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L’ISLAM NEL XXI SECOLO
Franco Cardini
Che cosa sta succedendo nel mondo musulmano dall’11 settembre ad oggi? Che cosa sta
convertendo una parte di quel mondo da comunità di fedeli a compagine ideologizzata e politicizzata? Quali
sono al riguardo le responsabilità dei dirigenti di quel mondo? Quali quelle dei poteri che si stanno disputando
l’egemonia sul globo? Pe rispondere, cominciamo sia pur sinteticamente dal principio.
I caratteri originali
Noi diciamo l’Islam. Più corretto sarebbe forse parlare degli Islam. D’altra parte, anche il cristianesimo e
l’ebraismo si potrebbero e forse si dovrebbero declinare al plurale. Vanno comunque anzitutto richiamati,
nell’interesse della chiarezza di queste brevi note, alcuni dati fondamentali. La comunità dei fedeli musulmani,
l’umma, si è scissa fino dal VII secolo in tre fondamentali confessioni – la sunnita, la sciita e la kharigita - a
loro volta distinte in scuole e in sette.
Oggi la maggioranza dei musulmani, pari a circa l’85% dei credenti, si dichiara “sunnita”: si riconosce
cioè nella sunna, la “tradizione”, i cui strumenti canonici sono il Corano – il “Santo Libro” contenente la Parola
di Dio: increato e coesistente con Lui – e le migliaia di hadith, cioè di “racconti” relativi ai dicta e ai facta del
profeta Muhammad, raccolti da numerosi testimoni. Gli “sciiti” traggono invece la loro origine dalla shi’a, il
“partito” di ‘Ali, genero e cugino di Muhammad - considerato imam infallibile e capostipite di una serie di imam
a loro volta infallibili mediatori tra Dio e gli uomini -; essi riconoscono il Corano ma rifiutano l’autorità degli
hadith e attendono la rivelazione dell’ultimo imam, quello nascosto (il mahdi), alla fine dei tempi. Dalla shi’a si
separò all’indomani della battaglia di Siffin del 657 la fazione puritana dei kharig, i “quelli che sono usciti”:
secondo i “kharigiti” il ruolo di khalifa, “califfo”, capo spirituale della comunità dei credenti e vicario del profeta,
va egalitariamente attribuita al migliore fra i credenti, qualunque siano la sua razza e il suo rango.
I sunniti si distinguono in quattro principali scuole giuridico-teologiche: i “malikiti”, forti soprattutto nel
Maghreb; gli “shafi’iti”, localizzati nell’Africa orientale; gli “hanbaliti” nella penisola arabica; gli “hanafiti” tra
Vicino Oriente e Asia centrale. Ma da un’antica scuola giuridica originariamente definita come “razionalista” e
viva nel IX secolo, i “mu’taziliti”, è derivato tra XIX e XX secolo il movimento riformista-radicale della salafyya
(da salaf, “ritorno alla religione delle origini”), che nello scorcio tra i due secoli si coagulò attorno all’imam
Muhammad ‘Abduh e al suo riformismo (ishlah) espresso dall’università coranica di al-Azhar in Egitto e
mirante alla restaurazione della purezza della fede. Vanno inoltre tenuti presenti i “wahhabiti”, così chiamati
dal loro fondatore Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), che preferiscono definirsi al-muwahidùn
(“seguaci dell’unicità divina”), insistono sulla necessità diu un’adesione letterale al Corano e agli hadith e
combattono radicalmente qualunque forma di cedimento nei confronti del carattere rigorosamente monoteista
dell’Islam, secondo un atteggiamento dottrinale affine agli almohadi maghrebino-iberici (la parola che designa
il quale è, appunto, l’ispanizzazione di al-muwahidùn). I wahhabiti avversano altresì, considerandoli un
cedimento al politeismo e all’idolatria, qualunque tipo di culto dei santi, di musica e di danza.
Nonostante il suo originario carattere rigorosamente misoneista, il wahhabismo è fino dal Settecento
collegato alla dinastia fondata dall’emiro Muhammad Ibn Sa’ud e perciò in Occidente detta “saudita”, che dagli
Anni Venti del secolo scorso domina l’Arabia detta appunto “saudita” e che spregiudicatamente utilizza gli
strumenti della tecnologia e della finanza moderne.
Gli sciiti, dal canto loro, si riconoscono principalmente nella corrente “duodecimimana”, che riconosce
una serie di dodici imam (da ‘Ali fino alla figura messianica di Muhammad al-Mahdi, scomparso nell’874, mai
morto e che tornerà alla fine dei tempi), forti soprattutto in Iran (il 90% della popolazione) e in Iraq (più del
50%). I “settimimani” ammettono invece una serie di soli sette imam precedenti il mahdi: tra essi vanno
ricordati gli “zaiditi” dello Yemen, gli “ismailiti” che divinizzano la figura dell’imam e lo considerano il
depositario del senso segreto (batin) del Corano. Tra i movimenti “ismailiti” più noti vanno ricordati i “carmati”
del X secolo; i “fatimidi” fondatori di un califfato sciita nei secoli XI-XII; i “nizari”, molto noti anche in Europa tra
XII e XIII secolo come “setta della Assassini” e guidati oggi dall’agha khan che ha la sua sede privilegiata nella
vallata dello Humza tra India e Pakistan ed è leader riconosciuto di circa 300.000 fedeli presenti
principalmente nel subcontinente indiano. Collegati agli “ismailiti” sono i “drusi” il capostipite dei quali, il califfo
fatimide al-Hakim, si presentò quale incarnazione della Divinità ed è venerato come mahdi: le loro credenze
presentano forti elementi neoplatonici (ad esempio l’idea di metempsicosi) e le loro comunità sono oggi sparse
tra Siria, Israele e soprattutto Libano. Dall’imamismo duodecimano si separò fino dal IX secolo il movimento
dei “nusayri”, o “alawiti”, caratterizzato da una dottrina a carattere iniziatico che contiene elementi desunti dal
cristianesimo e dallo zoroastrismo. Insediati in Siria soprattutto attorno alla città di Lattakia, gli “alawiti” vi
fondarono nel 1922 uno stato autonomo riconosciuto sino alla fine del “mandato” francese su quella regione e
ancor oggi vi hanno un ruolo (“alawita” è la famiglia del rais Assad). Comunità sciite, per la maggior parte
duodecimimane, sono presenti in Azerbaigian, nel Bahrein, in Libano, nello Yemen e nella comunità degli
hazara in Afghanistan (due milioni e mezzo circa di persone, di origine etnica uraloaltaica, insediate nelle
montagne del centro del paese). Quanto ai kharigiti, essi sono ancora presenti soprattutto nel Maghreb (a
Tlemcen e in Algeria).
L’Islam contemporaneo è passato tra XX e XXI secolo attraverso una serie di mutamenti – e, in qualche
caso, di sconvolgimenti – che possono essere identificati prima in un tutto sommato breve periodo a cavallo
tra secondo e terzo decennio del Novecento, quindi in due avvenimenti-chiave: anzitutto l’immediato primo
dopoguerra, quando da una parte le “rivoluzioni laiche” ed “occidentalizzanti” nell’impero ottomano e in quello
persiano, trasformatisi rispettivamente in Turchia e Iran (in Turchia la ferrea volontà di Mustafa Kemal impose
l’abolizione del califfato sunnita tenuto dagli osmanli), dall’altra il radicalizzarsi a cominciare dall’Egitto e
dall’India di movimenti a carattere pietistico-politico (che dagli Anni Settanta si prese l’abitudine
d’impropriamente definire come “fondamentalisti”, mentre oggi si preferisce il termine “islamisti” ) che
chiedevano il “ritorno al puro Islam”, determinarono una nuova forma di divisione all’interno dell’umma tra
“estremisti religiosi” e “moderati” che andò a sommarsi a quella, plurisecolare, tra summa e shi’a
diffondendosi in entrambi quegli àmbiti e in parte mutandone i reciproci rapporti; poi la “rivoluzione islamica”
iraniana proclamata a Teheran nel febbraio del 1979 dall’ayathollah Ruhullah al-Musavi Khomeini; infine gli
attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti d’America, segnatamente a New York e a Washington, che
segnarono l’inizio dell’epoca dominata nella politica e nella propaganda americana dal war against terror, con
episodi drammatici come gli attentati a Londra e a Madrid e le invasioni in Afghanistan e in Iraq condotte da
due differenti coalizioni militari in entrambi i casi decise e guidate dal governo della Casa Bianca, in quegli
anni guidato dal presidente George W. Bush jr.
