Cassazione Civile Cassazione civile sez. III 20/01/2015 ( ud. 31/10/2014), n. 838 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETTI Giovanni B. - Presidente Dott. SESTINI Danilo - rel. Consigliere Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere Dott. ROSSETTI Marco - Consigliere Dott. PELLECCHIA Antonella - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 14914/2011 proposto da: C.F., con gli avv.ti…. - ricorrente contro XXX QUOTIDIANI S.p.A., M.P., B.P., F. L., G.G., con gli avv.ti ----; - controricorrenti avverso la sentenza n. 2330/2010 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 20/08/2010; Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO C.F. adì il Tribunale di Milano per ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa del contenuto diffamatorio di tre articoli, apparsi sul quotidiano (OMISSIS) nei giorni (OMISSIS), in cui si riferiva del coinvolgimento dell'attore nelle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Milano in merito a fondi neri del gruppo Mediaset; a tal fine, convenne in giudizio la R.C.S. Quotidiani s.p.a., M. P., B.P., F.L. e G.G., la prima quale editrice del quotidiano, il secondo in qualità di direttore responsabile e gli altri tre quali autori degli articoli: la domanda venne proposta in relazione alla violazione dell'art. 684 c.p., D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, e art. 595 c.p., con richiesta di un risarcimento di 200 mila Euro e di una riparazione pecuniaria (L. n. 47 del 1948, ex art. 12) di 50 mila Euro. Il Tribunale di Milano rigettò la domanda in relazione a tutti i profili e condannò il C. al pagamento delle spese di lite. La sentenza è stata confermata dalla Corte di Appello di Milano, con ulteriore condanna dell'appellante al rimborso delle spese processuali. Ricorre per cassazione il C., affidandosi a sei motivi; resistono tutti gli intimati con unico controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1. I tre articoli pubblicati sul (OMISSIS) - a firma del B., quelli del (OMISSIS), e del F. e del G. quello del (OMISSIS) attengono all'inchiesta svolta dalla Procura della Repubblica di Milano in ordine a fondi neri del Gruppo Mediaset. Per quanto emerge dai brani trascritti nel ricorso, il primo articolo si occupava dell'interrogatorio dell'avv. Mi. in merito all'ipotizzata esistenza di un sistema di società fiduciarie diretto a beneficiare Be.Ma. e Pi., con subordinazione della possibilità di compiere operazioni al consenso di alcune persone di fiducia di Be.Si., fra cui sarebbe stato compreso il C.. Il secondo articolo ribadiva la precedente notizia, con la precisazione che la Procura della Repubblica aveva contestato al C. il reato di falso in bilancio. L'ultimo articolo dava conto del deposito - negli atti dell'inchiesta - di tre consulenze tecniche, redatte da un ispettore della Banca d'Italia, nelle quali si affermava che la quotazione di Mediaset in borsa era stata viziata da una sensibile sopravvalutazione del patrimonio aziendale e da bilanci falsificati e si stigmatizzava il fatto che, contrariamente 1 all'impegno pubblicamente assunto, la Fininvest non avesse ridotto la propria quota di partecipazione in Mediaset al di sotto del 50%, circostanza che sarebbe stata confermata dal Presidente C. un anno dopo la quotazione; nell'articolo si dava anche atto che l'imputazione relativa ai bilanci falsificati era l'unica ad unire il C. all'indagato Be.Si.. 1.1. La pretesa risarcitoria individua tre autonome fonti produttive di danno, costituite dal reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, dal reato di diffamazione e dalla violazione della normativa a tutela della privacy. 2. La Corte di Appello ha fondato la decisione di rigetto dell'impugnazione sulle seguenti considerazioni. Quanto al "reato di pubblicazione arbitraria ex art. 684 c.p.", ha rilevato che gli atti dell'indagine preliminare "erano stati già depositati dalla Procura della Repubblica ai sensi dell'art. 415 bis c.p.p." (e che era dunque "esclusa la sussistenza del segreto su di essi") ed ha ritenuto che dovesse affermarsi la liceità della pubblicazione, in relazione al contenuto dell'art. 114 c.p.p., commi 2 e 7, e art. 339 c.p.p.. Più precisamente, dopo aver osservato che il divieto di pubblicazione "è volto principalmente alla tutela delle regole del dibattimento che impongono che il giudice formi il proprio convincimento esclusivamente sugli atti ritualmente introdotti nel processo e non in via extraprocessuale mediante l'eventuale conoscibilità di atti diversi attraverso i mezzi di