soliste di Neil e Rachel, con
i saltuari incontri, con i ricordi e, soprattutto, con gli imitatori inconsapevoli. Anche gli Slowdive hanno nuovo materiale, mi confessa Rachel: “Neil ha alcuni brani, che credo ci proporrà e noi ci
jammeremo sopra. Come sempre. Le mie canzoni preferite degli
Slowdive, come Souvlaki Space Station o Avalyn, sono uscite con
noi che suonavamo a ruota libera in sala prove. Credo sia questa
la strada, è più organico per la band. Bisogna suonare insieme e
vedere cosa ne esce fuori”. Si sente libertà in queste parole, dette
mentre si allontana per un po’ dalla webcam. Si sente la libertà
di poter gestire le proprie risorse, le proprie ispirazioni: “La cosa
bella per noi ora è che siamo più anziani e saggi e non abbiamo
le pressioni di un’etichetta o del tempo. Non c’è pressione immediata. Solo alcuni concerti in giro per il mondo”. Peccato solo non
poter ascoltare già qualcosa nei prossimi live.
Come hanno fatto? continuo a domandarmi… Gli anni andavano
e i suoni che loro avevano concepito erano sempre più attuali, le
band suonavano come loro, ma non lo sapevano e, cosa peggiore, loro non potevano farci nulla, perché erano tenuti a distanza
dalle logiche di un sistema, da cui si erano sentiti schiacciati. “Ci
sono effettivamente alcune band che ho ascoltato negli anni – mi
96
rassicura Rachel- e che mi hanno fatto pensare ‘Jesus Christ…
sono gli Slowdive!’. E ovviamente ho pensato che loro suonassero
meglio di quanto abbiamo mai fatto noi! Non dirò i nomi… Ma lo
prendo come un complimento… sai, molte band hanno bisogno di
un punto di partenza per le loro referenze, come abbiamo fatto
noi…”. Punti di partenza, punti d’incontro, di ripartenza. Con un
po’ di sorpresa, scopro una Rachel onnivora di musica, che sa da
che parti far maturare le sue ripartenze. “Adoro i Midlake, il nuovo dei The War On Drugs. Simon e Neil adorano Nils Frahm,
che fa una cosa elettronica tipo spacey-melo… Ah, adoro il nuovo di Banks e soprattutto quello dei Sun Kil Moon, adoro più
o meno tutto quello che fa Mark Kozelek”. Ah, tocchi un punto
caldo, cara! Ho visto un suo live dieci giorni fa… “Già, è un grande
songwriter… Lo conosco di persona da qualche anno, è davvero
divertente. Neil è molto preso dal suo modo di scrivere, perché
crede che sia uno dei migliori della sua generazione. Non potrei
mai scrivere canzoni come fa lui…”.
Ma Rachel, proprio come quella ragazza di vent’anni fa, ha nuovi
obiettivi: “Un tempo mi ispiravo totalmente a Siouxsie. Era l’artista alla quale aspiravo ad arrivare, anche come persona. Era fantastica e lo è tutt’ora. Dall’altra parte, però, amavo Joni Mitchell,
che è completamente diversa da lei… ma è una donna forte altrettanto. Ho amato anche Nick Cave e lo amo ancora. In effetti,
sono una persona molto leale… Iggy Pop, Neil Young, Nick Drake…”. Provo a fermarla ma non ci riesco. Anella, uno dopo l’altro,
i nomi degli artisti che ama di più, come una cannibale di musica.
Alla faccia di chi è geloso delle proprie referenze…“Beh, mi piace
quasi tutto… però faccio fatica ad ascoltare il death metal!” mi
dice con una risata da vecchia zia del sud est britannico.
Cerco di congedarmi nel modo più polite possibile, ma dopo i sorrisi e le risate che abbiamo vissuto non è facile. “Verrai a Padòva?”
mi chiede marcando quel rotondissimo accento sulla “o”. “Ci
saremo”, le rispondo.
97
/
L u g l i o
Alex G - DSU (Orchid Tapes,2014)
Genere: techno
C’è ancora magia nella musica degli Akkord,
anche dopo la prova di un album, che per i
meno capaci può diventare pietra tombale di
un’idea, saturazione senza possibilità di ritorno
per stilemi altrimenti futuribili. Invece, Indigo
e Synkro – che da Manchester uniscono braccia e cervelli per la causa elettronica britannica – esplorano senza incertezze l’universo
darkside-dub già introdotto lo scorso anno
con l’omonimo numero sulla lunga distanza
(Akkord, Houndstooth, 2013).
Continuum, come la seconda traccia di
HTH020, cioè la jungle che ritorna alla sua
dimensione originaria di austero dub esotico,
declinato techno tra i fumi della metropoli
occidentale. Punti di contatto con una storia
di rave e ambienti che non può essere dimenticata, e infatti viene riscritta con campionamenti, frammenti audio riciclati, prendendo in
prestito fotografie del passato e proiettandole
verso nuova vita futura. Quattro istantanee,
con apertura e chiusura a fissare l’immagine
del set, costruzioni di tensione horror a bassa
battuta, sporcate con voci e rumori da un’altra
dimensione (Gravure, Greyscale). Non casualmente, quindi, abbiamo tracciato simmetrie
con Logos, Pinch e la sua Keysound, i minimalismi berlinesi di scuola Basic Channel e le più
fredde ripercussioni Warp.
7/10
Elia Galli
98
Genere: indie, lo-fi
Alex G, venti anni compiuti da poco e tutti i sintomi dell’appartenenza agli stereotipi
dell’americano post-adolescente in preda agli
slackerismi da cameretta. Philadelphia come
contorno, l’intimità a bassa fedeltà come forma
espressiva tradotta nella consueta moltitudine
di release più o meno amatoriali caricate su
Bandcamp.
Quello che potrebbe sembrare l’ennesimo –
anonimo – ragazzo annoiato con in mano una
chitarra che scrive canzoni a raffica figlie più
di una liberatoria urgenza comunicativa che
di veri sogni di gloria è in realtà uno di quei
fortunati eletti (Bored Nothing ad esempio)
che puntualmente ogni anno vengono spinti
dal basso verso dimensioni mediatiche di un
certo rilievo (ovviamente non stiamo parlando
di radio o televisione).
L’attuale posizione di Alex Giannascoli, ovvero quella di potenziale nuovo grande culto del
cantautorato lo-fi, è sicuramente stata galvanizzata da alcuni articoli introduttivi su importanti testate (per The Fader è l’”Internet’s
Secret Best Songwriter“) ma è soprattutto l’assolutamente meritato punto di arrivo e di partenza di un talento naturale. Un plauso quindi
alla Orchid Tapes – quest’anno già dietro ad un
altro cult name Ricky Eat Acid – che ha pubblicato l’ultima creazione del nostro: DSU.
Un artwork d’impatto immediato – curato dalla
sorella Rachel – e tredici brevi tracce che raccontano al meglio quello che, per il momento,
Alex ha da offrire in termini di sbilenchi affre-
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Akkord - HTH020 EP
(Houndstooth,2014)
Genere: indie, elettronica
Secondo disco solista per l’ex Hot Chip, Alexis
Taylor, dopo Rubbed Out del 2008. I suoni
e le atmosfere che ci potevamo aspettare dopo
la pluriennale avventura sonica con il main act
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Alexis Taylor - Await Barbarians
(Domino,2014)
/
Riccardo Zagaglia
e dopo aver pubblicato anche qualcosa con gli
Avant Group (gruppo arty con membri di Spiritualized e This Heat), ci sono tutti. Il disco è
infatti pieno di arrangiamenti ad effetto (leggi
qualche tappetino elettronico non invadente)
che si vanno ad aggiungere a una base tradizionale, fatta di semplici ballad voce e chitarra.
Invece di concentrarsi su malinconie modaiole
How To Dress Well, il sostrato armonico di
Taylor si situa sulla tradizione del (synth) soul
artigianale, dato che l’uomo ha suonato tutti gli
strumenti (archi a parte), conferendo al disco
una vena di DIY-ness che non guasta.
Ingredienti storicizzati, che si adattano bene
al timbro di voce del cantante, in buonissima
forma anche da solo. Insomma, Taylor invecchia bene e avevamo già capito dell’EP del 2012
(Nayim from the Halfway Line, sempre su
Domino) che non avrebbe mollato presto il mix
di sperimentazione e di popness per cui è diventato famoso. Non per fare paragoni troppo
azzardati, ma nella vicenda artistica di Taylor sembrano emergere le stesse movenze di
David Sylvian quando iniza a pubblicare cose
per conto suo separandosi definitivamente dai
Japan. Con il main act, il cantante inglese aveva stabilito la sua statura sugli anni ’80, e con i
progetti paralleli aveva iniziato una nuova vita,
fatta di incontri col misticismo e con una parte
di se stesso che non avrebbe potuto esplorare
restando nella band.
Destino parallelo per Taylor, che con gli Hot
Chip ha blindato il soul dei 2000 e che oggi
ripiega su un intimismo classico (vedi l’armonica di Without a Crutch, le atmosfere caldissime di Immune System), riprendendo in mano
l’eredità di Robert Wyatt (che nel 2009 aveva
cantato nell’EP degli stessi Hot Chip Made
in the Dark e che qui ritorna prepotentemente in Am I Not a Soldier?) con un soul senza
sbavature (Dolly and Porter, Elvis Has Left the
Building), senza dimenticare qualche momento
L u g l i o
schi pop ancorati tanto al divano di casa quanto
al nostalgie ’90s rivisitate da chi in quegli anni
nasceva.
Scorrono limpide le timide schegge dell’indie
americano dei tempi andati (Pavement, Built To Spill e soprattutto i Beat Happening
di Calvin Johnson) lungo gli intrecci – meno
banali di quanto sembrino – delle composizioni
di Giannascoli. A rendere DSU un piccolo gioiello dal repeat facile è una varietà strumentale
e stilistica che, pur muovendosi tra i confini di
un certo cantautorato indie, riesce a mantenere
sempre vivo l’ascolto allontanando qualsivoglia
rischio-sbadiglio: improvvise incursioni noise
mai invadenti e sempre funzionali alla causa
(Axesteel), richiami ai migliori Modest Mouse
(l’appicicosa pigra cantilena di Harvey, l’ottima
Black Hair con la sua sferzata quasi Slintiana),
vaghi sensori indie-emo (Serpent Is Lord), assurdi vocalizzi che se non altro incuriosiscono
(Rejoyce) e punte di slowness dilatate dai cori
eterei dell’amica e concittadina Emily Yacina
(Hollow).
Tutt’altro che perfetto e potenzialmente bissabile in un’ottica meno casalinga, DSU è il
classico breakthrough album per il piccolo
pubblico, destinato a rimanere tale sia che si sia
trattata di una micro-allucinazione collettiva di
un paio di mesi sia che si riveli realmente essere il primo grande passo di un ipotetico protagonista della scena indipendente del prossimo
decennio.
7/10
99
/
L u g l i o
Genere: metal, blackmetal
Difficile trovare una smagliatura in questo quinto lavoro degli Agalloch,
metalloni di Portland con diciassette anni di anzianità alle spalle e dunque a buon punto in quel processo storico che li porterà a un’anzianità
segnata dal culto incondizionato. Ci sono tutti i presupposti: hanno una
discografia sparuta ma integra e – soprattutto – sono tra le poche band in
grado di maneggiare trasversalmente la materia dark, pescando tra black
metal, folk, prog e post-.
Rispetto ad altri lavori in cui – seppur di poco – era sempre una componente a prendere il sopravvento (si veda ad esempio il bellissimo esperimento prog di Ashes Against the Grain) The Serpent and the Sphere è un disco d’equilibrio, capace di fondere tutto il percorso sin qui intrapreso
dagli Agalloch. Torna prepotentemente in auge l’aspetto teatrale della loro musica (e dunque le
parentele con i Katatonia), a braccetto con la solita perfezione nella struttura: non c’è un passaggio che stoni, nemmeno quella cornice black a-ferina che spesso confluisce in un growl accomodante a mezz’aria su scale prog, perché in fondo è proprio il valore scenico che interessa ai Nostri.
Quel nero di importazione scandinava raccontato tra paganesimi morte e natura che comprende
anche gli intermezzi di folk acustico, a cura di Nathanael Larochette dei canadesi Musk ox, e i
giochi pieni/vuoto nei dodici minuti di Plateu of Ages.
Un’opera dark e l’affermazione di un gusto classico: questi sono i presupposti di The Serpent
and the Sphere. Aggiungiamo alcuni episodi sopra le righe (Dark Matter Gods e Celestial Effigy),
un’ottima amalgama sulla lunga distanza, ed ecco firmato un ritorno di grande personalità.
7.2/10
Stefano Gaz
di estasi (splendido l’a-cappella su base cosmic
di Closer to the Elderly), di cazzeggio (il fischiettare nella stupenda New Hours, forse la
migliore canzone del disco) o di citazioni colte
(il titolo dell’album è preso dal poema omonimo di Kavafis). Un inaspettato e piacevolissimo
ritorno. Strappalacrime senza strafare, Taylor
ha capito come costruire pezzi che restano non
solo nell’hard disk ma anche nel cuore.
7.2/10
Marco Braggion
100
Alvvays - Alvvays (Cooperative
Music,2014)
Genere: pop, rock, indie, dream
Cosa rimane di quel fuzz-pop spensierato e
retrò che tra 2009 e 2010 invase le pagine delle
webzine e dei blog musicali di tutto il mondo?
Onestamente, poco o nulla. I piacevolissimi
debutti, una manciata di singoli divenuti ormai
piccoli classici indie (When I’m With You, Jail
La La, I Can’t Stay e Never Come Around) ma
soprattutto tanti dischi deludenti o, nel migliore dei casi, “carini ma dimenticati dopo una
settimana”.
Un mix tra l’universo surf-garage pop appena
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Agalloch - The Serpent and the Sphere (Profound Lore,2014)
Riccardo Zagaglia
Black Bananas - Electric Brick Wall
(Drag City,2014)
/
Genere: rock
Diciamocelo sinceramente: ci deve essere
un progetto dietro la sigla Black Bananas; un
progetto artistico provocatorio, qualcosa che
abbia a che fare con l’art brut o col situazionismo, lo sberleffo come forma d’arte o chissà
cosa. Perché a fare musica brutta, volendo, son
capaci tutti, ma a reiterare quella bruttezza, a
portarla sempre un passo oltre in una ipotetica
scala discendente, ci vuole non solo coraggio o
incoscienza, ma anche una visione d’insieme,
un progetto, appunto.
E la Herrema di Royaltruxiana memoria, responsabile numero uno di Black Bananas, sta
facendo questo da almeno un paio di album e
qualche singolo, per non parlare delle “evoluzioni” precedenti targate RTX: spostare sempre oltre una musica tronfia e vanagloriosa,
pompata e apparentemente iconoclasta, eccessiva e maleodorante come una accozzaglia di
A g o s t o
r e c e n s i o n i
essere nulla più e nulla meno di uno dei tanti
gradevolissimi dischi d’esordio che però faticano ad andare oltre le barriere di genere. Ma
non gliene facciamo una colpa: i brani scorrono infatti fluidi e leggeri. A difettare semmai
è il tassello fondamentale, ovvero la capacità
di imporsi con personalità, la grande missione
che solo in pochi riescono a portare a termine, soprattutto in casi come questo dove ci si
presenta con sonorità che, bene o male, hanno
fatto il loro tempo.
Accontentiamoci quindi di invaghirci per qualche settimana dell’ennesimo innocuo gruppetto da ascolto spensierato guidato dall’ennesima indie-diva minore (Molly Rankin) per poi
passare oltre (Flowers?) senza troppi sensi di
colpa.
6.7/10
L u g l i o
citato e le immancabili influenze fine ’80/inizio ’90 – quest’anno sublimate perfettamente
dai Fear Of Men di Loom – che hanno fatto
la fortuna di molti noti indie-poppers è la base
del sound riprodotto con gusto dai canadesi
Alvvays, quintetto di Toronto che negli ultimi mesi si è fatto apprezzare grazie ad una
manciata di encomiabili brani tra cui spiccano
Adult Diversion – perfettamente in linea con
l’immaginario pop più puro – e la più ariosa ma
ugualmente orecchiabile Archie, Marry Me.
Come uno strano incrocio tra Tracyanne
Campbell ed una Juliana Hatfield riverberata, la leader Molly Rankin imprime fluide melodie che suonano candide ed innocenti: tanto
basta a rendere l’omonimo album d’esordio
degli Alvvays un facile candidato per il trofeo
“disco da ombrellone 2014”. Non bisogna di
certo mettersi di impegno per immaginare il
sole all’orizzonte e la brezza marina sulla pelle
durante l’ascolto di brani come l’impeccabile –
e per certi versi senza tempo – Next of Kin, la
melodicamente zuccherosa Atop a Cake o The
Agency Group, dal malinconico retrogusto preautunnale.
In un mare di riferimenti che spaziano tra le
mellifue melodie dei primi anni sessanta, i
rodatissimi e mai stancanti schemi twee, jangle
e c86 di stampo eighties e sporadiche sferzate
guitar-pop anni ’90 di scuola Teenage Fanclub
(punto in comune con i non troppo distanti
The History Of Apple Pie) è facile innamorarsi più delle singole canzoni che di scelte
stilistiche che non brillano sicuramente per
originalità. Nel loro caso a fare il bello ed il cattivo tempo è una scrittura che traduce semplici
sequenze di note nella quintessenza dell’indiepop modellato da un approccio lo-fi mai snaturato dalla produzione di Chad VanGaalen e
dal mixaggio di due pezzi da novanta, Graham
Walsh (Holy Fuck) e John Agnello.
Il debutto lungo degli Alvvays finisce per
101
rimasugli di discarica punk, noise, metal, hard,
psych verso lidi di un imbarazzo unico, per di
più accentuati da una produzione parossistica,
che porta all’eccesso i suoni. Verso una cacofonia che è forse il giusto contraltare a simili
“creazioni”: della serie, se ci si avventura a indagare simili brutture, è pur giusto che si soffra
fisicamente qualche pena. Se possibile, peggio
ancora del precedente Rad Times Xpress IV.
3/10
Stefano Pifferi
/
L u g l i o
Genere: rock
Dopo averci provato con l’elettronica – anche
con la dance nel famigerato Modulate – e aver
tergiversato alla fine degli anni Zero con il cantautorato più o meno lo-fi e indie, da un paio
di album a questa parte Bob Mould sembra
essersi messo sulle tracce del suo passato per
riproporsi con convinzione in quello che gli
riesce meglio: essere Bob Mould.
Non è probabilmente un caso se con l’ormai
fido Jason Narducy al basso e Jon Wurster alla
batteria ha ricostituito un essenziale power
trio, memore degli Hüsker Dü e degli Sugar e,
se vogliamo, anche delle sue prove migliori da
solista.
Preso in un ciclo celebrativo tra il film See A
Little Light – dedicato alla sua eredità presso
le successive generazioni –, le ristampe degli
Sugar e quella per il venticinquesimo anniversario del primo disco in solo Workbook, in
Beauty and Ruin Bob segue un mood in verità
crepuscolare, almeno nei testi, in cui si riflette un avvenimento tragico come la morte del
padre – figura importante quanto controversa
nella sua vita personale e di cui ha parlato a
lungo nella propria autobiografia – ma anche
disillusione e cinismo (Hey Mr. Grey non è
esattamente la celebrazione della silver age di
102
Tommaso Iannini
Brian Eno - High Life (Warp
Records,2014)
Genere: ambient, elettronica
Presentato come una sorta di corollario di
Someday World, questo High Life potrebbe
invece rappresentarne il formidabile dark side.
Soddisfatte le fregole pop – nel senso alto che
si conviene quando ad essere coinvolti sono
nomi di questo tipo – Eno e Hyde lasciano sbri-
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Bob Mould - Beauty and Ruin
(Merge,2014)
cui cantava un paio di anni fa).
Un disco profondamente personale – come
suggerisce anche la copertina, dove per la
prima volta il Nostro mette la faccia – in cui
il Mould maturo si rispecchia nel giovane. La
musica sotto questo aspetto è totalmente autoreferenziale, anche se non in maniera stucchevole, per fortuna. Lo stile è quello “melodicoaggressivo” del cantautore punk rock che
conosciamo meglio, addirittura semplificato
rispetto all’hardrockeggiante Silver Age.
Si inizia a dire il vero con un rock elettrico
lento che ricorda le ballate scure e distorte del
vecchio Black Sheets of Rain (Low Season), poi
una sorta di grunge supersonico (Little Glass
Pill) e scampoli di hardcore (Kid With Crooked
Face), per infilare en passant due numeri di
“poppunkpsichedelico” alla Sugar: il singolo I
Don’t Know You Anymore e Nemeses Are Laughing. La vista sugli ultimi Hüskers di The War
- non si sa se il pezzo più bello ma di sicuro il
più trascinante – si gode anche dal pop-core
che prevale nell’ultima parte dell’album. Alla
fase dell’inquietudine artistica sembra subentrata quella della consapevolezza: Bob Mould
is Bob Mould, questo è. Non il miglior Bob
Mould: nonostante tutto, Beauty and Ruin è
un disco onesto da parte di chi nella stima può
vivere di rendita, ma sa ancora scrivere – e
bene – le sue canzoni.
6.8/10
Genere: psych
Sempre elaborato lungo l’asse della psichedelia
chitarristica più o meno ruvida e/o sognante
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Brian Jonestown Massacre - Revelation
(A Recordings,2014)
/
Stefano Solventi
come da tradizione, il nuovo lavoro del progetto di Anton Newcombe – sono della partita il
sodale old school Ricky Maymi e le new entry
Constantine Karlis, Ryan Van Kriedt e Joachim
Alhund dei limitrofi (per suoni e etichetta)
Les Big Byrd – si va via via allontanando della
intemperie del passato – leggi suono eroinomane e autoreferenziale – per avvicinarsi ad una
visione musicale più piana e intelligibile.
Come se volesse proseguire lungo un percorso
iniziato con il precedente Aufheben, Revelation – anche qui nomen omen su ciò che si cela
all’interno – allarga lo spettro delle possibilità
includendo nuovi elementi nell’abbecedario
made in BJM. Questa screziatura però non
sembra mantenere alta la bandiera per l’intera durata del lavoro e se sull’asse delle ascisse
regna sovrana la psichedelia – le minuterie
kosmische-rock compresse come in What You
Isn’t, l’intimismo drogato di Nightbird, la narcolessia desertica di Days, Weeks And Months,
lo sfattume sixties di Unknown o quello umorale di Memory Camp – su quello delle (dis)
ordinate si vanno a sovrapporre bislacchi folk
medievali (Second Sighting), aperture weird
quasi à la Beta Band (la trombetta storta di
Vad Hande Med Dem?), riesumazioni gothpop à la Cure decisamente prescindibili (Food
For Clouds), inserti electro-etno-psych sotto
anfetamina che sembrano outtakes fuori tempo massimo dalla colonna sonora di “24 Hour
Party People” (Memorymix) e una conclusiva
Goodbye (Butterfly) sinceramente imbarazzante tra coretti e psych-rock diluito.
Si sarà capito che se non si può parlare di passo
falso, Revelation rimane comunque un disco
malamente equilibrato tra ripetizione del trademark e tentativi di innovazione. Rimandato a
settembre.
5.8/10
L u g l i o
gliata la vena all’inseguimento dell’estro sonico,
che va a raggrumarsi su pulsazioni etno/funky
robotizzate e tessiture ambientali marezzate
d’inquietudine. I meriti, a quanto pare, vanno
così distribuiti: Hyde ha fornito gli spunti chitarristici su cui Eno ha edificato architetture
suggestive, dinamiche e luminose. Visti i risultati, direi che si è trattato del miglior metodo
possibile.
Solo sei i pezzi in scaletta, di cui quattro però
lasciati sviluppare tra gli otto e i nove minuti,
col canto degradato ad ingrediente semplice, vibrazione melodica che significa solo in
quanto risonanza nella tessitura di timbri e
armonie caliginose: vedi Cells and Bells con
le sue rarefazioni gospel, da qualche parte tra
Before And After Science e le palpitazioni
diafane del Canterbury, oppure il raga garbato
e ipnotico di Return col suo gracidio luminoso
di chitarre ed i cromatismi intrecciati di synth
ad abbozzare un’enfasi etera non distante dagli
U2 altezza Joshua Tree.
Il resto è invece strutturato su funky ingegneristici, guizzanti e acidi, dal tiro urbano febbrile
come il Miles Davis di On The Corner (le
seriali DBF e Moulded Life), oppure più pacati
e flemmatici come la sorniona Time To Waste
It e la solennemente mesmerica Lilac. Si potrebbe obiettare che in fondo abbiamo a che
fare coi soliti “enismi”, ok, ma in questo caso
riportati ad una brillantezza di tutto rispetto e
a tratti prodigiosa, al punto da permettergli di
collocarsi senza affanno nel guazzabuglio della
contemporaneità.
7.2/10
Stefano Pifferi
103
/
L u g l i o
Genere: freejazz, experimental
Scongiurata l’ipotesi che il precedente Exit potesse essere un lavoro
estemporaneo, Enter è, sin dall’indicazione fornita dal titolo, una sorta
di dichiarazione di intenti per i tre Fire! Mats Gustafsson (sax ed elettronica varia), Andreas Werliin (batteria) e Johan Berthling (basso).
Ricompattata l’orchestra da 30 membri ed espanse vertiginosamente le
direttrici possibili del trio base – già ampiamente dimostrate negli album
collaborativi – i tre invitano ad entrare in un mondo onnivoro e vario, caleidoscopico e etimologicamente eccentrico, schierandosi di diritto nella
ristretta lega delle migliori big band della storia del free jazz. Il pensiero va alla Liberation Orchestra ovviamente, ma non è da meno certa Europa di fine anni sessanta (GUO, Peter Brotzmann
Octet) che indicava già allora una strada più strutturata da seguire.
E se Exit spingeva più il pedale sul kraut, Enter, il nuovo lavoro strutturato come nel passato in
due movimenti, vede Gustafsson oltre che responsabile della sezione fiati e primo sax facinoroso, direttore a tutti gli effetti dell’ensemble. La prima differenza che balza agli occhi è questa: più
riguardo alle sezioni e di rimando alla partitura, con bellissimi momenti soul. Mariam Wallentin,
già cantante in alcuni dei lavori citati, adotta una tecnica vocale che la dipinge furiosa e nera, poi
straripante e demoniaca sul primo quarto di movimento, dove il gruppo inizia a raccontare una
storia di suoni al bivio. Ciononostante i registri non seguono una logica di facili costumi, tendendo
a scontrarsi per poi rientrare in carreggiata.
In questo l’approccio dell’altro cantante, Simon Ohlsson, rimanda a cadenze più rock, e riduce il
peso dell’improvvisazione. È contemplato il caos, ma sempre in una dimensione onirica. Qui il
trait d’union col secondo movimento: tratteggi elettroacustici e una passione che ritorna al soul
come ad indicarne il dado tratto. I minuti successivi tendono a slabbrare la ritmica con incisi di
batteria e tutta la sezione fiati richiamata all’ordine, ed è lo scioglimuscoli prima del recupero
elettroacustico e del tema cantato da Sofie Jernberg, terza voce. A metà episodio Gustafsson vuole
un andamento tronfio, iperconnesso e saturo; piegato su un proprio alfabeto, il canto si avviluppa
in un corale chiudendo il lavoro nel migliore dei modi.
Enter dona quiete e nevrosi allo stesso tempo, non può dirsi né prolisso né riduttivo e a caldo è un
album che piace, piace veramente tanto.
7.8/10
Christian Panzano
Caustic Window - Caustic Window LP
(cat023) (Rephlex,2014)
Genere: techno, breakbeat, idm
Ogni notizia relativa a Richard D. James, alias
Aphex Twin, acquista subito una grande riso-
104
nanza, soprattutto quando si dimostra fondata
e non frutto di april fools fuori stagione. La
pubblicazione ufficiale, seppure solo in digitale, di Caustic Window LP a vent’anni dalla sua
realizzazione rompe un silenzio produttivo che
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Fire! Orchestra - Enter (Rune Grammofon,2014)
A g o s t o
r e c e n s i o n i
/
aphexiano (l’ex joyrex.com ora watmm.com,
il prezioso forum “we are the music makers”)
da un supposto possessore di uno dei press
test (quasi certamente Mike Paradinas, alias
µ-Ziq, responsabile della Planet Mu e collaboratore di James per il divertente album Mike
and Rich del 1996).
Nell’aprile del 2014 la notizia che uno dei set
in vinile del Caustic Window LP sarebbe stato
messo in vendita ha dato il via ad un’iniziativa, condotta dai prodi di wattm.com, che ha
permesso il 16 giugno a 4.124 sottoscrittori di
un’apposita campagna Kickstarter di scaricare
la copia digitale delle tracce dell’album, rippate
direttamente dal vinile (e immancabilmente
finite su YouTube pochi minuti dopo…). E finalmente abbiamo la conferma: le informazioni
del 1999 erano sostanzialmente corrette, l’album esiste e, al di là degli estremismi dei devoti
aphexiani e dei denigratori dell’ultima ora, si
tratta di un lavoro interessante e tutto sommato godibile, che contiene banalità ma anche
colpi di genio, seppur (o forse proprio perché)
da storicizzare.
Si drizzano subito le orecchie con la modernità
retromaniaca di Flutey, profonda pre-minimal
a 122 bpm con riflessi balearici, rilucente di
quelle piacevoli imprecisioni date dall’artigianalità dell’ordito, oggigiorno impossibili da
ottenere nell’asetticità dei software, e di scelte
sonore (un oboe presettato, per esempio) ai
limiti del kitsch. Stomper rientra nei canoni
caustici: una cavalcata a 140 bpm, tra il tribale
e il kraftwerkiano, con una linea per Roland
SH-101 acida e personalissima. Mumbly è di
maniera, con sample tratti dal cartone animato
Dastardly and Muttley (quello di “medaglia
medaglia medaglia!”). Popeye dura meno di
ottanta secondi: uno scherzo da videogame
sulla falsariga di alcune Melodies From Mars
(album del 1995 mai ufficialmente pubblicato,
altro Sacro Graal della discografia aphexiana).