Già nel corso del Novecento, ma con maggior chiarezza dal 1979 e ancor più dal 2001 in poi, si era
avuta l’impressione – in una qualche misura corrispondente a una pur semplificata realtà – che il mondo
musulmano si andasse scindendo tra quanti ritenevano che ormai, dopo un complesso secolare dialogo
caratterizzato da scambi e da scontri, si potesse avviare attraverso un rinnovato e più franco dialogo tra
l’Occidente/Modernità e l’Islam un pur lento e difficile processo di confronto e di osmosi che avrebbe condotto
all’affermazione di un Islam “liberale”, e quanti invece erano convinti che solo tornando a guardare a se
stessa e a riscoprire i suoi antichi e originali caratteri la compagine dei credenti nella Legge coranica avrebbe
saputo attingere a un’autentica rinascita, risollevandosi da quell’eclisse avviata nel Sei-Settecento e da molti
ritenuta irreversibile.
Si era intanto verificato un altro fenomeno lento ma qualificante, radicato nei secoli ma oggetto di una
forte accelerazione negli ultimi decenni: il deep core del mondo musulmano, nato tra Vicino Oriente e mondo
mediterraneo, si era andato spostando verso l’Asia, mentre anche parte del continente africano (totalmente il
suo nord, meno profondamente il centro) era stato coinvolto in un’islamizzazione l’avvìo della quale si era
presentato a partire dalla metà
del
Novecento anche in Europa e nei continenti americano e perfino oceanico a causa della diaspora dai paesi
musulmani in quei continenti e la fondazione di molte comunità di migranti, alcune delle quali caratterizzate da
una più meno pronunziata carica missionaria. Proselitismo e incremento demografico hanno favorito e
incoraggiato tale dinamica, che ai nostri tempi prosegue. Oggi, per quanto l’idioma arabo continui ad essere
la “lingua sacra” dell’Islam e il suo fondamentale supporto linguistico sotto il profilo teologico e giuridico, la
maggior parte dei fedeli non è più etnicamente araba: dalla Turchia all’Iran alla vasta area eurasiatica che si
estende dal Caucaso all’Indo Kush sino al sudest asiatico e all’Africa equatoriale si è affermata una realtà
islamica etnicamente parlando “nuova”, alla quale vanno aggiunti i circa 16 milioni di musulmani presenti in
Europa su circa 500 milioni di abitanti (cioè il 3% della popolazione globale) e i circa 3 milioni e mezzo di
musulmani negli Stati Uniti (cioè l’1% della popolazione). Oggi il primo paese musulmano del mondo è
l’Indonesia, con 203 milioni di abitanti: ma è sintomatico che, fino a pochi decenni fa, questo paese veniva
indicato come un modello di convivenza tra cristiani, musulmani, induisti e buddhisti che lo abitavano, mentre
più tardi si è imposto come uno dei più violenti e pericolosi focolai di scontro etnoreligioso.
Questi dati, evidentemente arrotondati e approssimativi sotto il profilo quantitativo, si riferiscono al 2012
e sono soggetti a una forte dinamica in termini sia assoluti, sia relativi. Teniamo infatti presente che, se il
cristianesimo è la religione ancor oggi più diffusa nel mondo con più di 2 miliardi di fedeli ripartiti nelle varie
Chiesa e l’Islam lo segue con più o meno 1 miliardo e mezzo (mentre la terza religione più praticata al mondo
dopo queste prime due, l’induismo, sta su 1 miliardo di aderenti), il trend attuale presenta una tendenza al
ristagno nel mondo cristiano connessa sia con la regressione demografica e la crescente “laicizzazione” del
mondo occidentale sia con la crescente ondata di forme varie di pressione, intimidazione e persecuzione in
Asia e in Africa, mentre si registrano una crescita di quello musulmano per ragioni demografiche e
proselitistiche e una sostanziale stabilità di quello induista che demograficamente a sua volta tende alla
crescita, ma non fa proselitismo. Non va dimenticato il rapporto tra diffusione dei differenti culti e standard
socioeconomico: una buona metà dei cristiani vivono tra Europa, America settentrionale e Australia, vale a
dire in aree nei quali si concentra quella parte del genere umano, calcolabile in un numero non troppo
superiore al 15% circa della popolazione mondiale (vale a dire a poco più di un miliardo di persone su ormai
quasi sette), che gestisce il 90% circa della ricchezza del globo terraqueo, mentre gran parte dei musulmani e
tutti gli induisti sono insediati tra Asia e Africa, continenti che appartengono all’area nella quale vive il restante
85% degli abitanti del globo, quelli che ne gestiscono il 10% circa. Tale sperequazione viene di solito
sottovalutata se non ignorata o, peggio ancora, nascosta dagli osservatori che s’impegnano nell’interpretare il
fenomeno delle nuove forme di “intolleranza” e di aggressività presenti nell’umma musulmana, addebitandone
il carattere alla sostanza o alla genesi della fede coranica e dimenticando l’incidenza sui suoi fedeli del disagio
socioeconomico e il senso di rancore e di rivalsa generato dalla conoscenza – sia pure spesso oscura e
lacunosa – del processo di globalizzazione che dal Cinquecento in poi hanno determinato la straordinaria
sperequazione oggi presente appunto tra chi detiene, gestisce e sfrutta le risorse del globo e chi ne è invece
solo oggetto.
Nahda e Jihad
Un aspetto della “crisi” cristiana dei giorni d’oggi – caratterizzata da una forte ondata di agnosticismo in
Occidente, da varie forme di pressione e di persecuzione delle quali sono soggette le comunità cristiane in
Asia e in Africa – riguarda proprio i rapporti con l’Islam: per quanto una certa tensione, in passato sfociata
anche in numerose guerre, sia sempre stata caratteristica della loro storia, essa è stata accompagnata nei
secoli da molti esempi di libera e serena convivenza che appare oggi compromessa e minacciata dall’attività
di vari gruppi radicali musulmani che hanno determinato l’esodo dei cristiani locali da paesi nei quali le loro
comunità erano antiche, prestigiose e rispettate: ciò è recentemente accaduto dall’Egitto al Sudan, all’Africa
centrale, alla Turchia, alla Siria, all’Iraq, al Pakistan.
Le vicende musulmane dei primi tre lustri del XXI secolo – animate da quella che fino dall’Ottocento si
definì con una parola araba, Nahda, “Rinascimento” o, se si vuole, “Risorgimento”, che sintetizzava le
aspirazioni e forse le rivendicazioni del mondo islamico nel suo complesso di fronte all’avanzata dell’Occidente
egemone - appaiono in sintesi dominate da quattro componenti: la tensione tra un Islam “liberale” e
occidentalizzante, incline all’accettazione del confronto con la Modernità (che passa però spesso attraverso
una mediazione autoritaria, espressione della quale è di solito l’esercito: come ben si vede nei casi turco ed
egiziano), e le istanze radicali rappresentate prima dalla “costellazione” di organizzazioni politico-militari
“fondamentaliste” di al-Qaeda – che è stata definita attraverso un neologismo, “ipersetta” - e dalla loro attività
terroristica, quindi dal radicalismo del “jihadismo” salafita; il continuo esodo di migranti soprattutto dall’Africa
verso l’Europa (non tutti musulmani, ma in buona parte tali) e le difficoltà connesse sia con il mantenimento e
la libertà d’espressione da parte di essi della propria identità religiosa e culturale, sia con il proselitismo e le
reazioni da esso provocate; il permanere della questione israeliano-palestinese e la progressiva
islamizzazione della causa palestinese con la correlativa emarginazione dei cristiani di quell’area (arabi
cattolici di rito geco, detti “melkiti”, e ortodossi); infine, la fitna sunnito-sciita, strettamente legata allo sviluppo
della politica iraniana come nuova potenza regionale e alle politiche degli emirati del Golfo egemonizzati
dall’Arabia saudita ma attualmente segnati dalla crisi diplomatica saudito-qatariota.
