Ipotesi didattiche in riferimento a Verg. Aen., IV 1-30

NUOVA SECONDARIA RICERCA
Ipotesi didattiche in riferimento a Verg. Aen., IV 1-30
Ilaria Torzi
1 At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos; haerent infixi pectore vultus
5 verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
10 Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu, quibus ille
iactatus fatis! quae bella exhausta canebat!
15 Si mihi non animo fixum immotumque sederet
L’
esordio del IV libro dell’Eneide si presta ad un’ampia
trattazione didattica che spazi dalla “banale” storia
della letteratura e dell’epica, all’incontro con gli esegeti antichi, a quello con i tecnigrafi tardoantichi o la letteratura tecnica moderna, per favorire un’approfondita analisi
testuale. Nel seguente lavoro si cercherà di mettere in luce,
quindi, una serie di spunti e di percorsi da poter seguire in
classe a partire dal testo designato, che coinvolgano sia la
puntuale esegesi dei versi citati sia altri testi ad esso collegabili, sia tematiche di maggior respiro in cui inserire anche
Aen. IV 1-30. Non sarà ovviamente possibile sviluppare compiutamente tutti i suggerimenti, ma lo scopo che ci si prefigge
non è certo quello di stabilire “lezioni preconfezionate”, bensì
quello di tracciare linee di base per uno svolgimento personale ed originale.
1. In primo luogo è d’obbligo, in classe, contestualizzare
l’autore e il testo nell’ambito dell’età augustea e soprattutto
della politica culturale del princeps, argomenti su cui, tuttavia, non mi soffermerò.
2. Restringendo il campo, si passa alla focalizzazione sul IV
libro del poema e sulla sua particolarità di testo “tragico”
in un genere epico; si possono individuare le fonti latine
del personaggio della regina presumibilmente in Nevio,
benché non ne restino testimonianze dirette, ma soprat© NS Ricerca n. 9, maggio 2014
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
20 Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penatis
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Agnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
25 vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.»
30 Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.
tutto i precedenti della letteratura greca quali Medea nelle
Argonautiche di Apollonio Rodio che forse aveva già influenzato Nevio. In ambito scolastico risulta ovvio, a questo punto, richiamare quanto visto, probabilmente l’anno
precedente, sul Bellum Poenicum e sintetizzare quanto riguarda il poema ellenistico1.
1. Servio: Aen. 4, 1; fonti e stile di Virgilio
Fin d’ora viene in aiuto il commentario serviano che sarà indispensabile collocare nell’epoca e nella cultura di cui è
frutto; per sommi capi si può definire2:
● Un’opera scolastica risalente presumibilmente al periodo
fra IV e V secolo, sorta in ambito africano, dedicata ad allievi oppure ad altri insegnanti, di autore di cui non si conosce per intero nemmeno il nome, eppure il più completo
lavoro di questo tipo dedicato ad una auctoritas che si av-
1. È altresì possibile servirsi del testo per un parallelo della figura di Didone con i personaggi femminili dell’epos omerico, quali in particolare Circe e Calipso, sul cui incontro con Odisseo tradizionalmente si ritiene esemplata la vicenda di Didone ed
Enea. In tale eventualità si dovrà segnalare come tuttavia la parte della regina di Cartigine e la storia d’amore di cui è protagonista abbiano un peso decisamente maggiore rispetto agli episodi analoghi in Iliade ed Odissea.
2. Ho approfondito l’argomento e soprattutto ho fornito le adeguate informazioni
bibliografiche in Cum ratione mutatio. Procedimenti stilistici e grammatica semantica,
Roma 2007, pp. 167-170.
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vertiva come “classica” anche pochi anni dopo la sua morte.
● Un lavoro continuo di commento all’opera omnia di Virgilio che si serve di una tradizione precedente, in particolare, si crede, di Elio Donato, grammatico di rilievo e maestro dell’autore, ma anche di note filologiche e
contenutistiche, accumulatesi per alcuni secoli nell’ambito
della tradizione scolastica, per cui non era rilevante citare
la fonte prima.
● Un testo di cui sono rimaste due edizioni che ormai si reputano una quella “autentica” e l’altra, accresciuta con
note differenti forse tratte più specificamente da Donato
o collegate con altre fonti, presente in manoscritti scoperti
nel Seicento da P. Daniel (che le reputava parte integrante
di Servio), per questo chiamata Note danieline o Servius
Auctus.
È altresì importante introdurre il concetto di commentario
come opera di esegesi che fa capo ad un lavoro letterario, seguendolo passo passo, ma comunque scritto su un supporto
diverso dal secondo, mentre spesso da questi commentari
sono stati tratti, col passare del tempo, delle note semplificate,
scritte a margine del manoscritto contenente l’opera letteraria, dando vita ai cosiddetti scholia.
Il passo di Servio cui si fa riferimento è l’esordio del commento al quarto libro:
Apollonius Argonautica scripsit et in tertio inducit amantem Medeam: inde totus hic liber translatus est. Est autem paene totus in
affectione, licet in fine pathos habeat, ubi abscessus Aeneae gignit
dolorem. Sane totus in consiliis et subtilitatibus est; nam paene comicus stilus est: nec mirum, ubi de amore tractatur.
ratura greca). Merita tuttavia un ulteriore approfondimento l’uso del sintagma comicus stilus, poco frequente
nella letteratura latina, anche in quella tecnica tardoantica
che presenta delle occorrenze proprio nei commentatori,
lo Ps. Acrone per l’Ars Poetica di Orazio e il grammatico
Donato per Terenzio; più frequentemente ci si serve infatti
del termine tecnico humilis o tenuis, per indicare una
scelta linguistica e stilistica non erudita, adatta a generi letterari quali appunto la commedia o i carmi bucolici, non
certo l’epica o la tragedia, quindi né all’Eneide in generale
né più specificamene alla vicenda di Didone che, con la sua
katastrophé finale, può essere eventualmente avvicinata
ad una tragedia4. Il discorso può essere anche affrontato
comparando le parole di Servio con la letteratura cristiana
dei primi secoli, quindi cronologicamente a lui vicina, che
frequentemente, si può citare fra tutti Agostino, si interroga
sull’uso dello stile delle Sacre Scritture: esso, umile e realistico, come umile e socialmente poco elevata era stata la
vita e soprattutto la morte di Cristo, apparentemente è inadeguato ad esprimere contenuti della massima levatura,
ma lo diventa nel momento in cui rispecchia appunto
l’operato di Cristo, tanto da dare vita ad un nuovo sublime
letterario, quello in cui res et verba stridono per il livello
diametralmente opposto5. In ambito didattico è poi particolarmente interessante il parallelo del quarto libro dell’Eneide con il Inferno V, costruito secondo il modello virgiliano e “giustificato” proprio dalla nota sullo stile comico
che Dante leggeva nel suo manoscritto chiosato dell’opera
latina6.
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Si possono spendere alcune parole sulla figura di Didone, su
come veniva recepita dalla storiografia contemporanea a
È importante sottolineare del passo:
Virgilio, citando un passo di Giustino (lo si può far tradurre
● Apollonio Rodio e non Omero è visto come l’antecedente
direttamente agli studenti), epitomatore del II o III secolo
primo di Virgilio in questo episodio: tale interpretazione
ci viene suggerita da una fonte tardoantica, non è quindi
un’elucubrazione dei filologi moderni.
● Ci si serve del verbo translare, il termine tecnico per indi- 3. Si può “divagare” da questo punto verso una lezione sui concetti di imitatio ed aemulatio, come termini e procedimenti chiave nella formazione della letteratura lacare la traduzione o anche la trasposizione metaforica; tina, servendosi in particolare dell’ottimo saggio di G.B. Conte - A. Barchiesi, Imitazione
Servio intende quindi che Virgilio ha fatto un’opera di “tra- e arte allusiva. Modi e funzioni dell’intertestualità, in Lo Spazio Letterario di Roma Antica.
Vol. I: La produzione del testo, Roma 1998 (= I ed. in brossura di 1993, II ed.), pp. 81-114.
duzione artistica”, quella che i moderni chiamerebbero 4. Ogni manuale di retorica dedica spazio alla teoria degli stili e dei generi letterari ad
essi associati; cito fra tutti B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Milano 1989, pp.
piuttosto aemulatio3.
280-283 e H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1969 (ed. or. München 1967), pp.
● Si nota la presenza dello stilus comicus adatto alla tratta- 261 s.. Per quanto riguarda più specificamente la nota di Servio è rilevante un artidi W.S. Anderson, Servius and the “Comic Style” of Aeneid 4, in «Arethusa», 14, 1981,
zione di argomenti erotici, si può quindi approfondire il colo
pp. 115-125, che discute proprio sulla “comicità” o “tragicità” del testo alla luce del
discorso sui diversi stili canonizzati a seconda dei differenti commentario serviano e della sua possibile fonte, Donato.
5. Su questo argomento risultano illuminanti, ancorché datate, le parole di E. Auergeneri letterari. Si possono citare passi paralleli come Ecl. bach, Sacrae scripturae sermo humilis, in Id., Studi su Dante, Milano 1988, V ed. (ed. orig.
6, 1-12 per notare come la teoria degli stili risalisse già al- Helsingfors 1941).
6. Si veda, in proposito, C. Villa, Tra affetto e pietà: per Inferno V, in «Lettere italiane», 51,
l’età classica (ma in realtà affondasse le radici nella lette- 1999, pp. 513-541.
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delle Historiae Philippicae, opera di Pompeo Trogo all’incirca
contemporaneo di Livio. Si tratta di una storia “universale”
che non pone al centro Roma ma la potenza dei Macedoni;
in tale ambito, nell’epitome di Giustino, si parla di Elissa, vedova di Acherbas per mano del fratello e costretta alla fuga
ed alla fondazione di Cartagine. La vicenda combacia con
quanto ci viene narrato da Virgilio, però non si fa menzione
del legame della storia della donna con il popolo romano: la
regina muore suicida, ma per non cedere alle profferte di
Hiarbas e restare fedele alla memoria del marito. Questa era
comunque la tradizione più accreditata, baluardo di quanti
hanno accusato Virgilio di aver svilito la figura della regina,
primi fra tutti i cristiani che videro in Didone il modello etico
dell’univira, nomi illustri fra cui si può ricordare Gerolamo
che, parafrasando S. Paolo, scrisse di lei maluit ardere quam
nubere (Epist. 123, 8)7.
Iust. Hist. Phil., 18, 5, 8-18, 6, 10
Itaque Elissa delata in Africae sinum incolas loci eius adventu peregrinorum mutuarumque rerum commercio gaudentes in amicitiam sollicitat, dein empto loco, qui corio bovis tegi posset, in
quo fessos longa navigatione socios, quoad proficisceretur, reficere
posset, corium in tenuissimas partes secari iubet atque ita maius
loci spatium, quam petierat, occupat, unde postea ei loco Byrsae
nomen fuit. […] Cum successu rerum florentes Karthaginis opes
essent, rex Maxitanorum Hiarbas decem Poenorum principibus
ad se arcessitis Elissae nuptias sub belli denuntiatione petit. Quod
legati reginae referre metuentes Punico cum ea ingenio egerunt,
nuntiantes regem aliquem poscere, qui cultiores victus eum
Afrosque perdoceat; sed quem inveniri posse, qui ad barbaros et
ferarum more viventes transire a consanguineis velit? Tunc a regina castigati, si pro salute patriae asperiorem vitam recusarent,
cui etiam ipsa vita, si res exigat, debeatur, regis mandata aperuere,
dicentes quae praecipiat aliis, ipsi facienda esse, si velit urbi consultum esse. Hoc dolo capta diu Acherbae viri nomine cum multis lacrimis et lamentatione flebili invocato ad postremum ituram
se, quo sua et urbis fata vocarent, respondit. In hoc trium mensium sumpto spatio, pyra in ultima parte urbis instructa, velut
placatura viri manes inferiasque ante nuptias missura multas hostias caedit et sumpto gladio pyram conscendit atque ita ad populum
respiciens ituram se ad virum, sicut praeceperint, dixit vitamque
gladio finivit. Quam diu Karthago invicta fuit, pro dea culta est.
Condita est haec urbs LXXII annis ante quam Roma; cuius virtus sicut bello clara fuit, ita domi status variis discordiarum casibus agitatus est.
Il testo può aiutare per indicare l’abilità di Virgilio, e dei poeti
in generale, dato che probabilmente già Nevio aveva posto la
rottura fra Didone ed Enea alla base del conflitto insanabile
fra Cartaginesi e Romani, nell’adeguare fonti storiche o tradizionali alle loro esigenze.
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2. Prerequisiti alla trattazione di Aen. 4, 1-30:
analisi di Aen. 1, 340-368; 1, 494-504
Quale prerequisito alla trattazione del passo in questione si
può porre la discussione di Aen. 1, 340-368, in cui Enea incontra la madre sotto le mentite spoglie di una giovane cacciatrice, che gli racconta la triste vicenda della regina di Cartagine (si può istituire un parallelo con i passi precedenti a
quello citato di Giustino: Hist. Phil., 18, 4, 1-18, 5, 6), e Aen.
1, 494-504: il primo incontro fra Enea e Didone, in cui la
donna appare in tutta la sua bellezza e regalità, paragonata
a Diana, così come Enea si presenterà ai suoi occhi simile ad
Apollo.
340 Imperium Dido Tyria regit urbe profecta,
germanum fugiens. Longa est iniuria, longae
ambages; sed summa sequar fastigia rerum.
Huic coniunx Sychaeus erat, ditissimus auri
Phoenicum, et magno miserae dilectus amore,
345 cui pater intactam dederat primisque iugarat
ominibus. Sed regna Tyri germanus habebat
Pygmalion, scelere ante alios immanior omnis.
Quos inter medius venit furor. Ille Sychaeum
impius ante aras atque auri caecus amore
350 clam ferro incautum superat, securus amorum
germanae; factumque diu celavit et aegram
multa malus simulans vana spe lusit amantem.
Ipsa sed in somnis inhumati venit imago
coniugis ora modis attollens pallida miris;
355 crudelis aras traiectaque pectora ferro
nudavit, caecumque domus scelus omne retexit.
Tum celerare fugam patriaque excedere suadet
auxiliumque viae veteres tellure recludit
thesauros, ignotum argenti pondus et auri.
360 His commota fugam Dido sociosque parabat.
Conveniunt quibus aut odium crudele tyranni
aut metus acer erat; navis, quae forte paratae,
corripiunt onerantque auro. portantur avari
Pygmalionis opes pelago; dux femina facti.
365 Devenere locos ubi nunc ingentia cernes
moenia surgentemque novae Karthaginis arcem,
mercatique solum, facti de nomine Byrsam,
taurino quantum possent circumdare tergo.
7. Si veda, in riferimento alla tematica delle “calunnie” a Didone, F. Caviglia, Note sulle
Interpretationes Vergilianae di Tibero Claudio Donato, Milano 1995, pp. 93 ss. In tale
sede (p. 94) si sottolinea che anche un autore come Macrobio (Saturn. 5, 17, 6), che
pure “idolatrava” Virgilio, aveva dovuto rassegnarsi all’“errore” del poeta sulla biografia di Didone, ma ne aveva comunque lodato l’abilità nel rendere credibile l’invenzione. Sull’interpretazione discussa della figura della regina nella letteratura
tardoantica, in particolare sul contesto poco lusinghiero in cui Ausonio cita Aen. 4,
415 (ne quid inexpertum frustra moritura relinquat) all’interno cioè di un epigramma didascalico o quadretto pornografico (Epigr. 75 Green) e sulla spiegazione che viene
data della scelta del poeta, si veda L. Mondin, Didone hard-core, in L. Cristante – A. Tessier (cur.), Incontri triestini di filologia classica 3 (2003-2004), Trieste 2004, pp. 227-246,
disponibile anche on line.
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Haec dum Dardanio Aeneae miranda videntur,
495 dum stupet obtutuque haeret defixus in uno,
regina ad templum, forma pulcherrima Dido,
incessit magna iuvenum stipante caterva.
Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi
exercet Diana choros, quam mille secutae
500 hinc atque hinc glomerantur Oreades; illa pharetram
fert umero gradiensque deas supereminet omnis
(Latonae tacitum pertemptant gaudia pectus):
talis erat Dido, talem se laeta ferebat
per medios instans operi regnisque futuris.
Qualora si vogliano approfondire questi due passi appoggiandosi ai commentatori tardoantichi, si possono mettere
in rilievo le osservazioni di un altro esegeta: Tiberio Claudio
Donato che andrà brevemente introdotto8.