L u g l i o
per James dura ufficialmente dal 2006 (con
l’uscita di Chosen Lords, una sorta di “best of”
della serie Analord a firma AFX), ma da far
risalire al 2001, considerando l’alias principale
Aphex Twin (il discusso Drukqs). Con il moniker Caustic Window James aveva pubblicato
per la sua label Rephlex nel periodo ’92-’93 una
serie di EP di non facile reperibilità, poi quasi
interamente raccolti nel 1998 in una preziosa
Compilation: un side project, sviluppato in
contemporanea all’ “electronic listening music” di Selected Ambient Works 85-92 e delle
prime uscite IDM per Warp, dove coltivare le
passioni più insane verso l’acid e l’hardcore
techno o dove parcheggiare i brani “braindance” meno compiuti, sempre con una forte dose
di humor (con sample tratti da Julie Andrews,
Willy Wonka, film porno, videogames anni
ottanta).
Proseguendo su questa falsariga semi-schizofrenica, il 1994 vedeva l’uscita di Selected
Ambient Works Vol.II da un lato, e del vol. 4
di Analogue Bubblebath dall’altro: tra i due
estremi (l’eterea ambience – capolavoro! – del
primo e la furia animalier del secondo), il progetto Caustic Window, in procinto di svilupparsi sulla lunga distanza, avrebbe dovuto
rappresentare un’ulteriore valvola di sfogo per
la frenetica creatività di James. L’album viene
catalogato con il numero CAT023 e stampato
in doppio vinile in quattro, forse cinque copie
test, ma mai rilasciato ufficialmente. Delle 15
tracce che componevano l’LP, solo due furono
rese pubblicamente note (le superdistorte e
noisy Phlaps e Cunt, inserite rispettivamente
nelle compilation “Trance Europe Express”
e “Unity – Be Aware – Fight Back – Taking
Liberties – The Criminal Justice And Public
Order Act 1994 Is The Death Of Democracy”: titoli del tutto figli dell’epoca!): delle altre
si ebbero notizie solo nel 1999, a seguito delle
dettagliate informazioni fornite ad un fan-site
105
A g o s t o
/
L u g l i o
Alessandro Pogliani
106
Chrissie Hynde - Stockholm (Caroline
International,2014)
Genere: cantautori, rock, alt
Ci ha messo ben trentacinque anni, Chrissie
Hynde, a concedersi il primo disco da artista
solista. Era il 1979, infatti, quando i Pretenders
si guadagnarono il proprio posto nel firmamento dell’alternative rock e della new wave grazie
all’omonimo album di debutto e a due singoli
indimenticabili come Kid (ripreso pochi anni
dopo dagli Everything But The Girl) e Brass
In Pocket, e oltre all’impegno con la band, da
allora la Hynde si è limitata a poche, ma in più
casi fortunate collaborazioni – ben due con gli
UB40, la cover di Sonny and Cher I Got You
Babe e Breakfast In Bed. Ora, a distanza di sei
anni dall’ultimo Break Up The Concrete (in
alcuni Paesi, Italia compresa, abbinato a una
raccolta di successi), la cantante si propone
con un album tutto suo, dal forte carattere pop,
“leggero con brio”. E per farlo è andata agli
Ingrid Studios di Stoccolma e ha voluto con sé
Björn Yttling – bassista del trio Peter, Bjorn
and John e produttore già al lavoro con Lykke
Li, Primal Scream e Franz Ferdinand – che
è anche polistrumentista e co-autore di dieci
brani su dodici di Stockholm.
Sulla carta il tutto si presenta come un’eccitante collezione di canzoni buone anche da ballare, “tra gli ABBA e John Lennon” (le parole
sono della Hynde), ma basta andare avanti con
la tracklist per accorgersi che purtroppo manca
qualcosa, che forse la produzione di Yttling è
fin troppo levigata e non fa sì che i pezzi possano decollare. Non c’è neppure un tonfo, eppure
gli episodi da salvare e che non sfigurerebbero
in un’antologia da tramandare ai posteri sono
appena una manciata: la partenza con You
And No One promette molto bene, con le sue
atmosfere retrò dal sapore spectoriano già
recuperate vent’anni fa da McAlmont e Butler
e in seguito da Duffy, e funziona anche il piglio
r e c e n s i o n i
Il breakbeat acid di Fingertrips suona molto
808 State. Revpok è uno dei picchi dell’album:
inventiva commistione industrial techno di
metalli e rumore bianco, lanciato a 132 bpm
per schiantarsi sul rapido AFX Tribal. Airflow
è squadrata e marziale, e non si alza in volo.
A detta di Paradinas, Squidge In The Fridge è
una delle prime tracce in assoluto registrate
da James, e non si fa fatica a crederlo: paragonandola alla successiva Fingry è evidente il
passaggio tra mera banalità e semplicità creativa. Segue un’altra sorpresa che emerge dalla
storia, un esercizio di stile inaudito per James:
come esplicitato dal titolo, Jazzphase è house
fusion di classe. Anche l’atmosfera di 101 Rainbows Ambient Mix rispecchia in pieno il nome
attribuito, al punto da chiedersi se non siamo
di fronte ad una semplice collezione di esperimenti demo. Dopo la brutale Phlaps e l’acid
ipersatura di Cunt, le due già note scudisciate
hardcore, l’album si chiude con gli scherzi telefonici: in Phone Pranks James parodizza l’uso
delle telecomunicazioni del “telephone terrorist” Robin Rimbaud aka Scanner, coinvolgendo proprio quest’ultimo insieme ad altri amici
musicisti (Morris “Mixmaster” Gould, Chris
“Cylob” Jeffs, lo stesso Mike Paradinas) in
assurde conversazioni su chi ha chiamato chi,
per lo spasso del Nostro.
Testimonianza del fecondissimo periodo predrill di Richard D. James, esaurita l’immediata
emozione per il ritrovamento archeologico l’album va preso per quello che è: un prodotto non
di prima scelta ma neppure da scartare in toto,
variegato e altalenante come già erano le precedenti pubblicazioni a nome Caustic Window.
6.8/10
Genere: indie
Otto anni possono essere tanti o pochi per
una band. Nel caso dei Clap Your Hands Say
Yeah, l’aver esordito con il botto, nel 2006, ha
sicuramente influenzato molti sviluppi futuri, a
partire dall’attività discografica. L’hype ha caricato gli ascoltatori di aspettative a cui la band
ha dimostrato di non dar troppo conto: sono
passati quattro anni tra il secondo Some Loud
Thunder ed il precedente Hysterical, e altri
tre sono trascorsi per realizzare questo Only
Run, album che vede in formazione soltanto
il leader Alec Ounsworth e conta, come unico
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Clap Your Hands Say Yeah - Only Run
(Autoprodotto,2014)
/
Alessandro Liccardo
sopravvissuto, il batterista Sean Greenhalgh
(ora session man).
Sarà anche per questo, a voler pensare male,
che a missare l’ora one man band – che da
tempo si autoproduce – c’è un vate come Dave
Fridmann, ovvero Mr Flaming Lips e Mr Mercury Rev (senza contare le decine di altre produzioni degli ultimi anni), uno che influenza le
sorti del suono solitamente in maniera positiva
e che qui aggiunge una serie di noti tocchi,
come il trattamento delle chitarre (quasi shoegaze) dell’opener As Always. D’altro canto, la
cifra stilistica di Ounsworth a partire da quel
brano – fate conto i CYHSY degli esordi ma
più maturi, dinamici negli arrangiamenti ed
introspettivi nel mood – si sente ancora e pure
ritmo ed energia non mancano nella tracklist:
ascoltate, per dire, Coming Down, con la partecipazione di Matt Berninger dei National, un
pezzo pop pestone con potenti riff di chitarra. Il tono generale del disco è maggiormente
riflessivo, cupo quasi, e copre uno spettro che
va dal synth-pop etereo all’indie austero, quasi
new wave. L’ironia e lo spasso sono venuti
meno in favore di sfumature più profonde e
meno giocose.
In generale, Only Run, al netto del produttore,
conta sia buoni episodi (Beyond Illusion), sia
brani non del tutto a fuoco (Little Moments).
I CYHSY non hanno la forza e la vitalità dei
primi tempi ma risultano godibili e soprattutto
l’energia e il trasporto sono autentici. E di questi tempi è già moltissimo.
6.5/10
L u g l i o
più rock del singolo Dark Sunglasses e di Down
The Wrong Way (quest’ultima con la chitarra
di un ospite d’onore, Neil Young). Poi però
Chrissie graffia meno di quanto potrebbe in A
Plan Too Far (stavolta con la curiosa partecipazione del tennista John McEnroe) e sembra
più svogliata che rilassata in Adding The Blue,
la conclusiva ballad malinconica che anziché
rievocare i fasti di I’ll Stand By You ricorda di
più i Roxette meno ispirati. C’è persino qualche
analogia con gli ultimi Simple Minds dell’ex
marito Jim Kerr nell’adult contemporary di
House of Cards, mentre svetta Tourniquet
(Cynthia Anne) con i suoi insoliti rimandi al
Morricone degli spaghetti western.
Se si prende questo disco per ciò che è, ossia l’opera di una signora del rock che sente
ancora il bisogno di raccontare in musica
piccole storie senza alcuna ansia da prestazione, Stockholm garantisce trentasette minuti
scorrevoli e non privi di guizzi. Resta però un
capitolo periferico, che non riuscirà ad aprirle
nuove porte e che assai probabilmente suonerà
più convincente dal vivo.
6/10
Andrea Macrì
Club Voltaire - The Escape Theory
(Lafleur,2014)
Genere: pop, brit, rock, indie
È ormai assodato che viviamo in un periodo
storico complicato, a tratti angosciante, in cui
l’ultima delle speranze è affidata al cambiare
107
/
L u g l i o
Genere: industrial, metal
Passati i pochi secondi iniziali di scroscio noise, appena attaccano basso,
chitarra e batteria elettronica il mondo si ferma, il tempo si ritorce su se
stesso e lo spazio si modifica rispendendoci direttamente nella più grigia
periferia inglese ai tempi della lady di ferro: Birmingham, fine anni ’80.
Ossessione e ripetitività, malessere e heavyness, zona grigia revisited e
alienazione socio-culturale di un Paese – microcosmo di un sistema più
ampio ma lo stesso destinato alla consunzione – in totale abbandono e
sfacelo.
Quattro soli pezzi in formazione classica con Justin Broadrick e GC Green, questi ultimi mai come
ora ringiovaniti e determinati a cristallizzare il tempo mettendo in scena il meglio del proprio repertorio in un tentativo (riuscito) di esorcizzare quella parentesi decennale che li ha tenuti lontani
dalle scene e, soprattutto, le ultime uscite – ad esser buoni, almeno Us And Them e Hymns – non
propriamente a fuoco. Quattro monoliti straight in your face che non si allontanano dal canovaccio di Streetcleaner o dell’omonimo EP d’esordio: riff monumentali di chitarra e basso all’unisono, batteria elettronica pestona sul solito midtempo, voce cavernosa che vomita testi iconoclasti e
privi di ogni apparente barlume di speranza, ritmi marziali e ossessivamente circolari e atmosfere
claustrofobiche d’ordinanza.
Se state pensando dubbiosi all’ennesima reunion fuori tempo massimo escogitata solo per “monetizzare” un passato glorioso, siete fuori strada: i Godflesh sono tornati proprio in tempo per cantare un’altra decadenza, forse definitiva.
7/10
Stefano Pifferi
aria e al mettersi in viaggio alla ricerca di fortuna, di lavoro, di nuovi modelli e stili di vita.
I Club Voltaire, se non fisicamente, tentano di
evadere dallo “stivale” almeno con l’immaginazione che dà vita a questi undici brani inseriti
nel primo lavoro su lunga distanza della band,
The Escape Theory, un disco che fa seguito
alla pubblicazione di tre precedenti EP.
The Escape Theory, punto di arrivo e coronamento del progetto dei Club Voltaire partito
cinque anni or sono, si contraddistingue per
una miscela di suoni riconoscibili: i quattro comaschi guardano con il cannocchiale alla lontana terra d’Albione, patria dei giganti Kinks
108
(la cui l’influenza si sente in Pieces of Beach,
Rendez-Vous), degli spigolosi Oasis (al cui stile
i Nostri ammiccano senza troppi fronzoli almeno in tre occasioni, tra cui Don’t, Friday 3 Am e
nella ballata Words Don’t Cover), dei più sprizzanti Blur (Midnight Chance) e di mostri sacri
come Beatles e Rolling Stones, i cui fantasmi
aleggiano per tutti e i 38 minuti dell’album.
L’armonia delle voci, le genuine melodie pop e
il connubio tra sonorità ora vintage ora contemporanee riescono nel rendere omaggio alla
cultura british, e quello che ne esce è un lavoro per lo più godibile e piacevole, almeno per
noi italici. Chissà se però dall’altra parte della
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Godflesh - Decline and Fall (Avalanche,2014)
Manica i sudditi di Sua Maestà saranno lì ad
attenderli a braccia aperte…
6/10
Marco Frattaruolo
Stefano De Stefano
David Gray - Mutineers (Kobalt Label
Services,2014)
A g o s t o
Genere: brit, cantautori, alt
C’è stato un momento in cui David Gray aveva
il mondo nelle proprie mani. Erano i primissimi anni Zero. Furono in molti ad innamorarsi,
sebbene in leggero ritardo, di quel capolavoro
insolito del New Acoustic Movement intitolato White Ladder e della sua originale
commistione di folk, drum machine demodè e
sopraffino artigianato pop, capace di rivoltare come un calzino un classico del synth-pop
come Say Hello, Wave Goodbye dei Soft Cell e
farlo sfociare come se niente fosse in Into The
Mystic di Van Morrison. Erano anche i tempi
dei Turin Brakes, dei debuttanti Coldplay di
Parachutes e dell’exploit dei Kings of Convenience, e di lì a poco sarebbe stato Damien
Rice a dominare, seppure per poco, la scena;
nel frattempo, sul lato della strada, una certa
Dido giocava con grande successo la carta del
pop acustico miscelato con archi ed elettronica
– proponendosi quasi come una versione “soft”
di Sinéad O’Connor, meno complessa ma più
rassicurante dell’originale. Babylon era diversa
da tutte le altre canzoni che scalavano le classifiche, aveva una bellezza che entrava sotto la
pelle, con quei suoni e quegli accordi intricati,
/
Genere: pop, indie, dream
Craft Spells è il nome della creatura di Justin
Vallesteros, impegnato dal 2011 a fare praticamente tutto da solo partendo dalla sua stanzetta e riscuotendo successi con Idle Labor
e il successivo EP Gallery. Oggi le cose sono
parzialmente cambiate e l’apporto di una vera
e propria band dà i suoi frutti nello sviluppo
artistico del progetto. Nausea è il titolo di un
album che profuma di dream pop targato Eighties, fortemente debitore nei confronti di una
certa new wave romantica.
Atmosfere rarefatte e avvolgenti, un ambiente ovattato e fitrato da un uso massiccio ma
intelligente dei riverberi, una voce doppiata
che sembra arrivare da lontano: è questa l’impalcatura sonora di un disco dotato di belle
composizioni pop e molto convincente nella
sua prima parte. Siamo nei territori dei Marjorie Fair e The Clientele più asciutti o i Levy di
Rotten Love: il trittico iniziale Nausea, Komorebi e Changing Faces (probabilmente il pezzo
migliore del disco) è micidiale per il modo in
cui confeziona la melodia all’interno di una
scrittura allo stesso tempo classica ed efficace. L’uso delle tastiere e degli arrangiamenti
orchestrali bilancia e addirittura arricchisce il
tessuto sonoro, che resta comunque fortemente
cupo e vicino a certe cose di band come i New
Order (con il brano Dwindle, per esempio).
Arrivano anche dei singoli più diretti e taglienti nelle sonorità, come nel caso di Twirl, che
in un minuto consegna una delle melodie più
chiare ed estive di tutto il disco: il classico sunny pop retromanico e dal gusto indie.
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Craft Spells - Nausea (Captured
Tracks,2014)
Nella seconda parte di Nausea la fa da padrone
il brano First Snow, perfetto esempio di come
si possano mettere d’accordo in tre minuti il
lato scuro della wave britannica e l’indie pop
di matrice americana. L’ascolto del disco si
esaurisce in quaranta minuti e con l’impulso a
immergersi di nuovo in queste raffinate trame;
insomma, Justin Vallesteros ha realizzato con
Nausea un prodotto di genere e allo stesso
tempo buone canzoni. Non si inventa nulla, ma
non è comunque cosa da poco.
6.9/10
109
A g o s t o
/
L u g l i o
110
È un disco sobrio che punta tutto sulle texture,
questo decimo album di David Gray. Nessun
singolo “ovvio” trova posto in scaletta, al contrario di quanto era accaduto con gli earworm
The One I Love e You’re The World To Me in
altre occasioni. Nessun instant classic controbilancia il peso di tanto materiale così introspettivo. Come nell’ultimo Ghost Stories di Chris
Martin e soci, è palese il desiderio di tornare
alle origini e al tempo stesso di suonare in sintonia con il presente (non si sa mai che qualche
fan degli Elbow o degli XX, tanto per fare due
nomi, finisca nella rete da pesca). Innegabile
l’eleganza di Last Summer e di Cake And Eat It,
che riporta al Gray pre-White Ladder (poco
frequentato, ma da riscoprire); Girl Like You
è invece l’unico possibile aggancio all’era di
A New Day At Midnight, mentre nulla ha la
“maestosità” che contraddistingue Life In Slow
Motion. Ma forse non è neppure un male.
L’intento di non incidere un disco uguale ai
precedenti è parzialmente riuscito: Barlow ha
fatto bene il proprio dovere, si nota una scrittura finalmente più agile dopo qualche anno in
cui David si è sentito bloccato e incerto sulla
strada da seguire, e c’è più di un brano memorabile – il che, per un disco di rilancio, di certo
non guasta. Attenzione, però, perché la tendenza al monocolore e allo sbadiglio facile è ancora
in agguato: un fuoriclasse può e si deve osare di
più. La direzione è quella giusta, ma la risalita è
appena all’inizio.
6.4/10
Alessandro Liccardo
Death Grips - niggas on the moon
(Autoprodotto,2014)
Genere: hiphop
È sempre una questione di dualismi, coi Death
Grips. Ci sono o ci fanno? Sono sinceri o dei
maestri furbi della visibilità? E le loro scelte,
se sono così concettuali e votate al caos, come
r e c e n s i o n i
quell’interpretazione intensa, perfetta nella
sua imperfezione, cui avremmo creduto con
le lacrime agli occhi anche se ci stava raccontando una bugia clamorosa. In un certo senso
era la nuova Twist In My Sobriety, si ripeteva
la stessa strana magia dell’indimenticabile hit
della giovane Tanita Tikaram, con quella voce
profonda e androgina e l’ardita scelta dell’oboe
al centro della scena durante il ritornello.
Ma il pubblico dopo tanto amore ti scarica
con una velocità sorprendente, specie se la tua
discografia è macchiata da qualche album di
troppo che rivela stanchezza e carenza di idee
(Everybody’s Angel ed Eleven Kinds of Loneliness per la Tikaram, gli ultimi Draw The
Line e soprattutto Foundling per Gray). Arriva
il colpo di coda che non ti aspetti, a un certo
punto, perché si matura, ci si lecca le ferite e
si prova a lavorare in modo diverso con gente
diversa, ma i più distratti hanno la testa altrove e rischiano di non accorgersene neppure.
David ha imparato di sicuro qualche lezione,
nei quattro anni che separano Mutineers dal
farraginoso e incompiuto predecessore, e ha
scelto di avere in sala d’incisione un produttore
stimolante ma severo come Andy Barlow dei
Lamb: arrivato in studio con una trentina di
brani, si è ritrovato a scegliere pazientemente
dal lotto gli undici più convincenti per entrambi. Lontani sono gli arrangiamenti rigonfi
di Draw The Line: qui c’è solo ciò che serve.
Torna l’elettronica, certo, ma non è affatto la
protagonista. Torna la poesia – talvolta involuta
e impenetrabile, ad esempio in Snow in Vegas –
che nasce dai piccoli gesti, dalle piccole storie
di tutti i giorni, dal semplice contatto con la
natura (ben tre brani sono dedicati a uccelli: As
the Crow Flies, la splendida Birds of the High
Arctic e il bel finale con la boniveriana Gulls,
la prima canzone lanciata via YouTube ad aprile) in grado di scatenare profonde riflessioni
sulla vita.
A g o s t o
r e c e n s i o n i
/
co termine di paragone è il passato stesso del
gruppo.
E proprio rispetto al passato, infatti, il groove elettronico è maggiormente spezzettato in
mille rivoli, meno corposo e unitario. Voce e
suoni danno vita a pattern non più sloganistici
(un brano come I’ve Seen Footage qui è praticamente inconcepibile), ma ciò non impedisce
ai pezzi, anche se più oscuri e meno caciaroni
(Big Dipper), di essere efficaci, immersi in architetture spesso ipnotiche. Ovviamente non si
cerca l’intellettualismo concettuale, non si tratta di un pranzo di gala avanguardistico: qui l’obiettivo è il divertimento, magari trash e sporco
quanto si vuole, ma comunque intelligente. In
questo i Death Grips fanno bene il loro lavoro,
pur non rivoluzionando nel profondo il suono
né esarcerbando la loro attitudine da cattivi.
Al di là di tutto il far parlare di sé, al di là delle
scelte bizzarre, al di là di una certa disomogeneità di fondo (che però è minore rispetto al
passato), la sostanza – seppur folle – c’è ancora, come anche la voglia di rischiare. Occorre
ora semplicemente aspettare la fine dell’anno
per il gemello, Jenny Death, parte seconda di
The Powers That B, sperando che si tratti di
un rilancio verso altri lidi e non, magari, di un
semplice esercizio speculare a questo.
6.5/10
L u g l i o
fanno poi a tradursi in una musica così fisica,
concreta? D’altronde, quando in organico c’è
un ex-Hella come Zach Hill, la sorpresa sarebbe semmai un percorso lineare, e già negli
scorsi anni la band ha dimostrato di non essere
fatta per la routine. Qui le decisioni storte sono
due: la prima è quella di presentare solo la
prima parte di The Powers That B, disco che
vedrà la luce alla fine dell’anno. È un’operazione che semplicemente conferma il divertimento del gruppo a mettere i bastoni tra le oliate
ruote dell’industria discografica. La seconda è
la presenza di Björk, un nome che non è certo
il primo a venire in mente pensando a possibili
compagni di merende per i Death Grips (pur
ricordandosi che i due universi musicali erano venuti già in contatto per alcuni remix di
Biophilia) e che non ha mancato di segnalare il
suo entusiasmo per la collaborazione al progetto.
La voce di Björk è una presenza prevalentemente pleonastica, che viene usata come contrappunto ritmico inserito in uno schema che
proprio del ritmo fa la sua dote principale. La
parte hip hop c’è sempre, a partire dal groove fino al fatto che MC Ride spande sempre
il suo flow stridente: solo che questi elementi
sono stati inseriti (come già in Government
Plates) in un percorso in cui le componenti
grime, footwork e techno ora sono più presenti.
Occorre capirsi sull’uso di questi ingredienti:
nonostante non ci si trovi di fronte ad un passo
avanti che scompigli la formula, la povertà
sonora voluta dal trio riesce a coagulare queste istanze in momenti comunque omogenei
come Say Hey Kid, un pezzo che pare adatto a
una seduta in palestra per ex fan dei Prodigy.
È musica fisica, ma con meno impatto rispetto
ai passi precedenti. Anche per questo, trovare
dei referenti nel presente pare esercizio sterile
per capire l’universo Death Grips: con questa
smaterializzazione parziale del suono, l’uni-
Andrea Macrì
Die Antwoord - Donker Mag (Zef
Records,2014)
Genere: rap, hiphop
L’unica cosa positiva di questo terzo disco dei
sudafricani è il campionamento da Ageispolis
(su Selected Ambient Works 85-92) di Aphex
Twin, già citato come fonte in molti video,
posizionato guarda caso all’inizio del disco
(Ugly Boy). Il trucco è furbo e funzionale, tanto
più che AFX è un nome che Skrillex ha spesso
fatto notare ai suoi fan. Guardando al resto, che
111
/
L u g l i o
Genere: pop, elettronica
In un singolo del 2013 intitolato Boreal Remixes, alla traccia principale venivano accostati dei remix di Blood Diamonds, Brillz, Phantoms,
Daedalus e Teebs. Ascoltando quei brani, si intuiva che il passaggio
dall’esordio omonimo a questo sophomore sarebbe stato forse influenzato da bassi più pesanti, da accordi estatici che avrebbero richiamato lo
stupore pop sublimato da Enya, e che sarebbero state utilizzate percussioni à la Four Tet, quella sorta di strumento tipico dell’elettronica degli
anni Dieci caldo ma non troppo, utile ad alzare le frequenze medie e a far
scaldare gli animi, e usatissimo infatti nella parentesi glo anche da Toro Y Moi. Per finire, potevamo ipotizzare che ci sarebbe stata qualche battuta hip-hop in slow motion e qualche ripetizione
minimalista à la Gold Panda. Tutte cose che negli ultimi anni avevamo sentito nelle produzioni
Cascine (Jensen Sportag, Chad Valley e altri più o meno sconosciuti), sui brani dei Braids, o nel
folk illuminato di artisti del calibro di Julia Holter o altri della cricca Domino.
Il suono del gruppo di Gainesville, Florida, è caratterizzato dal ritorno di un’estetica che assomiglia molto alle prime cose di Björk, un pop che per strumentazione si adatta benissimo sia al
remix/dancefloor, che alla meditazione e al songwriting. Come a dire (il parallelo d’obbligo è con
l’album Debut dell’islandese): anche qui il tappeto compositivo può essere preso e rivoltato secondo le mode del momento (nel Thistle EP del 2012 una traccia più o meno a cappella con qualche percussione in ostinato è stata rivista da nomi eterogenei: AraabMuzik, Tokimonsta e altri).
Il passaggio dall’esordio è quindi stato modellato su una consapevolezza che va di pari passo con
lo zeitgeist musicale indie-pop contemporaneo. Nel primo singolo Cavity ci sono ancora i richiami alla già citata Björk, ma con quella spocchia un po’ hipster che, se vogliamo, è anche farina
del sacco di Lana Del Rey. Il secondo singolo Nowhere è invece pura percussività tribalistica
che starebbe bene in uno strano mix vocale di Sade, Four Tet, Damon Albarn e i Police. Proseguendo troviamo poi cori a cappella che fanno meglio dei Fleet Foxes (l’opener Show Me Love) e
una frontman femminile. La figura della cantante che gestisce la band è per certi versi passata di
moda in molti gruppi di oggi; le cantanti fanno infatti band-a-sè, vedi ancora Lana, Lorde o Miley
Cyrus, per dirne tre. Anni fa invece ci potevano essere i Lali Puna, gli Stereolab, i Broadcast o
ancora più indietro i Cocteau Twins. Il sentimento femminile nel suono degli Hundred Waters
torna su quei passi ed è una cosa intima, che riscatta in un lunghissimo attimo il femminile “buono”, quello che va contro le inutili pose finto incazzate (M.I.A.) e gli show sexy del twerking più
becero (Iggy Azalea, Miley Cyrus e compagnia sculettante).
Questo è il pop che (come direbbe Nanni Moretti) ci meritiamo oggi. Un disco che ingloba la
lezione di Alt-J e xx vari (per la malinconia), ci mette una tonnellata di effetti nu-soul (Cavity),
ma taglia tutto anche con una solida base disco sperimentale (Radiohead-meets-Brian Eno in No
Sound), cineserie Björk (Out Alee, [Animal]), qualche tocco electro (il disco esce infatti sulla label
di Skrillex), vocalizzi pop à la Coldplay (brividi per gli acuti di Chambers) e ovviamente intimismi James Blake (Broken Blue).
112
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Hundred Waters - The Moon Rang Like a Bell (Owsla,2014)
L’eredità post-millennial, che non sembra essere stata portata avanti da nessuno dei gruppi caduti
prima del 2010 (vedi la sostanziale perdita di significatività dei vari Klaxons, Clap Your Hands
Say Yeah, Akron/Family, etc.), viene sintetizzata mirabilmente dal digit-rock-folk degli Hundred
Waters. I nuovi Arcade Fire? Verrebbe da dire di sì.
Quello che deve accadere, accade, dicevano Ferretti e Zamboni. E allora eccoci qui: nessuno aveva
pubblicato un disco pop “così giusto nel momento giusto”, un riassunto di tutto quello che ci siamo detti negli ultimi (quasi) tre lustri e che doveva essere rimescolato a puntino (i Dirty Projectors ci sono arrivati a un pelo, ma non hanno le potenzialità pop di questo combo). Disco dell’anno tout court per chi scrive. Grazie ragazzi, ora potete anche sciogliervi, il capolavoro l’avete già
scritto. Da brivido.
8/10
Marco Braggion
A g o s t o
miottamento della stagione rave (la titletrack),
andando a parare su un’ambient che si salva in
corner. Speriamo che “La risposta” (questa la
traduzione del moniker) arrivi da questo binario nel prossimo futuro; comunque, Donker
Mag resta uno dei peggiori dischi dell’anno.
4/10
/
dovrebbe essere farina del proprio sacco, ci si
trova di fronte alla solita alternanza di vocina
e rappato, con tagli crossover (sonorità che
sarebbero state bene qualche anno fa nei dischi
di Limp Bizkit e giro nu-metal) e qualche citazione di Eminem (Rat Trap 666 con DJ Muggs
dei Cypress Hill).
Nel precedente Ten$ion c’era un po’ di spocchia, qualche richiamo ai Novanta e campioni
decenti che davano al tutto una parvenza di
freschezza. Qui manca pure il guizzo e raschiando il barile rimane pochissimo, se non
una lunga teoria di “fuck, fuck, fuck” che non
risolve nulla. Offese a profusione utili a sedare
la rabbia dei tardo-adolescenti ‘pseudo-contro’-tutto. Un plagio sì curato nella produzione,
ma in ultima analisi subdolo, troppo artefatto,
troppo finto.