Un sia pur arduo e faticoso orientamento nel complesso panorama dell’Islam odierno richiede anzitutto
che si tenga sempre a mente che l’organizzazione istituzionale e strutturale dell’Islam non ha nulla che si
possa paragonare alle Chiesa cristiane. Essa è costituita di comunità autocefale agenti sulla base
dell’autoreferenzialità garantita da un esperto, direttore “spirituale” e teologo-giurista (o da un gruppo di tali
specialisti); ma nei paesi che in diversa misura hanno comunque adottato forme di governo e di aggregazione
civile ispirate all’Occidente l’attività delle comunità religiose e delle pie associazioni è regolata di solito da un
“ministero dei culti” (in genere il consigliere religioso della famiglia o dell’élite di governo) incaricato di vegliare
su di esse. Ciò si risolve in un controllo più o meno stretto sui gruppi religiosi presenti nei singoli paesi da
parte dell’autorità civile e politica: a differenza di quel che si ama ripetere, l’Islam non dà ordinariamente luogo
ad esperienze teocratiche ma, al contrario, a fenomeni di asservimento delle comunità religiose rispetto al
potere politico.
Comunque, pur senza lasciarsi troppo affascinare da coincidenze e “simmetrie” cronologiche, bisogna
pur osservare che fu proprio il tournant del secolo (e del millennio) a dar l’impressione che nel mondo
musulmano stessero avvenendo qualificanti e sconvolgenti novità. Esse erano maturate, talora in modo
evidente e rumoroso, più spesso in silenzio, già nel secolo precedente. Ancora negli Anni Settanta del secolo
scorso, difatti, nel quadro generale di quella che il sociologo Sabino Acquaviva aveva denominato, in un suo
celebre saggio, L’eclisse del Sacro nella società contemporanea, l’Islam era ritenuto una religione in crisi se
non addirittura in via di disfacimento sotto l’assalto congiunto di più forze: l’avanzare dello scetticismo e
dell’agnosticismo religioso in tutto il mondo, sostenuto dal progresso tecnologico-scientifico e dalla grandi
ideologie politiche laiche e materialiste; la modernizzazione e l’occidentalizzazione che si era andata
affermando nell’umma con la rivoluzione kemalista in Turchia, quella palhevica in Iran e quelle dei “socialismi
arabi” dall’Egitto nasseriano alla Libia del primissimo Gheddafi al Maghreb ai regimi del partito “baath” in Siria
e in Iraq. In Occidente, era allora opinione diffusa – in gran parte ereditata dal romanticismo, dal colonialismo
e dalla cultura orientalista che era (e resta) parte costituente fondamentale delle strutture mentali tipiche
appunto della Modernità occidentale e ne rappresenterebbe anzi (secondo l’opinione di Edward W. Said) la
“sovrastruttura” – che l’Islam corrispondesse ormai a un complesso di consuetudini cultuali di natura residuale
e folklorica.
La “rivoluzione islamica” iraniana di Khomeini, nel 1979, fu un autentico giro di boa. Dinanzi alla
Modernità occidentale, lo ayatollah proponeva una “via musulmana al futuro” che non coincideva affatto con
un salto all’indietro ma che, al contrario, si proponeva di edificare sulla base dell’Islam un domani
politicamente, economicamente, finanziariamente, tecnologicamente e scientificamente alternativo. Se gli Stati
Uniti di Ronald Reagan scorgevano nel nuovo Iran uno “stato-canaglia” che si andava affiancando e quasi
gradualmente sostituendo all’URSS come “impero del Male”, l’Iran di Khomeini individuava in cambio il
“grande Satana” nel materialismo edonistico e consumistico dell’Occidente, del quale il governo e la società
statunitensi erano l’incarnazione.
D’altra parte, quello che i musulmani consideravano un “altro Occidente”, un altro materialismo, quello
sovietico, stava nei medesimi anni minacciando l’Afghanistan: e, per i musulmani sunniti afghani che avevano
preso le armi contro l’Armata Rossa occupante e il regime collaborazionista di Kabul, il vicino Iran si profilava
- , per quanto sciita come un prezioso alleato. Gli Stati Uniti non potevano dal canto loro consentire che
fossero gli iraniani a sostenere la guerra di liberazione afghana: risposero pertanto appoggiando i guerrierimissionari sunniti provenienti soprattutto dall’Arabia saudita e dallo Yemen, che guidarono il jihad contro i
sovietici e riuscirono a imporre il regime sunnita puritano dei ”talibani”.
D’altronde, la scoperta dei nuovi grandi giacimenti di gas e di petrolio in Asia centrale, verso la metà
degli Anni Novanta, mutò di nuovo i rapporti di forza: i pipelines che avrebbero dovuto portare quelle ricchezze
fino all’Oceano Indiano, quindi fino ai porti pakistani (dal momento che l’ostilità nei confronti dell’Iran preludeva
vie più brevi e rapide) sarebbero dovuti passare per forza dall’Afghanistan. Ma i “talibani”, che diffidavano
ormai degli Stati Uniti e delle multinazionali Unocal e Halliburton che avrebbe dovuto gestire l’impresa,
stavano guardando altrove in cerca di nuovi partners. E gli americani, che pur avevano gradito che i
fondamentalisti avessero eliminato il comandante Ahmed Shah al-Massud – il “leone” del nord-ovest, eroe del
jihad contro i sovietici, sunnita ma sospettato di essere troppo incline a guardar con qualche simpatìa all’Iran
sciita -, si resero conto che era necessario eliminare anche il potere talibano: non restava che occupare
direttamente l’Afghanistan. Da qui l’aggressione a quel paese, giustificata dal rifiuto del governo talibano di
consegnare lo sceicco Usama bin Laden, colui che aveva fatto eliminare Massud: egli, ospite in Afghanistan,
era accusato di essere il mandante degli attentati dell’11 settembre 2001 senza però che sussistessero prove
sufficienti per sorreggere tale accusa.
Da allora prese avvìo, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, la war against terror, diretta soprattutto
contro la fantomatica organizzazione al-Qaeda della quale bin Laden era considerato il capo. Si sono dal 2001
in poi si sono addebitati con eccessiva e non innocente disinvoltura ad al-Qaeda praticamente tutti gli attentati
di segno “fondamentalista” o sospetti di esser tali; e d’altra parte molti gruppi e gruppuscoli, sovente altrimenti
ignoti, si sono appropriati del nome di al-Qaeda per conferire alle loro gesta una sinistra credibilità. Nel luglio
del 2014 il centro Human Rights Watch ha diffuso un rapporto fondato sulle ricerche del Dipartimento di
Risorse Umane della Columbia University di New York, nel quale si legge che in molti dei 500 casi di
complotto o di azione a carattere terroristico dei quali si sono occupati i tribunali statunitensi dopo l’11
settembre 2001 “il Dipartimento di Giustizia e l’FBI hanno coinvolto musulmani americani in operazioni
antiterroristiche clandestine, in modo che rappresenta un abuso, fondato sull’appartenenze religiosa ed
etnica”: in altri termini, si è trattato dell’organizzazione di una rete di infiltrati, di provocatori, e della costruzione
di false prove tendenti a sostenere assunti complottistici poi rivelatisi falsi o inconsistenti.
Oggi, l’interpretazione più autorevole diffusa tra gli specialisti del settore e gli osservatori più
competenti è che in realtà al-Qaeda fosse – e, nella misura in cui il suo nome continua a circolare, sia tuttora
- un'organizzazione acefala, tentacolare, polimorfa, priva però di un vero e proprio “centro” direttivo né
politico, né tattico-strategico: per cui troppo presto, all’indomani della morte di bin Laden ucciso a quel che
pare nel maggio del 2005 in Pakistan nel corso dell’azione di un commando statunitense (un’altra pagina sulla
quale, come su quella della morte del libico Muammar Gheddafi cinque mesi dopo, si addensano fitti gli
interrogativi), si è parlato di “fine di al-Qaeda” se non addirittura di “soluzione del problema terroristico”.
