SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Saverio Mauro Tassi LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO IV. L’ORIZZONTE MODERNO Il Corsaro Editore 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LA SCOPERTA LA REALTÀ COME ORDINE NATURALE 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE L’ETA’ RINASCIMENTALE (XIV-XVI secolo d.C.) La dissoluzione della civiltà feudale europea Il secolo e mezzo che va dall’inizio del 1300 alla metà del 1400 si può considerare come una lunga fase di transizione che getta le premesse per la futura nascita della civiltà europea moderna. Si tratta, cioè, di un periodo di tumultuoso passaggio da un assetto civile a un altro attraverso la lenta, contrastata dissoluzione delle forme culturali, istituzionali ed economiche che avevano strutturato il mondo medioevale. Infatti, la civiltà cristiana feudale, che sembrava aver raggiunto nel XIII secolo un assetto duraturo, nel XIV secolo fu dapprima scossa, poi incrinata e infine mandata in frantumi dalla convergenza pressoché simultanea di quattro grandi eventi storici: la cosiddetta “cattività avignonese”, la guerra dei Cent’anni, la peste nera e lo scisma della Chiesa occidentale. La fine del progetto teocratico della chiesa Sconfitto l’impero dopo una lotta plurisecolare, all’inizio del ‘300 l’egemonia teocratica della Chiesa si infranse inaspettatamente nell’urto con la monarchia francese. La sede papale fu trasferita all’interno del territorio del regno di Francia, furono eletti papi francesi e la Curia papale subì la tutela dei re francesi. Faticosamente la Chiesa riuscì a riacquistare la sua autonomia, ma il ritorno a Roma della sede pontificia e la riguadagnata autonomia del potere papale furono pagati al prezzo della prima grande frattura della cristianità occidentale, il grande scisma d’Occidente. Mentre infuriava lo scontro tra le fazioni ecclesiali che si contendevano il trono pontificio, riemersero e si diffusero nuovi movimenti ereticali - i lollardi inglesi e gli hussiti boemi - in cui per la prima volta la polemica morale contro le degenerazioni dell’alto clero si saldarono alle istanze di autonomia nazionale. Fu proprio l’emergere delle nazioni europee la forza centrifuga che fece scricchiolare la respublica christiana. Per il momento la Chiesa occidentale riuscì ancora, per l’ultima volta, a ricomporre la propria unità istituzionale e a schiacciare le nuove eresie, ma al duro prezzo di concedere ampi margini di autonomia ai più forti episcopati nazionali. La grande crisi del XIV secolo Al conflitto interno alla Chiesa si aggiunse e si intrecciò la guerra secolare tra regno di Francia e regno di Inghilterra destinata a concludersi solo alla metà del ‘400. Dietro il tradizionale scontro dinastico tra due famiglie regali imparentate, si consumò il primo scontro tra la vecchia forma politica della monarchia feudale e la nuova organizzazione statale della monarchia nazionale. Ma la crisi dell’universalismo cristiano e la guerra dei Cent’anni furono solo i sintomi istituzionali più evidenti della profonda depressione economico-sociale che colpì la società europea dall’inizio del 1300. Il ritorno e il susseguirsi degli anni di cattivo raccolto e di carestia furono al tempo stesso effetto e causa della rottura dell’equilibrio tra popolazione e risorse disponibili. La diminuzione della produzione agricola provocò la contrazione degli scambi commerciali e dell’attività artigianale con il conseguente fallimento a catena delle grandi compagnie bancarie medievali. Su questa situazione economicamente e demograficamente compromessa, si abbattè a metà del secolo il flagello naturale della peste che trasformò la crisi congiunturale in catastrofe epocale. La perdita di quasi un terzo della popolazione in pochi anni, lo sconvolgimento delle relazione familiari e sociali, l’abbandono prolungato delle attività lavorative, il terrore psicologico e la regressione a forme di religiosità fanatiche e violente sgretolarono i fondamenti materiali, culturali e psicologici su cui la civiltà feudale si era faticosamente edificata. 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – La formazione degli Stati regionali nella penisola italiana La penisola italiana, che era stata l’area di punta dello sviluppo europeo del basso Medioevo, pagò il più alto tributo di vite umane alla peste. Proprio la sua maggiore urbanizzazione si trasformò da fattore di benessere in fonte di contagio e morte. La crisi economica e demografica radicalizzò lo scontro sociale nelle campagne ma soprattutto nelle città dove esplosero le rivolte armate dei piccoli produttori e dei salariati. La reazione dei patriziati cittadini e la diffusa esigenza di stabilità e pace favorirono l’imporsi del nuovo potere signorile e promossero - dove le signorie si erano già imposte - il loro consolidamento in principati o in repubbliche oligarchiche. Si venne così a formare un sistema politico di Stati regionali che da un lato diminuì la frammentazione politica del territorio e la conflittualità sociale, dall’altro trasferì lo scontro dall’interno all’esterno, trasformandolo in guerra aperta e generalizzata per l’egemonia. La controffensiva islamica Mentre l’Europa cristiana era dilaniata da conflitti a tutti i livelli e ripiegata su se stessa, l’Oriente islamico ne approfittò per ribaltare l’espansionismo cristiano delle Crociate, esauritosi alla fine del ‘200. I turchi ottomani, che già a metà del ‘300 si erano attestati nei Balcani, all’inizio del ‘400 ne completarono la conquista e, espugnando Costantinopoli, eliminarono con l’impero bizantino il baluardo orientale dell’Occidente cristiano. Otto secoli dopo la prima minaccia araba, l’Europa si trovò di nuovo di fronte al pericolo di un’invasione islamica. La genesi del capitalismo moderno Costantinopoli, fortunatamente per l’Europa, aveva retto abbastanza a lungo. Alla metà del ‘400 la situazione interna dell’Europa registrò una svolta. La conclusione della guerra dei Cent’anni e il trattato di Lodi tra gli Stati regionali italiani non solo aprirono un cinquantennio di relativa pace interna e internazionale ma soprattutto favorirono un più generale assestamento economico e politico, rendendo possibile l’avvio di una nuova fase di sviluppo. Sul piano demografico, l’attenuarsi fino alla scomparsa dei ciclici ritorni epidemici della peste permise la ripresa demografica, dapprima lenta e poi sempre più impetuosa, destinata nel corso del ‘500 a reintegrare e superare il tetto raggiunto alla fine del ‘200. Sul piano economico, la concentrazione della ricchezza, provocata dal crollo demografico del ‘300, stimolò la ripresa degli investimenti - e quindi dello sviluppo tecnologico nell’agricoltura, nell’industria e nel commercio. La produzione agricola crebbe soprattutto per effetto del riutilizzo delle terre abbandonate ma anche per l’aumento della produttività dovuto al diffondersi di innovative pratiche agronomiche, al miglioramento degli attrezzi di lavoro e al ricorso a nuove tecniche di canalizzazione e controllo delle acque fluviali e marine. Lo sviluppo dell’allevamento ovino e bovino stimolò ulteriormente la crescita dell’agricoltura grazie al circolo virtuoso che si innescò tra aumento del foraggio e aumento del concime e della forza da traino animale. Grazie alla crescita della produzione agricola, anche la produzione industriale si risollevò estendendosi a nuove aree sulla base di una maggiore specializzazione regionale: i distretti di maggior sviluppo medioevale si concentrano nella produzione di alta qualità, basata sulle corporazioni artigianali e rivolta al mercato dei beni di lusso; quelli di più recente industrializzazione si indirizzano, invece, a una produzione a basso costo, che utilizzò il lavoro a domicilio e mirò a soddisfare una domanda medio-bassa. Ma è soprattutto il settore commerciale, insieme a quello finanziario a esso ancora strettamente associato, che godette di un vero boom, sostenuto dall’aumento della popolazione e della produzione agricola e industriale. Ne furono gli effetti più evidenti l’apertura delle nuove rotte marittime atlantiche e la creazione di colonie in Africa, Asia e 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – soprattutto America da parte di Spagna e Portogallo. La crescita dell’economia europea trovò poi nell’inflazione - dovuta in parte all’afflusso di metalli preziosi dalle miniere americane ma soprattutto al costante aumento della domanda - un ulteriore propellente, capace di garantire ai ceti imprenditoriali un guadagno supplementare a danno delle rendite nobiliari e dei salari della manodopera. E’ per questo che si può considerare il ‘500 come il secolo di nascita del capitalismo moderno, seppure di un capitalismo ancora più speculativo che produttivo. L’affermarsi delle monarchie nazionali Alla ripresa economica corrispose, sul piano politico, l’emergere e l’affermazione delle monarchie nazionali, primo stadio della formazione degli Stati moderni. La conclusione della guerra dei Cent’anni recise i legami feudali ed eliminò le sovrapposizioni territoriali tra Francia e Inghilterra. Ciò conferì ai due regni quel carattere nazionale che divenne nel tempo il maggior fattore di legittimazione del processo di accentramento del potere nelle mani delle dinastie regnanti. Un decorso analogo, ma con radici meno profonde, si avviò in Spagna all’indomani dell’unificazione dinastica dei regni di Castiglia e di Aragona e del completamento della reconquista. Il resto dell’Europa rimase invece politicamente legato a forme statali tradizionali. Nell’Europa centrale predominavano gli Stati regionali tedeschi e italiani, che avevano conquistato un’ampia autonomia dall’Impero germanico. Questo ormai non solo non era più universale ma era anche sempre meno tedesco e sempre più legato ai domini austriacodanubiani della dinastia degli Asburgo. Nell’Europa orientale predominavano invece monarchie feudali di più recente formazione, come quelle polacca, boema e ungherese. In Russia, infine, emergeva un nuovo impero strutturato però nella forma arretrata del dispotismo autocratico. La spaccatura religiosa dell’Europa La fine del ‘400 segnò l’apertura di un nuovo, lunghissimo ciclo bellico europeo destinato a durare un secolo e mezzo. Ne furono fattori scatenanti la ricchezza economica, il prestigio culturale e, insieme, la debolezza politico-militare degli Stati regionali italiani, che suscitarono le mire espansionistiche delle monarchie nazionali francese e spagnola. La conquista e la spartizione della penisola italica tra Francia e Spagna furono subito ribaltate dall’abile politica matrimoniale dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo che lasciò in eredità al figlio Carlo V - insieme a Spagna, America, Paesi Bassi e Germania - il sogno di una restaurazione del Sacro romano impero. Mentre la monarchia francese, sconfitta, rischiò di essere schiacciata, nel cuore dell’Impero scoppiò la rivolta di Lutero destinata non solo, e non tanto, a infrangere il sogno dell’unità politica dell’Europa ma soprattutto a spezzare per sempre la secolare unità della chiesa cristiana occidentale. La riforma luterana, nata da genuine istanze di reazione religiosa alle degenerazioni morali dell’alto clero e al fiscalismo papale, diventò fattore di coagulo da un lato della volontà di indipendenza dei principi germanici dall’altro degli interessi economici della borghesia tedesca insofferente alla sottrazione di risorse economiche a favore della Curia romana. Grazie all’alleanza con i principi protestanti e addirittura con l’impero turco - che, dopo aver abbattuto il regno di Ungheria, premeva sui confini orientali dell’impero asburgico - il regno di Francia riuscì a sconfiggere il progetto di Carlo V, a ottenere la divisione dell’impero asburgico e a salvare la propria sovranità, nonostante la rinuncia alla penisola italiana. Nel frattempo, però non solo la riforma luterana si era consolidata ed estesa ma aveva fatto da volano a nuovi movimenti protestanti, tra cui spiccava per capacità di diffusione quello calvinista. Il credo protestante, pur diviso in mille rivoli, dilagò per l’Europa, attecchendo perfino in Spagna e in Italia. In Inghilterra Enrico VIII approfittò della situazione per imporre lo scisma anglicano. 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Falliti tutti i tentativi di accordo e di recupero, la Chiesa romana decise, alla metà del ‘500, di reagire con la riorganizzazione dell’Inquisizione e la convocazione del Concilio di Trento, che lancia la controffensiva cattolica contro i movimenti protestanti nel tentativo di restaurare l’unità religiosa europea. La guerra religiosa europea La seconda metà del XVI secolo fu così caratterizzata dal divampare dello scontro violento e generalizzato tra cattolici e protestanti. Si trattò innanzitutto di uno scontro sociale, spontaneo, nella forma dell’aggressività diffusa individuale e di gruppo, tra fedeli delle diverse religioni. Ma si trattò allo stesso tempo di una guerra civile tra fazioni politicoreligiose interne a ogni Stato e di una guerra internazionale tra i vari Stati. A livello internazionale il partito cattolico si coagulò intorno alla Spagna di Filippo II e al suo rinnovato progetto di egemonia imperiale sull’Europa; quello protestante intorno all’Inghilterra di Elisabetta I, che cominciò ad aspirare al ruolo di grande potenza marinara. Ma i paesi in cui il conflitto divampò in modo più sanguinoso furono la Francia dilaniata da una lunghissima guerra civile che rischiò di sfaldare l’ancor gracile struttura della monarchia nazionale - e i Paesi Bassi - teatro della rivolta antispagnola che sfociò nella guerra d’indipendenza dell’Olanda. Dopo essersi a lungo combattute per interposte parti, Spagna e Inghilterra vennero allo scontro diretto. Il tentativo di invasione della Gran Bretagna da parte dell’Invencible Armada fallì e l’Inghilterra ebbe la meglio. Alla fine del ‘500, mentre l’Olanda resisteva tenacemente alla riconquista spagnola, Filippo II perse la partita anche in Francia, dove si impose l’ex protestante Enrico IV di Borbone. Il Cinquecento si chiuse così con una nuova sconfitta del progetto imperiale, ma le guerre e i conflitti religiosi proseguirono ancora per almeno cinquant’anni. A farne le spese furono soprattutto gli “eretici” di ogni genere e specie, “streghe” e “stregoni” - popolani legati ad antiche tradizioni folcloriche di origine pagana -, vagabondi e irregolari. La periodizzazione del Rinascimento La storiografia più recente ha individuato nel 1300 e nel 1630 le date convenzionali più appropriate per marcare i confini cronologici del Rinascimento, e ha inoltre proposto di articolare questo lungo periodo in tre fasi che rappresentano altrettante tappe dello sviluppo della cultura rinascimentale: il primo Rinascimento (1300-1490) o “età della riscoperta” dei classici greco-romani, in cui la cultura rinascimentale nasce in Italia sulla base della ricerca e dello studio delle grandi opere dell’antichità; il Rinascimento maturo (1490-1530) o “età dell’emulazione” dei modelli classici, in cui la cultura rinascimentale giungere a elaborare una proprio originale canone artistico, letterario e filosofico e a diffondersi nei paesi europei limitrofi all’Italia; il tardo Rinascimento (1530-1630) o “età della varietà”, in cui avviene la progressiva diffusione della cultura rinascimentale nelle periferie dell’Europa e addirittura a livello mondiale, dando luogo a diversificati sviluppi del suo canone sulla base di contaminazioni con le varie culture locali. Questa periodizzazione ha unificato il XV e il XVI secolo in un’unica epoca omogenea e l’ha interpretata come un’età a sé stante, con una sua fisionomia peculiare distinta sia dal Medioevo sia dall’età moderna. In questo modo, da un lato, è stata superata la tradizionale polemica tra sostenitori della continuità e fautori della contrapposizione tra Medioevo e Rinascimento, dall’altro, si è posticipato l’inizio dell’età moderna all’affermarsi del metodo scientifico sperimentale con Bacon e Galilei. Questa nuova impostazione storiografica ha comportato anche la reinterpretazione della categoria dell’Umanesimo, non più considerato come un fenomeno culturale diverso e separato, ma come una fase e una componente pienamente rientranti nel grande alveo dell’epoca e della cultura rinascimentali. 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Il denominatore comune del Rinascimento è contenuto nella sua etimologia, cioè nel concetto di “rinascita”, ovvero di nuova nascita, di nuovo inizio. Legato alle diffuse e ricorrenti istanze religiose di renovatio e reformatio che avevano da sempre percorso il basso Medioevo, esso venne declinato non più in riferimento alla sola dimensione trascendente ma anche e soprattutto in relazione a quella terrena. Questo slittamento fondamento dell’identità specifica della cultura rinascimentale - fu reso possibile dall’assunzione del concetto di “ritorno alle origini” come criterio e strumento attuativo della “rinascita” e dalla contemporanea identificazione delle “origini” con l’antichità classica. In questo modo “rinascere” venne a significare rivalutare e valorizzare il patrimonio culturale greco-romano, tornare a ispirarsi alle sue concezioni e ai suoi valori. Le condizioni storiche del Rinascimento Alla base del Rinascimento vi furono i seguenti processi storici: l’affermazione delle signorie e poi dei principati italiani; la “laicizzazione” degli intellettuali; l’immigrazione degli intellettuali bizantini in Europa; l’invenzione e la diffusione della stampa a caratteri mobili. I nuovi intellettuali rinascimentali - che non potevano certo inserirsi nelle università di tradizione scolastica - trovarono sostegno economico e organizzativo dapprima nell’apparato istituzionale dei comuni signorili e poi nel mecenatismo delle corti principesche italiane. Furono Firenze, Venezia, Roma e Napoli - soprattutto dopo la fine delle guerre per l’egemonia (1454) - le capitali della cultura e dell’arte rinascimentali. In queste città nacquero le nuove istituzioni culturali del Rinascimento, alternative alle università. Esse presero generalmente il nome di Accademie, con un esplicito omaggio all’antica scuola fondata da Platone. L’Accademia più importante fu quella fiorentina diretta dal filosofo Marsilio Ficino. Istituita da Cosimo de’ Medici il Vecchio nel 1463, con la donazione della villa di Careggi, era un cenacolo culturale cui facevano riferimento non solo filosofi ma anche poeti e artisti, come Poliziano e Botticelli, e lo stesso Lorenzo de’ Medici. La laicizzazione della figura dell’intellettuale rinascimentale è strettamente connessa al suo nuovo inquadramento istituzionale. Bisogna però chiarire cosa si intende per “laico” in riferimento al Rinascimento. Innanzitutto molti degli intellettuali rinascimentali appartennero al clero, ma a differenza di quelli medievali erano preti secolari (Cusano, Ficino), anziché monaci o frati, oppure quand’anche appartenenti ad ordini monastici (Erasmo, Bruno, Campanella) erano degli “irregolari” che di fatto condussero una vita da laici. Secondariamente, i molti umanisti effettivamente laici (Salutati, Bruni), erano comunque fedeli cattolici, rispettosi dell’ortodossia. Certo non mancarono le eccezioni, come quella di Machiavelli, cui sicuramente si può attribuire la denominazione di laico nel senso di non cattolico, secondo l’accezione oggi più comune. In terzo luogo, su un piano specificamente filosofico, la ripresa e la rinnovata interpretazione di Platone, ma anche di Aristotele, che diedero l’avvio alla filosofia rinascimentale, furono rese possibili dai nuovi e diretti scambi culturali tra intellettuali italiani e bizantini. Dopo un primo contatto in occasione del concilio di Ferrara e Firenze (1439) - convocato per tentare una riunificazione delle Chiese cattolica e ortodossa - la caduta di Costantinopoli (1453) spinse molti dotti bizantini a rifugiarsi in Italia portando con sé le loro biblioteche costituite dai più antichi manoscritti delle opere dei filosofi antichi. L’effetto più importante di questa migrazione intellettuale fu l’acquisizione dell’intero corpus dei dialoghi platonici - l’Europa medievale conosceva solo il Fedone, il Menone e il Timeo - che furono tradotti dal greco al latino dapprima parzialmente dall’umanista Leonardo Bruni e poi da Ficino, che ne pubblicò l’edizione completa nel 1484. Ma oltre ai dialoghi di Platone arrivarono in Italia anche le opere etico-politiche di Aristotele, le Enneadi di Plotino e gli scritti di tutti i neoplatonici nonché alcune opere 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – apocrife del II-III secolo d.C. - il Corpus Hermeticum, gli Oracoli caldaici, gli Inni orfici che pretendevano di tramandare l’antica sapienzia mediorientale ma che in realtà contenevano dottrine salvifiche e magiche elaborate tra il II e il III secolo d.C. Inoltre gli intellettuali bizantini, insieme ai testi originali, veicolarono i loro commenti e le loro interpretazioni di Platone, di stampo neoplatonico. Soprattutto essi avallarono la tesi dell’esistenza di una tradizione filosofica unitaria costituita dall’insieme delle opere da loro trasmesse all’Occidente. Ma la rivoluzione culturale del Rinascimento non può essere storicamente compresa senza tenere conto dell’invenzione e dell’adozione del nuovo sistema meccanico di stampa che permise di aumentare notevolmente la produzione libraria e al contempo di ridurne i costi, favorendo come mai prima, almeno in Europa, la diffusione dei libri. Senza la stampa, è difficilmente pensabile non solo la genesi della filosofia cinquecentesca, ma anche il successo della riforma protestante - le 95 tesi di Lutero e le traduzioni in volgare della Bibbia non sarebbero potute essere divulgate - e la stessa rivoluzione astronomica della seconda metà del ‘500, che presupponeva un’ampia circolazione di dati e teorie. Sintomatico è il fatto che proprio in epoca rinascimentale per la prima volta un intellettuale - Erasmo da Rotterdam - riuscì a mantenersi con i diritti d’autore dei propri libri. La fine del Rinascimento La fine dell’epoca rinascimentale è storicamente legata ai conflitti religiosi interni e internazionali che esplodono nel corso del XVI secolo. Pur gettando le sue radici nello spirito innovatore tipico del Rinascimento, la riforma protestante si sviluppa, infatti, come netta e deliberata reazione alla valorizzazione dell’uomo, alla libertà di pensiero e allo spirito di tolleranza che animavano gli intellettuali rinascimentali. La Chiesa romana, inizialmente culla e promotrice della cultura rinascimentale, con il Concilio di Trento si uniforma allo spirito dogmatico e intollerante impostole dalla concorrenza protestante. Stretta nella morsa dei due opposti fanatismi religiosi, la cultura rinascimentale è la prima e principale vittima dello scontro tra cattolici e protestanti, combattuto anche e principalmente sul terreno dei processi inquisitoriali e della estirpazione di ogni forma di presunto dissenso e differenziazione. I casi emblematici di questa repressione culturale sono quelli dello statista e filosofo inglese Thomas More, giustiziato a Londra dagli anglicani nel 1535; del medico e umanista spagnolo Michele Serveto, bruciato sul rogo dai calvinisti a Ginevra nel 1553; e del filosofo italiano Giordano Bruno, arso sul rogo nel 1600 dai cattolici a Roma. Insieme a loro - e insieme alle migliaia di uomini e soprattutto di donne comuni condannati al rogo per stregoneria nei Paesi cattolici come in quelli protestanti - si spense lentamente tra le fiamme anche la cultura rinascimentale. 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – L’ORIZZONTE FILOSOFICO-SCIENTIFICO L’ETA’ RINASCIMENTALE (XIV-XVI secolo d.C.) La filosofia del primo rinascimento nacque tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 per opera di quel magmatico e ribollente movimento culturale che prese il nome di Umanesimo. In aperta rottura con la cultura della Scolastica, l’Umanesimo lanciò la parola d’ordine della “rinascita” intesa come “ritorno alle origini”, ovvero come rivalutazione della cultura classica greco-romana. Su queste basi gli umanisti rivoluzionarono l’etica cristiana fondandola sull’impegno attivo nel mondo e stabilirono un inedito rapporto Dio-uomo, concependo l’uomo come “immagine” di Dio e collaboratore della creazione divina. L’Umanesimo civile La filosofia rinascimentale ha la sua prima manifestazione nell’Umanesimo, il movimento culturale che si sviluppa in Italia dalla metà del XIV secolo alla metà del XV sulla base della valorizzazione degli studia humanitatis, o humanae litterae, cioè delle discipline letterarie - grammatica, retorica, filologia - e della letteratura considerate massime peculiari manifestazioni del genere umano. Per gli umanisti infatti la ragione coincide con il “discorso”, cioè col linguaggio ordinato e stilisticamente elaborato. I presupposti e le cifre culturali del pensiero rinascimentale vengono lentamente a formarsi nel corso del XIV secolo, sulla spinta degli sconvolgimenti storici di questo periodo. In questo senso le prime tracce della futura cultura rinascimentale possono essere rinvenute in Francesco Petrarca (1304-1374), sul piano letterario, in Giotto (1267-1337) a livello artistico, in William of Ockham (1295-1350) in ambito filosofico. La genesi vera e propria del pensiero rinascimentale si ha però alla fine del XIV con l’affermarsi del primo Umanesimo, denominato anche Umanesimo civile, per il suo legame con le problematiche etiche e politiche dei comuni italiani. Esso si caratterizza come un movimento collettivo di intellettuali consapevoli di condividere un omogeneo progetto culturale e accomunati dall’attività professionale di funzionari al servizio degli Stati italiani. Gli umanisti attuano una consapevole e decisa rottura con la cultura scolastica del XIII e soprattutto del XIV secolo, di cui criticano l’astrattezza teorica, il disimpegno pratico, la condotta religiosa puramente contemplativa e del tutto sbilanciata verso la dimensione trascendente. Il padre dell’Umanesimo civile è il toscano Coluccio Salutati (1331-1406), cancelliere di Firenze e istitutore nel 1397 della prima cattedra italiana di greco. In De saeculo et religione (1381), De fato, fortuna et casu (1396-1399), De tyranno (1400), oltre che nell’imponente Epistolario, Salutati pone sul tappeto le tesi di fondo dell’Umanesimo: la superiorità della vita attiva su quella contemplativa, la vacuità delle indagini scolastiche sulla natura, l’esaltazione della filosofia morale e civile, il primato della volontà sull’intelletto, la valorizzazione della libertà dell’uomo, la necessità di una legittimazione popolare del potere statale. La riflessione di Salutati è proseguita dall’aretino Leonardo Bruni (1374-1444) anch’egli cancelliere a Firenze, traduttore di alcuni dialoghi platonici e delle opere etico-politiche di Aristotele nonché autore dell’opera storica Historiae Florentini populi; dal toscano Poggio Bracciolini (1380-1459), prima segretario apostolico a Roma poi cancelliere fiorentino, scopritore di testi antichi, tra cui il De rerum natura di Lucrezio, autore di vari trattati tra cui De avaritia, De nobilitate, De varietate fortunae, in cui riabilitò la ricchezza come valore sociale; dal fiorentino Giannozzo Manetti (1396-1459), funzionario a Firenze, a Roma e a Napoli, autore del De dignitate et excellentia hominis; dal fiorentino Matteo Palmieri (1406-1475), anch’egli funzionario della Repubblica di Firenze, autore di opere storiche e del trattato Della vita civile. 