Untitled - RCS Libri

Marina Marazza
Il segreto
della monaca di Monza
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-915-0721-1
Prima edizione Fabbri Editori: giugno 2014
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Il segreto della monaca di Monza
Si potria fare un libro di quel che ho passato e patito
e saria cosa che commoveria il lettore a lacrime
et a grandissima compassione tutti li ascoltanti;
ché, per causa di esse, siam ridutti a questo termine
senza colpa nostra.
Lettera di Giovan Paolo Osio al cardinal Borromeo,
giovedì alli 20 dicembre 1607
Prologo
Domenica 26 luglio 1609
Convento di Santa Margherita in Monza
L’urlo di suor Benedetta si levò disarticolato nel silenzio in­
naturale, come se stessero sgozzando un maiale, così forte da
coprire il brontolio del tuono. Nel chiostro del monastero la
statua lignea della Madonnina parve vibrare di orrore nella ca­
lura del pomeriggio di luglio.
Il rappresentante del vicario criminale interruppe la lettura
della sentenza solo per un attimo. Si schiarì la voce e proseguì
con il tono piatto e annoiato di un notaio. Era la terza volta
che si trovava a ripetere parole sostanzialmente uguali per le
tre condannate e l’afa non dava tregua. Una mosca verdastra
gli si posò sulla fronte sudata e stempiata, solleticandolo con le
zampette sottili e costringendolo a un movimento bizzarro con
la testa in contrasto con la gravità della contingenza.
Sul cielo di Monza si stavano accumulando nuvole nere. Le
disposizioni del vicario criminale dovevano essere rese esecuti­
ve prima che il temporale si scatenasse, poi tutti se ne sarebbero
tornati in pace alle loro case, orgogliosi del dovere compiuto.
«… Ripetuto il nome di Cristo diciamo, comandiamo e statuia­
mo di condannare la suddetta monaca per castigo e penitenza a
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perpetua prigionia nel monastero di Santa Margherita dove in
piccolo carcere venga rinchiusa, la cui porta si abbia a serrare
mediante muro formato di calce e sassi e quivi dimori finché avrà
vita, così chiusa e murata di giorno come di notte, fino al suo
trapasso.»
«Misericordia!»
La voce era così straziata da rendere irriconoscibile l’invo­
cazione mentre la suora si aggrappava ai due lati dell’apertura,
dove della porta rimanevano solo i cardini. L’uscio di legno
era stato rimosso e le unghie della donna graffiavano la pietra
spessa.
I due birri vestiti di nero la sollevarono di peso uno per par­
te, ma Benedetta Homati allargò ancora di più le braccia magre
a croce, per impedire di essere spinta dentro la minuscola cella
buia. Dovettero afferrargliele e abbassargliele malamente infi­
landola dentro la stretta apertura. Un birro la forzò a piegare la
testa, strappandole quasi il velo.
Lei si dibatté nella loro presa. Non poteva essere vero. Ave­
va sperato fino all’ultimo che la sua famiglia riuscisse a far com­
mutare la sentenza. Si erano dati tutti d’attorno, i suoi genitori,
quelli di Candida Colomba Brancolini e di Silvia Casati, pro­
cessate con lei. Gli Homati erano un nome a Milano, avevano
parenti monsignori.
Fuori, nella parte del corridoio del piano terreno più na­
scosta, verso le cantine, dove erano state ricavate le celle in cui
le tre monache sarebbero state murate vive, era in attesa una
piccola folla in silenzio attonito. C’erano alcune suore, la pri­
ora, quattro birri e un esecutore di giustizia, tre muratori e un
sacerdote confortatore.
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Benedetta barcollò, cadde sul pavimento della cella e gridò
ancora. Il femore che si era sbriciolata quando l’avevano but­
tata nel pozzone qualche mese prima non la reggeva più. Si
tirò in piedi incespicando nella tonaca e tornò a gettarsi verso
l’uscita, le due braccia tese in avanti.
Si trovò di fronte agli occhi sbarrati il crocefisso che il con­
fortatore le tendeva. «Ritrovate voi stessa, figlia» le disse il
Cappuccino con lo sguardo spiritato e gli incisivi muschiati.
«Accettate con cuore lieto la pena che vi è stata inflitta per i
vostri peccati. Salverete la vostra anima immortale.»
Accecata dalle lacrime, Benedetta scosse la testa. Non era
mai stata bella e la disperazione aveva trasformato la sua faccia
cavallina in una maschera. «Ho fatto ricorso a Roma! Non po­
tete chiudermi in questa tomba!»
Sdegnato dalla risposta, il confortatore mosse il crocefisso
con un gesto repentino. Forse non lo fece apposta, ma legno
e ferro colpirono Benedetta sulla bocca e un rivolo di sangue
le scese dal labbro spaccato. «Ringraziate la pietà di chi vi ha
dato una speranza di redenzione!» esclamò il Cappuccino, ri­
traendosi per permettere agli operai di avvicinarsi alla luce del­
la porta e murarla.