Ben più complessa appare la realtà. Dopo gli attentati del 2001 negli Stati Uniti, altri drammatici e
spettacolari tennero loro dietro (segnatamente a Londra e a Madrid) dando l’impressione che si fosse davvero
giunti a un sistematico jihad contro l’Occidente cui non poteva non rispondere una “crociata contro il
terrorismo”. Nel corso del primo assalto terroristico di al-Qaeda o supposta tale sul territorio europeo, quello
della stazione madrilena di Atocha l’11 marzo 2004, morirono 191 persone: ma le reazioni scomposte, se non
irresponsabili, furono numerose. Da ricordare quella del presidente José Maria Aznar che, in un discorso
ufficiale tenuto il 21 settembre successivo alla Georgetown University, dichiarava che la Spagna era stata
“recentemente invasa dai Mori” e che era stata colpita in quanto “aveva rifiutato di diventare un altro pezzo del
mondo islamico” e “aveva ricominciato una lunga battaglia per recuperare la sua identità”. Uno scrittore
spagnolo di successo dette a un suo libro del 2004 un eloquente titolo: Espaňa frente al Islam. De Mahoma a
Ben Laden . Vero è tuttavia che queste posizioni allucinate e allucinanti provocarono le reazioni che
meritavano, e che fu denunziata con preoccupazione la crescita di un’indiscriminata islamofobia; si ricordò
definire tout court l’Islam una religione “incline alla violenza”, come si andava facendo, equivalesse di fatto a
una legittimazione del terrorismo presentato come fenomeno fisiologicamente intrinseco ad essa anziché
aberrazione avversata e condannata dalla grande maggioranza delle scuole coraniche e della popolazione
musulmana del mondo.
Si andò comunque da allora diffondendo in tutto l’Occidente una forte psicosi, abilmente alimentata dai
media, che dette addirittura luogo a fenomeni paraideologici reattivi, come quelli dei gruppi statunitensi (presto
imitati in Europa) neoconservative e teoconservative, i quali ostentavano la loro islamofobia fino a spingersi
ad auspicare nuove “crociate”. In Italia si diffuse il termine “cristianista” per indicare, in analogia e in
contrapposizione a quello “islamista”, il cristiano fiero della sua identità e delle sue radici e ben deciso a
contrapporsi a un Islam avvertito come eterno e irriducibile nemico. Si parlò perfino di un disegno di
occupazione e di islamizzazione dell’Europa e dell’Occidente, del quale i migranti clandestini sarebbero stati le
avanguardie e i primi organizzatori, e le richieste dei quali – fossero pure la semplice apertura di una moschea
o di una “sala di preghiera” – dovevano essere contrastate in quanto parte della loro tattica di
destabilizzazione culturale nei confronti della tradizione cristiana. Si giunse a parlare di una “terza ondata”
dell’aggressione musulmana all’Europa, dopo quella che tra VII e VIII secolo aveva portato i guerrieri
dell’Islam sotto Costantinopoli e oltre i Pirenei e quella che tra XIV e XVVII aveva fatto più volte temere che i
sultani ottomani volessero invadere il continente cristiano. D’altro canto, bisogna dire che anche in certi
ambienti estremistici dell’”islamismo” (termine usato per indicare la degenerazione politico- ideologica della
religione musulmana) si è parlato un linguaggio uguale e contrario: per esempio nell’ottobre del 2001 alZawahiri, portavoce di al-Qaeda, ricordava con accenti revanscistici la tragedia di al-Andalus, la Spagna
musulmana cancellata alla fine del Quattrocento dalle forze castigliano-aragonesi e dalla quale, nei decenni
successivi, erano tristemente stati espulsi quei musulmani che pure avevano cercato di adattarsi alla nuova
situazione e addirittura si erano convertiti o avevano finto di convertirsi al cristianesimo, i moriscos. Il sogno di
una riconquista di Granada è stato e resta, per gli islamisti radicali, quel che quello di una nuova battaglia di
Lepanto è per i cristianisti radicali: il centro cioè di un mito riguardante un futuro tanto insperabile quanto
auspicabile alla luce appunto dei loro opposti ma paralleli sistemi mitologici sostenuti da un atteggiamento
pseudostorico e rivendicazionistico, nutrito di superficiale erudizione e di autentica intolleranza.
Sono quindi stati in molti, in un recentissimo passato che qua e là ancor oggi riaffiora, a esorcizzare
l’immagine da incubo di un’Europa futura i “bei panorami” della quale, ora punteggiati dei nostri “cari vecchi
campanili”, potrebbero venir deturpati e profanati dai “minareti delle moschee”: una Europa islamizzata
secondo i disegni di alcuni imam fondamentalisti che il “buonismo” di certi islamofili occidentali “buonisti”,
permissivi e financo sincretisti, starebbe favorendo. La giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, nei suoi ultimi libri,
ha accreditato queste paure e questi pregiudizi fornendo loro una veste letteraria e pubblicistica efficace e
autorevole: ed è stata lei, insieme con altri di lei molto meno presentabili, a parlare del pericolo di un’Europa
futura, che gli extracomunitari clandestini starebbero trasformando in “Eurabia”.
D’altronde, è ormai un fatto che la religione musulmana si stia imponendo in Europa come la seconda
dopo quella cristiana; che i centri culturali e i luoghi di culto islamici si stiano moltiplicando; che in taluni di
questi centri si stia svolgendo un’attività missionaria e proselitistica anche intensa, di tipo nuovo (dal momento
che tradizionalmente l’Islam non è mai stato troppo incline a favorire campagne proselitistiche: siamo, in ciò,
dinanzi a un Islam nuovo, ”mutante”); che ai fedeli del Corano provenienti dall’Asia e dall’Africa si stiano
aggiungendo europei convertiti in un numero difficile da computare e da percentualizzare data la recenziorietà
del fenomeno, comunque non trascurabile. Un intellettuale discusso ma senza dubbio intelligente e raffinato,
lo svizzero d’origine egiziana Tariq Ramadan la famiglia del quale è legata al fondatore della sètta islamista
sunnita dei “Fratelli Musulmani”, ha contribuito con serietà alla legittimazione di un “Islam europeo” dotato di
tutte le caratteristiche di serena convivenza con la società civile del nostro continente e in grado tanto di
“modernizzare se stesso” quanto di “islamizzare la Modernità”.
Molte sono le organizzazioni musulmane europee che raccolgono fedeli provenienti dai paesi del dar
al-Islam insieme con europei convertiti: per esempio in Francia l’Association des Étudiants Islamiques de
France (AEIF), la Ligue Interculturelle Islamique de Bruxelles (LIIB), la Islamische Gemeinschaft in
Deutschland (IGD), la Muslim Association of Britain (MAB) e, in Italia, la Comunità Religiosa Islamica
(COREIS) e l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), tra loro concorrenti. Alcune di queste
organizzazioni sono state a lungo più o meno insistentemente accusate di simpatie radicali e addirittura di
connivenza con gruppi terroristici: ma in ciò va detto che, nel biennio 2010-2011, si è assistito a un profondo
mutamento sia dell’Islam nella sua interna compagine, sia nei rapporti tra Occidente e mondo musulmano.