Qualche trick chip-tune, strizzate d’occhio,
ammiccanti e post-tutto che svelano in realtà
un nulla dilagante (baratro del post-moderno?).
La voce della cantante ricorda i Pizzicato Five,
ma dopo qualche minuto è già bollita. L’idea
del post-rave che copia male i Prodigy (Happy
Go Sucky Fucky) non tiene. Le ultime canzoni
propongono una via di fuga da questo scim-
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Marco Braggion
Embrace - Embrace (Cooking Vinyl
UK,2014)
Genere: pop, brit
Figli di un dio brit-pop minore. Per anni gli
Embrace sono stati considerati epigoni smorzati di gente ben più blasonata – leggi Oasis,
The Verve e Coldplay su tutti. E infatti proprio al santo Chris Martin i fratelli McNamara
si sono in passato votati proprio per cercare di
massimizzare i benefici dati dalle loro tipiche
ballatone strappalacrime si, ma con i muscoli.
Niente. Il risultato è stato un silenzio di ben
otto anni al termine del quale la band di Leeds
torna con un disco, il sesto in carriera e omonimo, che la vede decisamente rinnovata tanto
nelle sonorità quanto nell’approccio all’arrangiamento e alla vocalità. Nonostante la scrittu-
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/
L u g l i o
Genere: avant, blues, vecesola
Solito trafficare con ambienti sonori più estremi – vedi alla voce split con
Merzbow, Maurizio Bianchi e K.K. Null, se si parla del Cris X in solo, oppure
la purtroppo estinta esperienza Lendormin, di cui si recupera velatamente
l’atteggiamento sperimentale in ambiti “jazz” –, il romano Cristiano Luciani
annulla le distanze con l’amato Giappone e torna in coppia con la cantante
e performer Keiko Higuchi. Registrato in modalità impro nel lontano 2010 e rodato live nel Sol
Levante nella primavera scorsa, Melt sembra giocarsi sul filo dell’incontro/scontro tra personalità, background e sentire musicale. In questo senso i due, nel tentativo di fondere appieno i propri
percorsi musicali, si “scambiano”, rivisitandoli, anche scampoli dei propri passati: una Sister presente in forme diverse nell’ultimo lavoro della Higuchi, (Ephemeral As Petals, Utech 2013) con
proprio Luciani alla batteria e synth; una In Obscurity tratta dallo split citato con Merzbow in cui
canto e piano sono ed erano della giapponese.
E su quei canovacci labili, su quell’annusarsi elegiacamente nel tentativo di trovare una via di fuga
ad una poetica comune, si posiziona l’intero Melt: voce e pochi, calibrati ed evocativi rintocchi
di piano per Keiko, elettronica, field recordings, samples, una slide-guitar per Cris; pochi, essenziali elementi che riescono a creare paesaggi sonori di notevole intensità e profondità, innervati
da una fusione sublime tra i due (il lavoro di Cris X è magistrale nel “seguire” la collega, cucendole addosso frattali sonori ad ampio spettro: ambient, noise, glitch, ecc.) e mossi da una passione
molto equilibrata, diafana per certi versi e fortemente “nippo” (e qui è Keiko a guidare quasi in
maniera “zen” gli sviluppi sonori). Roba che non deraglia, insomma, nemmeno nei momenti più
accesi – una Sister/You Left Me So Insane in cui Keiko se la gioca alla pari con la Diamanda Galas
meno ferina – così come in quelli più intensi e desertici – la conclusiva, immaginifica Melt: blues
per sottrazione, estasi per macerazione – ma mantiene sempre la barra dritta, verso una sorta di
“blues” catatonico o catacombale, fatto di sospiri e soffi, penombre e interstizi, assenze e fruscii
(l’iniziale Ceaseless/Do You Care? è paradigmatica per certi versi) in cui la dimensione onirica
prende spesso il sopravvento senza risultare “già nota”.
Un lavoro pregevolissimo, dunque, in grado di costruire atmosfere evocative e suggestioni oscure e
fiammeggianti, proprio come nella bellissima cover.
7.5/10
Stefano Pifferi
ra dei brani resti fortemente ancorata al passato, a cambiare è proprio l’impalcatura sonica
dell’intera produzione: tastiere ed elettronica si
mischiano ora alle chitarre elettriche, mentre
una solidissima sezione ritmica picchia duro e
costante durante gran parte dei pezzi.
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Le novità non sono finite, perché con questo
nuovo album fa il suo ingresso alla voce principale di alcuni brani il fratello dello storico
frontman Danny McNamara, vale a dire il
chitarrista Richard; a differenza della riconoscibilissima voce nasale del primo irrompe qui
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Cris X - Melt (Musik Atlach,2014)
Genere: folk
Da dove cominciare per parlare di Stay Gold,
r e c e n s i o n i
A g o s t o
First Aid Kit - Stay Gold (Columbia
Records,2014)
/
Stefano De Stefano
terzo album delle First Aid Kit? Intanto,
occorre precisare che nulla è cambiato dall’ultimo disco The Lion’s Roar, e nemmeno dal
debutto The Big Black And The Blue, se non
l’etichetta discografica: stavolta è la Columbia
ad accompagnare l’uscita del nuovo lavoro delle sorelle di Enskede, sintomo, probabilmente,
della volontà di voler raggiungere una fetta di
pubblico ancora più ampia di quella già acquisita. Dunque, lasciata per sempre la “piccola”
Wichita, le fatine scandinave del folk-pop di
nuova generazione si preparano alla conquista
di una parte di mercato che guarda appunto
agli stilemi del pop da classifica, sempre però
caratterizzato dalla matrice acustica e vocale
propria dei Fleet Foxes.
Il quintetto di Seattle è ancora una prolificissima fonte di ispirazione per Johanna e Klara
Söderberg, che senza rinunciare alle radici
country/folk (ancora presenti, anche se in
misura minore, modelli femminili quali Emmylou Harris, Dolly Parton, Joni Mitchell),
presentano adesso una maggiore americanizzazione degli orizzonti musicali: seppelliti il
fingerpicking e gli affreschi bucolici del folk
britannico, sembra infatti che le First Aid Kit
siano venute in contatto col rock in aria Jefferson Airplane e Fleetwood Mac. Così, a cominciare dalla prima traccia e singolo di lancio,
My Silver Lining – e pure dalla copertina: non
più i boschi di The Lion’s Roar, ma un cielo
desertico a far da sfondo a delle novelle Grace
Slick –, arrivano con un nuovo (si fa per dire)
immaginario woodstockiano che ti rimane in
testa al primo ascolto. Una formula neo-hippy
presente anche nella successiva Master Pretender, altro pezzo che, sempre costruito sulle
armonie vocali ormai marchio di fabbrica delle
sorelle, sottolinea la facilità con cui tutti i brani
di Stay Gold intercettano l’orecchio dell’ascoltatore al primo tentativo.
Dunque, non parliamo di un brutto disco, per lo
L u g l i o
il timbro cristallino, limpido, del secondo, su
un registro discretamente alto. Fa sensazione
che il primo singolo estratto sia proprio Refugees, un pezzo cantato con tanto di vocoder da
Richard e inframmezzato dalla voce di Danny
solo nel finale, dove è da notare la spudorata
virata verso i Coldplay di Viva La Vida. A volte
le due voci si sovrappongono di un’ottava e l’effetto è decisamente efficace, data anche la natura super dance e power pop di alcuni pezzi; è
il caso del secondo singolo estratto, Follow You
Home, dove un’energica cassa a terra scandisce il tempo di un ritornello killer fatto di cori
subito riconoscibili.
Cosa resta dei vecchi Embrace? Ballate come
At Once di ashcroftiana memoria e una I Run
dove la voce grave di McNamara regala il ricordo delle loro prime produzioni avvicinandoli al
contempo ad attuali giganti come gli Snow Patrol di Gary Lightbody (che oggi sembra essere
il principale riferimento). Pop da stadio, epico,
corale, muscoloso e tendente a una dimensione
dance rock (fantastico il brano Quarters, tra
Snow Patrol, Infadels e The Servant); resta
il gusto per la melodia che è da sempre una caratteristica fondante degli Embrace. Otto anni
sono serviti per riposizionarsi bene su un mercato rock che oggi propone grosse e antemiche
produzioni fatte di melodie di forte impatto
emotivo e sonoro: apprezzabile la voglia di
rinnovarsi, anche se a conti e ascolti fatti si potrebbe tranquillamente dire che i Nostri hanno
estremizzato il discorso che avevano iniziato
con il precedente This New Day. Ci volevano
otto anni per farlo?
6.7/10
115
/
L u g l i o
Genere: drone, industrial, noise, electro
Torna sul luogo del delitto Mai Mai Mai, nel bel mezzo dell’(immaginario) Mar Egeo, ed è di nuovo un viaggio nei meandri più
disturbanti dell’elettronica bastarda di questi tempi. Se Theta ci aveva
mostrato la via, Delta approfondisce il discorso di un percorso senza
spazio né tempo in una dimensione “altra” fatta di cupe dissolvenze alla
Demdike Stare – e di conseguenza, library music italiana dei 60s e 70s
– beat minacciosi e atmosfere cupe da hauntology de noantri, textures
minimali e droni possenti e circolari, ambient malsana che spesso vira verso lidi dark: il tutto messo al servizio di un fluire musicale per flutti e ondate, quasi a voler rimarcare ancora il legame col
mare nostrum.
Le ospitate di Donato Epiro, Gianni Giublena Rosacroce e Piovs a organi, clarinetti e moog arricchiscono un programma di per sé allettante, tra esoterismo di ritorno (per approccio, sembrano
tornare a galla esperienze borderline come T.A.G.C.) su cui spuntano ipotesi di casse dritte affogate nel rumore (Euphróne), dilatazioni da droning chiesastico (Byzàntion), astrazioni da noise
(quasi) concreto (Tetraktys). Menzione speciale per la conclusiva Phuge: oscuro fluire di droni in
libertà nella prima metà ed esplosione ritualistica circolare che rimanda alla dark-ambient ipnotica e “etno” di certi passaggi di Deutsch Nepal o ad alcune atmosfere alla The Moon Lay Hidden
Beneath A Cloud: come dire, paganesimo, occultismo, “naturalismo”, elettronica, droning e molto
altro ancora in una traccia sola.
Il naufragar, si sarà capito, è dolce in questo mare.
7/10
Stefano Pifferi
meno non nel senso letterale del termine: procedendo con l’ascolto, infatti, ad esempio con la
title-track (un semi plagio di Rumours), o con
la super ballad Cedar Lane, si capisce che l’obiettivo dell’album è stato raggiunto. Canzoni
ultra orecchiabili, voci impeccabili, una retorica buona e a tratti moralista volta a distanziarsi
da ragazzacce come Miley e Rihanna: giovani
e carine, ma tutt’altro che ingenue, le First Aid
Kit hanno trovato una nicchia che prima di
loro non era ancora stata occupata nel mondo
del mainstream, e che con Stay Gold mostrano
ancora una volta di saper sfruttare appieno.
In altre parole, è lo stereotipo di due ragazze
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sinceramente amanti di una musica nostalgica, passata e retromaniaca, tuttavia ripulita da
ogni eccesso (di una Janis Joplin o Courtney
Love, per dire, non c’è nemmeno l’ombra), con
modelli votati a costruire un’immagine pulita e
mai sopra le righe. È un gioco di opposti in cui
si condanna, anche se non apertamente, l’iper
sessualizzazione del pop da classifica (risale
giusto al mese scorso la polemica suscitata da
Theresa Wayman, voce e chitarra delle Warpaint, contro Beyoncé e la già citata Rihanna),
a cui contrapporre abilmente – e non potrebbe
esserci davvero nulla di meglio – due facce
d’angelo “che si sono fatte da sé”: come non
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Mai Mai Mai - Delta (Yerevan Tapes,2014)
Genere: pop, cantautori, folk
Non è un caso che da queste parti la pagina
album dell’EP Did You Hear The Rain? sia
la terza più visualizzata dell’anno, tra le visite
provenienti da motori di ricerca: il bristoliano
George Ezra è stato un fulmine al ciel sereno,
protagonista assoluto dei palinsesti radiofonici
r e c e n s i o n i
A g o s t o
George Ezra - Wanted On Voyage
(Columbia Records,2014)
/
Giulia Antelli
in madrepatria, in tutta l’area mitteleuropea e
dalle nostre parti grazie al singolo Budapest (lo
scorso anno inserito all’interno della playlist
Tracks from EPs 2013), ad oggi uno dei dieci
singoli più scaricati nel 2014 in Italia.
Quello di George Ezra (già tra i candidati del
BBC Sound of 2014 e in curriculum un Glastonbury davanti a qualche migliaio di teste)
è il classico nome che rischia – come quello di
Vance Joy – di trasformarsi in un one hit wonder ancora prima della pubbicazione dell’album di debutto, Wanted on Voyage. Questo
sospetto non deriva tanto dagli scarsi risultati
del secondo EP Cassy O‘ (era infatti evidente
la sua natura di tappabuchi in attesa dell’esordio lungo), quanto dalla quasi-certezza del
fatto che difficilmente il giovane inglese riuscirà a ripetere i risultati di Budapest. Lungo le
dodici tracce – sedici nella versione deluxe – in
parte provenienti dagli EP (e influenzate da un
viaggio tra le grandi città europee), nonostante
la continua ricerca della melodia radiofonica, è
infatti difficile individuare una possibile Budapest-bis. L’iniziale Blame It On Me lo è, ma solo
nelle intenzioni.
Poco male, abbiamo comunque piacevoli filastrocche rese vivide dal variegato timbro di
George – in grado di spostarsi senza fatica dalle
tonalità più basse agli pseudo-ululati, passando
ad altezza Caleb Followill – che accompagna
atmosfere dal sapore americano provenienti
direttamente dal Delta-blues, dal gospel e dal
vecchio folk variegato roots-rock seguendo in
un certo senso il revivalismo (maggiormente
folk) di Edward Sharpe and the Magnetic
Zeros, dell’ultimo (prevalentemente soul) Paolo Nutini o dell’astro nascente (blues-oriented)
Hozier. Nascono motivetti da fischiettare in
situazioni bucoliche – Cassy O’ in cui si impone
come un moderno Lonnie Donegan – che si
alternano in modo funzionale a sing-along in
solitaria ai margini della palude (Barcelona).
L u g l i o
ricordare, a questo proposito, il boom internettaro generato dalla cover di Tiger Mountain
Peasant dei Fleet Foxes? Una band che, per
prima in questi anni Zero, ha riportato in auge
gli archetipi della pace pastorale e della grazia
acustica, attraverso (anche) un’immagine lontanissima dai soliti cliché del “maledettismo”
rock.
A ribadire il loro fascino di lolite nella forma ma non nella sostanza, c’è infine il brano
Waitress Song: la storia (già splendidamente
raccontata, anche se in termini ed esiti diversi,
da Townes Van Zandt in Tecumseh Valley)
della fanciulla alla dura scoperta del mondo,
alle prese con le difficoltà dell’età adulta e più
in generale della vita, dove spicca un verso –
girls, they just want to have fun, and the rest of
us hardly know who we are – che sintetizza al
meglio quanto elencato fino a qui. Johanna e
Klara sono cresciute e sono diventate delle piccole donne del pop, senza però aver perso una
grammo di quella dolce innocenza che le rende
due insopportabili angioletti.
Chi le ha amate fino ad ora non farà nessuna
fatica ad apprezzare Stay Gold, né, immaginiamo, mancheranno nuovi proseliti. Ma oltre l’interpretazione, seppur ottima, di buone canzoni
pop, di folk non è rimasto (o, probabilmente,
non c’è mai stato) nulla, se non forse le impervie foreste svedesi.
6.2/10
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A g o s t o
/
L u g l i o
Riccardo Zagaglia
Ghemon - Orchidee (Macro Beats,2014)
Genere: rap
Per chi non conoscesse Ghemon riassumiamo
in pochi aggettivi la persona: sincero, coscienzioso e ambizioso. Questi tre aggettivi, che
potrebbero far sorridere il lettore alla ricerca di
caratteristiche più ambigue, rappresentano in
maniera abbastanza verosimile il percorso artistico di un rapper che fin dal primo momento si
è schierato in posizione antitetica a molte delle
tendenze dell’hip hop nostrano, pur rimanendo
fedele ai capisaldi di questa cultura.
La grande ambizione di Ghemon lo ha spesso
portato, a volte con un atteggiamento che ha
provocato in alcuni una certa irritazione, a ribadire questa distanza dalle suddette tendenze.
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Orbene, in Orchidee, la sua ultima fatica, non
succede. Siamo dunque di fronte a un disco
che costituisce una tappa importantissima per
il lungo percorso di Ghemon (sono 15 anni che
il Nostro gira da solo, e se si considera anche il
lavoro fatto con i Sangamaro le candeline sulla
torta aumentano). Ovviamente l’elemento che
colpisce subito è la sfida che ogni rapper maturo e ambizioso prima o poi si pone: il canto e
gli strumenti. Pur non essendo un disco interamente orientato al cantato (chi ha pensato a
un passo à la Neffa è in errore, il taglio con la
cultura hip hop che caratterizzò il “tradimento” del Pellino non è qualcosa di ravvisabile
in Ghemon), l’album è infatti caratterizzato
da preziosi arrangiamenti e da un suono che
strizza l’occhio al soul del passato (basta dare
un’occhiata a chi suona, troverete almeno tre
elementi dei Calibro 35, un progetto che con il
passato ha un rapporto che è eufemistico definire di continuità), e al contempo non disdegna
di strizzare l’occhio al cosiddetto nu soul (ovviamente declinato in chiave rap), incrociando
in maniera assai personale il percorso di artisti
come Mos Def, i The Roots o anche Phonte
(da solista, senza i Foreign Exchange).
Buona musica e produzione ottima, dunque,
con all’interno persone la cui professionalità
è fuori discussione (si veda Enrico Gabrielli, ma non dimentichiamo il buon Kikke dei
Casino Royale o Rodrigo D’Erasmo, violino
familiare a chi ha seguito gli Afterhours negli
ultimi anni), e la parola d’ordine assoluta è
ELEGANZA. I casi di eccellenza, nello specifico, sono l’ottima Da Lei (con lo scudo e
la spada) - prodotta inzialmente dallo stesso
Ghemon con Fid Mella, e poi successivamente
riarrangiata – così come Il Mostro (bellissimo l’arrangiamento nel ritornello), e funziona
anche il singolo Adesso sono qui. Non che le
altre tracce siano da meno, ma sfortunatamente
la ricerca di omogeneità tra i vari brani va fin
r e c e n s i o n i
Il songwriting di George fa leva su una sottile
ironia dei testi che ben si sposa con le atmosfere spensierate del disco figlie di una proposta
tutto sommato coerente, difficile da inquadrare freddamente in qualche attuale macromovimento di facile mercificazione, a parte
qualche sporadica incursione nella Age of Folk
Prostitution. Meno in linea con il resto della
produzione – ma comunque nel complesso
discretamente riuscite – la conclusiva Spectacular Rival (tra la murder ballad e i Crash
Test Dummies), una Did You Hear the Rain?
impregnata di una apprezzabile tensione di
fondo e Stand By Your Gun, uptempo dai colori
pop-funk.
Wanted on Voyage è quindi il convincente
risultato di un ovvio compromesso tra qualità
che nascondono un buon potenziale compositivo e necessità commerciali confermate anche
dalle tre tappe-vetrina italiane di fine luglio
come spalla dei Bastille, con i quali il Nostro
non condivide assolutamente nulla a livello
stilistico.
6.3/10
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A g o s t o
Genere: house
Martyn, ovvero l’olandese Martijn Deykers di stanza a Washington, è
sempre stato uno attento ai venti più freschi del sottobosco elettronico.
Non fa eccezione questo The Air Between Words, album pubblicato sul
Ninja Tune a tre anni dal precedente lavoro lungo Ghost People edito
dalla Brainfeeder di Flying Lotus. Nell’ultimo disco il producer abbandonava le ritmiche dubstep abbracciando UK Funky e false memories
sottoforma di prima house e techno (versante Carl Craig ma non solo),
mentre qui, in quest’album con un titolo che fa molto Brian Eno, si viaggia con la solita calda ed impeccabile produzione, continuando il lavoro sui menzionati bastioni e
aggiungendo alcune freschezze che a prezzemolo anche altri “sgamati” produttori hanno aggiunto
ai loro intingoli (Hercules Love Affaire, per far un nome). Parliamo di una rinnovata voglia acid
che riprende tanto Luke Vibert quanto Last Step (e indietro Sweet Exorcist e LFO), magari intersecata con booty dance e drum machine molto ghetto dalla serie Dance Mania e Trax (Two Leads
and a Computer), tanto amore per la deep, breakbeat (Forgiveness Step 2), il tutto infiorettato da
vaporose visioni synth e richiami warpisti stagliati con la solita mano ferma, tutti elementi con i
quali l’olandese lavora almeno dal 2007.
Il disco non stacca così nettamente come l’esordio Great Lenghts si discostò dal successivo
Ghost People, anzi, è un lavoro in continuità con quest’ultimo dove non mancano le bombe (fate
ascoltare Like That a Scuba o Empty Mind ai Disclosure) e non si perde di vista la coerenza richiesta dal formato album. Le ospitate – Four Tet in Glassbeadgames che mette la firma melodica, la
funzionale Inga Copeland (non pensate a Because I’m Worth It) in Love of Pleasure, vanno intese
come joint venture strategiche, ovvero, non spostano il baricentro da una tracklist robusta e generosa, dai tocchi anche jazzy e con una chiusura melanconica – ma uplifting – in perfetto stile
Martyn (Fashion Skater).
7.3/10
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Martyn - The Air Between Words (Ninja Tune,2014)
Edoardo Bridda
troppo a buon fine , livellando eccessivamente
le differenze. Quello che ogni tanto sembra un
po’ mancare è l’amalgama di beat e voce, nel
senso che pur essendo entrambi ad alto livello, in alcuni casi capita che si perda questo o
quell’aspetto, spesso per eccessivo accumulo di
elementi suonati (questo succede soprattutto
nei ritornelli, a dire il vero, mentre il rap riesce
sempre a rimanere in primo piano, grazie a una
preponderanza dell’aspetto ritmico durante le
strofe): un esempio in questo senso è offerto da
Tutto Sbagliato, potenzialmente ottima e invece soltanto gradevole.
Musica a parte, bisogna soffermarsi, prima di
passare al punto di forza del disco, sull’aspetto
più claudicante di Orchidee: il cantato. Intendiamoci, sono in tanti a non cantare benissimo,
è dai tempi di Battisti che il bel canto non è una
necessità, e infatti il problema è nel come: l’approccio al canto è un po’ troppo serioso e, pur
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L u g l i o
Genere: pop, rock
Chi ha avuto la fortuna di leggere (in inglese, of course, dal momento che
l’editoria italiana ancora non ci ha fatto questa grazia) Autobiography di
Morrissey, non ha impiegato molto ad immaginare il piccolo Steven Patrick, rinchiuso nella stanzetta di Manchester ad ascoltare i gruppi punk,
glam, camp, leggere di musica, NME, Melody Maker, la beat generation,
guardare soap alla Coronation Street insieme all’amata madre (che, a
quanto pare, ha quasi ucciso alla nascita, perché la sua testa era troppo
grande). Lo ha immaginato perpetuare questo gesto a lungo e, magari, in una possibile ucronia,
per sempre, come forse lui stesso avrebbe voluto… una vita a scrivere poesie, prosa o articoli giornalistici.
Sarebbe successo se… Johnny Marr non avesse bussato quel giorno alla porta del 384 di Kings
Road. Morrissey è diventato uno dei più grandi parolieri pop della canzone, un giocoliere acuto,
severo ed estremamente (auto)ironico, anche grazie a Marr. Lo è stato e lo è da The Smiths a
World Peace Is None Of Your Business, senza discussioni. Ma, tanto per toglierci le banalità di
torno, non avrà mai nessuna spalla all’altezza dell’ex chitarrista degli Smiths, né con Viva Hate
né con World Peace Is None Of Your Business. Onore dunque a Boz Boorer e combriccola che,
in questa difficile impresa, sono riusciti a sostenere l’estro di una grande, importantissima metà
artistica, non solo con qualità chitarristica di altissimo livello, ma anche con una cura meticolosa
per arrangiamenti orchestrali, variegati e trasversali.
Il nuovo album di Morrissey si pone, dal punto di vista dell’ispirazione, alle soglie di un’esperienza gratificante a livello creativo e remunerativo (dato che si è classificato best seller in un battibaleno): la prosa autobiografica. Nessuno aveva dubbi sulle peculiarità di scrittore di Morrissey, ma
l’accoglienza positiva, pressoché unanime, l’elogio delle sue qualità di prosatore, lo hanno evidentemente fatto sentire a suo agio, al punto da spingersi ad ultimare il nuovo lavoro. Il contratto,
previsto per due album, con Harvest/Capitol ne è la coronazione. Grande ottimismo, per uno che
ha dovuto annullare un terzo dei concerti previsti negli ultimi due anni e ha passato più tempo in
ospedale per problemi di salute che a casa. Ma, tant’è… forse la convalescenza ha stimolato la vena
creativa. Ma non di certo le idee di promozione, che con l’epopea degli spoken word fra Nancy
Sinatra e Pamela Anderson, non hanno granché contribuito a creare l’atmosfera adeguata. D’altronde per questo ed altri fattori, Morrissey lo si odia o lo si ama o lo si odia e lo si ama incondizionatamente.
Joe Chiccarelli, chiamato a produrre il disco e a sostituire lo scomparso Jerry Finn (che aveva
lavorato su You Are The Quarry e Years Of Refusal), è la vera sorpresa. Se You Are The Quarry aveva brani dalle melodie impeccabili e radiofonicamente fortissimi, la sua produzione non si
è dimostrata altrettanto raffinata, risultando, nel tempo, un po’ didascalica e artificiosa. Malgrado ciò, è proprio al disco del 2004 che le orecchie di tutti si indirizzeranno nell’ascoltare World
Peace; simili appaiono gli intenti, le atmosfere noir e, soprattutto, l’atteggiamento mascherato,
auto-parodistico, che proprio da quel disco avevano preso il via. Chiccarelli asseconda il nuovo
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r e c e n s i o n i
A g o s t o
Morrissey - World Peace Is None Of Your Business (Harvest,2014)
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A g o s t o
r e c e n s i o n i
L u g l i o
corso morrisseyano, che, un po’ per deviazione nevrotica, un po’ per reale interesse di frontiera, ha
portato il Nostro verso lidi latineggianti o orientaleggianti, già dai tempi di Years Of Refusal. Ma,
se nel 2009 alcune di queste idiosincrasie avevano raggiunto il limite dell’inascoltabile (One Day
Goodbye Will Be Farewell, Sorry Doesn’t Help) o dell’abominio hard che snaturava la verve dell’ex
leader degli Smiths (Something Is Squeezing My Skull, All You Need Is Me, ecc.), oggi, grazie al
sapiente lavoro di produzione, è tutto più a fuoco.
Musicalmente vario, a tratti persino audace, World Peace gioca su un triplo binario, che mette
d’accordo diversi momenti emozionali della carriera di Moz. Il primo è quello erede del nuovo
corso, un po’ più duro e maturo rispetto agli altri: contiene al suo interno la forza del rock classico
(la titletrack, Neal Cassidy Drops Dead), ma anche la potente lama delle ballate in crescendo (I’m
Not A Man, Smiler With Knife). È un binario solenne che tocca l’apice proprio in I’m Not A Man,
candidata a raccogliere l’eredità delle struggenti I Know It’s Over e Meat Is Murder, trasformandole prima in stranianti carillon impolverati, poi in anthem. Il secondo binario raccoglie le atmosfere etniche o latineggianti di cui sopra: lo fa con dedizione e cura invidiabili, ma, soprattutto
(e qui sta la differenza con i lavori precedenti), in punta di piedi, senza invadenza, sporcando di
varietà un sound che sarebbe sembrato buffo, anacronistico e didascalico (Earth Is The Loneliest
Planet, Istanbul); il terzo è la novità stilistica rispetto al disco precedente: è il ritorno alla melodia
pop più pura, che, con un sorriso in tasca, ci riporta se non ai tempi degli Smiths, almeno a quelli
di Viva Hate. Kiss Me Alot, Staircase At The University e The Bullfighter Dies incrociano i binari
citati, staccando un biglietto per l’instant classic. Resa emozionale, ballabilità, nostalgia, sorrisi
amari: c’è la ricetta del brano morrisseyano perfetto. Anche se noi, con un filo d’orgoglio, ci sciogliamo di più nei pressi di Mountjoy, ibrido di Speedway e degli episodi migliori di Ringlead Of
The Tormentors come Life Is A Pigsty.
La narrazione, d’altra parte, è, come sempre, in gran spolvero. Moz non ha perso la verve polemica e ironica, laddove qualcuno può giustamente leggere “moralista”. È quello che è, in fondo…
un vecchio brontolone, o meglio, una zia in ciabatte. Si va dal manifesto “each time you vote/you
support the process/ogni volta che votate, supportate il processo” della titletrack, che incita un
anarchismo politicizzato, se ci passate l’ossimoro, al solipsismo del teenager Steven Patrick che,
solo contro il mondo, scopre che “Earth Is The Loneliest Planet of all”. Si va dal preziosissimo
citazionismo in chiave beat generation di Neal Cassady Drops Dead, che completa il set che parte
da Cemetery Gates e arriva a You Have Killed Me, al caos delle notti d’Oriente di Istanbul, suonata con chitarra cigar-box e lap steel. Spazio anche alle amate atmosfere noir e melodrammatiche
in Staircase At The University, storia di una giovane che si uccide perché non riesce a conseguire
valutazioni positive a scuola; o in Kick The Bride Down The Aisle, ennesima velata frecciatina
al matrimonio. Torna il tema del vegetarianesimo in una pungentissima The Bullfighter Dies: “il
torero muore, ma non piange nessuno perché tutti vogliono che il toro sopravviva”. Come dargli
torto? C’è, infine, lo scherno nei confronti dei sex symbol della storia in una I’m Not A Man che
chiosa “non sono un uomo, non ucciderei o mangerei mai un animale… quindi, cosa pensi che sia?
