Gli intangibles come leva strategica

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DOSSIER
a cura di ariela caglio
Gli intangibles come
leva strategica
Tecnologie, brand e capitale umano all’origine
del vantaggio competitivo
Ariela Caglio
è professore associato di
Programmazione e Controllo e
Senior Professor dell’Area
Amministrazione, Controllo,
Finanza Aziendale della
SDA Bocconi.
Research Assistant presso la
University of Manchester
(1999-2000) e Visiting Professor
alla London School of Economics
and Political Science (2011),
è dal 2012 membro dello
Standing Scientific Committee
della European Accounting
Association (EAA).
I suoi interessi di ricerca vertono
su Management Accounting e
sistemi di controllo nelle
relazioni interorganizzative e
nei network, evoluzione della
professionalità amministrativa,
compensation dei CFO e
dei top executive.
[email protected]
1. La lista completa è disponibile al seguente indirizzo: http://www.forbes.com/powerful-brands/list/.
2. Interessante notare che questa ricerca nasce, col supporto congiunto di Isfol e Istat, con la finalità di identificare un modello di analisi del sistema delle imprese italiane che includa gli investimenti in capitale immateriale e che consenta, attraverso indicatori statistici più “mirati”, di delineare i punti di forza e di debolezza
del sistema industriale italiano. Il modello di rilevazione pilota è stato definito sulla base dell’esperienza dell’ONS (Office for National Statistics) in UK, in collaborazione con l’Imperial College di Londra e il NESTA
(National Endowment for Science Technology and the Arts) ed è in corso di sperimentazione in altri paesi europei. In Italia, il modello di rilevazione è stato contestualizzato con un approfondimento sulla formazione.
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“L’
essenziale è invisibile agli occhi”, diceva il Piccolo Principe in uno dei passaggi più celebri del libro di Antoine De Saint-Exupéry. Sembra una frase pensata per qualificare gli intangibles e il ruolo fondamentale che hanno assunto
nelle aziende di oggi. E non solo con riferimento a realtà hi-tech o luxury, quali Apple, Microsoft, Google o Louis Vuitton, che vengono sistematicamente elencate ai primi posti
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della famosa classifica annuale di Forbes “The World’s Most Valuable Brands”. L’importanza del ruolo che le risorse immateriali rivestono ai giorni nostri all’interno dei processi
di gestione e di posizionamento strategico delle imprese è un trend diffuso indipendentemente dal settore di appartenenza delle stesse. Una recente ricerca dell’Isfol, l’Intangible
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Assets Survey, ha infatti evidenziato come nel 2012 le imprese operanti nel macro-settore della produzione siano quelle che hanno speso di più in intangibili. In Italia, le attività di investimento in reputazione aziendale e marchi e quelle in R&S hanno fatto registrare la spesa media più elevata da parte delle imprese. Le aziende di minori dimensioni (con meno di cinquecento addetti), confrontate con quelle di dimensioni più elevate,
sono risultate più attive nell’acquisizione di software, nelle attività di R&S e negli investimenti per il miglioramento dei processi produttivi. Tra l’altro, gli investimenti in
intangibles hanno avuto una valenza anticiclica: la maggior parte delle imprese italiane
ha comunque investito in risorse immateriali nonostante la crisi. Anzi: il 60% circa ha dichiarato di aver investito in formazione per migliorare la capacità di recupero dopo la
crisi. In ogni caso, la quasi totalità delle imprese ha investito in ricerca e sviluppo (97%)
e in formazione (95%).
Per questa rinnovata pervasività, gli intangibles possiedono ancora oggi lo charme del
tema di frontiera, nonostante il dibattito sulle risorse immateriali sia nato intorno alla fine
degli anni ottanta. Nel tentativo di definire criteri e requisiti che gli intangibles dovrebbero soddisfare per essere considerati tali, il dibattito è ancora in corso e lungi dall’essere
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DOSSIER: GLI INTANGIBLES COME LEVA STRATEGICA
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a. caglio
concluso, data, tra l’altro, l’evoluzione costante e sempre
più rapida dei modelli di business aziendali. Qui è bene ricordare che quando si parla di intangibles, sebbene esistano in letteratura diverse e sofisticate modalità di classificazione, nella pratica ci si riferisce comunemente a tre tipologie di risorse: quelle legate alla tecnologia, quelle legate
al marketing e quelle legate alle risorse umane. Gli intangibles del primo tipo sono i know-how, le invenzioni, i segreti industriali, i brevetti, i software e database, spesso indicati come capitale strutturale. Quelli legati al marketing,
anche denotati come capitale relazionale, sono riconducibili al brand, all’immagine e alla reputazione aziendale e
alle relazioni con i clienti. Infine, esistono gli intangibles relativi al capitale umano, ossia le capacità, l’istruzione,
l’esperienza, l’impegno e la fedeltà delle persone che lavorano in azienda, a tutti i livelli della struttura organizzativa. E che siano guru del management o grandi CEO, ricerche accademiche o contributi di practitioner, da più parti
sentiamo dire che il vantaggio competitivo nasce e si mantiene proprio attraverso il possesso e l’utilizzo di queste tre
tipologie di risorse, più difficilmente imitabili e decisamente meno accessibili rispetto alle risorse tangibili. Di qui il titolo della parte monografica di questo numero, e di qui la
domanda che più o meno esplicitamente si sono posti gli
autori dei quattro contributi: “intangibles come leva strategica”, chiaramente sì, ma siamo di fronte a uno slogan
vuoto di reale contenuto gestionale?