Le cosiddette “Primavere arabe”
Il movimento forse troppo precipitosamente denominato delle “Primavere arabe”, avviato nella Tunisia
del 2010 dove ha determinato la rapida caduta del violento e corrotto regime di Ziin al-Abidin Ben Ali e dove
un ruolo centrale è stato assunto dal partito en-Nahda (“Rinascita”, parola-chiave fino dall’Ottocento della
riscosse civile nei paesi arabi) ha suscitato interesse, speranze e simpatia in quanto interpretato come l’esito
di una spinta delle giovani generazioni (e va tenuto conto del fatto che i paesi a maggioranza musulmana sono
anche caratterizzati da popolazioni anagraficamente “giovani”, dato l’incremento demografico e la moderata
lunghezza di “speranza di vita” al loro interno) aspiranti a modelli politici più decisamente “democratici” e a
modelli esistenziali maggiormente orientati in senso “occidentale” (specie su temi cruciali e delicati come i
diritti delle donne e perfino la problematica sull’omosessualità). In realtà le “Primavere arabe” hanno fornito
esiti pratici diversi: in Tunisia hanno causato l’esperienza di governo dell’equilibrato Hamadi Jebali, che è stato
premier fino al febbraio 2013 ma ha datole dimissioni in quanto non in grado di arginare il disordine e la
violenza che stanno montando nel paese a causa della tensione tra “integralisti” e “laici”; in Egitto hanno
contribuito a rovesciare l’anziano e ammalato presidente-dittatore Hosni Mubarak ma anche ad aprire una
fase convulsa della vita politica, con un’esperienza di governo fondamentalista e tendenzialmente autoritario
degli al-Ikhwan al-Muslimin (“Fratelli Musulmani”) guidata da Muhammad Morsi, presto sostituita – nonostante
fosse riuscita vittoriosa in una competizione elettorale corretta e legittima - da un governo militare di tendenza
nasseriana presieduto dal generale Sisi; in Marocco e in Giordania sono state parzialmente accolte
contribuendo all’avvìo di caute riforme e portando nel primo di questi due paesi al governo a partire dal luglio
2013 del premier Abdallah Benkiran, “islamista” a capo di una coalizione politica che comprende il partito
conservatore Istiqlal ma che si presenta come fragile, nel secondo a un avvicinamento tra le forze più vicine
alla corona hashemita e gli islamisti sia legati al Jabhat al-‘Amal al-Islamì (“fronte d’Asione Musulmana”), sia
simpatizzanti con i “Fratelli Musulmani”; in Algeria e nella penisola arabica sono state rapidamente e
duramente represse; in Libia e in Siria si sono andate evolvendo verso esiti violenti che hanno causato
autentiche guerre civili. In tali occasioni abbiamo assistito a un nuovo, interessante fenomeno: il graduale
attenuarsi se non lo scomparire non tanto della pericolosità del terrorismo e dei sodalizi che in vario modo lo
sostengono, quanto della loro insistente presenza nei nostri media. Ne è stata un esempio al-Qaeda: mai
davvero seriamente analizzata da politici e da pubblicisti, nebulosamente fatta segno di sospetti dai servizi
d’intelligence, ma dal 2001 a circa il 2010 per un lungo decennio sistematicamente accusata di misfatti e in più
occasioni demonizzata prima che – con l’uccisione di bin Laden e quindi con il massiccio contributo dei gruppi
islamisti alla lotta contro Gheddafi in Libia e contro Assad in Siria, entrambe sostenute da alcuni governi
occidentali (segnatamente la Francia di Hollande e l’Inghilterra di Cameron) – si assistesse a una sorta di
“rovesciamento delle alleanze” e, com’era accaduto nell’Afghanistan degli Anni Ottanta e dell’inizio degli Anni
Novanta, i “fondamentalisti” sunniti tornassero a presentarsi in più occasioni come alleati dell’Occidente: il che
peraltro non stupirà troppo, se si considera che quei gruppi hanno in genere potuto avvalersi del sostegno
finanziario, propagandistico e anche militare di alcune “monarchie del Golfo”, segnatamente l’Arabia saudita e
l’emirato del Qatar, integraliste e conservatrici sul piano religioso ma sicure alleate e partners commerciali e
finanziarie deli USA e del mondo occidentale per quanto entrate di recente in rotta di collisione tra loro. In Libia
il regime di Gheddafi – che dopo aver mutato più volte i suoi connotati politici aveva assunto posizioni che
avevano preoccupato governi e lobbies occidentali (avvicinamento diplomatico e tecnologico-commerciale ai
russi e addirittura ai cinesi, intenzione di dar vita a una banca e a una telefonia interafricane e così via) – è
stato così abbattuto con il consenso e il contributo della NATO, mentre in Siria si è rischiata l’instaurazione di
un governo islamista paventato dalle stesse Chiese cristiane di quel paese, che il regime autoritario ma “laico”
del partito “Baath” e della “dittatura familiare” degli Assad (alawiti e quindi appoggiati dall’Iran sciita) aveva
sempre rispettato e tutelato. Nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, fatta segno a partire dal biennio
2010-11 di durissimi attacchi anche da parte di politici e intellettuali francesi come Bernard-Henri Lévy riuniti
nel sodalizio Amis de la Syrie, la propaganda occidentale è stata particolarmente intensa, contribuendo in
modo decisivo alla riabilitazione e alla legittimazione dell’attività dei gruppi islamisti sunniti, tra i quali si è
registrata una consistente presenza di europei convertiti, soprattutto giovani: i servizi di sicurezza occidentali
hanno rilevato come dall’inizio del 2014 circa 2000 jihadisti occidentali abbiano combattuto come volontari
nelle fila dell’”armata di liberazione” contro Assad, dove in tutto gli stranieri (cioè i non-siriani) sarebbero tra i
6000 e i 12.000 (i conti in questi casi sono sempre molto ardui e mai precisi).
Il fenomeno di una “legione straniera” jihadista con volontari provenienti da ogni parte del mondo è
stato più volte segnalato, dalla pianura balcanica all’Afghanistan al Pakistan all’Africa. Quanto ai “volontari”
non già musulmani europei neofiti, bensì originari di paesi islamici ma approdati a un qualche teatro di jihad
attraverso l’Europa, si sono rilevati casi di “reclutamento” avvenuti nelle carceri tra giovani detenuti che, una
volta scontata la loro pena, sono partiti volontari per difendere un causa islamista.
Per contro l’Israele del premier Netanyahu, pur esplicitamente delusa e irritata dinanzi al
riavvicinamento diplomatico tra USA e Iran avviato dal presidente Obama, si è tenuta in disparte nel corso
della crisi siriana non certo per simpatia nei confronti di Assad – dagli israeliani costantemente ritenuto un
nemico -, bensì in quanto certa che la rivendicazione alla Siria delle alture del Golan (ormai stancamente e in
pratica solo formalmente perseguita dal governo assadista) potrebbe venire ripresa con energia da un
eventuale futuro governo siriano in cui fossero presenti le forze jihadiste. In altri termini Israele, pur
continuando a identificare nell’Iran il suo principale nemico e la più forte minaccia alla sua sicurezza e
avversando pertanto sia il movimento palestinese Hamas sia quello libanese Hezbollah in quanto entrambi
sostenuti dagli iraniani, preferisce che Damasco resti in mano a un governo pur avverso, ma che persegue
una linea politica “laica”, piuttosto che non a uno troppo condizionato dai jihadisti sunniti. Ciò pone il governo
di Gerusalemme in contrasto obiettivo con un suo vecchio amico, quello di Ankara retto dai “fondamentalisti
moderati” del partito AKD del premier Tayyip Erdoğan, che sulla Siria ha assunto una posizione decisamente
ostile nei confronti di Assad. D’altronde, Turchia e Siria, paesi confinanti, sono geopoliticamente avversari a
causa sia dei numerosi motivi di attrito geoantropico sulle linee comuni di confine, specie nell’area curda, sia
delle questioni legate alla gestione e allo sfruttamento del fiume Eufrate; ma si trovano adesso entrambi
coinvolti nei problemi suscitati dall’evoluzione politica, religiosa e militare del vicino Iraq.
Incertezze e le ambiguità della politica occidentale
Sappiamo d’altro canto che Hamas, appoggiata dalla sciita Hezbollah libanese, non disdegna nemmeno
il sostegno dell’emiro sunnita del Qatar; mentre non va dimenticato che l’antijihadismo dei politici e dei media
occidentali, indiscriminato dopo l’11 settembre 2001 ma quindi attenuato se non nascosto o addirittura
rinnegato in coincidenza con le questioni libica e siriana, resta vigile invece a proposito sia della guerra civile
che oppone il governo irakeno di Nuri al-Maliki (gestito – con paradossale esito dell’aggressione e
dell’occupazione statunitense - da sciiti che guardano con simpatia all’Iran e alla Russia, pur restando
collegati alla tutela statunitense e sostenuti dai “consiglieri militari” inviati da Obama) ai ribelli sunniti – tanto
jihadisti quanto saddamisti (un’alleanza a sua volta paradossale) – che tra Iraq settentrionale e orientale
hanno proclamato lo “stato islamico” ed eletto califfo il loro leader al-Baghdadi, sia della situazione
determinatasi in alcuni paesi africani. Vediamo un po’ più da vicino questi due casi.