Un uomo?”.
È difficile far entrare tutto nell’universo-Morrissey. È vero che World Peace è un disco decisa-
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mente più ispirato di molti precedenti, anche perché, chi è riuscito ad ascoltare la Deluxe Edition, ha potuto scovare altri sei grandissimi brani: da One Of Our Own, che quasi fa il verso ad
America Is Not The World del 2004 ad Art-Hounds che, fosse uscita nel 2009, sarebbe stato un
singolo al pari di I’m Throwing My Arms Around Paris. Non delude, Morrissey, e anzi, fa rivivere
la sua vena ispirata che un po’ si era afflosciata nello scorso decennio, quando, per qualche ragione sembrava che il Nostro volesse forzare la mano e “apparire ancora giovane”, quando forse noi
l’avremmo preferito robusto e maturo, come è in questo decimo album solista. Chi non lo amava,
non inizierà a farlo con World Peace (e i continui fatti di cronaca non lo aiuteranno), ma chi lo ha
sempre seguito troverà una piacevole conferma che innalza l’asticella delle prestazioni più in alto
rispetto a molti dischi precedenti.
7.4/10
/
L u g l i o
fregandonsene delle imperfezioni, non riesce
a rimanere in testa. Da semplice ascoltatore
verrebbe da dire che il problema sia a livello di
scrittura, troppo complessa in punti che quasi
impongono una maggior semplicità, i ritornelli.
Da questa “lista nera” vanno tuttavia esclusi il
singolo di cui abbiamo parlato prima e una Da
Lei che sarebbe interessante vedere su queste
traiettorie. Dulcis in fundo: il rap. Per chi non
fosse pratico di metriche e tecniche, è giusto
rivelare una verità banale: Ghemon è bravissimo a fare rap, che sia interessante o meno
la tematica trattata (in questo album il Nostro
parla principamente di tre cose, ovvero amicizia, amore e vita, ma lo fa in modo invidiabile). La cosa che stupisce di Ghemon è la sua
dimestichezza con la pause, la sua musicalità è
accostabile al miglior Q-Tip ed è una splendida
alternativa tanto al flow serrato di buona parte
dei dischi underground italiani, quanto al rap
ipertecnico dei dischi di avanguardia. Il tutto
con una precisione che non è comune.
In conclusione: il disco è ben fatto, ci sono
brani che funzionano più di altri, ma nessuno
di essi offende in alcun modo l’ascoltatore, e
il fare da crooner del rap (è un complimento)
122
di Ghemon ha forse trovato la giusta direzione ma non ancora il giusto assetto. Se da una
parte è sacrosanto complimentarsi con l’artista
per aver scelto un approccio inedito in Italia,
dall’altra è lecito sperare in un disco più incisivo nei ritornelli e in generale nel cantato, per il
prossimo futuro. Un ottimo inizio, comunque.
6.8/10
Sebastian Procaccini
Glass Animals - Zaba (Wolf Tone,2014)
Genere: pop, art, bassmusic, triphop
Non si può certo dire che i Glass Animals
siano nuovi su queste pagine, dato che abbiamo
avuto modo di seguirne l’evoluzione artistica
fin dall’EP d’esordio Leaflings, recensito sul finire del 2012, quando le informazioni disponibili sulla band di Oxford erano pressoché nulle.
Accolti come uno dei primi progetti pronti a
raccogliere l’eredità dei Wild Beasts e quella
– all’epoca ancora fresca – degli Alt-J, i Glass
Animals, dopo la pubblicazione di Leaflings,
hanno preferito frenare la foga discografica
per terminare gli studi e tornare con grande
ambizione verso la conquista – lenta e raggiunta a piccoli passi – di qualche sprazzo di una
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Nino Ciglio
Riccardo Zagaglia
GusGus - Mexico (Kompakt,2014)
A g o s t o
Genere: dance-pop, house, dance
Già con Arabian Horse avevano raggiunto
una delle più alte vette della house degli ultimi
anni. Il difficile bis non spaventa comunque i
GusGus, e anche in questo loro decimo disco
(il terzo su Kompakt) riescono a portare avanti
il loro stile personale coniugando la proposta allo zeitgeist pop-dance. Se ad un ascolto
superficiale Mexico può sembrare virato su
una diminuzione della componente “anima”
che da sempre caratterizza il suono del combo
islandese, è con l’iterazione del tasto play che
la proposta aumenta di spessore.
I pezzi sono vicini all’estetica Kompakt, a quel
modo di coniugare precisione e bassi caldi,
produzioni tedesche puntuali con la voglia
di riscaldare, come avevamo sentito qualche
tempo fa nel full length di Kölsch, 1977, e come
aveva già anticipato il remix di Crossfade di
Maceo Plex. Saranno i bassi caldi mescolati
con archi di Obnoxiously Sexual, i classici stab
in eco distorto di Another Life, l’aura nordicoMelody A.M. di Sustain e Crossfade (stupendo
anthem pop-disco per l’estate), fatto sta che
anche questa volta i GusGus dicono la loro. Si
/
r e c e n s i o n i
sue allucinazioni, Cocoa Hooves da Leaflings,
qui in versione riadattata al mood generale
del disco, e ovviamente le tre main track delle
uscite pre-Zaba (Gooey, Pools e Black Mambo,
mentre manca all’appello Psylla).
Con Zaba i Glass Animals si sono presi il
rischio – scampato, ma di poco – di risultare
leggermente ripetitivi pur di presentarsi al
mondo con un lavoro compatto, elegante ed
eccentrico al punto giusto. Più che un’inaspettata sorpresa, una conferma da un gruppo che
ha saggiamente trovato la propria – si spera
gloriosa – strada, senza rinnegare le origini.
69/10
L u g l i o
luce mediatica sempre più luminosa (il singolo Gooey non è passato inosservato e il tour
a supporto di St. Vincent ha allargato alcuni
orizzonti).
Tra Leaflings EP e l’album di debutto Zaba i
quattro inglesi (Dave Bayley, Drew MacFarlane, Edmund Irwin-Singer e Joe Seaward) hanno avuto modo di affinare la propria direzione
distaccandosi sempre più dagli ingombranti
modelli di riferimento attraverso alcune scelte
stilistiche limpide ed azzeccate: i profondissimi
bassi di scuola londinese sono sempre protagonisti ma attorno ad essi è stato sviluppato
un organico microcosmo colorato composto
da tonalità lisergiche allungate con esotismo
tribal-world music, una sorta di fantascientifica e vivida foresta sottomarina in perenne
movimento ondulatorio messa in scena come
se le menti cinematografiche di Méliès e Tim
Burton si fossero unite per rappresentare ‘The
Zabajaba Jungle’ di William Steig (l’opera che
ha ispirato l’intero lavoro).
Tre sono gli aspetti principali che colpiscono
di Zaba: l’incredibile pulizia sonora resa possibile da una grande attenzione per i dettagli
(fate caso agli svariati sample vicini all’universo
animale e nascosti un po’ dappertutto) e dalla
produzione di Paul Epworth, già dietro a molti bestseller made in UK nell’ultimo decennio
e fondatore della label Wolf Tone; il timbro
suadente e sempre più riconoscibile di Dave
Bayley; l’astuzia con cui vengono condensati
groove, battute downtempo (Intruxx) figli di
influenze che arrivano più o meno direttamente dall’universo hip hop (non a caso i Nostri
hanno riletto Love Lockdown di Kanye West) e
pseudo-ritornelli a taglio r'n'b spesso ripetuti a
dismisura creando un apprezzabile ed ipnotico
effetto mantrico. In particolare, l’ultimo aspetto
regala brani immediatamente contagiosi e dal
repeat facile: Flip (tipo Underwater Love 2.0
cantata da Hayden Thorpe), Walla Walla e le
123
/
L u g l i o
Genere: avant, impro
Agli albori della loro carriera, quando andavano in giro aprendo i concerti per i Sonic Youth con adesivi sui tasti della chitarra e del basso
per vedere quale note toccare, sulle OOIOO (si legge oh-oh-eye-oh-oh)
nessuno avrebbe scommesso un nichelino. Ben diciassette anni dopo The
Wire, uno dei più autorevoli (se non il più autorevole) mensile di musica,
dedica loro la copertina: un onore toccato in precedenza a personaggi
come Rob Mazurek, Peter Brötzmann e Scott Walker, giusto per fare
tre nomi.
Una discografia di primissimo ordine, che le ha viste confrontarsi con krautrock e post punk,
senza perdere mai il piglio naive che le aveva fatte conoscere e apprezzare sin da subito, quando
la tecnica era di gran lunga inferiore alla fantasia e alla sana follia di cui erano e sono portatrici. Capitanate come sempre da Yoshimio (o per i nostalgici Yoshimi P-Wee), polistrumentista e
batterista dei Boredoms di Yamataka EYE, questa volta le OOIOO si sono cimentate in una personalissima e contemporanea rivisitazione del Gamelan (antica forma musicale indonesiana/giavanese che stregò letteralmente Claude Debussy, tanto da ispirarlo nella composizione di Pagodes),
regolarizzato in questo caso da una sorta di primitivissima conduction. Niente a che vedere quindi
con il complesso sistema di Butch Morris o i Game Pieces di Zorn, ma un semplice linguaggio di
segni, quasi un gioco, per coordinare e spostarsi tra i pattern prettamente percussivi messi in piedi
da Yoshimio, nelle vesti questa volta di gran cerimoniere.
Sonorità giocose e incalzanti che a tratti ricordano il progetto Yamasuki di Daniel Vangarde
(il figlio Thomas Banglater ha fatto una discreta carriera con i Daft Punk), ma che nascondono
in realtà complessi scambi armonici e ritmici: la classica pillola edulcorata, cavallo di Troia per
portare profondità laddove sembra si nasconda solo frivolezza. La componente improvvisativa è
in realtà molto limitata in Gamel: le strutture, che sembrano frutto di jam, sono in realtà strutture
provate e riprovate in rehearsal e anche se fanno perdere un po’ la magia della libertà assoluta,
non intaccano il prodotto finale.
Registrato quasi totalmente in presa diretta (Yoshimio ha comunque lavorato duro in post-produzione limando tutte le imperfezioni senza snaturare l’essenza del progetto), Gamel è di gran lunga
il miglior lavoro del collettivo giapponese, sicuramente il più stimolante e ispirato.
8/10
Andrea Murgia
assestano un po’ sulla poltrona da studio con
soluzioni già esplorate (Airwaves, This Is Not
The First Time) e ci può anche stare, dati i
quasi vent’anni di onorata carriera, ma risultano freschi e pronti a rivedere il loro stile con
124
tagli e prospettive diverse, vedi gli insert “pesanti” à la Chemical Brothers della titletrack,
le atmosfere retrò ’70 di God-Application o la
ballad This Is What You Get When You Mess
With Love.
r e c e n s i o n i
A g o s t o
OOIOO - Gamel (Thrill Jockey,2014)
Quando si parla di stile, prendete ad esempio i
ragazzi di Reykjavik e non resterete delusi. La
loro pulizia da studio crea atmosfere perfette,
che coniugano la sensibilità per il dancefloor
con un gusto pop sopraffino. Adatto ad un pubblico eterogeneo, che ama l’atmosfera più che
il ballo, la sensazione più che la teoria. Vicini
in qualche modo a Booka Shade e Depeche
Mode, i GusGus restano ancora sul podio della
dance mondiale. Techno and Soul are here to
stay.
7.1/10
Marco Braggion
How To Dress Well - What Is This
Heart? (Domino,2014)
A g o s t o
Genere: pop
Vicino alla soglia dei trenta e con addosso il
fardello di un hype che non l’ha mai abbandonato, Tom Krell/How to Dress Well nella
sua opera terza What Is This Heart? si guarda indietro ripercorrendo alcuni aspetti che,
direttamente o indirettamente, hanno segnato
la sua vita, e contemporaneamente guarda al
futuro solidificando le basi stilistiche del proprio suono.
Tom, uno che non ha mai avuto paura di mettere in musica gli stati d’animo più intimi (Just
Once EP era dedicato a un suo grande amico
scomparso poco tempo prima), affronta il passato con gli occhi malinconici di chi ha ancora
vividi i ricordi formato-famiglia e le pressioni
psicologiche di situazioni non facili vissute
con l’attitudine di un emo-kid primi anni Zero
(in un paio di brani sono presenti riferimenti a
Taking Back Sunday e Saves the Day). In questo senso l’iniziale 2 Years On (Shame Dream)
è uno degli episodi più toccanti (“no one ever
told you that life would be this unfair but oh it
is“), sorretto da una chitarra acustica arrangiata come andava di moda nelle ballad patinate
anni Novanta. Svolta pop? In un certo senso.
Infatti, se What Is This Heart? è un disco in
cui emerge ancora una volta tutta la sincerità di
un ragazzo che, nonostante il successo, non ha
mai perso i contatti con la realtà (sta portando
avanti un dottorato in filosofia alla DePaul Uni-
/
Genere: easy_listening, psych, ambient, electronica
Torna Marco Acquaviva con il progetto
HDADD: il seguito dell’eccellente Mondo
Mzk dello scorso anno cambia passo e invece
di esplorare il dark side dell’elettronica postbass, si insinua su coordinate più cinematiche
e lineari, meno shock e più smooth. Gli ingredienti sono una buona insalata di ambient
con synth, qualche accenno jazz, ripiegamenti
su cinematicità à la Boards of Canada (The
Crystal Shoal) e l’inevitabile rimando a krauterie analogiche à la Tangerine Dream (Travelin).
Qui non si può parlare di rock in senso stretto,
bensì di viaggio psichedelico in una bolla estatica, una lunga pausa che evita i drop d’effetto.
Il disco di Acquaviva è come quel dipinto di
Magritte con la pietra sollevata sul mare (Le
chateau des Pyrénées): non sai bene se cadrà o
se resisterà per sempre in continua tensione
sulle onde che si rifrangono sulla battigia. La
tensione – musicalmente parlando – è data dal
ripetersi dei loop, mentre l’estasi è costruita su
suoni soffusi, sorprese analogiche che si mescolano bene con i pad e che in qualche punto
sembrano venire fuori dall’hard disk dell’ultimo Lopatin o da un outtake dei Broadcast
Marco Braggion
L u g l i o
r e c e n s i o n i
HDADD - Grace (Queenspectra,2014)
(Saudubby).
Nel complesso, il disco è un’ottima costruzione
loungey, che fa da contraltare “spiritual healing” all’album precedente. Le molte facce di
un artista da conoscere e che purtroppo non è
stato ancora valorizzato a dovere.
7.2/10
125
A g o s t o
/
L u g l i o
126
tale di Tom Krell.
Manca il fascino imperfetto di Love Remains
e l’effetto-conferma di Total Loss, ma quella
di What Is This Heart? era inevitabilmente
l’unica strada percorribile per evitare di rimanere impantanati sulle stesse orme e, contemporaneamente, non perdere di vista quelli che
sono i capisaldi di un progetto ancora credibile
e convincente.
7.1/10
Riccardo Zagaglia
Il lungo addio - Pinarella blues (Wallace
Records,2014)
Genere: wave
Ma che si sono messi in testa gli artisti della
Riviera, di giocare a guardie e ladri come nei
film di Peckinpah? Un drappello generazionale dedito al revival che sa forse dove andare,
ma non sa come farvi ritorno. Fabrizio Testa
e il suo Il lungo addio va da anni dicendo di
sé in vuoti stabilimenti balneari con aplomb
languido dietro vetrate opaline (Bagno Franco); trasfigura memorabilia sotto catadiottri
impersonali che parlano a polaroid. Pinarella
blues è da poco edito per Wallace records ed è
l’ultimo riparo per fermare un tempo, isolarlo
nei ricami da souvenir e renderlo più che vivo,
vegeto. In questo il cantautore fa fiasco, ma io
dico a bella posta. Il suo non è propriamente
un giocar a guardie e ladri quanto un “melodizzare” quella tensione che convoglia ad una
liaison (Lido Adriano) tra più fili emozionali,
dove sceriffo è il tempo e fuggiasco è l’arte.
Dietro le sette tracce e i diciotto minuti c’è, si
badi bene, l’innodia tardo romantica – quasi
come nei western – che regge i temi baritonali
o le frasi concluse non tanto sulle dominanti,
quanto sulle ampiezze scure. A ogni modo frasi
sospese nel nero provinciale. Testa poi ci gira
intorno con filtro wave tutto peninsulare (Arcipelago Zadina) e qui Il lungo addio ripassa
r e c e n s i o n i
versity di Chicago, dove attualmente vive con
la dolce metà), stilisticamente mostra a chiare
lettere la volontà di smussare gradatamente gli
angoli dei primi tempi in favore di sonorità a
più ampia fruibilità. Repeat Pleasure, ad esempio, se la gioca con and It Was U (dal precedente Total Loss) per il titolo di brano più orecchiabile mai scritto da Krell, in un retrogusto
groovy-r'n'b anni Ottanta non troppo distante
dai contesti cari all’ultimo Blood Orange - e
non è un caso che Michael Jackson (in particolare quello mid-90s) continui ad essere un
punto di riferimento non troppo velato, come
dimostrano brani del calibro di Precious Love
e Very Best Friend. Dopotutto il nostro afferma
“I want to be #1 on Billboard, but I want to do
it on my own“, anche se dubitiamo fortemente che l’operato targato How To Dress Well
possa scalare le classifiche generaliste, almeno
fino a quando Tom non si metterà d’impegno
nell’ottica di scrivere l’hit single veramente
paraculo a tutto tondo.
Una mossa di lato che viene fatta con la consapevolezza di chi, nel suo piccolo, la Storia l’ha
già scritta con un disco come Love Remains
– bissato due anni più tardi da Total Loss –
capace di influenzare alcuni dei nomi caldi del
post-r'n'b anni Dieci (The Weeknd, Autre Ne
Veut, Active Child e recentemente Gallant).
Di quell’approccio squisitamente lo-fi sommerso in un mare di riverberi, saturazioni vocali
e oscurità spettrali rimane comunque qualche apprezzata traccia: il finale di Pour Cryll
e alcune soluzioni presenti nell’ottima Face
Again. Un po’ fuori dal coro la chitarra elettrica
in Childhood Faith in Love (Everything Must
Change, Everything Must Stay the Same), mentre funzionano meglio i background acustici
che ritroviamo anche nella conclusiva House
Inside e gli archi in See You Fall, altra ballatona d’altri tempi (qui è il piano la base di tutto),
solo in parte stravolta dall’approccio sperimen-
l’allegoria romagnola calando quel revival in un
altro revival.
Ottavo episodio da minisaga, Pinarella blues
è il primo vero CD del progetto, dopo vari cd-r
e 7” sparsi in quattro anni di vita; la copertina
è tutto un non dire fra il basso di Monsieur e
la batteria di Lou Gravita – altrettanti illustri
sconosciuti – calando Ravenna e Cesenatico nei
momenti sbagliati per un immaginario collettivo. Ecco perciò l’altro e ultimo filone tematico:
il voler essere necessariamente fuori tempo
massimo.
6.8/10
Christian Panzano
/
A g o s t o
Genere: dream, dance, elettronica
Secondo un guardingo Guardian, la biografia
documentata di Inga Copeland – ovvero, in
realtà e con tutta probabilità, Alina Astrova
– inizia quando, nel ’96 incontra Dean Blunt
a Knebworth, a un concerto degli Oasis. Lui
è attratto da Cast No Shadow cantata con un
pronunciato accento russo, lei, che sbaglia le
strofe, attacca bottone ed è fatta: i due iniziano
un sodalizio umano e musicale che li porterà
ad affiliarsi a Hype Williams, un confusionario
alias per un altrettanto non ben precisato collettivo di cui fanno parte da circa il 2009, anno
in cui esce il primo EP autoprodotto, High Beams. L’Ep è il primo di una serie di depistaggi
sonori, il primo trip di una coppia che pastura,
sia con sintetiche che strumenti, un allucinato
post-punk che ha molto a che fare con l’ondata
di produzioni hauntologiche fine noughties, e
dunque con i ceppi sonici di Ariel Pink e James Ferraro. Poi per Copeland / Blunt arriva
lo split e l’allontanamento da Hype Williams.
Entrambi pubblicano separatamente un paio
di uscite, lui il break-up album The Redeemer,
con lei comunque ospite, e lei l’emblematico
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Maria Minerva - Histrionic (Not Not
Fun,2014)
12” Don’t Look Back, That’s Not Where You’re
Going, più una collaborazione con John T. Gast
e – non dimentichiamolo – il buon mixtape
Higher Powers.
L’esordio di Inga Copeland, prodotto (seppur
non dichiaratamente) sempre da Dean, risale
invece al 2011 ed è qui che i fili con Maria Minerva, ovvero Maria Juur, si intrecciano. E’ un
lavoro, che al pari della prima discografia della
ragazza estone (che all’epoca è in stage da Wire
Magazine a Londra), tira in ballo i TG, il dub e
una certa mentalità elettronica. “E’ come se i
Throbbing Gristle o Chris and Cosey avessero
fatto il loro album r’n’b del XXI secolo” riporta
Stefano Pifferi in coda alla recensione di Cabaret Cixous dello stesso anno, un parallelo
ineludibile dal quale si dipanano due carriere
in scacchiera, entrambe caratterizzate da un
profondo estraneamento, eppure specchiate
nel rappresentarlo. La dama bianca e la dama
nera.
Maria Minerva punta da sempre a un’effervescente e colorata confusione di stili, generi e
rimandi, il suo vocalizzo etereo e dreamy conferisce, fin da subito, uno smalto aereo alla sua
musica; Inga Copeland, al contrario, preferisce
rimestare nel torbido, si stordisce di joint e
pastiglie, è terrigna, fangosa. Entrambe trafficano con un anemico concetto di incanto e
bellezza, la prima lo infonde nella musica come
profumo, la seconda come fugace squarcio di
luce tra le nuvole su un cumulo di macerie a
terra. Stanno in queste economie la principale
forza della seconda e il primario difetto della
prima. Il richiamo da sirena della Juur, al netto
dell’effetto sorpresa e del bonario endorsment
di Simon Reynolds che all’epoca, la inseriva in
un interessante mazzo di ragazze da cameretta
con le tastiere (vedi anche Laurel Halo, Stellar Om Source e pure Grimes), si risolve in
una stilosa inteterminatezza. Non che a contrasto non siano stati escogitati dei rimedi: Maria
127
/
L u g l i o
Genere: rocknroll, punk, indie, garagerock
C’era una certa attesa per il nuovo album dei Parquet Courts da Brooklyn. Vuoi perché molti erano gli addetti ai lavori ad aver tessuto le lodi del
precedente Light Up Gold, vuoi perché tanta era la curiosità di sentire
se la band avrebbe spinto più sull’acceleratore, sulla melodia o – peggio –
sulla ripetizione di sé stessa. Con Sunbathing Animal i quattro arrivano
alla terza prova sulla lunga distanza, quarta in tutto dopo l’EP Tally All
the Things That You Broke dello scorso anno. Come per quello, anche
questo disco esce per What’s Your Rupture?. Ma confrontando ciò che è stato con ciò che è oggi, le
cose paiono un tantino cambiate.
Cominciamo col dire ciò che i Parquet Courts non sono, in questo disco. Non di certo i Pavement,
cui alcuni li hanno associati per una certa stortura sonora: dalla penna di Malkmus i Nostri non
hanno ripreso la tendenza allo sfarfallamento, al cambio repentino e spesso assurdo. Non i Meat
Puppets (troppo agresti), non i Television (dal chitarrismo molto più astratto), non i Wire (dal
“cerebralismo” colto, qui invece è più una questione fisica, epidermica). Per comodità potremmo
dire che la band è qualcosa in più e in meno. Da un lato tutte queste influenze vengono rivisitate e
miscelate in una maniera che, se non è originale, è perlomeno personale. Dall’altro, c’è un lavoro di
sottrazione non tanto nei confronti dei propri idoli, quanto del proprio passato.
Sembra infatti, all’ascolto del disco, che la maturità sia arrivata anche per i quattro. Dove prima
c’era un attacco a testa bassa, ora c’è una tenue tensione (Dear Ramona) che però produce frutti
pop succosissimi, che in certi frangenti ricordano quasi quelli degli Strokes degli esordi. Alcune
aperture, alcuni ritornelli sono così ariosi che paiono fatti apposta per una stagione estiva, pur non
trattandosi di surf music: pare un miracolo che questa band venga da Brooklyn e non dalla California. Dove invece la melodia è subissata dalla ripetizione, come nei sette e oltre minuti di Instant
Disassembly, quel che esce fuori non è monotonia, ma semplicità mai superficiale, a volte bellissima. In altri momenti è semplicemente dolcezza, come nella finale Into The Garden. Poi, ovvio,
sono pur sempre i Parquet Courts, e nonostante una consapevolezza maggiore di ciò che possono
fare, qualcosa all’energia e al frastuono devono pur cedere, come nella title track. Ma se l’aggressione è più contenuta, se la velocità è più quella di un boogie che non di una slam dance hardcore,
ciò serve a dimostrare che la band è capace di scrivere brani godibili pur non risultando mai furba.
Di cedere un po’ ad un classicismo rock senza cadere in tentazioni facilone.
Al di là dei giri di parole, Sunbathing Animal è il degnissimo seguito di Light Up Gold. Là dove
si è tolto in potenza, si è aggiunto in ampiezza, e la cosa fondamentale è rimasta: il grandissimo
divertimento. Basta pescare nel mazzo e tirare fuori, ad esempio, una Black and White punk e
“clappeggiante”, per rendersene irrimediabilmente conto.
7.3/10
Andrea Macrì
128
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Parquet Courts - Sunbathing Animal (What’s Your Rupture?,2014)
Edoardo Bridda
Ismael - Tre (Autoprodotto,2014)
A g o s t o
Genere: cantautori, rock
Fin dall’omonimo esordio – correva il 2008
– gli Ismael mi colpirono per la tensione letteraria e aspra assieme, un cantautorato rock
di quelli che sanno regolare l’intensità e l’asciuttezza al giusto grado d’efficacia. Certo, in
questi casi fa comodo avere in formazione un
vocalist/chitarrista/compositore che è pure
scrittore (Sandro Campani, già tre libri alle
spalle di cui l’ultimo per Rizzoli). Ma se i testi
possono vantare peso specifico e misura non
proprio comuni, il piglio rock non passa certo
in secondo piano, intrecciando trame ruvide,
nervose e accalorate.
All’epoca, tuttavia, non raccolsero i consensi
che mi attendevo, forse perché nel frattempo
gli anni Zero decidevano di consumarsi all’insegna della facinorosità sloganistica de Le luci
della centrale elettrica, mettendo fuorigioco
la loro idea di canzoni “narrative”. Il tempo
però – si spera – è galantuomo, le buone gocce
scavano la roccia e via discorrendo. Insomma, oggi che dal trio originale si è stabilizzata
in quintetto (ottimo l’innesto dei sax di Piwy
Del Villano), la band reggiana sforna un terzo
album che porta a compimento un po’ tutte le
premesse, undici tracce accorate e sferzanti col
potenziale evocativo ben distribuito tra suggestioni liriche e sonore.
Un’onda di piena che convoglia detriti De
Gregori (nell’allegoria desertica di Canzone
della volpe e nell’erratica Canzone del bisonte),
rovelli cinematici col cuore infiammato (Palinka, il post-post-rock della strumentale Tema di
/
r e c e n s i o n i
album di consistente fugacità, terribilmente
affascinante in questo, sempre con una certa
dose di imprevedibilità, dalle soluzioni povere
ma nessuna dispensabile.
7.2/10
L u g l i o
Minerva è un progetto che è evoluto secondo
traiettorie piuttosto comuni: gli arrangiamenti
si sono aggiornati, lo spostamento a New York
ha coinciso con un timido spostamento di dinamiche (PS le novità sono sempre sbilanciate
sul fronte londinese) e, ciò che più conta, nei
testi e nel portamento, Juur tenta la difficile
strada della songwriter a metà tra ritmi (breakbeat, post-garage) ed smalti sintetici. Così
se Histrionic, anche quando tenta la strada
dell’alternative r’n’b, non è l’ingenua hipsterata
che qualcuno potrebbe immaginare, rimane
comunque un prodotto a metà del guado che
la profonda solitudine della Juur riesce solo in
parte a sbilanciare (e figuriamoci capovolgere).
La Astrova, all’opposto, non traduce alcuna
tendenza, mette a fuoco una serie d’espedienti già affrontati negli EP precedenti, rimesta
il tutto al servizio del solito, elusivo, gioco in
sottrazione. Senza ansie da prestazione, l’ex
Hype Williams sfrutta una culto costruito negli
anni (Black Is Beautiful, per noi un classico
anni 10) senza perdere di vista alcune glabre e
alienanti necessità espressive. Assomiglia ad
Actress in questo. E Darren Cunningham, in
carne e ossa, è infatti presente in Advice For
Young Girls, traccia il cui snippet era stato allegato nel messaggio di split degli Hype Williams
su Soundcloud un anno fa.
La forza di Because I’m Worth It si basa su
semplici accostamenti: tra torridi sibili e morbose drum machine si stagliano piccoli tocchi
luminosi (Faith OG X) e qualche obliqua nota
ai synth, su pennellate di ricordi, Inga taglia corto con secche tribalità, effetti cheap e
qualche cartografia urbana londinese, scenari
pensosi, pennellate grigio brit, ancora, Actress
che guarda dalla finestra. Come per la Minerva
degli esordi, il dub indica alcune piste; da altre
parti un deragliato approccio Portishead porta
a brandelli di canzone (Diligence, Inga, Fit1)
minimo comun denominatore espressivo di un
129
Irene), guittezza irruvidita tra Tenco e Conte
(Canzone del cigno) e fregola art/punk col ritorno di fiamma languido (Se non a te). Altrove
è una lotta tra cromosomi post-grunge e piglio
jazzy (l’impetuosa Canzone per quello), uno
spicciare sottrazioni psichedeliche e disincanto ieratico CSI (San Giovanni di Querciola),
mentre Andiamo sfiletta a crudo un piglio
Godano tra riff à la Jumpin’ Jack Flash conditi
di sincopi nevrotiche, candidandosi d’amblé tra
i migliori pezzi rock (in) italiano dell’anno.