La risposta data dagli autori dei primi tre contributi è
chiara: la gestione e la valorizzazione strategica degli intangibles passano attraverso la misurazione. In altre parole, affinché l’“essenziale” non rimanga “invisibile agli
occhi” di manager, azionisti e investitori in senso lato, è
necessario trovare forme di rappresentazione che passino
attraverso la stima del valore delle risorse intangibili e
l’identificazione dei driver che ne condizionano le dinamiche di valore nel tempo. Tre sono i punti di vista sulla misurazione degli intangibles presentati in questo numero:
quello degli organi di governo aziendale che necessitano di
misure di valore affidabili per prendere decisioni e implementare una gestione fattivamente orientata alla creazione di valore per gli azionisti; quello della funzione Amministrazione, Finanza e Controllo (AFC), che deve supportare i top executive e i manager di linea nelle attività di acquisizione e gestione degli intangibles lungo tutto il ciclo
di pianificazione e controllo; quello delle banche, che
hanno l’esigenza di incorporare la valutazione degli intan-
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gibles dei propri clienti all’interno dei processi di rating.
In particolare, il primo articolo lancia un messaggio di
grande impatto: dando per acquisito che la creazione di
valore economico dipende in modo crescente dall’utilizzo
delle risorse intangibili, Mauro Bini si chiede provocatoriamente come mai le imprese affermino di voler puntare all’obiettivo della creazione di valore per gli azionisti ma
poi, nella pratica, non lo misurino. Dichiarare di perseguire la creazione di valore per gli azionisti senza disporre di
adeguate misure di valore (la “valutazione che non c’è”,
appunto) equivale a impedire agli organi di governo aziendale di svolgere il proprio ruolo. Troppo spesso i CdA e il
top management si devono accontentare di giudizi espressi da advisor, anche blasonati, che non compiono vere e
proprie valutazioni, bensì esprimono solo opinioni di valore. Secondo Mauro Bini, una vera gestione orientata alla
creazione di valore impone, tra l’altro, che ci sia integrazione fra gli strumenti di pianificazione, di capital budgeting, di controllo di gestione, di impairment test e di gestione del rischio e, ancora più importante, che le stime di valore debbano seguire un processo ben definito, utilizzando
principi di valutazione generalmente riconosciuti e applicati da soggetti indipendenti, così come sembrano suggerire ormai i regulators di tutto il mondo.
Andrea Dossi e Maurizio Lombardi mettono l’accento sul
fatto che per poter utilizzare gli intangibles come leva
strategica è necessario migliorare la capacità aziendale di
controllo degli stessi. Ciò rappresenta una sfida per la funzione AFC, poiché l’immaterialità di queste risorse concede alle aziende un maggior grado di libertà nel disegno dei
modelli di business, rendendo più difficile collegare azioni
e risultati, scelte gestionali e impatti economico-finanziari e patrimoniali. Controllare gli intangibles richiede, quindi, che la funzione AFC sia capace di sviluppare un nuovo
linguaggio delle performance che sia perfettamente integrato con il linguaggio esterno di conformance, ossia un
linguaggio impiegabile sia nella comunicazione istituzionale, compliant rispetto ai principi contabili esterni, sia
nei processi gestionali interni, con l’obiettivo di allineare
le decisioni dei diversi manager alla strategia aziendale. I
suggerimenti pratici dati dagli autori per raggiungere questo obiettivo sono molteplici: innanzitutto, occorre diffondere in maniera pervasiva all’interno della struttura aziendale la responsabilizzazione economica circa l’efficiente
impiego del capitale (intangibile) investito; secondariamente, è necessario sviluppare un sistema di misurazione
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e gestione delle performance integrato, ossia che utilizzi
indicatori di prestazione sia finanziari sia non finanziari, i
cosiddetti Key Performance Indicator (KPI). Inoltre, la funzione AFC deve prevedere nel proprio budget annuale che
le risorse interne abbiano tempo disponibile per studiare i
metodi di valutazione degli intangibles e per definire come
proficuamente utilizzare questi metodi lungo tutto il ciclo
di pianificazione e controllo. Fondamentale, infine, che i
professionisti della funzione AFC collaborino con il management secondo una relazione a due vie, da un lato condividendo i modelli causali di sviluppo del valore degli intangibili che si fondano sull’evoluzione del sapere specialistico di marketing, di produzione, o di R&S, dall’altro educando e coinvolgendo i manager nel controllo degli intangibili e stimolando percorsi di formazione del management su questo tema.