La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte
dei cosiddetti mujahidin – vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di confine fra Turchia,
Siria e Iraq, è stata diffusa alla fine del giugno 2014. I “jihadisti” che hanno la loro roccaforte nelle province
sunnite dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i curdi, sunniti anch’essi, ma non arabi) vi hanno fondato
una Dawla Islamiyya fi Iraq wa Shark, espressione grosso modo traducibile in inglese come Islamic State of
Iraq and Levant e da allora conosciuto dai media occidentali con le incerte sigle di ISIL o ISIS (a seconda che
vi si privilegi al parola inglese Levant o quella araba Shark). Il “Levante” iraqeno corrisponde, piuttosto, all’area
nordorientale, con i centri di Mosul (occupata nei primi di giugno dai jihadisti), Erbil (in mano alle forze
governative del governo di Baghdad) e Kirkuk (difesa dalle milizie curde peshmerga). Mosul e Kirkuk sono
importanti centri di estrazione petrolifera. I miliziani jihadisti, che nella prima metà di giugno avevano occupato
anche Tikrit e che, presa Mosul la quale non è lontana né dal confine siriano né da quello turco, minacciano
anche la Siria e la Turchia, hanno quindi unilateralmente fondato una vera e propria Dawla Islamiyya (cioè un
Islamic State, IS, definito tout court tale), che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del
mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso: in altri termini, hanno fondato un
califfato. Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto
padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell’IS. Lo
speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che
conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia”
e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama. Alcuni “esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più
importante sviluppo del jihad musulmano dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato potrebbe
addirittura travolgere gli equilibri vicino- e mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership
di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella galassia di
organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione, appunto, di al-Qaeda, e che se ne disputano
accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni più coerenti e meno
aleatorie.
Dal canto suo il governo ufficiale irakeno, guidato da Nuri al-Maliki e a tutt’oggi in una posizione
alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la loro
aggressione del 2003 all’Irak di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irakene sciite che in
quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a
recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per
questo coordinando con trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una
fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri
dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raids contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha
provveduto o sta per provvedere il governo di al-Maliki di alcuni droni. E’ ovvio che lo sciita al-Maliki non sia
scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito
dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo. La situazione, che allarma
per motivi differenti i governi di Ankara, di Damasco e di Baghdad i quali d’altronde non sono affatto in buoni
rapporti reciproci, è complicata dalla posizione di al-Nusra, il più forte movimento jihadista siriano, che sta
lottando nel suo paese contro il governo di Assad ma che ha creato faticosamente un sistema di alleanze
locali che rischia di saltare a causa della strategia “globalista” del califfato irakeno il quale dal canto suo aspira
a un peraltro improbabile riconoscimento più ampio.
La conquista di Mosul da parte delle milizie jihadiste dell’Iraq nordorientale ha rappresentato un evento
molto grave: non solo in quanto quella città ha una determinante importanza sul piano dell’estrazione
petrolifera, ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta città di tradizione sunnita, abitata sia da arabi sia da
curdi e sede di una fiorente comunità cristiana “caldea” (vale a dire cattolica di rito arabo), che nel 2003 –
all’atto cioè dell’aggressione statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein – contava ben 35.000 fedeli, mentre
nel decennio successivo è scesa a 3.000 (diminuendo cioè di oltre il 90%). I cristiani locali hanno abbandonato
tutti le loro case di Mosul, ma sono stati fatti oggetto da parte degli jihadisti di furti e di angherie. Il 21 luglio
2014, a Baghdad, è stata celebrata una messa per chiedere a Dio di proteggere le comunità cristiane
profughe e minacciate: vi hanno preso parte anche molti musulmani che inalberavano cartelli e indossavano
T-shirts recanti la scritta di solidarietà “Sono un irakeno, sono un cristiano”. D’altronde, il fenomeno dell’esodo
cristiano si sta producendo dappertutto nel Vicino e Medio Oriente. A Gaza, dove esiste un’ottima scuola
cristiana guidata da un sacerdote argentino, padre Jorge Fernandez, i cristiani locali (tra cattolici e grecoortodossi) erano 3000 nel 2009, ridotti nel 2014 a 1300.
Diverso da quello irakeno, ma non meno drammatico, il caso della Nigeria, un paese diviso tra le
province nordoccidentali confinanti col Benin, col Niger e col Tchad, più povere e a maggioranza islamosunnita, e quelle sudorientali, meno povere e a maggioranza cristiana, confinanti con il Camerun a sudest e
largamente affacciantesi sul Golfo di Guinea a sud. Nel nord si distinguono fondamentalmente quattro
tendenze, che si contendono l’egemonia sui credenti: le confraternite sufi, che praticano la meditazione e
cercano al salvezza nell’estasi; i movimenti salafiti influenzati dal wahhabismo saudita; quelli messianici, che
attendono la rivelazione del mahdi; gli “islamisti” moderati, fra i quasi si distinguono quelli influenzati dai
“Fratelli Musulmani” e un gruppo sciita che guarda all’Iran. Il movimento “Boko Haram”, a metà strada tra i
salafiti e gli “islamisti” moderati, è stato fondato ai primi di questo secolo dal giovane Mohammed Yusuf, il
quale tuttavia non condivideva gli atteggiamenti misoneistici e antiprogressisti di alcuni gruppi nigeriani, ma
reclutava i propri adepti tra gli strati subalterni d’una popolazione già di per sé povera e sviluppava una specie
di “teologia della liberazione” che respingeva i valori del progresso occidentale non perché negativi in sé e per
sé, ma in quanto suscettibili di generare un orgoglio antropocentrico dimentico dell’onnipotenza divina. Il
movimento, il nome del quale gioca sull’assonanza tra la parola inglese book e due parole nella lingua
haoussa, cioè boka (“stregone”) e boko (“menzogna”), significa in sintesi “Proibizione del libro cattivo”, cioè
“della mnzogna”), ma i suoi adpeti preferiscono definirsi Jama’atu Ahlis- Sunnah Lidda’wati Wal Jihad
(“Seguaci del Profeta per la Propagazione dello Sforzo Gradito a Dio”). Il gruppo di distingue per un acceso
rifiuto del sapere scolastico non in sé, ma in quanto espressione di una scienza priva di fondamento divino.
Dopo l’uccisione del fondatore, nel 2009, il movimento si è disperso ma sopravvive per gruppi isolati e ha
mantenuto il carattere antintellettuale. E’ stata opera sua il rapimento, nel 2014, di 276 studentesche cristiane
che la setta intendeva sottrarre agli studi “occidentali” e avviare alla conversione musulmana. Ma, più che una
qualche forma di rigorismo teologico, quel che sembra affiorare nelle azioni del “Boko Haram”, come negli
anni recentemente trascorsi in Sudan, è la reazione a una sperequazione socioeconomica che coincide con
aree latitudinarie e con osservanze religiose differenti: sembra cioè che quella sia giudicata la conseguenza
diretta del rapporto esistente tra queste e che insomma l’ingiustizia sociale derivi dalla diversità di fede. Con
tutto ciò, va sottolineato che i casi più duri di militanza, fino all’attentato suicida, non si registrano all’interno dei
ceti subalterni bensì in quello delleclassi mediamente èpiù agiate e colte: secondo quella che, peraltro, è una
tipologia ben nota nei movimenti e nei momenti rivoluzionari.
In sintesi
In altri e più chiari termini, per comprendere qualcosa del “garbuglio islamico” è necessario che
l’opinione pubblica dei nostri paesi abbandoni decisamente i pregiudizi collegati con la sua superbia
occidentocentrica che la conduce a ritenere dogmaticamente che il nostro – “occidentale” e “moderno” – sia il
migliore dei mondi possibili e che tutte le altre culture desiderino ad esso adeguarsi: che è errore non meno
grave dell’altro, in certo senso opposto, consistente nel ritenere che sia oggi in atto uno “scontro di civiltà” i
protagonisti del quale sono condannati a combattersi senza comprendersi e senza potersi reciprocamente
integrare.