● Si tratta di un autore poco conosciuto e per lo più bistrattato fino a tempi recenti dagli studiosi che lo consideravano, non sempre a torto, terribilmente noioso. Solo nell’Ottocento si è giunti alla definitiva distinzione di identità
fra questo tecnigrafo e il grammatico Elio Donato.
● Risale al IV-V secolo, ma non sono chiari i rapporti cronologici e di eventuale influenza con Servio né il debito
con Elio Donato. Dal testo stesso, le Interpretationes Vergilianae che riguardano, con delle lacune, solo l’Eneide,
sappiamo che è stato scritto per l’educazione del figlio,
nella convinzione che Virgilio vada commentato non tanto
e non solo dai grammatici ma anche e soprattutto dai retori data la profondità e l’erudizione presente nell’opera.
● Il testo è ricco di commenti che, in termini moderni, definiremo di “analisi testuale” volta soprattutto all’aspetto
pragmatico del messaggio: qual era l’intenzione del poeta
nel suo esprimersi.
● L’opera è prolissa, Ti.Cl. Donato sembra voler scrivere in
gara con Virgilio, ma spesso travisa il senso del poema nel
suo vedere Enea come il modello di ogni comportamento,
difendendolo smaccatamente in ogni circostanza a scapito
degli altri personaggi, prima fra tutte Didone, che pure
deve apparire degna di amare l’eroe.
Fra le note di Ti. Cl. Donato al passo 1, 340 ss. risulta particolarmente significativa l’osservazione sul modo di esprimersi di Venere, in cui si nota l’attenzione dell’esperto verso
le tipologie di discorso adeguate alle circostanze:
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IMPERIUM DIDO TYRIA REGIT URBE PROFECTA: hac angustia verborum quantam latitudinem tenuit! Complexa est enim
praesens tempus et praeteritum dicendo ubi sit et unde venerit. Dixit quae vocaretur et quid ageret quae illic tenebat imperium. Compendii autem causa, ne interrogationibus et responsionibus plus
quam necesse fuerat tererent tempus et prolixum fieret quod maturo debuit fine concludi, ipsa omnibus quae perquiri per interrogationem poterant compendio faciliore respondet. Ergo dixit imperium Dido Tyria regit urbe profecta et, quia potuit quaeri causa, qua compulsa est relinquere eam sedem in qua fuit et sectari longinquam, quod fuerat pro sexus feminei ratione difficile, adiunxit
GERMANUM FUGIENS.
Poco oltre il tecnigrafo, spiegando longa est iniuria, longae ambages, sed summa sequar vestigia rerum (vv. 340 s.), aggiunge:
ea positura est quae fuerat dictura, sed artificio narrantis multa sese
praetermissuram simulat, ut ille [scil. Aeneas] spe futurae brevitastis cuncta attentius audiret.
Tale osservazione consente di introdurre, volendo, un discorso sulle abilità dell’oratore, qui attribuite a Venere, ma solitamente più evidenti nei testi specifici, in particolare quelli
di Cicerone. Nella fattispecie viene adombrata la presenza di
una figura di pensiero, la cosiddetta praeteritio, quella che
consente di fare cenno ad argomenti o circostanze secondarie, fingendo di volerle tralasciare9. L’abilità dell’oratore consiste proprio nel “mettere la pulce nell’orecchio” dell’ascoltatore, insinuando l’esistenza di altro che si tace per brevità,
ma che potrebbe essere importante e quindi focalizzando la
sua attenzione proprio (o almeno anche) su quanto manca.
Ovviamente il locutore ottiene il suo scopo solo se, in realtà,
quanto trascurato non è fondamentale e anzi rischierebbe di
annoiare o di essere confutato se espresso compiutamente,
mentre, semplicemente accennato, raggiunge quanto meno
un effetto di cumulo con altre ragioni che avvalorano la
causa che patrocina10.
È importante far notare agli studenti che, se il procedimento
esaminato è tipico del genere dell’orazione giudiziaria, esso
viene riscontrato e commentato come tale anche in un testo
poetico, proprio perché gli esegeti avevano una formazione
globale e ritenevano che un autore come Virgilio costruisse
i propri discorsi secondo le regole dell’oratoria a lui contemporanea e che comunque i testi poetici andassero interpretati secondo norme retoriche, soprattutto evidenziando
8. Per dettagli ulteriori e per la bibliografia rinvio ancora al mio Cum ratione mutatio,
cit., pp. 171 ss.
9. Si veda, come es. di parallelo con un’orazione, un passo della prima Catilinaria: Nam
illa nimis antiqua praetereo, quod C. Servilius Ahala Sp. Maelium, novis rebus studentem,
manu sua occidit (1, 1, 3).
10. Ho approfondito il discorso, in quest’ottica, sulla praeteritio e sull’altra figura di
pensiero per detractionem, l’aposiopesi di cui si parlerà in seguito (§ 7), nel mio Cum
ratione mutatio, cit., pp. 40-46. In tale sede si trova anche un discorso succinto sui concetti di figura e tropo e sulla loro ulteriore suddivisione in età antica, così come cenni
alla loro evoluzione nel ’900 (pp. 1-25).
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i procedimenti stilistici il cui scopo non era semplicemente
abbellire ma “fare testo”. Si capisce pertanto quanto sopra accennato e cioè il fatto che Virgilio, secondo Ti. Cl. Donato,
meritasse di essere letto e spiegato a scuola da un retore, non
banalmente da un grammatico.
Questi appunti di Ti. Cl. Donato sul “modo di esprimersi”
possono essere messi in relazione con altre note della stessa
tipologia, come vedremo fra breve in riferimento alla confessione di Didone ad Anna nel IV libro.
doantica, nonché sulla prima critica virgiliana che oppone
apologeti ed ammiratori di Virgilio a obtrectatores dello
stesso a critici pedanti ma oggettivi, che leggono nell’Eneide
un opus inemendatum e quindi contenente inevitabilmente
alcune pecche.
3. Servio: Aen. 4, 1; at e il collegamento fra i libri
In riferimento alla disputa fra gli antichi esegeti, risulta interessante anche la continuazione della nota serviana a Aen.
4, 1, a proposito dell’esordio del libro:
2.1. La toponomastica virgiliana
Servio non fornisce alcuna sottolineatura particolare nei
versi del primo libro or ora citati, ma i due tecnigrafi possono
essere messi a confronto, anche per quanto riguarda il loro
stile, sulla spiegazione eziologica del nome Byrsa, che entrambi gli esegeti collegano alla leggenda della pelle di bovino
con cui marcare o pagare il territorio su cui Didone fonda la
nuova città di Cartagine.
Qualora interessi la toponomastica nell’Eneide, si può seguire
un percorso che preveda l’analisi di alcuni nomi geografici,
quali Lavinia litora (Aen. 1, 2), Caieta (6, 900), Portus Velinus
(6, 366) che risultano “anacronistici”, cioè non utilizzati al
tempo di Enea ma noti e comuni a quello di Virgilio. Servio,
in riferimento a questi toponimi, offre una serie di note, che
personalmente ho analizzato altrove11, che aiutano a capire
l’atteggiamento dei commentatori nei confronti del modo di
poetare dell’auctoritas, cui “era consentito” parlare ex sua persona, cioè in base alle conoscenze e alle convinzioni del proprio tempo nei passi narrativi o nelle profezie, ma non in
quelli drammatici, in cui cioè agivano nel dialogo i personaggi12. Il discorso può essere approfondito con una panoramica sulla concezione dell’epica nell’antichità come “genere misto” cioè costituito da parti strettamente diegetiche
(di pura narrazione dell’autore) ed altre per così dire “drammatiche” (in cui intervengono i personaggi mettendo in
gioco il proprio io); inoltre l’analisi serviana di un verso
come Aen. 1, 2: Lavin(i)aque venit litora:
Haec civitas tria habuit nomina. Nam primum Lavinum dicta est
a Lavino, Latini fratre; postea Laurentum a lauro inventa a Latino, dum adepto imperio post fratris mortem civitatem augeret; postea Lavinium a Lavinia, uxore Aeneae. Ergo “Lavina” legendum
est, non “Lavinia”, quia post adventum Aeneae Lavinium nomen
accepit et aut Lavinum debuit dicere, sicut dixit, aut Laurentum.
Quamvis quidam superfluo esse prolepsin (= anticipazione anacronistica) velint.
offre il destro ad un affondo negli strumenti della critica testuale e dà uno scorcio delle scelte filologiche dell’epoca tar© NS Ricerca n. 9, maggio 2014
Hunctus quoque superioribus est: quod artis esse videtur, ut frequenter diximus; nam ex abrupto vitiosus est transitus: licet stulte quidam dicant hunc tertio non esse coniunctum – in illo enim
navigium, in hoc amores exsequitur – non videntes optimam coniunctionem. cum enim tertium sic clauserit ‘factoque hic fine quievit’, intulit ‘at regina gravi iamdudum saucia cura’, item paulo post
‘nec placidam membris dat cura quietem’: nam cum Aeneam dormire dixerit, satis congrue subiunxit, ut somno amans careret. Alii
subitum transitum factum tradunt, quia non ostendit convivium dissolutum: sed hoc subtiliter fecit, quia etiam alia convivia eam habuisse describit <80> post ubi digressi lumenque
obscura vicissim13.
A differenzia di Ti. Cl. Donato che non pare interessato all’argomento, Servio evidenzia come il passaggio da terzo a
quarto libro sia calibrato e continuativo, come rimarca proprio quel monosillabo at che potrebbe parere inadeguato ad
un esordio14. L’esegeta, tuttavia, non si limita a dare un pa-
11. Laviniaque venit litora [Verg. aen. 1.2] tra variante testuale e scelta stilistica, in «Lexis»
16, 1998, pp. 201-222, nel quale si può trovare anche ulteriore bibliografia di approfondimento.
12. Si veda anche il commento ad loc. di Ti. Cl. Donato di Aen. 1, 2: Sed quaerendum est
cur posuerit Laviniaque venit litora, cum nondum fuisset hoc loci nomen, eo scilicet tempore quo Aeneas venit ad Italiam. Non ergo iam tunc fuerant Lavinia litora, sed tunc cum
gesta veteribus saeculis Vergilius replicabat e Aen. 6, 900: Portum Caietae ex persona poetae melius accipimus; Aeneas enim nondum loco ipsi dederat nomen.
13. Si evidenzieranno col grassetto, nel corso di tutto il lavoro, le note aggiuntive del
cosiddetto Servio Danielino, secondo l’ed. Thilo Hagen.
14. Azzardo un’ipotesi che non ho verificato: Ovidio nelle sue Metamorfosi inizia il
quarto libro (solo il quarto libro, benché numerosi altri comincino con monosillabi)
proprio con at; potrebbe trattarsi di una voluta allusione al predecessore, data la nota
propensione del poeta al gioco con le fonti e i generi letterari. Fa cenno alla questione
già S. Casali, Mercurio e Ilerda: Pharsalia 4 ed Eneide 4, in P. Esposito - L. Nicastri (cur.), Interpretare Lucano. Miscellanea di studi, Napoli 1999 (“Università degli Studi di Salerno.
Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità”, 22), pp. 223-236, in part. p. 236 n.
22, che è più interessato però all’inizio nello stesso modo del quarto libro dell’opera
lucanea (p. 236) senza comunque approfondire la questione. Va tuttavia evidenziata
una certa propensione di Lucano a cominciare i libri della sua opera con un monosillabo (5: sic; 8: iam; 10: ut; 2: iamque in sinalefe) e il fatto che, oltre al quarto, anche il
nono s’inizia proprio con at. Suggerisco il testo citato di Casali per un altro possibile
percorso che esula dal nostro stretto interesse e che coinvolge Virgilio e l’“antivirgilio”, cioè appunto Lucano, che in più circostanze mostra di riprendere polemicamente,
rovesciandoli o distorcendoli, il messaggio e lo stile virgiliani. L’articolo citato, in particolare, si interessa del possibile parallelo fra il legame che unisce Enea e Didone nell’Eneide e la fraternizzazione dei soldati dei due campi avversi nel Bellum civile; si tratta,
in entrambi i casi, di una “sosta” che però è destinata a volgere al peggio e a far precipitare la situazione.
29
NUOVA SECONDARIA RICERCA
rere ma ribatte a quegli obtrectatores che ritenevano Virgilio
colpevole di un passaggio brusco da un libro in cui si parla
di avventure per mare ad uno in cui si tratta di amore. Il tecnigrafo non ci dice a chi si riferisce in particolare, si limita a
liquidare gli avversari con quidam, un pronome che, come gli
studenti dovrebbero sapere (ma è sempre meglio ribadirlo),
è sì un indefinito ma indica qualcuno di noto, che non serve
nominare15. Secondo gli studiosi moderni, quando Servio si
serve di tale pronome, che abbiamo trovato anche nel commento a 1, 2, si riferisce al suo maestro Donato, cui doveva
molto, ma con cui non era sempre d’accordo nella prassi interpretativa16. È abbastanza superfluo, in ambito didattico,
accertare l’identità dei quidam o degli alii cui fanno riferimento le Note Danieline; quello che interessa è invece sottolineare l’esistenza di un dibattito vivace, anche in ambito
scolastico tardoantico che non vedeva tutti gli esegeti sulla
stessa linea di pensiero, nonostante l’importanza attribuita
unanimemente all’opera di Virgilio.
4. Aen. 4, 1: lo “scandalo” della regina
Servio ha iniziato il commento del IV libro dichiarando che
la fonte prima di Virgilio è il terzo libro delle Argonautiche,
quando appunto viene introdotta amantem Medeam; però
questo personaggio era sì una principessa ed una maga, ma
non aveva la dignitas di Didone, non solo regina, ma anche
fondatrice di una città, dopo aver condotto virilmente il suo
popolo in terra straniera ed essere riuscita a stabilirvisi. Era
quindi improponibile per quest’ultima innamorarsi contro
il volere degli dei e venire meno alla promessa di eterna fedeltà fatta alle ceneri del marito. A tale proposito, quindi, troviamo nelle Note Danieline:
REGINA] [sane] bene ‘regina’, quia contra dignitatem amor
susceptus gravior esse solet: ex hoc enim nomine et pudoris et
deliberationis nascitur causa, et praecipue potiundi difficultas.
Videtur et post amissam castitatem etiam iustus interitus.
Il commentatore ritiene che Virgilio abbia volutamente utilizzato il titolo e non il nome della protagonista femminile
per sottolineare la colpa e giustificare l’esito ineluttabile
della vicenda. In tale contesto si giustificano anche le diverse
connotazioni negative che vengono attribuite al sentimento,
definito, ad esempio, volnus (v. 2); caecus ignis (v. 2) o più direttamente culpa (v. 19). La stessa regina viene caratterizzata
come saucia (v. 1); male sana (v. 8); si possono quindi invitare gli studenti a reperire nel corso dell’intero quarto libro
termini che sottolineino la visione negativa della passione di
Didone, come si trattasse di una malattia e della sua figura
30
quasi come quella di una invasata o di una malata senza
scampo. Fra tutti il più rilevante sarà senz’altro infelix che diventa l’epiteto specifico della donna e, stante la sua etimologia, non si limita a evidenziarne la “sfortuna”, l’“infelicità”
secondo la valenza italiana, ma anche e soprattutto la sterilità; Didone infatti non aveva goduto dei frutti dell’amore
con il marito Sicheo, morto prematuramente e, nonostante
il proprio desiderio, non avrà figli da Enea. Nella visione virgiliana il sentimento della regina, quasi vittima di una maledizione, si contrappone agli amori “legittimi” di Enea con
Creusa, da cui è nato Iulo e con Lavinia, che, secondo la tradizione, partorirà Silvio. Si può paragonare l’uso di infelix
come epiteto di Didone a quello dello stesso attributo riferito a Evandro, anziano padre di Pallante, quando apprende
della morte del figlio: egli ormai è “sterile”, non ha più il suo
unico sostegno né, data l’età, può sperare di generarne un altro (cfr. ad es. Aen. 11, 53; 11, 175).
Anche successivamente, ad esempio nella glossa a caeco carpitur igni (v. 2), le Note Danieline ribadiscono il senso di
colpa di Didone: ‘caeco’ <non> quod non cernat, sed quod non
cernatur: vel quod Dido amorem suum vult occultare, si possit, ideo ‘caeco’, così come commentando Multa viri virtus
animo (v. 3), Servio afferma: bene mediam se facit praebere
Didonem inter regalem pudorem et amoris impulsum. Simulat enim se virtutem mirari, cuius pulchritudine commovetur
e, a proposito di gentis honos (v. 4): non Aeneae, ut sit velut
excusatio; sed Dardani a numinibus, aut Veneris. Allo stesso
modo Ti. Cl. Donato (vv. 3-4) si lancia in un lungo discorso
per spiegare come mai Didone si lasci andare a questo amore,
sottolineando il fascino dell’animo di Enea più che quello del
suo corpo. In questi passo l’esegeta non mette in luce tanto
la colpa inconfessabile della regina, quanto piuttosto la virtus di Enea; bisogna ricordare infatti ai ragazzi che lo scopo
primo del tecnigrafo è proprio quello di esaltare sempre e comunque il protagonista come exemplum di Romano perfetto,
deve quindi anche “giustificare” la donna e renderla degna di
amare un siffatto eroe. Pertanto non può essere meno di una
regina né deve essere travolta da una passione puramente
sensuale.