Album robusto e vibrante quindi, una moneta
di quelle buone nel calderone rock d’autore
nostrano.
7.3/10
/
L u g l i o
James Walsh - Turning Point (Pledge
Music,2014)
Genere: pop, brit, cantautori
James Walsh ha avuto una carriera fatta di
alterne fortune con i suoi Starsailor, nel senso
che la prima metà della stessa è stata davvero
di alto profilo (con Love Is Here e Silence
Is Easy), perdendosi poi strada facendo con
i successivi due album. Dopo un prevedibile
momento di stop con la band, James si è concentrato su progetti personali e collaborazioni
importanti (leggi Suzanne Vega) che lo hanno
portato prima a realizzare un disco totalmente
incentrato su un racconto dell’autore americano Palahniuk (Lullaby del 2012) e poi questo
Turning Point, uscito per Pledge Music ad
aprile. Si può dire che il Nostro sia tornato alle
fortunatissime suggestioni dei primi due album, quelli più acustici e intimi per intenderci,
accentuando il suo songwriting e soprattutto
mettendo in evidenza la voce limpida e cristallina.
In questo secondo disco solista c’è dentro
probabilmente quella che è la vera anima di
Walsh da un po’ di tempo a questa parte: de-
130
Stefano De Stefano
Jonathan Richman - No Me Quejo De Mi
Estrella (Munster Records,2014)
Genere: pop, folk
Oggettivamente versi come “café solo, café
solo/la guitarra flamenca rubia/cafelate/
la guitarra flamenca negra” (dall’opener La
guitarra flamenca negra) lasciano poco spazio
a interpretazioni sulla totale assenza di profondità, nei testi così come nell’impegno, di questo
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Stefano Solventi
licati accenni di soul, ballate di stampo folk
che si colorano di arrangiamenti in forte odore
Seventies. Su tutto c’è il pop a farla da padrone,
nella accezione nobile del termine: si potrebbe
infatti parlare tranquillamente di undici potenziali singoli. C’è spesso una precisa intenzione,
ovvero quella di spingere sul pedale dell’emotività e della coralità attraverso una costruzione
della perfetta pop song che parta in sordina per
poi crescere in un climax sonoro; Paolo Nutini, James Taylor e Van Morrison sono alcuni
dei riferimenti che si possono trovare in Turning Point (se facciamo finta di non percepire,
in un paio di casi, una chitarra in perfetto stile
The Edge).
Tra i momenti da segnalare in un disco di
pregevole fattura, ci sono il malinconico ritornello killer dell’acustica Broken You, l’intenso
duetto con Suzanne Vega (squadra che vince
non si cambia) nella slow soul ballad Firing
Line e poi ancora l’incedere maestoso di Fading
Grace, che con quel refrain così lirico si candida ad essere il momento più intenso di tutto il
disco. Better Luck Next Time chiude il cerchio
con una morbidissima ballata sporcata ancora
una volta da umori soul: parafrasando il titolo,
possiamo tranquillamente affermare che non
c’è bisogno di aspettare la prossima volta. Con
questo album James Walsh è già fortunatissimo.
7.2/10
Joseph Arthur - Lou (Vanguard,2014)
A g o s t o
Genere: cantautori, rock, folk
L’idea stessa di un tributo a Lou Reed è quanto
di più ozioso si possa concepire, dal momento
che fanno una quarantina d’anni (abbondanti) che il rock paga ogni giorno tributo al fu
scontrosissimo genio newyorkese. Nel caso di
Joseph Arthur, c’è da mettere in conto però
un’amicizia reale che si esplicita fin dal titolo,
un “Lou” intimo ed essenziale proprio come la
veste sonora dei dodici pezzi pescati dal repertorio reediano. Lo stesso Arthur dichiara di
averli selezionati in base ai propri gusti personali su esplicito invito di Bill Bentley, boss della
Vanguard Records, con l’intenzione di ricavare
il massimo dell’autenticità emotiva dall’operazione. C’è da credere che sia andata realmente
così, a giudicare da come il buon Joseph ha
saputo sfrondare la propria naturale ipertrofia
espressiva aggirandosi tra le melodie e quei
testi lancinanti con la più accorta devozione.
Sembra proprio un disco suonato (chitarra e
/
r e c e n s i o n i
Marco Boscolo
piano) e cantato con gli occhi socchiusi, nel
tentativo di cogliere i riverberi e le sfumature
di canzoni che dopo tanti anni sono ancora in
grado di liberare energie nuove. A partire dalla
opening Walk On The Wild Side ovviamente,
così diafana e vibrante che sembra esalare dai
marciapiedi della Grande Mela come un fantasma dolciastro. Tra i titoli spicca la presenza
di ben due tracce da Magic And Loss (la title
track e la formidabile Sword Of Damocles),
scelta forse dettata in parte dall’età anagrafica
di Arthur – che ai tempi dell’uscita dell’ultimo
capolavoro di Reed aveva quei ventuno anni
giusti per restarne intrappolato (al sottoscritto
accadde più o meno la stessa cosa) – ma anche
perfettamente in tono con l’atmosfera elegiaca.
Su questa falsariga ad esaltarsi sono come era
prevedibile i momenti a più alto tasso di languore, come Stephanie Says (da lacrime), Pale
Blue Eyes e la meravigliosa (inutile fingere
distacco) Coney Island Baby, così come una
NYC Man resa struggente dal piglio morbido
e sornione. Altrove affiora un pizzico di prevedibilità, soprattutto in Dirty Blvd. e Satellite Of Love, mentre Heroin semplicemente si
avvicina troppo alle corde dell’originale (già
abbastanza scarna di suo) per non soffrirne il
confronto. In ogni caso Arthur riesce a tenersi
sempre in piedi, sceglie di abbandonarsi con la
disinvoltura di chi non nasconde di avere ben
poco da perdere e ancora molto da ringraziare.
Come tutti noi.
7.1/10
L u g l i o
nuovo disco per Jonathan Richman. Non c’è
nulla di male a prendere la vita con leggerezza,
anche con un certo scazzo (come hanno insegnato i Pavement, non è per forza una scelta
artisticamente negativa), ma l’infatuazione da
cui sembra essersi disintossicata Josephine
Foster, sembra invece aver colpito da un po’ di
tempo Richman, che per questo disco ha fatto
ricorso alle sue esperienze flamenche in terra
di Spagna.
Tanta ironia, più cercata che trovata (vedi alla
voce No one was like Vermeer), e un giro latino
tra Andalucia, jaleo e Gipsy Kings. Nessuno
dubita del talento che si nasconde sotto quello
sguardo fintamente distaccato, ma c’è da domandarsi se questo “regalo per i fan spagnoli”
sia più una punizione che un atto d’affetto vero.
5.5/10
Stefano Solventi
Kein - In Bloom (Audiobulb
Records,2014)
Genere: ambient, glitch
Primo full-length dopo due extended plays,
per l’italiano Kein, artista che bazzica l’idm
con un occhio alla performing art. In Bloom è
composto da sette tracce di microhouse, lievi
131
/
L u g l i o
Genere: hiphop
Se i Death Grips hanno rappresentato una supernova nel panorama alternative hip hop internazionale, e i clipping stanno rapidamente prendendo il loro posto con un mix altrettanto eclettico e frontale, gli Shabazz Palaces stanno proprio su un altro pianeta e non solo per attitudine
di base – quell’approccio spaced out che da sempre li contraddistingue
– ma proprio per inimitabilità e ricchezza della formula. Il portato jazz
rap dei Digable Planets e il funk dei Cherrywine, entrambe formazioni
di cui Ishmael Butler faceva parte, unito agli strumenti zimbabweiani e alle percussioni di Tendai
‘Baba’ Maraire, i synth e i campioni di entrambi, costituiscono fin dall’esordio, Black Up, l’ossatura di un progetto che è qualcosa di più della somma delle singole parti.
Lo scarto che separa l’approccio “in chiaro” nel rappato e negli arrangiamenti delle precedenti
esperienze di Ish, come la distanza tra il fantomatico collettivo e l’indie di casa Anticon, cLOUDDEAD in testa, è grossomodo la distanza che ci separa dai 90s e dall’inizio del 10s. Negli Shabazz
Palaces, pur non negando i fondamenti dell’attitudine libera degli Antipop Consortium degli
esordi, siamo oltre l’indieness, oltre le dialettiche tra establishment e alternativa. Il duo di Seattle
si pone in modo originale rispetto a certa frontalità hip hop preferendo una conduzione fatta di
rappato suburbano astratto, ritmi morbidi che non si fanno mancare qualche “bassone”, in generale un’abbondanza di synth ondivaghi e voci in echo in “layeraggio” caleidoscopico psichedelico,
anche pastorale e in senso indietronico se vogliamo, e di fatto lo sguardo è sempre puntato altrove,
alle stelle, ad altri pianeti.
Lese Majesty, il nuovo disco, continua il loro viaggio con uno sguardo se vogliamo ancora più rotondo, cosmico. Rimangono le imperscrutabilità, i testi cubisti, i paraventi colorati, i cori (non più
la voce) di Catherine Harris-White delle THEESatisfaction, e il via vai di vocalizzi nello spazio,
eppure qui le strutture sono più rispettate che depistate, all’etno subentra il sintetico, il cinematico demodé, persino un tocco disco-punk (MindGlitch Keytar TM Theme). I brani, imbottiti di
polveri e stelle, filano tutto sommato più lineari rispetto all’esordio ed anche qui gli spunti sono
tanti, generosi, geniali, parti di un nuovo eccitante mosaico sonoro da ascoltare dall’inizio alla fine,
come l’hip hop sognato a occhi aperti da Dave Fridmann.
7.5/10
Edoardo Bridda
glitch, minimal in 60 bpm o poco più, tra ipnosi
e placenta. Il metronomo lento indica pulizia
del suono come pure poca creatività. Si tenta
di superare la scansione del ritmo esibendo
oscillazioni più animate, ambienti (Look Af-
132
ter Me) e abboccamenti groove (Brixton Rd.),
finendo però in un impero di mezzo fra dream
pop e classica. Su tutte Sugar, per il rotto della
cuffia, dona caustici spazi un po’ dark un po’
balearic, tutto in punta di fioretto, percependo
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Shabazz Palaces - Lese Majesty (Sub Pop,2014)
quasi sempre l’ombra di un Trentemøller o di
un Kettel meno giocherellone. Meno rispetto e
molta più audacia.
5.5/10
fiamma della prolificità è ancora lontana dallo
spegnersi. Risultato non proprio raggiunto. Per
appassionati.
5.8/10
Andrea Murgia
Genere: rock
Trentuno anni passati con i Melvins contornati da più di trenta dischi in studio non hanno fatto passare la voglia di divertirsi al buon
vecchio King Buzzo. Con un titolo che cita e
quasi sbeffeggia il noto messaggio appuntato
sulla chitarra del folkman Woody Guthrie,
This Machine Kills Artists raccoglie diciassette tracce acustiche – sì, avete capito bene –
registrate senza l’utilizzo di chitarre elettriche,
amplificatori e direct imput. Niente elettricità
è sinonimo di meno potenza? Nient’affatto,
anzi. Dotato di una manina non proprio leggerissima, Buzzo va giù pesante suonando la sua
fida Buck Owens American acoustic come se
stesse brandendo un’ascia bipenne. Affermando di non avere “nessuna intenzione di suonare
come una versione merdosa di James Taylor“,
Buzzo non si discosta in realtà tantissimo dal
songwriting apprezzato nella sua produzione con i Melvins, condividenso stesso peso
specifico e iconoclastia. Con un alternarsi di
momenti ispirati (Rough Democracy, Laid Back
Walking e How I Become Offensive) e episodi
non proprio riuscitissimi (Vaulting Over a Microphone), This Machine Kills Artists risulta
tuttavia troppo discontinuo e a volte caricaturale, con un Osbourne sì divertito, ma forse
fuori luogo.
La sensazione di fondo è che l’esordio solista
di Buzzo sia in realtà una collezione di canzoni
scartate nel progetto madre. Il disco acquista
ascolto dopo ascolto le fattezze quasi di un
capriccio, giusto per mostrare ai più che la
Genere: pop, art
Lighght è il secondo album solista di Kishi
Bashi, un nome che non suonerà sconosciuto a
chi segue gente come Of Montreal (di cui è il
volinista) e Jupiter One (progetto parallelo di
upbeat indie pop). Il rischio di trovarsi davanti
a un lavoro in cui lo strumento principale del
musicista la facesse da padrone era certamente ragionevole, ma spazzando via ogni paura
possiamo affermare che qui c’è l’abbecedario di
un certo pop “scrauso”, contaminato e sbilenco
che mostra il fianco alle più varie inclinazioni.
Certo, il pop è un macrogenere così vasto
che bisogna pur dare dei riferimenti. E allora diciamo che i maestosi umori campestri a
metà tra Dry The River e Los Campesinos
dell’iniziale Philosophize in it! Chemicalize
with it! depistano l’ascoltatore, perché in un
attimo si è già sul dancefloor con la successiva
The Ballad of Mr. Steak, scandita da una cassa
a terra che fa il paio con suoni sintetizzati e
coretti in falsetto (occhio al ritornello killer). E’
un continuo patchwork sonoro in cui il violino
è messo al servizio della forma pop senza mai
eccedere, e anzi mischiandosi all’uso massiccio
delle tastiere; è il caso di un brano come Carry
On Phenomenon, all’interno del quale convivono diverse suggestioni 70′s, dagli ELO a un
certo Phil Collins solista. Indie pop, prog pop,
electro pop: tutto rientra nel macrogenere di
massima fruzione musicale, tanto che persino
la ballata folk di donovaniana memoria riesce a
trovare il suo momento (QandA, brano di una
bellezza assoluta).
A g o s t o
Kishi Bashi - Lighght (Joyful
Noise,2014)
/
King Buzzo - This Machine Kills Artists
(Ipecac Recordings,2014)
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Christian Panzano
133
/
L u g l i o
Genere: ambient, electronica
Da una parte, Mantova, i Tempelhof. Dall’altra, Venezia, Gigi Masin.
Scintilla nata per caso, o quasi, con Marco “Peedoo” Gallerani di Hell
Yeah a fare da tramite. Il duo mantovano, Luciano Ermondi e Paolo
Mazzacani, che con l’etichetta di Ferrara lavora dal 2012, inizia il suo
percorso post-rock elettronico con We Were Not There For The Beginning, We Won’t Be There For The End, per Distraction Records,
nel 2009. Poi, con Hell Yeah, oltre ai numeri in extended play, anche un
album, Frozen Dancers. Gigi Masin debutta con Wind, nel 1986. Una magnifica raccolta di immagini di wilderness analogiche che segnano una carriera, ormai trentennale, fino ad arrivare alla
recente riscoperta di certo suo materiale da parte dell’olandese Music From Memory, che rilascia
la retrospettiva Talk To The Sea.
Due parabole artistiche che si uniscono, oggi, con Hoshi. Dieci tracce che sono disegni pastorali,
slanci umorali che si perdono tra le nuvole, raggi di luce sintetica dopo la tempesta. Immagini che
difficilmente mettiamo a fuoco, non c’è solamente la laguna, non ci si ferma alla sconfinata piana
emiliana. Si va oltre. Un viaggio, dalle pianure nascoste dalla nebbia e bagnate dalla pioggia (Jolla,
The Dwarf ) agli orizzonti infiniti squarciati dal sole (My Velvet Book), fino a toccare gli antipodi,
l’oriente irraggiungibile, sognato sulle cartoline (Red Venus). E probabilmente proprio per queste
sue suggestioni, per questa sua vena disincantata, immaginifica, il disco si presta ai paralleli con
tutte quelle opere d’arte che costruiscono visioni partendo da un segno, un gesto, un frammento sonoro. Si riconosce, almeno per chi scrive, la stessa sensibilità del Luigi Ghirri – non a caso,
nato a Scandiano, provincia di Reggio Emilia – che concepisce l’Atlante, e che ferma nello spazio
di una fotografia tutto quel cinema, quegli odori e quelle sensazioni che una mappa geografica si
pensava non potesse rilasciare. Una lente sfocata, ingrandita in maniera esponenziale su un dettaglio, un simbolo, un toponimo. Significanti, quindi, che lasciano i significati liberi di perdersi nel
vento. Così, Masin e i Tempelhof si muovono nella notte accennando motivi jazz (Interstellar
Bop), vagabondeggiano in mitteleuropa (Joe Jordan), si tuffano negli oceani (Silver Wave, Buena
Onda) e tornano a casa, alla campagna rarefatta, accompagnati dal lamento nostalgico di un pianoforte (Bow Down, She Left Home).
Poco importa chi ha fatto cosa, dove è iniziato il lavoro di Masin, dove è finito quello di Ermondi e
Mazzacani. Quello che importa è che – tra gli echi di mondi distanti, le voci leggere come l’aria, le
fantasie sintetiche – emerge un gran disco.
7.6/10
Elia Galli
Senza scendere in eccessivi barocchismi l’ascolto di Lighght scorre liscio per tutta la
prima parte, perdendo qualche colpo nella
134
seconda metà, dove prevale una certa cupezza
nei suoni e una scrittura maggiormente ripiegata su sé stessa. Un buon esempio è il brano
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Tempelhof - Hoshi (Hell Yeah,2014)
Hahaha pt. 2, pieno di acidissime dilatazioni
floydiane date dallo spiazzante miscuglio di armonizzazioni Sixties, tastiere e batteria vintage. Questo secondo lavoro di Kishi Bashi è un
buon esempio di pop schizoide che non offre
mai alcun punto di riferimento: da provare.
6.8/10
Stefano De Stefano
/
A g o s t o
Genere: pop
I Kitten, che fortunatamente non sono né le
oscene Kittie aggiornate all’era dei gattini
su Instagram, né le Atomic Kitten riunite in
versione atomic-free e neppure quella Kitty
in questi giorni con loro in tour e lanciata dal
recente singolo Marijuana, provano a liberarsi
dell’etichetta di eterna promessa mai concretizzata con un – lungamente atteso – omonimo
album di debutto.
Seguendo la sempre più frequente tendenza
usa and getta che vede alcuni artisti passare di moda – o quanto meno perdere dosi di
hype – ancora prima della release dell’esordio
lungo, i Kitten danno alle stampe la prova
del nove con parte di quei media che li hanno
supportati inizialmente già intenti a guardare
altrove. Rallentati da problemi di formazione
(tre membri sono passati definitivamente ai
FIDLAR), i Kitten hanno probabilmente perso
il treno giusto e a conti fatti è un vero peccato
perchè come si era già intuito dagli EP Like
a Stranger (2013), Sunday School (2010) e
soprattutto dal Cut It Out EP di due anni fa,
il progetto che ruota attorno alla figura della
cantante Chloe Chaidez non difetta certamente
della capacità di tirare fuori dal cilindro potenziali pezzi pop di successo.
La giovanissima Chloe Chaidez – “Been waiting for this moment for nearly 5 of my 19
years” ammette sulla pagina Facebook della
band – ha indubbiamente talento, anche se
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Kitten - Kitten (Elektra,2014)
va detto che l’età in alcune tracce gioca brutti
scherzi, innalzando una fastidiosa patina teen
che tende a privare di spessore un progetto che
comunque non ha certo intenzione di portare
un forte contributo artistico alla musica contemporanea. Quello che conta, in un ambito
come quello in cui si muovono i Kitten, sono
le canzoni, e le canzoni fortunatamente non
mancano.
Kitten, che per metà eredita brani dagli EP
precedenti (gli highlights Like a Stranger, I’ll Be
Your Girl, Doubt, Cut It Out, G#, Kill the Light),
non si muove su coordinate troppo distanti da
quel concentrato di synth e chitarre che era
Night Time, My Time di Sky Ferreira, alternando con furbizia riferimenti ’80-’90 e sviluppi
melodici da classifica. I momenti eighties sono
indubbiamente quelli che regalano i maggiori
sussulti – specialmente l’accoppiata degna della
Madonna del decennio degli one hit wonders
formata da Like a Stranger e Doubt – grazie
ad una produzione sicuramente a grana grossa
ma non per questo “tamarra”. Merita invece un
capitolo a parte Cathedral, vicina ad un certo
tipo di goth-pop e contenente un prorompente
assolo di sax. Se Why I Wait è l’episodio meno
revivalistico con un set elettronico figlio delle
intuizioni targate Purity Ring, poco invece è
rimasto dei primi vagiti popgaze via-Garbage
(se non la già apprezzata epicità ad altezza M83
di G#), sostutiti da un paio di incursioni in zona
funk-pop – la virata da cocktail sulla spiaggia di
Sex Drive e Devotion, brano che probabilmente
non dispiacerebbe a Samantha Urbani – e dalla
poco convincente ballad acustica dal retrogusto
mid-90s Apples and Cigarettes.
In definitiva siamo di fronte ad un buon disco
pop che svolge umilmente e degnamente il proprio – non così facile – compito, e non è detto
che quel famoso treno non torni a passare.
6.1/10
Riccardo Zagaglia
135
/
L u g l i o
Genere: synthpop, electronica
Fissati con il binomio pop ed elettronica analogica, con predilezione per
la fatidica forbice temporale ’78 / ’84 spesso in declinazione ballabile
EBM di stampo D.A.F. e Front 242, applauditi da uno spirito affine come
John Foxx ma anche da un artista elettronico come Philippe Laurent, gli
Xeno and Oaklander, coppia lui/lei composta da Liz Wendelbo (francese di nascita ma cresciuta in Norvegia) e dall’americano Sean McBride,
sono da sempre legati alle wave storiche ma hanno saputo infondere al
loro interno un personale romanticismo, melanconico e tutto mitteleuropeo, oltre alla peculiarità
e alla coerenza di un progetto che, con il quarto album Par Avion, compie dieci anni d’attività.
Il nuovo lavoro, anticipato alla stampa sotto lo slogan “postcards of love for a cold age” e missato
da Chris Coady (quello, tra le altre cose, di Cherish The Light dei Cold Cave), introduce elementi
luminosi e barocchi al ballabile minimalismo del sound (oltre all’uso di un synth modulare della
Serge con risultati “shoegaze”), una piccola svolta che si rivela un preciso scarto rispetto al precedente Sets and Lights e una perfetta quadratura del cerchio. L’electro in 4/4 lì approfondito –
presente anche da queste parti in brani come Sheen - trova, in generale, armonizzatori piegati su
domestici 8bit giocattolo (Interface) o stesi su layer drappeggio melodico con colori, sfumature e
intrecci di buona compattezza e spessore.
Da più parti tornano alla mente i Depeche Mode più innamorati dei Kraftwerk (Lastly), anche
se il duo, nel refrain iniziale del brano che dà il nome al disco, ci ricorda anche quanto sia ancora
potente nella sua poetica e nella contemporaneità (vedi la colonna sonora di Drive, un brano come
Tick of the Clock dei Chromatics) un preciso immaginario elettronico minimale fatto di circolari
vibrazioni analogiche condite con visioni (retro)futuriste.
D’altro canto, quando le cose si fanno assai stoiche, il duo da sempre stempera e bilancia con il
consueto affascinante canto dream à la Jane Birkin o Françoise Hardy della Wendelbo o con il vocalizzo più à-la-Phil Oakey-narcotico di McBride, caratteristiche queste che, assieme agli inediti
intrecci armonici (ottimo anche lo strumentale Providence) e tutto un oculato gioco chiaroscurale di stampo barocco, fanno di questa prova l’album più efficace finora prodotto da Xeno and
Oaklander.
7.2/10
Edoardo Bridda
Klaxons - Love Frequency (Akashic
Records,2014)
Genere: rock, indie, rave
Riascoltandolo oggi, Myths Of The Near
Future, al netto di tutto il rumore di fondo (la
grande sbornia del nu rave, i confronti impa-
136
ri con i Faint, i primi singoli incendiari vs il
falsetto 80s kitsch ecc.), rimane un epico disco
pop. Aveva i brani, diverse anime, melodie
appiccicose e pontificava egregiamente l’avvenuta transizione all’elettronica – e alle “produzioni” – dall’energia grezza del post-punk
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Xeno and Oaklander - Par Avion (Ghostly International,2014)
Edoardo Bridda
La Madonna di MezzaStrada Lebenswelt (il mondo della vita) (La
Fame Dischi,2014)
A g o s t o
Genere: indie, wave, post-rock, folk
Sestetto perugino attivo dal 2008, La Madonna
di MezzaStrada fa folk strutturato e arrembante, con due violini, piano e synth a svariare
sulle trame energiche di chitarra-basso-batteria. L’obiettivo sembra essere quello di mettere
a punto un cantautorato combattivo, dal segno
forte e disposto alla complessità sonora di
derivazione psych-prog (la spersa, desertica e
trasognata Io), anche se si finisce per fermarsi
alla linea evolutiva del tardo post-rock (ma già
ampiamente rientrato nei ranghi della canzone canonica). Capita cioè di pensare all’estro
arty evocativo e nervoso dei Venus (Le vite
degli altri), quando non a dei CSI che hanno
imboccato la china cinematica dei Dirty Three (Regione), o ancora ad un impeto lunare
Waterboys inciampato nel rockismo Battiato
altezza L’imboscata (Il mondo della vita).
E’ questo il lato migliore della proposta, quando cioè dimostra apprezzabili capacità evocative, tanto nel piglio espanso degli arrangiamenti
quanto nell’attitudine ad avventurarsi senza
stradario in digressioni ipnotiche e trasognate. Però poi t’imbatti in una verve da figliocci
didascalici di Ferretti, uno sdegno critico da
pamphlet che sfiora l’invettiva e smorza le ali
della suggestione, roba che soprattutto quando
/
r e c e n s i o n i
nostalgica/sci-fi che Jamie Reynolds, James
Righton e Simon Taylor-Davis hanno in mente.
Sfuggono alle critiche più severe Rhythm Of
Life e Children Of The Sun, dai pigli più decisi
che sembrano liberazioni; in verità, sono brani
appena discreti all’interno di una scaletta che
si strozza con gli strati di un patetico prima
cavalcato e ruggito e ora soltanto subito.
5/10
L u g l i o
revival d’inizio decennio. Inoltre, ritornando
sul travagliato seguito – Surfing The Void –
come già affermavamo al tempo, impossibile
non pensare al miracolo. Sperimentare con
successo un’evoluzione in complessità di quel
(contraddittorio, kitsch, ultra stratificato)
sound che toccasse, tra le altre cose, anche il
nu metal, oltre a tentazioni prog Muse annesse
e connesse – sembrate, sulla carta, il più sadico dei suicidi – si rivelò un ottimo collante di
mondi, anche molto distanti, come l’hard rock
degli Zeppelin e la disco o la techno o, ancora,
la psichedelia.
Detto questo, c’è sempre stato alla base del
progetto un ineludibile strato di patetica autoreferenzialità melodica: tutti quei falsetti
imbalsamanti e sparati al cielo, gli strati di
tastiere psych-glowstick, per non parlare della
pomposità di certi arrangiamenti, sono limiti
più volte sfiorati, anche toccati, eppure, bellamente svoltati a botte di ayahuasca, produttori
e tanta energia. In Love Frequency molti di
questi nodi vengono al pettine amplificandosi,
purtroppo, per carenze melodiche. Il disco non
ha grandi numeri pop da offrire: inizia con le
deboli strofe new age di New Reality imbottendole di tastiere emozionali e riff da autoscontro, punta su un frigido singolo come There Is
No Other Time che lavora sull’omonimo ritornello, la solita base discomusic e arrangiamenti
fin troppo noughites, revival involontario che
ritroviamo anche in un pezzo come Show Me
A Miracle, episodio dal maggior piglio melodico ma fermo al 2007 e con un altro ritornello
assolutamente dimenticabile.
Con James Murphy, la cui presenza è palpabile in Out Of The Dark o in una psych song dalle
parti degli MGMT come The Dreamers, le cose
non vanno meglio. Il ruolo dei produttori del
resto – presenti anche il Chemical Brothers
Tom Rowlands e Erol Alkan – è funzionale
a questa ampollosa idea pop confidenziale/
137
si accompagna a formalismi hard/prog abbastanza risaputi (Mosche, Piccoli drammi) conduce ad un millimetro dalla pelosità retorica.
Non mancano quindi i motivi di interesse, ma
urge una scelta di campo: difficile far conciliare
epica ed etica senza prendere le distanze dal
canovaccio ozioso del Primo Maggio.
6.3/10
Stefano Solventi
/
L u g l i o
Genere: pop
Incipit. “Le avventure di un giovane i cui principali interessi sono lo stupro, l’ultra-violenza e
Beethoven”. (da Arancia Meccanica di Anthony Burgess)
Riassunto delle puntate precedenti. Mrs. Grant
si afferma alcuni anni fa, cavalcando l’onda
dell’hipsterismo mainstream, per cui basta
avere la coroncina di fiori e l’aria annoiata/riluttante alla Marla Singer per essere cool; lo fa
appoggiandosi (ebbene sì) anche alla musica:
una musica che racconta storie languide di vita
urbana, di amori e di uomini trattati a bastonate dalla tosta dal cuore tenero Del Rey; una
musica che, abbagliata dal retro-pop 50s (?) o
90s (?), punta(va) su piccole scie elettroniche,
su una ritmica corposa e riverberata e, soprattutto, sulla forza catartica e catalizzante dei
suoi anthem. E le radio, ben più che le ragazzine, ci sono cascate. Poi, sempre per la serie
“il mainstream che ha bisogno di indiezzarsi“,
anche la Del Rey (come già Adele, Beyoncé,
Kanye and tutto il gruppo, Diplo and tutta la
combriccola e, molto probabilmente, dal prossimo album, anche Madonna) ha pensato bene
di portare dentro una figura dell’upside mondo
parallelo e complementare: Dan Auerbach dei
Black Keys. Il chitarrista dell’Ohio si è fatto
trascinare nel progetto del nuovo disco della
Del Rey in qualità di produttore, con il fine di
138
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Lana Del Rey - Ultraviolence
(Interscope Records,2014)
“chitarrare” e rendere più graffiante il sound
mieloso-cuoricini-e-bollicine del precedente
Born To Die. Il punto è che il buon Auerbach
è stato chiamato dentro a disco bello e finito,
quando il suo lavoro poteva limitarsi solo alla
tappezzeria.