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Ma gli esponenti più significativi del primo Umanesimo furono il romano Lorenzo Valla (1407-1457), segretario del re di Napoli e poi funzionario papale, e Leon Battista Alberti (1404-1472), nato a Genova da famiglia fiorentina, architetto, pittore, scultore, matematico, scrittore di trattati d'arte e di scienza, poeta e autore di dialoghi filosofici. Il primo deve la sua importanza al dialogo filosofico De voluptate (1431), in cui propose una sintesi tra epicureismo e cristianesimo, e soprattutto al trattato storico-filologico De falso credita et ementita Constantini donatione (1440), in cui dimostrò, sulla base di argomentazioni giuridiche e linguistiche, l’inautenticità del documento storico con il quale il papato legittimava il suo dominio territoriale nel centro Italia. La più importante opera filosofica di Alberti - coniatore dell’espressione homo faber fortunae suae, una delle più fortunate formule dell’antropocentrismo rinascimentale - è il dialogo Della famiglia (14371441), vero e proprio manuale sull’organizzazione e la gestione della vita famigliare, in cui vengono esaltati i valori dell’impegno nella quotidianità e della libertà dell’uomo intesa come capacità di affrontare e vincere il caso grazie alla sua virtù. Niccolò Cusano Il primo Umanesimo di tenore etico-politico si evolve, nel corso del XV secolo, in un secondo Umanesimo di impronta decisamente filosofica. Mentre l’uno si caratterizza soprattutto per le funzioni di critica della visione filosofica medievale e di promozione di nuovi valori morali e civili, il secondo mosse dall’esigenza di costruire una nuova prospettiva filosofica complessiva per dare ai valori umanistici la saldezza di un fondamento metafisico. Grande importanza ha in questa evoluzione il rapporto sempre più intenso che si stringe nella prima metà del ‘400 tra gli intellettuali italiani e gli intellettuali bizantini - prima incalzati e poi definitivamente cacciati dalla Grecia dall’espansione dei turchi ottomani che portano in Italia numerosissime opere filosofiche prima sconosciute. Questo incontro reagisce con l’atmosfera culturale del primo Umanesimo, dominata dalla parola d’ordine del “ritorno alla cultura antica”, dando origine a due nuove correnti filosofiche - il platonismo rinascimentale e l’aristotelismo rinascimentale - che partono entrambe dall’obiettivo di riscoprire, rispettivamente, il vero Platone e il vero Aristotele, in antitesi alle interpretazioni che ne avevano dato i filosofi medioevali. Precursore del platonismo rinascimentale è il tedesco Nikolaus Krebs (1401-1464), italianizzato in Niccolò Cusano o Niccolò da Cusa dal nome della sua città d’origine Kues (Treviri). Studia a Heidelberg, Padova e Colonia, diviene vescovo e cardinale. Nel 1432 partecipa al concilio di Basilea come esponente del partito conciliarista. Nel 1439 aderisce invece al partito papale ed è inviato da papa Eugenio IV a Costantinopoli per organizzare il concilio di Ferrara-Firenze (1439-1443) finalizzato alla riunificazione delle chiese cattolica e ortodossa. Nel 1440 pubblica De docta ignorantia, in cui sostiene che la conoscenza umana ha in Dio il suo limite insuperabile, in quanto essa per costituzione si applica a oggetti finiti mentre Dio è per essenza infinito. Come tale, inoltre, Dio è “coincidenza degli opposti” e dunque è assolutamente incompatibile con la nostra ragione governata dalla legge logica di non-contraddizione. Tuttavia, proprio perché infinito, Dio comprende in sé tutte le cose e tutte le cose sono raffigurazioni contratte, cioè limitate e determinate, di Dio. In altre parole, l’universo è l’esplicitazione di Dio, Dio l’implicazione dell’universo. Esso, per Cusano, può essere chiarificato sulla base di tre distinti concetti: a) complicazione, b) esplicazione, c) contrazione. Dio è innanzitutto “complicazione” (da cum+plico=piego insieme), cioè avvolgimento o ripiegamento di tutte le cose, così come l’unità lo è dei numeri o il punto di tutte le figure geometriche. Da questo punto di vista tutti gli enti sono Dio in Dio. In secondo luogo Dio è “esplicazione” (da ex+plico= piego fuori da), cioè dispiegamento o svolgimento di tutte le cose nella loro molteplicità individuale, così come l’unità si dispiega 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – nel 3 o il punto nel triangolo. In questo senso Dio è in tutte le cose ciò che ogni cosa è nella sua particolarità. Infine Dio è “contrazione” (da cum+traho=traggo insieme), cioè delimitazione o circoscrizione di tutte le cose, sia nel senso che Dio le contiene e le unifica tutte in sé, sia nel senso - opposto ma complementare - che ogni cosa è una manifestazione ridotta di Dio. Il concetto di contrazione dunque sintetizza quelli di complicazione ed esplicazione, esprimendo la convergenza e l’unità di tutti e tre. Per questa concezione Cusano viene accusato di panteismo ma riesce ad evitare la condanna per eresia anche perché si mantiene sempre fedele alla distinzione tra l’infinità attuale di Dio e l’infinità potenziale - o indefinitezza - dell’universo. Pur con questa attenuazione, Cusano traduce la sua nuova concezione dell’universo in importantissime innovazioni cosmologiche, quali la negazione del centro e della circonferenza del cosmo, l’abolizione della distinzione tra sfera terrestre e sfera celeste e dell’immobilità della Terra, la presenza di vita su altri pianeti, l’irregolarità delle orbite e delle velocità planetarie. Nel successivo De conjecturis (1441) Cusano mette in luce i limiti della conoscenza umana anche relativamente all’universo, in quanto illimitato e indeterminato. Solo la conoscenza di cui l’uomo stesso, come immagine di Dio, è creatore - per esempio la matematica - può essere completa, ma essa trova comunque il suo limite nel fatto che ha solamente un rapporto di analogia con la realtà naturale creata da Dio. Di conseguenza la conoscenza umana è, per Cusano, sempre e solo congettura, cioè non può mai essere completa e definitiva, ma è destinata a un perenne sforzo di approssimazione al suo oggetto. Molto importante anche il saggio La pace della fede (1453), scritto in seguito alla caduta di Costantinopoli, in cui Cusano afferma l’esistenza di un’unica fede religiosa dell’umanità di cui tutte le religioni storiche, monoteistiche e politeistiche, non sono altro che diversificate manifestazioni rituali. In questa prospettiva, Cusano si pronuncia decisamente a favore della tolleranza religiosa e della convivenza pacifica tra le diverse religioni mondiali. Nonostante le indubbie novità della sua filosofia, Cusano rimane in gran parte legata al pensiero medievale, venendo così a rappresentare una figura di transizione tra il platonismo medievale e il nuovo platonismo rinascimentale. Il platonismo rinascimentale e l’ermetismo Nella seconda metà del ‘400, Marsilio Ficino, attingendo contemporaneamente agli umanisti e al Cusano, fondò la nuova scuola del Platonismo rinascimentale, innestando sincreticamente sul corpo della filosofia platonica e neoplatonica le dottrine magicosapienziali dell’antico Medio Oriente. Nello stesso periodo, Giovanni Pico della Mirandola aggiunse agli innesti ficiniani quelli di Aristotele e della Cabbala ebraica e soprattutto radicalizzò le tesi di Ficino portando il pensiero rinascimentale a varcare per la prima volta le colonne d’Ercole dell’ortodossia cattolica e aprendo così la strada alla filosofia del ‘500. Il platonismo rinascimentale è uno dei più tipici esempi di sincretismo filosofico, cioè di contaminazione e fusione di più e diversificate tradizioni di pensiero. Sul tronco della filosofia di Platone - già di per sé riveduta e corretta secondo l’interpretazione neoplatonica - i filosofi rinascimentali innescarono il platonismo cristiano della Patristica e soprattutto la tradizione sapienziale orientale, trasmessa da alcune opere spurie portate in Occidente dai dotti bizantini e ritenute antichissime: gli Oracoli caldaici attribuiti a Zoroastro (profeta religioso iranico del VII secolo a.C.), il Corpus hermeticum attribuito a Ermete Trismegisto (personificazione del dio egizio Thoth, equivalente dell’Hermes-Mercurio greco-romano) e gli Inni orfici attribuiti a Orfeo (mitico poeta greco del VII secolo a.C.). Si trattava in realtà di scritti apocrifi composti da vari autori tra il II e il III secolo d.C., cioè nel periodo di genesi del neoplatonismo, che rappresentavano il tentativo della cultura “pagana” di elaborare un’alternativa esoterica al cristianesimo. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Tra di essi, durante il Rinascimento, assunse un rilievo particolare il Corpus Hermeticum, tradotto da Ficino prima ancora delle opere di Platone e Plotino, in omaggio alla sua presunta priorità cronologica e filosofica. Ermete Trismegisto (in greco “tre volte grandissimo”) era infatti falsamente ritenuto un personaggio reale contemporaneo di Mosé e suo emulo filosofico. Anello di congiunzione tra Zoroastro e Orfeo, veniva considerato la fonte della filosofia di Platone e insieme la prova dell’unità di fondo del platonismo e della tradizione religiosa ebraico-cristiana. Il Corpus Hermeticum è, in realtà, un insieme di 18 trattati, di autori diversi e sconosciuti, contenenti una dottrina spiritualistica della salvezza basata sull’esistenza di un dio unico e onnipotente e soprattutto di un figlio di dio chiamato Logos, come nel prologo del Vangelo di Giovanni. L’ermetismo, inoltre, concepiva l’uomo come un dio decaduto per amore della Natura terrestre e gli additava la via della reintegrazione della sua condizione originaria di puro essere spirituale. Se relativamente alla dottrina teologica i trattati ermetici sembravano conformi all’Antico Testamento e addirittura un’anticipazione profetica del Nuovo, per quanto riguarda la dottrina antropologica risultavano del tutto funzionali all’antropocentrismo rinascimentale. In questo senso, in particolare, la sentenza “l’uomo è un grande miracolo”, contenuta in uno dei trattati, divenne un vero e proprio slogan del pensiero rinascimentale. Non bisogna dunque meravigliarsi se Ermete Trismegisto divenne una delle massime autorità filosofiche e scientifiche del Rinascimento, invocata oltre che da Ficino e Pico anche da Copernico e Keplero, e se all’interno del magmatico pensiero rinascimentale si formò una autonoma corrente ermetica che ebbe in Giordano Bruno il suo più consapevole esponente filosofico e nel medico inglese William Gilbert il più significativo interprete scientifico. E indubbiamente l’ermetismo diede almeno 3 fondamentali apporti allo sviluppo della cultura rinascimentale. Il primo, di carattere squisitamente filosofico, fu la teoria dell’ “indiamento” - cioè della possibilità per l’uomo-dio di congiungersi mentalmente a Dio e di condividerne la potenza intellettiva -, culmine dell’antropocentrismo rinascimentale. Il secondo, con valenza più specificamente astronomica, fu il culto del Sole - considerato dall’ermetismo immagine visibile di Dio - che costituì uno dei più potenti sostegni metafisici della teoria eliocentrica e quindi della rivoluzione astronomica . Il terzo contributo, infine, di grande importanza per la genesi della mentalità tecnicoscientifica, fu la teoria della magia naturale. Uno dei 18 libri del Corpus Hermeticum era infatti un trattato di magia, intitolato Asclepio (il nome del dio greco della medicina, figlio di Apollo), già noto al Medioevo in una versione latina erroneamente attribuita ad Apuleio. In questa forma l’Asclepio era stato letto anche da S. Agostino che gli aveva conferito il suo autorevole avallo. Questo trattato diventò così la fonte e al contempo il certificato di legittimità religiosa di uno dei prodotti culturali più innovativi della filosofia rinascimentale: appunto la magia naturale. Lo sviluppo della filosofia rinascimentale nel xvi secolo Una volta definito lo statuto del “dio umano” e dei suoi rapporti con Dio, nel ‘500 la filosofia rinascimentale passa a delineare una nuova immagine della natura e una nuova concezione della società umana. In relazione alla scienza della natura, in concorrenza con il platonismo rinascimentale si sviluppa l’aristotelismo rinascimentale, che ha i suoi centri nelle università specializzate nelle discipline naturalistiche (medicina, fisica, psicologia, logica) come quelle di Bologna, Pavia e soprattutto Padova. Principale esponente di questo indirizzo è Pietro Pomponazzi (1462-1525), il quale - sulla base di un ritorno al vero Aristotele in antitesi a quello della Scolastica - elaborò un’immagine della natura come ordine causale autonomo e necessario. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Dal canto suo il platonismo rinascimentale seppe rinnovarsi e svilupparsi dando vita al nuovo indirizzo del naturalismo rinascimentale, i cui principali esponenti furono Bernardino Telesio (1509-1588), Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1638), che da un lato proclamarono la totale autonomia dei principi e delle forze della natura e dall’altro ne tennero però ferma la concezione animistica e vitalistica. Ma in collegamento con la riflessione sull’ordine naturale, si sviluppò anche quella sull’ordine sociale che si caratterizzò per l’impronta decisamente utopistica. Ne furono voci emblematiche Thomas More (1478-1535) - che immaginò una società perfetta basata sull’abolizione della proprietà privata e la completa socializzazione degli individui - e Campanella che disegnò un modello sociale anch’esso collettivistico ma fondato su un cristianesimo rinnovato e legato a un progetto politico di stampo teocratico. L’aristotelismo rinascimentale Il ritorno al platonismo, come reazione all’aristotelismo scolastico, è il tratto dominante e caratterizzante della filosofia rinascimentale, ma non ne esaurisce il quadro innovativo. Accanto alla riviviscenza marginale di scuole quali quelle epicurea, scettica e stoica, nelle università italiane di Pavia, Bologna e Padova si viene affermando una nuova interpretazione dell’aristotelismo legata alla ricerca nei campi della fisica, della psicologia e della logica, ma soprattutto della medicina e della biologia. La revisione in senso decisamente immanentistico del pensiero di Aristotele riceve un forte impulso nell’ultimo trentennio del ‘400 dalla traduzione e pubblicazione delle opere del filosofo arabo Averroé (Ibn Rushd, XII secolo) e del commentatore greco Alessandro di Afrodisia (II-III sec. d.C.), che entrambi, seppur in modo diverso, avevano messo in dubbio che Aristotele avesse teorizzato l’immortalità dell’anima individuale. Il principale esponente dell’aristotelismo rinascimentale è il mantovano Pietro Pomponazzi (1462-1525), che si laurea in medicina a Padova, dove inizia il suo insegnamento prima di passare a Ferrara e infine a Bologna. Nel 1516 pubblica il De immortalitate animae, in cui confuta la possibilità di dimostrare razionalmente l’immortalità dell’anima, sostenendo che questa è una verità basata unicamente sulla fede. Pomponazzi viene denunciato alla Curia romana, ma riesce ad evitare il processo grazie all’appoggio del cardinal Bembo e dell’università di Bologna. Intorno al 1520 scrive i trattati De incantationibus e De fato, pubblicati postumi nel 1556 e 1557. Nel primo Pomponazzi sostiene che tutti i fatti terreni dipendono da leggi naturali volute da Dio e che anche i miracoli e i prodigi magici sono fenomeni naturali come tutti gli altri, solo meno frequenti. Nel secondo, sulla base della concezione astrologica secondo la quale Dio governa il mondo utilizzando le influenze astrali, teorizza un rigoroso determinismo naturalistico concependo la libertà umana come capacità di conoscere e di attuare intenzionalmente il proprio destino. Merito principale di Pomponazzi e degli altri aristotelici rinascimentali è quello di aver sviluppato la riflessione sul metodo scientifico, attribuendo alla verifica empirica il ruolo di criterio decisivo della verità scientifica e ritenendolo perciò superiore al ragionamento logico-deduttivo e alla stessa autorità degli scritti aristotelici. I “maghi naturali” del ‘500 La teoria ficiniana della magia naturale fu il volano di una autonoma corrente magica del pensiero rinascimentale che ebbe nel XVI secolo un rigoglioso sviluppo. Il primo mago rinascimentale fu Agrippa di Nettesheim (1486-1535) autore di De occulta philosophia (1531), che fuse la teoria ficiniana dell’animazione universale con la teoria cabalistica della tripartizione gerarchica del cosmo in mondo fisico, celeste e intelligibile. Agrippa pertanto distinse tre tipi di magia - naturale, celeste e religiosa - e ne indicò i rispettivi fondamenti scientifici nella fisica, nella matematica e nella teologia. Ma soprattutto Agrippa sottolineò che il potere magico si basa sull’autoperfezionamento 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – interiore del mago. Questa è infatti condizione necessaria per immedesimarsi con la perfezione dell’anima universale e riuscire così a persuadere gli enti e le forze naturali ad agire secondo i propri voleri. Un altro grande mago fu Gerolamo Fracastoro (1483-1553), che scrisse il De sympathia et antipathia rerum (1546). Egli interpretò in senso decisamente più fisico i legami simpatetici intercorrenti tra tutte le cose. Per lui infatti ogni ente naturale agisce sugli altri attraverso un flusso di atomi, cioè per contatto materiale diretto. Su queste basi Fracastoro svolse studi fondamentali sulle malattie contagiose, arrivando molto vicino al concetto moderno di microbo. Paracelso (Theophrast Bombast von Hohenheim) (1493-1541) fu il più famoso dei maghi cinquecenteschi, tanto da essere trasformato in un personaggio leggendario. In realtà egli diede un contributo decisivo alla nascita della medicina moderna. Rompendo con la teoria degli umori di Galeno, Paracelso, infatti, per primo praticò una diagnosi e una terapia della malattia basate sugli elementi chimici. In questo senso egli considerò l’alchimia la base della medicina e ne promosse la trasformazione in scienza della preparazione dei farmaci. Egli stesso contribuì a questa evoluzione elaborando una teoria chimica che riconduceva tutti gli elementi naturali a tre principi fondamentali: lo zolfo, il mercurio e il sale. A sua volta Gerolamo Cardano (1501-1576), autore di Ars magna (1545), De subtilitate (1547), De rerum varietate (1557), ebbe una grande importanza per lo sviluppo della matematica perché nell’ambito della sua ricerca magica scoprì un metodo per risolvere le equazioni di terzo grado. Egli inoltre inventò il giunto “cardanico”, che nelle costruzioni meccaniche permette la trasmissione di moto rotatorio tra due assi geometrici concorrenti in uno stesso punto. Non da meno fu Giambattista della Porta (1535-1615), cui si devono le opere Magia naturalis (1558) e De refractione (1593), membro, come Galilei, dell’Accademia dei Lincei e autore di scoperte e applicazioni sperimentali come quella della camera oscura (1593) e quella della lanterna magica. Si devono a lui anche la prima descrizione di un rudimentale termometro e, secondo alcuni, l’invenzione del primo cannocchiale. Di certo nel suo trattato sulla rifrazione egli espose rigorosamente le proprietà fisiche delle lenti gettando così le basi per la nascita dell’ottica moderna. Infine, un ruolo di particolare rilievo per lo sviluppo scientifico ebbe il mago ermetico inglese William Gilbert (1544-1603), autore del De magnete (1600). Sulla base della dottrina dell’animazione universale, egli studiò i fenomeni elettrici, stabilendo la distinzione tra corpi isolanti e corpi conduttori, e quelli magnetici, definendo l'induzione magnetica. Ma soprattutto, concepì per primo la Terra come un enorme magnete e elaborò una spiegazione delle maree basata sull’attrazione magnetica esercitata dalla Luna sul nostro pianeta. Le teorie magnetiche di Gilbert, riprese da Keplero, diedero un decisivo contributo alla rivoluzione astronomica. La rivoluzione astronomica Per “rivoluzione astronomica” si intende quel processo di radicale e relativamente rapido cambiamento della scienza astronomica durante il quale l’antico paradigma geocentrico aristotelico-tolemaico fu messo in discussione e progressivamente soppiantato dal nuovo paradigma eliocentrico. Convenzionalmente possiamo indicare il suo inizio nel 1543 - anno di pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium dell’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) - e la sua conclusione nel 1632, anno in cui Galileo Galilei pubblicò il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. In base a questa periodizzazione, la rivoluzione astronomica può essere considerata l’avvio e la prima fase della rivoluzione scientifica, che poi proseguì e raggiunse il suo culmine con Newton alla fine del ‘600, assumendo come scienza regina la fisica meccanica, ma portando al contempo a compimento la nuova astronomia eliocentrica e determinandone così il successo definitivo nella comunità scientifica. 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – A Copernico va il merito della paternità della teoria eliocentrica moderna, tanto che l’espressione “rivoluzione copernicana” è usata spesso come sinonimo di rivoluzione astronomica. Dopo aver studiato a lungo in Italia, dove assorbì la cultura umanistica, Copernico insoddisfatto per la complicatezza e le molteplici versioni della teoria geocentrica, ricerca e trova nei testi classici testimonianze dell’antica teoria eliocentrica pitagorica, la mette alla prova e giunge alla conclusione che essa è in grado di offrire una spiegazione molto più semplice, ordinata e chiara dei moti degli astri. Si mette quindi all’opera ed elabora un nuovo sistema di calcoli matematici delle posizioni e dei moti planetari sulla base dei presupposti della centralità e fissità del Sole e del movimento di rivoluzione intorno al Sole della Terra e degli altri pianeti allora noti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno). Tale sistema matematico era tanto preciso quanto quello tolemaico, ma secondo Copernico si presentava molto più semplice e ordinato. In realtà la maggiore semplicità c’era, ma era relativa in quanto la teoria copernicana, per riuscire a collimare con le osservazioni empiriche, ricorreva alla combinazione di 36 circoli orbitali contro i 40 di Tolomeo. Il ricorso a un numero di circoli orbitali di gran lunga superiore a quello dei pianeti è dovuto al fatto che Copernico restò vincolato alla tesi aristotelicotolemaica secondo cui i pianeti si muovono in modo perfettamente circolare e uniforme perché sono infissi sulle circonferenze maggiori di gigantesche sfere cristalline (e dunque trasparenti) concentriche e semoventi. La teoria copernicana, d’altra parte, presentava anche altri elementi di conservazione. Copernico mantenne infatti nella sua teoria alcune tesi aristoteliche quali la finitezza e la sfericità del cosmo, seppur di dimensioni più grandi, nonché la distinzione tra regione terrestre e regione celeste. A spingere la rivoluzione astronomica oltre i limiti di Copernico, fu il danese Tyge (latinizzato in Tycho) Brahe (1546-1601), grande astronomo, ma anticopernicano. Egli infatti - di formazione scolastica e fortemente empirista - costruisce un modello astronomico, misto di geocentrismo ed eliocentrismo, secondo il quale i pianeti girano sì intorno al Sole ma questo a sua volta gira intorno alla Terra, ferma al centro dell’universo. Ciononostante, le numerosissime osservazioni dei moti astrali e le la loro precisa misurazione permettono a Brahe due scoperte rivoluzionarie: la prima è l’apparizione e la sparizione, dopo alcuni mesi, di una stella (del tipo che oggi chiamiamo nova), che attesta che anche gli astri sono soggetti a generazione e corruzione; la seconda è l’apparizione di una cometa che percorre un’orbita ellittica trasversale a una distanza dalla Terra di gran lunga maggiore rispetto a quella della Luna. Brahe ne deduce che la cometa interseca le orbite dei pianeti e che le sfere cristalline dovrebbero essere infrante al suo passaggio. Le scoperte di Brahe mettono così in crisi sia la distinzione tra sfera celeste e sfera sublunare sia l’esistenza delle sfere cristalline. A trarre tutte le conseguenze teoriche delle scoperte osservative di Brahe è il suo assistente e successore Johannes Kepler (1571-1630). Tedesco di nascita e formazione, Keplero è un platonico rinascimentale e un acceso sostenitore della teoria eliocentrica. Come Copernico, Keplero è infatti convinto che l’universo sia governato da un ordine matematico e dunque possieda per essenza semplicità e armonia. Tale convinzione emerge in modo evidente nella sua prima grande opera astronomica, Mysterium cosmographicum (1609), nella quale egli cerca di spiegare numero, posizioni e distanze dei pianeti sulla base della loro inclusione nei cosiddetti solidi platonici (cubo, tetraedro, ottaedro, dodecaedro, icosaedro, sfera). Questa teoria neopitagorica, priva di valore scientifico, ha però il merito di indirizzare Keplero verso l’elaborazione delle 3 leggi che portano il suo nome e che egli espose in Astronomia nova (1609) e in Armonie del mondo (1619). La prima legge di Keplero stabilisce che l’orbita dei pianeti è un’ellisse di cui il Sole occupa uno dei fuochi: cade la tesi aristotelica della perfetta circolarità delle orbite, ma viene al tempo stesso sostituita da una legge non solo più rispondente alle osservazioni empiriche ma ugualmente geometrica, dal momento che la regolarità matematica dell’ellisse non ha nulla da invidiare a quella del cerchio. La seconda legge di Keplero sancisce la variazione di 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – velocità dei pianeti durante i loro moti di rivoluzione, scoprendo che essi accelerano intorno al perielio (il punto dell’orbita più vicino al Sole) e rallentano intorno all’afelio (il punto dell’orbita più lontano dal Sole): anche in questo caso alla distruzione di una regolarità fittizia - la velocità uniforme - corrisponde la costruzione di un nuovo tipo di regolarità - la variazione di velocità avviene in modo costante e matematicamente determinabile - che in più trova riscontro effettivo nella realtà. Ma il capolavoro di Keplero è la terza legge, secondo la quale i quadrati dei tempi di rivoluzione dei pianeti stanno tra loro nella stessa proporzione diretta dei cubi delle loro distanze medie dal Sole. Per Keplero, inoltre, il Sole non è soltanto il centro geometrico dell’universo, come per Copernico, ma anche e soprattutto la causa fisica del movimento di tutti i pianeti. Esso infatti, secondo Keplero, essendo dotato di un’anima, ruota su se stesso e ruotando emana tutt’intorno una forza di tipo magnetico la quale - a seconda del polo che i pianeti gli rivolgono nel corso delle loro rivoluzioni - alternativamente li attrae e li respinge mantenendoli così in perenne rotazione intorno a sé. Con questa teoria animisticomagnetica Keplero dà una spiegazione fisica della II e della III legge: i pianeti più distanti sono più lenti e ogni pianeta rallenta avvicinandosi all’afelio poiché la forza magnetica si indebolisce quanto più si irradia lontano dal Sole. In questo modo, Keplero riesce per primo a spiegare matematicamente il movimento dei pianeti in modo del tutto corrispondente alle osservazioni empiriche senza ricorrere alle sfere cristalline, cioè sulla base unicamente di sette circoli orbitali (quelli dei pianeti allora noti, più la Luna). Keplero dà così un contributo decisivo all’affermazione della teoria eliocentrica. Questa, però, rimane ancora priva di conferme empiriche: le fornirà Galilei, grazie al cannocchiale. Il naturalismo rinascimentale Il ‘500 rappresenta una sorta di terzo atto dell’Umanesimo, quello, ad un tempo, della sua massima fioritura, della sua cristallizzazione e infine del suo superamento ad opera della filosofia scientifica moderna. I grandi filosofi cinquecenteschi portano alle estreme conseguenze sia la tendenza sincretistica sia quella sistematico-enciclopedica del platonismo rinascimentale, elaborando ampi e complessi sistemi metafisici che hanno il loro comune denominatore nella nozione di Natura intesa come immenso organismo vivente. Iniziatore del naturalismo rinascimentale è il cosentino Bernardino Telesio (15091588), che si laurea a Padova, viaggia per l’Italia e infine si ritira per una decina di anni in un convento calabrese dove compone il suo capolavoro, il De rerum natura iuxta propria principia, pubblicato parzialmente nel 1565 e in edizione completa nel 1586. Come indicato dal titolo, il programma di Telesio è quello di svolgere un’indagine della natura sulla base di principi esclusivamente naturali - caldo, freddo, massa corporea e sensibilità universale - in diretta polemica con le interpretazioni metafisiche sia aristotelica sia neoplatonica. Nonostante l’ortodossia cattolica del suo autore, l’opera di Telesio è messa all’indice dalla Chiesa controriformata. Ma il più emblematico esponente del naturalismo cinquecentesco e, forse, dell’intero pensiero rinascimentale, è Giordano Bruno (1548-1600). Nativo di Nola, piccolo borgo campano, studia a Napoli e, per proseguire gli studi, a 17 anni si fa novizio domenicano, pur non condividendo i dogmi della trinità e dell’incarnazione. Nel 1572 è ordinato sacerdote e 3 anni dopo consegue il dottorato in teologia. Entusiasta lettore di Erasmo da Rotterdam, nonostante il divieto ufficiale dell’ordine domenicano, è accusato di eresia dai suoi superiori e nel 1576 fugge a Roma, quindi a Genova e poi a Torino, Venezia e Padova. Nel 1578 si reca a Ginevra, aderendo formalmente al calvinismo, poi a Tolosa e quindi, nel 1581 a Parigi, dove si lega al circolo dei politiques ed entra in contatto con lo stesso Enrico III, cui dedica la sua prima opera significativa, De umbris idearum, un trattato di tecniche di memorizzazione a sfondo magico-astrologico. Nel 1583 Bruno sbarca in Inghilterra 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – dove, dopo essersi scontrato con i docenti dell’università di Oxford per le sue tesi copernicane, scrive e pubblica numerose opere: i dialoghi la Cena delle Ceneri (1584) e De infinito, universo et mondi (1584), di argomento cosmologico, in cui si propone come alfiere della teoria copernicana e la interpreta in modo estensivo e radicale come la realistica descrizione fisica del nostro sistema solare all’interno di un universo di estensione infinita e popolato da infiniti sistemi solari simili al nostro, sul fondamento di una cosmologia panteistica