Sorda alle parole del confortatore, Benedetta tentò a testa
bassa un’ultima sortita e questa volta fu l’esecutore di giustizia
vestito di cuoio nero a respingerla con tutta la sua forza, man­
dandola a sbattere con violenza contro la parete opposta della
piccola cella. La donna scivolò seduta, tramortita dall’impat­
to, mentre i muratori spalettavano veloci la calce e posavano
le grosse pietre a occludere l’ingresso. Restò lì intontita, semi­
svenuta, a fissare con l’occhio vacuo di una vacca e la bocca
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aperta il muro che saliva in fretta a togliere quella poca luce al
loculo. Un filo di saliva rossastra le colava sul soggolo bianco
strappato.
Qualche passo più in là, fuori delle celle, altre due monache
attendevano la stessa sorte strette tra i birri. Una era alta e il suo
incarnato da bionda, già naturalmente pallido, pareva ingrigito
dal terrore. Teneva la schiena appoggiata a un pilastro come se
temesse di non reggersi in piedi, rigida e immobile. L’altra era
più bassa e tonda, e due chiazze rosse le macchiavano le guance
paffute da bambina.
Fu la piccola suora a emettere un gemito sordo. Le parole
le si affollarono alle labbra e il rossore dalle gote le invase tutta
la faccia incorniciata dal panno bianco. «La lettera, Silvia…»
farfugliò, rivolta alla consorella impietrita, esangue come la
morte. «Abbiamo pur scritto all’eccellentissimo… lui non
ignorerà la nostra supplica…» Agitava le manine da musicista
sotto il volto dell’altra. La sinistra deformata non avrebbe mai
più suonato una tastiera d’organo dopo che l’avevano torturata
durante l’istruttoria.
Le labbra ceree di suor Silvia rimasero serrate, i suoi occhi
chiari sbarrati sul volto paonazzo della piccola suor Candida.
Come se solo in quel momento l’altra si rendesse conto che non
c’era più alcuna possibilità di grazia, si afflosciò di colpo sul
pavimento, svenuta.
«Candida!» articolò finalmente Silvia, livida, piegandosi a
soccorrerla. Non riusciva a controllare il tremito delle mani e
furono i birri a risollevare rudemente suor Candida Colomba.
Il suo corpicino restò sospeso tra di loro, la testa ciondoloni
come un’impiccata, mentre un muratore smontava la porta del­
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la cella che le era destinata e le due guardie la portavano dentro
prima che rinvenisse, lasciandola ricadere sul pavimento in un
mucchio di stracci.
Suor Silvia si coprì la faccia con le mani. Nel caldo insoppor­
tabile che faceva ansimare di fatica gli operai, rabbrividiva come
in un accesso di febbre. Le sembrava che gli altri potessero sen­
tire i suoi denti battere. Non voleva dar loro la soddisfazione di
perdere ogni dignità e sollevò la testa, cercando lo sguardo della
priora Sacchi. Non lo trovò: la donna teneva gli occhi socchiusi
e sembrava lontana. Secondo la sentenza, in quanto superiora
avrebbe avuto la responsabilità di non permettere alle condan­
nate di uscire vive dal loro sepolcro, per nessun motivo al mon­
do. Ma solo per meno di un anno: anche a lei era arrivata una
diffida per quel che era successo al convento e non avrebbe mai
più avuto diritto a essere rieletta badessa per colpa di quelle
svergognate. Alle prossime elezioni capitolari, l’onere sarebbe
passato alla nuova priora. Di certo nessuno avrebbe avuto com­
passione per le tre amiche della Signora de Leyva.
Mentre il confortatore biascicava le sue preghiere, Silvia si
lasciò condurre come un automa alla sua tomba. Da un bel
pezzo aveva capito che sarebbe finita male.
Forse non così male, ma senz’altro con danno di tutti quan­
ti. Ingannato dalla sua rassegnazione, il confortatore le rivolse
la parola. «Rimettetevi con animo docile alla misericordia del
Signore» le disse, intanto che il ritmico fruscio della cazzuola
sulle pietre faceva da sottofondo alle sue parole edificanti.
Lei guardò i muri che la circondavano dai quattro lati e il
soffitto basso che le incombeva a una spanna dalla testa. Era in
una scatola di roccia grigia scabra. Un sarcofago. «Lo farò» ri­
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spose, mentre il muro di calce e sassi saliva, oscurava la piccola
cella e soffocava la sua voce tremante, conferendole un suono
cavernoso. «Purché Virginia, che è la causa di tutto questo,
possa soffrire almeno quanto stiamo soffrendo noi.»
Le sue ultime parole smorirono nel boato del tuono che se­
gnava l’inizio di quel temporale d’estate. Le prime grosse gocce
di pioggia cominciarono a martellare il chiostro e a rimbalzare
dal marmo del parapetto sul volto della statua della Madonni­
na dall’espressione sofferente, disegnandole due grosse lacrime
sulle guance di legno.
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