Intermezzo. Due lati della promozione di UV.
Uno, il visual. Lana Del Rey, prima di arrivare ad un album potenzialmente indirizzato a
una fetta se possibile ancora più ampia di fan,
è passata attraverso la felice esperienza del visivo. Da sempre la cantante newyorchese ci ha
abituati (deliziati? torturati?) con una varietà
di stili (di look, di palco, di Twitter) che sono
diventati iconici. Ma la vera sorpresa è stato il
corto Tropico, lanciato a dicembre forse un po’
per creare aspettativa su Ultraviolence. Neon,
colori accesi e strane storie mitologico-religiose sono sembrati onesti risultati di un sentire
comune che sulle coste occidentali e orientali
degli USA sembra andare per la maggiore (leggere alla voce Spring Breakers, che, di certo, a
uno come Lynch, regista del seminale Mulholland Drive e fan della Grant, deve un bel po’).
Due, il cattivo gusto. Quello che, a pochi giorni
dall’uscita del disco, le ha fatto confessare ai
media che Brooklyn Baby doveva essere cantata con Lou Reed praticamente il giorno della
sua morte. Non una mossa onorevole, diciamolo. Eppure ci abbiamo tutti un po’ creduto
o sperato. Abbiamo quasi apprezzato il singolo
West Coast: un up-tempo metropolitano che
all’inizio ricorda Disintegration, poi il garage
in versione intimista di qualcosa intorno a Jack
White: la voce non più annoiata - che nel bridge ricorda quasi la sua gemella buona Florence
Welch – risalta sul delay dell’elettrica.
Svolgimento. La narrativa che sta alla base di
Ultraviolence è già stata esposta in Born To
Die e nelle frequenti interviste: non c’è femminismo o neo-f. (come in Beyoncé), non c’è
finta trasgressione (come nella Cyrus) e non
A g o s t o
r e c e n s i o n i
/
raneità, della solita languidezza senza speranze, dello pseudo-jazz, female-diva orchestrale:
il tutto contribuisce a rendere Ultraviolence
decisamente meno attuale di Born To Die. La
Del Rey si è schierata e ha detto di preferire il
neoclassico alla sperimentazione, il patinato e
laccato al groviglio, la tradizione all’avanguardia. Sì, forse in questo disco c’è più musica
suonata rispetto al precedente, c’è più consapevolezza e, sicuramente, meno spocchia, ma
la corona e lo scettro del video di Born To Die
giacciono ai piedi di un revival di cui nessuno
sentiva veramente il bisogno. Ascoltare Pretty
When You Cry, Fucked My Way Up To The
Top, Old Money, ecc. per intero sembra davvero un’impresa.
Epilogo. L’impressione è che Lana sia caduta
nella trappola del suo peggior difetto: quello
di risultare estremamente noiosa, al di là del
gusto personale che può far odiare o amare
il suo stile canoro. Lo è fin troppo in Ultraviolence, perché si impegna ad essere diva in
bianco e nero; s’impegna a ringiovanire l’age
d’or dei locali fumosi, si re-ispira a Blue Velvet
di Lynch, si fa contaminare dal finto-gotico
dei colossal d’animazione come Maleficent (in
cui canta una canzone della Bella Addormentata Nel Bosco), si illumina di beat e post-beat
generation senza sfogliare mai una pagina di
Ginsberg, si porta dietro il rumore dei party in
declino a bordo piscina, poco prima di assistere
alla fine de Il Grande Gatsby con Young and
Beautiful. A poco vale una preziosa Florida
Kilos, scritta insieme ad Harmony Korine, che
avrebbe potuto far svoltare il disco verso un
malumore esistenziale più schizoide, grottesco
e tossico. Ultraviolence rimane orgogliosamente in contro-tendenza rispetto a tutto, ma è
un controtendenza che fa fatica ad appartenere
a qualcuno. Perlomeno sul piano musicale.
5.9/10
L u g l i o
c’è nemmeno voglia di aggiornarsi e rimettersi in carreggiata (come in Katy Perry e Lady
Gaga). La Del Rey di Ultraviolence ragiona (o
vuole ragionare) come una gangster in tailleur,
come una Nancy Sinatra con i denti di ferro e
i tatuaggi sul braccio. Ed ecco dunque: “I’m a
sad girl/I’m a bad girl” in Sad Girl, “He hit me
and it felt like a kiss” nella title-track e il poetico manifesto del disco “I want Money Power
Glory“; per non parlare di Fucked Me Way Up
To The Top (“I’m a dragon, you’re a whore“),
in cui sembra prendersi in giro da sola o Guns
And Roses, punto di non ritorno del “tamarrismo”, in cui fra “Heavy Metal [...] You were so
much better then the rest of them” e “He loved
Guns and Roses“, Lana dà veramente il meglio
di sè.
L’album è effettivamente più “chitarroso”
di Born To Die. Epurato qualsiasi salto nell’”elettronichina”, Auerbach pare si sia voluto
concentrare sull’insieme delle quindici canzoni, più che affondare col coltello blueseggiante nelle singole, come ci si sarebbe aspettato.
Il suo lavoro si limita a rendere più profondi
i suoni, a regalare dei poco memorabili assoli di chitarra, a far suonare la batteria più
secca, togliendo quei bellissimi riverberi del
precedente disco. L’apertura, affidata a Cruel
World - che col titolo e la durata (quasi sei
minuti) sembra richiamare ancora i Cure -, è
un songwriting equilibrato, quasi rurale, con
le chitarre che sembrano quelle dei Mazzy
Star e la voce biascicata (e quasi stonata) che
fa pensare a Nico. Ci illude ancora. Ci illudono
le successive Ultraviolence e Brooklyn Baby,
l’una che vuole ricalcare gli anthem del disco
precedente (riuscendoci in parte), l’altra che
si prende gioco degli hipsterismi newyorchesi
con Lou Reed nelle corde e un aplomb 60s che
quasi la salva. Shades Of Cool segna, invece, il
solco che seguiranno le successive canzoni del
disco. Un solco all’insegna della non contempo-
Nino Ciglio
139
/
L u g l i o
Genere: pop
Vecchie volpi dell’indie-pop italiano i Le Man
Avec Les Lunettes, tornano con un nuovo album di delicata fattura. Lontana dalle scene da
ben tre anni – l’ultimo Ep, Sparkles, è infatti
datato maggio 2011 – la band italiana continua,
con risultati davvero apprezzabili, la propria
ricerca nei territori del pop di classe, tenendo
come stella guida sempre i pilastri The Beatles, The Beach Boys e Belle And Sebastian.
Raffinati negli arrangiamenti e nel songwriting,
in Make It Happen i Le Man Avec Lunettes
sfornano con facilità – caratteristica che li ha
sempre distinti e fatti apprezzare – tracce convincenti, come l’opener Former Leader o Dancing All The Night, a metà strada tra i baronetti
di Liverpool e i tessitori di melodie più famosi
di Scozia.
Make It Happen è una gioia per le orecchie:
non stanca mai, è leggero quanto basta e dimostra che anche in Italia si può fare del gran pop
senza scadere in cliché o smancerie. Il pericolo
più grande per i Les Man potrebbe essere quello di sentire un po’ la pancia piena dopo dieci
anni di carriera, ma se continueranno a scrivere con questa passione e mestiere, ne vedremo
ancora delle belle.
7/10
Andrea Murgia
Lee Fields and The Expressions - Emma
Jean (Truth and Soul,2014)
Genere: soul
Una tra le conseguenze più interessanti e positive dell’esplosione del movimento nu soul e
nu r'n'b è stata sicuramente la rivalutazione e
la scoperta di quei musicisti che hanno lavorato
per tanti anni lontani dalle luci della ribalta,
offuscati magari dallo sbrilluccichio di quei
140
grandi profeti del genere che hanno monopolizzato scene e platee.
Dopo il fortunato caso di Charles Bradley –
autore di una cover da applausi di Changes dei
Black Sabbath per il Record Store Day e ospite
quest’anno al Primavera Sound di Barcellona nella programmazione dello stage Ray-Ban
-, anche Lee Fields è stato ripescato e reso
fruibile ai più grazie al lavoro della Truth and
Soul Records. Classe 1951, il cantante del North
Carolina può vantare una carriera lunga ben
quarantré anni, che gli ha permesso di condividere il palco con pezzi grossi come Earth,
Wind and Fire e Sammy Gordon. Little J.B,
nomignolo affibbiatogli per l’incredibile somiglianza con il Godfather of Soul James Brown,
torna quindi a distanza di due anni da Faithful
Man con un nuovo disco, lavorando di mestiere e dispensando in 43 minuti piccole perle di
classe cristallina.
Accompagnato anche qui dai The Expressions
– back drop band già al lavoro con Jay-Z, Adele e Aloe Blacc in Good Things - Lee Fields
indossa l’abito migliore, rendendo omaggio ai
grandi del passato, come i preferiti del maestro
Quentin Tarantino, The Delfonics (Paralyzed),
e Otis Redding (Eye To Eye), e mostrando
personalità incredibile e un songwriting maestoso. Si parlava di cover in precedenza e Fields
rilegge – in maniera molto fedele, in realtà – il
JJ Cale di Magnolia, ma con un cantato da
sverniciare le pareti. Chiude la partita Don’t
Leave Me This Way, struggente saluto alla madre Emma Jean a cui l’intero disco è dedicato
Come sia rimasto in passato nelle ombre impietose dello showbiz resterà un mistero, ma Lee
Fields, con Emma Jean, almeno si è assicurato
un dignitoso presente.
7.4/10
Andrea Murgia
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Le Man Avec Les Lunettes - Make It
Happen (We Were Never Being Boring
Collective,2014)
r e c e n s i o n i
Genere: elettronica, experimental
La ricerca sonora collezionata in questo Overtones da Mario Conte si concentra sull’interazione tra suoni digitali e strumentazione acustica, o meglio, nelle parole dell’autore, sulla
“reinterpretazione del suono come fenomeno
fisico naturale”. In soldoni, partire da registrazioni di suoni “reali” e trasformarli in via
digitale, in un incontro/scontro in cui ai beat
elettronici corrispondano percussioni reali, ai
synth faccia da specchio un corrispettivo sonoro “naturale” particolare, ai field recordings
seguano rielaborazioni in studio e alla presa
diretta con cui molti degli “strumenti” analogici sono stati catturati, succeda l’editing in fase
di post-produzione. Da un lato le percussioni
etno-rurali delle “cupa cupe” pugliesi colte nelle lunghe improvvisazioni del collettivo Cupe
Trance diretto da Pino Basile o i suoni alieni
del Sea Organ di Nikola Basic eretto a Zadar, in
Croazia; dall’altro il lavorio di studio che, con
l’aiuto di Climnoizer e Alessandro Quintavalle
(l’altro fondatore di Zoff82), ha plasmato, destrutturato, riassemblato, risemantizzato e decontestualizzato i suoni “naturali” precedentemente catturati, in una perfetta interazione tra
ambiente naturale e laboratorio “scientifico”.
Se in alcuni momenti, ad esempio nell’iniziale
Harmonic Field #1 con la sua “techno-trance”
a cassa dritta, l’alchimia non scatta, in altri passaggi – la doppietta Organic Wave #1 e #2 e la
conclusiva Modern Country Side – le atmosfere si inspessiscono, la dimensione si fa “altra” e
l’incontro/scontro di cui sopra si fa confronto e
ricreazione, elaborando giochi di luci e ombre,
interstizi e visioni tra fattuale droning naturale (il Sea Organ rivisitato offre visioni lunari),
rumoristiche asimmetrie di percussioni fatte
glitch e stranianti flussi ipnotici.
7/10
Teresa Greco
Stefano Pifferi
A g o s t o
Genere: pop, cantautori
Buon sangue non mente: la famiglia Finn colpisce ancora. Dopo il bell’album del genitore Neil
(Dizzy Heights, pubblicato la scorsa primavera), Liam Finn ritorna, a distanza di tre anni da
Fomo, con The Nihilist.
Detto che i due album precedenti (I’ll Be
Lightning era l’esordio nel 2008) avevano
rivelato un talento in evoluzione declinato in
chiave pop come da tradizione familiare (non
dimentichiamo lo zio Tim), The Nihilist conferma quanto fatto finora dal musicista neozelandese ora di stanza a New York. Un buon curriculum già in possesso (un inizio post grunge,
tour con Eddie Vedder e Black Keys, il progetto 7 Worlds Collide, concerti con i riformati
Crowded House) è la base di partenza per una
carriera solista avviata. Nei precedenti dischi
era forte l’impronta pop dreamy, così come in
quest’ultimo, dove predominano i falsetti, le
sovrapposizioni vocali (Ocean Emmanuelle) e le
rarefazioni che avvicinano il musicista al padre
(Arrow, Miracle Glance), gli arrangiamenti
elaborati e postprodotti (la sua predilezione
per loop e suoni vari), insomma la conferma di
quanto di buono già si era visto finora.
Ci sono echi di Beck, di Elliott Smith, tanta
psych à la Flaming Lips (Burn Up The Road,
Preary Pop), tentazioni desert e atmosferiche
(I), funk (la title track, richiami a Prince) e in
generale molto perfezionismo (qui Liam ha
suonato ben 67 stumenti, con l’aiuto dei soliti
Eliza Jane Barnes alla voce, il fratello Elroy alla
batteria e Jol Mulholland al basso), il tutto con
una sensibilità indie (si citava prima il buon
Beck).
Liam Finn si conferma quindi un buon
songwriter, con molte potenzialità tutte da
esplorare.
7.1/10
/
Mario Conte - Overtones (Zoff82,2014)
L u g l i o
Liam Finn - The Nihilist (Yep Roc,2014)
141
A g o s t o
/
L u g l i o
Meshell Ndegeocello - Comet, Come To
Me (Autoprodotto,2014)
Genere: metal
Sesto album in studio per i Mastodon, metal
band di Atlanta tra le più osannate degli anni
’00, soprattutto dopo quel Leviathan cui Discogs attribuisce ben 31 versioni e che continua
ad essere lo zenit della loro discografia.
Il nuovo Once More ‘Round The Sun prosegue invece sulla linea del precedente The
Hunter con un metal sludge sempre più vicino allo stoner e perché no all’alt-rock, continuando un processo di evoluzione che pare
sempre più imbucato in un cul de sac. Erano i
re di un heavy metal classico eppure violento,
contemporaneo, ma – come già suggerivamo
qui – pare proprio che i Mastodon non abbiano le spalle abbastanza larghe per sostenete lo
scettro dell’heavy metal odierno. Once more
’round the sun è un certamente un disco ben
fatto (migliore di The Hunter), però questa
formula meticcia che sembra alla ricerca di un
pubblico mainstream non scalda, nonostante
qualche buon episodio in tracklist (Chimes at
Midnight) e la solita perizia tecnica. Il punto è
che si ha l’impressione di una band intrappolata nei dogmi da grande carrozzone metal, tra
un tour con i Metallica e uno con i Deftones
(non a caso Aunt Lisa risente di echi nu metal), perdendo per strada quelle caratteristiche
prog-hard rock che avevano fatto la fortuna del
citato Leviathan o Blood Mountain.
Once More ‘Round The Sun è in definitiva
l’ennesima prova in chiaroscuro che impone la
necessità di uno scatto d’orgoglio da parte dei
Mastodon, a meno che non ci si voglia rinchiudere nel proprio limbo dorato e chi si è visto si
è visto.
5.9/10
Genere: soul, rnb
Dopo vent’anni di carriera, con un basso prestato ad act del calibro di Alanis Morisette e
Rolling Stones, Meshell Ndegeocello ha ancora
energie e voglia per esplorare territori nuovi e
per esprimere una vena cantautorale che si sta
mostrando sempre più matura. Messi da parte gli scalpitii giovanili, che oltre alla famosa
cover di Wild Night di Van Morrison in compagnia di John Mellencamp nel 1994, l’hanno anche vista fare l’occhiolino al dancefloor
(Never Miss The Water del 1996, con Chaka
Khan), la bassista e cantante nata nella Berlino divisa del 1968 ha intrapreso una propria
rilettura della blackness musicale passando per
dub, nu soul, funky e folk in due album di certo
impatto (Devil’s Halo e Weather), oltre che
grazie a un esplicito omaggio alla regina del
jazz Nina Simone (Pour une Âme Souveraine:
A Dedication to Nina Simone).
Questo terzo disco per Naive continua questo
percorso, iniziando con la cover di un brano hip hop firmato dei brooklynesi Whodini
nel 1984 e vedendo la partecipazione illustre
di Jonathan Wilson (per una tiletrack tinta
di folk impalpabile e caldo, quasi hawaiano).
Meshell gioca con gli anni Ottanta di marca
Prince (Convinction) e con gli stilemi del jazz
patinato (Tom, Shopping For Jazz), si impegna
in groove black/dub (Forget My Name), sempre
con una padronanza di mezzi notevole. Mentre
della sua “protetta” Selah Sue si sono perse le
tracce da un paio d’anni a questa parte, la salute della scrittura di Meshell fa ben sperare che
il sogno di un disco con Lee Scratch Perry non
rimanga solo tale. Qui ci sono buoni motivi per
solleticare la vena di remixer e producer.
7.1/10
Stefano Gaz
Marco Boscolo
142
r e c e n s i o n i
Mastodon - Once More ‘Round the Sun
(Reprise,2014)
Stefano Pifferi
Nebelung - Palingenesis (Temple of
Torturous,2014)
A g o s t o
Genere: dark, folk
E’ effettivamente una palingenesi, quella dei
Nebelung, trio tedesco di cui si erano perse
le tracce parecchi anni or sono (l’ultimo disco
è targato 2008) e che ora rinasce dalle ceneri
neo/dark/folk per l’etichetta svedese Temple
Of Torturous. Non è un caso che i tre siano
approdati in Svezia. La musica dei Nebelung ha
da sempre due influenze: da un lato, la matrice romantica mitteleuropea in scia ai Rome,
dall’altro – e qui si chiude il cerchio – le fascinazioni per il naturalismo scandinavo (leggi
Wardruna), legame forte e intuibile anche
nell’artwork di questo disco.
Venendo a Palingenesis, ci troviamo davanti a un dark folk inspirato, sentimentale, che
riesce a superare i tanti ostacoli posti sul
tracciato (gli svariati cliché new age/ritual/
pagani) con la forza del fingerpicking. A dominare queste sei lunghe suites sono sempre
le corde delle chitarre e del violoncello, cui si
affiancano come sfondo e corredo pochi altri
elementi, magari un tamburo (Mittwinter)
o un vecchio harmonium (Polaris), che non
distolgono mai l’attenzione da un approccio
volutamente intimo e minimale. E’ un lavoro
di grande sensibilità: fioccano le emozioni –
fondamentalmente legate al rapporto natura/
bellezza – e la tensione è sempre costante
perché il disco è strutturato in maniera assolutamente omogenea, e questo in definitiva
potrebbe essere l’unico limite.
Siamo davanti a un classico disco di nicchia che
imporrà al proprio pubblico una scelta amore/
noia. Se non vi spaventa il romanticismo e siete
avvezzi a quell’area pagana tra neofolk e black
/
Genere: wave, avant, industrial, noise, world_etnica
Registrato completamente in presa diretta,
Terzo Mondo è, nomen omen, la terza prova
per i Nastro – definitivamente un duo, con
Manuel Cascone e Francesco Petricca – dopo
un omonimo esordio piuttosto standardizzato
su panorami electro-rock mutanti e 300mq,
il bizzarro passo numero due. Se lì il commiato dal quartier generale in procinto di essere
demolito si mostrava sotto le forme musicali
della disgregazione e dell’accumulo per cutup, in cui si mescolavano input tra i più diversi
in un fluire senza soluzione di continuità, qui
il procedere è in apparenza opposto ma in
realtà porta a risultati simili. Non più taglia e
cuci digitale, ma tutto registrato in presa diretta con l’ausilio di un microfono ambientale
e privo di qualsiasi sovrincisione, in cui synth
e batteria, chitarre acustiche e percussioni
“guaste” – ossia strumenti d’uso quotidiano
come secchi, pentole, coperchi, bicchieri,
monete – si aggiungono l’una sull’altra, l’una dietro e dentro l’altra, sempre nella stessa
sessione di registrazione. Il risultato è un
melting-pot di matrice tribal-industriale brutista con forti tinte afro, ipnotico e stordente
nel suo accumulo stratificato di fonti sonore
distanti e indistinte che stritola synth-wave,
mutant-etno, retro-futurismo terzomondista,
patchanka da grey area, weird music concreta,
no-funk astratto. Perfettamente in linea col
percorso del duo, ma portato a livelli parossistici.
C’è, dopotutto, del forte rigore di metodo in
Terzo Mondo: la ricerca del metodo, e la
lavorazione dei suoni, è durata ben due anni,
un periodo in cui nulla è stato registrato ma
soltanto concepito a livello di procedimento
compositivo, per poi essere applicato nella
registrazione in presa diretta. Con eccellenti
risultati, si direbbe.
7.2/10
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Nastro - Terzo Mondo (Upside
Down,2014)
143
metal, troverete in Palingenesis un disco più
che affascinante.
7/10
Stefano Gaz
(Terrormaze) e industrial wave (In Blood). I
Nun sembrano già belli e pronti per scalare le
classifiche, non gli resta che trovarle.
7.1/10
Stefano Gaz
/
L u g l i o
Genere: wave, dark
Vengono da Melbourne i Nun, quartetto capitanato dalla cantante Jenny Branagan che
schizza fuori da una scena australiana ancor
più sotterranea degli ormai semi conosciuti post punkers Slug Guts, Uv Race e Total
Control, nell’ambito di una synth wave che fa
riferimento al lavoro dell’autoctona Nihilistic
Orb. Li ritroviamo ora catapultati sul palcoscenico internazionale grazie al lavoro – sempre
di culto – della Avant, che co-produce il disco
insieme ad Arrght records.
Il punto di partenza, per il combo, sono gli
80s, sia per un suono dark/minimal di impasto
analogico (i necrofili potrebbero ripescare gli
Iron Curtain), sia per l’immaginario orrorifico che va a braccetto con un Carpenter e un
Cronenberg d’annata, a cui tra l’altro viene
dedicato un brano in tracklist. Ma ai Nun riesce
la magia di far suonare questo debutto contemporaneo e variopinto, ovviamente in scala
di grigi. E’ la voglia di fisicità l’arma in più dei
quattro, pronti a scendere sul dancefloor con
un paio di episodi spooky che in un mondo migliore sarebbero anche delle hit radio (il singolone Evoke the sleep e Kino), per poi alternare
ritmi frenetici dominati però dalle distorsioni
(Cronenberg) a momenti di calma apparente,
perché rinunciare al beat non vuol dire abbandonare l’aggressività, vedi l’incipit industrial di
Immersion II.
E’ un lavoro omogeneo ma con molte frecce al
suo arco, questo, in cui arriva anche l’electro
pop grigiastro di Subway e quello un po’ più
didascalico di Uri Geller, prima di un trittico finale che prevede sci-fi (Lost Souls), synth punk
144
Pierpaolo Capovilla - Obtorto collo
(Virgin,2014)
Genere: cantautori, rock, electro, folk
Che Pierpaolo Capovilla tendesse ad esondare
in un percorso da solista era ampiamente prevedibile, così come lo scarto rispetto ai (diversi) solchi stilistici scavati con One Dimensional Man e Teatro degli orrori. L’esperienza
di Majakovskij poi raccontava appunto di un
Capovilla più intenso che impetuoso, sulle tracce di suggestioni letterarie e teatrali che francamente non avremmo mai sospettato ai tempi
in cui maltrattava il basso e blaterava assalti
furibondi come frontman dell’omino monodimensionale. Nulla di male in questo, anzi,
sarebbe stato più triste e arido un perpetuarsi a
dispetto dei santi e dell’età.
Resta il fatto che, al netto di ciò che un ascoltatore medio rimpiange di ciò che ha amato,
se nasci spigoloso non muori felpato, o almeno non del tutto. Certe attitudini rimangono
impronte forti, calligrafie su cui puoi lavorare
senza però evitare che mantengano quel segno
e quell’andatura, che d’altra parte è ciò che le
rende inconfondibili. Affidando la parte musicale a Paki Zennaro (assieme al quale ha già
collaborato per l’allestimento di La religione
del mio tempo di Pierpaolo Pasolini), Capovilla tenta quindi di ritagliarsi addosso la figura
di autore e interprete, accollandosi eredità
eterogenee che spaziano da Brel a Waits, dal
reading brumoso Massimo Volume alle sofisticazioni pop (electro e orchestrali) di uno
Scott Walker, passando dagli assalti wave
blues Depeche Mode con licenza di intrecciare trame etno-funky.
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Nun - Nun (Aarght!,2014)
Stefano Solventi
Acre - CO.LD (Computer output Loop
Dance) (Cold Recordings,2014)
A g o s t o
Genere: techno
“La dance music britannica sta vivendo un
vitale ed estremamente interessante periodo di
transizione“, afferma nella press Mumdance,
ovvero Jack Adams, che, assieme a Pinch, è il
protagonista di questo b2b. Tutto questo altro
non è che una fotografia di cosa stia bollendo
in pentola a casa Tectonic e per noi anche un
gancio ideale, visti producer esterni coinvolti,
per parlarvi di un’altra bella mappa di uscite
che è CO.LD, compilation celebrativa a un
anno dalla nascita di Cold Recording (l’ultima
delle etichette dello stesso Rob Ellis che raccoglie il meglio delle produzioni di alcuni giovani
pupilli lungamente collaudati sul dancefloor).
Poco da obiettare, l’elettronica che stiamo
monitorando in questi mesi in Inghilterra è
un laboratorio a cielo aperto che non conosce
sosta, uno stordente caos di dub, grime, ardkore, ambient, techno, house, jungle ma anche
una terra di mezzo dove un’idea techno rivive
su basi squisitamente UK, imbevuta di tutto
un portato di step tra cui lo UK funky, uno dei
punti di partenza dello stesso Mumdance nel
2010 quando, a casa Mad Decent, trafficava
con colorati ed incalzanti ritmi, spremuti poi a
dovere dal solito Diplo.
Curioso il percorso di Adams, uno che in soli
due anni è passato da un certo tipo di prospettive ed evoluzioni dance a un terreno di personale revisionismo ardkore con e senza Logos,
quest’ultimo personaggio chiave che – come
sappiamo – a casa Keysound ha sganciato lo
scorso anno quella sfinge grime che è Cold
Mission, ma anche il sodale amico con il quale
/
r e c e n s i o n i
questa non possono che fare bene ad una scena
troppo spesso incapace di smuovere le acque.
6/10
L u g l i o
Un menu troppo vario solo sulla carta, perché
in realtà ad unificare il tutto pensa il timbro, il
piglio, la personalità di Capovilla, il suo reading
come un bulino di tracotanza e affettazione
(Come ti vorrei) oppure quel lirismo sdegnoso
attraversato da una vena di febbrile misantropia (Invitami). Il cambio di scenario fa spiccare
più che in passato il vezzo di mettersi sullo
scranno dell’interprete per sputare addosso a
quelli che si aspettano una prestazione canonica, ed è un bene quando come nell’accattivante/struggente Irene funge da antidoto alla banalità, altrove però stride e sballa gli equilibri,
come nella tensione desert con sofisticazioni
da chansonnier de Il cielo blu.
Nel complesso quindi, valutata la qualità di
intenzioni, intuizioni (soniche e dei testi) e
impegno profusi, ad affiorare ahinoi è la scollatezza della proposta: se la tracotanza ruvida
e la scontrosità beffarda da mattatore ribaldo
erano il valore aggiunto del bailamme elettrico
ODM (e del Teatro), calato in questa dimensione diventano zavorre fastidiose, inclinazioni
che soffocano il potenziale di pezzi che meriterebbero più respiro e meno “personaggio” al
timone. Vedi la waitsiana Quando, l’estrosa La
luce delle stelle o la tensione “civile” di Ottantadue ore. Di contro c’è una Bucharest che da
buona eccezione è una conferma, visto come il
canto sa abbandonarsi al giusto grado di languore facendo respirare come si deve l’estro
da Sanremo “alto” ed il sottotesto irrequieto.
Finisce che gli aspetti più apprezzabili sono
certe scelte d’arrangiamento, su tutte quelle
della title track coi synth ora traslucidi e ora
agghiaccianti in un contorno di fiati e piano.
Nel complesso la ricetta è interessante, con la
giusta dose di capovillismo (in meno) potrebbe diventare notevole. Possa o meno piacere
il personaggio – e va detto che Pierpaolo fa di
tutto per non vincere il titolo di mister simpatia – scelte forti e persino presuntuose come
145
A g o s t o
/
L u g l i o
146
techno remix del tedesco Shed, del nuovo pezzo di Pinch, Obsession. Un panzer che ritroviamo anche nella Ghostrunner di Ipman. Interessante osservare anche il lavoro di Mumdance
per differenza rispetto all’ormai iconico tocco
glaciale di Logos o alla mano nera di Ellis.
The Sprawl di Adams è un gancio all’estetica
eski circuitata con mentalità ardkore, come la
Sinners di Alex Coulton (altro personaggio da
non lasciarsi scappare, primo peraltro ad avere
l’onore di inaugurare la Mistry) è un riportare
l’uk funky nell’oscurità dell’estetica del primo dubstep, operazione che Beneath ha fatto
fin dall’inizio, sempre nel citato 2010, ovvero
l’anno in cui Pinch pubblicava Croydon House.
L’inizio – uno degli inizi – della grande transizione.