La miopìa dei politici e dei media ci ha per esempio condotto, sull’inizio delle “Primavere arabe”, a
ritenere che chi scendeva i piazza contro il governo del loro paese lo facesse in quanto desiderava riforme
democratico-parlamentari, in quanto esigeva l’instaurazione dello stato di diritto e magari del perfezionamento
– ad esempio attraverso il processo dell’adeguazione dei diritti della donna a quelli dell’uomo – della natura
egalitaria dello stesso Islam. Al contrario, ci si è accorti come proprio in Tunisia e in Egitto il rovesciamento di
un sistema autoritario e corrotto, ma per molti versi “occidentalizzante”, ha coinciso con la legittimazione e
l’affermazione dei gruppi ispirati al radicalismo religioso, cioè a quel che per noi è, all’interno dell’Islam,
l’elemento più lontano possibile dalla Modernità. Ma anche sulla natura di quel radicalismo noi ci sbagliamo:
siamo abituati a ritenerlo qualcosa di lontano, d’irrimediabilmente superato, di qualitativamente opposto
all’Occidente moderno. Viceversa, con nostra grande sorpresa, scopriamo spesso che alla base di esso non
ci sono lontane leggende e remote profezie, bensì cose e persone a noi molto vicine. Il pensatore al quale lo
ayatollah Khomeini s’ispirava, considerandolo un maestro, non era un antico mistico persiano bensì Alì
Shariati, esponente di una corrente di pensiero molto vicina al marxismo. Tra Otto e Novecento il misticismo
sufi ha raccolto la lezione illuministico-esoterica della cultura diffusa nelle logge massoniche (in Egitto fondate
e diffuse fino dai tempi della spedizione del Bonaparte, nel 1798), come si vede bene nell’esperienza dell’eroe
ottocentesco dell’indipendenza algerina, Abd el-Khader. La conversione all’Islam della poetessa italiana
d’Egitto Leda Rafanelli (1880-1971) matura nel clima degli anarco-socialisti che in Alessandria si riunivano
nella “baracca rossa” di Enrico Pea e di Giuseppe Ungaretti. A differenza del dogmatismo atavico e misoneista
dei wahhabiti – una setta i capi della quale però, i sauditi, hanno mostrato di sapersi benissimo adattare agli
orizzonti tecnologici e finanziari della Modernità -, l’islamismo radicale è semmai un movimento di natura
modernista, che non intende affatto “politicizzare la religione” ma semmai, al contrario, “religionizzare la
politica”.
Un altro punto sul quale è necessario far chiarezza riguarda la penisola arabica, i suoi stati emirali, il
suo stato-guida ch’è il regno saudita e il principato emirale del Qatar che da alcuni mesi sta cercando una sua
strada politica e diplomatica nuova e libera dall’ipoteca del più potente vicino. Una unione di tutti gli stati sorti
a partire dagli Anni Venti del XX secolo – e modellati, allora, soprattutto in funzione delle esigenze colonialiste
e imperialiste di Sua Maestà britannica, vittoriosa della prima guerra mondiale e desiderosa di mantenere un
ordine da essa gestito attorno al canale di Suez e sulle vie che la collegavano al suo impero indiano –
rafforzerebbe le prospettive di fitna antisciita portate avanti anzitutto dall’Arabia saudita in due direzioni:
interna l’una, relativa al fragile equilibrio tra i governi emirali sunniti e le popolazioni della penisola, nella quali
sono forti i gruppi sciiti; esterna l’altra, relativa all’inimicizia nei confronti del vicino, confinante e concorrente
Iran, che in quanto “repubblica islamica” sciita raccoglie le simpatìe di tutti gli sciiti duodecimimani del mondo.
La posta in gioco è altissima: riguarda la libertà di navigazione sul Golfo persico, accesso navale privilegiato
dell’Iran all’Oceano indiano e specchio marino letteralmente pieno di pozzi di petrolio, di raffinerie e di
petroliere. Nelle sue prospettive antiraniane, il progetto saudita trova alleati obiettivi tanto gli Stati Uniti
d’America quanto Israele, ma si tratta di una sorta di “alleanza” molto problematica dal momento che in primo
luogo le relazioni irano-statunitensi dopo la caduta del premier iraniano Ahmedinejad sono sensibilmente
migliorate, mentre in secondo luogo quelle tra Israele ed emirati arabi restano caratterizzate da diffidenza e
freddezza reciproche. Da ciò il ruolo dinamico del Qatar, che come piccolo emirato letteralmente immerso nel
centro delle acque del Golfo ambirebbe a sviluppare una sua politica autonoma, che Arabia saudita e gli altri
emirati vedono con sospetto e antipatia. Ma all’interno della penisola arabica si muovono anche altri progetti,
altre divergenze: se il Qatar tende a sostenere i “Fratelli Musulmani” in Siria più di quanto gli altri emirati non
ritengano opportuno, tanto Abu Dhabi e Dubia quanto Oman esprimono dubbi a proposito di una linea politica
troppo decisamente antiraniana.
Se la fitna sunnito-sciita è pertanto degli elementi che minano alla base la solidarietà interna all’umma
musulmana, un altro di essi è costituito dall’opposizione, ora dura ed esplicita ora più flessibile e implicita, tra
le forze che all’interno di essa mirano a uno sviluppo in vario modo “occidentalizzante” (in una prospettiva che
per alcuni sarebbe propriamente “liberale”, mentre altri preferiscono e ritengono più realistiche vie fondate
sull’autoritarismo, specie se gestito dalle forze armate) e quelle che viceversa aspirano a cercare formule
sociali e civili fondate su un recupero rigoroso dell’Islam. Il punto fondamentale, a questo importante livello,
non sta tanto nella ricerca, all’interno di ciascun stato la popolazione del quale sia totalmente o
prevalentemente musulmana, di un’accettabile relazione tra organi statali e istituzioni religiose, quanto su quel
che deve costituire la base del diritto positivo: l’osservanza della legge religiosa, la sharia, oppure
l’appartenenza etica e giuridica a una società civile, la muwatana (termine semplice ma difficile a tradurre, che
si potrebbe rendere con l’espressione “coscienza di condivisione della medesima patria”).
Naturalmente, segnali d’impegno adottato da tutte le parti in causa per superare differenze e divergenze
sia interne all’Islam, sia fra esso e il resto del mondo, non mancano. Ne è prova il generale interesse
dimostrato negli ultimi anni nei confronti del sistema creditizio musulmano, provocato anche dalla
constatazione effettiva che molti paesi islamici registrano un forte progresso nell’economia e nella finanza
senza abbandonare i princìpi sharaitici, ma cercando al tempo stesso di mediare se e quando possibile il loro
rigore confrontandoli con i sistemi creditizi non-musulmani con i quali è necessario in qualche modo
collaborare. Il sistema creditizio musulmano, che favorisce gli investimenti e i crediti fiduciari ma vieta
rigorosamente il ribā (l’”usura”), è stato oggetto negli ultimi anni di attenta considerazione anche in Occidente:
si sono aperte “banche islamiche” in paesi non musulmani e si è cercato di appianare le divergenze tra sharia
(“diritto religioso musulmano”) e qanun (“prassi giuridica d’origine statale”), incoraggiando nel mondo nonmusulmano l’attività delle “banche etiche”.
Allo scopo di superare le difficoltà d’intesa e di collaborazione interne ed esterne all’Islam, venne
fondata fino dal 1969 la ICO (“Organizzazione della Conferenza Islamica”), che dal 1971 ebbe la sua sede a
Jeddah nell’Arabia saudita e che dal giugno 2013 si denomina “Organizzazione per la Cooperazione Islamica”.
Aspirando a presentarsi al mondo come una specie di “ONU dei musulmani”, che d’altronde intende agire
all’interno dell’ONU stessa, l’OCI è più volte intervenuta per ribadire la necessità che i paesi non-musulmani
adottino comportamenti ispirati a maggior rispetto e comprensione per la cultura dell’Islam, abbandonando
quei pregiudizi occidentocentrici alla luce dei quali troppo spesso usi e tradizioni musulmane vengono
considerate semplicemente espressione di modi di pensare e di agire “arcaici” o suscettibili comunque di
condanna nel nome di una concezione indiscriminata di progresso. All’interno di tale sodalizio di sono così
discussi i princìpi dei “diritti dell’uomo” e della reciprocità nel rispetto della libertà religiosa, giungendo a
conclusioni non sempre chiare e convincenti ma sintomo comunque di una volontà di dialogo e di confronto.