Multa viri virtus non tantum corporis placebat verum etiam animi; adseruerat enim se laborasse pro patria, duros ac diversos habuisse discursus, mori etiam voluisse, innumera pericula ferendo
superasse. Haec tractabantur bona corporis, quibus toleraverat uni-
15. «Persona o cosa individuata, ma non specificata:“uno, qualcuno, un certo, un tale”»,
recita la Sintassi normativa della lingua latina (teoria) di A. Traina - T. Bertotti, Bologna
1985, p. 185.
16. Per ulteriori spiegazioni rimando al mio già citato Laviniaque venit litora.
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versa: animi vero istiusmodi recursabant in sensibus cogitantis, quod
deorum cultor, amator patriae, amator patris, amator uxoris. Quemadmodum auditum putamus Aenean referentem discrimina sua,
cum amissam coniugem insanis laboribus perquisitam diceret, quemadmodum arbitramur iudicio eius acceptum quae intentionem tenuerat ut eius matrimonio iungeretur? Haec considerabatur multa virtus, quae non in uno genere esset maxima, sed quae ex multis et diversis robur suae felicitatis ostenderet. Tollamus amorem
quem Cupido conflaverat: cur illa non amaret virum domi forisque
praestantem, bello strenuum, pacis temporibus religiosum, necessarium viduae, necessarium destitutae, necessarium condenti civitatem novam et nova imperii fundamenta roborare cupienti, necessarium contra Pygmalionis violentiam, qui magna manu sperabatur esse venturus? Accedebat corporis decus et forma, quae ceteris animi corporisque praecipuis adderet venustatem, quae ipsa
primus liber evidenter expressit, cum recedente nube plurimus fulsisset in sole. Multusque recursat gentis honos: tertiam posuit generis laudem, haec enim tunc prodest, si quae sunt uniuscuiusque
propria rationi sanguinis recte conveniant. Nam quomodo Aeneae meritis praedicatio accederet generis, si ipse propriis bonis laudari non posset? Haec igitur pars in eo est, ut etiam ipsa ex plurimis constet: nam sciebat Dido esse Aenean Veneris filium, Cupidinis fratrem, Mercuri, Teucri, Dardani adfinem et, quod supra omnia fuit, nepotem Iovis.
Il brano, come notiamo, è decisamente lungo; lo si può far
tradurre agli studenti come compito domestico e senz’altro
può essere utile per un confronto fra lo stile di questo tecnigrafo, che così cominciano a conoscere meglio, e quello di
Servio (e le Note Danieline), decisamente più essenziale. Si
può sottolineare in proposito l’organizzazione della nota in
tre momenti a seconda di ciò che Didone ammira: in primo
luogo la viri virtus, poi il corporis decus, infine il gentis honos;
inoltre Ti.Cl. Donato si compiace di scrivere in uno stile elevato servendosi di cola paralleli o di anafore come quella di
amator, quemadmodum e necessarium17.
5. Amori a confronto
La connotazione negativa di Virgilio dell’amore di Didone
per Enea può dare l’opportunità per sviluppare un percorso
sulla visione dell’amore in diversi ambiti letterari nell’epoca
che va dalla fine dell’età repubblicana all’inizio di quella
imperiale. Solitamente l’argomento è abbastanza accattivante e si può svolgere anche all’interno di un liceo della formazione o psico-pedagogico ad elevata utenza femminile;
dato lo scarso numero di ore a disposizione in questo genere
di istituto esso può occupare un intero quadrimestre e si possono dosare adeguatamente le letture in lingua originale e
quelle in traduzione18.
In primo luogo si possono comparare i versi di Virgilio con
la trattazione sulla passione amorosa della fine del IV libro
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del de rerum natura di Lucrezio (vv. 1058-1287): siamo nella
tarda età repubblicana e nel genere letterario del poema didascalico; certe connotazioni dell’amore come furor, vulnus,
ad esempio, e dell’innamorato come miser (contrapposto al
sanus) rimandano però alle ansie della regina. L’affinità si
può far risalire ad un comune sentire dei poeti, influenzato
dalla visione epicurea delle passioni smodate; certo in Virgilio ci sarà solo un richiamo funzionale alla situazione poetica specifica, legata anche alla necessità di giustificare la
negatività del sentimento di Didone e l’allontanamento di
Enea dalle spiagge di Cartagine, mentre in Lucrezio troviamo una vera e propria trattazione di un principio della
dottrina filosofica. Secondo l’epicureismo, infatti, vanno
soddisfatti solo i piaceri catastematici, quelli cioè che garantiscono la tranquillità, non i cinetici che finiscono per essere controproducenti, in quanto, per usare un termine moderno, provocano uno “stress supplementare”. Così la libido
va sfogata, magari con le meretrici, ed è anche necessario
provvedere alla continuazione della specie, ma non è opportuno farsi coinvolgere emotivamente, perché altrimenti
si è torturati da un continuo desiderio di possesso dell’essere
amato e da una incessante angoscia per l’eventuale abbandono19.
In un’ottica diametralmente opposta a quella di Virgilio, si
pone la tradizione di poesia erotica che da Catullo passa all’elegia di Propezio e Tibullo, per poi diventare lusus nelle
opere di Ovidio. In quest’ambito la passione, più o meno realmente vissuta, diventa, anche per un cliché letterario, ragione di vita e unica “occupazione” degna20. I lessemi ad essa
legati non hanno una valenza negativa, si evidenzia soprattutto il valore di foedus del rapporto fra amanti a prescindere
da un effettivo vincolo coniugale e di fides reciproca; proprio
17. È stato rilevato dagli studiosi moderni come Ti.Cl. Donato si metta quasi in competizione con il testo che commenta all’interno della sua opera, servendosi di artifici
retorici simili quelli usati da Virgilio. Cfr. M. Gioseffi, Ritratto d’Autore nel suo studio. Osservazioni a margine delle Interpretationes Vergilianae di Tiberio Claudio Donato, in Id.
(cur.), E io sarò la tua guida. Raccolta di saggi su Virgilio e gli studi virgiliani, Milano 2000,
pp. 151-215.
18. Personalmente, durante una cosiddetta “settimana a tema”, cioè di lezione “alternativa”, ho proposto un approfondimento di questo genere, dal titolo “Dammi mille
baci”, al liceo della formazione. Onestamente il successo è stato scarso, perché, data la
frequenza libera, ho subito pesantemente la concorrenza dei corsi sul cinema o legati alla psicologia; ho però ottenuto una larga popolarità, per il titolo, fra i colleghi!
19. La lettura, anche in italiano, dei punti principali del discorso lucreziano solitamente desta l’attenzione degli studenti che però troppo spesso liquidano la questione con un “doveva avere dei problemi”! Potrebbe invece essere significativo
l’esame del contributo di A. Traina, Dira libido. (Sul linguaggio lucreziano dell’eros), in Id.,
Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, II serie, Bologna 1981, pp. 11-34 (prima
versione del saggio in Studi di Poesia latina in onore di A. Traglia, Roma 1979, pp. 259276), che, sebbene un po’ datato, costituisce un’ottima analisi del linguaggio erotico
dell’autore e mostra anche agli studenti un metodo di analisi lessicale comparativa.
20. Un ulteriore approfondimento lessicale può coinvolgere i termini negotium e
otium, secondo l’accezione dei coevi Cicerone e Catullo.
31
NUOVA SECONDARIA RICERCA
32
quegli elementi che, secondo Didone, Enea viola nel momento in cui vuole abbandonarla (lo accusa infatti di perfidia, v. 305), ma, come sappiamo, l’eroe, un vero “tradizionalista” per dirla con Catullo, nega di aver mai contratto un
coniugium con lei (vv. 338 s.: […] nec coniugis umquam/
praetendi taedas aut haec in foedera veni)21. Ancora, in ambito elegiaco, il servitium amoris, che implica quella passività maschile tanto temuta dai Romani in ambito sia eterosia omoerotico, è non solo accettato ma addirittura osannato, purché non si esca dal genus letterario; sappiamo infatti che lo stesso Properzio non esita a stigmatizzare Antonio per aver messo in pratica nella vita reale il tipo di
esistenza previsto per l’amante elegiaco (3, 11, vv. 29-54, vv.
47 ss.: Quid nunc Tarquinii fractas iuvat esse securis/ nomine
quem simili vita superba notat,/ si mulier patienda fuit?). Allo
stesso modo è probabile che Enea, trovato da Mercurio a dirigere i lavori di una città non sua, mollemente adorno dei
regali di Didone, adombri proprio il modello negativo di
Antonio sottomesso alla volontà di Cleopatra (Ut primum
alatis tetigit magalia plantis,/ Aenean fundantem arces ac
tecta novantem/ conspicit. Atque illi stellatus iaspide fulva/ ensis erat Tyrioque ardebat murice laena/ demissa ex umeris, dives quae munera Dido/ fecerat, et tenui telas discreverat auro,
vv. 259 ss.)22.
Infine si può ipotizzare anche un parallelo fra il libro IV e il
testo di una delle Heroides di Ovidio: 7. Dido Aeneae, mettendo in luce la novità del genere dell’epistola in versi e del
mittente femminile. Il confronto deve tener conto del fatto
che sentiamo, in un lungo monologo, solo la voce della regina; tuttavia si possono sicuramente notare dei paralleli
lessicali, quali, ad esempio, l’uso di fides (es. v. 10) foedus (es.
v. 11) infidus (es. v. 31) perfidia (es. v. 58); oppure uror (es.
v. 25) misera (es. v. 9), che connotano il personaggio della regina e la sua visione delle cose in modo del tutto analogo a
quello virgiliano. Allo stesso tempo, però, troviamo una ripresa più macabra della possibilità di avere un erede da
Enea: Didone, in Ovidio, non si lagna perché il suo amore è
stato infruttuoso, ma ipotizza una gravidanza che terminerà assieme alla sua stessa vita. Ancora tipicamente ovidiano
è il linguaggio erotico che richiama quello militare come al
v. 32, (castris militet ille tuis) in cui la preghiera della regina
va a Cupido che abbracci il suo durum fratrem e ingaggi con
lui una battaglia. Infine si può sottolineare il frequente lusus
nei versi di Ovidio, che si basa, ad esempio, sui poliptoti (fra
tutti v. 61: perdita ne perdeam, timeo, noceamve nocenti) o sui
chiasmi come Anna soror, soror Anna, meae male conscia
culpae (v. 191), in voluta citazione di Aen 4, 9.
6. La confessione di Didone23
I versi 9-29 sono occupati dalle parole che, non senza riluttanza, Didone rivolge ad Anna, che al verso 8 viene definita
unanimem sororem24. In riferimento a tale sintagma Servio
commenta: de re pudenda locutura parum fuerat sororem eligere, nisi etiam unanimem, il soggetto sottinteso di locutura
è ovviamente la regina, o, meglio, la male sana, cioè non
plene sana, amore vitiata. Ti. Cl. Donato, più prolisso, ma anche più esplicito, specifica:
Mire autem posuit male sana: sanus est enim qui nullo animi aut
corporis incommodo premitur, sanus non est qui nullo bonae valitudinis beneficio confovetur, male sanus est autem qui animi tormentis adfligitur et pro sano habetur. Interea cum poeta praemittit sororem, praemittit unanimem, ostendit aliquid Didonem
germanae dicturam quod in vulgus non deberet exire. Erat enim
turpissimum amores in hospitem publice confiteri, sed nullam putabat illa confessionem, quando in duobus sororum corporibus unus
animus fuit.
Da entrambi compare inequivocabilmente che quanto
esprime la regina è vergognoso e non basta a scusarla la “follia” di cui è preda, di cui il secondo esegeta dà una definizione quasi medica: non è una vera malattia che compromette globalmente la salute, né uno stato normale, ma un
tormento dell’animo che può non comparire all’esterno.
Una simile confessione richiede un interlocutore adeguato:
un parente, quindi un ambito privato, che si oppone appunto al publice, dove non deve assolutamente trapelare; ma,
come ulteriore “garanzia”, la sorella deve avere con lei un affiatamento tale da sembrare condividerne la coscienza: Didone, in certo qual modo, parla con sé stessa. Gli stessi concetti sono ribaditi a proposito di Anna soror, che inizia, al
verso successivo, il vero e proprio discorso diretto: et bene
vocabulo necessitudinis blanditur, ut libenter amoris audiat
confessionem, sed suspense et pedetemptim pudore resistente
21. Molto interessante, ma prelude ad una lezione a parte, il commento degli esegeti
antichi al passo in questione e, più in generale, alla risposta di Enea, che si configura
come una controversia giuridica, in cui l’eroe cerca di invalidare le accuse che gli vengono mosse, di aver tentato una “fuga” e di aver tradito le “nozze”, parlando di navigatio per forza maggiore e negando il coniugium col darne una definizione
tecnico-forense. Si veda anche l’interessante commento di F. Caviglia, Note, cit., Milano 1995, pp. 118-129.
22. Un discorso complessivo, accessibile anche agli studenti, sulla poesia d’amore latina, soprattutto da Catullo a Ovidio, si ha in P. Fedeli, La poesia d’amore, in Lo spazio
letterario di Roma Antica, vol. I, La produzione del testo, Roma 1998 (= I ed. in brossura
di 1993, II ed.), pp. 143-176.
23. Si veda in proposito l’ottima analisi di F. Caviglia, Note, cit., pp. 99-104.
24. Le edizioni portano alternativamente unanimam o unanimem, perché, si può far
notare agli studenti, già Servio precisava dicimus autem et “unanimus” et “unanimis”,
sicut “inermus” et “inermis”, fornendo così una testimonianza dell’uso linguistico antico o almeno tardoantico.
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incipit leggiamo nel Servius Auctus25, mentre Ti.Cl. Donato Dal passo si evince comunque che non ci scostiamo molto
da quanto affermato dall’esegeta maggiore, in quanto lo
asserisce:
scopo delle parole di Didone sarebbe appunto quello di
Utrumque conplexa est, alterum nomen quo vocaretur ab omnipreparare l’argomentazione in modo tale da poter giungere
bus, alterum quod consanguinitatis dederat cursus. His vocabulis
in modo meno sfrontato (verecundius) alla confessione,
admonitam voluit, ut quod erat auditura teneret animo et consiquasi le circostanze la “costringessero” ad amare Enea. Il rilio regeret aestuantem: et tamen confessionem ipsam, quam scielievo più importante del passo, forse, è il fatto che già albat inhonestam, non semel effudit, sed usa est insinuatione et per
l’altezza cronologica di questo trattatello, che si presume anlongos verborum circulos venit ad eam partem quae sine iactura
pudoris, quamvis apud talem sororem, proferri non potuit.
tecedente a Ti. Cl. Donato e a Servio, il discorso di Didone
venisse interpretato come un magnifico esempio di tecnica
Già da questi passi notiamo che i tecnigrafi evidenziano oratoria29.
come la donna si esprima con molta circospezione arri- Anche i tecnigrafi più noti sottolineano come la regina invando alla vera e propria confessio solo alla fine, per poi pro- dugi sulle qualità straordinarie dell’eroe, mettendo prima in
rompere in un pianto che può anche essere frutto della ten- rilievo quelle morali, per rendere accettabile l’attenzione a
sione crollata, benché venga interpretato come sintomo quelle fisiche: cum eum ob virtutem laudet, addendo tamen os
del pungolo dell’amore frustrato per Enea, ma giustificato nec pulchritudinem denegaverit chiosano le Note Danieline a
dal precedente ricordo del marito26. È soprattutto il se- proposito di quem sese ore ferens (v. 11) e ancora, in rifericondo esegeta a mettere in luce il primo aspetto “tecnico” mento a pectore et armis (v. ibidem) Servio asserisce: et bene
della suasoria di Didone, quasi si trattasse di un’orazione virtutis commemoratione excusat supra dictam pulchritudinis
pronunciata in tribunale; in primo luogo usa il termine in- laudem. Ti. Cl. Donato, poi, si serve delle parole della donna
sinuatio, che nell’ambito della retorica giudiziaria costitui- per ribadire la sua idea “fissa” (e non sempre pertinente) che
sce un modo con il quale l’oratore cerca di far accettare al Virgilio sia un incondizionato ammiratore di Enea e non
pubblico e ai giudici qualcosa che si oppone ai principi con- perda occasione per esaltarlo: sed hic poetae favor est, qui
divisi, ad esempio nel patrocinio, appunto, di una turpis omni occasione virtutes Aeneae meritaque commendat. Inter
causa, oppure fornisce una appiglio per indebolire, scredi- bona eius ponit quod non amavit ipse ut vulgaris, ut turpis, sed
tandola, la parte avversa (cfr. Rhet. ad Her., 1, 6, 9 e Quint. amatus est, neque amatus ab ea quae esset pudoris abiecti, sed
Inst., 4, 1, 44). È vero tuttavia che, se la regina sa di soste- ab ea quae petita esset consilio Veneris et Cupidinis fraude. Annere una causa inaccettabile, non ha comunque necessità di cora una volta, inoltre, sempre in funzione apologetica, l’eseconvincere altri che sé stessa: Anna, infatti, è già stata defi- geta sottolinea come non sia l’uomo ad amare, ma sia oggetto
nita unanimis. Si possono anche inserire le parole di Didone
nell’ambito della figura retorica di pensiero (cioè uno di
quei procedimenti che influiscono sul ragionamento logico
25. È interessante anche la parte “erudita” della nota: cuius filiae fuerint Anna et Dido,
sotteso all’espressione e non puramente sull’esposizione Naevius dicit, che ci conferma l’ipotesi che il personaggio di Didone fosse già presente
nel Bellum Poenicum di Nevio, benché non ne esista una testimonianza diretta.
verbale27) che, con termine greco, è definita prokataskeué. 26.