secondo cui l’universo è un immenso organismo vivente e gli astri grandi esseri animati; il dialogo De la causa, Principio et Uno (1584), in cui Bruno espone la sua metafisica della natura come Vita-materia infinita, rielaborando originalmente il neoplatonismo in senso materialistico e costruendo così il fondamento ontologico della sua cosmologia; i dialoghi Lo spaccio de la Bestia trionfante (1584), Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’Asino Cillenico (1585) e De gl’Eroici Furori (1585), di argomento eticoreligioso, nei quali Bruno propone gli ideali morali dell’operosità intellettuale e manuale, della giustizia basata sulla ricompensa del merito individuale e dell’unione estatica con il Dio-Natura in aperta polemica con luteranesimo e calvinismo e più in generale con il cristianesimo accusato di essere una religione “asinina”, espressione della decadenza subita dalla civiltà con la fine dell’epoca antica. Tornato a Parigi, non trovando più un clima politico a lui favorevole, Bruno decide di proseguire il suo pellegrinaggio in Germania, soggiorna a Wittenberg e Praga e infine si ferma per un anno a Francoforte dove nel 1590 pubblica le nuove opere scritte nel frattempo: i trattati metafisici De triplici minimo et mensura e De monade, numero et figura, nei quali approfondisce la sua ontologia sulla base di una rielaborazione, da un lato, della teoria atomistica della materia, in cui gli atomi però sono interpretati in senso qualitativo come unità viventi; dall’altro della teoria pitagorico-platonica della matematica come ordine razionale nascosto, ad un tempo quantitativo e simbolico, della realtà; il trattato di astronomia De immenso et innumerabilis seu de universo et mundis (L’immenso e gli innumerevoli ossia l’universo e i mondi), in cui Bruno sviluppa e approfondisce gli aspetti più propriamente scientifici della sua cosmologia riprendendo la teoria delle comete di Tycho Brahe e sostenendo tesi anticipatrici quali: l’esistenza di infiniti sistemi solari formati da soli e pianeti alcuni dei quali simili alla Terra e abitati da specie viventi anche umane; la classificazione degli astri in pianeti e stelle: i primi privi di luce propria e dotati di un moto di rivoluzione, le seconde aventi le stesse caratteristiche del Sole; il moto di rotazione sul proprio asse del Sole e di tutti i corpi celesti; l’inesistenza delle sfere cristalline; il movimento autonomo di tutti i corpi celesti a causa di “un certo impulso interno”; la non perfetta circolarità e la velocità variabile dei moti planetari; la generazione, la trasformazione e la distruttibilità di tutti i corpi celesti; l’uniformità delle leggi naturali che governano l’universo e l’abolizione di ogni differenza tra fisica terrestre e fisica celeste. Nel 1591, su invito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, che voleva da lui lezioni di mnemotecnica, Bruno si trasferisce a Venezia, probabilmente nella speranza di ottenere un insegnamento a Padova e di poter meglio propagandare il suo progetto di riforma scientifica e morale. Denunciato come eretico dallo stesso Mocenigo, Bruno, arrestato e processato dagli inquisitori veneti, si dichiara pentito e abiura i suoi errori. Ma il Sant’Uffizio dell’inquisizione chiede e ottiene l’avocazione del processo a Roma e l’estradizione dell’imputato. Nel 1593 Bruno viene trasferito nel carcere dell’inquisizione romana e subisce un lungo processo che termina nel 1599 con un verdetto di condanna per 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – eresia e la richiesta di abiura. Bruno rifiuta di abiurare e il 17 febbraio 1600 viene bruciato vivo in Campo dei Fiori. Una vita e una sorte simile a quella di Bruno, ha Tommaso Campanella (1586-1639), nato a Stilo in Calabria da famiglia contadina ed entrato fin da ragazzo nell’ordine domenicano. Insoddisfatto dell’aristotelismo, durante gli studi teologici a Cosenza legge l’opera di Telesio e ne diventa appassionato sostenitore. Successivamente la sua formazione filosofica si arricchisce con lo studio delle opere dei medici antichi, della tradizione platonica nonché del Corpus hermeticum. Tra il 1589 e il 1592 Campanella soggiorna a Napoli dove entra in rapporto con il mago rinascimentale Giovanbattista Della Porta e scrive Il senso delle cose e la magia (1604), in cui espone la sua concezione della fisica improntata a una sintesi tra il sensismo di Telesio e l’animismo del platonismo rinascimentale che ha nella magia il suo naturale fine pratico. Denunciato nel 1592 per pratiche magiche, viene processato dai suoi superiori e gli viene ordinato di professare l’aristotelismo e di tornare a Stilo. Campanella, invece, fugge da Napoli e si rifugia a Firenze, Bologna e infine a Padova, dove approfondisce gli studi di medicina, fa amicizia con Galilei e ritrova Della Porta, anch’egli fuggiasco. Ma in seguito a nuove denunce, nel 1594 Campanella è arrestato, torturato, estradato a Roma, sottoposto a processo e infine condannato, nonostante l’intelligente e sincera difesa della sua ortodossia. Costretto all’abiura, riabilitato, nuovamente denunciato e arrestato, nel 1598 è obbligato a tornare a Stilo, dove organizza una congiura per rovesciare le autorità politiche e religiose locali e instaurare una repubblica basata sulla comunanza dei beni e l’uguaglianza sociale. Scoperta la congiura, Campanella è arrestato dagli spagnoli, trasferito nelle carceri di Napoli e processato per ribellione e per eresia. Sottoposto a tortura, confessa, e si salva dalla pena capitale fingendo di essere diventato pazzo. Rimane comunque in carcere per 26 anni, durante i quali scrive le sue opere più importanti - la Città del Sole, la Teologia e la Metafisica - finalizzate a dare un nuovo fondamento filosofico al cattolicesimo. Nella Città del Sole Campanella espone il suo modello ideale di Stato, la cui attuazione è da lui affidata alla piena restaurazione del potere temporale del papa su tutta la cristianità. Nella Teologia e nella Metafisica la trinità di Dio è interpretata come sintesi di potenza, sapienza e amore (o volontà). Essi sono le tre “primalità”, cioè i tre principi costitutivi di ogni cosa: la potenza è il fondamento dell’esistenza, la sapienza della sensibilità universale e quindi della conoscenza, l’amore della tendenza alla conservazione di sé e della specie. Ma mentre in Dio le tre primalità sono infinite, negli enti naturali, commisti di essere e di nulla, esse sono limitate dall’impotenza, dall’ignoranza e dall’odio, che sono le primalità del nulla inteso come negazione relativa dell’essere. Sulla primalità della sapienza, Campanella costruisce la sua teoria della conoscenza, ispirata ad Agostino, secondo cui il principio dell’attività conoscitiva è l’autocoscienza, cioè la conoscenza innata che ogni anima ha di se stessa. E’ questa conoscenza diretta, infatti, che permette la conoscenza indiretta e aggiuntiva delle altre cose, che altro non è che modificazione dell’autocoscienza originaria. Conoscere qualcos’altro significa dunque, in un certo senso, trasformarsi in esso: da questo punto di vista se la conoscenza del mondo fisico oscura e aliena l’autocoscienza, quella di Dio la purifica e la rende simile a lui. Scarcerato nel 1626, di nuovo arrestato e recluso per altri due anni, nel 1929 Campanella viene definitivamente prosciolto da tutte le accuse e può godere di alcuni anni di libertà e perfino del favore papale. Ma nel 1934, di nuovo al centro di attacchi e accuse, fugge a Parigi dove, ben accolto da Luigi XIII e dagli accademici della Sorbona, trascorre gli ultimi anni della sua vita nella cura dell’edizione delle sue opere. Il pensiero politico rinascimentale Il naturalismo rinascimentale non esaurisce, però, il quadro dello sviluppo del pensiero umanistico. Infatti se da un lato questo si evolve nel ‘500 in una direzione metafisicoenciclopedica, dall’altro esso segue anche una direzione evolutiva opposta di tipo 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – specialistico. In questa seconda direzione s’inserisce il filone di pensiero politico che approfondisce e sviluppa l’ispirazione civile del primo Umanesimo. Il primo, decisivo esponente di questo filone è il fiorentino Niccolò Machiavelli (14691527). Di formazione umanistica, nel maggio 1498 entra nella carriera politicodiplomatica ed è nominato segretario della seconda cancelleria della repubblica di Firenze. Tra il 1499 e il 1511 conduce 35 missioni diplomatiche in Toscana, delle quali le più importanti sono quelle nel Centro Italia, presso Cesare Borgia, detto il Valentino, e in Francia. In seguito alla restaurazione dei Medici (1512), Machiavelli si ritira a vita privata dedicandosi alla scrittura delle sue opere principali: i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Il Principe, che saranno pubblicate postume. La prima contiene il fondamento storico della teoria politica di Machiavelli: l’idea della sostanziale immutabilità della natura egoistica dell’uomo, la tesi dell’evoluzione ciclica delle forme di governo degli Stati, l’individuazione nella repubblica romana, in quanto basata su una costituzione mista, del modello istituzionale ideale. Nel Principe, invece, Machiavelli espone il suo progetto politico realistico di Stato basato sul potere assoluto di un individuo la cui azione di governo abbia un unico scopo: il rafforzamento dello Stato stesso. Nel novembre 1520 viene stipendiato per due anni dai Medici per scrivere le Istorie fiorentine. L'anno seguente, nell'imminenza della guerra tra la lega di Cognac e Carlo V, ottiene finalmente un incarico politico di rilievo. Ma la sconfitta della lega favorisce nel 1527 la cacciata dei Medici da Firenze e la breve restaurazione della Repubblica. Invano Machiavelli spera di avere un incarico nel nuovo governo: viene emarginato per l'età avanzata e soprattutto per essersi compromesso con i Medici. Contemporaneo di Machiavelli - e anch’egli umanista, uomo di Stato e pensatore politico è l’inglese Thomas More (Londra 1477 o 1478-1535). Consigliere ascoltato e stimato di Enrico VIII, in quanto cattolico si oppone nettamente alla sua idea di chiedere l'annullamento del primo matrimonio contratto con Caterina d'Aragona. Nel 1532, al primo atto ufficiale di sottomissione al re del clero d'Inghilterra (cui avrebbe fatto seguito, nel 1534, l'Atto di supremazia), si dimette. Imprigionato nella Torre di Londra, vi rimane per più di un anno e il 6 luglio 1535 è decapitato come traditore. La sua fama è legata al dialogo latino Utopia, scritto nel 1515-1516, che, con la sua descrizione dell’organizzazione politica e sociale di una repubblica perfetta in un'isola inesistente, costituisce l'archetipo insuperato della tradizione del pensiero politico critico-utopistico destinata a straordinaria fortuna nei secoli successivi. Di indirizzo politico realista come Machiavelli, fu, invece, Jean Bodin (1530-1596), magistrato, filosofo ed economista francese. Come esponente della corrente dei politiques che durante la guerra civile francese (1562-1598) appoggia la dinastia legittima dei Valois contro le opposte fazioni nobiliari dei cattolici e degli ugonotti - Bodin sostiene la superiorità e la neutralità dello Stato rispetto alle differenti concezioni e organizzazioni religiose. Nel suo capolavoro - Repubblica (1576) - Bodin elaborò per primo il moderno concetto di sovranità statale e teorizzò l’assolutezza del potere monarchico. 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – I VIAGGIO L’UOMO COME DIO TERRENO 2 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA IL MIRACOLO UMANO da Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo (a cura di Giuseppe Tognon, La Scuola 1987) L’Oratio de hominis dignitate fu scritta da Pico della Mirandola (14691533) come testo della relazione di apertura del grande congresso di intellettuali ecclesiastici e laici che egli stesso aveva convocato a Roma, chiedendo il patrocinio di papa Innocenzo VIII. Il tema del convegno sarebbe dovuto essere la monumentale opera pichiana Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae (1486), vera enciclopedia del platonismo rinascimentale. Negli scritti degli Arabi ho letto, Padri venerandi, che Abdalla Saraceno 1, richiesto di che gli apparisse sommamente mirabile in questa scena del mondo, rispondesse che nulla scorgeva più splendido dell’uomo. E con questo detto si accorda quello famoso di Ermete 2: “Grande miracolo, o Asclepio3, è l’uomo”. Ora mentre ricercavo il senso di queste sentenze non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran numero vengon recati da molti sulla grandezza della natura umana: essere l’uomo vincolo4 delle creature, familiare alle superiori, sovrano delle inferiori; interprete della natura per l’acume5 dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce dell’intelletto, intermediario fra il tempo e l’eternità e, come dicono i Persiani, copula6, anzi imeneo7 del mondo, di poco inferiore agli angeli, secondo la testimonianza di David 8. Grandi cose queste, certo, ma non le più importanti, non tali cioè per cui possa arrogarsi il privilegio di una ammirazione senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori9 del cielo? Ma finalmente mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione, e quale sia la sorte che toccatagli nell’ordine universale è invidiabile non solo per i bruti 10, ma per gli astri11, per gli spiriti oltremondani12. Incredibile e mirabile! E come altrimenti, se proprio per essa giustamente l’uomo vien detto e ritenuto un miracolo grande e un meraviglioso essere animato? Ma quale essa sia ascoltate, o Padri 13, e porgete benigno orecchio, nella vostra cortesia, a questo mio discorso. 1 Scrittore arabo di origine persiana dell’VIII secolo: non è che il primo dei molteplici autori citati appartenenti alle più diverse nazionalità, culture e religioni, prima ancora che alle più diverse correnti filosofiche. 2 Mitico autore del cosiddetto Corpus Hermeticum, raccolta di scritti teosofici del II-III sec. d.C., erroneamente ritenuti dagli umanisti appartenenti alla cultura egiziana dell’epoca di Mosè, cioè del XIII secolo a.C. 3 Eroe-dio greco, patrono della medicina, corrispettivo dell’Esculapio latino, interlocutore di Ermete in uno dei 18 trattati componenti il Corpus Hermeticum. 4 Legame, relazione. 5 Acutezza. 6 Congiunzione, connessione. 7 Matrimonio, cioè unione sacra, da Imene, dio greco delle nozze. 8 Re d’Israele (1000-961 a.C.) secondo la Bibbia che gli attribuisce anche la paternità di molti dei Salmi. 9 I cori angelici, appunto, che cantano la gloria di Dio. 10 Gli animali. 11 Secondo l’antica tradizione platonico-aristotelica avevano natura divina. 12 Si tratta sempre delle potenze angeliche. 13 Sono i vescovi e i cardinali che Pico aveva invitato al suo convegno e cui avrebbe voluto rivolgere la sua Oratio. 2 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania 14, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi15, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore16. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice 17 desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo 18, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi 19 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori20 uno ve n’era da largire in retaggio 21 al nuovo figlio, né dei posti22 di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura23; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità24 fosse costretto a biasimarla in se stesso. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita25 e postolo nel cuore26 del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto 27 e il tuo consiglio28 ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, ne mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”. O suprema liberalità di Dio Padre, o suprema e mirabile felicità dell’uomo a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole! I bruti nel nascere seco 29 recano come 14 Parola di origine platonica che indica la dimensione sovrasensibile, non fisica, puramente razionale nella quale Pico colloca le intelligenze angeliche, corrispettivo delle idee di Platone. 15 Gli astri, che nella tradizione platonica e aristotelica, erano esseri viventi composti di etere, cioè di una materia incorruttibile, e dunque eterni e divini. 16 Il mondo sublunare di Aristotele, cioè la Terra e la sua atmosfera. 17 Dio in quanto creatore, sebbene il termine sia di origine platonica e indichi il “plasmatore”, l’ “artigiano”, cioè chi dà forma a una materia pre-esistente, non chi la produce dal nulla. 18 Astronomo pitagorico protagonista del famoso dialogo platonico che porta il suo nome: per Pico la cosmologia platonica e quella biblica della Genesi, attribuita a Mosè, sono totalmente convergenti. 19 Modelli esemplari universali delle creature e delle loro proprietà. 20 Doti naturali. 21 Eredità, donazione. 22 Non sono i luoghi fisici, ma quelli metafisici, il livello gerarchico ovvero il ruolo ontologico e cosmologico dell’uomo. 23 Opera. 24 Generosità. 25 Non determinata, non precisata, non unica e univoca. 26 Metafora del centro metafisico del cosmo. 27 Decisione, scelta. 28 Senno, riflessione, orientamento. 29 Con sé. 2 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – dice Lucilio30 dall’utero materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni31 dall’inizio o da poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. Quelli che ciascuno avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. Se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio32. Ma se, contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine33 del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose. 30 Lucilio il Vecchio, poeta satirico latino del II secolo a.C. Gli angeli. 32 Pico pone in successione gerarchica la ragione (la latina ratio, la ragione matematica di Platone) e l’intelletto (l’intuizione noetica di Platone): con la prima l’uomo giunge ad assomigliare agli astri, con la seconda agli angeli. 33 Nebbia, vapore: una delle modalità di manifestazione sensibile di Dio nella Bibbia. 31 2 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 1 L’UMANESIMO: BISOGNA TORNARE ALLE ORIGINI E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano 34, il quale 35 [...] presso di noi italiani era così lacerato , così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si riconosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo. Finora avevamo dinanzi un uomo “con la bocca crudelmente dilacerata, il volto e le mano devastate, le orecchie strappate, le nari sfregiate da orrende ferite” 36. Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. Poggio Bracciolini, Lettera a Guarino Veronese Il “ritorno alle origini” Il tratto distintivo dell’Umanesimo del XV secolo è il tema del “ritorno alle origini”. Gli umanisti quattrocenteschi, infatti, sono accomunati dalla convinzione che lo strumento decisivo per dare vita a una nuova cultura, per diffondere i nuovi valori da loro propugnati, sia la riscoperta dell’antichità classica latina e greca. Questa esigenza di ritorno alla classicità questo paradossale rifarsi al passato per costruire un nuovo presente e proiettarsi nel futuro ha la sua spiegazione nella convinzione che l’antichità classica fosse fondata proprio su quei valori che per gli umanisti rispondono al bisogno di rinnovamento della propria epoca. Tornare al passato, infatti, significa per gli umanisti: tornare ai principi autentici dell’uomo, all’etica dell’impegno umano nel mondo, al primato della vita attiva e produttiva. La riconquista umanistica della coscienza storica Ma per comprendere appieno il senso del ritorno al mondo classico degli umanisti è essenziale chiarire il modo in cui gli umanisti interpretano e utilizzano gli autori antichi e le loro opere. Infatti anche i medioevali, e in particolare gli Scolastici, non solo non avevano ignorato la cultura classica grecoromana ma se ne erano ampiamente serviti. Nel rapporto con la cultura antica c’è però una differenza decisiva tra medievali e umanisti: i primi, mancando di prospettiva storica, tendevano ad assimilare il passato al loro presente, scartando quegli autori che non si conciliavano con loro e riconducendo completamente alla propria visione del mondo quelli che giudicavano compatibili con essa; i secondi erano mossi da un fondamentale scrupolo storico, cioè dall’esigenza di ristabilire l’autenticità degli autori antichi e quindi di accertare imparzialmente la loro effettiva identità storicoculturale. In altre parole mentre i medievali avevano assimilato il passato al presente, appiattendo l’uno sull’altro, gli umanisti, volendo avvicinare il presente al passato, 34 Uno dei massimi retori dell’antichità, romano, vissuto nel I sec. d.C., autore delle Institutiones oratoriae, l’opera di cui Bracciolini rinvenì una copia integrale e conforme all’originale in uno scantinato di un monastero presso Costanza. 35 Per metonimia, Bracciolini riferisce all’autore ciò che vale invece per la sua opera. 36 Eneide, VI, vv. 496-498, in cui Virgilio descrive l’anima di un figlio di Priamo così come appare a Enea nell’Ade. 2 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – devono innanzitutto comprenderlo nella sua specificità ed effettualità storica. Essi riscoprono così la storia o meglio la storicità, cioè la consapevolezza della distanza temporale e della diversità culturale che contraddistinguono le civiltà storiche umane. La filologia come arma decisiva per ristabilire la verità del passato E’ da questa coscienza storica che scaturisce la passione per la filologia, la scienza umanistica per eccellenza, finalizzata alla ricerca degli originali delle opere antiche, alla ricostruzione del loro testo autentico, all’accertamento dei loro effettivi autori e della loro effettiva collocazione storica. Ed è per questo che l’opera La falsa e menzognera donazione di Costantino (1440) in cui Valla dimostrò filologicamente la falsità del documento con cui, secondo la Chiesa, l’imperatore Costantino aveva attribuito territori e potere temporale a papa Silvestro I rappresenta il testo più emblematico dell’Umanesimo. Il rapporto di emulazione con il mondo classico e la nascita di una cultura originale Il recupero filologico degli antichi costituisce la condizione per stabilire con essi non un rapporto di mera imitazione ripetitiva, bensì un rapporto di emulazione creativa. In altre parole grazie alla coscienza della distanza storica che li separa da essi, gli umanisti intendono il ritorno ai classici non come un’anacronistica restaurazione della cultura antica, ma come una ripresa originale e uno sviluppo innovativo del progetto culturale dell’antichità capace di dare vita, appunto, a una cultura inedita e a una nuova epoca della civiltà occidentale. L’interpretazione sincretistica della filosofia antica La riprova di ciò sta nel fatto che, pur sulla base di rigorosi criteri filologici, anche gli umanisti elaborano una personale interpretazione dei classici all’insegna della loro concordia, della loro unità di fondo. E’ infatti un comune e caratteristico impegno intellettuale degli umanisti dimostrare l’unità di tutte le scuole filosofiche antiche individuando nella morale il loro comune denominatore. La piena concordanza tra filosofia antica e cristianesimo autentico Ma gli umanisti non applicano il loro sincretismo solo alle diverse filosofie classiche, bensì lo estendono fino a includervi l’intera religione cristiana. “Insegna Paolo qualcosa di più di ciò che insegna Platone?” si chiede retoricamente Leonardo Bruni. Richiamandosi alla Patristica che era stata il primo tentativo di fondere speculazione classica e rivelazione cristiana ma privilegiandone decisamente la componente filosofica, gli umanisti giungono a sostenere la completa convergenza tra la cultura classica antica e l’originario, autentico messaggio evangelico. Si tratta di una mossa rivoluzionaria che pone le condizioni per una completa reinterpretazione della teologia cristiana aprendo le porte alla nuova cultura rinascimentale. 2 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO NICCOLO’ CUSANO Precursore del platonismo rinascimentale è il tedesco Nikolaus Krebs (1401-1464), italianizzato in Niccolò Cusano o Niccolò da Cusa dal nome della sua città d’origine Kues (Treviri). Studia a Heidelberg, Padova e Colonia, diviene vescovo e cardinale. Nel 1432 partecipa al concilio di Basilea come esponente del partito conciliarista. Nel 1439 aderisce invece al partito papale ed è inviato da papa Eugenio IV a Costantinopoli per organizzare il concilio di Ferrara-Firenze (1439-1443) finalizzato alla riunificazione delle chiese cattolica e ortodossa. Nel 1440 pubblica De docta ignorantia, in cui sostiene che la conoscenza umana ha in Dio il suo limite insuperabile, in quanto essa per costituzione si applica a oggetti finiti mentre Dio è per essenza infinito. Come tale, inoltre, Dio è “coincidenza degli opposti” e dunque è assolutamente incompatibile con la nostra ragione governata dalla legge logica di non-contraddizione. Tuttavia, proprio perché infinito, Dio comprende in sé tutte le cose e tutte le cose sono raffigurazioni contratte, cioè limitate e determinate, di Dio. In altre parole, l’universo è l’esplicitazione di Dio, Dio l’implicazione dell’universo. Esso, per Cusano, può essere chiarificato sulla base di tre distinti concetti: a) complicazione, b) esplicazione, c) contrazione. Dio è innanzitutto “complicazione” (da cum+plico=piego insieme), cioè avvolgimento o ripiegamento di tutte le cose, così come l’unità lo è dei numeri o il punto di tutte le figure geometriche. Da questo punto di vista tutti gli enti sono Dio in Dio. In secondo luogo Dio è “esplicazione” (da ex+plico= piego fuori da), cioè dispiegamento o svolgimento di tutte le cose nella loro molteplicità individuale, così come l’unità si dispiega nel 3 o il punto nel triangolo. In questo senso Dio è in tutte le cose ciò che ogni cosa è nella sua particolarità. Infine Dio è “contrazione” (da cum+traho=traggo insieme), cioè delimitazione o circoscrizione di tutte le cose, sia nel senso che Dio le contiene e le unifica tutte in sé, sia nel senso - opposto ma complementare - che ogni cosa è una manifestazione ridotta di Dio. Il concetto di contrazione dunque sintetizza quelli di complicazione ed esplicazione, esprimendo la convergenza e l’unità di tutti e tre. Per questa concezione Cusano viene accusato di panteismo ma riesce ad evitare la condanna per eresia anche perché si mantiene sempre fedele alla distinzione tra l’infinità attuale di Dio e l’infinità potenziale - o indefinitezza - dell’universo. Pur con questa attenuazione, Cusano traduce la sua nuova concezione dell’universo in importantissime innovazioni cosmologiche, quali la negazione del centro e della circonferenza del cosmo, l’abolizione della distinzione tra sfera terrestre e sfera celeste e dell’immobilità della Terra, la presenza di vita su altri pianeti, l’irregolarità delle orbite e delle velocità planetarie. Nel successivo De conjecturis (1441) Cusano mette in luce i limiti della conoscenza umana anche relativamente all’universo, in quanto illimitato e indeterminato. Solo la conoscenza di cui l’uomo stesso, come immagine di Dio, è creatore - per esempio la matematica - può essere completa, ma essa trova comunque il suo limite nel fatto che ha solamente un rapporto di analogia con la realtà naturale creata da Dio. Di conseguenza la conoscenza umana è, per Cusano, sempre e solo congettura, cioè non può mai essere completa e definitiva, ma è destinata a un perenne sforzo di approssimazione al suo oggetto. Molto importante anche il saggio La pace della fede (1453), scritto in seguito alla caduta di Costantinopoli, in cui Cusano afferma l’esistenza di un’unica fede religiosa dell’umanità di cui tutte le religioni storiche, monoteistiche e politeistiche, non sono altro che diversificate manifestazioni rituali. In questa prospettiva, Cusano si pronuncia decisamente a favore della tolleranza religiosa e della convivenza pacifica tra le diverse religioni mondiali. Nonostante le indubbie novità della sua filosofia, Cusano rimane in gran parte legata al pensiero medievale, venendo così a rappresentare una figura di transizione tra il platonismo medievale e il nuovo platonismo rinascimentale. 