informazione", ha rilevato che, quand'anche il giornalista ricorra "all'estrapolazione di frasi testuali da verbali e documenti depositati dal pubblico ministero, l'eventuale illiceità della loro diffusione va verificata nella menzionata prospettiva di evitare ogni indebita influenza esterna sulla formazione della prova e dell'autonomo convincimento del giudice nel successivo dibattimento"; con queste premesse, ha ritenuto che "il richiamo a citazioni testuali di alcuni atti - interrogatorio dell'avv. Mi., relazione del CT della Banca d'Italia - non estende... la conoscenza del lettore oltre il limite del contenuto degli stessi atti e non integrano, per la loro limitatezza e comunque per la loro diretta inerenza alla stessa comprensione generale della vicenda e delle specifiche condotte illecite... alcuna effettiva violazione del divieto di pubblicazione stabilito dalla legge, tale cioè da integrare un effettivo pericolo per la stessa ritualità della formazione della prova nel successivo dibattimento". Quanto alla diffamazione, rilevato che l'attore non aveva contestato la conformità di quanto riportato negli articoli agli elementi e alle conclusioni su cui la Procura aveva fondato la richiesta di rinvio a giudizio, ma si era limitato a lamentare la "chiave colpevolistica" di tali articoli, la Corte ha ritenuto che i fatti esposti risultassero chiaramente riferiti alle risultanze dell'attività di indagine sì che il lettore medio era "perfettamente in grado di comprendere che sui medesimi ancora nessuna valutazione... era stata espressa da un giudice"; quanto -poi- alle presunte ammissioni del C., ha osservato che dal testo dell'articolo appariva "chiaro che non di esplicita ammissione dell'indagato si trattasse ma di valutazioni contenute nella relazione del consulente tecnico sulla base dell'esame di più fonti di conoscenza". Ha escluso, infine, qualunque profilo di illiceità ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003 (con motivazione non interessata dai motivi del presente ricorso). 3. Col primo motivo (che deduce violazione di legge in relazione all'art. 684 c.p., e art. 114 c.p.p.), il ricorrente censura la sentenza per avere affermato che, venuta meno la segretezza degli atti di indagine a seguito del loro deposito ex art. 415 bis c.p.p., il divieto di pubblicazione, "anche parziale", previsto dall'art. 114 c.p.p., comma 2, non impedisse l'estrapolazione di frasi testuali da verbali e documenti depositati dal pubblico ministero, tenuto conto della loro "limitatezza" e della loro "diretta inerenza alla stessa comprensione generale della vicenda" e, altresì, del fatto che non avevano integrato "un effettivo pericolo per la stessa ritualità della formazione della prova nel successivo dibattimento". Assume, al contrario, il ricorrente che la lettura complessiva dell'art. 114 c.p.p., consente di ritenere lecita unicamente la pubblicazione "che non abbia ad oggetto la riproduzione testuale dell'atto", ossia la pubblicazione e la diffusione delle notizie che se ne possono ricavare, essendo invece "vietata la pubblicazione tra virgolette del testo dell'atto, ancorchè parziale", senza che possa residuare "alcun margine di discrezionalità per l'interprete", e ciò anche in vista della pluralità degli interessi tutelati dalla norma, che non attengono unicamente alla ritualità della formazione della prova nell'ambito del dibattimento, ma anche alla riservatezza e alla reputazione delle persone coinvolte. Il secondo motivo insiste nello stesso ambito ed evidenzia la contraddittorietà della motivazione della Corte laddove, per un verso, assume che la ratio del divieto di pubblicazione degli atti del procedimento penale è correlata all'esigenza che il giudice "formi il proprio convincimento esclusivamente sugli atti ritualmente introdotti nel processo" e, per altro verso, non considera che l'estrapolazione di frasi testuali da verbali e documenti depositati determina la conoscibilità, attraverso i mezzi di informazione, di quegli stessi atti che dovrebbero essere acquisiti al giudizio solo nell'ambito del dibattimento. 