Serv. Aen., 4, 30: Et bene praemisit excusationem his lacrimis commemoratione prioL’ipotesi è suffragata dal fatto che in un testo di retorica tar- ris mariti, quasi propter maritum fleret, cum amore cogente lacrimaret. Ti. Cl. Don. Aen. 30:
fudit, inquit, post verba uberes lacrimas, vel quod veteris amoris recordatione movebatur
doantico, il de schematibus dianoeas, spurio ma attribuito vel quod urgebatur efficere quod animo respuente damnaverat.
a Giulio Rufiniano, retore minore da collocarsi fra III e IV 27. Per un quadro più ampio sulla suddivisione interna dei procedimenti stilistici secondo gli antichi, in tropi, figure di pensiero e di discorso e sulle ulteriori partizioni (cui
secolo, il passo dell’Eneide è utilizzato appunto quale esem- si farà riferimento anche in seguito), mi permetto di rimandare al mio Ratio et Usus. Dibattiti antichi sulla dottrina delle figure, Milano 2000, pp. 3-60, dove tratto gli aspetti più
pio del procedimento:
Prokataskeuø est procatalepsi proxima, cum rei, de qua acturi
sumus, colorem praeparamus atque praetendimus, ut in illo:
“Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!” usque “quae
bella exhausta canebat” (Verg. Aen., 4, 9-14). Nam primo de insomniis questa est, dein admirari se virtutem hospitis dixit et veram fidem esse, a diis illum genus ducere: misereri etiam casus et
errores, ut verecundius postea de amore fateretur, quasi in affectum hospitis vel insomniis vel admiratione virtutis vel miseratione calamitatis inducta sit. Haec figura dicitur latine praeparatio28.
© NS Ricerca n. 9, maggio 2014
propriamente filologici della questione e Cum ratione mutatio, cit., pp. 1-25, in cui faccio cenno anche agli sviluppi moderni dei termini con uno scopo propedeutico all’analisi della valenza testuale dei singoli stilemi.
28. [Iul. Ruf.], RLM p. 60, 22 ss. Purtroppo le edizioni di questi Rhetores Minores, spesso
preziosi, risalgono ancora alla raccolta di H.F. Halm, Rhetores Latini Minores, Lipsiae
1863. Mi sono occupata del passo, all’interno di un discorso più articolato, in Prolepsis nella retorica giudiziaria, in «RIL» classe di Lettere e Scienze Morali e Storiche, 129
1995, pp. 125-139. Va inoltre segnalata un’opera molto utile per “scovare” citazioni antiche con commento dei passi di Virgilio, a prescindere dai lavori di esegesi maggiori:
G. Barabino – A.V. Nazzaro – N. Scivoletto (cur.), Interpretationes Vergilianae Minores, 6
volumi, Genova 1991-2000.
29. Qualora la datazione reciproca fosse scorretta, resterebbe il fatto che testi poetici
come questo venivano utilizzati comunemente per fare lezione anche di retorica giudiziaria.
33
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d’amore e per di più non di una donna spudorata, ma per
così dire “irretita” dalla trama superiore di due divinità30.
Nella spiegazione delle parole di Didone i tecnigrafi dedicano
un’attenzione particolare all’aggettivo novus che caratterizza
l’hospes del verso 10. Va sottolineato agli studenti come si
tratti di un termine non sempre “neutro” o positivo in latino,
dal momento che le res novae erano i rivolgimenti politici,
l’homo novus era guardato con sospetto dai conservatori e
persino i poetae novi, per quanto l’aggettivo si limitasse ad indicare un modo di versificare diverso da quello abituale,
non vennero subito apprezzati, ma spesso “bollati” in modo
dispregiativo come cantores Euphorionis31. Nel testo in oggetto, però, l’attributo è positivo, secondo Servio è sinonimo di magnus oppure indica qualis antea numquam32, così
come Ti. Cl. Donato glossa: nova quippe in illo sunt omnia neque umquam in aliis visa. Hospitem novum pro amantis
animo, non quasi recens susceptum, sed nova quadam et singulari corporis atque animi specie debemus accipere.
Quando finalmente trapela la plena confessio (vv. 19 ss.),
Servio dimostra mirabilmente di aver compreso lo stato
d’animo con cui è concessa, a proposito di Huic uni forsan
potui succumebre culpae (v. 19) afferma infatti: singula pronuntianda sunt: ingenti enim dicta sunt libra, quibus confessioni desiderii sui quandam inicit refrenationem, mettendo in
luce la riluttanza nell’esprimersi33. Inoltre, subito dopo, in relazione al verso successivo spiega: FATEBOR ENIM bene uno
sermone et culpam expressit et necessitatem: fateri enim et coactorum est et culpabilium. Sed hic videtur per oblationem
confessionis levius crimen efficere. È da mettere in rilievo
non solo l’attenzione alle aree semantiche del lessico usato da
Virgilio, ma anche quella alla psicologia della donna. Allo
stesso modo le note ai versi 22 s. specificano che inflexit
viene utilizzato perché prima Didone aveva assicurato che
nel suo cuore restava fixum et immotum il proposito di restare fedele al cenere di Sicheo (v. 15), mentre poi cede a poco
a poco:
INFLEXIT quia supra ait ‘fixum inmotumque sederet’. ‘Inflexit’ a
rigido proposito deviavit. Et bene per gradus crevit: primum ‘inflexit’, ut fixos ostenderet; quae fixa sunt enim, quoniam avelli non possunt, inflectuntur: deinde ‘inpulit labantem’; ea enim
inpelluntur, quae prona sunt ad cadendum. LABANTEM INPVLIT id est inpulit et labare fecit; non enim lababat qui ante inmobilis fuerat34.
34
Infine, per cercare di confessare sub specie honesta quella
che ella stessa avvertiva come rem hinonestam, la regina si
serve di veteris vestigia flammae (v. 23), dicens – annota Servio – se agnoscere maritalis coniugii ardorem: hoc est quo ma-
riti diligi solent, rimarcano le Note Danieline che aggiungono, senza mezzi termini: nam erat meretricium dicere: in
amorem Aeneae incidi.
Ti. Cl. Donato, si sofferma invece maggiormente sul senso di
colpa in seguito alla confessione, tanto da aggiungere una
confirmatio: l’esprimere in modo solenne di voler mantener
fede agli impegni presi, quello che, in tribunale, seguiva solitamente la richiesta di perdono. Ancora una volta Didone
30. In generale sulla figura di Didone in Ti.Cl. Donato di vedano M. Gioseffi, “Nusquam
sic vitia amoris”: Tiberio Claudio Donato di fronte a Didone, in F. Conca (cur.), Ricordando
Raffaele Cantarella. Miscellanea di studi, Bologna 1999, pp. 137-162 e R.J. Starr, Explaining Dido to Your Son: Tiberius Claudius Donatus on Vergil’s Dido, in «CJ», 87, 1991, pp.
25-34.
31. Se si avessero a disposizione gli strumenti adatti si potrebbe far fare ai ragazzi
una ricerca lessicale tramite banche dati quali la Bibliotheca teubneriana latina, per
controllare le occorrenze non tanto di novus, troppo frequente, ma di sintagmi quali
res novae o homo novus o poetae novi o simili, per vedere la valenza preferenziale e lo
sviluppo diacronico dei significati.
32. A suffragio della prima ipotesi riporta un passo delle Bucoliche (3, 86): nova carmina che egli stesso, ad loc., commenta con magna, miranda; per la seconda, invece,
si serve di un passo di Terenzio (Eu. 317), che ci testimonia come il commediografo
fosse uno dei testi tipici scolastici. Bisogna inoltre ricordare il fatto che il maestro di
Servio, Donato, aveva scritto un commentario proprio ai drammi terenziani e si può
presumere con buona certezza che l’allievo lo conoscesse; a proposito del verso in
questione, infatti, vi leggiamo: NOVA FIGURA ORIS laudis genus est “nova”, quia dixerat
(v. 297) taedet cotidianarum harum formarum.
33. Le Note Danieline aggiungono anche: bene “forsan”, quasi adhuc dubitet e, più
specificamente a proposito di culpa: bene culpae potius quam amori et hoc propter
antiquum ritum, quo repellebantur a secerdotio, id est Fortunam muliebrem non coronabant, bis nuptae. È evidente il riferimento ad una tradizione romana, che si pone
nell’ambito dell’importanza dell’univira nel mos maiorum e nel tentativo augusteo
della rimoralizzazione dei costumi, su cui si possono invitare gli studenti a compiere
una breve ricerca. Rilevante in proposito anche l’aggiunta danielina a Aen. 4, 29, in cui
si fa riferimento ad un particolare vincolo che impediva seconde nozze alla moglie del
flamine: sane caeremoniis veterum flaminicam nisi unum virum habere non licet,
quod hic ex persona Didonis exsequitur, dolentis stuprum admissum in amore Aeneae, quod supra dictis versibus probavit ‘ille meos primus’ et reliqua. nec flamini
aliam ducere licebat uxorem, nisi post mortem flaminicae uxoris: quod expeditur,
quia post mortem Didonis Laviniam duxit, et quod subrepta vel retenta Creusa ex
ipsius quoque confessione et praedicatione regia parata fuerit: quo nullum piaculum fore denuntiatur. A proposito del verso 19 del quarto libro può essere anche didatticamente interessante citare un articolo che focalizza la propria attenzione sulla
traduzione nel corso del tempo e sulla possibilità di separare uni, riferendolo a Enea,
da culpae; in effetti la morfologia non è determinante né lo sono le note dei commentatori antichi: C. Marangoni, Huic uni forsan potui succumbere culpae (Verg. Aen. 4,
19). Storia e significato di un verso, in L. Cristante (cur.), Incontri triestini di filologia classica 1 (2001-2002), Trieste 2003, pp. 11-23, reperibile anche on line. L’autore, in modo
convincente e con dovizia di passi paralleli probanti, opta per l’ipotesi di riferire huic
uni all’eroe e, a mio avviso, gli può venire in soccorso anche un passo tardoantico
tratto dalle Regulae Augustini (GL V 509): si sta parlando dei generi dei pronomi, in
particolare di unus, che tuttavia viene inteso più come aggettivo pronominale che
come pronome vero e proprio, tanto che viene declinato in unione a hic, haec, hoc.
Tutto il capitolo dedicato ai pronomi non pare infatti fare distinzione fra la valenza realmente sostitutiva degli stessi e il valore aggettivale delle medesime forme; in tale
contesto l’autore cita proprio il verso virgiliano: secondo me, la cosa dovrebbe attestare l’interpretazione di huic uni appunto come di una forma a sé stante, quindi disgiunta da culpae. Di parere diverso invece era N. Martinelli, che, nel suo testo Eneide
IV 19: Huic uni forsan potui succumbere culpae, in «Athenaem», n.s. 6, 1928, pp. 48-54, si
serviva proprio della nota citata per confermare l’interpretazione tradizionale. Mi
rendo conto però che il passo del trattato non sia determinante né in un senso né
nell’altro.
34. Si potrebbe utilizzare questo labantem impulit (v. 22), evidentemente nell’ordine
logico-cronologico “rovesciato”, anche a parere del commentatore antico, all’interno
di un diverso percorso riguardante procedimenti linguistici quali l’hysteron proteron,
di cui parleremo in seguito (§ 8.). Per ora mi limito a rinviare al mio Ratio et Usus, cit.,
pp. 174-180.
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utilizza un procedimento retorico che serve a convincere fetizza, per così dire, per bocca della protagonista la fine che
farà non potendo sposare l’eroe.
l’avversario per far fronte alla propria interiore fragilità:
Verum ne ista confessio reprehensibilis remaneret, adnexuit iusiurandum, quo sibi binas nuptias horruisse firmaret: sed mihi vel
tellus optem prius ima dehiscat vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras, pallentis umbras Erebi noctemque profundam,
ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo (vv. 24-27). Confessa sum, inquit, de amore, sed melius proveniet ut ante dehiscat
terra et me recipiat aut Iovis fulmine demittar in Tartarum, quam
ego pudoris leges aut iura dissolvam.
L’esegeta segnala però anche l’abilità della donna nel mostrare alla sorella il modo di ribattere alle sue affermazioni e
di persuaderla a non restare fedele alla memoria del marito:
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores abstulit, ille habeat se
cum servetque sepulchro (vv. 28 s.): ipsa sorori suae viam necessariae persuasionis ostendit, ut quod erat factura amoris inpulsu
hortatu magis alieno coacta facere videretur. Ait semel nupsi, habeat ille mortuus licet pudoris mei pignus, qui mihi florem virginitatis eripuit, et se cum habeat ac suo sepulchro conservet. Hoc est
oblique dicere quid dubitem nubere, cum alterius nuptias sepultus ille nec videre possit nec aliquando sentire? Quod praecipuum
habui tulit. Sufficiat ei virginitatis meae decus, relinquat viduam
necessitatibus suis. Etiamsi aliquid sentit, coniugii nostri sacratissimum nomen et fidem maritali debitam toro mors media sustulit, mors delevit. Novitatem quandam illius procuravit excessus. Superflua reverentia procul abscedat. Vis maior urget, vis intolerabilis cogit. Inpune secundi coniugii fortuna suscipitur et, si aliquid
sentire manes possunt, inpune peccatur.
Didone, sembra dirci il tecnigrafo, sa già quale decisione
prenderà nonostante i reiterati giuramenti, però cerca conforto, per tacitare la propria coscienza, nell’esortazione della
sorella, in modo che sembri quasi “costretta” a cedere alla
passione. Per questo motivo fa riferimento alla morte di Sicheo ed al suo sepolcro, per lasciar inferire (oblique dicere)
che la sua colpa resterà impunita, in quanto i defunti non vedono né provano sensazioni35; se il marito è stato colui che
ha avuto il fiore della sua giovinezza e la sua fedeltà, la morte,
tuttavia, ha modificato la situazione: compare il sostantivo
novitas, della stessa radice e area semantica dell’aggettivo novus, di cui si è parlato sopra che, qui sicuramente, getta una
luce sinistra sulla “nuova” possibilità che si apre a Didone.
Decisamente meno interessato all’argomento Servio che si limita ad osservare a proposito del v. 24: SED MIHI VEL
TELLVS OPTEM PRIVS IMA DEHISCAT callide, ac si diceret posse se coniungi Aeneae, si mors secuta non fuerit, dove a
mio avviso, però, con callide non si vuole evidenziare tanto
la scaltrezza della regina, quanto la bravura del poeta che pro© NS Ricerca n. 9, maggio 2014
7. Insinuatio, dottrina degli status e retorica
del silenzio
Qualora si fosse interessati, se la classe lo permette, ad un discorso più “tecnico” che si addentri maggiormente nella
strutturazione delle orazioni antiche si può svolgere un percorso che prenda le mosse dal commento donatiano a v. 9,
in cui si parla appunto di insinuatio per vederne il valore di
termine tecnico e notare come si colleghi anche a quella
“retorica del silenzio” che ha fra i suoi punti di forza le cosiddette figurae per detractionem, la reticenza e la preterizione.