2 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 2 CUSANO: DIO E L’UNIVERSO 37 L’universo è nelle cose solo contrattamente , e ogni cosa esistente in atto contrae tutte le cose, di modo che esse siano in atto ciò che ciascuna è. Tutto ciò che esiste in atto è in Dio, perché egli è l’atto di tutte le cose. L’atto è la perfezione e il fine della potenza. Quindi, poiché l’universo è contratto in ogni cosa esistente in atto, è evidente che Dio, che è nell’universo, è in ogni cosa, e ogni cosa esistente in atto è immediatamente in Dio, in quanto essa è l’universo. Dire quindi “ogni cosa è in ogni cosa” è lo stesso che dire Dio, mediante tutte le cose, è in tutte, e tutte le cose, mediante tutte, sono in Dio. La dotta ignoranza, libro II, cap. V Dio come identità degli opposti La chiave di volta della filosofia di Cusano è la sua concezione dell’infinità quantitativa e qualitativa di Dio. In quanto infinito Dio deve comprendere in sé ogni cosa e dunque è necessariamente coincidentia oppositorum, cioè identità di tutti gli opposti. Ciò significa che l’essenza dell’infinitezza di Dio è la sua capacità di unificare in sé tutti i caratteri antitetici e contraddittori della realtà e del pensiero. Per esempio: dal punto di vista quantitativo, Dio è paradossalmente sia massimo sia minimo; da quello qualitativo è sia essere sia nulla. Il rapporto Dio/universo Ma se Dio, in quanto infinito, include in sé ogni cosa, l’universo non può che essere una parte di Dio e Dio, a sua volta, non può che essere presente nell’universo. Tra Dio e l’universo vi è dunque un’uguaglianza. Si tratta però di un’uguaglianza imperfetta e asimmetrica. Infatti: Dio contiene l’universo, ma l’universo non contiene Dio. Sul piano ontologico questa relazione comporta che: l’esistenza dell’universo implica quella di Dio (senza Dio l’universo non sarebbe) ma l’esistenza di Dio non implica quella dell’universo (senza universo Dio sarebbe) Cusano inoltre chiarisce il rapporto di unità nella distinzione tra Dio e l’universo sostenendo che: solo Dio è infinito in atto cioè effettuale e pieno in quanto non è limitato da nulla; l’universo, invece, è un infinito soltanto potenziale, cioè è illimitato, indefinito o indeterminato, ma non realmente infinito. Esso, infatti, pur non essendo finito, perché non possiede limiti precisi, non è nemmeno infinito, perché è contenuto in Dio. Il rapporto universo/cose Cusano delinea tra l’universo e gli enti naturali che lo compongono un rapporto analogo a quello stabilito tra Dio e l’universo. Infatti: 37 In modo ristretto, finito, particolare, parziale. 2 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’universo, in quanto totalità di tutte le cose, le comprende e le implica tutte; tutte le cose sono l’universo, ma non ne esauriscono la totalità. Anche in questo caso vi è dunque un’uguaglianza imperfetta e asimmetrica tra il tutto e le sue parti. La differenza ontologica tra universo ed enti naturali non poggia però sulla distinzione infinito/indefinito bensì su quella indefinito/finito: mentre l’universo, come totalità, è illimitato, ogni singolo ente è limitato. Ne consegue che ogni cosa è sì una rappresentazione dell’universo, ma al modo di una microriproduzione ovvero di un’immagine in miniatura: è un universo, per così dire, condensato, rattrappito, accartocciato. Il rapporto tra gli enti naturali Il rapporto tra l’universo e le sue parti si riproduce a sua volta nella relazione che ogni parte intrattiene con le altre. Se infatti: l’universo è la totalità di tutte le cose e ogni cosa è una microriproduzione dell’universo, allora ogni cosa contiene e rappresenta in sé tutte le altre. In altre parole, ogni ente naturale è in ognuno degli altri, tutto è in tutto, e dunque ogni cosa ha la medesima trama essenziale di tutte le altre. Il rapporto Dio/cose A questo punto Cusano può arrivare a una importante conclusione: Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. Infatti: poiché tutte le cose rispecchiano l’universo e poiché l’universo rispecchia Dio ne consegue necessariamente che tutte le cose rispecchiano Dio. Sulle fondamenta di questa semplice deduzione Cusano edifica la sua teoria del rapporto tra Dio e le cose dandole 3 pilastri concettuali: 1. “complicazione” (da cum+plico=piego insieme), cioè avvolgimento o ripiegamento di tutte le cose, così come l’unità lo è dei numeri o il punto di tutte le figure geometriche: Dio, cioè, è la matrice essenziale di tutte le cose e da questo punto di vista tutti gli enti, essendo in Dio, sono Dio; 2. “esplicazione” (da ex+plico= piego fuori da), cioè dispiegamento o svolgimento di tutte le cose nella loro molteplicità individuale, così come l’unità si dispiega nel 3 o il punto nel triangolo: ogni cosa, cioè, è manifestazione di Dio e in questo senso Dio è, in tutte le cose, ciò che ogni cosa è come singolarità irripetibile; 3. “contrazione” (da cum+traho=traggo insieme), cioè delimitazione o circoscrizione di tutte le cose, sia nel senso che Dio le contiene e quindi le delimita tutte, sia nel senso opposto ma complementare che ogni cosa è una manifestazione ridotta o ristretta di Dio. Le conseguenze fisicoastronomiche del rapporto Dio/cose La riflessione di Cusano non sfocia dunque in un panteismo tradizionale, cioè in una riproposizione della antica divinizzazione della natura, bensì in un inedito “teopantismo”, cioè in una originale interpretazione immanentistica di Dio che non ne annulla l’ulteriorità trascendente. Dio, infatti: avvolge e pervade tutte le cose ed è quindi in ognuna di esse, 2 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – però non si identifica con esse, in quanto è di più non solo di ogni cosa singola ma anche della loro totalità. Ma poiché, come si è visto: tutte le cose sono parti di Dio e Dio si manifesta in ognuna di esse ciò significa che Dio è in ogni cosa nello stesso modo e nella stessa misura. In altre parole Dio è il denominatore comune di tutti gli enti, il loro principio di unificazione e di equalizzazione. L’intero cosmo è dunque privo di rigide gerarchie in quanto tutti gli enti naturali sono tra loro isomorfi, astri, minerali, vegetali o animali che siano. Dal punto di vista fisicoastronomico ne consegue che l’universo deve essere considerato non solo illimitato ma anche omogeneo nel suo funzionamento e nelle sue leggi naturali. Cusano scalza così i presupposti metafisici del bimillenario paradigma geocentrico di Aristotele e Tolomeo: la finitezza del cosmo e la sua divisione in due regioni fisicamente eterogenee, quella terrestre (o sublunare) e quella celeste. FINITO, INDEFINITO, INFINITO L’universo indefinito di Cusano rappresenta una concezione di passaggio dal cosmo finito di Aristotele all’universo infinito di Giordano Bruno ( parte II, lezione III). Aristotele aveva argomentato l’impossibilità dell’esistenza attuale dell’infinito, ammettendone solo un’esistenza potenziale e meramente astratta: per esempio considerando il caso della divisibilità di una retta, che in linea di principio non ha limiti. Cusano riprende la concezione aristotelica dell’infinità potenziale ma a differenza di Aristotele ne postula l’esistenza reale in quanto proprietà fondamentale dell’universo. E alle antiche obiezioni aristoteliche secondo cui, se non fosse finito, il cosmo non avrebbe un centro, un alto e un basso, Cusano replica che il cosmo non può avere né un centro né una circonferenza né una direzione perché solo Dio, in quanto infinito e perfetto, può essere centro, circonferenza e direzione dell’universo. 2 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 3 CUSANO: L’UOMO, L’UNIVERSO E DIO L’uomo è infatti Dio, ma non in senso assoluto, perché è uomo; è dunque un Dio umano. L’uomo è anche mondo, ma non è contrattamente tutte le cose, perché è uomo. Egli è perciò microcosmo o mondo umano. La regione dell’umanità abbraccia Dio e l’universo mondo nel suo potere umano. L’uomo può essere Dio umano e, come Dio, può essere in modo umano, angelo umano, bestia umana, leone umano o orso o qualsiasi altro essere. Nel potere umano esistono tutti gli enti secondo il modo di quel potere. (...) L’umanità è unità, ed essa è un infinito umanamente contratto. Le congetture, parte II, cap. XV La particolarità dell’uomo La nuova teologia di Cusano ha una ricaduta rivoluzionaria non solo sulla concezione dell’universo ma anche e soprattutto su quella dell’uomo. Se Dio infatti è presente omogeneamente in ogni ente dell’universo, lo è in modo quantitativamente e qualitativamente peculiare nell’uomo, in quanto essere dotato di intelligenza e capace quindi di conoscenza. La conoscenza come docta ignorantia Cusano, però, non attribuisce all’uomo un potere conoscitivo assoluto e totale. Anzi. La conoscenza umana, infatti, si fonda per Cusano sulla commensurabilità tra ciò che è già noto e ciò che non lo è ancora. Per conoscere un oggetto sconosciuto è necessario porlo in relazione con un principio conosciuto. Conoscerlo sarà più o meno difficile a seconda del numero di passaggi logici necessari per stabilire questa connessione. Dio, in quanto totalità infinita, è per principio sproporzionato e incommensurabile rispetto a qualsiasi realtà finita e dunque non può essere conosciuto. Ciò che vale per Dio vale anche, seppure a un grado inferiore, per l’universo come totalità, in quanto esso è indefinito e illimitato. Per questo, richiamandosi a Socrate, Cusano afferma che la autentica sapienza umana consiste nella consapevolezza dell’impossibilità di conoscere la verità assoluta. I 3 tipi di conoscenza e il loro carattere congetturale Ma docta ignorantia non significa che l’uomo debba rinunciare al sapere o accontentarsi di ciò che sa; al contrario lo impegna nel compito incessante di approssimarsi alla verità assoluta senza mai considerare definitivo alcun risultato. In questo senso Cusano paragona la conoscenza umana a un poligono inscritto in un cerchio che, aumentando il numero dei suoi lati, tende ad avvicinarglisi pur senza mai giungere a coincidere con esso. L’incessante sforzo di approssimazione alla verità della conoscenza umana si basa su 3 facoltà: la conoscenza sensibile, che permette all’uomo di cogliere immediatamente gli enti fisici e come tale ha un carattere positivo, cioè attesta sempre l’esistenza di qualcosa; la conoscenza razionale, che costituisce un approfondimento e un affinamento di quella sensibile. Essa è mediata, cioè procede dimostrativamente per passaggi 3 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – successivi, e ha la sua regola fondamentale nel principio di non contraddizione. In questo senso la ragione, a differenza della sensazione, ha un carattere sia positivo sia negativo, cioè può tanto affermare quanto negare l’esistenza di qualcosa, ma deve rispettare la distinzione dei contrari: se afferma un carattere deve negare il suo opposto, e viceversa; la conoscenza intellettiva, che è a sua volta una sublimazione di quella razionale: essa è infatti un atto intuitivo puro con il quale l’uomo può cogliere l’infinità divina come identità di tutti gli opposti, al di là del principio di contraddizione e di ogni dimostrazione razionale. Per esempio, l’intelletto può intuire Dio pensando a un cerchio il cui diametro aumenti illimitatamente: la sua circonferenza tenderà allora ad appiattirsi fino a coincidere all’infinito con una retta. Ma anche al suo livello più elevato la conoscenza umana rimane limitata. Essa è infatti pur sempre costituita solo di congetture, cioè di rappresentazioni che partecipano della verità ma non possono mai coincidere con essa. La “mirabile” creatura umana Eppure, nonostante la sua intrinseca limitatezza, la conoscenza è proprio ciò che fa la differenza tra l’uomo e le altre creature. Dio infatti si manifesta nella stessa misura in tutte le cose. Dunque, tutto è in tutto, cioè ogni ente naturale ricapitola in modo individuale tutti gli altri. Da questo punto di vista l’uomo è una modalità di contrazione di Dio e dell’universo come tutte le altre. L’uomo, però, in quanto è un essere al tempo stesso senziente, razionale e intelligente, a differenza di tutti gli altri enti, è specchio cosciente dell’universo. Dio, infatti, ha conferito all’uomo capacità conoscitive proprio perché ci fosse una creatura capace di comprendere e apprezzare la sua opera. Egli gli ha affidato così un compito di maggiore dignità e tale da elevarlo verso di lui più di ogni altro ente naturale. In base a queste premesse Cusano può giungere alle seguenti importanti conclusioni: solo all’uomo spetta in modo proprio la denominazione di microcosmo, cioè di sintesi determinata dell’intero indefinito universo; se è vero che la bellezza dell’universo risplende in ognuna delle sue parti, nella mente umana essa risplende nel modo più perfetto. L’uomo come microcosmo In quanto microcosmo, l’uomo deve possedere una natura mediana e mista, perché deve connettere in se stesso, da un lato, la natura angelica, dall’altro, quella animale e vegetale. In questo modo egli può disporre delle capacità sia degli esseri angelici sia degli enti naturali. Grazie a ciò, per quanto inferiore all’angelo, che è pura anima, l’uomo, misto di anima e corpo, ha una sorta di superiorità potenziale su di lui perché egli solo può unificare in sé sia la capacità di sentire sia la facoltà intellettiva. L’uomo dunque può conoscere e far propri tutti gli enti sensibili e intelligibili. Per questo egli può essere considerato un dio umano, cioè un’immagine diretta di Dio, in quanto, come Dio, possiede nella propria mente le forme razionali di tutte le cose ed è in grado pertanto di svolgere un’attività creativa. L’uomo come ponte tra il finito e l’infinito Con ciò non viene però meno, secondo Cusano, la differenza ontologica tra Dio e uomo, perché mentre le capacità intellettive e creative di Dio sono infinite, quelle dell’uomo restano finite. Come è possibile allora che l’uomo sia definibile dio umano, che un ente finito possa rappresentare l’immagine più somigliante dell’Essere infinito? 3 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Cusano indica la risposta nella possibilità umana di mettersi in rapporto con l’infinità divina e di sintonizzarsi con essa. Questa possibilità è radicata proprio all’interno della limitatezza del soggettività dell’uomo, nella sua finitudine individuale. Infatti è solo grazie a un atto interiore di intellezione pura che l’uomo può intuire Dio nella sua infinità. Questa intuizione, pur confermandolo un essere limitato, gli offre la possibilità di tendere conoscitivamente e operativamente all’infinito, di slanciarsi verso Dio, di farsi ponte tra il finito e l’infinito. Insomma: Dio è infinito; l’universo non è né infinito né finito, cioè è indefinito; gli enti naturali sono semplicemente finiti; l’uomo, invece, è l’essere finito che, essendo cosciente di Dio, si protende verso l’infinito, costituendone così la più alta e ravvicinata immagine naturale. LA DOCTA IGNORANTIA CONTRO L’ASTRONOMIA ARISTOTELICOTOLEMAICA Si può capire a pieno la concezione della docta ignorantia solo tenendo conto dell’uso che Cusano ne fa per demolire il paradigma aristotelicotolemaico e affermare una nuova immagine del cosmo. Infatti, dal momento che la conoscenza umana è relativa ed imperfetta, è del tutto arbitrario attribuire al cosmo caratteristiche assolute e perfette. Su queste basi Cusano nega che la Terra sia perfettamente sferica e che stia immobile al centro dell’universo, che i moti dei pianeti siano perfettamente circolari e uniformi, che gli astri celesti in genere siano incorruttibili e che esistano dei poli celesti fissi e assoluti. 3 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO Marsilio Ficino Vero fondatore del platonismo rinascimentale fu il fiorentino Marsilio Ficino (14331499) che ne gettò le basi prima ancora che con la sua opera filosofica, con la sua attività di organizzatore culturale e di traduttore. Figlio del medico di Cosimo de’ Medici, nacque a Figline Valdarno. Grazie al mecenatismo di Cosimo de’ Medici, che gli mise a disposizione la villa di Coreggi, alle porte di Firenze, nel 1463 Ficino rifondò l’Accademia platonica, una sorta di cenacolo culturale che - raccogliendo filosofi come Pico della Mirandola, poeti come Poliziano, artisti come Botticelli, politici come lo stesso Lorenzo de’ Medici - divenne il centro di irradiamento del platonismo in tutta la cultura europea. Infatti, Ficino fu il traduttore del greco di tutte le grandi opere di quella che era considerata la “tradizione platonica”: il Corpus hermeticum (1471), i Commentaria ad Zoroastrum (traduzione degli Oracoli caldaici), gli Inni orfici, i Dialoghi di Platone (1484), le Enneadi di Plotino (1492). Non si trattò soltanto di un’operazione divulgativa, perché in questo modo Ficino stabilì, per così dire, l’albero genealogico del platonismo rinascimentale, rendendo canonica la sua interpretazione dell’origine della filosofia greca dai prisci theologi Zoroastro, Ermete Trismegisto e Orfeo. Nel 1473 Ficino prese gli ordini sacerdotali e l’anno successivo pubblicò il De christiana religione in cui, a partire dalla tesi della piena congruenza tra platonismo e cristianesimo, espose il suo progetto di una docta religio, cioè di una riforma del cristianesimo sul fondamento filosofico del platonismo. Da tale progetto nacque l’opera ficiniana più importante, dal titolo programmatico di Theologia platonica (1482). In essa Ficino, adattando reciprocamente metafisica neoplatonica e teologia cristiana, conferisce all’Uno di Plotino un carattere personale, interpreta l’irradiazione del cosmo in termini creazionistici, elabora la teoria dei cinque gradi gerarchici dell’essere (Dio, angeli, anima umana, qualità, materia), attribuendo all’uomo la funzione centrale di copula mundi del cosmo. Nel successivo Commentario al Convito di Platone, Ficino rivisitò in senso cristiano la teoria platonica dell’amore, individuando il senso della vita dell’uomo nella sua capacità di “tornare” all’Uno-Dio sulla base di una graduale elevazione amorosa e conoscitiva che a partire dalla dimensione terrena giunge fino all’assimilazione con Dio (indiamento), resa possibile dalla reciprocità dell’amore tra creatura umana e creatore divino. In questo modo Ficino diede una fondazione metafisica all’antropocentrismo umanistico. Infine nel De vita (1489), Ficino, sulla base della teoria dell’animazione universale, elaborò l’originale e fortunata dottrina della “magia naturale”, attribuendo alla conoscenza filosofica un costitutivo scopo pratico-operativo e ricucendo così in modo funzionale vita contemplativa e vita attiva. 3 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 4 FICINO: LA DUPLICE RIVELAZIONE DIVINA Da principio infatti - come testimonia Platone stesso - la filosofia di Zoroastro38 non era altro se non una pietà e un culto divino affratellati con la sapienza; ed anche le trattazioni di Mercurio Trismegisto 39 prendono sempre le mosse da un’invocazione e si chiudono con un sacrificio. Anche la filosofia di Orfeo 40 e di Aglaofemo41 tutta quanta si occupa delle lodi di Dio; Pitagora dava inizio agli studi filosofici con il canto mattutino degli inni sacri, e Platone non solo nel parlare, ma anche nel pensare, insegnava a prendere le mosse da Dio in ogni momento (...). Teologia platonica, libro XII, cap. I La retrodatazione delle origini della cultura classica Ficino è il prototipo dell’intellettuale rinascimentale. Come gli umanisti, è animato da una radicale esigenza di rinnovamento culturale e individua nel ritorno alla cultura classica lo strumento per realizzarlo. Ma, accogliendo le indicazioni degli intellettuali bizantini venuti in Italia, Ficino retrodata l’origine della filosofia - e quindi della cultura antica - ben al di là dell’età classica greca e allo stesso tempo ne trasferisce la culla dalla Grecia alla Persia e all’Egitto. L’antichissima teosofia mediorientale come origine della filosofia greca Ficino considera l’ “antico teologo” Zoroastro il padre della filosofia. Secondo Ficino, infatti, Zoroastro era stato il primo sapiente a ricevere da Dio una forma speciale di rivelazione: l’illuminazione dell’intelletto, che dona la conoscenza e si comunica attraverso il linguaggio razionale della filosofia. Da Zoroastro questa rivelazione filosofica si sarebbe trasmessa all’egiziano Ermete Trismegisto, da questi al greco Orfeo, quindi a Pitagora per giungere, infine, a Platone. 38 Forma derivata di Zaratustra, fondatore della religione detta mazdaismo, dal nome della sua suprema divinità, Ahura Mazda, il cui libro sacro si chiama Avesta. L’esistenza storica di Zaratustra è ritenuta sufficientemente fondata, mentre è più incerta la sua collocazione cronologica: alcuni storici la fanno risalire al VI-VII secolo a.C., altri alla fine del 2° millennio a.C. Attualmente l’ipotesi più condivisa dagli specialisti è quest’ultima, la stessa cioè sostenuta da Ficino. A Zaratustra venivano attribuiti dai rinascimentali gli Oracoli caldaici, una raccolta di scritti magico-religiosi scirtti da Giuliano il Teurgo nel II-III secolo d.C. 39 Mitico autore di una serie di trattati composti da vari autori mediorientali nel II-III d.C. e raccolti sotto il titolo di Corpus hermeticum. Mercurio (o Ermete) Trismegisto è la versione tardo-ellenistica dell’antico Thoth, dio egizio dell’astrologia e della scienza, che, secondo il mito, aveva inventato e donato la scrittura agli uomini. Thoth fu tradotto “Ermete” in greco e “Mercurio” in latino per la sua corrispondenza con gli omonimi dei greco-romani. “Trismegisto” (=tre volte grandissimo) è invece un attributo onorifico. Gli intellettuali rinascimentali, esperti di latino ma non di greco, accettarono la datazione antica del Corpus hermeticum tramandata dai bizantini e considerarono Ermete contemporaneo di Mosé, vissuto a cavallo tra il XIII e il XII secolo. Solo nel ‘600 fu accertata l’effettiva datazione del Corpus hermeticum. Ma studi più recenti documentano il suo legame con l’antica religione egiziana. 40 Leggendario poeta della Tracia dell’età greca arcaica, protagonista con Euridice di un famoso mito, considerato il fondatore del movimento religioso dell’orfismo e l’autore degli Inni orfici, che in realtà furono trascritti a partire dal VI secolo d.C. attingendo ai riti della religione orfica già praticata da alcuni secoli in Grecia. 41 Un altro esponente dell’orfismo, a noi sconosciuto. 3 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – L’albero genealogico del platonismo rinascimentale La ricostruzione ficiniana della storia della filosofia prosegue con l’individuazione di un filone omogeneo, preminente e di lunga durata, la cosiddetta “tradizione platonica”. Infatti, secondo Ficino, l’opera di Platone viene continuata da Plotino e dagli altri filosofi neoplatonici, e il neoplatonismo a sua volta prosegue con Sant’Agostino e dopo di lui con una lunga serie di filosofi del Medioevo, tra cui il cristiano Duns Scoto e l’islamico Avicenna. Ficino elabora in questo modo l’albero genealogico della filosofia rinascimentale, considerato e reso canonico dai filosofi rinascimentali successivi. Per tutto il ‘500 la ricostruzione ficiniana della storia della filosofia contribuì in modo determinante a imporre la nuova visione rinascimentale del mondo. La legittimazione cristiana del platonismo rinascimentale L’interpretazione ficiniana della storia della filosofia conteneva, infatti, una rivoluzionaria ridefinizione dei rapporti tra filosofia “pagana” e religione cristiana. Già Agostino e Tommaso d’Aquino avevano riabilitato i grandi filosofi “pagani” Platone e Aristotele. Ma questo era avvenuto: solo per alcune parti delle loro rispettive filosofie e al prezzo di sostanziali modifiche delle loro teorie fondamentali. I filosofi cristiani medioevali, inoltre, avevano avvertito il bisogno di giustificare le affinità tra il pensiero di Platone e di Aristotele e il cristianesimo. Lo avevano fatto ipotizzando che alcuni grandi filosofi pagani, usando rettamente la ragione naturale creata da Dio, si erano potuti avvicinare alla verità rivelata. Ficino ora sostiene qualcosa di molto più ampio e radicale, ovvero che la filosofia platonica è orginariamente cristiana e addirittura essa stessa verità rivelata, in quanto scaturita dalla medesima ispirazione divina che è alla base dell’Antico Testamento. Per Ficino, infatti, lo stesso Dio che si è manifestato direttamente ad Abramo e Mosé, si è rivelato, sia pur indirettamente - cioè attraverso la mediazione del loro intelletto - a Zoroastro, Ermete, Orfeo, Pitagora e quindi Platone. Dunque tradizione filosofica platonica e tradizione religiosa ebraico-cristiana (e perfino, come si è visto, islamica) sono depositarie di un’unica e medesima verità, solo recepita e tramandata secondo modalità diverse. Per Ficino dunque è lecito attingere liberamente a tutto il patrimonio del platonismo antico, senza timore di eresia e senza il problema di discernere ciò che è cristiano da ciò che pagano. Non c’è alcun bisogno di modificare e adattare le teorie originarie di Platone per rendere compatibili filosofia e religione. Si tratta soltanto di interpretarle bene. Infatti se correttamente e profondamente interpretate le teorie platoniche mostrano per Ficino un perfetto accordo con la teologia cristiana. L’interpretazione sincretistica di Platone La ricostruzione ficiniana della storia della filosofia ha però anche un’altra conseguenza non meno importante della prima: produrre una nuova, originale versione del platonismo, che è al tempo stesso uno dei più clamorosi casi di sincretismo (cioè di fusione di diverse tradizioni e scuole) della storia della cultura occidentale. Come in un gioco di specchi, Platone 3 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – già filtrato dall’interpretazione neoplatonica, viene reinterpretato alla luce della filosofia medievale e soprattutto delle dottrine teosofiche orientali attribuite a Zoroastro, Ermete e Orfeo. Ne scaturisce la completa assimilazione della dottrina teologica cristiana al platonismo resa possibile proprio dalla mediazione della teosofia mediorientale del II-III d.C. Questa storicamente era stata un tentativo di conciliare i valori razionali della filosofia antica e le istanze religiose della tradizione ebraico-cristiana. Tentativo fallito, ma che riemerse inaspettatamente 1.200 anni dopo dai tortuosi meandri della storia mediterranea, ottenendo stavolta un imprevedibile, seppur momentaneo, successo. La riforma filosofica della religione cristiana L’interesse di Ficino per la piena legittimazione cristiana della filosofia antica, e in particolare di quella platonica, non è meramente teorico, ma ha un chiaro e intenzionale obiettivo pratico. Alla base dell’opera filosofica di Ficino, infatti, vi è un progetto culturale globale e consapevolmente innovatore. Si tratta della docta religio (religione razionale), una riforma in senso ecumenico della Chiesa cattolica basata sull’adozione ufficiale del platonismo rinascimentale come interpretazione autentica della dottrina teologica cristiana. In altre parole Ficino concepisce la sua opera come la piattaforma fondamentale di un’ampia battaglia culturale per la nascita di una religione filosofica capace di unificare le chiese cristiane e avvicinare le grandi religioni monoteistiche mediterranee. 