3.1. I due motivi - che si esaminano congiuntamente - risultano fondati. Va innanzitutto affermata la possibilità di fondare una pretesa risarcitoria sul reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale previsto all'art. 684 c.p. (che sanziona "chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o 2 a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione"), a prescindere dal fatto che vi concorra o meno la diffamazione (cfr., al riguardo, Cass. Pen. n. 17051/2013 che chiaramente evidenzia l'autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione). Va poi ribadito che quello previsto dall'art. 684 c.p. "costituisce, pacificamente, reato plurioffensivo... in quanto diretto a tutelare nella fase istruttoria, - la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo" (Cass. n. 17602/2013), oltrechè a garantire l'"interesse dello Stato al retto funzionamento dell'attività giudiziaria" (Cass. Pen. n. 42269/2004; cfr. Cass. Pen. n. 17051/2013). Deve inoltre rilevarsi che le disposizioni dell'art. 114 c.p.p., - che delimitano l'ambito del divieto di pubblicazione e che valgono ad integrare il precetto della norma penale (Cass. Pen. n. 10948/1995) - disegnano un sistema che stabilisce al comma 1 - il divieto assoluto di pubblicazione "anche parziale o per riassunto... degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto" e che - ai commi 2 e 3 - estende il divieto di pubblicazione, "anche parziale", agli atti non più coperti dal segreto ma relativi ad un procedimento ancora in corso, pur facendo salva - al comma 7 - la possibilità della "pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto". Ciò premesso, non pare corretta l'affermazione - cui è pervenuta la Corte di merito - della liceità della pubblicazione "parziale" di atti che, ancorchè non più coperti dal segreto, erano tuttavia pubblicabili unicamente nel loro contenuto, in quanto tale liceità è stata ancorata al dato quantitativo della "limitatezza" della trascrizione che è del tutto estraneo alla previsione dell'art. 114 c.p.p., e che non appare idoneo a soddisfare le esigenze sottese all'intera disciplina, che pure la Corte ha dichiarato di condividere. Quanto a questo secondo profilo, va subito evidenziata la contraddittorieta fra l'affermazione che individua il fondamento del divieto nell'esigenza di garantire l'assenza di condizionamenti nei confronti del giudice dell'eventuale futuro dibattimento e quella che, al tempo stesso, consente comunque a tale condizionamento di operare tramite una pubblicazione parziale che - per quanto limitata nell'estensione - potrebbe comunque risultare di rilevante significato. Quanto al dato quantitativo, non si rinviene nella norma alcuna deroga che consenta le trascrizioni di brani di limitata estensione, nè può ritenersi - come fa la Corte di merito - che le citazioni testuali di alcuni atti fossero, nel caso, consentite per il fatto che non estendevano la conoscenza del lettore oltre il limite del contenuto degli atti stessi ed erano, comunque, funzionali alla migliore comprensione della vicenda: si tratta, a ben vedere, di caratteristiche proprie di qualunque trascrizione di atti (a prescindere dall'estensione), che non possono pertanto valere a derogare alla previsione generale e ad individuare - nell'ambito degli atti non più segreti, ma pubblicabili solo nel contenuto - ipotesi di atti che possono, comunque, essere parzialmente pubblicati. Nè a diversa soluzione può indurre l'orientamento espresso da Cass. Pen. n. 4347 9/2013 ("non integra la contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell'interrogatorio dell'indagato") giacchè - per quanto emerge dalla motivazione- la decisione concerne un'ipotesi (in cui il giornale aveva utilizzato, per un titolo, un'espressione - "il minorenne ammette: ho colpito l'agente" - che, benchè riportata tra virgolette, costituiva la sintesi del contenuto delle dichiarazioni) che rientrava nell'ambito della liceità della pubblicazione del contenuto di atti. Neppure contiene elementi attinenti al caso di specie la pronuncia (Cass. Civ. n. 21404/2014) richiamata dagli intimati nella memoria ex art. 378 c.p.c., giacchè la questione della pubblicazione di atti processuali è stata in essa affrontata unicamente sotto i profili della diffamazione e della violazione della privacy, senza che sia stato esaminato il distinto profilo della violazione dell'art. 684 c.p.c. (non dedotto in quella causa) quale autonoma fonte di pregiudizio non patrimoniale. Va escluso, da ultimo, che una qualunque deroga possa essere giustificata dall'esercizio del diritto di cronaca e dalla necessità di assicurare la massima informazione giacchè tali esigenze sono state considerate e soddisfatte nell'economia della disciplina prevista dall'art. 114 c.p.p. - dalla previsione della libera pubblicazione del contenuto degli atti non più coperti dal segreto. La sentenza va pertanto cassata in relazione ai primi due motivi, con rinvio alla Corte di Appello di Milano che dovrà nuovamente esaminare la vicenda alla luce del seguente principio di diritto: "fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall'art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista 3 dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale". 