7.5/10
Edoardo Bridda
Plastikman - EX (Mute,2014)
Genere: techno
EX è stato registrato dal vivo il 6 novembre
2013 al Guggenheim Museum di New York. Un
evento sponsorizzato da Dior, con il ricavato di
questo – ingresso popolare a 125 dollari, VIP a
500 – destinato a sostenere le attività della fondazione del museo, arte moderna e contemporanea in primis. Una location, parole di Hawtin
(per l’occasione Plastikman), che aiuta l’interscambio di flussi creativi tra musica, architettura, pittura, scultura.
L’album arriva undici anni dopo Closer, ultimo
numero sulla lunga distanza, e una manciata
di EP rispetto a questo successivi (la trilogia
Nostalgik, I Don’t Know, fino a Slinky, datato 2010). Un ritorno in stile Plastikman, fatto
di grande pulizia sonora, kickdrum austere,
guizzi sintetici e 303 disegnate con precisione
millimetrica. 53 minuti di disco che regalano
momenti di magia, spunti degni di nota, come
il coro di archi sintetici a chiudere il lavoro.
r e c e n s i o n i
in coppia il Nostro sfodera, proprio qui nel mix,
pezzi come Legion nella versione VIPinch, in
cassa dritta e attitudine rockish (vedi anche
l’ultimo Tessela, Rough 2, su questo), oppure
un’altra bordata borchiata come Noctis, tra
bleep da sottomarino, charleston incalzanti e
synth minaccioso in perfetto stile darkwave
(come piace a Pinch). Ascoltando queste tracce
nelle loro evoluzioni, imprevedibilità, e certo,
pure ruvidezze (suoni in reverse, street sound,
onde quadre, bleep ecc.), la sensazione di trovarci di fronte a un nuovo 92-94 del continuum
ardkore è palpabile e non di meno eccitante.
Già in Back To Eskimo Jungle puntavamo la
lente su tutto un giro produzioni nu eski /
grime 2.0 e una serie di ipotesi che rimettevano in gioco la jungle; qui stiamo su un altra
declinazione: c’è la techno come “ombrello
ideologico”, ma soprattutto c’è in atto qualcosa
dai contorni ancora sfumati da osservare con
attenzione perché tra poco diventerà altro e
altro ancora.
Da questi movimenti, in passato, è sempre
nato un nuovo genere ma, come ribadivamo, è
proprio il proto-qualcosa ciò che più tiene viva
una scena. Esaltante pertanto ascoltare le prodezze dei protagonisti della compilation Cold
Recordings: Ipman (già avvistato in combutta
con Kahn in vesti dubstep e dancehall), il mancuniano Acre (avvistato già sulla label di Visionist), Elmono da Cardiff e Batu del giro Bristol
(con Asusu e molti altri), ventenni infuocati
cresciuti a radio pirata, dubstep, uk funky e grime che liberano bestie come Burning Memories, crocevia manchesteriano (leggi Akkord)
anche molto Kevin Martin, tra jungle, implosioni industrial hip hop e micro tocchi dubstep,
oppure una Stairwells con quelle percussioni
etno contrappuntate dub, oppure ancora la
Ventricle di Ipman, come a dire i Sandwell District lavati in candeggina.
Tornando al b2b, da menzionare anche il
Genere: pop, rock, indie, lo-fi
Va bene la filosofia del lo-fi, va bene assecondare un certo filone stilistico e di approccio
sonoro, però va detto che per fare i dischi
devono esserci dei contenuti. Delle idee. Non
basta ricevere la benedizione da Pitchfork per
vivere di rendita e impressionare il recensore
di turno. Un drumming impreciso, chitarre
elettriche in pieno stile dream pop che non si
discostano dalla canonica formula composta da
base ritmica più overdub di arpeggio, e un cantato (maschile o femminile, a seconda dei casi)
missato male: va bene sposare l’estetica del
grezzo, della spontaneità del garage, ma a tutto
c’è un limite. E quando non ci sono nemmeno
le canzoni il problema sorge eccome. C’è un
confine sottilissimo tra la chitarra dissonante e
quella fastidiosa messa lì a creare una sensazio-
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Posse - Soft Opening
(Autoprodotto,2014)
/
Elia Galli
ne di disagio (Talk); così come c’è un labile filo
rosso tra canzoni uguali e simili (Interesting
No. 2 e Afraid). In questo caso Soft Opening,
il secondo disco degli americani Posse (da
Seattle), non riesce a salvarsi, pur restando
gloriosamente ancorato agli stilemi del dream
e tweet pop, di Sarah Records, dei Pavement
più sbilenchi e delle ambientazioni slowcore di
gente come Galaxie 500.
Intendiamoci: le melodie, seppur flebili, hanno il loro peso in questo album, ma non arriva
quella forte ispirazione che in questo caso
può salvare un prodotto fortemente di genere.
Tranne qualche sparuto caso, come ad esempio
Shut Up e la sua lunga cavalcata sonora, oppure
l’indovinato e soleggiato pop di Jon, la sensazione è che non ci sia davvero nulla di rilevabile all’orizzonte, per questo trio pressochè
uguale a tanti altri sulla faccia della terra.
E allora lunga vita al pop e all’estetica del non
troppo levigato, del lazy indie targato ’80/’90,
della musicassetta e dell’old fashioned: se avrete la costanza di mantenere questa visione per
tutta la durata dell’ascolto di Soft Opening, o
semplicemente se siete fan del genere senza
troppi peli sullo stomaco, avrete passato del
tempo piacevole. Se invece cercate qualcosa
di diverso o almeno una variazione sul tema,
magari eseguita e resa adeguatamente a livello
sonoro, passate oltre.
5.7/10
L u g l i o
Intuizioni che, però, rimangono troppo spesso
nascoste tra le progressioni di maniera. Esplorazioni sonore poco originali, forse, ma che
non sempre devono considerarsi prerogative
negative di un’opera, soprattutto quando l’accademia che si dispensa è la propria, perfezionata durante anni di produzioni, e non quella
di altri, presa in prestito per il tempo di una
stagione.
EX descrive il Richie Hatwin dei nostri giorni.
Levigato, scolpito minuziosamente, pulito da
tutte le imperfezioni. Descrive un Plastikman
che cerca punti di contatto, almeno a parole,
con altre arti, figurative o di organizzazione degli spazi. Poi, meno poeticamente, con
sguardo più cinico da businessman, assieme al
disco vende anche un bass system. Per arrivare
ad una “nuova dimensione fisica dell’esperienza
musicale”.
6.4/10
Stefano De Stefano
Sons Of Magdalene - Move To Pain
(Audraglint,2014)
Genere: ambient, techno, glitch, idm
Debutto solista per Joshua Eustis dei Telefon
Tel Aviv, gruppo sciolto in seguito alla morte
del secondo membro Charlie Cooper, scomparso nel 2009. Molti dei brani compresi in
questo lavoro sarebbero dovuti finire nel nuovo
album del combo americano. Sonorità attese:
147
A g o s t o
/
L u g l i o
148
lacrimuccia la fa scendere anche ai cuori più
scafati. Ben tornato, Joshua.
7.4/10
Marco Braggion
Sprained Cookies - Drifted On A Oaken
Mirror (29 Records,2014)
Genere: rock, psych, blues, experimental
Con un piede nel blues e la tradizione americana e l’altro sospeso tra psichedelica made
in UK ed elettronica, gli Sprained Cookies
confezionano un album d’esordio (dopo il promettente EP Deliverin’ the Sacred Feathered
One, edito nel 2011) capace di sorprendere per
maturità e songwriting. La compagine romana,
pur muovendosi entro coordinate ampiamente
già battute, dimostra ottima personalità sia nei
momenti più evocativi (Lonely Are The Brave e la cinematografica Lisergic), sia in quelli
più debitori verso un certo revival garage rock
(Despicable e Music Sucks potrebbero essere
b-side dal primo disco dei The Kills, anche se
la seconda vanta un’apertura che pare più un
inaspettato omaggio ai Portishead), riuscendo
a mantere uno standard compositivo abbastanza alto e una certa coerenza stilistica, anche
nei momenti apparentemente più lontani dal
fil rouge su cui si dipana il disco (l’elettronica
e conclusiva That’s Me Dazzlin’, che si tinge di
sfumature quasi trip hop, e l’opening Mental
Room, dai chiari rimandi anni ’80).
Non è un caso che il disco più recente a cui
questo Drifted On An Oaken Mirror pare
far riferimento nel suo insieme sia quel Blues
Funeral di Mark Lanegan che, alla sua uscita,
nel 2012, aveva segnato un deciso avvicinamento dell’autore di Ellensburg verso sonorità
più elettroniche. Menzione a parte per il gran
lavoro di Corrado Maria De Santis – che di
fatto compone/suona/registra/produce l’intero
lavoro – e per la voce di Cecilia Frusciante,
che tra tutte le figlie illegittime di PJ Harvey
r e c e n s i o n i
aura di ricordi anni ’80, pad ambient à la Boards of Canada e qualche malinconia Morr. Al
lutto per l’amico d’infanzia, si aggiunge pure la
perdita del padre (Crowes On The Eaves Of My
Father’s House), e quindi l’analisi della malinconia s’infittisce sì dei ricordi che caratterizzavano le produzioni precedenti, ma anche di
sensazioni spossanti, quasi inconfessabili.
L’elettronica si aggancia a un sentire cupo e definito su coordinate ottantiane, cose ovviamente già sentite ma qui prodotte in maniera “sbeccata”, aggiungendo qualche sporcizia analogica
che conferisce alla proposta un nonsoché di
privato e di morboso. In un’intervista a proposito del suono del disco e di questa particolare
resa acerba, Joshua ha dichiarato che “il suono
dovrebbe avere la stessa velatura di quando si
sente qualcosa attraverso un muro, o quando
si guarda su un vetro sporco, o più specificatamente, quando si cerca di ricordare qualcosa
che una volta sembrava vivido e che col passare
del tempo è diventato appannato”.
Lo stile viaggia a cavallo fra ricordi New Order
(The Whip), Nine Inch Nails (Eustis ha collaborato con il gruppo di Reznor nel 2013), Depeche Mode (citazione a Everything Counts
nei pad della titletrack), George Michael
(Hold On Hold Still For A Second), glo-fi (A
Strange Sound) e deep house (O, Death). Senza
conoscere il dietro le quinte, qualcuno potrebbe benissimo etichettarlo come un buon disco
electro pop retrofilo.
Quello che invece esce dalla penna e dalla mente di Joshua Eustis è un piccolo diario intimo
di un mondo che non tornerà più, l’evocazione
di troppe persone scomparse o dimenticate. Il
tutto è reso con una semplicità disarmante, che
potrebbe piacere sia agli amanti del pop, che
a quelli più vicini al clubbing. Una delle prove
più sentite dell’intera annata sintetica, affine alla sensibilità di Circlesquare, Pet Shop
Boys, Talk Talk e Jori Hulkkonen. Qualche
appare senz’altro come una delle più credibili
e dotate di personalità propria, capace com’è
di infondere un senso di tensione e costante
inquietudine in ogni episodio di questo esordio.
Un ottimo disco, a cui manca forse solo qualche
“picco” per eccellere, che ci presenta una band
che se saprà confermarsi su questi standard
potrà togliersi nel prossimo futuro numerose
soddisfazioni.
7/10
Enrica Selvini
Sully - Blue EP (Keysound,2014)
A g o s t o
Genere: jungledrumnbass
“Un vero e proprio gioco citazionista, abile,
stuzzicante e ben architettato”, diceva Carlo
Affatigato, recensendo Carrier, prima – e fin’ora unica – uscita in formato album per Sully.
Un disco che custodiva tutto quello che Londra
aveva da offrire a livello dance (electro-funk,
grime, 2step), comprese le puntate transoceaniche verso Chicago (leggasi juke e footwork).
Con Blue, presentato come doppio extendedplay, ma di durata tale da potersi considerare
lavoro più corposo e meno estemporaneo, il
gioco di citazioni rimane, ma a cambiare sono
i riferimenti: la tradizione jungle tipicamente
britannica, le atmosfere surreali dell’immaginario vaporwave.
Sintetizzatori scintillanti e campioni vocali,
modulazioni digitali, giochi di sample stirati
e manipolati a piacere, e per fortuna che l’italiano ci soccorre, perchè scrivere di tweaking,
pitching and stretching sarebbe abbastanza per
una segnalazione alla buoncostume. Impastato
sul breakbeat, frammentazioni vecchia maniera
colorate funk, il basso arriva prima monolitico,
profondo, poi virato wobble. Senza cali di tensione, forse con qualche trucco un po’ troppo
d’accademia, Blue segue la strada di una jungle
hauntologica che si muove tra il cosmo e l’oceano. E se a metà strada tra Ferrara e la luna ci
può essere il mondo (ciao Lucio!), nei disegni
dub di Jack Stevens, a metà strada tra l’Inghil-
/
Genere: rock
Staré M’sto è un progetto nato tra Ferrara e
Bologna grazie all’incontro di Enrico Bongiovanni, Giovanni “Fuzzbinder” Sassu, Tommaso
“Delay” Lampronti e Ruggero Calabria; il disco
d’esordio della formazione, uscito per la validissima label abruzzese I dischi del Minollo, è
un bell’indie rock, con testi che evocano percezioni di rancore, spazi misurati ma lontani,
effettati con riverbero decadente, ed echi à la
C.S.I.. Ascoltando Punto di Fuga vengono in
mente i primi Diaframma (quanto mai allusivi nella cover di Cielo d’Africa, ma anche in
Riparo) o il narrativismo post punk di Massimo Volume e ManzOni. Quindi derivativo, ma
bello perchè celebra ambienti di devozione e
strutturalismo sbriciolato dalla Storia.
Lirismo e scontento, in brani come Ultima cena
e l’apocalittica Thalia, si fondono al diniego che
sbrodola sempre nel racconto. Nei testi questa
angustia pesa molto, quasi si sfigura con l’accetta per quanto è fitta. Affascinati sì dai primi
anni Ottanta, il quartetto non gradisce tuttavia,
di quella stagione, il chiarore di certe sonorità
o di alcune pregevoli composizioni pop, preferendo colorarsi di una bruna inedia fra ritmi
asmatici e rapidi. Quindi, più che un senso forte di contaminazione, voluto già dalla scelta del
Christian Panzano
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Staré M’sto - Punto di fuga (I Dischi Del
Minollo,2014)
moniker (Staré Město è il distretto più antico e
multietnico di Praga), quello che più domina è
un discorso lanciato in aria per essere discusso,
trascinato in terra per essere debitamente calpestato (Menodizero), recluso e di nuovo liberato. Questo, e non la proposta sonora che alla
lunga logora, è l’asso nella manica del gruppo.
6.8/10
149
A g o s t o
/
L u g l i o
Elia Galli
Super Tempo - 29 (Go Down
Records,2014)
Genere: rock
Powerpop pieno e divertente, quello dei Super
Tempo, trio della provincia di Venezia al terzo
album, secondo per Go Down Records. Potremmo inserirli sotto Panda Kid, Lava Lava Love e
Charlestones a beneficio di un animato panorama nord-est nostrano dell’ultima ora, con
nume i Mojomatics. Il loro limite è che trattengono poco fra le braccia i loro CD preferiti.
Infatti, in I’d Rather Born Then Get Burned ci
sono i loro Pogues, in You’re Always Late la
loro idea di surf non poi così dissimile da quella propagandata dai Man or Astro-man? (ma
meno core e più originaria), in 8 hours man i
loro Rolling Stones, in St. Eve il loro swamp,
150
in Swear Your Fats il loro grunge, in The Kids
Are Connected e in Blue Rock il loro punkabilly a lambire il fuzz.
Rielaborano, setacciano e pescano nel mare
magnum dell’immediatezza rock temi ricorrenti e solubili. C’è una marea di gruppi così,
motivo per cui spesso si ingarbuglia il fiore con
il letame e viceversa. I brani sono discretamente legati fra loro, il prodotto è stato registrato
con coerenza, senza strani orpelli, e arriva
diretto come è giusto che sia. Nell’attesa che il
tempo sedimenti.
6.2/10
Christian Panzano
System Hardware Abnormal - S.Tart
(Autoprodotto,2014)
Genere: noise
Perno della scena noise capitolina, System Hardware Abnormal giunge con S.Tart alla conclusione della trilogia robotica, dopo il passo 1,
This Aster, e il passo 2, Re-soosh, sempre in
nome di un noise dalle tinte harsh e prodotto in
condizioni di assoluta ma ricercata “povertà”
tecnologica. Come una sorta di presa di posizione contro la iper-tecnologizzazione della
contemporaneità, System Hardware Abnormal
devasta e stantuffa avvalendosi di strumentazione povera – Gakken sx 150, Korg Monotron,
Eko dream box 15 rhythm machine, Korg M1R,
Akai pop keyboard, Mixer Bheringher, Korg
Kaossilator, ecc. come da indicazione della
press – per “ricreare” mondi in una sorta di
clash retro-futurista in cui il punto di vista dominante è quello del “dominato”, la macchina,
piuttosto che del “dominatore”, l’uomo.
Della serie, se nell’evoluzione robotica del
mondo qualcosa fosse andato storto – cortocircuiti, errori di programmazione, addirittura
ipotesi di macchine divenute indipendenti dal
volere umano – probabilmente la colonna sonora non sarebbe stata dissimile dai 70 e passa
r e c e n s i o n i
terra e l’oriente – un oriente non geografico,
ma declinato come altrove, come mistero da
risolvere – si sfiora la recente Fatima Al Qadiri di Asiatisch, si accenna al James Ferraro
d’annata, si esplorano civiltà subacquee e intere galassie, sempre e comunque tenendo ben
salda in testa l’idea ritmica di fondo.
Le ragioni di Sully sono quelle dei rave party
di inizio Duemila, quando grime strumentale e
jungle trovavano interessanti punti di contatto.
Ora, Stevens rilegge quella stagione alla luce
della miscela eterogenea di nomi e impressioni
citati sopra. Se si escludono le utopie astratte
marcate Logos, ospite con un breve vapor dub,
non ci sono deviazioni di percorso, cambi di
scena, neanche tentati e mal riusciti, rispetto
ad un’ortodossia in cassa spezzata che risulta chiarissima fin dall’incipit. Caratteristiche
che diventano sigillo di qualità per una combo
di EP, ma che segnano un punto in meno se –
valutando la mole della release – ci si aspettava
qualcosa di più.
6.8/10
minuti qui raccolti (suddivisi in 5 tracce selftitled e tributo a Talo, primo robot della storia).
La materia sfocia spesso in derive harsh-noise
ipnotiche e devastanti, ma è il senso del tutto
a farsi apprezzare: musica del limite, “borderline” per intuizione e applicazione, sempre sul
punto del collasso, della fuoriuscita dall’orbita
prestabilita, del deragliamento impazzito verso
una specie di anarchia sonora fatta di mille
input in totale e libero scontro, S.Tart è tranceinducing come un Tetsuo tecnologico sul punto
di andare fuori controllo. Alternate future is
next to come.
7/10
Stefano Pifferi
A g o s t o
r e c e n s i o n i
/
Genere: industrial
Te/DIS ovvero “Tempted Dissident” è la nuova
scoperta della label tedesca Galakthorrö, etichetta dedita a sonorità industrial / “angstpop”.
Il progetto solista del musicista tedesco, la cui
reale identità non è dato conoscere, è intriso
di un oscuro nichilismo “oltranzista”. Te/DIS
sembra evocare il fantasma di Ian Curtis sotto
psicofarmaci mentre recita su un tappetto di
frequenze pulsanti alla Pan Sonic e ritmiche
industriali degne dei primi Cabaret Voltaire.
Dopo l’EP del 2013 Black Swan, capace di
fondere cold wave e sonorità elettroniche industriali, Tempted Dissident esordisce quest’anno con l’altrettanto ottimo LP Comatic Drift,
sempre per Galakthorrö, la leggendaria label
tedesca di Mrs. e Mr. Arafna. Per chi non la
conoscesse, la coppia di musicisti è responsabile di due progetti di culto della musica
industriale: Haus Arafna e November Növelet,
entrambi dediti ad un perverso “minimalist
power electronics/industrial” che loro stessi
hanno definito “angstpop”, per distingue il loro
particolare approccio alla musica elettronica
L u g l i o
Te/DIS - Comatic Drift
(Galakthorrö,2014)
d’ispirazione post-industriale.
Te/DIS espande le sonorità abitualmente
proposte dalla label tedesca: non mostra elementi harsh noise e power electronics, come
il compagno di etichetta Subliminal, ma conserva le soffocanti e morbose sfumature melodiche dei November Növelet e degli ultimi
Haus Arafna, aprendo anche a sonorità dark e
cold-wave. Il lavoro del musicista tedesco sulle
frequenze, ha del maniacale, come ci aveva già
abituato il suo collega Maska Genetik, prematuramente ritiratosi dalle scene, sembra per un
crollo nervoso.
Tra i brani più rilevanti di Comatic Drift ci
sono sicuramente Reject e Fixer, che ricordano i momenti migliori della collaborazione
tra Alan Vega e i Pan Sonic. Smother the Pain
rappresenta uno dei punti più alti del disco,
con il suo riuscito contrasto tra oscure melodie
dark-wave ed un ossessivo trapano industriale, memore dei Throbbing Gristle, che non
sembra dare tregua all´ascoltatore. La traccia
Groundfog ci mostra un battito cardiaco solitario disperso nelle nebbie, sul filo sottile di
un evocativo synth, sfacciatamente cold wave.
Set Minds on Fire apre il lato B del disco ed è il
lento e pesante incedere marziale di un Golem
di metallo che, a tratti, sembra liquefarsi. Il
finale con la doppietta If I Die e Optimism Bias,
rappresenta il vertice dell’opera mostrando anche la faccia più melodica e dark/new wave del
progetto, in cui compaiono spettri emozionali
di paesaggi desolati (e desolanti) memori degli
ultimi Joy Division. Optimism Bias si conclude
degnamente con la frase “Burning sun arises
crushes a million lifes”, la quale non lascia speranze di sorta: in pratica, è la severa lezione dei
Suicide trasposta nel 2014 in chiave “angstpop”
industrial.
Comatic Drift, trasporta l’ascoltatore in una
spirale nera di disperato isolazionismo mentale avvolto su se stesso. Un lavoro affascinante
151
e coinvolgente, nel suo essere oltre qualsiasi
forma di compassione umana o possibile redenzione. L’unico difetto del disco è una certa
monoliticità di fondo che si stempera però
nella seconda parte, aprendosi di più alla forma canzone e mostrando appieno la capacità
dell’artista tedesco di creare convincenti atmosfere evocative ed oscure come la morte.
Come ogni album Galakthorrö, Comatic Drift,
è stato rilasciato sia come LP a tiratura limitata, in questo caso a 460 copie tutte numerate a
mano, sia come CD, anch’esso a tiratura limitata. Ovviamente, entrambi i formati sono andati
subito sold out come tutte le uscite della cultlabel tedesca.
7.2/10
/
L u g l i o
The Acid - Liminal (Infectious,2014)
Genere: pop, cantautori, art, elettronica
Proprio nel momento in cui RY X sembrava
potesse essere alle porte di un successo in
solitaria (l’EP Berlin, recensito lo scorso dicembre) sono iniziate a circolare le prime voci
riguardanti un nuovo progetto, chiamato The
Acid, con il Nostro nel ruolo di protagonista
vocale, coadiuvato da Adam Freeland e Steve
Nalepa.
Con il solito alone di mistero virale che ha
inizialmente caratterizzato numerosi proggetti post-Blake, i The Acid hanno mosso i
primi passi nella seconda metà del 2013 con
un autoprodotto ed omonimo EP (contenente Animal, Basic Instinct, Fame e Tumbling
Lights) ristampato poi questa primavera per la
Infectious. Alle spalle nessuna cinematografica
ed appassionante storia di ragazzi che deciedono di fare musica insieme sui banchi di scuola,
ma quello che potrebbe sembrare un freddo
calcolo discografico di tre artisti distanti – in
tutti i sensi – tra loro: RY X è un cantautoregiramondo australiano che abbiamo già saputo
152
r e c e n s i o n i
A g o s t o
Marco De Baptistis
apprezzare, Adam Freeland è un dj inglese di
lunga esperienza (suo il fabriclive n. 16, risalente al 2004) mentre Steve Nalepa è un produttore audiovisivo californiano che insegna
Ableton Live alla Dubspot, importante scuola
per produttori e dj.
Tre figure che conoscono bene l’industria
musicale – pur avendo sempre, piccoli sprazzi
a parte, lavorato dietro le quinte, lontano dai
riflettori – e che, unendo le forze, potrebbero
aver trovato la strada vincente verso una maggiore notorietà. Liminal, l’esordio lungo, è il
corrispettivo in musica del titolo stesso, ovvero
qualcosa che si muove lungo il livello di soglia
della coscienza e della percezione, dando vita
ad illusioni ipnagogiche.
Ereditando le tracce principali pubblicate
fino ad ora, Liminal offre cinquanta minuti di
solitario minimalismo pop oscuro, sussurrato,
che lavora sia in superficie che in profondità.
L’eredità di James Blake viene stravolta su
traiettorie meno soulful e più marziali, figlie
della spiccata alchimia tra le tre menti. A volte
sembra di entrare in rotta di collisione con un
Thom Yorke meno algido e più sinistramente
sensuale (Creeper, “I want to love you like a
creeper”) che si muove su battute lente e secche, dove la preziosa chitarra “echizzata” di RY
X fa da – mai invadente – collante (la Bon Iveriana Basic Instinct). A rendere l’ascolto ancora
più appagante pensano intarsi rumoristici (le
distorsioni aliene in Animal) che donano fascino a brani che non sempre si fanno apprezzare
nella loro interezza (Tumbling Lights), specie
nella seconda metà dell’opera.
Altrove primeggiano influenze del contesto
berlinese caro ai tre: cassa dritta e ritmiche
taglienti ad altezza minimal-industrial di Creeper (chiaramente una delle standout tracks),
i synth di Fame - che, tra le altre cose, presenta
un gioco di chitarre+beat non troppo distante
dai territori The xx -, il groove prima sottopel-
dula Machine Gun Stars) e turbe arcigne (una
Dead Caravan che manda i Gun Club a sbattere
col miraggio Black Sabbath), svetta quella The
River Song col cuore rapito, l’armonica a precipizio e l’asprezza sabbiosa, come potrebbero
dei Calexico prima inaciditi dEUS e poi inteneriti Al Stewart.
Un lavoro generoso, dal carattere forte e dal
taglio sempre più riconoscibile. In attesa di
capire se ci sono ancora margini di crescita,
aggiungiamo senz’altro i The Great Northern X
tra i nomi da seguire con attenzione.
7/10
Riccardo Zagaglia
The Pack AD - Do Not Engage (Nettwerk
Music Group,2014)
The Great Northern X - Coven
(Fooltribe,2014)
A g o s t o
Genere: rocknroll, garagerock
Con il quarto disco (il primo per Nettwerk),
il duo formato dalla chitarra di Becky Black e
Maya Miller avrebbe dovuto dimostrare definitivamente che i proclami della stampa canadese e del loro management sono fondati. Da
anni, infatti, si parla di loro come della next big
thing del garage, quasi dovessero raccogliere
la semina di White Stripes e The Black Keys
per quanto riguarda quel blues suonato a due
che ha avuto una certa fortuna durante i 2000.
Non sarà così. Non perché Do Not Engage
sia un disco mal riuscito, tutt’altro: è calibrato
come meglio i Nostri non hanno mai fatto. Il
problema è che il settore è piuttosto affollato,
oltre che dai due gruppi citati, anche da decine
di altri gruppi (pescate a occhi chiusi dal catalogo Sacred Bones o chiedete direttamente al
nostro Stefano Pifferi, che ve ne sciorinerà una
dozzina all’impronta).
Per mettere in mostra il proprio valore, quindi,
servirebbe un guizzo di originalità in più. E
va bene assottigliare (solo apparentemente) la
componente blues per sottolineare il legame
con il grunge di marca 90s che sta tornando di
/
Genere: rock, grunge, alt, folk
Ci lasciammo due anni e mezzo fa con un
album d’esordio omonimo che, pur sfilandosi
dalla partita delle sonorità inedite, metteva in
mostra un’attitudine senza infingimenti, uno
stare sul pezzo con pienezza e disincanto, in
bilico tra le brume irrequiete del post-rock ed il
trasporto ventrale del folk elettrificato. L’opera
seconda Coven arriva oggi a confermare tutte
le buone impressioni aggiungendo il coraggio
di un piglio melodico più marcato, come se i
quattro padovani potessero ormai contare su
una solidità di intenti tale da evitare qualsiasi
gioco al risparmio.
Scritte dal vocalist nonché leader Marco Degli
Esposti, le sette tracce squadernano un piglio
cantautorale mandato a deflagrare in un crogiolo di frontiera Paisley (la graffiante Let’s
Down Our Sorrow), inseguendo un fiabesco
vibratile vagamente Billy Corgan (come in
Carol) incalzato da vampe ipnotiche Polvo e
languore ruggente Buffalo Tom (Skunk). Tra
palpitazioni ciondolanti (l’accorata Fever, l’aci-
Stefano Solventi
L u g l i o
r e c e n s i o n i
le poi sempre più austero di Ghost ed alcune
soluzioni sonore che sembrano provenire dai
Factory Floor rallentati di dieci volte. Meno
forte l’impronta The Acid, invece, in passaggi
come Ra in cui ci si avvicina più alle sonorità
targate RY X.
In definitiva, non ha torto chi tende ad etichettare Liminal come l’ennesimo – buon – disco
infuenzato dai soliti nomi e dall’ormai consolidato modo “anni Dieci” di intendere un certo
tipo di pop elettronico, ma non dare neanche
una possibilità ai The Acid significherebbe
perdere uno dei dischi più intriganti e silenziosamente contagiosi degli ultimi mesi.
6.7/10
153
A g o s t o
/
L u g l i o
Marco Boscolo
Soft Pink Truth - Why Do The Heathen
Rage? (Thrill Jockey,2014)
Genere: elettronica
Mentre Drew Daniel, assieme al compagno
M.C. Schmidt, si diverte ancora a suonare quasi objects, glitcherie, clicks’n’cut e altre avanguardie cosmiche (e non) con l’ormai storica
ragione sociale Matmos – li abbiamo visti di
recente al Freakout -, la scommessa fatta con
Matthew Herbert all’inizio dei noughties è
ancora aperta e l’ora insegnante universitario
torna a far – diciamo – ballare.