Anche Stefano Caselli si occupa di valutazione e misurazione degli intangibles, ma dal punto di vista delle banche,
chiedendosi se e come sia possibile incorporare l’apprezzamento delle risorse immateriali all’interno del processo di
rating. Domanda affatto banale, dato che, in linea teorica, per la definizione del valore degli intangibles occorrerebbe stimare i flussi di cassa futuri che questi asset sono
in grado di generare, funzionalmente al calcolo dell’equity value dell’impresa. Tuttavia, nell’ambito dell’industria
creditizia, la determinazione dei flussi di cassa non viene
utilizzata per definire l’equity value dell’impresa, bensì per
appurare la capacità di sostenimento del debito nel tempo
e per stimare il rischio di default dell’impresa stessa. Questa diversa prospettiva pone alcune sfide nel disegno dei
processi di rating che includano la valutazione degli intangibles, sfide e soluzioni rispetto alle quali ciascun ente creditizio costruisce il proprio vantaggio competitivo e determina l’efficienza e l’efficacia dei propri processi valutativi
e gestionali. Alcuni aspetti accomunano le best practice in
quest’ambito a livello internazionale: in primo luogo, il disegno e la gestione del modello di rating in maniera fortemente accentrata dall’head quarter, laddove, per la parte
qualitativa, esiste un’attività strutturata e complessa di
produzione di report settoriali e di analisi del posizionamento delle imprese; in secondo luogo, la presenza di
team di analisti dedicati a settori intangible-intensive,
come il fashion, l’hi-tech, il biotech e il pharma; infine, lo
scambio continuativo di informazioni fra banca e imprese
clienti facendo leva sia su soluzioni digitali sia su relazioni face-to-face. L’elemento chiave di un “buon” processo di
rating sembra quindi fondato sullo sviluppo di una filiera
valutativa specifica che coniughi la conoscenza tecnica
degli asset immateriali con una strategia deliberata di
creazione di conoscenza industriale, indispensabile non
solo per capire e interpretare la complessità dei modelli di
business delle imprese clienti, ma anche affinché gli enti
creditizi possano giocare un ruolo di servizio per il sistema
industriale.
Chiude la sezione speciale sugli intangibili il forum curato
da Bruno Busacca e Maria Carmela Ostillio, che focalizza
l’attenzione su quella che è forse la più citata e analizzata delle risorse intangibili, il brand. E non a caso, dal momento che i dati raccolti da S&P Capital IQ evidenziano
l’importanza strategica del brand ai fini della creazione di
valore e il grande appeal delle marche del made in Italy:
nel periodo 2010-2013, su 327 operazioni di acquisizione,
198 hanno interessato l’acquisto di un brand italiano da
parte di gruppi stranieri, con multipli da record. Il primo
evento organizzato dalla Brand Academy di SDA Bocconi,
aggregando una rete di expertise accademiche e manageriali, ha esplorato quindi il tema delle strategie di brand
value management presentando alcune esperienze (Unilever, Google, Salvatore Ferragamo, Philip Morris, Interbrand) esemplificative di scelte di reinvenzione e/o ridisegno delle strategie di marca volte a riaffermare la propria
leadership e supportare i processi di generazione della
brand equity. Secondo gli autori, perché si possa accrescere il valore della marca nel tempo, le aziende devono aver
ben presente alcuni snodi critici: l’adozione di una prospettiva di lungo termine per la definizione di strategie di
marketing che rafforzino la brand equity tenendo conto
dell’evoluzione del mercato e degli obiettivi aziendali; il
possesso di una chiara consapevolezza della natura delle
associazioni che concorrono a formare l’immagine del
marchio; la comprensione delle mutevoli esigenze del consumatore odierno, più consapevole e coinvolto e allo stesso tempo più influente grazie anche alle tecnologie digitali. Reinventare il brand, dunque, mantenendo intatto il
suo DNA valoriale, in un virtuoso rapporto azienda-cliente al fine di ottimizzare la valorizzazione di questo asset
intangibile quale importante leva strategica nell’attuale
contesto competitivo e di consumo. π
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