Restano ampie zone di discussione ancora aperta e argomenti a proposito dei quali nello stesso mondo
musulmano manca un concorde consenso: coma a proposito della “circoncisione femminile”, o infibulazione,
ancora difesa da teologi-giuristi. Le scuola shafiita e hanbalita la considerano obbligatoria, quelle malikita e
hanafita sono di parere opposto. Nel 2003 il rettore di al-Azhar, sheyk Muhamamd Sayys Tantawi dichiarò
esplicitamente: “Il Sacro Corano non parla di circoncisione femminile e il Profeta Muhammad non si è mai
espresso su questo tema”. Anche a proposito del hijab, vale a dire del celo adottato da alcune donne
musulmane per coprire i capelli e il collo, Tantawi ribadì sempre nel 2003 che esso era da considerarsi
obbligatorio in uno stato musulmano, ma che i paesi non-musulmani che adottino eventuali norme giuridiche
atte a vietarne l’uso agiscono secondo un loro legittimo diritto al quale i musulmani che vi risiedono sono tenuti
a uniformarsi (tale opinione fu comunque contestata dal segretario del Consiglio Superiore degli Affari Islamici
d’Egitto, che la definì un parere personale che non poteva esser considerato come proprio dell’università
cairota nel suo complesso). Incertezze e polemiche si registrano negli ultimi anni in vari paesi musulmani
anche a proposito dell’uso del niqab (il “velo integrale”) e dell’apostasia, vale a dire l’abbandono dell’Islam in
un paese musulmano, che nell’Arabia saudita, in Iran e in Marocco è punita con la pena capitale e in altri
paesi con una detenzione di varia durata. Sulla stessa validità della sharia governi e scuole giuridicoteologiche musulmane stanno discutendo, con vari esiti: il nuovo Codice di Famiglia marocchino, promulgato
nel 2004, riconosce la parità giuridica tra uomo e donna e il diritto della donna di sposarsi senza essere
rappresentata da un “tutore” e di chiedere il divorzio, nonché rende molto più difficile di prima la poligamia.
Il processo di un’intesa internazionale e interreligiosa alla luce non già dell’omologazione, bensì del
rispetto per le diversità e le specificità, e nella sistematica sostituzione della violenza con la trattativa, appare
comunque un dato confortante che si va affermando, sia pure tra momenti d’inversione di tendenza e fasi di
crisi e di ristagno, nelle relazioni tra musulmani e non-musulmani come in quelle che in tutto il mondo
caratterizzano quanti aderiscono a un qualunque sistema di valori religiosi e quanti, invece, confidano
esclusivamente nella ragione, nell’intelligenza e nella volontà umane. L’itinerario è arduo e, negli ultimi tempi,
è talora sembrato più lungo e difficile di quanto non paresse alcuni decenni or sono, ad esempio nel quarto di
secolo circa di forse eccessivo ottimismo seguito alla seconda guerra mondiale. La mèta è lontana, come i
recenti fatti relativi al Vicino e al Medio Oriente e all’Africa dimostrano: ma non manca chi non si lascia vincere
dalla stanchezza e prosegue in quel che i musulmani davvero intendono quando parlano di jihad, “lo sforzo sul
cammino indicato da Dio”.
DATE DA RICORDARE
2001, 9.9. – Assassinio in Afghanistan del comandante Massud da parte di un commando di al-Qaeda.
2001, 11.9. – Attentati negli Stati Uniti attribuiti ad al-Qaeda.
2001, 7.10. – Inizio dell’aggressione dell’Afghanistan da parte degli statunitensi e di alcuni loro alleati.
2002, novembre – In Turchia, vittoria degli islamisti alle elezioni amministrative e dura sconfitta degli
sciiti “alawiti” (il25% della popolazione) da sempre allineati su posizioni kemaliste.
2003, 20.3. – Invasione dell’Irak da parte di una coalizione diretta dagli Stati Uniti.
2003, 13.12. – Cattura in Irak di Saddam Hussein.
2004, 11.3. – Attentati suicidi a Madrid.
2004, maggio – Rivelazioni a proposito delle torture inflitte da soldati americani a prigionieri irakeni nel
carcere di Abu Ghraib.
2004, 8.7. – L’egiziano al-Qaradawi, teologo e predicatore televisivo dall’emittente al-Jazeera, dichiara
alla BBC che gli attentatori-suicidi contro Israele sono da considerarsi martiri nel nome di Dio.
2005, gennaio – “Libere elezioni” in Irak: lista unica sciita, astensione di massa dal voto da parte dei
sunniti.
2006, 7.6. - Uccisione da parte degli americani di Musab al-Zarkaoui, leader di al-Qaeda in Irak,
fortemente antisciita.
2006, settembre – annunzio governativo egiziano a proposito della ripresa del programma nucleare.
2006, novembre – L’Organizzazione dei mujahiddin libanesi esorta alla lotta antisciita; in Bahrein,
governato da una dinastia sunnita, le elezioni danno quasi la metà dei seggi agli sciiti (70% della popolazione).
2006, dicembre – Il consiglio di cooperazione che riunisce le monarchie sunnite del Golfo adotta un
programma nucleare comune.
2006, 30.12. – Esecuzione di Saddam Hussein in Irak, nel giorno della festa religiosa dell’Aid (il
“Sacrificio di Abramo”).
2007, settembre – Costruzione a Baghdad di un muro di separazione tra un quartiere sunnita e il
circostante milieu sciita.
2007, luglio – Violenze tra sunniti e sciiti in Siria,
2009, gennaio – Inizio del ritiro delle forze armate statunitensi dall’Irak.
2009, 31.1. – Elezioni in Iraq: vittoria del partito Dawa del primo ministro Nuri al- Maliki (sciita).
2009, 7.6. – Vittoria elettorale in Libano della coalizione antisiriana.
2009, 30.6. – In Nigeria, arresto di Mohammed Yusuf (1970-2009), capo della sètta “Boko Haram”
(ucciso pochi giorni dopo, in circostanze aulle quakli non è stata fatta ancora piena luce).
2009, dicembre – In Libano governo di unità nazionale presieduto da Saad Hariri.
2010, maggio – Accordo turco-irano-brasiliano di cooperazione nucleare.
2010, agosto – Il presidente statunitense Barack Obama annunzia la fine ufficiale dell’operazione Iraqi
Freedom.
2010, ottobre – Un giovane tunisino si dà fuoco: inizio delle cosiddette “primavere
2011, 2.5. – Data ufficiale della morte di Usama bin Laden,
2011, 14.2. – Rivolta sciita nel Bahrein e dura repressione governativa.
2011, marzo – In Siria, all’indomani della dura repressione delle proteste nella cittadina di Dara, inizio
della sollevazione contro il presidente Bashar Assad.
2011, 2.5 – In Pakistan, Usama bin Laden è ucciso da un commando statunitense durante l’operazione
Neptune Spear, ad Abbottabad in Pakistan.
2011, 20.10. – In Libia, viene ucciso Muammar Gheddafi.
2013, 8.7. – Papa Francesco incontra i migranti nell’isola di Lampedusa: tra loro molti sono musulmani.
2014, 19.3. – Il Gran Mufti dell’università cairota di al-Azhar, Shawki Ibrahim Abdel-Karim Allam, emette
una fatwa di approvazione di 26 condanne a morte per terrorismo comminate in seguito ad attacchi contro
chiese cristiane che avevano avuto luogo nel 2010.
2014, 13.6. – Il Gran Mufti dell’Iraq, Rafi al-Rifai, emette una fatwa nella quale i combattenti jihadisti
dell’ISIL sono da considerare “liberi ribelli” che combattono per liberare il paese dalla dittatura sciita.
2014, 22.6. – Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si dichiara pronto a fornire le prove
“inequivocabili” che Hamas sia dietro il rapimento di tre ragazzi israeliani scomparsi in Cisgiordania.
L’incidente avvìa l’azione di rappresaglia israeliana contro Gaza, alla quale Hamas risponde con il lancio di
razzi M 302, Fair-5 e Qassam, quasi tutti intercettati dal programma di difesa antiaereo israeliano Iron Dome.
NOTA BIBLIOGRAFICA
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