A ben dieci anni di distanza dall’ultima prova, Do you want new wave or do you want
pink truth?, che in sostanza reinterpretava,
inserendoli in un simulato, caotico, streaming
radiofonico, brani punk hardcore britannici e
americani in chiave electroclash, house, bassi
wobble à la Oizo ecc., Daniel torna ora con un
154
nuovo lavoro a tema, questa volta proponendoci alcuni classici black metal rivisitati secondo
alcune tendenze dancefloor attuali e qualche
“frullata” delle sue.
Non pensate quindi a un disco monolitico che
suona tutto come la cover dei Venom, Black
Metal (accompagnata anche da un divertente
videoclip) e che ricalca vecchi vezzi da frullatore à la Mouse On Mars in chiave elettro-gore:
l’album piuttosto si rivela come una divertita
presa in giro di bro step, edm e altre Diploneo-Prodigy-non-ultimo-Nine Inch Nailsderive, tutte musiche che hanno tra i propri
fan frange di aficionados estremi non troppo
differenti dalle ali più toste del black metal storico. Aspetti che si ricollegano all’amore per il
concettuale del solito Drew che, con Soft Pink
Truth, da sempre fa dialogare la cultura gay
con alcune manifestazioni musical culturali
apparentemente agli antipodi (vedi Antony Hegarty che, in Incocation For Strenght, declama
versi tratti da Witchcraft And the Gay Counterculture dell’attivista gay, Arthur Evans).
Impianto teorico a parte, Why Do The Heathen Rage? è spassoso. Beholding the Throne
of Might sembra una risposta più pervertita di
quanto i Die Antwoord possano ragionevolmente auspicare di essere o diventare; inoltre
Daniel sa bene cosa si sta muovendo attualmente sul dancefloor, trap e jungle compresa:
Let There Be Ebola Frost, ad esempio, sfodera
un remember ’93 in piena regola tra house, rave
e rullanti, mentre Buried by Time and Dust
riprende il techno pop dei Kraftwerk ammiccando a tutto un immaginario da ghetto globale
di cui abbiamo già parlato a proposito dell’anniversario Hyperdub. Poi ci sono i mix che
oscillano anche su lati più morbidi e di cultura
diciamo chicagoana, come la deep Ready to
Fuck dei Sarcofago – con ospite Jenn Wasner
dei Wye Oak – o una Manic che pastura trax
house intervallando con deformanti visioni à
r e c e n s i o n i
moda, ma la formula a duo comporta comunque una limitazione di possibilità espressive
che solo una penna fuori dal comune può
far diventare l’occasione per brani che lascino il segno. Non basta nemmeno la strizzata
d’occhio colta di una The Water in territorio
Suicide (estrema trasfigurazione di blues qui
ridotta a citazionismo da aperitivo). Cercare di
mettere da parte il blues lo-fi delle origini per
suonare come un gruppo alt rock di vent’anni
fa, insomma, potrebbe non avere giocato un
buon servizio.
Rimane una manciata di buone canzoni da aggiungere alla propria personale playlist garage
rock (il singolo Big Shot con un riff di chitarra
che si stampa nella memoria, la sincope di Animal e Battering Ram), materiale che basta solo
per una sufficienza piena meritata per l’energia
(che non manca), ma mancata sul fronte della
scrittura e della proposta estetica.
6/10
la Venetian Snares. Insomma, una quarantina
di minuti (quasi tutti) con il sorriso. Frivoli e
intelligenti, come Drew sa fare.
7/10
Edoardo Bridda
A g o s t o
Edoardo Bridda
/
Genere: elettronica
C’è qualche novità importante nel nuovo album
dell’alias storico di uno dei pilastri del breakcore, Aaron Funk. Il seguito dell’istintivo
My So-Called Life del 2010, My Love Is A
Bulldozer, è ciò che di più vicino alla (prog)
operetta si possa pensare avendo in mente le
fondanti del progetto Venetian Snares; inoltre
il canadese, in ben tre brani, questa volta canta
davvero (quindi non si limita alla mono strofa
come in Horsey Noises del 2009) inserendo
anche alcuni delicati momenti gotici, per archi
e venature jazz, nella consueta fitta trama di
poliritmi impazziti.
Le orchestrazioni del disco, voce compresa,
sono il portato della recente parentesi Poemss,
duo folk che Funk ha condiviso con Joanne
Pollock, mentre le atmosfere chamber che
ricordano l’Est Europa, certe angolarità jazz
sparse à la Squarepusher e il melodramma
esisitenzialista di alcuni espisodi, sono elementi che già avevamo incontrato nella sua impetuosa discografia (vedi Rossz Csillag Allat
Szuletett); la differenza sta in una rinnovata,
inconsueta e nondimeno entusiasmante veste
(ironico)romantica.
I quattro anni che separano il nuovo disco
dalla precedente prova sulla lunga distanza - e
dall’altra parentesi che ha tenuto impegnato il
musicista, ovvero Last Step - hanno senz’altro
un ruolo nella rinnovata vena compositiva di
questo Funk innamorato come un bulldozer.
L’album, colorato o chiaroscurale, non si vergogna di essere poetico (Too Far Across), esotico
L u g l i o
r e c e n s i o n i
Venetian Snares - My Love Is A
Bulldozer (Planet Mu Records,2014)
e seriosamente avant-classico (Dear Poet ricorda per soluzioni à la Cage alcuni passaggi di
Drukqs, She Runs) e non si vergogna neppure
di giocare con il ridicolo e il caricaturale.
Proprio grazie a queste alternanze, Vsnares
torna ad antichi fasti e alle scintille di genio
che John Peel vide in lui già ai tempi di Printf.
E proprio le prime prove di Funk tornano utili
per evidenziare quanto queste si specchino
nell’ultimo lavoro come lo ying nello yang.
All’inizio, Aaron spremeva gli aspetti più torbidi della sottocultura rave, ora pastura precisi
e scintillanti amen break calandoli in cocktail
lounge pre war (10th Circle Of Winnipeg …fate
conto i Portishead in versione jungle-rave), medioevali visioni savonarolesche (1000 Years) o
inclassificabili stramberie perse in chissà quale
parallasse temporale (Amazon, My Love Is A
Bulldozer).
Funk non prende in giro l’amore, prende in giro
se stesso. Consigliato e, per una volta, non solo
ai fan die hard del canadese.
7.2/10
Viet Cong - Cassette (Mexican
Summer,2014)
Genere: psych, alt, wave, post-punk, garagerock
Cassette, tecnicamente passo numero uno
nella discografia dei canadesi Viet Cong ma in
realtà già circolato lo scorso anno come cassetta, appunto, tour-only, è un disco godibilissimo
ma senza un vero centro che non sia quello
“chitarristico” in ogni sua forma. Nuovo nome
ma vecchie conoscenze, dato che i quattro
Viet Cong da Calgary non sono che un paio di
ex Women (la sezione ritmica composta dal
cantante e bassista Matt Flegel e il batterista
Mike Wallace, fuoriusciti dopo una scazzottata
interna alla band che ha in pratica messo fine
alla formazione) e gente del giro Chad VanGaalen: in soldoni, garanzia di spessore, bel
155
A g o s t o
/
Stefano Pifferi
White Lung - Deep Fantasy
(Domino,2014)
Genere: punk
Il terzo disco dei White Lung da Vancouver è
anche il loro esordio per Domino. Ed è un disco
– ancora una volta – fondamentalmente punk,
sia per la durata (10 brani per 22 minuti), che
per il suono: battente senza tregua, chitarre
lancinanti, batteria pestona, basso a seguire.
Tutto, dunque, è al posto giusto, sotto la produzione di Jesse Gander, già presente in Sorry: la
voce sopra le righe della cantante (Mish Way),
il ripescaggio dell’hardcore qui (Sychopant),
del punk anni Novanta lì (In Your Home, quasi
emo).
Chi ha parlato di foxcore resterà deluso, poiché
le coordinate entro cui si muove il suono non
hanno (o hanno molto poco di) quel metal che
tanto aveva dato al sottogenere in questione.
Qui si tratta invece di una via di mezzo tra la
potenza di certo hardcore (senza mai i suoi
tempi rapidissimi) e il primo punk americano.
156
Forse la cosa più riot grrl, invece, è la voce di
Mish Way, che varia su registri prima più tenui
poi più aggressivi: con un po’ di schizofrenia in
più saremmo dalle parti delle Babes in Toyland di Fontanelle.
Rispetto ad esempio ai contemporanei Perfect
Pussy, i testi hanno sì introspezione, ma minore
sofferenza da vissuto traumatico/disperato: qui
la carica negativa è tutta nell’urgenza del suono, che forse paga in autenticità ciò che guadagna in brillantezza, soprattutto per quel che
riguarda la produzione. Certo, siamo sempre
nell’alveo punk, quindi le possibilità di aggiornamento del canone hanno possibilità risibili, e
magari i pezzi non sono tutti memorabili, ma il
disco conserva (anche per l’esigua durata) una
certa compattezza di intenti e di sound, nel suo
rifiutare gli intellettualismi e procedere tutto di
pancia.
La ragione per cui questo album merita non
è dunque (come motivato da certa stampa
straniera) il suo essere un prodotto del tempo
in cui viviamo, in cui l’immagine della donna
viene prima della sua essenza. E non lo è nemmeno il suo essere un disco che può ricordare
quelle band femminili dei primi Novanta (cosa
tra l’altro tutta da dimostrare). Deep Fantasy
ha la sua ragion d’essere, come spesso nel punk,
fuori da questi discorsi sulla metafisica attorno
alla musica: è un disco che fa il suo dovere di
macinare un suono aggressivo in maniera omogenea, senza lampi di imprevedibilità ma senza
nemmeno scadere nel ridicolo. Ridurre questi
pregi con discorsi sull’hype sarebbe davvero il
torto peggiore che si può fare, oggi, ai White
Lung.
6.3/10
Andrea Macrì
Wife - What’s Between (Tri Angle,2014)
Genere: dark, industrial, rnb, elettronica
Nel 2012 lo Stoic EP già aveva definito delle
r e c e n s i o n i
L u g l i o
tiro chitarristico, invenzione e fantasia, sagacia
compositiva.
“Labyrinthine post-punk”, per dirla con le loro
stesse parole, e cioè un garage-rock mai aggressivo e piuttosto screziato, dalle forti tinte
visionarie, che prende e centrifuga psichedelia
docile, neo-garage sixties oriented alla Thee
Oh Sees/Ty Segall, echi velvetiani nel saper
dosare melodia e (r)umore, intrecci alla sei
corde in stile Television con sconfinamenti
“altri” – il techno-rock bluesy à la Young Gods
di Structureless Design, una cover energica di
Dark Entries dei Bauhaus, oppure la chiosa in
una ghost track a mo’ di scherzo che sembra
Warszawa di Bowie via Eno – che non fanno
che aumentare le aspettative per l’album d’esordio.
6.8/10
Genere: pop, rock
Purtroppo il successo planetario – annunciato a tempo debito – degli Imagine Dragons
non si è limitato esclusivamente a ridimensionare (ulteriormente) a livello qualitativo ciò
che l’offerta radiofonica ci propone in ambito
“pop-rock”, ma ha anche fornito una discreta esposizione mediatica agli immancabili ed
evitabilissimi proseliti (American Authors su
tutti). Se non fosse che a volte è meglio mettere le mani avanti quando ancora si è in tempo,
sarebbero evitabilissime anche queste righe
r e c e n s i o n i
A g o s t o
X Ambassadors - The Reason EP
(Interscope Records,2014)
/
Marco Braggion
che presentano il secondo EP – intitolato The
Reason – di una formazione pronta a raccogliere i frutti della band di Dan Reynolds, gli X
Ambassadors, ovvero una versione più sfigata
degli Imagine Dragons, (ancora) più vicina al
target redneck.
I punti di contatto con il gruppo del milionario Night Visions non sono pochi, ad iniziare
dal grande supervisore di entrambi i progetti:
Alex Da Kid. Il produttore inglese fondatore
dell’etichetta KIDinaKORNER ha rinnovato il
proprio fiuto per le hit (dopo aver collaborato
anche con Rihanna ed Eminem), delineando un
suono bombastico e sfacciatamente furbo che
troviamo ben presente anche all’interno della
proposta di Sam Harris (voce e degli X Ambassadors) e compagni.
The Reason EP, sebbene non presenti in tracklist la traccia con cui il gruppo si è fatto conoscere (Unconsolable, compresa nell’EP Love
Songs Drug Songs dello scorso anno), contiene sei brani di potenziale successo. In particolare Free and Lonely – slow-ballad dal sapore
100% americano con alcune flessioni gospel – e
Jungle, rafforzata dall’animo bluesy di Jamie
N Commons. Indefinibili nella loro bruttezza
The Business (un pasticcio di didattiche contaminazioni elettroniche), le ridicole velleità
struggenti di Unsteady e la ripetitiva Giants,
probabilmente adatta a qualche telefilm di dieci anni fa nelle sue sparate alla Nickelback.
Nella migliore degli ipotesi i Nostri diventeranno – e rimarranno – un fenomeno esclusivamente statunitense.
3.9/10
L u g l i o
coordinate intimiste post-nu-soul su binari solidi. Gli ingredienti erano trattamenti alla voce
che ampliavano lo spettro e lo straniamento,
qualche percussione in linea con le teorie dei
Portishead e inevitabili rimandi alla scuola James Blake. Il tutto era comunque sintonizzato
su una direzione che puntava più sulla canzone
che sull’effetto, sulla nitidezza delle melodie
più che sull’ostentazione delle macchine e degli effetti usati in studio.
Anche nel full-length James Kelly fa spuntare
molti echi di pop. La voce maschile assomiglia infatti ad uno strano miscuglio fra Sting
(Like Chrome), Jeff Buckley e Chris Martin
dei Coldplay (Tongue), il tutto servito su un
tappetino di basi nu-soul che piacciono molto alle malinconie post-How To Dress Well.
In generale il tono del disco si mantiene su
una buonissima capacità produttiva, che però
sembra perdere mordente sulla lunga durata.
Un buon lavoro “di genere” che non trattiene
la tensione fino in fondo, scopiazzando il verbo
di una moda già codificata. Molti brani sono
comunque ascoltabilissimi e piaceranno anche
agli amanti del pop tout court.
6.5/10
Riccardo Zagaglia
157
G imme
S o me
I nc h es # 5 0
Questo mese allunghiamo lo sguardo su vinili grossi e piccoli, nastri e digitali per Gazebo Penguins,
Johnny Mox, Gli Putridissimi, Panzanellas, Alien
Whale, System Hardware Abnormal, Luca Sigurtà,
Believer/Law, Shallow Sanction, Lakes
158
Sempre più i formati piccolo sono terreno di incontro e/o sperimentazione, quasi un
recinto in cui lasciarsi andare all’ombra dei pezzi grossi. È il caso dello split Santa Massenza, 12” dalla copertina rosso fuoco edito da To Lose La Track in cui Gazebo Penguins
e Johnny Mox, apparentemente distanti l’uno dagli altri, uniscono le forze e ci regalano 5
pezzi e due racconti. Sì, letto bene, perché i formati strani permettono robe strane, come
l’assemblare qualche pezzo nuovo con due racconti lunghi (il reverendo trentino e Capra
dei Gazebo gli autori). Limitandoci alla musica, le due fiondate degli emiliani sono al solito
nervose e chitarrosissime – doppia chitarra anche in questi due inediti, come nell’ultimo
tour – tra sing-a-long, stacchi maledetti e sottile malinconia che ben si esplicita nella toccante e intima RiposaInPiedi; il lato di Johnny Mox, invece, viaggia al doppio della velocità
perché a far da backing band ci sono proprio i Gazebo. Ciò significa urticante post-hc al
servizio delle rime del nostro in una sorta di riproposizione del mash-up alla “Judgement
Night”. L’inedita Hollow Prayers va di funk-metal d’antan mentre la rendition del cavallo
di battaglia Oh Reverend ci ricorda come Johnny sia il più “rock” tra i musicisti non-rock
e i Gazebo i suoi più fidi scudieri. Scendendo di giri, apprendiamo con piacere il nuovo
progetto Alien Whale, sigla dietro al quale si cela Matt Mottel dei Talibam! in compagnia
di Colin Langenus dei mai troppo compianti Usaisamonster e Nick Lesley dei Necking.
Un 10” da 20 minuti scarsi uscito per l’inglese Care In The Community in cui i tre danno
fondo ai rispettivi background, tirando fuori tre pezzi di noise psichedelico, spruzzato di
avant-rock e reiterazioni kraut alla Oneida (Astral Projections And Suicidal Thoughts),
classic rock e pantani cosmici e sludge (Anointus Venomous Atlanticus), afro-funk mutante e free-form. Ossessivi è dir poco.
A scendere di formati, segnaliamo un paio di split-tape. In Comete, made in Lepers, perciò garanzia di follia strumentale e devasto sonico, troviamo a indagare lo spazio e gli astri
i baresi Gli Putridissimi e i fiorentini Panzanellas: cosmica, drones, fiati, avant-jazz e
deliqui in libertà per i primi, sempre pronti a rendere mobile la propria offerta musicale;
avant-jazz screziato di afro-psych per i secondi, abili nell’infilarsi nella marea montante
d’area toscana (dal giro Burp agli Umanzuki, per intendersi). L’altra tape vede protagonisti
due celebrità del noise italico: System Hardware Abnormal e Luca Sigurtà si dividono
i lati della tape uscita per la italo-belga Jus De Balles e vanno di ambient disturbante con
glitch e rumorii vari in crescendo straniante (le due tracce di Sigurtà) e staffilate noise,
G imme
S o me
I nc h es # 5 0
accartocciamenti sonori, sferragliare di hardware in disuso e minacciosi vuoti pneumatici
per il romano. Stay noise, as usual.
Altri due nuovi debutti ad accompagnare il clima altalenante di questa prima mandata d’estate. Il primo vede protagonisti i newyorkesi Believer/Law che, dopo le due tape rispettivamente su Cae-Sur-A e Robert and Leopold, arrivano al traguardo su 12 pollici per la connazionale Chondritic Sound (label gestita da Greh Holger, già Hive Mind e Pure Ground).
Passati da duo (in origine composto solo da Erik Proft e Michael Berdan) a quartetto (con
l’avvento di Sean Ragon e dello stesso Greh), i nostri rilasciano Matters Of Life And Death, EP di quattro brani che prosegue sulla strada intrapresa con le due pubblicazioni su
nastro appena citate. Per chi non avesse ancora posato l’orecchio sulle tribolazioni sonore
in questione andrà detto che tutta la paranoia, il malessere e lo spleen (tanto romanzato
quanto reale) che può trasudare dai vicoli di una metropoli come NY, lo ritroviamo qua,
impresso in profondità nei solchi di brani come War Story dove i synth si fanno taglienti
come raggi laser, le drum machine hanno il suono di vecchi pezzi di ferraglia industriale, la
voce è talmente filtrata che sembra emergere dalle fogne della città. Chiamatela come preferite: EBM, minimal-synth, industrial-wave – i pezzi dei Believer/Law sono una mistura
ribollente di bad vibes, un viatico di insofferenza urbana, un incubo retro-futurista dove la
strumentazione analogica serve per esprimere al meglio l’angoscia del vivere nell’era digitale. Decisamente non per tutti, ma se per voi post-punk significa ancora disagio in musica
qui avrete pane per i vostri denti.
Secondo debutto, stesso dosaggio di negatività ma questa volta in chiave punk rock. Parliamo dei londinesi Shallow Sanction, nuovo progetto capitanato da Jesse Cannon (già
frontman nei Natural Assembly) in uscita con un 12 pollici omonimo per la Hospital di
Dominick Fernow. Sei brani brevi e diretti che assimilano influenze death-rock, anarchopunk e dark-wave, in bilico tra Rudimentary Peni, Christian Death, Amebix e Conflict. Per
farvi un’idea prendetevi qualche minuto per ascoltare Ouroboros o la title-track e vi renderete subito conto dell’oscurità che avvolge le sonorità di questi neo-punx. Forse niente di
particolarmente originale, ma senz’altro una boccata d’aria fresca per chi è stanco di vedere
il revival 80s declinato sempre più di frequente in chiave glitter-pop. L’ultima uscita del
mese vede infine il ritorno di un altro gruppo dalle sonorità color pece relativamente già
noto, per lo meno a chi è solito frequentare questi slums musicali (e questa rubrica). Carved Remains è infatti il nuovo singolo dei Lakes. Australiani di Melbourne con all’attivo
già diversi album, il trio goth-folk guidato da Sean Bailey torna sul luogo del delitto dopo
l’ultimo LP Blood Of The Grove con due nuovi pezzi che se poco aggiungono poco tolgono
alla capacità compositiva del nostro: ancora una volta infatti ci imbattiamo nel marchio di
fabbrica di un gruppo che mescola in chiave personale dark-punk e neo-folk con percussioni marziali, solenni chitarre semi-acustiche e grevi invocazioni baritonali. La ricetta è nota
e dunque nessuna novità, ma i fan non resteranno delusi. Nel frattempo ci auguriamo che
il prossimo album porti anche qualche nuova idea perché è tempo di rinnovare un po’ la
formula.
Andrea Napoli, Stefano Pifferi
159
Soundgarden
classic
alb u m
Superunknown – Deluxe Edition (Universal,2014)
160
L’8 marzo 1994 Seattle ha ancora in pugno lo scettro di capitale del nuovo rock americano. Il
grunge è un fenomeno musicale, commerciale e di costume dove convivono ammassati tutto e il
suo esatto contrario: il revival dell’hard rock e l’utopia del punk, i valori del rock indipendente e i
contratti delle multinazionali, l’autenticità delle origini e il carrozzone di MTV (e degli stilisti che
copiano l’abbigliamento “straccione” dei nuovi profeti Vedder e Cobain, e del pessimo film Singles
ecc. ecc. ecc.). Tra pressioni e aspettative, i Soundgarden si misurano con il disco di vertice che dovrebbe consacrarli nell’Olimpo delle migliori rock band contemporanee e ai piani alti delle classifiche. Li attende, insomma, il grande passo per cui si sono preparati meticolosamente dall’inizio della
loro carriera.
Fin dai primi giorni, Cornell e compagni hanno infatti cercato di essere heavy senza essere metal
– o meglio troppo metal -, come di farsi ascoltare anche da un pubblico diverso da quello “elettivo”
aprendo per Skid Row e Guns and Roses nelle arene, ma pure di non abiurare alle origini indipendenti. Hanno fatto anche un po’ i cani sciolti. Avevano cominciato per la Sub Pop quando non era
ancora l’etichetta hip pupilla della stampa musicale. Dopo l’EP rivelatore Screaming Life si erano
accasati alla SST – la quintessenza del punk metal dove poteva trovare spazio se non sull’etichetta
dei Black Flag? – quale passo intermedio per l’approdo alla major AandM. In Louder Than Love
ci avevano “provato” a fare un disco metal, con il loro stile un po’ dark e cerebrale, e allo stesso
tempo a prendere in giro le pose corrive del genere. Metallo o non metallo? Il physique du role e
gli urlacci a petto nudo di Chris Cornell, acuiti da una certa dose di tamarraggine in alcuni video,
lasciavano l’ambiguità viva e fruttuosa.
Da alcuni neppure riconosciuti come parte della scena di Seattle che avevano contribuito a creare,
i quattro si erano presi una bella rivincita con Badmotorfinger. Il “white album dell’heavy metal”
restituiva senza residui dubbi la policromia d’ispirazione che li rendeva speciali. Nessuno si era
scordato la lezione di Led Zeppelin e Black Sabbath, semmai i riff di scuola hard blues anni ’70
respiravano in strutture armoniche e ritmiche articolate, nelle quali le linee tenorili di Chris Cornell sapevano dialogare su un ampio spettro di soluzioni e in modo serrato ed efficace con i pattern
muscolari ma anche molto mentali e i groove ermetici di Kim Thayil e Matt Cameron, il duo che
aveva in mano le sinapsi sonore del gruppo. Il terzo best-seller targato Seattle del 1991 dopo Nevermind e Ten, anche se staccato di parecchio in termini di cifre di vendita, lasciava presagire che
anche i suoi titolari fossero pronti comunque per quel livello di popolarità.
Con Superunknown ai Soundgarden riesce il doppio salto quantico: il risultato è la somma del loro
apice creativo, degli sforzi compiuti degli anni di dura gavetta e di una produzione più accessibile che
li rende fruibili al grande pubblico senza ridurli alla piattezza del bieco metal commerciale. Anzi, se
c’è un disco che corona la loro visione a trecentosessanta gradi dell’hard rock è proprio questo, dove
il suono più che marmoreo appare marmorizzato, ricco di sfumature di cui la proverbiale potenza è la
base per una palette di timbri e di tasselli sonori ampliata e sfruttata in lungo e in largo.
Un disco di canzoni basate sui riff e sulla melodia, scritte in prevalenza da Chris Cornell, grande
protagonista compositivo (oltre che vocale, con i brillanti tour de force di The Day I Tried to Live o
Fresh Tendrils e non solo). Un campionario di idee attinte a tutto lo scibile rock con l’hard sempre
in prima linea, dal riff ipnotico di Let Me Drown al martellante power blues di Mailman, in una
title-track che certifica il ruolo di Led Zeppelin degli anni ’90 e in Spoonman, una Black Dog più
sincopata e corredata di controcanti e contro-riff, dedicata a un percussionista di strada che contribuisce alla parte ritmica suonando i suoi cucchiai. La parte più psichedelica, melodica e sperimentale dei Soundgarden esce allo scoperto nella drammatica Like Suicide come in Head Down,
firmata dal bassista Ben Shepherd che ai tempi di Badmotorfinger era appena entrato nel gruppo
ma già faceva sentire il suo apporto in termini di scrittura. È dalla sua penna che escono le cose più
insolite (vedi la bizzarria/riempitivo di Half ). Se è per questo, il quartetto di Seattle non rinuncia
affatto agli aspetti alternativi del proprio rock pesante – vedi le accordature di Thayil quasi alla
Sonic Youth di My Wave – né a quelli “progressivi” come i cambi di metrica e i tempi dispari, composti o irregolari che ravvivano persino i pezzi più orecchiabili, primo tra tutti il pop felpato e acido
della beatlesiana Black Hole Sun, insieme alla ballata dai potenti chiaroscuri Fell On Black Days.
I Soundgarden ingranano le «marce alte», come ha scritto bene Chris Nixon nella sua monografia.
È una percezione che da subito unisce la stessa band, le persone a lei vicine e, naturalmente, i fans.
Di fronte all’”album più bianco” dell’heavy metal (come lo ribattezza Kim Thayil sottolineando lo
spunto ulteriore rispetto a Badmotorfinger) anche il loro vecchio produttore Jack Endino applaude al fatto che abbiano ottenuto un album di canzoni senza cadute di tono: «Gli altri erano la
ricerca di qualcosa, questo l’ha trovata».
La ristampa per il ventennale dell’uscita ha fatto le cose in grande come si usa di questi tempi. La
versione deluxe base in doppio CD abbina alla riedizione rimasterizzata (completa della bonus
track di allora, She Likes Surprises) una raccolta di provini e lati B dei singoli. Rifatta anche la
grafica del booklet, ma alla nuova preferiamo l’originale. Addirittura quattro CD e un Blu-Ray disc
audio con il mix in 5.1 per la versione espansa. In molti demo – quelli di Superunknown erano
«straordinari» a detta del sound engineer Adam Kasper – si possono ascoltare già i pezzi fatti e finiti, almeno nella struttura portante. Tuttavia, la registrazione non fu una passeggiata, le tensioni con
il produttore Michael Beinhorn («tutti i musicisti che hanno lavorato con lui hanno detto di avere
gradito affatto l’esperienza… e di solito se ne usciti con il miglior disco della loro carriera», disse
una volta Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora moglie di Chris Cornell) durarono per
tutto il lavoro e solo dopo il mixaggio di Brendan O’Brien il gruppo si rese conto di avere in mano il
proprio vertice creativo.
Appena uscito, Superunknown debuttava al numero uno in classifica e i Soundgarden si lanciavano nel primo tour mondiale da headliner. Esattamente un mese dopo l’uscita del disco, tutto cambiava. Cambiarono anche i Soundgarden che quando Kurt morì erano in pieno tour. «Non abbiamo
avuto l’opportunità di piangerlo e di stare assieme alle nostre famiglie durante quel periodo».
Qualcosa si era incrinato pure all’interno del gruppo, e il successivo Down On The Upside fu solo
l’anticamera dello scioglimento. La recente reunion non ha dato grandi risultati, ma sarebbe utopia
pensare a un nuovo Superunknown. Lo slancio del momento non si può certo replicare in vitro. E
tantomeno i risultati.
Tommaso Iannini
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TRA I TANTISSIMI IN ARRIVO!
29 MAGGIO 2014: LOREDANA BERTE'
03 GIUGNO 2014: BOMBINO
05 GIUGNO 2014: CLOUD NOTHINGS
07 GIUGNO 2014: MULATU ASTATKE
11 GIUGNO 2014: ESTRA
22 GIUGNO 2014: PIERS FACCINI
24 GIUGNO 2014: MASSIMO VOLUME
26 GIUGNO 2014: CALIBRO 35
03 LUGLIO 2014: LEVANTE
07 LUGLIO 2014: NEW YORK SKA JAZZ ENSEMBLE
15 LUGLIO 2014: JOHN BUTLER TRIO
16 LUGLIO 2014: GORAN BREGOVIC
18 LUGLIO 20143: BANDABARDO'
22 LUGLIO 2014: PAOLA TURCI
24 LUGLIO 2014: WILLIAM FITZSIMMONS
27 LUGLIO 2014: EASY STAR ALL STARS
03 AGOSTO 2014: NOFX
Via Granelli 1, Sesto San Giovanni (MI)
www.carroponte.org
Prevendite disponibili sui circuiti TicketOne e VivaTicket