3 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 5 FICINO: LA CENTRALITA’ METAFISICA DELL’UOMO Ma Dio sarebbe, per così dire, un tiranno iniquo42 se ci spingesse a tentare di raggiungere cose che noi non potessimo mai ottenere. Per cui si deve dire che ci spinge appunto a cercare lui nell’atto in cui infiamma il desiderio umano con le sue faville. (...) Per la qual cosa il nostro animo può ad un determinato momento indiarsi 43, dato che per natura a ciò tende sotto lo stimolo diretto di Dio. Ma non si india se non assumendo la forma di Dio, come nulla si infuoca se non accoglie la forma appunto del fuoco. (...) così l’essenza dell’animo umano (...) perde per così dire le potenze inferiori44 e, conservata la sola mente, anzi, il vero capo della mente, cioè l’unità, riveste la sostanza divina come una forma recente, in virtù della quale si india e in forza della quale da quel momento in poi compie tutte le sue operazioni più come un Dio che come un’anima. Teologia platonica, libro XIV, capitolo I I cinque gradi dell’ordine metafisico del cosmo Riprendendo e semplificando il neoplatonismo antico e medievale, Ficino sostiene che l’intero cosmo è organizzato in 5 gradi gerarchici di perfezione decrescente: 1. Dio, che è perfezione assoluta, pura e immutabile unità; 2. le intelligenze angeliche, che sono costituite dalle forme razionali (o idee) e perciò sono unità molteplici non soggette al mutamento; 3. l’anima, che plasma la materia sulla base delle forme razionali, e perciò è sia unità sia molteplicità ed è soggetta al mutamento: 4. le qualità, che sono le proprietà sensibili della materia e come tali costituiscono una molteplicità perennemente mutante ma riconducibile all’unità; 5. il corpo o materia, che è molteplicità e mutamento assoluti. L’anima umana come baricentro del cosmo Nell’ordine gerarchico del cosmo l’anima occupa dunque una posizione intermedia, centrale, compresa com’è tra i due gradi superiori, puramente razionali (Dio e gli angeli), e i due gradi inferiori, meramente sensibili (qualità e materia). Il riposizionamento dell’anima operato da Ficino rispetto alla tradizione platonica ha conseguenze di grande importanza. Ficino infatti per anima intende sì, come i neoplatonici precedenti, l’anima del mondo che penetra e vivifica tutti gli enti naturali. Ma, accogliendo la lezione degli umanisti, Ficino considera anima per eccellenza l’anima umana, cioè la ragione dell’uomo. E’ innanzitutto e soprattutto l’uomo, dunque, ad occupare il centro dell’universo. Si tratta per Ficino di una collocazione del tutto speciale. Infatti, in quanto essere intermedio, l’uomo possiede una natura mista, razionale e fisica insieme, 42 Ingiusto, non equo. Farsi tutt’uno con Dio, assimilarsi a Dio. 44 Le forme sensibili, legate agli enti naturali, ma anche la molteplicità delle idee, in quanto inferiori all’uno. 43 3 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – e come tale è copula mundi, cioè l’anello di congiungimento delle due regioni del cosmo, quella celeste e quella terrena. Grazie a questa condizione privilegiata, l’uomo può entrare in rapporto con tutti gli altri gradi ontologici. Egli dispone quindi sia delle idee pure delle intelligenze angeliche sia delle proprietà sensibili degli enti naturali. In questo modo l’uomo può acquisire le facoltà e le virtù di tutte le cose e utilizzarle a suo piacimento. L’amore come elevazione progressiva a Dio Ma il vertice delle facoltà umane è la capacità di avvicinarsi a Dio, di elevarsi al suo stesso livello gerarchico. Questa capacità è l’amore: l’èros della tradizione platonica fuso con l’agàpe (carità) della tradizione cristiana. In questo senso, in Ficino l’amore è, in primo luogo, il motivo e la forza in base ai quali Dio ha creato il mondo, lo tiene insieme ordinatamente e lo guida provvidenzialmente verso il bene; ma l’amore è anche l’ascesa umana a Dio, intesa come risposta umana all’amore divino. L’amore umano è suscitato dalla bellezza della natura, che viene da Dio ed è la più evidente manifestazione dell’amore di Dio per le sue creature. Ne consegue che il cammino di elevazione dell’uomo verso Dio deve necessariamente svolgersi in due modi complementari: amando indirettamente Dio in tutte gli enti sensibili, in quanto ognuno di essi è un’immagine di Dio; amando tutte le cose in Dio, cioè amando direttamente Dio in quanto causa prima e modello unitario di tutte le cose. La divinizzazione dell’uomo L’amore diventa così la forza metafisica che conduce l’uomo all’indiamento, all’identificazione con Dio. Amare tutte le cose in Dio, infatti, significa per Ficino diventare una cosa sola con lui, assimilarsi completamente a lui, farsi Dio in Dio. Si tratta di una concezione di un’audacia filosofica senza precedenti. In un solo colpo Ficino colma l’abissale distanza interposta tra uomo e Dio dalla maggior parte dei filosofi medievali; e rovescia la soggezione reverenziale agli astri e agli dei teorizzata e praticata dagli antichi. Infatti, per Ficino, con l’indiamento l’uomo assorbe e fa sua la forza creativa di Dio, raggiungendo un potenziamento delle sue capacità che lo rende pari a Dio. In questo modo, senza mettere in discussione il primato ontologico di Dio, ma conferendo a Dio l’inedito ruolo di potenziatore delle capacità umane, Ficino fa transitare nell’uomo quell’onnipotenza divina che era stata una delle principali novità teoriche della teologia medioevale rispetto alla filosofia antica. E’ da questo trasferimento che nasce la nuova concezione rinascimentale dell’uomo come “miracolo della natura”. L’esito pratico dell’indiamento: il dominio della natura La conferma di questa sorta di traduzione della teologia in antropologia la troviamo nella teoria ficiniana della magia naturale. Per Ficino, l’indiamento 3 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – non ha una valenza meramente teorica o speculativa, non è fine a se stesso, ma è compiutamente tale solo se si realizza nella vita attiva. Grazie alla sua assimilazione a Dio, infatti, l’uomo acquista e può sfruttare la capacità divina di conoscere e dominare le forze naturali. La teoria dell’indiamento si salda così con la teoria della magia naturale, intesa come l’insieme delle nozioni teoriche e delle tecniche operative che permettono all’uomo di controllare e sfruttare le proprietà e le forze della natura per soddisfare i suoi bisogni materiali e spirituali. In questo modo Ficino getta le premesse filosofiche e, in parte, metodologiche che porteranno nell’arco di una secolo alla nascita della scienza moderna. INDIAMENTO ED ESTASI Con tutta evidenza l’indiamento di Ficino è il corrispettivo dell’estasi di Plotino, ma proprio per questo nella loro differenza si può cogliere la misura della novità della filosofia rinascimentale. L’estasi di Plotino, infatti, implicava l’annullamento della coscienza razionale nell’indistinto e il completo abbandono del mondo. Essa aveva un valore di temporaneo rimedio misticosalvifico, cioè sollevava l’uomo dalla negatività della condizione terrena ricongiungendolo con il principio infinito di tutto. Nell’indiamento, invece, l’uomo secondo Ficino conserva la coscienza razionale, in quanto in Dio, come abbiamo visto, continua ad amare tutte le cose in quanto distinte sia da Dio sia tra di loro. E dunque il mondo viene sì trasceso nella sua parzialità ma mantenuto e anzi conquistato nella sua totalità. Di conseguenza mentre l’estasi è sterile sul piano pratico, l’indiamento trova in esso il suo senso ultimo. 3 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 6 FICINO: LA MAGIA NATURALE Nessuno ancora si meravigli che l’anima possa quasi essere adescata per mezzo di forme materiali, dal momento che essa stessa ha fatto conformi a sé le esche, da cui è attratta, e abita sempre e volentieri in esse. Né in tutto il mondo vivente si trova qualcosa di tanto deforme, che non gli sia da presso un’anima, che non abbia in sé anche il dono dell’anima. Le corrispondenze dunque di forme di tal fatta con le ragioni dell’anima del mondo Zoroastro le chiamò divine seduttrici, e Sinesio confermò che si trattava di magici allettamenti. Sulla vita, libro III, capitolo I Facendo attenzione a tutto ciò, l’agricoltura prepara il campo e i semi per i doni celesti, con alcuni innesti propaga la vita della pianta, e la conduce ad una specie diversa e migliore. In modo simile agiscono sul nostro corpo il medico, il filosofo della natura e il chirurgo, ora per sostenere la nostra natura, ora per rendere più fertile e ricca la natura dell’universo. La medesima cosa fa anche quel filosofo esperto delle cose naturali e degli astri, che propriamente siamo soliti chiamare Mago, che con certi determinati incantesimi inserisce le cose celesti in quelle terrene, in verità nel modo e nel momento opportuni, non diversamente da un agricoltore accorto che innesta un giovane virgulto in un vecchio tronco. (...) Il Mago sottomette le cose terrene a quelle celesti, anzi da ogni parte le cose inferiori a quelle superiori, come da ogni parte le femmine da fecondare ai loro maschi, il ferro da attrarre al magnete, la canfora da assorbire all’aria infuocata (...). Sulla vita, libro III, capitolo 26 Secondo Ficino, l’indiamento, cioè la fusione con Dio, conferisce all’uomo una conoscenza e una potenza divini, cioè in grado di dominare gli esseri e le forze naturali. La teoria e la pratica del dominio della natura costituiscono per Ficino la “magia naturale”, che dunque è da lui considerata una branca fondamentale della “docta religio”. Ficino distingue nettamente la sua magia “naturale” dalla magia “profana”, cioè dalla magia della tradizione popolare. Proclamando il pieno rispetto dell’ortodossia cristiana, egli sostiene infatti che la magia naturale non ha nulla a che vedere con potenze demoniache o comunque immaginarie (fate, elfi, gnomi, ecc.) e nemmeno nulla a che fare con riti, formule, pozioni, ecc. Diversamente dalla magia volgare, la magia naturale, afferma Ficino, “sfrutta i benefici celesti con mezzi naturali per la buona salute dei corpi” e sottopone “opportunamente le materie naturali alle cause naturali perché vengano trasformate in un certo modo meraviglioso”. In questo senso, Ficino si richiama all’autorità del Vangelo laddove indica nei Magi venuti dall’Oriente i primi adoratori di Cristo. Per Ficino i “magi” erano appunto dei maghi naturali esponenti di quella tradizione sapienziale nata dagli “antichi teologi” Zoroastro ed Ermete Trismegisto. Ma soprattutto Ficino avvicina l’opera del mago a quella dell’agricoltore e del medico: in modo simili, il mago attira gli influssi degli astri e li utilizza per ottenere effetti terapeutici o produttivi. Con questo paragone, Ficino vuole chiarire che gli “incantesimi” magici non sono azioni improvvisate ed arbitrarie, bensì sono procedure 4 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – metodiche e accurate, basate sullo studio e sull’esperienza, che devono rispettare modalità e tempi ben precisi. Tuttavia, nonostante questi punti di contatto, la magia naturale per Ficino è diversa dall’agricoltura e dalla medicina tradizionale. Ma quali sono allora per Ficino i principi specifici della magia naturale? Innanzitutto, risponde Ficino, la magia naturale ha come fondamento metafisico l’anima del mondo, ovvero la concezione animistica del cosmo elaborata da Platone e approfondita e perfezionata da Plotino. In base a tale concezione, tutti gli esseri naturali – animali, vegetali e minerali – possiedono un’anima individuale, da cui derivano le loro proprietà e i fenomeni fisici che producono (p.e. la combustione per il fuoco). Ma tutte le anime individuali fanno parte dell’anima del mondo e sono da essa unificate. Pertanto esse sono tutte collegate le une con le altre. Per Ficino, l’anima del mondo, puramente razionale, produce lo “spirito”, che è il suo equivalente fisico. Dotato di una natura fisica finissima e imponderabile, che gli consente di permeare tutte le cose naturali, lo spirito costituisce il tramite tra l’immaterialità dell’anima e la materialità degli enti fisici, permettendo all’anima di agire sulla materia. L’efficacia della magia naturale si fonda appunto, per Ficino, sulla conoscenza e sulla manipolazione pratica di questa forza intermedia tra mondo metafisico e mondo fisico. Come l’anima, anche lo spirito collega e mette in comunicazione ogni essere naturale con tutti gli altri. Di conseguenza, secondo Ficino, tutte le cose intrattengono tra loro dei rapporti di corrispondenza, cioè di attrazione e simpatia, oppure di repulsione e antipatia, in forme e gradi diversi. Il mago naturale sfrutta appunto tali corrispondenze per “attrarre, allettare, adescare e sedurre” le anime delle cose e convincerle a produrre l’effetto benefico desiderato. In questo senso l’azione magica è concepita simbolicamente da Ficino come un’opera di persuasione, anzi come una sorta di seduzione amorosa. Se questi sono i fondamenti teorici della magia naturale, quali sono per Ficino le azioni magico-naturali? Per farsi un’idea delle modalità operative della magia naturale, bisogna innanzitutto tener conto che Ficino riprende dalla medicina greca la teoria dei 4 umori del corpo: sangue (caldo e umido, con sede nel cuore), bile gialla (calda e secca, con sede nel fegato), bile nera (fredda e secca, con sede nella milza), flegma (freddo e umido, con sede nel cervello). Tali umori, sul cui equilibrio si basa la salute umana, sono a loro volta in corrispondenza con i 4 elementi naturali (acqua=flegma, fuoco=bile gialla, terra=bile nera, aria=sangue), con le 4 stagioni e soprattutto con gli astri. Negli astri, infatti, secondo Ficino, si concentra lo spirito con il più alto potere terapeutico e trasformativo e dagli astri lo spirito irradia e può essere attirato e concentrato. Il mago naturale pertanto deve essere un profondo conoscitore di quel complesso codice fisico-simbolico che stabilisce le esatte corrispondenze tra umori e organi del corpo umano, elementi naturali, stagioni, piante, animali, astri e segni zodiacali, in modo da poter stabilire esattamente quali e quante forze naturali utilizzare a seconda dei suoi scopi. Per esempio, essendo la digestione sotto l’influsso di Giove, essa può essere curata “magicamente”, afferma Ficino, assumendo vegetali o animali “gioviali”, come la liquirizia o il fagiano, e badando a scegliere l’ora e il luogo più propizi in relazione alla posizione astronomica di Giove. Un altro esempio paradigmatico di agire magico si può trarre dagli scritti di uno dei “maghi” rinascimentali successivi a Ficino, ma che hanno in Ficino il loro padre filosofico. Si tratta del tedesco Paracelso, cui, tra molte altre, si devono una esemplare diagnosi e una ancora più esemplare terapia dell’anemia: l’anemia è un indebolimento del sangue e va curata con l’assunzione di ferro. Paracelso giunge, però, a questa conclusione – grosso modo condivisa dalla scienza medica attuale – attraverso un ragionamento analogico di tipo magico: il sintomo più evidente dell’anemia sono l’astenia (mancanza di forza) e il pallore; astenia e pallore sono dovuti allo scolorimento del sangue, ovvero a un suo indebolimento; il sangue è rosso; il rosso è il colore del pianeta Marte; Marte è il dio della 4 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – forza e il suo metallo è il ferro; dunque il sangue degli anemici è indebolito per mancanza di ferro; quindi per curare gli anemici occorre somministrare loro del ferro. Così chiarite sia la teoria sia la pratica della magia naturale, è possibile comprendere che essa rappresenta un’innovazione di grande portata per il pensiero filosofico e scientifico. Infatti, con la magia naturale il platonismo rinascimentale assegna alla ricerca conoscitiva - in modo esplicito e organico - il compito pratico di sfruttare le forze naturali per soddisfare i bisogni umani. In questo senso, si può dire che la magia naturale sta al platonismo rinascimentale come la tecnica sta alla successiva scienza moderna. Ma ancor di più si deve rilevare che la magia rinascimentale costituì storicamente il ponte tra scienza antica e scienza moderna, sia in quanto introdusse l’esigenza di verificare il sapere teorico anche in relazione alla sua efficacia operativa sia in quanto attribuì la massima dignità culturale all’attività umana di trasformazione pratica della natura. Ciò però non deve indurre a identificare erroneamente magia naturale e scienza moderna. Infatti, come si vedrà, benché condividano alcuni concetti (causa naturale, forza naturale, legge naturale) e la finalità pratico-operativa della conoscenza, magia naturale e scienza moderna divergono sia nei presupposti metafisici sia nella metodologia conoscitiva. 4 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO Giovanni Pico della Mirandola Dapprima discepolo e poi emulo di Ficino è il modenese Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), tanto precoce nell’ingegno quanto nella morte. Studia a Bologna, Ferrara, Padova, nell’Accademia fiorentina, a Parigi, spaziando dall’aristotelismo al platonismo e apprendendo l’ebraico antico. A soli ventitré anni matura l’ideale di una pace filosofica universale, capace di unificare tutte le scuole filosofiche e le religioni mondiali, e in questa prospettiva scrive le 900 Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae (1486), con l’intento di farne il documento base di un convegno internazionale da lui stesso convocato a Roma sotto il patrocinio di Innocenzo VIII. Come introduzione all’opera e al convegno Pico compone l’Oratio de hominis dignitate, un saggio breve destinato a diventare il manifesto filosofico del platonismo rinascimentale e più in generale del Rinascimento. In essa Pico fonda l’antropocentrismo umanistico sul carattere indeterminato della natura dell’uomo che gli permette di scegliere liberamente come e in cosa realizzarsi e di assumere in modo camaleontico tutte le proprietà e le capacità degli altri esseri. Il progetto culturale di Pico fallisce clamorosamente per la condanna papale di alcune delle 900 tesi, sospettate di eresia. Arrestato nel 1487, mentre è in viaggio per la Francia, Pico viene liberato e può ritornare a Firenze grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici. Nel 1489 pubblica l’Heptaplus, saggio di interpretazione cabalistica della prima parte della Genesi biblica. La Kabbalah è un’antica dottrina mistico-esoterica ebraica secondo la quale il testo biblico nasconde una rivelazione segreta che si può decodificare mediante speciali tecniche retoriche e matematiche. Pico introduce la Cabala (o Cabbala) come ulteriore componente del platonismo rinascimentale e cerca inutilmente di farla accettare dalla Chiesa cattolica sostenendo che la decifrazione cabalistica del nome di Cristo ne rivelerebbe la piena divinità. L’opera filosofica più importante di Pico è però il De ente et uno (1491), in cui sostiene e argomenta la piena compatibilità e la stretta complementarità delle filosofie di Platone e Aristotele, proponendo di includere anche quest’ultimo nel grande alveo del sincretismo platonico rinascimentale. Affascinato dalla predicazione di Savonarola, negli ultimi anni di vita Pico opta per una condotta ascetica e in questa temperie interiore scrive le Disputationes adversus astrologiam divinatricem (pubblicate postume nel 1496), in cui condanna l’astrologia “divinatrice”, in quanto negazione della libertà umana, pur salvando quella “matematica” legata allo studio e all’utilizzo pratico dei fenomeni celesti e dell’influenza naturale degli astri sugli esseri naturali. 4 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – V LEZIONE PICO: LA SUPERIORITA’ DELL’UOMO Stabilì finalmente l’ottimo artefice45 che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita 46 e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa47 tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu 48 49 desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. (...)”. Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo “cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri” Pico immagina che nel corso della creazione Dio abbia distribuito tutte le doti a sua disposizione agli altri esseri e che non gliene resti più nessuna da attribuire all’uomo. Dio decide allora di conferire all’uomo l’insieme delle caratteristiche che ha assegnato singolarmente alle altre creature. “tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi” Non avendo una natura unica e prestabilita, ogni uomo deve sceglierla tra le molteplici possibilità che Dio gli ha messo a disposizione. L’UOMO DEMIURGO DI SE STESSO Il nuovo mito della creazione dell’uomo L’idea della centralità metafisica dell’uomo introdotta da Ficino con la teoria dell’uomo copula mundi viene ripresa e radicalizzata da Pico con la teoria dell’uomo demiurgo di se stesso. In questa prospettiva, Pico, seguendo il modello di Platone, inventa un nuovo mito filosofico, una sorta di libera variazione e insieme di fusione dei grandi miti cosmogonici del Genesi (il primo libro della Bibbia) e del Timeo (uno degli ultimi dialoghi platonici). Pico immagina che Dio, dopo aver creato il cielo e la Terra e tutte le specie viventi, senta il desiderio di una creatura capace di contemplare e apprezzare l’ordine razionale, la bellezza e la grandezza dell’universo. Questa nuova, ultima creatura è appunto l’uomo, cui dunque è attribuito un ruolo privilegiato, di gran lunga superiore a quello di ogni altro ente: essere la coscienza del cosmo, comprenderne il senso. L’impasse divina e la sua soluzione Pico prosegue narrando che a questo punto, però, Dio si trova di fronte a una vera e propria aporia, a un dilemma apparentemente irrisolvibile: 45 Dio, indicato con un termine che traduce quello platonico di “demiurgo”. Non prestabilita, fluida, capace cioè di assumere più e diverse forme. 47 Proprietà o facoltà esclusiva, riservata solo a un individuo o a un gruppo. 48 Volontà. 49 Decisione. 46 4 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – da un lato, ha già conferito alle altre creature tutte le proprietà e i luoghi a sua disposizione e non è più in grado di dare all’uomo alcuna prerogativa particolare, alcuna specifica abilità, alcuna dimora riservata; dall’altro, Dio non può rinunciare proprio alla creazione dell’uomo altrimenti perderebbe la sua onnipotenza oltre che la sua bontà. Ma è proprio in questo dilemma che affonda le sue radici la superiore specificità dell’uomo. Dio, infatti continua Pico risolve brillantemente il difficile problema attribuendo in blocco all’uomo tutte le doti che aveva assegnato singolarmente alle altre creature. La libertà come dote divina dell’uomo L’uomo, dunque, secondo Pico, concentra in sé le capacità di tutti gli altri esseri. Questa dotazione multipla non va però intesa in senso attuale e statico bensì potenziale e dinamico. L’uomo cioè non possiede immediatamente tutte le capacità delle altre creature, ma può conquistarle attraverso un processo di autodeterminazione. Il significato profondo del mito pichiano è, dunque, che l’uomo non ha una natura prestabilita, fissa, data una volta per sempre, ma al contrario che la sua caratteristica specifica è l’essere indefinito, incompiuto, instabile. Questa indefinitezza, questa capacità di assumere tutte le forme è il fondamento della libertà dell’uomo. Infatti, mentre le altre creature possiedono una dote esclusiva e come tali sono determinate in modo necessario e definitivo da Dio, l’uomo avendo una natura indefinita può e deve autodeterminarsi e autoplasmarsi in base alla propria libera scelta e alla propria autonoma capacità decisionale. La prerogativa della libertà assimila l’uomo a Dio. Per questo Pico utilizza per caratterizzare l’uomo le denominazioni (“sovrano artefice”) e i verbi (“plasmare”, “scolpire”) attribuiti sia al Demiurgo platonico sia al Dio cristiano. Pico elabora così una personale interpretazione della somiglianza tra uomo e Dio sostenuta dal Genesi: l’uomo assomiglia a Dio perché come lui è un demiurgo, un libero creatore. Le possibili scelte dell’uomo normale Ogni individuo quindi ha in sé al momento della nascita le potenzialità di ogni tipo di vita. Spetta a lui scegliere e costruire liberamente il proprio destino. Pico dapprima distingue le scelte operabili in due grandi categorie morali: quella della degenerazione a livello animalesco e quella della rigenerazione a livello divino. Subito dopo, però, elabora una classificazione più particolareggiata individuando quattro tipi umani: gli uomini “vegetali”, simili a piante; quelli “sensibili”, simili agli animali; quelli razionali, sorta di “animali celesti” (cioè agli astri); infine gli uomini intellettuali, simili ad angeli. La possibilità straordinaria dell’indiamento Ma al di sopra di questi tipi normali Pico considera una quinta forma straordinaria: quella dell’uomo che, insoddisfatto della condizione di ogni creatura, concentrandosi completamente nell’unità della propria interiorità, arriva a congiungersi con il creatore stesso, a diventare uno spirito solo con Dio, in una parola a indiarsi. 4 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Secondo Pico, una ferma e perseverante volontà è condizione necessaria e sufficiente per la riuscita dell’impresa. Egli esorta gli uomini a realizzare questa loro massima possibilità. L’indiamento, infatti, conferisce all’uomo un’effettiva e totale superiorità su tutte le cose. Stregoneria e magia Anche in Pico, come in Ficino, l’esaltazione delle doti dell’uomo culminanti nella sua capacità di farsi Dio ha la sua ricaduta operativa nell’agire magico. A questo riguardo Pico distingue accuratamente tra la stregoneria, arte demonica da rigettarsi completamente, e la vera magia, l’unica degna di questo nome, da lui esplicitamente presentata come il “totale compimento” della filosofia. A sostegno della liceità della magia, Pico sostiene che “mago” in lingua persiana significa “cultore di cose divine” e interpreta i viaggi in Egitto e in Mesopotamia che la tradizione dossografica antica aveva attribuito a Pitagora, Empedocle, Democrito e Platone come prove della loro iniziazione alle arti magiche. Ma la tesi più significativa di Pico è quella secondo la quale la magia non opera direttamente “miracoli”, ma si limita ad influire sulla natura perché sia essa a compierli in base ai suoi principi. In questo senso, il mago, profondo conoscitore dei nessi simpatetici che legano le sostanze naturali, è una sorta di ostetrico della natura, in quanto aiuta la natura a portare alla luce i “miracoli” che essa custodisce nel suo grembo. DEMIURGO OVVERO ARTEFICE “Demiurgo” era il nome che Platone aveva attribuito alla divinità suprema nel mito cosmogonico del dialogo Timeo. Il suo significato greco corrente era “artigiano”, “plasmatore”. Platone aveva utilizzato questo termine per connotare l’azione ordinatrice che il dio svolgeva sul caos originario trasformandolo in cosmo. Pico usa una sua possibile traduzione (“artefice”) e i suoi attributi specifici (“plasmatore”, “scultore”) per qualificare l’uomo. In questo modo trasferisce all’uomo quelle che per Platone erano le doti superiori del dio supremo: la capacità di autodeterminarsi liberamente e quella di ordinare e governare il mondo materiale. 4 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LEZIONE VI PICO: FILOSOFIA UNIVERSALE E PACE PERENNE Io, invece, mi sono proposto di non giurare sulla parola di nessuno, di frequentare tutti i maestri di filosofia, di esaminare tutte le posizioni, di conoscere tutte le scuole. (...) Da tutti gli antichi, infatti, fu osservato questo principio, che esaminando ogni autore non trascurassero possibilmente nessuno scritto. E tale principio osservò in particolare Aristotele che appunto perciò Platone chiamava lettore; e senza dubbio è proprio di una mentalità ristretta chiudersi nel Portico 50 o nell’Accademia51. Non può scegliere fra tutte la sua via, chi prima non le ha esaminate a fondo tutte. Aggiungi che in ogni scuola v’è qualcosa di egregio che non le è comune con le altre. Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo “ mi sono proposto di non giurare sulla parola di nessuno, di frequentare tutti i maestri di filosofia ...” E’ una dichiarazione programmatica a favore di un’unificazione di tutte le dottrine filosofiche. Essa rispecchia però anche l’eccezionale cultura di Pico, il quale lesse e studiò praticamente tutte le grandi opere filosofiche disponibili in Europa nella seconda metà del ‘400, senza discriminare nessuna posizione. “ tale principio osservò in particolare Aristotele che appunto perciò Platone chiamava lettore ...” Pur essendo dichiaratamente un platonico, Pico riabilita totalmente Aristotele interpretandolo come continuatore e innovatore della filosofia di Platone e additandolo come autorevole precursore della concezione sincretistica della filosofia che egli propugnava. L’UNIFICAZIONE CABALISTICA DI TUTTE LE FILOSOFIE E LE TEOLOGIE La complementarità di Platone e Aristotele Il sincretismo (la tendenza a fondere insieme posizioni diverse e perfino antagoniste) tipico di tutto il pensiero rinascimentale raggiunge in Pico la sua apoteosi. Infatti, animato da un entusiastico anelito alla concordia universale, Pico inserisce a pieno titolo Aristotele nella già affollata e variegata galleria delle auctoritates filosofiche rinascimentali. A tal fine Pico compie un’abile operazione di rielaborazione e sviluppo originale delle due maggiori filosofie antiche per dimostrare la complementarità della teoria delle idee di Platone e della teoria della sostanza di Aristotele. In questo modo Pico si muove ben oltre l’orizzonte degli altri platonici rinascimentali i quali ritenevano che le due teorie divergessero e sostenevano la superiorità dell’idea dell’Uno di Platone sull’ente individuale (o sinolo) di Aristotele. Pico afferma invece che l’Uno e l’ente hanno un superiore principio originario e quindi un denominatore comune: l’Essere. In altre parole per Pico non è vero che Platone abbia fatto dell’assoluta unità il principio sommo né che Aristotele abbia affermato l’irriducibile pluralità degli enti e delle categorie. Tanto la filosofia di Platone quanto quella di Aristotele consistono per lui in una comune teoria dell’Essere, di cui il primo ha approfondito 50 La scuola stoica, dal greco stoà che significa, appunto, portico, luogo di insegnamento ad Atene dei primi filosofi stoici. 51 La scuola fondata da Platone ad Atene e fatta rinascere da Ficino a Firenze. 