In primo luogo va specificato che il lavoro dell’oratore prevedeva alcuni momenti fondamentali: l’inventio, cioè il reperimento degli argomenti da utilizzare, la dispostio, l’organizzazione secondo uno schema prestabilito delle
argomentazioni in possesso, l’elocutio che, con le parole di O.
Reboul, potremmo definire «la redazione del discorso» (Introduzione alla retorica, Bologna 1996, ed. or. Paris 1994, II
ed., p. 81), l’actio, cioè l’esecuzione materiale di quanto preparato e la memoria: l’insieme di tecniche che aiutavano
l’oratore a ricordare un testo che non aveva precedentemente scritto36.
All’interno della dispositio, poi, il discorso si articola in diversi
momenti, il primo dei quali è l’exordium che serve a rendere
il pubblico docile, attento e benevolo, cioè pronto ad ascoltare, realmente disposto a farlo e incline a sposare la causa
dell’oratore, come si legge, ad es., in Cic. De inv., 1, 20 o Orat.,
122: quid enim iam sequitur, quod quidem artis sit, nisi ordiri
orationem, in quo aut concilietur auditor aut erigatur aut paret se a discendum. Fa seguito la narratio, la vera e propria
esposizione dei fatti in cui l’oratore si prefigge lo scopo di docere (spigare i fatti “oggettivi”), movere (conquistare l’appoggio emotivo dell’ascoltatore) e delectare (affascinarlo),
come si legge, ad es., in Cic. Orat., 69 o de orat., 2, 310: et quoniam, quod saepe iam dixi, tribus rebus homines ad nostram
sententiam perducimus, aut docendo aut conciliando aut permovendo, una ex tribus his rebus res prae nobis est ferenda, ut
35. Anna, quasi cogliendo l’invito della sorella, afferma al v. 34: id cinerem aut manis credis curare sepultos?
36. Per un discorso più completo su inventio e dispositio suggerisco il Manuale citato
di B. Mortara-Garavelli, pp. 57-111 e O. Reboul., Introduzione, cit., pp. 65-81; su actio e
memoria le stesse opere rispettivamente pp. 283-86; e pp. 87-89. L’elocutio ha una trattazione molto più ampia, in quanto comprende tutta la teoria delle figure e dei tropi,
per una definizione globale, tuttavia, si vedano le medesime opere, pp. 111-113; pp.
81-87.
35
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nihil aliud nisi docere velle videamur; reliquae duae, sicuti sanguis in corporibus, sic illae in perpetuis oratonibus fusae esse debebunt. Per raggiungere tali scopi, come ricorda Quintiliano
Inst. 4, 2, 36 (erit autem narratio aperta ac dilucida, si fuerit
primum exposita verbis propriis et significantibus et non sordidis quidem, non tamen exquisitis et a usu remotis, tum distincta rebus, personis, temporibus, locis, causis, ipsa etiam pronuntiatione in hoc accommodata, ut iudex quae dicentur
quam facillime accipiat), il locutore dovrà essere breve, chiaro
e verosimile37. Della narratio può far parte anche la digressio,
cioè una “deviazione” dal tema principale e, strettamente legata sempre alla narratio, è l’argumentatio: l’esposizione
delle prove a favore (confirmatio) e la confutazione delle tesi
dell’avversario (refutatio). Fa infine seguito l’epilogus in cui
si “tirano le somme” con un’ultima captatio benevolentiae
dell’uditorio38.
In quest’ambito l’insinuatio si pone come possibile modo di
costruire l’exordium, come ci mostra la Rhetorica ad Herennium39: Exordium duo sunt genera: principium, quod Graece
prohemium appellatur, et insinuatio, quae epodos nominatur (1,
6, 6)40. Quindi, come procede, in presenza di una causa “limpida” ci si servirà del principium, cum statim auditoris animum
nobis idoneum reddimus ad audiendum. Id ita sumitur, ut attentos, ut dociles, ut benovolos auditores habere possimus. Qualora invece la causa sia dubia è necessario partire da una captatio benevolentiae per evitare che la parte più vergognosa
possa essere di ostacolo; se invece siamo in presenza di un humile genus causae si dovranno rendere gli ascoltatori attenti,
ma sin turpe causae genus erit, insinuatione utendum est, de qua
posterius dicemus, nisi quid nacti erimus, qua re adversarios criminando benevolentiam captare possimus. Quindi l’insinuatio
è un po’ l’estremo rimedio se non c’è nulla di oggettivo di cui
poter accusare l’avversario e ottenere così il favore del pubblico.
Tuttavia l’anonimo autore promette, come abbiamo visto, di
trattare più estesamente la questione e lo fa a 1, 6, 9:
Tria sunt tempora, quibus principio uti non possumus, quae diligenter sunt consideranda: aut cum turpem causam habemus, hoc
est, cum ipsa res animum auditoris a nobis alienat; aut cum animus auditoris persuasus esse videtur ab iis, qui ante contra dixerunt; aut cum defessus est eos audiendo, qui ante dixerunt.
36
Quindi si deve ricorrere all’insinuatio in tre circostanze:
● Quando l’argomento su cui verte la causa è disdicevole e
ciò ci alienerebbe la partecipazione emotiva del pubblico.
● Quando quest’ultimo è già stato convinto dalle parole
della parte avversa.
● Quando è già stanco di ascoltare gli avversari.
Evidentemente, come si è già notato, le parole della regina
rientrano nella prima possibilità, nel qual caso ci si deve
comportare come segue:
Si causa turpitudinem habebit, exordiri poterimus his rationibus:
rem, non hominem, <hominem, non rem> spectari oportere; non
placere nobis ipsis quae facta dicantur ab adversariis, et esse indigna aut nefaria; deinde, cum diu rem auxerimus, nihil simile a nobis factum ostendemus; aut aliquorum iudicium de simili causa aut
de eadem aut de minore aut de maiore proferemus, deinde ad nostram causam pedetemptim accedemus et similitudinem conferemus. Item si negabimus nos de adversariis aut de aliqua re dicturos, et tamen occulte dicemus interiectione verborum.
Non si neghi quindi l’oggettiva difficoltà che comporta la
materia, ma la si contestualizzi nel modo adeguato, facendo
prevalere a proprio vantaggio o i fatti o la personalità di chi
li ha compiuti; inoltre, con una sorta di amplificatio si esagerino le accuse della parte avversa per mostrare come non
si sia fatto nulla di analogo, si trattino poi giudizi relativi a
situazioni simili che facciano riportare il discorso sulla causa
che si discute per farne un paragone e infine, pur negando di
voler parlare degli avversari o di qualche situazione, se ne accenni surrettiziamente, quasi con una parentesi.
Il fatto che l’insinuatio si caratterizzi proprio per la modalità
poco limpida di agire da parte del locutore (occulte) viene ribadito poco dopo (1, 6, 11): Inter insinuationem et principium
hoc interest. Principium eius modi debet esse, ut statim aper-
37. È possibile, qualora si voglia mostrare agli studenti la modernità di queste affermazioni, istituire un paragone con la teoria della comunicazione, formulato da un filosofo del linguaggio alla metà circa del secolo scorso: H.P. Grice. Egli, interessatosi
alla comunicazione quotidiana, ha stabilito un “principio di cooperazione” fra i locutori, che, banalmente, si può intendere come l’intenzione di ciascuno dei due di soddisfare le richieste dell’altro, di non mentire, di non divagare e di fornire informazioni
utili al suo aumento di conoscenza, senza imporgli elementi superflui. All’interno delle
massime che corredano il principio di cooperazione ci sono appunto quelle cosiddette del modo, che prevedono di essere brevi, ordinati, non oscuri, non ambigui; più
meno tutti quei principi, che, come dico sempre agli studenti SSIS, vengono regolarmene violati in un qualunque Collegio Docenti! Tornando alla serietà, si trova una
chiara esposizione della dottrina i Grice in: H.P. Grice, Logica e conversazione, in M. Sbisà
(cur.), Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Milano 1995 (testo
or. di Grice 1967 lez. a Harvard University), pp. 199-219; ne ho fatto un sunto ad uso
degli studenti SSIS nel mio Appunti di Pragmalinguistica, Milano 2006, pp. 21-25.
38. Specificamente sulle parti del discorso e quindi per la citazione dei passi antichi
ad esse inerenti, si rimanda a L. Calboli-Montefusco, Exordium narratio epilogus. Studi
sulla teoria retorica greca e romana delle parti del discorso, Bologna 1988.
39. Si può ricordare agli studenti che si tratta di un manuale anonimo, attribuito per
lungo tempo a Cicerone per le affinità con il suo de inventione, ma si può ormai dire
con certezza, dopo gli studi di G. Calboli, scritto da tale Cornificio, un retore legato alla
scuola dei Rhetores Latini di Plozio Gallo del I sec. a C., fatta chiudere per lo scandalo
che provocava dal momento che proponeva lo studio della retorica in latino anziché
in greco, offrendo quindi anche alle classi meno abbienti un inequivoco strumento di
potere. Ottima edizione con commento a cura di G. Calboli, Bologna 1993, II ed., per i
passi citati di seguito si vedano in part. le pp. 55 ss. e le note ad loc.
40. Si può vedere anche come passo parallelo e eventualmente farlo tradurre agli
studenti Quint. Inst., 4, 1, 42; per il passo successivamente citato, Rhet ad Her. 1, 6, 9, si
veda Quint. Inst., 4, 1, 44 s.
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tis rationibus, quibus praescribimus, aut benivolum aut attentum aut docilem faciamus auditorem: at insinuatio eiusmodi debet esse, ut occulte per dissimulationem eadem illa
omnia conficiamus, ut ad eandem commoditatem in dicendi
opere venire possimus. Il fine giustifica i mezzi, quindi, l’obiettivo è quello di poter esprimere di fronte al pubblico più favorevole possibile la propria posizione, non è rilevante se lo
si ottenga aperte, senza sotterfugi, o per dissimulationem.
Se torniamo alle parole di Didone notiamo che:
● la confessione balbettata non nega la scabrosità della situazione ma ne evidenzia l’eccezionalità, esaltando l’aspetto
straordinario di Enea sotto tutti i punti di vista (rem, non
hominem, <hominem, non rem> spectari oportere).
● Ipotizza quella che agli occhi di tutti (soprattutto ai propri) sarebbe una culpa, ma nega di volerla compiere per la
propria avversità a seconde nozze e aggiunge addirittura
una sorta di giuramento esacratorio (non placere nobis ipsis quae facta dicantur ab adversariis, et esse indigna aut nefaria; deinde, cum diu rem auxerimus, nihil simile a nobis
factum ostendemus).
● Infine lascia intendere alla sorella come potrà convincerla
adducendo il motivo dell’indifferenza dei defunti al comportamento dei vivi, facendo riferimento al sepolcro di Sicheo e fingendo di voler rimanere fedele al marito anche
dopo la morte (Item si negabimus nos de adversariis aut de
aliqua re dicturos, et tamen occulte dicemus interiectione verborum).
È interessante comparare con la confessione della regina i vv.
382 ss. dell’Hecyra di Terenzio, in cui vengono riportate le parole della madre del protagonista: o mi Pamphile, abs te
quam ob rem haec abierit causam vides/ nam vitiumst oblatum virgini olim a nescioquo improbo./ Nunc huc confugit te
atque alios partum ut celaret suom. Sostrata, la suocera appunto di Filumela da cui l’opera prende il nome, si rivolge al
proprio figlio Panfilo, per patrocinare la causa della nuora:
rimasta incinta per una violenza prima delle nozze non può
più nascondere la propria situazione, ma il marito la rifiuta.
Solo alla fine si scoprirà in modo fortunoso che il padre del
bambino è lo stesso Panfilo e ciò consentirà il felice scioglimento della vicenda. Quello che interessa in questa sede è
l’interpretazione che dà del passo Elio Donato, commentatore di Terenzio oltre che di Virgilio e, ripeto, maestro e possibile fonte di Servio.
In primo luogo, glossa l’inizio con a nomine incipit et blandimento, quia secreta confitetur, ut Vergilius “Anna, fatebor
enim, m. p. f. S.” a principio idem elaboravit, ut adversus pudorem conscientiae voce et confessione duraret, viene fatto
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esplicito riferimento a Aen 4, 20, come ad un testo noto agli
allievi in qualità di esempio di confessione difficoltosa che
necessita di una particolare captatio benevolentiae dell’uditorio; lo stesso concetto viene ribadito poco dopo nella nota
a proposito di abs te quamobrem: morale blandimentum ante
confessionem, mentre la confessio vera e propria si riscontra,
a detta del commentatore, nel verso successivo. Si sottolinea
inoltre il tentativo di Sostrata di mettere in luce tutti quegli
aspetti che giustificano la ragazza: OBLATUM quasi non expectatum et nolenti; VIRGINI quasi quae falli possit; OLIM
recte “olim”, quia facilis venia circa vetera iam delicta; unde
temptat temporis longinquitate extenuare peccatum. All’opposto è evidenziato dall’esegeta il suo giudizio inappellabile
nei confronti dello stupratore: AB NESCIO QUO IMPROBO
mire contempsit personam dicendo “nescio quo”, id est nescio
quem dixit, ut ostendat ignobilem et abiectum; nam si nomen
est, habet et dignitatem […]. Et ne placere videatur is qui fecit, “improbum” dixit.
La suocera, in questo brano, sembra proprio il patrocinatore
di Filumela che, cosciente di avere una causam turpem
prende le mosse dall’insinuatio, sottolinea che se il fatto in sé
(la res, la gravidanza al di fuori del matrimonio) è vergognosa, non lo è la persona (homo) che lo ha commesso, che
anzi è stata presa contro la propria volontà, in modo inaspettato, in un’età in cui si è particolarmente fragili, in un
tempo ormai passato, da un uomo iniquo. A differenza di
quanto abbiamo visto nell’Eneide, però, non è la diretta interessata a parlare, inoltre qui bisogna davvero convincere
qualcuno.
Di rilievo risulta ancora una nota al v. 382: O MI PAMPHILE ABS TE QUAMOBREM venialis status, in quo confessio est et precatio. È evidente il riferimento ad uno degli argomenti più rilevanti dell’inventio all’interno in particolare
della retorica giudiziaria: la dottrina degli status causae, cioè
di quanto costituisce la causa vera e propria. Essa è stata
strutturata in ambito greco, peripatetico-accademico e sistematizzata da Ermagora di Temno alla metà del II sec.
a.C.; a lui si rifanno la maggior parte dei trattati retorici successivi, compresi quelli latini.
In primo luogo vediamo che cos’è uno status: per il formarsi
di una causa, ci vogliono un’accusa ed una risposta della difesa che, unite, costituiscono la quaestio: ciò su cui si deve
quaerere, indagare. Ad essa corrisponde la sostanza dello
status causae41 che, a seconda di come viene formulato, mo-
41. Cfr. Cic. De inv., 1, 10; lo status viene detto anche constitutio o, nella lingua d’origine,
stßsij -stásis-.
37
NUOVA SECONDARIA RICERCA
difica l’assetto della causa stessa. In un secondo momento un
nuovo discorso delle due parti porta a determinare ciò su cui
il giudice deve emettere una sentenza (iudicatio). La causa, se
formalmente corretta nelle sue parti, ormai consiste e viene
discussa secondo un preciso status; quaestio e status nella sostanza coincidono, pur non essendo proprio la stessa cosa,
ma in questa sede ciò non è rilevante. È essenziale invece il
fatto che, per avere uno status, serve un’accusa e una risposta della difesa e, proprio a seconda di quest’ultima, la depulsio, varia la costituzione di tutta la causa, quindi lo status
stesso42.
È ora essenziale capire in che cosa si differenziano e come
vengono classificati gli status; al presente lavoro non importa trattare le diverse impostazioni; mi rifaccio quindi
allo schema di Cicerone (de inv., 1, 18) che pare più fedele ad
Ermagora, fonte comune, rispetto alla Rhetorica ad Herennium: questo manuale, infatti, riduce a tre i quattro status
originari. Entrambi tuttavia si rifanno alla stessa matrice, divergendo da Ermagora nel non valutare come stáseis le quaestiones legales; si nota infine una tendenza dei due latini
(probabilmente ancora una volta imputabile alla loro origine) a “mescolare” la dottrina ermagorea con quella della
scuola peripatetico-accademica dei tre generi di cause (dimostrativo, deliberativo, giudiziario).