4. Devono essere esaminati anche i successivi quattro motivi - relativi all'esclusione della responsabilità per diffamazione - che non risultano assorbiti per effetto dell'accoglimento dei primi due, attesa la diversità degli illeciti individuati a fondamento delle pretese risarcitorie (violazione, nell'un caso, dell'art. 684 c.p., e, nell'altro, dell'art. 595 c.p.). 5. Il terzo motivo censura la sentenza (deducendo ogni possibile vizio motivazionale) per avere preso le mosse dall'erroneo presupposto che l'attore non avesse contestato che quanto riportato negli articoli corrispondesse alle conclusioni cui era pervenuta la Procura, ma si fosse lamentato esclusivamente della ritenuta chiave colpevolistica degli articoli. Sostiene il ricorrente di avere "chiaramente denunciato il profilo oggettivo della diffamazione e, dunque, la non verità delle notizie contenute negli articoli" ed evidenzia come il fatto stesso di lamentare una lettura colpevolistica implicasse la contestazione della veridicità delle notizie; assume che, nel "suggestivo accostamento di notizie vere e di notizie false", il lettore (anche quello "giurista") non poteva non trarre dalla lettura degli articoli il convincimento che al C. erano "riferibili comportamenti illeciti, immorali, gravi", tali da lederne l'immagine e la reputazione. Il motivo è infondato: il ricorrente si limita a proporre doglianze generiche (che parrebbero riferite alla verità dei fatti sottoposti ad indagine piuttosto che alla verità delle notizie rispetto ai contenuti dell'inchiesta), che non spiegano quali siano gli elementi decisivi non considerati o non adeguatamente valutati dalla Corte e non inficiano in alcun modo la ratio della decisione, che è fondata sulla pacifica aderenza di quanto riportato negli articoli al contenuto degli atti di indagine e alla linea accusatoria della Procura. 6. Il quarto motivo ribadisce (questa volta sotto il profilo della violazione di legge in riferimento all'art. 595 c.p., e art. 112 c.p.c.) che "la diffamazione si è realizzata attraverso la denunciata attività manipolativa, determinante l'attribuzione al Dott. C. di fatti non veri". Anche questo motivo è infondato: non è stata individuata alcuna erronea affermazione in punto di diritto (l'illustrazione del motivo si sofferma su meri dati fattuali attinenti alla concreta partecipazione del C. alle operazioni di trading ideate dal Mi.) nè risulta prospettata un'effettiva omessa pronuncia su una domanda (ossia su un motivo di appello che la Corte non avrebbe esaminato), giacchè il ricorrente finisce per dolersi, più semplicemente, del fatto che la Corte non abbia "speso una parola" (di motivazione) su due dei tre articoli. 7. Il quinto motivo censura, in quanto insufficientemente motivata ("se non contraddittoria"), l'affermazione secondo cui dal testo dell'articolo del 2.3.2005 emergeva che quelle riportate erano valutazioni del consulente e non ammissioni del C. sulla composizione del capitale sociale di Mediaset. Le censure sono inammissibili - prima ancora che infondate - in quanto non è stata prospettata un'effettiva insufficienza motivazionale o una contraddittorietà interna alla motivazione: quella che il ricorrente propone è esclusivamente una lettura opposta rispetto a quella effettuata dal giudice di merito, che - in quanto apprezzamento congruamente motivato - non risulta censurabile in sede di legittimità. 8. Il sesto motivo (dedotto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento all'art. 595 c.p.) insiste sulla circostanza che l'articolo del (OMISSIS) aveva attribuito al C. dichiarazioni false e ne fa conseguire "una palese violazione dell'art. 595 c.p., non potendosi revocare in dubbio la sussistenza dell'offesa alla reputazione perpetrata in danno del Dott. C. per effetto dell'articolo suindicato". Anche l'ultimo motivo è infondato poichè, senza individuare erronee affermazioni in punto di diritto, si limita a sollecitare un'inammissibile nuova valutazione di merito circa il contenuto diffamatorio dell'articolo. 9. La Corte di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio. PQM P.Q.M. la Corte, rigettati gli altri motivi, accoglie il primo ed il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 31 ottobre 2014. Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2015 4
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