4 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’unità trascendente, cioè appunto l’Uno, e il secondo, in modo complementare, la molteplicità immanente, cioè appunto l’ente. Dalla filosofia universale alla teologia ecumenica L’Essere coincide per Pico con il Dio biblico che si rivela attraverso l’enigmatica affermazione “Io sono colui che sono”. In essa, secondo Pico, il primo “sono” indica l’Essere come pura e indeterminabile essenza divina, “io” l’unità come sua proprietà fondamentale “colui che sono” l’ente come sua manifestazione. In questo modo l’ontologia platonicoaristotelica messa a punto da Pico viene a costituire il fondamento di una nuova teologia, anch’essa finalizzata alla concordia di tutte le tradizioni teologiche. In altre parole l’unificazione di tutte le filosofie in un’unica filosofia universale è la premessa per un’unificazione ancora più ambiziosa, quella di tutte le dottrine teologiche in un’unica teologia ecumenica sintesi delle diverse e contrapposte religioni monoteistiche dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islamismo. La rivelazione segreta di Dio a Mosè Per Pico, la chiave di volta di questa suprema sintesi teologica è la Cabala (Qabbalah), un’antica dottrina mistica ebraica, pervenuta in Occidente attraverso la comunità giudaica spagnola. Pico la rese parte integrante del platonismo rinascimentale, fondendola con le dottrine esoteriche attribuite a Zoroastro e a Ermete Trismegisto. Cabala in ebraico vuol dire: sia “ricezione”, cioè ascolto e accoglimento della verità divina, sia “tradizione”, nel senso di trasmissione per via orale. La Cabala, secondo l’antica narrazione ebraica che Pico fa propria, ebbe origine da una seconda rivelazione che Dio fece a Mosé sul monte Sinai. Come la Bibbia racconta, Dio diede a Mosé le tavole dei comandamenti e altre prescrizioni rituali perché le trascrivesse e le divulgasse a tutto il popolo d’Israele. Questa fu la prima rivelazione, quella riportata dal libro dell’Esodo, e nota a tutti. Ma sul Monte Sinai Dio, secondo Pico, rivelò a Mosè anche il vero e profondo significato delle sue leggi e dei suoi riti ordinandogli di non metterlo per scritto e di trasmetterlo oralmente solo ai sommi sacerdoti sotto il vincolo alla segretezza. Questa è, secondo Pico, l’origine della Cabala. Tecniche e scopo della Cabala La Cabala era una dottrina insieme mistica e magica. Essa cioè era finalizzata sia all’unione con Dio sia all’acquisizione di un potere sulle forze naturali. Due erano le principali tecniche cabalistiche. 1. La prima consisteva nell’invocazione delle sefiroth i dieci nomi di Dio, corrispondenti alle sue dieci potenze creative. 2. La seconda nella decifrazione del messaggio segreto contenuto nel testo biblico in base a regole retoriche e matematiche di scomposizione e ricombinazione delle sillabe e delle parole. In entrambi i casi il risultato atteso era l’evocazione di potenze angeliche e la conseguente acquisizione delle loro facoltà paranormali. L’uso filosofico della Cabala 4 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Pico interpretò e utilizzò la Cabala come uno strumento di esegesi filosofica della Bibbia e in particolare del Genesi. In questo senso egli ritenne di averne decifrato il segreto contenuto filosofico consistente nell’esposizione: dei principi dei 4 regni dell’essere elementare, celeste, angelico, umano , delle loro complesse relazioni ontologiche e infine delle modalità attraverso cui l’uomo può unirsi misticamente a Dio. L’interpretazione cabalistica del Genesi, secondo Pico, confermava e approfondiva la teologia cristiana e costituiva al contempo la piattaforma per l’unificazione delle grandi religioni monoteistiche. Per convincere le alte gerarchie cattoliche ad accettare il suo disegno, Pico si servì inoltre della Cabala per dimostrare la divinità di Gesù Cristo. Decifrato cabalisticamente, il nome “Gesù” significa infatti, secondo Pico, “figlio di Dio”. La terapia filosofica per guarire il mondo dalla guerra Attraverso la Qabbalah, il sincretismo di Pico si salda così al suo irrealistico, ma grandioso progetto di una radicale riforma teologica della Chiesa finalizzata a una definitiva pace religiosa e politica. In questo senso, Pico afferma innanzitutto che la pace è il maggior desiderio di Dio, dunque il valore etico più elevato. Ma egli è consapevole che la realtà storica del suo secolo è ben lontana dalla volontà divina dilaniata com’è da lotte interne e guerre civili. Pico pertanto elabora una terapia filosofica capace di eliminare i conflitti e riportare la pace. 1. La prima fase di questa terapia è rappresentata dalla logica, intesa come il rimedio alle contrapposizioni retoriche e ai ragionamenti fallaci. 2. La seconda è costituita dalla filosofia della natura, capace di risolvere gli scontri delle opinioni costringendo le opposte fazioni ad accettare la scienza universale della realtà fisica. 3. La terza e conclusiva fase della terapia consiste nella “santissima teologia”, l’unica conoscenza capace di donare agli uomini un’autentica e definitiva pace. Si tratta appunto di quella enciclopedica sintesi delle dottrine teologiche cristiana, ebraica e islamica, fondata sulla loro riconduzione al platonismo rinascimentale arricchito da Aristotele e dalla Cabala, che è l’obiettivo finale dell’opera filosofica di Pico. 4 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU... IL NEOPLATONISMO MATERIALISTICO Una volta definito lo statuto del “dio umano” e dei suoi rapporti con Dio, nel ‘500 la filosofia rinascimentale passa a delineare una nuova immagine della natura e una nuova concezione della società umana. In relazione alla scienza della natura, in concorrenza con il platonismo rinascimentale si sviluppa l’aristotelismo rinascimentale, che ha i suoi centri nelle università specializzate nelle discipline naturalistiche (medicina, fisica, psicologia, logica) come quelle di Bologna, Pavia e soprattutto Padova. Principale esponente di questo indirizzo è Pietro Pomponazzi (1462-1525), il quale - sulla base di un ritorno al vero Aristotele in antitesi a quello della Scolastica - elaborò un’immagine della natura come ordine causale autonomo e necessario. Dal canto suo il platonismo rinascimentale seppe rinnovarsi e svilupparsi dando vita al nuovo indirizzo del naturalismo rinascimentale, i cui principali esponenti furono Bernardino Telesio (1509-1588), Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1638), che da un lato proclamarono la totale autonomia dei principi e delle forze della natura e dall’altro ne tennero però ferma la concezione animistica e vitalistica. Ma in collegamento con la riflessione sull’ordine naturale, si sviluppò anche quella sull’ordine sociale che si caratterizzò per l’impronta decisamente utopistica. Ne furono voci emblematiche Thomas More (1478-1535) - che immaginò una società perfetta basata sull’abolizione della proprietà privata e la completa socializzazione degli individui - e Campanella che disegnò un modello sociale anch’esso collettivistico ma fondato su un cristianesimo rinnovato e legato a un progetto politico di stampo teocratico. 5 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO: GIORDANO BRUNO Ma il più emblematico esponente del naturalismo cinquecentesco e, forse, dell’intero pensiero rinascimentale, è Giordano Bruno (15481600). Nativo di Nola, piccolo borgo campano, studia a Napoli e, per proseguire gli studi, a 17 anni si fa novizio domenicano, pur non condividendo i dogmi della trinità e dell’incarnazione. Nel 1572 è ordinato sacerdote e 3 anni dopo consegue il dottorato in teologia. Entusiasta lettore di Erasmo da Rotterdam, nonostante il divieto ufficiale dell’ordine domenicano, è accusato di eresia dai suoi superiori e nel 1576 fugge a Roma, quindi a Genova e poi a Torino, Venezia e Padova. Nel 1578 si reca a Ginevra, aderendo formalmente al calvinismo, poi a Tolosa e quindi, nel 1581 a Parigi, dove si lega al circolo dei politiques ed entra in contatto con lo stesso Enrico III, cui dedica la sua prima opera significativa, De umbris idearum, un trattato di tecniche di memorizzazione a sfondo magicoastrologico. Nel 1583 Bruno sbarca in Inghilterra dove, dopo essersi scontrato con i docenti dell’università di Oxford per le sue tesi copernicane, scrive e pubblica numerose opere: i dialoghi la Cena delle Ceneri (1584) e De infinito, universo et mondi (1584), di argomento cosmologico, in cui si propone come alfiere della teoria copernicana e la interpreta in modo estensivo e radicale come la realistica descrizione fisica del nostro sistema solare all’interno di un universo di estensione infinita e popolato da infiniti sistemi solari simili al nostro, sul fondamento di una cosmologia panteistica secondo cui l’universo è un immenso organismo vivente e gli astri grandi esseri animati; il dialogo De la causa, Principio et Uno (1584), in cui Bruno espone la sua metafisica della natura come Vitamateria infinita, rielaborando originalmente il neoplatonismo in senso materialistico e costruendo così il fondamento ontologico della sua cosmologia; i dialoghi Lo spaccio de la Bestia trionfante (1584), Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’Asino Cillenico (1585) e De gl’Eroici Furori (1585), di argomento eticoreligioso, nei quali Bruno propone gli ideali morali dell’operosità intellettuale e manuale, della giustizia basata sulla ricompensa del merito individuale e dell’unione estatica con il DioNatura in aperta polemica con luteranesimo e calvinismo e più in generale con il cristianesimo accusato di essere una religione “asinina”, espressione della decadenza subita dalla civiltà con la fine dell’epoca antica. Tornato a Parigi, non trovando più un clima politico a lui favorevole, Bruno decide di proseguire il suo pellegrinaggio in Germania, soggiorna a Wittenberg e Praga e infine si ferma per un anno a Francoforte dove nel 1590 pubblica le nuove opere scritte nel frattempo: i trattati metafisici De triplici minimo et mensura e De monade, numero et figura, nei quali approfondisce la sua ontologia sulla base di una rielaborazione, da un lato, della teoria atomistica della materia, in cui gli atomi però sono interpretati in senso qualitativo come unità viventi; dall’altro della teoria pitagoricoplatonica della matematica come ordine razionale nascosto, ad un tempo quantitativo e simbolico, della realtà; il trattato di astronomia De immenso et innumerabilis seu de universo et mundis (L’immenso e gli innumerevoli ossia l’universo e i mondi), in cui Bruno sviluppa e approfondisce gli aspetti più propriamente scientifici della sua cosmologia riprendendo la teoria delle comete di Tycho Brahe e sostenendo tesi anticipatrici quali: l’esistenza di infiniti sistemi solari formati da soli e pianeti alcuni dei quali simili alla Terra e abitati da specie viventi anche umane; la classificazione degli astri in pianeti e stelle: i primi privi di luce propria e dotati di un moto di rivoluzione, le seconde aventi le stesse caratteristiche del Sole; il moto di rotazione sul proprio asse del Sole e di tutti i corpi celesti; l’inesistenza delle sfere cristalline; 5 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – il movimento autonomo di tutti i corpi celesti a causa di “un certo impulso interno”; la non perfetta circolarità e la velocità variabile dei moti planetari; la generazione, la trasformazione e la distruttibilità di tutti i corpi celesti; l’uniformità delle leggi naturali che governano l’universo e l’abolizione di ogni differenza tra fisica terrestre e fisica celeste. Nel 1591, su invito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, che voleva da lui lezioni di mnemotecnica, Bruno si trasferisce a Venezia, probabilmente nella speranza di ottenere un insegnamento a Padova e di poter meglio propagandare il suo progetto di riforma scientifica e morale. Denunciato come eretico dallo stesso Mocenigo, Bruno, arrestato e processato dagli inquisitori veneti, si dichiara pentito e abiura i suoi errori. Ma il Sant’Uffizio dell’inquisizione chiede e ottiene l’avocazione del processo a Roma e l’estradizione dell’imputato. Nel 1593 Bruno viene trasferito nel carcere dell’inquisizione romana e subisce un lungo processo che termina nel 1599 con un verdetto di condanna per eresia e la richiesta di abiura. Bruno rifiuta di abiurare e il 17 febbraio 1600 viene bruciato vivo in Campo dei Fiori. 5 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 1 BRUNO: L’UNO E’ INFINITA VITA MATERIALE [...] tutto quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alla formazione, complessioni52, figure, colori e altre proprietadi e communitadi53, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile 54 di uno immobile, perseverante ed eterno essere; in cui son tutte forme, figure e membri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimente che nel seme 55, nel quale non è distinto il braccio dalla mano, il busto dal capo, il nervo dall’osso. Giordano Bruno, De la causa, principio et uno Bruno concepisce e pratica la filosofia come una un’azione pubblica per la ricerca, la diffusione e il trionfo della conoscenza. Egli, infatti, ritiene di essere il nuovo profeta dell’unica vera rivelazione, al tempo stesso filosofica e teologica, quella contenuta nel Corpus hermeticum, da lui ritenuta l’enciclopedia del massimo sapere mai raggiunto dall’umanità, quello elaborato dall’antica civiltà egiziana. In questo prospettiva, Bruno si autoconcepisce e si propone come un “novello Ermete”, cioè un nuovo Ermete Trismegisto – il mitico egiziano presunto autore del Corpus hermeticum –, e con i suoi scritti si propone di annunciare la rinascita dell’antica conoscenza egizia, ovvero l’inizio di una nuova epoca di progresso tecnico-scientifico ed etico-politico. Per Bruno, infatti, la storia dell’umanità è caratterizzata dall’alternarsi, dovuto al perenne rivolgimento della “ruota della vita”, di epoche di innalzamento e splendore e di epoche di decadenza e imbarbarimento conoscitivo e civile. Dato questo continuo avvicendamento, secondo Bruno, all’epoca dell’eccelsa civiltà egizia ha fatto seguito un’epoca di regresso e di barbarie caratterizzata dalla progressiva sostituzione dell’antica sapienza egizia, che ha innervato anche la filosofia greca antica, con la religione ebraico-cristiana, la quale ha poi dominato per tutta l’età medievale. In questo senso, la religione ebraico-cristiana è bollata da Bruno come una religione “asinina”, cioè adatta a uomini abbrutiti e ignoranti. In altre parole, per lui, la teologia cristiana è un fraintendimento e una deformazione della verità rivelata da Dio e contenuta, invece, nella teosofia, cioè nella teologia razionale, dell’antico Egitto e dell’antica Grecia. Poiché la “ruota della vita” non cessa mai di girare, Bruno è convinto che la “asinina” civiltà cristiana sia ormai tramontata e che l’epoca in cui vive si caratterizzi per il ritorno dell’antica e vera sapienza egizio-greca, ossia rappresenti l’alba di un nuova fase di progresso conoscitivo e civile dell’umanità. 52 Conformazioni. Caratteri comuni. 54 Soggetto a distruzione. 55 Si intende il seme umano, cioè lo sperma: oggi diremmo il DNA o il genoma. 53 5 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – La prova e al contempo l’emblema di questa fondamentale convinzione bruniana è la teoria eliocentrica di Copernico. Secondo Bruno, infatti, a livello scientifico-astronomico, come il segno della decadenza medioevale è stato l’affermarsi della teoria geocentrica, quello della rinascita postmedievale è il riemergere dell’antica teoria eliocentrica egizio-pitagorica. Ma l’esaltazione e la propaganda bruniana della teoria copernicana non hanno motivazioni unicamente astronomico-scientifiche, ma anche e soprattutto metafisico-simboliche: secondo Bruno il Sole, per la teosofia egizia, ma anche per la filosofia greca (basti pensare al mito della caverna di Platone in cui il principio primo delle Idee è appunto simboleggiato dal Sole), è il simbolo di Dio-Verità e la luce solare quello della vera conoscenza. Ma in cosa consiste, allora, la verità teosofica che Bruno vuole diffondere? La risposta può sembrare banale, ma, come vedremo, le sue implicazioni non lo sono affatto: la verità contenuta nell’originaria rilevazione divina per Bruno coincide con la sua stessa filosofia in quanto essa è concepita ed elaborata come una versione completa, ma in forma attuale e aggiornata, dell’antica teosofia egizia e di tutta la filosofia antica. In questo senso, la filosofia di Bruno è forse il più radicale esempio di sincretismo dell’intera storia della filosofia. Bruno, infatti, non contamina e fonde solo il Corpus hermeticum e i filosofi della tradizione idealistica platonica, quella canonizzata da Ficino, ma anche filosofi panteisti, come gli stoici, e perfino materialisti, come Democrito ed Epicuro – tradizionalmente considerati antitetici e incompatibili tra loro. Come riesce in questa incredibile impresa filosofica? Fedele alla metafisica neoplatonica, Bruno indica innazitutto nell’Uno-Dio infinito e trascendente il principio primo e assoluto di ogni cosa. Ma utilizzando il tema dell’ineffabilità dell’Uno in modo più radicale di Plotino, Bruno dichiara la trascendenza divina del tutto fuori gioco nell’ambito dell’indagine filosofica. Infatti Dio in sé stesso, in quanto Mente al di sopra di ogni cosa, secondo Bruno: è assolutamente inconoscibile e come tale non può essere oggetto di alcuna considerazione razionale. Insomma, Dio in quanto trascendente è sì il principio sommo, ma meramente virtuale. Di conseguenza l’oggetto della filosofia per Bruno è unicamente la Natura (o Universo) in quanto essa è l’immagine conoscibile di Dio. Dio, infatti, non è solo trascendenza infinita ma anche e simultaneamente immanenza infinita, cioè appunto Natura. In questo modo il primo principio, pur nella sua virtualità, svolge una funzione filosoficamente decisiva: quella di trasmettere alla Natura-Universo, essendone la matrice, il fondamentale attributo dell’infinità. Infatti, se è vero che per Bruno la Natura non esaurisce Dio, perché non include la sua dimensione trascendente, è altrettanto vero che, per lui, Dio riempie tutta la Natura e le infonde totalmente la sua infinità. Questa va intesa: sia in senso qualitativo, come infinita produzione di esseri viventi di forme e tipologie infinitamente differenziate; sia in senso quantitativo, come spazio infinito occupato da infiniti mondi che eternamente si compongono e si disfano. Il compito della filosofia diventa dunque, per Bruno, quello di elaborare un’ontologia della Natura come Infinito, cioè di individuare i suoi principi fondamentali. Confermando l’impostazione neoplatonica di fondo, Bruno riprende da Plotino le “ipostasi” dell’Intelletto 5 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – e dell’Anima, facendone i due principi supremi della Natura. Dio, infatti, in quanto immanente, ovvero in quanto Natura infinita, è per Bruno Mente insita in tutte le cose, cioè ordine razionale presente in ogni cosa. L’Intelletto (o Mente), dunque - la versione plotiniana del mondo delle idee di Platone -, costituisce l’ordinatore razionale puro della Natura, il “datore delle forme”. Per agire sulla fisicità l’Intelletto ha però bisogno della mediazione dell’Anima, la “fonte delle forme”, cioè il principio metafisico che traducendo le Idee (o forme razionali) in immagini (o forme sensibili), è in grado di interagire direttamente con gli enti corporei, cioè di pervaderli, organizzarli e infondergli così la vita. In questo modo la forma razionale viene a coincidere totalmente con l’Anima. Bruno infatti, in aperta polemica con gli scolastici aristotelici, sostiene che l’Anima: non è un tipo particolare di forma propria soltanto degli animali; ma che ogni cosa, vegetali e minerali inclusi, in quanto dotata di una forma, possiede un’anima, cioè è vivente. In altre parole, la Natura è un infinito organismo vivente e la legge fondamentale del cosmo è quella dell’animazione universale. In base a questa legge ognuno degli infiniti esseri viventi che compongono l’universo intrattiene relazioni di simpatia (o attrazione) e di antipatia (o repulsione) con ognuno degli altri. La teoria dell’animazione universale ha un’importanza cruciale nell’opera di Bruno in quanto è il presupposto metafisico delle sue più rivoluzionarie tesi astronomiche e al contempo del fine pratico della filosofia, cioè la magia ( ). Con lo sganciamento dell’Intelletto e dell’Anima dall’Uno-Dio trascendente e con il loro conseguente avvicinamento alla fisicità, Bruno predispone il terreno per una rivoluzionaria svolta: la promozione della materia a principio ontologico. Infatti, mentre il neoplatonismo classico aveva continuato a identificare la materia con il nonessere, seppur relativo; Bruno attribuisce alla materia piena dignità ontologica, cioè la considera un principio razionale della realtà. Per attuare questa inedita operazione filosofica, Bruno rinnova originalmente il concetto stesso di materia, distinguendo al suo interno: una materialità corporea, cioè dotata di configurazione e consistenza fisica, caratterizzata dalla passività; una materialità incorporea, cioè priva di configurazione e consistenza fisica, e caratterizzata dall’attività. La materia, così, è sì il sostrato fisico su cui si imprimono le forme (il “ricettacolo delle forme”), individualizzandosi spazio-temporalmente; ma è anche e innanzitutto il principio attivo intelligente - privo di individualizzazione spazio-temporale - di autoproduzione e autorganizzazione della Natura. In altre parole la materia, da un lato, è ordinata direttamente dall’Anima e indirettamente dall’Intelletto; ma, dall’altro, attua in modo autonomo un livello primario di autordinamento che rende possibile il livello superiore di ordinamento da parte dell’Anima. La materia, dunque, partecipa a pieno titolo a quell’opera perenne di creazione e ordinamento che è per Bruno l’essenza della Natura vivente, ossia dell’Universo. 5 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Con Bruno, viene così completamente meno la tradizionale contrapposizione formamateria, sostituita da una relazione di stretta cooperazione. Sulla base di questo tipo di interazione, Bruno può arrivare al coronamento della sua ontologia: la tesi dell’assoluta unità della Natura infinita in quanto eterna Vita-Materia.Per lui, infatti, le distinzioni, delle quali pure si serve per spiegare la realtà, di Intelletto, Anima e Materia, di forma e materia, di atto e potenza sono del tutto relative perché esse altro non sono che articolazioni funzionali all’infinita vitalità dell’unica divina Natura. In altre parole, nel Dio-Natura, Intelletto, Anima e Materia coincidono, sono una cosa sola. Ciò significa che in Dio c’è anche la materia, che Dio stesso è infinita vita materiale. La Materia-Vita, cioè la materia animata, assurge così al ruolo di denominatore comune che permette a Bruno di ricondurre la massima diversità e mutevolezza alla più immobile unità. Tuttavia, la filosofia di Bruno non si può considerare un panteismo. Egli, infatti, non solo, come si è visto, ammette che vi è infinità divina del tutto trascendente e inattingibile, ma sostiene anche che la stessa infinità divina immanente non coincide totalmente con la Natura-Universo, dal momento che “l’universo è tutto in tutto, ma non è tutto in ogni sua parte”, mentre “Dio è tutto in tutto ed è tutto anche in ogni sua parte”. In altre parole, l’Universo è l’infinitamente grande ma non anche l’infinitamente piccolo, mentre Dio è sia l’infinitamente grande sia l’infinitamente piccolo. 5 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – BRUNO: ETICA DEL MERITO ED EROICO FURORE [...] se posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non ave 56, e l’intelletto agente57 gli splendesse più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venisser transformate in forma de doi58 piedi, rimanendo tutto l’altro nel suo ordinario intiero59; dimmi, dove potrebbe impune esser la conversazion de gli uomini? Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo Altri, per essere avvezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido e intellettuale, da uno interno stimolo e fervor 60 naturale, suscitato dall’amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio 61 e soffio dell’intenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfro 62 della cogitativa facultade63 accendono 64 65 il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente ... Giordano Bruno, De gli eroici furori Il cristianesimo come religione asinina e decadente L’etica di Bruno ha il suo presupposto nella concezione cosmologica di un ritmo perenne di ascesa e discesa che scandisce il divenire universale. Questa alternanza l’eterna ruota della Vita si manifesta anche nella ciclicità della storia della civiltà umana che avvicenda continuamente periodi di sviluppo e periodi di decadenza. Sullo sfondo di questa teoria della storia, Bruno interpreta la sua epoca come la fase finale di un lungo periodo di decadenza iniziato con la nascita del cristianesimo e culminato nel suo secolo con la riforma di Lutero. Il cristianesimo, infatti, è per Bruno una religione “asinina”, cioè rozza, fanatica, irrazionale, propria di un’umanità ricaduta nell’ignoranza. E la riforma luterana, col suo fideismo assoluto, con il suo rigetto delle opere e del merito individuale, con il suo odio per la filosofia e la ragione, ne è per Bruno la manifestazione estrema, la forma più degradata. Non a caso alla sua affermazione storica corrisponde, secondo Bruno, una crisi epocale della civiltà europea devastata dal dilagare delle discriminazioni e degli odi religiosi e dilaniata perciò da sanguinosi conflitti civili. La nuova etica della giustizia e del merito Sul piano dell’etica collettiva, Bruno condanna la falsa giustizia cristiana basata sulla priorità della fede, in quanto fonte di discriminazione, disordine e quindi di conflitto; 56 Ha. Attivo o in atto: la parte superiore dell’intelletto, distinta da quella passiva o potenziale, secondo Aristotele. 58 Due 59 Nella sua consueta integrità. 60 Entusiasmo. 61 Desiderio. 62 Zolfo, usato come metafora di fuoco. 63 Facoltà pensante, cioè pensiero, intelletto. 64 La luce della ragione. 65 Normalmente. 57 5 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – propone l’autentica giustizia della religione romana, basata sul rigore morale e sull’efficacia delle azioni, in quanto terreno di comunicazione, intesa e quindi di pace fra tutti gli uomini. Conseguentemente, Bruno afferma con forza il principio della responsabilità individuale e indica il criterio fondamentale della giustizia nel merito personale acquisito nella vita attiva. E’ in questo quadro che si inserisce la ripresa del mito platonico della metempsicosi, cioè della reincarnazione dell’anima in forme di vita migliori o peggiori a seconda del comportamento tenuto nel corso di un’esistenza. Bruno avverte che il mito, proprio perché tale, non va inteso in senso letterale ma va interpretato nel suo senso simbolico più profondo: quello di essere un monito sulle conseguenze negative del vizio non in una presunta vita ultraterrena come per l’inferno cristiano, ma nel futuro della vita terrena stessa. In altre parole, secondo Bruno, i vizi e le virtù non sono destinati a essere rispettivamente puniti e premiati in una dimensione ultraterrena – infernale o paradisiaca – ma nella dimensione terrena futura: le azioni immorali, prima o poi, procureranno dei danni a chi le commette o ai suoi discendenti; mentre le azioni morali daranno prima o poi vantaggi a chi le compie o ai suoi discendenti. La Fatica come massima virtù e l’elogio della manualità E’ del tutto conseguente, su queste basi, che Bruno individui nella Fatica, cioè nell’operosità in contrapposizione all’Ozio luterano , la più alta virtù sociale. Grazie alla Fatica, infatti, cui si accompagnano la Sollecitudine e la Sagacia, l’uomo può realizzare la sua libertà agendo in modo da trasformare la Fortuna, cioè la ruota ciclica della vita in Provvidenza, cioè nell’avvento della giustizia e di una nuova epoca di progresso morale e intellettuale. L’operosità dell’uomo virtuoso, per Bruno, si esprime nell’agire etico e politico, nelle opere teoriche dell’ingegno, ma anche nella trasformazione tecnica della natura basata sull’abbinamento di intelletto e manualità. Grazie alle tecniche manuali l’uomo, secondo Bruno, può operare non solo assecondando le leggi naturali ma anche imponendosi su di esse, costruendo una nuova natura e diventando così “dio della terra”. La morale individuale dell’eroico furore Le possibilità di realizzazione dell’uomo, però, non si esauriscono per Bruno nella dimensione sociale. Oltre all’etica collettiva Bruno elabora anche una morale individuale, riservata a pochi individui superiori, centrata sul raggiungimento dell’unione estatica con il DioNatura. E’ la strada impervia e travagliata che Bruno chiama “eroico furore”, cioè follia amorosa, per distinguerlo dal furore asinino, cioè dal misticismo cristiano irrazionale, basato sull’abbandono cieco e passivo a Dio. Il cammino dell’eroico furore è rappresentato simbolicamente da Bruno attarverso una personale versione dell’antico mito greco di Atteone, cacciatore innamorato della dea ArtemideDiana, e quindi alla sua perenne ricerca, fino a quando finalmente un giorno la coglie nuda mentre sta lavandosi a una sorgente. Per punirlo del suo atto sacrilego, la dea lo fa inseguire e sbranare dai suoi cani, i mastini – che simboleggiano la volontà – e i levrieri – che simboleggiano l’intelletto. Benché questo finale appaia tragico, in realtà, secondo Bruno, è lieto, perché simboleggia l’unione tra 5 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’uomocacciatore della verità, cioè il filosofo, e la Natura, cioè la Mente insita in tutte le cose, il Dio immanente. Fuor di metafora, l’eroico furore seppure con la mediazione dell’assenso divino consiste per Bruno in una lucida e faticosa opera di elevazione, che può essere attuata solo da un individuo che ha rifiutato l’equilibrio, il distacco e il senso della misura per condurre un’esistenza basata sugli eccessi e sugli estremi. E’ a questo tipo di uomo che è riservata la possibilità esistenziale più alta, quella della visione razionale della Natura infinita nella sua totalità. Questa visione trasforma l’individuo “eroico” in profeta e guida della rigenerazione della civiltà umana, ovvero in un mago naturale. La magia come vertice dell’agire umano In questa prospettiva, l’impegno eticopolitico e la manualità tecnica non sono per Bruno le sole e le massime possibilità operative dell’uomo. Vi è per lui una forma ancora più alta e potente di operatività umana che consiste nella magia naturale, frutto dell’eroico furore. Nell’agire magico, infatti, l’uomo realizza il massimo grado di comunicazione con il DioNatura riuscendo in questo modo a raggiungere poteri operativi superiori alle tecniche. Il supremo valore dell’antica religione “naturale” egiziana consiste appunto, secondo Bruno, nella sua sapienza magica, tramandata dagli scritti di Ermete Trismegisto. Essa insegnava: a collegare Dio e Natura, anima e corpo, ad apprendere così il linguaggio divino delle cose naturali e a padroneggiarne così le qualità occulte e gli arcani poteri. 