Quello che Ermagora leggeva come genus rationale, cioè non
dipendente da una specifica legislazione, ma più ampio, legato al senso comune, è per Cicerone, abbiamo detto, l’unico,
visto che il genus legale (= quaestiones legales) di Ermagora
(quello appunto vincolato alla legislazione in materia), è
trattato separatamente dal latino. Nel retore latino troviamo
quattro status:
1. coniectura la causa si basa sul fatto che la difesa nega che
l’imputato abbia commesso ciò di cui è accusato.
2. definitio la causa si basa sul fatto che la difesa nega che
l’azione, per quanto commessa dall’accusato, sia delittuosa.
3. qualitas la causa si basa in generale sulle intenzioni con cui
si è agito; è però lo status più complesso, in quanto, in
primo luogo, si differenzia in:
- qualitas negotialis43: si riferisce a questioni per cui non è
ancora prevista una legislazione specifica, quindi si devono dirimere basandosi sull’equità del diritto stabilito
e sulla consuetudine civile.
- qualitas iuridicialis: la causa verte sul fatto che l’azione
compiuta dall’accusato sia stata commessa in modo giusto o ingiusto.
A sua volta, però, essa si divide in:
38
absoluta: quando si discute solo sul fatto in sé, se sia o
meno corretto
adsumptiva: quando l’imputato, non potendo dimostrare
di aver agito in modo lecito, cerca delle giustificazioni.
Esse possono configurarsi come:
comparatio: l’imputato, pur avendo agito contro il diritto, aveva arrecato un vantaggio maggiore rispetto alla
colpa commessa.
relatio criminis: l’imputato aveva agito in modo colpevole, ma a buon diritto perché provocato.
remotio criminis: la colpa non era dell’imputato ma di
qualcuno o qualcosa d’altro.
concessio: l’imputato ammette il fatto e chiede perdono:
- secondo la purgatio, cioè dichiarando di non aver
agito intenzionalmente ma per imprudentia (ignoranza della illiceità dell’atto), casus (elemento accidentale che si è opposto alla sua volontà) o necessitudo (impossibilità di agire diversamente).
- secondo la deprecatio: non avendo altra possibilità
l’imputato si appella alla clemenza della corte.
4. translatio: la causa si basa sul fatto che la difesa contesta
l’azione giuridica intentata dall’accusa ed eccepisce sul
luogo, il tempo, il modo ed altri elementi dell’azione stessa.
Si tratta ora di vedere come lo status venialis, da cui ha preso
origine la discussione, si collochi nello schema esposto. Ci
viene in aiuto un tecnigrafo tardoantico, Mario Vittorino,
vissuto fra III e IV secolo d.C., commentatore del De Inventione di Cicerone. Egli commentando la concessio44 che, secondo il retore latino si ha cum reus non id, quod factum est,
defendit, sed ut ignoscatur postulat (de inv. 1, 15) asserisce: Postremo si haec cuncta defecerint, id est, si ut hoc faceret, nec profuit nec iniuriam reddidit neque ab alio compulsus est, quoniam nihil est quo se defendat, debebit factum fateri, sed veniam postulare, quae est qualitas venialis, quam concessionem
Cicero vocavit (RLM p. 191, 12 ss.). Il sintagma status venia-
42. Cfr. Rhet ad Her. 1, 18; Quint. Inst., 3, 6, 14; non ci sono testimonianze certe, invece,
della definizione precisa della stásis di Ermagora. La dottrina degli status è decisamente complessa: è forse poco opportuno farne ai ragazzi un’esposizione che vada
oltre lo stretto necessario. È stata tuttavia trattata magistralmente nel volume di L.
Calboli-Montefusco, La dottrina degli “status” nella retorica greca e romana, Hildesheim
- Zürich - New York 1986: per queste prime definizioni mi sono rifatta in partic. alle pp.
1-11; un “sunto” degli elementi essenziali si trova anche nel citato commento di G. Calboli alla Rhetorica ad Herennium, pp. 218-221.
43. La specificità di questa qualitas risulta controversa; per un discorso approfondito
si veda il citato volume di L. Calboli-Montefusco, pp. 99-106.
44. Per la trattazione approfondita della concessio nelle sue diverse possibilità e interpretazioni si veda L. Calboli-Montefusco, La dottrina, cit., pp. 129-139.
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lis, benché indichi un termine tecnico e sia di evidente derivazione dal fatto che all’imputato non resta altro che veniam
postulare, non mi risulta utilizzato dai principali trattati
come il de inventione stesso o la Rhetorica ad Herennium o le
Institutiones di Quintiliano45; è curioso tuttavia come si ritrovi negli esegeti46. Oltre al passo del commentario all’Hecira citato47 lo si incontra anche in Servio; la nota per noi più
significativa è quella a 4, 333 ss., il passo cui abbiamo già fatto
cenno perché costituisce la risposta di Enea alle accuse di tradimento da parte di Didone: ego te, quae plurima fando enumerare vales, numquam, regina, negabo promeritam: controversia est plena, in qua et purgat obiecta, removens a se crimen
ingrati, et veniali utitur statu, profectionem suam retorquens
in voluntatem deorum. Habet etiam finem: nam purgat obiectam fugam nomine profectionis48. L’esegeta in realtà sembra riferirsi alla remotio criminis, spostando la colpa (che comunque viene in qualche modo “sminuita” parlando di “partenza”
non di “fuga”) sulla volontà divina; tuttavia potrebbe trattarsi
anche di una purgatio, più coerente con la definizione di status venialis e con l’uso del predicato purgare, nella sua forma
di necessitudo: causa di forza maggiore49. A tale proposito va
sottolineato come parte della letteratura tecnica preveda
questa vicinanza fra remotio criminis e purgatio: fra tutti si citi
Sulpicio Vittore50 che parlando della remotio in rem (= spostamento della responsabilità su un evento esterno) afferma:
“Imperator militum corpora in proelio peremptorum revehebat in patriam; orta tempestate cadavera abiecit: Laesae fit reus
rei publicae”. Hic impreratori utique illa defensio est, ut crimen
necessitate removeat et avertat, quod dicat abiecisse se illa corpora tempestate cogente (RLM p. 347, 21 ss.)51. D’altro canto
lo stesso Servio, commentando un passo dell’Eneide collegato, per così dire, a questo, cioè l’incontro dell’eroe con la
regina negli Inferi e il suo tentativo di giustificazione della
partenza da Cartagine, asserisce: INFELIX DIDO veniali utitur: et excusat se per necessitatem, ne mortis causa fuisse videatur (Aen. 6, 456)52. Il tecnigrafo, quindi, riconosce in
modo inequivoco nei due discorsi di Enea la presenza di un
impianto di causa giudiziaria (controversia plena, dice nel
primo esempio); Ti. Cl. Donato, sempre più verboso, non è
così preciso nell’uso dei termini tecnici, ma ci lascia comunque alcuni indizi utili: a proposito di pro re pauca loquar
(4, 337) commenta: incipit iam obiecta purgare vel refutando
excludere, e ribadisce a sua volta la cogente volontà divina. Di
necessitas propriorum fatorum parla anche a proposito del
brano del sesto libro, mette in bocca ad Enea la giustificazione di essere stato compulsum deorum iussis; maiore vi tuis
terris exclusum e ritiene la cosa comprovata dalla sua pre© NS Ricerca n. 9, maggio 2014
senza nell’aldilà, viaggio inconcepibile se non per ordine
soprannaturale; inoltre ripete più volte il termine tecnico
purgatio per indicare la strategia oratoria dell’eroe53.
Se torniamo ai versi 4, 1-30 da cui abbiamo preso le mosse
e alle note di commento che abbiamo esaminato, non riscontriamo la citazione specifica degli status, ma di alcuni
termini tecnici che rimandano comunque a questo ambito:
a più riprese si è parlato di confessio per entrambi gli esegeti
maggiori, cosa che ci avvicina alla concessio come parte della
qualitas; ancora a proposito del giuramento di Didone (vv.
24-29), Ti. Cl. Donato sottolinea come sia un modo di firmare la propria volontà e così togliere vergogna alla confessione: in tribunale, infatti, l’ammissione di colpevolezza, per
ottenere l’effetto desiderato, doveva possibilmente essere
rafforzata da assicurazioni per il futuro oltre che dal ricordo
di un comportamento corretto in passato, in particolare
quando si trattava di una deprecatio, cioè dell’appellarsi alla
clemenza del giudice non avendo attenuanti per quanto si era
compiuto. La regina però, pur servendosi di questi espedienti, si muove più nell’ambito della purgatio: l’esegeta ci
dice vis maior urget, vis intolerabilis cogit evidenziando quindi
un caso di necessitudo, così come, a proposito del pianto del
v. 30, ribadisce che le lacrime sono dovute forse quod urge-
45. Lo status infatti è definito excusatio da Quintiliano (Inst. 7, 4, 14-15); concessio nella
Rhetorica ad Herennium (1, 14, 24; 2, 16, 23-17, 25) e in Cic. de inv., 1, 15; 2, 94-109.
46. Ampia e documentata trattazione dello status venialis, con particolare riferimento
alle Interpretationes Vergilianae nei suoi legami con la retorica ma anche con i testi
giuridici tardoantichi, si ha in L. Pirovano, Le Interpretationes Vergilianae di Tiberio Claudio Donato. Problemi di retorica, Roma 2006, pp. 93-146. In tale sede viene anche fornita una vasta gamma di esempi in cui si cita il medesimo status, tratti, oltre che da Ti.
Cl. Donato, anche da Servio e dal commentario a Terenzio di Donato e di Eugrafio,
esegeta del VI secolo d. C. che di quest’ultimo si è servito.
47. Del tutto simile la nota di Eugrafio: Confessio ipsa criminis veniali statu constat, cum
dixit.
48. La difesa di Enea, in particolare, secondo i punto di vista di Ti. Cl. Donato, viene specificamente esaminata da Pirovano, Le Interpretationes Vergilianae, cit., pp. 157-166.
49. Si nota in questa glossa il fatto che l’esegeta sottolinei anche il tentativo di Enea
di contestare l’accusa di “fuga”, definendo il suo allontanamento “partenza”; non credo
tuttavia che Servio intenda rimarcare la presenza di una definitio, quello status che,
come abbiamo visto, nasce dalla negazione della difesa dell’azione delittuosa. Enea
infatti ammette il proprio comportamento “scorretto” almeno agli occhi di Didone e
cerca di scaricare la propria responsabilità sul Fato. Non ammettere la fuga può servire, eventualmente, per sottolineare la propria buona fede.
50. Si tratta di uno dei cosiddetti Rhetores minores, del IV d.C., autore di un Institutiones oratoriae, riguardante gli elementi principali di causa e discorso e le operazioni che
deve eseguire l’oratore per costruire un discorso.
51. Per approfondimenti si veda L. Calboli-Montefusco, La dottrina, cit., p.126 e L. Pirovano, Le Interpretationes Vergilianae, cit., pp 109-122, ma soprattutto pp. 158 s.
52. Si veda anche il commento a 3, 615: Enea trova, nel territorio dei Ciclopi, Achemenide che non si è potuto mettere in salvo con Ulisse; egli si rivolge all’eroe per
chiedere aiuto, si presenta e dichiara di essersi arruolato per povertà. A tale proposito
Servio commenta: et bene utitur veniali statu per excusationem pauperetatis, rimandando a Aen., 2, 87, dove Sinone aveva addotto lo stesso motivo per cui aveva scelto
di combattere; in quella circostanza l’esegeta aveva chiosato: excusatio ex paupertate.
53. Per il discorso di Enea a Aen. 4, 331-361 e il commento degli antichi, si veda anche
F. Caviglia, Note, cit., pp. 118-129. L. Pirovano, Le Interpretationes Vergilianae, cit., pp. 101
s., sottolinea tuttavia come deprecatio e purgatio siano usati da Ti. Cl. Donato in senso
non specificamente tecnico di partizioni dello status venialis.
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batur afficere quod animo respuente damnaverat. Anche Servio sente la necessità di una excusatio per la donna che non
riesce a trattenersi: il termine può essere usato con significato
generico, ma non è superfluo ricordare che è anche il termine
tecnico con cui parte della tradizione definisce la purgatio
(cfr. Quint. Inst., 7, 4, 14)54.
L’analisi della nota di Donato all’Hecira di Terenzio, infine,
oltre all’esplicita citazione dello status venialis, ne dà altri indizi: Sostrata sta per fare una confessio e evidenzia tutte le circostanze attenuanti: la giovane età della ragazza, il fatto che
si trattasse di un evento passato, ma soprattutto che Filumela
fosse nolens, quindi si trattasse di una necessitudo che andava
al di là della sua volontà e che il vero colpevole fosse una persona ignobile e abietta, così disonesta da non meritare nemmeno di essere identificata con un nome.
La scelta di un percorso simile in classe non è fra le più semplici, proprio perché, ribadisco, la dottrina degli status è
complessa e senz’altro sarebbe più proficua qualora gli studenti seguissero anche un corso di diritto. Essa permette
tuttavia di comparare diversi passi fra loro e di intravedere
le strade seguite dal linguaggio tecnico nella sua attestazione: possiamo ipotizzare che la definizione status venialis sia pervenuta a Servio da Donato, data la presenza nei sui
scritti tecnici con esplicito riferimento al quarto libro dell’Eneide. È però significativo che si presenti sempre in ambito esegetico, come dimostra Vittorino, lasciando presupporre una fertile cultura scolastica che si tramandava non
solo, per così dire, “in verticale” da maestro ad allievo nel
medesimo ambito di studi, ma anche “in orizzontale”, toccando competenze diverse ma comunque complementari in
quello che doveva essere il processo di formazione del
tempo. Per gli studenti è altresì utile, a mio avviso, l’abitudine a focalizzare l’attenzione sul lessico e sul fatto che determinate “spie” possono ampliare non poco le potenzialità
dell’analisi testuale.
Vorrei ancora fare cenno ad un’ultima “spia lessicale” che permette di collegare questa tipologia di studio all’analisi più legata al significante che faremo fra breve. Mi sto riferendo all’avverbio occulte che leggiamo nella Rhetorica ad Herennium
(1, 6, 9) al termine della definizione di insinuatio: negheremo
di aver intenzione di parlare degli avversari o di qualche fatto,
tuttavia in modo surrettizio (occulte) ne tratteremo, buttando lì delle parole allusive (Item si negabimus nos de adversariis aut de aliqua re dicturos, et tamen occulte dicemus interiectione verborum). Il passo e il lessema rimandano all’occul-
40
tatio, a quella exornatio verborum, secondo l’anonimo autore,
che si ha cum dicimus nos praeterire aut non scire aut nolle dicere id, quod nunc maxime dicimus (4, 28, 37).
La tradizione latina solitamente definisce questo procedimento praeteritio e lo annovera fra le figure di pensiero, specificamente quelle per detractionem. Esso infatti “non dice”
o, meglio, finge di non dire per suscitare interesse nell’uditorio e spingerlo così proprio a focalizzare l’attenzione e rivalutare quanto viene sottaciuto. Astutamente nel manuale
si specifica anche quando è opportuno servirsene e che
scopo ha: Haec utilis est exornatio, si aut ad rem quam non
pertineat aliis ostendere, quod occulte admonuisse prodest aut
longum est aut ignobile aut planum non potest fieri aut facile
potest reprehendi, ut utilius sit occulte fecisse suspicionem,
quam eiusmodi intendisse orationem, quae redarguatur.
Siamo nell’ambito della cosiddetta “retorica del silenzio”55,
quella che evidenzia come la comunicazione non passi solo
attraverso l’esplicito ma anche, e forse più, attraverso quanto
va inferito56. Inutile sottolineare l’importanza della tematica
e le potenzialità che offre nell’affrontarla in classe anche
coinvolgendo materie diverse dal latino. Se però ci si vuole
limitare all’aspetto retorico, il discorso può essere completato
con l’analisi dell’altra fondamentale figura di pensiero per detractionem: l’aposiopesi, che prevede la vera e propria sospensione del discorso: una sorta di dissolvenza di cui si
servivano i vecchi film, decisamente più pudichi degli attuali,
per censurare le scene scabrose e… scatenare la fantasia
dello spettatore57. Questo era in realtà anche lo scopo dei procedimenti retorici ed era così noto che almeno un tecnigrafo
greco, peraltro piuttosto sconosciuto e vissuto fra V e VI sec.,
Febammone, annovera la preterizione fra le figure per adiectionem, dimostrando di averne compreso perfettamente il
valore testuale di espedienti che forniscono un surplus di
messaggio58.
54. Si veda anche Aen. 4, 4: GENTIS honos non Aeneae, ut sit velut excusatio e le note già
citate a Aen. 3, 615 e 2, 87. Analizza specificamente Aen. 4, 28 s., nell’ambito della trattazione della maior vis collegata allo status venialis, L. Pirovano, Le Interpretationes Vergilianae, cit., pp. 139 ss.
55. Una pietra miliare nel campo è costituita dal testo di P. Valesio, Ascoltare il silenzio:
la retorica come teoria, Bologna 1986 (ed. or. Bloomington 1980).
56. È stato notato da F. Caviglia, Note, cit., pp. 103 s., che Donato mette in bocca a Didone la lode di Enea anche quale ottimo retore, abile non solo nel parlare ma anche
nel tacere: quod tacet, inquit, quod loquitur, quod movetur quam gratum est, quam iucundum, quam viro forti conveniens chiosa a proposito di quem sese ore ferens, quam
forti pectore et armis! (v. 11).
57. Tutti ricordiamo il manzoniano “la sventurata rispose” oppure il dantesco “quel
giorno più non vi leggemmo avante”!
58. Ho trattato ampiamente i procedimenti in discussione nel mio Cum ratione mutatio, cit., pp. 31-49, esaminando l’evoluzione teorica delle figure e la loro valenza comunicativa soprattutto in testi latini; ivi si trova anche la bibliografia di fondo, fra cui
ribadisco comunque un titolo che reputo utile anche per una particolare ricaduta di-
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8. Il significante
Il titolo dato al paragrafo è puramente “di comodo” ed intende semplicemente affermare che la proposta didattica
che si formula ha per oggetto soprattutto la struttura dei
versi, la scelta del lessico e la disposizione delle parole, ben
consapevoli, tuttavia, che in nessun testo il significante rimane separato dal significato e che, soprattutto in uno poetico, esso contribuisce invece in modo notevole alla costituzione del messaggio e quindi del senso globale.
In primo luogo, per affrontare correttamente la “struttura
esterna” del brano, è fondamentale che gli studenti abbiano
delle nozioni di base a livello metrico: non è indispensabile
che siano in grado di leggere disinvoltamente gli esametri,
cosa che molto spesso dipende da un innato senso del ritmo
o che finisce per snaturare la poesia con una cadenza tanto
artificiosa quanto fastidiosa; è però rilevante che sappiano almeno scandire i versi “sulla carta” ed individuare le posizioni
di rilievo al loro interno. Probabilmente con un po’ di esercizio, data la fluidità degli esametri virgiliani, in breve tempo
quasi tutti saranno in grado di percepire il ritmo e di individuare “a orecchio” almeno la cesura pentemimere e la dieresi bucolica. Ritengo che per una corretta impostazione del
discorso metrico vada sottolineato59:
● Il concetto di cellula ritmica e delle sue caratteristiche: regolarità, ripetibilità, elemento guida.
● Il concetto di unicità del verso nel suo scorrere come se si
trattasse di un’unica parola: non si deve quindi tener conto
nella scansione dei confini di parola.
● La differenza fra sillaba aperta e sillaba chiusa e la sua influenza sulla quantità sillabica, cose che gli studenti dovrebbero già conoscere dall’inizio del loro corso di studi,
cioè da quando hanno imparato le leggi dell’accento. Ora
si tratterebbe solo di insegnare loro a dividere in sillabe una
“parola-verso”.
● Il metro dell’esametro e i suoi elementi: longum e biceps
con le possibili realizzazioni concrete; la valenza di indifferens della sillaba finale.
● Il concetto di articolazione nel verso e la differenza fra cesura e dieresi.
● Le principali cesure e dieresi nell’esametro.
L’insegnante leggerà in metrica, in modo da far percepire soprattutto le articolazioni del ritmo e far notare quando una
frase sintattica rimanga in sospeso per il terminare del verso;
in questo modo, almeno gli allievi più dotati di senso ritmico,
si abitueranno a riconoscere quello esametrico e comunque
anche gli altri percepiranno i punti di “snodo” dell’esametro,
la velocità o la lentezza, la vivacità o la gravità nel succedersi
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delle sillabe. Ritengo si debba subito mettere in luce l’abbondanza di iperbati, cioè, banalmente, prima di specificare
meglio di che cosa si tratta e quale ne sia la valenza testuale,
di aggettivi separati dal sostantivo con cui concordano; fin
dal primo verso troviamo regina… saucia; gravi… cura; nel
secondo caeco… igni; quindi multa… virtus e multus… honos, collocato nel verso successivo. Appare quindi evidente
che siamo di fronte ad uno stilema tipico del poeta, anzi di
quasi tutti i poeti, che solitamente segue anche degli schemi
abituali; si può conseguentemente chiedere agli studenti di
analizzare tutto il passo alla ricerca di queste forme per poi
trarre insieme delle considerazioni sulle posizioni più comuni degli iperbati60.
Il primo verso, ad esempio, si caratterizza per un modello del
tipo Ab...aB, utilizzando le lettere maiuscole per i sostantivi
le minuscoli per gli aggettivi; questo provoca una vicinanza
nella lettura dell’attributo riferito a cura, gravi, con regina e
di quello riferito a regina, saucia, con cura; benché la sintassi
sia inequivoca, una simile prossimità suggerisce una dilatazione, per così dire, del valore semantico degli attributi stessi
ad includere non solo i sostantivi cui realmente pertengono,
ma anche quelli che sono loro contigui. Così la regina, già ferita, pare anche schiacciata sotto il peso dalla ferita stessa e
la preoccupazione, già gravosa, si mostra anche come una
piaga insanabile, tanto più che saucia cura occupa tutta la
parte finale dell’esametro, cioè gli ultimi due piedi separati
dalla dieresi bucolica dal resto del verso. Ancora notiamo che
gravi è posto prima della cesura pentemimere, a terminare il
primo emistichio, mentre il sostantivo con esso concordato
chiude il verso: è come se il poeta invitasse con il suo iperbato a “scavalcare” le parole frapposte per giungere subito a
cura, a quel termine evidentemente molto importante nell’economia del significato dell’esametro da meritare di essere
evidenziato dalla figura di parola61. Sicuramente non tutti gli
iperbati avranno la stessa pregnanza ed uguale valenza testuale, ma si nota in diverse circostanze che la strategia di separare aggettivo da sostantivo è utilizzata per far risaltare sin-
dattica, in quanto si occupa espressamente, ad esempio, di poesia pascoliana: M.
Prandi, Una figura testuale del silenzio: la reticenza, in M.E. Conte - A. Giacalone-Ramat
- P. Ramat (cur.), Dimensioni della linguistica, Milano 1990 (“Materiali liguistici”, 1), pp.
217-239.
59. Per tutta questa parte suggerisco la chiara trattazione di G. Milanese, Strumenti e
prospettive per lo studio del latino, Milano 1994, II ed. cap. II, oppure S. Boldrini, La prosodia e la metrica latina, Roma 1997, pp. 109-116.
60. È utile, a questo proposito, un testo ormai piuttosto datato, che analizza appunto
gli schemi tipici della disposizione verbale nell’epica latina, C. Conrad, Traditional Patterns of Word-Order in Latin Epic from Ennius to Virgil, in «HSCPh», 69, 1965, pp. 195-258.
61. Sul significato del lessema Servio dice: CURA amore intolerabili, quem ferre non
posset, ut “meque his absolvite curis” (652). “Cura” ergo, ab eo, quod cor urat, ut (10,
132) “Veneris iustissima cura”, item (1, 678) “mea maxima cura”.
41
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tagmi di particolare pregnanza e conseguentemente per istituire una sorta di “gerarchia” fra le parole usate nel verso, che
metta in primo piano proprio quelle disgiunte, solitamente
in posizioni “forti” come l’inizio, la fine, o la cesura dell’esametro, e lasciare sullo sfondo le altre62.
Se prendiamo l’iperbato del v. 2, caeco...igni, la separazione
sembra creata soprattutto per favorire l’allitterazione fra
caeco e carpitur, ancora più forte se la immaginiamo secondo quella che doveva essere la pronuncia dei tempi di Virgilio, quindi con una “c” postpalatale sorda in entrambe le
parole, seguita, in tutte e due i casi, da una “a”, a ribadire la
forza del fuoco che avvolge e consuma, tanto più violento
quanto più non deve apparire all’esterno63; la stessa figura di
suono è presente ad inizio verso vulnus… venis, con vulnus
in prima posizione a ribadire il saucia del verso precedente
riferito a Didone. Anche Servio commenta: SAUCIA hinc subiungit “vulnus alit”. Et bene adludit ad Cupidinis tela, ut paulo
post ad faculam, ut “et caeco carpitur igni”: nam sagittarum
vulnus est, facis incendium. Un’allitterazione si riscontra ancora al v. 3, dove il procedimento è in realtà più forte di una
semplice ripetizione di suono, in quanto viri e virtus condividono la stessa radice, siamo quindi di fronte al quella che
tecnicamente si definisce “figura etimologica” e, data l’area
semantica cui afferiscono i lessemi, è quasi superfluo sottolineare che servono ad esaltare l’eroismi di Enea; a dilatare le
sue doti troviamo, nello stesso verso, un’altra anfora: multa…
multus, a costituire un poliptoto, cioè l’uso dello stesso termine però flesso in modi differenti. Abbiamo già accennato
al fatto che multus è in iperbato con honos del verso successivo: l’ossessivo ricordo di Didone di tutte le qualità dell’eroe,
il coraggio e i nobili natali, trascendono la misura metrica e
portano il lettore a “correre” fino alla cesura tritemimere del
v. 4, fino a quella che è una pausa sintattica, nell’edizione moderna indicata da un segno di interpunzione, ma comunque
segnalata da un nuovo predicato. A rimarcare il martellante
ritorno nella mente della regina della figura dell’ospite è
l’uso di un verbo frequentativo64; di nuovo Servio, che si mostra solitamente più attento di Ti. Cl. Donato alle caratteristiche stilistiche del poema, commenta: RECURSAT bene
frequentativo usus est verbo in frequenti amanti cogitatione. Ritengo sia particolarmente utile far sentire ai ragazzi la voce
degli esegeti tardoantichi in riferimento a questa tipologia di
analisi, per dimostrare come non sia solo elucubrazione dei
moderni ma abbia un fondamento antico e soprattutto, pur
insistendo sulla precisione nel servirsi del linguaggio tecnicospecialistico che li abitui ad un rigore espressivo, penso sia
opportuno che gli studenti focalizzino la loro attenzione sul
42
valore testuale dei procedimenti stilistici più che sugli svariati
nomi che li distinguono, anche perché questi possono modificarsi con il variare della tradizione e con il passare del
tempo.
È piuttosto interessante un’altra glossa del commentatore al
medesimo verso: “multa” autem “virtus” figurate dixit; nam
ad numerum transtulit quod est quantitatis: aut multa pro
magna. Si tratta di una considerazione sull’uso del lessico,
sulla scelta dell’aggettivo, ma è rilevante la presenza dell’avverbio figurate: ho avuto modo di studiarne l’utilizzo nel testo serviano e di alcuni grammatici ed ho riscontrato che si
tratta della definizione di una serie di procedimenti che riguardano la modificazione di una sola parola (cambio di numero, cambio di caso, cambio di tempo verbale), quelli che
già la tradizione greca identificava come forme di allóiosis
(¶lloàwsij)65. I latini molto spesso non hanno un nome
specifico per tali variazioni che pure evidenziano come distinte dal linguaggio quotidiano e vengono segnalate semplicemente come figura o elocutio; quest’ultima non va confusa con l’omonima parte della retorica, ma non è casuale
l’uso dello stesso termine: si percepiva evidentemente che i
procedimenti in oggetto erano una modificazione voluta in
verbis singulis, che riguardava la léxis greca (lûxij), gli schémata léxeos (scømata lûxewj) appunto, che, almeno in parte
della tradizione latina, divengono figurae per inmutationem.
Una nota analoga si ha a proposito del v. 9:
INSOMNIA TERRENT et ‘terret’ et ‘terrent’ legitur. Sed si ‘terret’
legerimus, ‘insomnia’ erit vigilia: hoc enim maiores inter vigilias
et ea quae videmus in somnis interesse voluerunt, ut ‘insomnia’ generis feminini numeri singularis vigiliam significaret, ‘insomnia’
vero generis neutri numeri pluralis ea quae per somnium videmus,
ut “sed falsa ad caelum mittunt insomnia manes” (6, 897). Scien-
62. Ho trattato estesamente l’iperbato e la sua valenza testuale in Cum ratione mutatio, cit., pp. 95-102, dove ho preso in esame l’incipit di Prop. 1, 1, l’elegia programmatica, per mostrare il valore strumentale degli iperbati nei primi quattro versi, per
evidenziare gli elementi fondamentali della poetica dell’autore. Da un punto di vista
più “erudito” mi sono occupata di iperbato anche in Ratio et Usus, cit., pp. 185-275,
dove ho seguito il valore e lo sviluppo del procedimento nella letteratura tecnica
greca e latina.
63. Abbiamo già notato il commento a caeco delle Note Danieline che evidenziavano
come l’aggettivo si riferisse al desiderio di Didone di tenere nascosta la propria passione: ‘caeco’ <non> quod non cernat, sed quod non cernatur: vel quod Dido amorem suum vult occultare, si possit, ideo ‘caeco’. Ancora, per il significato di carpitur,
si legge: paulatim consumitur.
64. Si può approfittare per una veloce parentesi di storia della lingua, in particolare
sui verbi derivati e sui frequentativi come predicati nati dal tema del participio passato del verbo semplice, che indicano per lo più una azione che si ripete o che si
svolge frequentemente. Cfr. A. Traina – G. Bernardi-Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna 1998 (VI ed.), cap. V.5.I.
65. Cfr. I. Torzi, Ratio et Usus, cit., pp. 143-145 e Cum ratione mutatio, cit., pp. 74-78. Il termine, per lo più, copre l’area semantica dell’ipallage, ma Servio conosce anche questa figura di parola, distinta e con un significato più circoscritto. Rimando ancora per
approfondimenti a Ratio et usus, cit., cap. III.
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dum igitur, quia si ‘terret’ dixerimus, antiqua erit elocutio; ‘insomnia’
enim, licet et Pacuvius (Antiopae fr. V Ribb. p. 77) et Ennius (inc.
Lib. Rel. XXV Vahl2 p. 234) frequenter dixerit, Plinius tamen exclusit et de usu removit. Sed ambiguitatem lectionis haec res fecit,
quod non ex aperto vigilasse se dixit, sed habuisse quietem inplacidam, id est somniis interruptam, ut intellegamus eam et insomniis territam, et propter terrorem somniorum vigilias quoque perpessam.
Notiamo qui l’uso del termine elocutio cui si aggiunge la specificazione antiqua, aggettivo non superfluo perché alcune
modificazioni erano accettate come non scorrette in quanto
proprio garantite dall’antiquitas, cioè dall’essere un arcaismo.
Questi rilievi possono sembrare piuttosto “eruditi” e poco
utilizzabili in ambito didattico: la loro valenza infatti riguarda più che l’analisi del testo virgiliano, quella del modo
di lavorare degli esegeti, la loro attenzione all’uso della lingua ed alla correttezza grammaticale: non dimentichiamoci
che si tratta di maestri di scuola; si avrà così uno scorcio su
una parte di letteratura solitamente sconosciuta. Agli studenti si può tuttavia far fare una ricerca lessicale sulle varie
accezioni, per esempio di elocutio, per vedere che cosa le accomuni nei diversi significati e per abituarli a servirsi strumentalmente dei database, per rendere più “moderna” una
materia che loro percepiscono come molto distante.
Più interessante proprio per la comprensione del testo virgiliano si mostra una altra glossa simile: Aen. 4, 17: DECEPTAM MORTE FEFELLIT: figurate dixit: morte sua decepit me
et fefellit; Servio sembra mettere in luce la scelta di una subordinazione al posto di una coordinazione che avrebbe
reso forse meglio, secondo l’esegeta, la successione temporale:
“con la sua morte mi deluse e mi tradì”. Data la posizione di
morte sua deduco che il sintagma si riferisca ad entrambi i
verbi e quindi suppongo di dover rendere decepit con “deluse”. A mio avviso, invece, il testo virgiliano, con scelta di un
participio perfetto quindi di un’azione compiuta e antecedente a fefellit, rende molto meglio lo stato d’animo di Didone: dopo avermi illusa, con la sua morte deluse e frustrò
le mie aspettative. Non so se ho interpretato correttamente
l’intento dell’esegeta, visto che la nota è così stringata da poter essere equivoca e mi rendo conto che si rischia un “processo alle intenzioni”, ma mi pare superfluo il rilievo sull’uso
figurato del costrutto. In ogni caso si possono presentare agli
studenti le diverse opzioni e far notare come non siano indifferenti per la scelta della resa italiana, pur trattandosi di
sfumature; ovviamente la “traduzione” non era un problema
che toccasse Servio, ma alla base della versione c’è comunque la comprensione del testo!