5 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – II VIAGGIO IL COSMO COME SISTEMA ELIOCENTRICO 6 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA SOLO UN COSMO ELIOCENTRICO PUO’ ESSERE ARMONICO [...] Forse la Santità Vostra [si tratta di papa Paolo III] non si stupirà del fatto che io abbia osato dare alla luce i frutti del mio lavoro - dopo aver speso tanta fatica nell’elaborarli - e decidere di far stampare i miei pensieri sul moto della Terra; quanto piuttosto si aspetterà di udire da me come mi sia venuto in mente di osare di immaginarmi un movimento della Terra che è contrario all’opinione ormai accettata dai matematici e che contrasta col comune modo di considerare le cose. Non voglio nascondere alla Santità Vostra che nient’altro mi ha spinto a pensare ad un nuovo modo di considerare i moti delle sfere del mondo se non il fatto che giunsi a comprendere che i matematici stessi non si trovavano d’accordo nelle loro indagini. Prima di tutto infatti sono a tal punto insicuri circa il moto del Sole e della Luna che non sono in grado di dimostrare in modo efficace la durata costante dell’anno stagionale. In secondo luogo, allorché stabiliscono i movimenti sia del Sole e della Luna sia degli altri cinque pianeti, non fanno ricorso ai medesimi principi e assunzioni, né alle stesse dimostrazioni adottati per le rivoluzioni e i moti apparenti: in tal modo gli uni ricorrono soltanto alle sfere omocentriche [che hanno la Terra come centro comune], gli altri agli eccentrici e agli epicicli, senza però riuscire ad ottenere ciò che è richiesto. Coloro infatti che fanno affidamento sulle sfere omocentriche, per quanto abbiano dimostrato che con essi possono esser costituiti diversi movimenti, nondimeno non hanno potuto stabilire niente di sicuro che corrispondesse senz’altro ai fenomeni. Coloro poi che sono ricorsi agli eccentrici, per quanto sembri che per mezzo di essi abbiano risolto in gran parte i moti apparenti mediante calcoli corrispondenti alle previsioni, tuttavia hanno ammesso cose che per lo più sembrano essere contrarie ai primi principi circa l’uniformità del movimento. E la cosa più importante, cioè la forma del mondo e la esatta simmetria delle sue parti, non poterono trovarla o ricostruirla mediante il ricorso agli eccentrici. Accadde quindi ad essi ciò che accadrebbe ad una figura umana che si componesse di mani, capo, piedi e altre membra ottime ma tutte di lunghezza differente, nient’affatto armoniche tra sé, prese senza tener conto del disegno unitario di un solo corpo, in modo che si otterrebbe un mostro anziché un uomo. [...] Ora, mentre meditavo a lungo tra me circa l’incertezza delle tradizioni matematiche nella determinazione dei moti delle sfere dell’orbe, cominciai ad essere turbato dal fatto che a filosofi che svolgevano le proprie indagini in modo tanto accurato, con rispetto dei più minuti fenomeni dell’universo, non fosse nota alcuna sicura spiegazione dei moti della macchina del mondo che per noi venne fondato dall’Artefice che è bontà e ordine supremo. Per la qual cosa mi assunsi l’impegno di rileggere i libri di tutti i filosofi di cui potessi disporre, allo scopo di indagare se qualcuno mai avesse pensato che i moti delle sfere del mondo fossero diversi da quelli stabiliti da coloro che nelle scuole insegnano matematica. E trovai allora presso Cicerone che per primo Niceta ebbe l’intuizione che la Terra si muovesse. Poi anche presso Plutarco trovai che anche alcuni altri erano di tale opinione, e affinché le sue parole siano presenti a tutti ho voluto trascriverle qui di seguito: “Ma anche altri pensano che la Terra si muova, così Filolao il pitagorico sostiene che essa si muove intorno al fuoco centrale in cerchi obliqui come accade per il Sole e la 6 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Luna. Eraclito pontico e Ecfanto il pitagorico invece non fanno viaggiare la Terra, ma la lasciano muovere come una ruota intorno al suo proprio centro da occidente ad oriente”. Quindi, incontrata l’occasione, presi anch’io a pensare alla mobilità della Terra. E per quanto l’opinione sembrasse assurda, tuttavia poiché sapevo che ad altri prima di me era stata concessa la libertà di immaginare circoli per dimostrare i fenomeni degli astri, ritenni che anche a me si potesse facilmente concedere di ricercare se, supposto un certo movimento della Terra, potessero essere trovate nelle rivoluzioni degli orbi celesti dimostrazioni più ferme di quelle degli antichi. E così io, dopo aver considerato che la Terra si muovesse secondo i movimenti che più avanti le assegno nel testo, trovai infine, dopo una lunga e attenta indagine, che se si rapportano al circuito della Terra i movimenti degli altri astri erranti calcolati secondo la rivoluzione di ciascuna stella, non solo ne conseguono i loro movimenti e fasi, ma anche l’ordine e la grandezza delle stelle e di tutti gli orbi e lo stesso cielo diventa un tutto così collegato che in nessuna parte di esso si può spostare qualcosa senza crear confusione delle restanti parti e di tutto l’insieme. [...] N. Copernico, Sulla rivoluzione delle sfere celesti, Lettera di dedica a Paolo III, poi diventata Introduzione 6 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU... – LA RIVOLUZIONE ASTRONOMICA VITE DI CAPITANI: COPERNICO, BRAHE, KEPLERO 6 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 1 COPERNICO: IL SOLE DEVE STARE AL CENTRO PERCHE’ E’ DIO VISIBILE La prima e la più alta di tutte le sfere è la sfera delle stelle fisse, che contiene le altre compreso se stessa e che perciò è immobile, in quanto luogo dell’universo cui si rapportano il moto e la posizione di tutti gli altri corpi celesti. [...] Segue quindi Saturno, primo dei pianeti, che compie la sua rivoluzione in trent’anni. Dopo Saturno viene Giove che compie la propria rivoluzione in dodici anni. Al quarto posto viene la rivoluzione annua [della sfera] in cui è contenuta la Terra con la sfera della Luna, come un epiciclo. Al quinto posto viene Venere che riduce a nove mesi la durata della sua rivoluzione. Al sesto posto infine c’è Mercurio che gira con un periodo di ottanta giorni. Al centro di tutti risiede il Sole. Chi infatti situerebbe in questo stupendo tempio una luce in altro o migliore luogo di questo, da cui può illuminare ogni cosa simultaneamente? Non a caso alcuni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri rettore dell’universo. Trismegisto lo chiama Dio visibile, l’Elettra di Sofocle “colui che vede tutte le cose”. Così dunque il Sole, quasi come seduto sul soglio regale, governa la famiglia degli astri che gli girano intorno [...] Noi troviamo dunque in quest’ordine la mirabile armonia dell’universo e un nesso stabile tra il moto e la grandezza delle sfere, quale in altro modo non si può reperire [...] Perfettissima in verità è questa divina fabbrica dell’ottimo e supremo Architetto. N. Copernico, Sulla rivoluzione delle sfere celesti, Libro I, cap. 10 1. La teoria eliocentrica antica e le sue anomalie Per “rivoluzione astronomica” si intende quel lungo processo scientifico-culturale nel corso del quale il paradigma geocentrico – cioè il modello fisico-astronomico aristotelicotolemaico - fu criticato e progressivamente soppiantato da un nuovo paradigma, quello eliocentrico. L’iniziatore di questo processo fu Copernico, poiché fu lui a elaborare la prima versione della teoria eliocentrica moderna. Per capire come Copernico arrivò a questo eccezionale rovesciamento teorico bisogna ricordare che nell’antichità greca, nell’ambito della tradizione pitagorica, erano già state almeno abbozzate delle teorie eliocentriche. Ma l’eliocentrismo antico era stato sconfitto dal geocentrismo che si era imposto così come paradigma dominante per quasi due millenni. La teoria eliocentrica, infatti, presentava delle anomalie – cioè dei contrasti con i fatti empirici – che nell’antichità risultavano inspiegabili. Essa infatti sosteneva che la Terra non è ferma ma ha un duplice moto, di rotazione intorno al proprio asse e di rivoluzione intorno al Sole. Però: l’esperienza visiva quotidiana sembra attestare in modo evidente che il Sole si muove da est a ovest; la stabilità degli oggetti (uomini, animali, piante) sul suolo terrestre risulta in contraddizione con la forza centrifuga - prodotta dalla velocissima rotazione della Terra - che dovrebbe scagliarli come proiettili verso l’alto, far sentire un vento fortissimo verso ovest e far osservare in rapida fuga sempre verso ovest tutti i corpi sospesi in aria (nuvole, uccelli, frecce lanciate, ecc.); l’osservazione della traiettoria perpendicolare al suolo terrestre dei corpi in caduta (p.e. un mattone dalla cima di una torre) sembra incompatibile con lo spostamento, durante il tempo di caduta, della superficie terrestre verso est, in seguito al quale il corpo in 6 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – caduta dovrebbe toccare terra più a ovest rispetto al punto di rilascio sulla cima della torre; soprattutto non era rilevabile alcuna “parallasse” terrestre rispetto alle cosiddette “stelle fisse” (gli astri delle costellazioni), cioè nessun spostamento prospettico apparente della posizione di una stessa stella, che invece dovrebbe notarsi per il fatto che, con il moto di rivoluzione della Terra, un osservatore terrestre può osservare la stessa stella da due posizioni molto distanti tra loro in modo tale da vederle in due posizioni diverse (è facile simulare questa esperienza osservativa ponendo il proprio indice di fronte al proprio naso e chiudendo alternativamente l’occhio destro e quello sinistro). 2. La teoria geocentrica antica e le sue anomalie Anche la teoria geocentrica antica, però, incorreva in anomalie. Essa infatti si basava - oltre che sul principio fondamentale della centralità e dell’immobilità della Terra - su alcuni postulati assai rigidi quali: la perfetta circolarità e quindi la costante equidistanza delle orbite dei pianeti dal centro terrestre; la comune e costante direzione est dei moti planetari; la perfetta uniformità delle velocità orbitali; la luminosità intrinseca (cioè non riflessa dal Sole) dei pianeti; l’assenza di mutamenti in tutti gli astri, considerati divini; la conseguente divisione del cosmo in due regioni fisicamente differenziate: sfera celeste e sfera terrestre. Ma l’osservazione empirica dei corpi celesti mostra almeno due fenomeni che contrastano con tali postulati: a intervalli differenziati ma regolari i “pianeti” (eccetto Sole e Luna) sembrano rallentare fino a fermarsi per poi invertire temporaneamente la loro marcia; durante questo “moto retrogrado” la luminosità dei pianeti aumenta attestando il loro avvicinamento alla Terra. 3. La formazione del paradigma aristotelico-tolemaico Se la teoria geocentrica si affermò su quella eliocentrica, fu perché gli astronomi geocentrici riuscirono a elaborare ipotesi ausiliarie capaci di neutralizzare le sue anomalie. Dopo le prime versioni di Eudosso e di Aristotele, fu l’astronomo egizio Tolomeo a perfezionare il geocentrismo portandolo al successo definitivo. Egli sostenne che: i pianeti erano sferici e si muovevano circolarmente perché infissi sull’equatore di sfere trasparenti ruotanti su se stesse, dette “epicicli”; l’epiciclo di ogni pianeta era a sua volta infisso su un’altra sfera ruotante più grande, detta “deferente”, in modo tale che la combinazione di due moti circolari simultanei dell’epiciclo e del deferente riproducesse il “moto retrogrado” visibile; il centro dei deferenti – e quindi delle orbite planetarie – era leggermente spostato rispetto al centro terrestre, e per questo chiamato “eccentrico”, in modo da dare ragione delle variazioni di luminosità dei pianeti, ovvero della loro distanza dalla Terra, durante i loro moti di rivoluzione; in relazione a un altro punto, chiamato “equante”, diverso per ogni pianeta, ma comunque diametralmente opposto all’eccentrico rispetto alla Terra, era possibile dimostrare che la velocità angolare dei pianeti risultava uniforme. 4. La natura teorico-matematica della teoria eliocentrica di Copernico Imbevuto dalla nuova cultura umanistico-rinascimentale, Copernico si sente sempre più insoddisfatto della teoria tolemaica a causa della sua complicatezza matematica e della sua 6 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – irregolarità fisica (dovuta soprattutto alla non coincidenza del centro del cosmo con il centro delle orbite dei pianeti) . Essa infatti spiegava il funzionamento del sistema solare in base all’interazione di ben 40 moti circolari, costringendo gli astronomi a calcoli lunghi e astrusi. Di conseguenza Copernico cerca nei testi classici testimonianze dell’antica teoria eliocentrica pitagorica, le trova e intuisce che essa era in grado di offrire una spiegazione molto più semplice e ordinata dei moti planetari. Senza scoprire nessuna nuova prova osservativa, Copernico elabora quindi un nuovo sistema di calcoli matematici delle posizioni e dei moti dei pianeti assumendo come presupposti la centralità e fissità del Sole, il moto di rotazione della Terra sul proprio asse e quello di rivoluzione intorno al centro solare. La nuova teoria, secondo Copernico, è migliore di quella geocentrica innanzitutto dal punto di vista del calcolo matematico. Matematicamente Copernico vanta una maggiore precisione - in particolare nella determinazione della durata dell’anno solare - e una maggiore semplicità e quindi rapidità. In realtà i guadagni matematici erano limitati, se consideriamo che Copernico - pur non avendo più bisogno degli epicicli necessari a spiegare i moti retrogradi - era comunque dovuto ricorrere a una complessa combinazione di eccentrici ed epicicli per rispettare gli antichi postulati della circolarità e della velocità costante delle orbite, cui non aveva voluto rinunciare: a conti fatti la sua semplificazione consisteva in una riduzione delle sfere celesti da 40 a 36. 5. Le argomentazione copernicane a sostegno dell’eliocentrismo Ma era proprio a livello fisico che la teoria copernicana mostrava il suo punto debole e cioè la mancanza di prove osservative sia della centralità del Sole sia del movimento della Terra. Copernico, di conseguenza, si limita a sostenere la sua teoria con argomentazioni logiche e metafisiche. In questo senso, Copernico sostiene quattro argomenti : essendo il Sole l’immagine visibile di Dio, come attesta Ermete Trismegisto, esso deve collocarsi nel luogo più eccelso del cosmo, ossia nel suo centro; la spiegazione della velocità uniforme dei moti planetari senza far ricorso agli equanti, che per Copernico erano artifici teorici senza alcun fondamento fisico; la proporzionalità – data la diversa successione dei pianeti che eliminava la Luna, considerata satellite della Terra – tra i loro periodi di rivoluzione e le rispettive distanze dal Sole, che secondo Copernico attestava l’ordine del cosmo e dunque la sua origine divina; ruotare intorno al proprio asse è una proprietà geometrica di ogni sfera, la Terra è sferica, dunque deve avere un moto di rotazione. In secondo luogo, Copernico cerca di controconfutare le confutazioni geocentriche della teoria eliocentrica, affermando che: in base al principio della relatività ottica l’osservazione del movimento quotidiano del Sole da est verso ovest può spiegarsi anche in base al moto della Terra da ovest verso est; l’assenza di parallasse della Terra rispetto alle stelle fisse può essere dovuta all’impossibilità di rilevarla a causa della grande distanza tra Terra e stelle fisse ipotizzando che il cosmo sia molto più vasto di quanto stimato dagli antichi; la mancanza di conseguenze catastrofiche del moto della Terra sulla superficie terrestre si può giustificare considerando che il movimento terrestre è un “moto naturale”, cioè regolare e uniforme, laddove effetti catastrofici sono prodotti solo dai “moti violenti”, cioè irregolari e accidentali il moto di rotazione della Terra include anche la sua atmosfera e tutto quello che è in essa sospeso, motivo per cui non si sente alcun vento soffiare costantemente da est verso ovest e non si vedono in fuga verso ovest tutti i corpi sospesi in aria. 6 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 2 BRAHE: LA TERRA E’ FERMA MA I PIANETI RUOTANO INTORNO AL SOLE 6 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 3 BRUNO: L’UNIVERSO E’ INFINITO E OMOGENEO Esistono nell’universo due generi principali di corpi originari: i Soli e le Terre. Al primo genere appartengono le cosiddette stelle fisse e dalla posizione di ognuna di esse né più grande né diverso sarebbe visibile questo nostro Sole alla stessa maniera con cui quelle sono visibili dalla posizione di questo Sole e dalle nostre regioni. Al secondo genere appartengono la Luna, Mercurio e gli altri pianeti che, intorno al Sole, si muovono con moti diurni ed annui. (...) Non è che, rispetto all’universo, tu possa dire di essere più al centro che in qualsiasi altro luogo; poiché è evidente che tutto all’intorno, ugualmente, da qualunque parte, si apre uno spazio infinito, che contiene infiniti astri e mondi. Il fatto che la natura provvede al moto, alla generazione e all’esistenza delle cose con il concorso di forze opposte e diverse, indica che un genere di questi corpi originari non può sussistere senza l’altro. Coloro che hanno sì gli occhi, ma non ingegno e raziocinio, così negheranno che, intorno alle altre stelle fisse, ovvero Soli, errino i pianeti, poiché non appaiono: mentre ogni argomentazione va ripetendo che da qualunque altro astro fisso, le Terre, che sono intorno a questo astro fisso, non possono essere vedute sia per la piccolezza dei corpi, sia soprattutto per la minore intensità della luce, come avviene in uno specchio che riflette l’ombra o l’immagine della luce, non la luce stessa. G. Bruno, L’immenso e gli innumerevoli ossia l’universo e i mondi, libro I, cap. III Come abbiamo visto ( XX), la filosofia di Bruno ha la sua fonte di ispirazione fondamentale e il suo elemento unificatore nella dottrina esoterica e magica dell’ermetismo. Ma - estremizzando il sincretismo rinascimentale - Bruno si avvale anche sia della metafisica neoplatonica dell’Uno sia di quella materialistico-atomistica di Epicuro e Lucrezio, tradizionalmente antitetiche. Il prodotto della loro fusione è una cosmologia dell’infinito che, pur non essendo propriamente scientifica, in quanto fondata su argomentazioni teologico-metafisiche, ha rilevanza scientifica in quanto si avvale anche di argomentazioni empiriche e in quanto anticipa tesi che il successivo sviluppo della ricerca scientifica avrebbe fatto proprie. Da Copernico fino a Galilei passando per Keplero, nessuno dei grandi scienziati della rivoluzione astronomica si spinge mai a sostenere l’infinità dell’universo, sia per riverenza nei confronti della tradizione sia perché essi ritengono la tesi indimostrabile sul piano scientifico. Bruno, invece, da un lato infrange ogni tradizionalismo, grazie al suo slancio di profeta della rinascita dell’ermetismo e, dall’altro, ricorre a un’argomentazione di carattere metafisico-teologico. Infatti, a partire dalla concezione neoplatonica dell’infinità come attributo essenziale di Dio, fatta propria dalla teologia cattolica, Bruno sostiene che anche il cosmo, in quanto prodotto di Dio, deve essere infinito. 6 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – In prima battuta, l’argomento sostenuto da Bruno a sostegno della sua tesi è quello dell’equivalenza tra causa ed effetto: se Dio, autore e quindi causa del creato, è infinito, anche il creato, effetto della creazione, dev’essere infinito. Ma, in seconda battuta, Bruno radicalizza il suo argomento in senso teologico: sostenere che l’universo è finito, negherebbe o l’amore o l’onnipotenza di Dio. Infatti, l’amore di Dio è infinito e, se non si manifestasse nella creazione di infinite creature, delle due l’una: o Dio non è amore, o Dio non è onnipotente. Poiché entrambe queste conclusioni sono incompatibili con il vero concetto di Dio, secondo Bruno, Dio ha necessariamente creato un universo infinito. La tesi così agomentata della comune infinitezza di Dio e dell’universo, e quindi della loro quasi totale coincidenza (panenteismo), ha un decisivo corollario: l’universo è un’unità omogenea e organica tanto quanto Dio. D’altra parte Bruno, ispirandosi all’antica cosmologia materialistico-atomistica, utilizza anche un’argomentazione più scientifica, ossia empiricamente verificabile, a sostegno dell’infinità dell’universo. Egli sostiene che le cosiddette stelle fisse mostrano all’osservazione la stessa natura del Sole, in quanto sono astri infuocati, e pertanto vanno classificate come “soli”; i pianeti, invece, data la loro meno intensa luminosità, mostrano all’osservazione di non essere infuocati ma semplicemente di brillare di luce solare riflessa, come la Luna. Essi dunque sono uguali alla Terra e devono essere classificati come “terre”. In altre parole alla tradizionale classificazione degli astri in Terra, pianeti e stelle fisse Bruno sostituisce una nuova classificazione in soli e terre, rivoluzionandone al contempo le caratteristiche. A partire da questa riclassificazione, Bruno elabora una teoria ancora più rivoluzionaria, non tanto perché del tutto inedita – era stata già sostenuta da Democrito – quanto perché scientificamente argomentata. Egli infatti sostiene che, per analogia con quello che osserviamo nel nostro sistema solare, è razionale dedurre che, intorno agli altri soli che compongono l’universo infinito, ruotano altre terre, cioè altri pianeti, e che quindi lo spazio pullula di infiniti “mondi”, cioè di infiniti sistemi solari, abitati da infinite creature – minerali, vegetali, animali, ma anche altri esseri intelligenti. A questo proposito, Bruno prende anche in considerazione l’obiezione secondo cui, poiché osserviamo solo un numero limitato di stelle/soli, non c’è alcuna prova che esistano altri pianeti/terre e che le stelle/soli siano infinite. Bruno replica a questa obiezione che, data l’enorme distanza tra il nostro e gli altri sistemi solari, è logico che i pianeti/terre, che brillano di luce riflessa, non si vedano e che anche la maggior parte delle stelle non si vedano, benché siano infuocate, perché comunque troppo lontane da noi. Per rafforzare empiricamente questo argomento, Bruno si avvale, innanzitutto, di un’analogia: il fatto che noi riusciamo a osservare solo un numero finito di stelle non attesta che non ce ne siano altre, così come il fatto che, guardando un bosco da una certa distanza, soltanto un numero limitato di alberi sia osservabile non prova che dietro di essi non ce ne siano altri. Ma, in secondo luogo, per rendere il suo argomento inoppugnabile, Bruno sostiene una tesi più generale, che può essere considerata il presupposto gnoseologico e metodologico della rivoluzione astronomica, se non dell’intera scienza moderna e contemporanea: l’osservazione empirica, se vuole essere davvero scientifica, deve essere guidata e giudicata dalla ragione teorica. In altre parole, la scienza per Bruno non si fonda sul primato dei sensi, ma su quello, benché relativo, della teoria razionale. 6 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Sulla base della sua teoria dell’universo infinito estensivamente e intensivamente, cioè in quanto spazio infinito pieno di infiniti astri ed esseri, Bruno, pur sostenendola, in realtà scardina la teoria copernicana e ne rivoluziona i connotati, epurandola di tutti i numerosi elementi conservatori, cioè di tutte le tesi che ancora condivideva con la teoria geocentrica antica. A ben vedere, l’unico aspetto della teoria copernicana che Bruno fa proprio è quello della centralità del Sole rispetto ai moti planetari. Ma, innanzitutto, la centralità del Sole nel nostro sistema planetario per Bruno non implica, come per Copernico, la centralità del Sole nel cosmo. Infatti, mentre per Copernico il cosmo, per quanto molto più grande di quello stimato da Tolomeo, era pur sempre finito e sferico, e dunque il Sole poteva rappresentarne il centro, secondo Bruno, poiché l’universo è infinito, esso non può avere alcuna configurazione geometrica e alcun centro, ovvero per lui ogni luogo può essere il centro dell’universo. In secondo luogo, Bruno critica Copernico per aver conservato la tesi aristotelico-tolemaica delle sfere cristalline come cause del movimento dei pianeti e la connessa concezione dei moti perfettamente circolari e con velocità uniforme. Avvalendosi della precisa descrizione delle orbite reali delle comete da parte di Tycho Brahe, Bruno afferma che il moto circolare e uniforme non esiste in natura, né sulla Terra né in cielo. Ma soprattutto Bruno dà una risposta al problema della causa dei moti planetari aperto da Brahe in seguito alla sua messa in dubbio dell’esistenza delle sfere celesti: Bruno sostiene che i pianeti si muovono autonomamente per un impulso interno (“quodam intimo incitamento”), ovvero che il moto è una proprietà originaria e costitutiva degli astri. Anche per questi aspetti, il fondamento delle tesi bruniane è in parte metafisico – sulla base della dottrina animistica neoplatonica, Bruno ritiene che il mondo sia un organismo vivente e gli astri siano dei grandi e divini animali, e come tali capaci di muoversi autonomamente – e in parte fisico-scientifico: poiché la natura è omogenea, i corpi celesti devono avere le stesse proprietà fondamentali dei corpi terrestri, i quali si muovono per impulso interno e con velocità variabile e traiettorie non circolari. Sempre a partire dal principio dell’omogeneità dell’universo, Bruno, in terzo luogo, avanza la tesi ancor più radicale che tutti gli astri sono soggetti a nascita, morte e cambiamento, adducendo come prova empirica a sostegno della sua tesi l’osservazione, effettuata da Brahe, della comparsa di una stella prima mai vista. Infine, considerando l’insieme delle tesi precedenti, Bruno arriva a una conclusione generale decisamente rivoluzionaria: l’universo non è diviso in due regioni diverse, quella terrestre e quella celeste, con elementi e leggi fisiche distinti, bensì è unitario e caratterizzato dagli stessi elementi e dalle stesse leggi fisiche in ogni sua parte. Non si può dire, dunque, che Bruno non fu per nulla scienziato e non diede alcun contributo scientifico alla rivoluzione astronomica. Se è vero che Bruno dà alla sua teoria astronomica un fondamento metafisico-teologico, è altrettanto vero che anche gli altri protagonisti della rivoluzione astronomica, in particolare Copernico e Keplero, si basarono su principi decisamente metafisico-teologici, e che Bruno, come si è visto, combinò sapientemente argomenti metafisico-teologici con numerosi e solidi argomenti prettamente scientifici, almeno secondo gli standard logico-metodologici della scienza cinquecentesca. Il limite della scientificità di Bruno non è costituito dall’impostazione filosofica della sua teoria astronomica ma semmai dalla mancanza di una sua matematizzazione. 