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Ti.Cl. Donato non si sofferma su rilievi così puntuali e strettamente grammaticali; solo a proposito di haerent infixi pectore vultus verbaque specifica:
Haerent pectore bis accipiendum est, ut sit haerent pectore vultus
infixi, haerent verba pectore. Infixi autem quod ait, ad solos vultus pertinet, quia erit vitium, si dicamus infixi verba, et magis pro
persona amantis melius accipitur infixi vultus. Verba enim augmentum dabant amori, non primam causam. Haerent et infixi hanc
habent rationem quam habet quod etiam in tertio libro ait (286)
“aere cavo clipeum, magni gestamen Abantis, postibus adversis figo”.
Figi enim dicitur quod sic alicui speciei iungitur, ut velli non possit, et haeret quod non potest separari. Vultus pertinent ad corporis laudem, verba ad animi praedicationem.
La nota si mostra interessante perché il commentatore, nel
tentativo evidente di negare un possibile vitium del poeta,
l’uso del verbo infigo riferito alle parole, ci offre comunque
un saggio sul valore specifico di alcuni termini quali appunto
haereo: aderire in modo che non si possa separare e figo: configgere in modo che non si possa svellere. L’aspetto di Enea
è così profondamente impresso nel cuore della regina da non
poter essere estirpato, le parole vi aderiscono così fortemente che non possono essere strappate via; certo tutto questo ha poco a che fare con l’afflato poetico dei versi virgiliani…; non sapremo mai se veramente l’autore volesse
essere così preciso (e sinceramente ne dubito), ma si può comunque tener conto dei suggerimenti donatiani per una
traduzione pregnante!
A proposito dei vv. 4 e 5 forse è più interessante notare
come, ancora una volta come nei vv. 3 e 4, l’unità metrica
non coincida con l’unità sintattica e il secondo soggetto
(verbaque), per giunta in allitterazione col primo (vultus), occupi il primo dattilo dell’esametro successivo, a sottolineare
quasi l’ansia ed il cuore in tumulto di Didone: subito dopo
infatti viene specificato che la regina non riesce a riposare.
L’importanza della placidam quietem che l’inquietudine
(cura) non riesce a concedere al suo corpo è sottolineata sempre con l’espediente di mettere aggettivo e sostantivo in
iperbato prima della cesura pentemimere e a fine verso. Il
sintagma ha indubbiamente colpito anche i tecnigrafi antichi, infatti Servio specifica: NEC PLACIDAM MEMBRIS
DAT CVRA QVIETEM aut penitus quiete caruit, ut ‘placida’
epitheton sit quietis: aut habuit quidem quietem, sed non placidam, id est turbatam somniis: unde et ipsa paulo post (v. 9)
‘quae me suspensam insomnia terrent’, e Ti.Cl. Donato puntualizza: ecce quemadmodum Didonis describuntur ardores:
non flectebatur in requiem nec somni virtute vincebatur aut
tempore, quia inpediebat medius amor. POSTERA PHOE-
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BEA LUSTRABAT LAMPADE TERRAS (…): non dixit lucescente die Didonem surrexisse, quia pervigil transegerat noctem, sed cum primum dies fuisset exorta, locutam talia cum
sorore. Sembrerebbe quindi optare per la prima ipotesi di
Servio!
Nessuno dei due esegeti, invece, pare interessarsi alla metonimia pectore al posto di animus66: si direbbe che essa è ormai così abituale che il sostantivo ha ampliato la propria area
semantica a comprendere, oltre alla parte del corpo sede
dell’animo e del sentimento, l’animo e il sentimento stesso.
Tutto ciò consente comunque di parlare agli studenti della
metonimia, ma anche di far notare loro come questo ed altri procedimenti affini possano perdere la loro valenza di linguaggio figurato per ampliare semplicemente il lessico: un
po’ come è successo a “testa” che, dal significato di “coccio”,
quindi metaforicamente “testa vuota”, si è poi affiancata a
“capo” nel linguaggio quotidiano. La metonimia, in base all’etimologia “mutamento di un nome”, secondo gli antichi
era uno dei tropi, cioè una modificazione (dal greco trûpein
-trépein- = volgere) del significato della singola parola; inizialmente, con Aristotele, essa non era separata dalla metafora che comunque indicava una qualsiasi variazione da significato proprio a traslato. Con il tempo essa determinò più
specificamente le sostituzioni, per esempio, del contenente
per il contenuto, dall’autore per l’opera, tutto ciò che prevede
una contiguità fra sostituente e sostituito che però non riguardi un rapporto quantitativo, esclusa quindi la parte per
il tutto o viceversa che viene considerata una sineddoche. È
quasi superfluo specificare come non tutti gli studiosi né
tutte le epoche siano concordi con queste distinzioni67 e, a
mio avviso, è importante che anche gli studenti capiscano
che l’“etichetta” con cui viene catalogato è meno degno di
nota della sostanza del procedimento stesso, che, proprio con
la sua sostituzione, mette in evidenza un elemento fondamentale del sostituito, a tal punto da poterne diventare il simbolo. È altresì rilevante imparare che, tuttavia, sostituente e
sostituito non perdono la propria identità e non è indifferente l’uso dell’uno o dell’altro: non ci sarebbe ragione altrimenti per non servirsi del termine proprio; con il traslato,
invece, si sottolinea l’aspetto del sostituito che si vuole mettere in luce, ma si lasciano sullo sfondo gli altri che, a loro
volta, getteranno il loro riflesso sul significato proprio del sostituente. Questo vale almeno finché la metonimia rimane
“viva”, cioè non prende il posto nella lingua quotidiana del
termine di cui costituiva il traslato; per quanto riguarda pectus al posto di animus, la scelta della parte del corpo sede dei
sentimenti vuole indubbiamente mettere in luce l’aspetto
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concreto, fisico, per così dire, dell’animo e delle passioni, ma
allo stesso tempo la valenza più astratta di animus influenza
la corporeità di pectus, tanto che, col passare del tempo,
sembra aver ampliato la propria area semantica, come già
detto, fino ad includere l’accezione di “animo”, “sentimento”,
senza che questo venisse più sentito come significato traslato,
benché fosse evidente il significato primo del termine.
La perifrasi successiva per indicare il sorgere del giorno: postera Phoebea lustrabat lampade terras/ umentemque Aurora
polo dimoverat umbram offre lo spunto per presentare agli
studenti un altro sintagma non infrequente nel commentario serviano: est etiam hysteronproteron in sensu, meglio specificato dalle Note Danieline: prius est enim ut Aurora umbram dimoverat, post Phoebea lampas lustrat terras: aurora
enim solem praecedit glossa ancora il tecnigrafo. Quella che
viene evidenziato è una variazione nell’ordine logico-cronologico degli eventi descritti dal poeta, come indica sia la
definizione tecnica di hysteronproteron (= quello che dovrebbe seguire posto prima) sia la precisazione prius… post.
Il procedimento messo in luce ricorre più volte nell’opera
così come è noto anche nella letteratura tecnica sia greca sia
latina ora come processo indipendente ora come forma di
iperbato; è però poco comune la specificazione in sensu: la
troviamo, ad esempio, come spiegazione di Aen. 3, 588 s., in
un passo molto simile al presente: postera iamque dies primo
surgebat Eoo/ umentemque Aurora polo dimoverat umbram:
hysteronproteron in sensu: ante enim aurora est, sic dies. La
specificazione, quindi, anche alla luce delle altre occorrenze
da me analizzate altrove68, sembra indicare che l’hysteron
proteron, a dispetto del nome, possa marcare uno spostamento di altro tipo, oltre a quello logico-cronologico e che
quindi per significare inequivocabilmente quest’ultimo serva
appunto in sensu. Pare comunque eccessiva la precisazione:
Aurora precede il giorno, mentre da Virgilio la si vede in
azione contemporaneamente al giorno stesso69. L’esegeta qui
si mostra davvero troppo pedante e le chiose sono quanto
mai opportune per mostrare ai ragazzi come anche gli insegnanti antichi fossero talvolta decisamente poco sensibili
66. Nelle note del Servio Danielino troviamo solo un rilievo dell’uso dell’ablativo al
posto del dativo: “pectore” vero pro “pectori”. Non viene evidenziata la metonimia
neanche al v. 11: quam forti pectore et armis.
67. Per informazioni più dettagliate ed appropriata bibliografia rimando a Cum ratione mutatio, cit., pp. 103-105; in generale sulla metonimia alle pp. 137-148.
68. Me ne sono occupata in Ratio et Usus, cit., pp. 251 s.; nello stesso volume ho trattato l’iperbato e l’hysteron proteron al cap. IV, esaminando anche le difficoltà che può
comportare, considerare il secondo come forma del primo.
69. Non molto diverse le note a Aen. 4, 130 e 10, 256 dove ancora si sottolinea la successione delle azioni all’inizio del nuovo giorno.
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alla bellezza della poesia, troppo noiosi e inclini a sottolineare
le particolarità del testo per “normalizzarle”; ad intimorire
era soprattutto un’opera “sacra” come quella di Virgilio,
spesso bersaglio di una critica malevola e pronta a puntare
il dito, tanto da far sorgere nei suoi ammiratori un istinto anche eccessivamente apologetico70! Sicuramente è meglio far
notare ai ragazzi da una parte l’uguaglianza di 4, 7 e 3, 589,
come omaggio, se così vogliamo dire, ad un modo di comporre con formule fisse, tipico dell’epos omerico dove era
un’esigenza della poesia orale, non più attuale con il poema
scritto di Virgilio, ma ormai entrato nelle caratteristiche del
genere letterario; dall’altre la sapiente composizione dei vv.
6 s. che si intrecciano grazie all’iperbato di postera… Aurora.
Esso pare rendere anche visivamente simultanee le due azioni
dell’arrivo dell’aurora e della luce del sole, mentre il più che
perfetto evidenzia comunque il lavoro portato a termine, in
un attimo, da Aurora di allontanare l’ombra della notte che
ha avvolto con la sua umidità la terra, così come il sintagma
umentem… umbram, con l’allitterazione della vocale chiusa
“u” seguita dalla nasale labiale “m”, abbraccia l’intero esametro.
Abbiamo già fatto cenno ad un’altra nota di Servio in cui si
sottolinea un ordine logico-cronologico diverso rispetto a
quello evidenziato dalla scelta dei tempi e dei modi verbali
di Virgilio: al v. 22, solus hic inflexit sensus animumque labantem/ impulit: id est impulit et labare fecit (§ 6.). Benché
non venga specificato nessun procedimento retorico, si dà
comunque il senso di una variazione: Enea non ha colpito un
animo che già vacillava, ma lo ha reso vacillante proprio colpendolo; si tratta di una interpretazione legittima, e a mio avviso non capziosa, delle parole del poeta, secondo la quale le
due frasi contenute nel passo avrebbero pressoché lo stesso
significato: l’eroe piega i sensi della regina, facendola deviare
dal suo rigido proponimento (INFLEXIT quia supra ait ‘fixum inmotumque sederet’. ‘Inflexit’ a rigido proposito deviavit) e ne colpisce lo spirito rendendolo incline alla colpa. Un
po’ più sottile pare invece la spiegazione della Note Danieline
che abbiamo già analizzato: si tratterebbe non tanto di un attacco congiunto alla sensualità ed alla spiritualità di Didone
per abbatterne tutte le difese, quanto di un processo che si
sviluppa per gradi, sferrando il colpo decisivo (impulit) ad un
animo ormai pronto a cadere (labantem); viene rispettata
così la scelta di un participio presente quale indicatore di
contemporaneità: et bene per gradus crevit: primum ‘inflexit’, ut fixos ostenderet; quae fixa sunt enim, quoniam
avelli non possunt, inflectuntur: deinde ‘inpulit labantem’;
ea enim inpelluntur, quae prona sunt ad cadendum.
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Gli esegeti non evidenziano altri aspetti particolari della
strutturazione dei versi71, io vorrei richiamare ancora la costruzione del v. 19, su cui si è già ampiamente discusso (§ 6.
n. 33): huic uni forsan potui succumbere culpae: si è visto in
quella sede che gli studiosi moderni non sono concordi nella
scelta fra huic uni come riferito ad Enea, quindi separato da
culpae e huic uni culpae come sintagma unico; si è messo in
luce anche come le testimonianze antiche non siano determinanti; vorrei vedere ora se può aiutare l’ordine verbale. Il
frequente uso dell’iperbato in Virgilio potrebbe far propendere per la seconda opzione: quell’unica colpa è così totalizzante per Didone da abbracciare tutto il verso come sta per
far soccombere la regina; è però molto interessante e altrettanto convincente anche quanto asserisce C. Marangoni nel
citato articolo. Egli parte dal significato del verbo succumbere,
che può indicare proprio la sottomissione fisica nell’atto
sessuale, come se nella mente della donna si alternassero il
desiderio di soggiacere all’eroe (huic uni) e il pudore che la
spinge, quasi spaventata dai suoi stessi pensieri, ad aggiungere a fine verso culpae, per dare al predicato la valenza metaforica di “soccombere”. Si passerebbe quindi da un inconfessato «con questo solo forse potrei unirmi nella passione»
ad un più verecondo (e quindi espresso) «per questo solo
(dativo di interesse) potrei soccombere alla colpa». Si è dunque costretti ad ammettere che ancora una volta non si è risolto il problema dell’interpretazione e non escludo che lo
stesso Virgilio abbia voluto caricare il proprio testo di un significato più intenso e più ampio, lasciando volutamente
ambiguo il verso.
Questa difficoltà, comunque, dovrebbe avere un valore educativo per gli studenti, dovrebbe cioè spingerli a muoversi
con cautela nell’analisi delle intenzioni degli autori e ad attenersi a quanto scritto, ammettendo anche l’impossibilità di
decidere in alcuni casi fra diverse ipotesi. È fondamentale
spiegare loro che, soprattutto quando si esamina il valore del
70. Altrettanto limitante è la nota del Servius Auctus ai vv. 13 s.: heu, quibus ille iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat! Et est hysterologia: nam prius est ut bella
exhauserit, post fatis iactatus sit. L’esegeta nella sua ansia di correttezza grammaticale e compositiva non si rende conto, a differenza del poeta ben più sensibile alla psicologia femminile, che nella mente alterata di Didone tutto quanto riguarda Enea è
contemporaneamente presente in flesh che non rispecchiano certo la cronologia e
la logica comune. Per il valore del termine tecnico hysterologia come sinonimo di
hysteron proteron rimando ancora a Ratio et Usus, cit., pp. 252-264.
71. Ci sono tuttavia nell’opera serviana alcuni rilievi che potremo definire “grammaticali” come a 4, 15: “immotum” pro immobile, participium vim nominis habens, oppure 4, 16: VINCLO IUGALI synaeresis est pro “vinculo” […]. Quidam “iugali” accipiunt
pro “coniugali”, per aphaeresin dictum, quae fit cum de prima parte verbi syllaba
detrahitur. Potrebbe essere interessante suggerire agli studenti una ricerca su termini tecnici quali aferesi e sineresi, non solo nell’ambito del latino ma anche dell’italiano o della lingua straniera.
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significante, della disposizione delle parole e della scelta les- davanti: l’errore si può correggere e il metodo di lavoro imsicale, c’è il rischio di “andare oltre” e far dire agli autori an- maturo si può migliorare, è però difficile combattere contro
tichi quanto è nella mente di noi moderni! È quindi impor- il vuoto e l’ostinata insensibilità72!
tante basarsi quanto più possibile sulle testimonianze dei
Ilaria Torzi
tecnigrafi tardoantichi che ci offrono un’interpretazione non
Liceo Scientifico “Vittorio Veneto”, Milano
contemporanea ma sicuramente più vicina della nostra, da
Università degli Studi di Bergamo
un punto di vista cronologico e quindi anche di modo di sentire e di visione del mondo. Qualora queste non siano disponibili è buona norma considerare l’usus scribendi dell’autore e del genere letterario cui afferisce, studiando le
valenze in lui prioritarie del lessico usato. Ciò tuttavia non
72. Trattandosi di un’ipotesi di percorso che richiede uno sviluppo personale, non ho
deve scoraggiare i ragazzi che, secondo me, è meglio tentino, volutamente sottolineato le particolarità di tutti i versi a livello, ad esempio, di ipernella loro inesperienza, qualche interpretazione anche un po’ bati o di scavalcamento dell’unità sintattica rispetto all’unità metrica; spero così di
essere stata meno noiosa e più stimolante per chi voglia portare avanti in classe il laazzardata piuttosto che restino indifferenti al teso che hanno voro!
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NUOVA SECONDARIA RICERCA
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