7 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO JOHANNES VON KEPLER Johannes von Kepler (latinizzato in Keplerus da cui in italiano Giovanni Keplero) nacque nel 1571 a Weil der Stadt, città della Germania sud-occidentale vicino a Stoccarda. Di corporatura fragile e di salute precaria, i suoi genitori decisero di farne un ecclesiastico e nel 1584 lo fecero entrare in seminario e, quattro anni dopo, nell’Università luterana di Tubinga, dove Kepler studiò le arti liberali e quindi teologia, venendo a conoscenza della teoria copernicana, che abbracciò e sostenne in pubblici dibattiti. Ma proprio per questo si inimicò le autorità accademiche e nel 1594 dovette interrompere gli studi teologici per andare a insegnare matematica nella scuola evangelica di Graz (Austria). Come insegnante stipendiato, doveva fare anche fare previsioni astrologiche, che spesso si rivelarono fondate (p.e. un inverno rigido, rivolte contadine, la guerra con i turchi), così come i suoi oroscopi personali a pagamento, procurandogli una notevole fama popolare. E’ plausibile che Kepler si basasse per i suoi vaticinii sulle sue vaste conoscenze scientifiche e sulla sua non comune intelligenza, il che spiega la loro fondatezza. Nel 1597 si sposò – la moglie gli avrebbe dato due figli prima di morire prematuramente – e pubblicò la sua prima grande opera, il Mysterium cosmographicum. Quest’opera gli procurò una notevole fama tra gli studiosi e la stima di Tyge Brahe, astronomo imperiale, che gli propose di diventare suo assistente a Praga. Kepler accettò anche per evitare le persecuzioni contro i protestanti scatenate dalle autorità cattoliche dell’Austria. Brahe gli affidò il compito di calcolare esattamente, in base alle sue osservazioni, l’effettiva orbita di Marte. L’assistentato praghese diede un apporto fondamentale alle successive scoperte di Kepler, soprattutto perché gli mise a disposizione i precisi e numerosi dati osservativi raccolti da Brahe, ma fu da lui pagato a caro prezzo giacché dovette subire il carattere dispotico e iracondo di Brahe. Morto Brahe nel 1601, ne divenne il successore come astronomo imperiale a Praga. Nel 1604 individuò e studiò a lungo una supernova (la seconda dopo quella scoperta da Brahe nel 1572), che rimase visibile per 18 mesi, e oggi è chiamata “Stella di Keplero”, e pubblicò i risultati delle sue osservazioni nell’opera De Stella nova in pede Serpentarii. Nel 1609, dopo anni di calcoli, ovvero di tentativi falliti di determinare matematicamente le leggi dei moti planetari, Kepler arrivò finalmente a trovare la soluzione esatta e pubblicò Astronomia nova in cui illustra le prime due leggi astronomiche che portano il suo nome. Nel 1612, in seguito alla morte dell’imperatore Rodolfo II, Kepler si trasferì a Linz (Austria) dove riprese a insegnare matematica ma soprattutto proseguì la sua ricerca astronomicomatematica per altri 9 anni per riuscire a trovare la formula matematica della sua terza legge, che espose nell’opera Harmonice mundi (1618). L’anno dopo sua madre fu accusata di stregoneria e processata da ecclesiastici luterani, ma dopo un anno fu assolta. Nel 1626, a causa delle persecuzioni antiprotestanti, Kepler si trasferì a Ulm, a Sagan e infine a Ratisbona. L’anno successivo pubblicò le Tabulae rudolphinae, le nuove tavole fondamentali dei moti planetari, basate sulla sua nuova definizione matematica della teoria eliocentrica. Quest’opera, iniziata da Keplero sin dai tempi in cui era assistente di Tycho, permise di calcolare con maggiore esattezza la posizione giornaliera dei pianeti del sistema solare, corroborando la fondatezza delle sue tre leggi. Ciononostante, Kepler morì in miseria a Ratisbona nel 1630, all’età di 58 anni. Durante la guerra dei Trent’anni l’esercito svedese di Gustavo Adolfo distrusse il cimitero di Ratisbona e con esso la tomba di Kepler, di cui rimase però la lapide sulla quale egli aveva fatto incidere un epitaffio da lui stesso composto: “Misuravo i cieli, ora fisso le ombre della terra. La mente era nella volta celeste, ora il corpo giace nell’oscurità”. 7 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 3 KEPLER: SOLO SE ELIOCENTRICO IL COSMO E’ MATEMATICO Mi sono proposto di dimostrare con questa operetta, o lettore, che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella disposizione dei cieli, guardò ai cinque corpi solidi regolari che tanto sono stati celebrati fino dal tempo di Pitagora e di Platone e che dispose numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà di quei corpi [..] Di tre questioni ero principalmente impegnato a ricercare la ragione per la quale esse sono così e non in altro modo: il numero, l’estensione e il periodo degli orbi 66. La mirabile armonia delle cose immobili - il Sole, le stelle fisse e lo spazio - che corrispondono alla Trinità di Dio Padre, Dio Figlio e Spirito Santo mi incoraggiò in questo tentativo. Non nutrivo dubbi che le cose mobili mi avrebbero svelato la stessa armonia di quelle immobili. Affrontando il problema da un punto di vista numerico considerai se un orbe non fosse il doppio, il triplo o il quadruplo di un altro [...] Riuscii infine ad arrivare alla soluzione come per caso e ritenni che mi fosse accaduto per volere divino di scoprire casualmente ciò che non ero riuscito a determinare con tanta fatica. J. Keplèro, Mysterium storiographicum, Prefazione Spronato dall’audace cosmologia di Bruno ma educato al rigore scientifico-matematico dal suo maestro Brahe, Keplero abbraccia la teoria copernicana ma la corregge, elaborando una versione della teoria eliocentrica effettivamente rivoluzionaria rispetto alla teoria geocentrica. Egli giunge a questo decisivo risultato in base a due convinzioni fondamentali, tra loro interdipendenti: la convinzione metafisica – assorbita dal platonismo rinascimentale, in particolare dalla sua componente neopitagorica – secondo cui l’universo è governato da un ordine matematico e dunque le sue proprietà fondamentali sono la semplicità e l’armonia; la convinzione teologica – dovuta alla sua fede cristiana – per la quale il cosmo è la creazione di un Dio uno e trino che vi ha impresso la sua triplice orma: il Sole, simbolo di Dio padre, le stelle fisse, simbolo di Gesù Cristo, e lo spazio, simbolo dello Spirito santo. Le convinzioni metafisico-teologiche, che motivano e orientano la ricerca di Keplero, emergono in modo evidente nella sua prima grande opera astronomica, Mysterium cosmographicum (1596), nella quale egli cerca di spiegare il numero, le collocazioni nel cosmo e le distanze dal centro solare dei pianeti sulla base dell’inclusione delle loro orbite nei cosiddetti “solidi platonici”, cioè nei cinque poliedri regolari (cubo, tetraedro, ottaedro, dodecaedro, icosaedro). Quasi subito, Keplero abbandona questa teoria platonico-pitagorica, riconoscendone l’infondatezza scientifica, ma non ne ripudia il presupposto fondamentale, cioè la matematicità intrinseca del cosmo e quindi di tutti i moti degli astri. Mantenendo fermo questo presupposto, Keplero arriva alla successiva scoperta delle tre leggi matematiche del cosmo che portano il suo nome: 66 Sono le sfere trasparenti rotanti su se stesse sul cui equatore si credevano infissi i pianeti per spiegarne il moto circolare. 7 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – 1. le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi: con questa legge Keplero demolisce il postulato geocentrico della perfetta circolarità delle orbite planetarie, che Copernico aveva conservato, sostituendola con una figura geometrica – l’ellisse (l’insieme dei punti la somma delle cui distanze dai fuochi è uguale) – che da un lato è anch’essa matematicamente regolare e, dall’altro, risulta molto più approssimata al tracciato delle orbite planetarie risultante dalle osservazioni empiriche. 2. Il raggio vettore che va dal centro del Sole al centro di ogni pianeta percorre, in tempi uguali, uguali aree dell’ellisse: con questa legge Keplero demolisce il postulato geocentrico della costanza della velocità dei pianeti, che Copernico aveva mantenuto, teorizzando che essi, nelle loro orbite di rivoluzione intorno al Sole, accelerano intorno al perielio (il punto dell’orbita più vicino al Sole) e rallentano intorno all’afelio (il punto dell’orbita più lontano dal Sole). Anche in questo caso a un ordine matematico fittizio – la velocità uniforme – Keplero sostituisce purtuttavia un altro ordine matematico – la variazione di velocità obbedisce comunque a una regolarità matematica – che possiede una maggiore corrispondenza con le osservazioni empiriche dei moti planetari. 3. I quadrati dei tempi di rivoluzione dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole, ovvero il rapporto tra queste due grandezze è lo stesso per tutti i pianeti: Copernico aveva genericamente parlato di una proporzionalità tra orbite dei pianeti e loro distanze dal Sole, Keplero fa molto di più: ne scopre la formula matematica e in questo modo la rende scientificamente precisa e convincente. In quanto basata su queste tre leggi, la nuova teoria eliocentrica di Keplero presenta notevoli vantaggi scientifici, rispetto sia alla teoria tolemaica sia alla teoria copernicana: una radicale semplificazione, dovuta all’eliminazione di tutte le sfere celesti (deferenti ed epicicli): per calcolare la posizione dei pianeti è sufficiente considerare 6 orbite ellittiche (più una per la Luna, satellite della Terra), anziché 40 (Tolomeo) o 36 (Copernico) orbite circolari; una maggiore unificazione, dovuta in particolare alla terza legge, che stabilisce una proporzione matematica che collega il Sole e tutti i pianeti, attestandone così l’ordine unitario in modo molto più esteso e potente; una maggiore approssimazione alle osservazioni empiriche dei moti planetari. Grazie a questi vantaggi, la teoria kepleriana costituisce un formidabile argomento scientifico a favore dell’eliocentrismo contro il geocentrismo, dal momento che le tre leggi di Keplero valgono solo assumendo la centralità e la fissità del Sole, e il movimento di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole. Tuttavia, neanche la teoria kepleriana è risolutiva nello scontro tra eliocentrismo e geocentrismo. Nemmeno essa, infatti, riesce a far collimare le orbite teoriche con le orbite osservate (le orbite planetarie non sono perfettamente ellittiche, a causa dell’interazione dei campi gravitazionali dei pianeti), ma soprattutto nemmeno Keplero riesce a provare con argomenti empirici il doppio movimento della Terra. Ciononostante, Keplero è convinto non solo che le leggi matematiche da lui scoperte confermano l’eliocentrismo, ma soprattutto che esse dimostrano l’esistenza di Dio. Egli infatti sostiene che un cosmo matematicamente ordinato non può che essere il prodotto di un essere intelligente infinitamente superiore al cosmo stesso. In altre parole, per Keplero, 7 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – la sua teoria eliocentrica possiede un significato teologico ancora più importante di quello scientifico. Nonostante il grande risultato già raggiunto con le sue tre leggi, Keplero prosegue la sua ricerca e, anche se sempre esclusivamente sul piano teorico, e in questo caso oltretutto anche senza alcuna matematizzazione, Keplero dà un altro notevole apporto alla vittoria dell’eliocentrismo e più in generale al progresso della scienza. Egli teorizza che il Sole non è soltanto il centro geometrico dell’universo, come per Copernico, ma anche e soprattutto la causa fisica del movimento di tutti i pianeti. Secondo Keplero, infatti, il Sole è dotato di un’ “anima motrice” e ruotando su sé stesso emana intorno a sé una forza magnetica la quale a seconda del polo che i pianeti gli rivolgono nel corso delle loro rivoluzioni alternativamente li attrae e li respinge mantenendoli così in perenne movimento ellittico. Con questa teoria animistico-magnetica, un misto di metafisica e scienza, Keplero riesce a trovare un’interpretazione fisico-dinamica delle sue leggi matematiche: i pianeti più distanti dal Sole sono più lenti e ogni pianeta rallenta avvicinandosi all’afelio poiché la forza magnetica si indebolisce quanto più si irradia lontano dal Sole; viceversa i pianeti più vicini al Sole sono più veloci e ogni pianeta accelera avvicinandosi al perielio perché la forza magnetica del Sole è più intensa nelle sue vicinanze. Ma soprattutto, con la sua teoria del Sole motore dei pianeti, Keplero riesce quantomeno a ipotizzare una soluzione al problema della causa dei moti planetari, rimpiazzando l’antica spiegazione basata sulle sfere celesti, la cui esistenza lui stesso aveva definitivamente contribuito a confutare con le sue tre leggi. Anche in questo caso il fondamento della sua nuova teoria dinamica del funzionamento dell’universo è la centralità del Sole: un altro convincente argomento a sostegno dell’eliocentrismo. Ma pur sempre esclusivamente teorico. Non ancora pago dei risultati raggiunti, a riprova del significato metafisico che attribuiva alla sua ricerca scientifica, Keplero, nell’ultimo periodo della sua vita, utilizza le sue leggi matematiche del cosmo per elaborare una nuova versione della sua teoria dell’ordine cosmico divino, sostituendo all’originaria impostazione geometrica e statica - basata sui cinque solidi platonici - una nuova impostazione aritmetico-musicale e dinamica. Egli, infatti, elabora una procedura matematica per tradurre le lunghezze e le velocità variabili dei moti orbitali di ogni pianeta in altrettanti toni e ottave musicali. In questo modo arriva a sostenere che ogni pianeta con il suo movimento orbitale “suona” una frase musicale e che l’insieme delle frasi musicali di tutti i pianeti compone una vera e propria melodia polifonica, arrivando addirittura a comporne lo spartito. In altri termini, Keplero, pur avendo riconosciuto l’infondatezza della sua prima teoria basata sui cinque poliedri regolari, non abbandona la convinzione pitagorica in un ordine matematico dell’universo ma la radicalizza elaborando una vera e propria teoria musicale dei movimenti planetari. Duemila anni dopo Pitagora, Keplero è convinto di dare così piena dignità scientifica alla teoria pitagorica della musica cosmica sprigionata dai moti degli astri. Benché infondata, la teoria astronomico-musicale di Keplero risulta però scientificamente feconda in quanto diffonde la fede nell’essenza matematica dell’universo e nella conseguente possibilità di unificare tutti i fenomeni cosmici in base a un’unica legge scientifica. 7 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Forse anche per il suo convinto neopitagorismo, Keplero, tuttavia, non abbraccia la tesi bruniana dell’infinità dell’universo. Anzi, contro di essa Keplero elabora un robusto argomento empirico: se il cosmo fosse infinito, afferma, esisterebbero – come aveva sostenuto Giordano Bruno – infinite stelle; ma in tal caso la luminosità cosmica dovrebbe necessariamente essere infinita, dunque il cosmo dovrebbe risultare perennemente luminoso, il che è smentito dal buio notturno. 7 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LA SCOPERTA LA REALTA’ COME MECCANISMO MATEMATICO 7 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE: L’ETA’ MODERNA (XVII SEC. d.C.) 7 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. [...] Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. Galilei, Il Saggiatore 7 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – III VIAGGIO LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA MODERNA 7 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU... LA SCIENZA SPERIMENTALE 8 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO GALILEO GALILEI Galileo Galilei nacque a Pisa nel 1564. Il padre era al tempo stesso musicista e commerciante, la madre discendeva da una famiglia nobile. Galileo (si usa chiamarlo per nome anziché per cognome perché pubblicava le sue opere col nome) studiò inizialmente col padre, poi dialettica con un maestro privato e quindi in un convento come novizio fino al quattordicesimo anno d’età. Nel 1580 il padre iscrisse Galileo all’Università di Pisa indirizzandolo agli studi di Medicina, in vista dei lauti guadagni della professione di medico. Ma Galileo si appassionò invece alla matematica, insegnatagli da Ostilio Ricci non in modo astratto ma applicata alla meccanica e all’ingegneria. Durante i 5 anni di studi universitari a Pisa Galileo giunse alla sua prima scoperta, quella dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo. Nel 1585, attratto dagli studi meccanici, si trasferì a studiare a Firenze. L’anno successivo, avvalendosi delle teorie di Archimede, costruì un modello perfezionato di bilancia idrostatica, uno strumento per la misurazione del peso specifico dei corpi. Per mantenersi Galileo diede lezioni private di matematica e cercò anche, senza successo, di ottenere una cattedra di matematica all’universià di Bologna. Nel 1588, su invito dell’Accademia fiorentina (quella fondata da Ficino nel 1463), tenne due lezioni sulla topografia dell’inferno di Dante, fatto rilevante perché testimonia la vastità e la versatilità della ricerca conoscitiva di Galileo. Nel 1589, grazie all’interessamento dell’amico matematico Guidobaldo Del Monte, riuscì a ottenere, da parte del duca di Toscana Ferdinando I Medici, una cattedra di matematica all’università di Pisa. Durante i primi anni di insegnamento universitario, Galileo già assunse un orientamento antiaristotelico e in particolare si occupò della teoria fisica dell’impetus, già abbozzata da Giovanni Filòpono nel VI secolo d.C. ma ripresa e sviluppata nel 1300 da Buridano. Tuttavia, Galileo continuò anche i suoi studi letterari occupandosi dei poemi di Ariosto e di Tasso e scrivendo su di essi due saggi. Nel 1591, in seguito alla morte del padre, Galileo dovette sobbarcarsi i problemi economici della famiglia, in particolare quelli dovuti alle doti matrimoniali delle due sorelle e alle precarie condizioni economiche del fratello musicista. Per aumentare il suo reddito, sempre grazie all’aiuto di Guidobaldo Del Monte, riuscì a ottenere dalla Repubblica di Venezia una cattedra ben più remunerativa all’Università di Padova, dove insegnò per 18 anni, nel corso dei quali divenne amico del nobile veneziano Giovanfrancesco Sagredo (che rese uno dei tre protagonisti del Dialogo sopra i due massimi sistemi) e del frate servita (dell’ordine dei Servi di Maria) Paolo Sarpi, teologo, matematico e astronomo, nonché storico (scrisse l’Istoria del Concilio tridentino, messa all’Indice). Con l’aiuto di un artigiano, a Padova Galileo organizzò una piccola officina dove condusse esperimenti e realizzò strumenti tecnici (p.e. occhiali e calamite) che vendeva per aumentare i suoi introiti. Costruì anche, su proprio progetto, una macchina per alzare l’acqua. Il 9/10/1604 l’astronomo Altobelli informò Galileo di avere avvistato una “nuova stella”. Si trattava della stessa supernova che 8 giorni dopo fu avvistata e poi a lungo studiata da Keplero, e che per questo porta il suo nome. Galileo tenne su di essa alcune lezioni, sostenendo che, in base al calcolo della parallasse, era impossibile che fosse situata nella sfera sublunare e dunque non poteva che essere una stella appena generata che attestava che gli astri non erano immutabili. Come Keplero, per aumentare le sue entrate, Galileo faceva anche oroscopi personali. Per questo sempre nel 1604 fu denunciato da un suo collaboratore all’inquisizione padovana con la motivazione che negava il libero arbitrio. Le autorità della Repubblica di Venezia intervennero e bloccarono il procedimento inquisitoriale. 8 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Nel 1609 Galileo venne a sapere che un artigiano olandese aveva costruito un cannocchiale (ma era già usato in Cina da secoli) e se ne costruì uno che presentò alle autorità veneziane come una propria invenzione, ricevendone un raddoppio di stipendio. Se dunque non si può attribuire a Galileo l’invenzione del cannocchiale, gli si può tuttavia attribuire quella del telescopio, in quanto fu il primo scienziato a usare il cannocchiale per osservare gli astri a scopo di ricerca astronomica. Il primo frutto delle osservazioni al telescopio della volta celeste fu la pubblicazione nel 1610 del Sidereus nuncius (Notizia astrale) in cui Galileo illustrava cinque scoperte che smentivano altrettante caratteristiche della teoria aristotelico-tolemaica del cosmo: l’irregolarità della superficie lunare, le macchie solari, le fasi di Venere, quattro satelliti di Giove, la maggiore distanza delle stelle fisse dalla Terra. Battezzando i satelliti di Giove “pianeti medìcei”, Galileo sfruttò le sue scoperte astronomiche per ottenere l’assunzione come matematico all’università di Pisa da parte di Ferdinando II de’ Medici, con uno stipendio maggiore di quello che percepiva a Padova. Per tornare a Firenze Galileo lasciò la sua convivente, una veneziana, dalla quale aveva avuto due figlie, non legittime, e un figlio, l’unico che riconobbe come legittimo, portando con sé solo le figlie che prima affidò alla nonna e poi costrinse a farsi suore. Le scoperte astronomiche di Galileo furono messe in dubbio dagli scienziati conservatori, compreso l’Astronomo vaticano, sia a ragione della malafede di Galileo, che si era attribuito un’invenzione non sua, sia a motivo della possibilità che le lenti distorcessero la visione (bisogna tener conto che le lenti costruite da Galileo non permettevano ancora una visione nitida). Galileo ebbe però l’autorevole sostegno di Keplero, che, avuto un cannocchiale, verificò le scoperte galileiane e le confermò pubblicamente. Così, nel 1611, Galileo fu invitato dai gesuiti a presentare le sue scoperte a Roma, venendo accolto addirittura da papa Paolo V e da alcuni cardinali, tra cui Maffeo Barberini che divenne amico e sostenitore di Galileo. In seguito furono i gesuiti stessi a confermare con le loro osservazioni telescopiche le scoperte galileiane. Anzi un gesuita tedesco rivendicò di aver già scoperto, prima di Galileo, le macchie solari e sostenne che esse consistevano in sciami di astri ruotanti intorno al Sole. Galileo scrisse allora e pubblicò Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti difendendo la precedenza della propria osservazione e argomentando che le macchie solari erano una proprietà della materia fluida che componeva il Sole e che la loro apparizione ciclica attestava la rotazione solare. Ma già nel 1611, un gesuita, il cardinale Bellarmino, membro del Sant’Uffizio dell’inquisizione, cominciò a nutrire sospetti sull’ortodossia di Galileo e a indagare sulle sue possibili deviazioni eretiche.Nel 1612 Galileo scrisse e pubblico il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, in cui confutò la tesi aristotelica secondo cui il galleggiamento dei corpi dipende dalla loro forma in nome della teoria di Archimede imperniata invece sul peso specifico, suscitando una polemica scientifica che si concluse con una per lui trionfale dimostrazione sperimentale a Palazzo Pitti alla presenza del granduca e della granduchessa di Toscana. Inoltre, a partire dal 1611, Galileo in varie lettere private, in particolare in quattro poi chiamate “lettere copernicane”, cominciò a sostenere che le sue osservazioni telescopiche, in particolare quella delle fasi di Venere e di Mercurio, attestavano che i due pianeti giravano intorno al Sole, prendendo posizione a favore della teoria copernicana e attribuendosi il merito di aver fornito la prima prova osservativa della sua fondatezza. Di fatto, cominciò a diffondersi la voce del copernicanesimo di Galileo tanto che nel dicembre del 1614 il domenicano Caccini, durante la sua predica dal pulpito di S. Maria Novella a Firenze, accusò Galileo di contraddire le sacre scritture. L’anno dopo una delle lettere copernicane fu inviata al cardinale Sfondrati prefetto della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti e in seguito Caccini si recò a Roma per denunciare Galileo al Sant’Uffizio dell’inquisizione, che decise di procedere all’esame degli scritti di Galileo arrivando alla conclusione, dopo aver consultato una commissione di teologi, che la teoria copernicana risultava incompatibile con le sacre scritture, perché negava la centralità e 8 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’immobilità della Terra, e perciò era da ritenersi eretica ed dunque eretico chi la sosteneva. Nel febbraio del 1616 il papa ordinò al cardinale Bellarmino di convocare Galileo e di ingiungergli di rinunciare a sostenere la teoria copernicana. Il mese successivo le opere di Copernico e tutti gli scritti filocopernicani furono messi all’Indice. Tuttavia, la Chiesa ammise la pubblicazione e la circolazione di una versione censurata del De revolutionibus orbium coelestium, cioè emendata di tutti i passi che direttamente o indirettamente presentavano la teoria eliocentrica come una descrizione reale del cosmo, accettando che essa potesse essere studiata come semplice “ipotesi matematica”, cioè come una teoria del tutto astratta. Galileo non si pronunciò più pubblicamente a favore della teoria copernicana fino al 1618, quando il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio romano della Chiesa, in seguito a un nuovo avvistamento di ben tre stelle comete, tenne una lezione accademica che ebbe una notevole risonanza in quanto egli argomentò, in senso antitolemaico, che le comete erano astri che si muovevano oltre la sfera lunare. In realtà l’antitradizionalismo di Grassi, basato sugli scritti di Tyge Brahe, era finalizzato a confutare la teoria copernicana. Brahe, infatti, aveva sostenuto che se la Terra avesse avuto un moto di rivoluzione intorno al Sole, e a tale moto fosse dovuto l’apparente moto retrogrado dei pianeti, anche le comete avrebbero dovuto presentare un apparente moto retrogrado, il che non risultava, attestando che la Terra era ferma e che il moto retrogrado dei pianeti non era un’apparenza ottica dovuta alla relatività dei moti ma un fenomeno reale. L’obiettivo strategico di Grassi era dunque innovare l’astronomia della Chiesa, abbandonando la teoria tolemaica a favore della teoria di Brahe, così da poter sostenere in modo più aggiornato e convincente la centralità e l’immobilità della Terra. Contro la tesi di Grassi, Galileo scrisse e pubblicò nel 1622 Il saggiatore, muovendole obiezioni fondate, esponendo i criteri e i presupposti della sua nuova metodologia scientifica ma sostenendo una tesi alternativa clamorosamente erronea e paradossalmente tradizionalista, quella secondo cui le comete erano fenomeni luminosi dovuti all’interazione tra i raggi solari e l’atmosfera terrestre. Quello stesso anno fu eletto papa, con il nome di Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, amico e mentore di Galileo. Nel 1624 Galileo si recò a Roma per parlare con lui e tentare di convincerlo a riabilitare completamente la teoria copernicana, senza però ottenere alcun suo impegno in tal senso. Ciononostante, confidando nell’amicizia del papa, Galileo iniziò a scrivere la sua opera più famosa, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, che terminò e pubblicò nel 1632. Con il Dialogo Galileo voleva dimostrare definitivamente e incontrovertibilmente la verità fisica della teoria copernicana. Tuttavia, egli adottò diplomaticamente il genere del dialogo per dare un’immagine di neutralità, ovvero per presentare la sua opera come una illustrazione obiettiva, super partes, degli argomenti a favore delle due teorie rivali. Nel Dialogo, infatti, interloquiscono tre personaggi: Salviati, sostenitore dell’eliocentrismo; Simplicio, aristotelico-tolemaico favorevole al geocentrismo; Sagredo, nobiluomo interessato a comprendere le due teorie, benché a mano a mano sempre più favorevole a quella eliocentrica. Salviati e Sagredo erano stati due amici di Galileo, entrambi già morti; Simplicio è un personaggio inventato di cui Galileo prese il nome da un commentatore antico di Aristotele. La pubblicazione del Dialogo suscitò l’aspra reazione della curia vaticana e dello stesso Urbano VIII che accusò Galileo di aver raggirato i prelati che gli avevano rilasciato l’autorizzazione a pubblicarlo. Subito dopo nel 1633 il Sant’uffizio dell’inquisizione romana intimò a Galileo di presentarsi al suo cospetto e aprì un processo che si concluse con una sentenza che dichiarava Galileo colpevole di eresia e di disobbedienza ai precetti della Chiesa per aver sostenuto la teoria copernicana, nonostante l’ammonizione del 1616, e lo condannava all’abiura (senza la quale sarebbe stato messo al rogo), alla detenzione e alla recita quotidiana di un salmo penitenziale per tre anni. Galileo abiurò e ottenne che i salmi venissero recitati per lui dalla figlia, suor Maria Celeste. Fu detenuto dapprima nella 8 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – residenza romana del granduca di Toscana, poi in casa dell’arcivescovo Piccolomini a Siena, infine ottenne gli arresti domiciliari nella sua villa di Arcetri, nella campagna fiorentina, con l’obbligo di ricevervi solo i familiari ma il permesso di corrispondere per lettera con chi volesse. Galileo riprese così i suoi studi, scrivendo una nuova opera – Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze, pubblicata in Olanda nel 1638 – che rappresenta la pietra miliare della fisica moderna, benché limitata alla meccanica, ovvero l’opera-ponte tra la rivoluzione astronomica e la rivoluzione fisica, che insieme costituiscono la rivoluzione scientifica moderna. Nei Discorsi, Galileo si occupa della resistenza dei materiali, dell’ipotesi della struttura atomica della materia, degli elementi e delle leggi della statica e della dinamica. Galileo morì nella sua villa nel 1642, lo stesso anno in cui nacque Newton, e fu tumulato nella chiesa di Santa Croce a Firenze, a fianco di Machiavelli e Michelangelo, ma, a causa dell’inquisizione, fino al 1737 non ebbe alcun monumento funebre. Nel 1986, papa Paolo VI avviò la revisione del processo inquisitoriale del 1633 a Galileo che fu portata a termine nel 1992, sotto il pontificato di papa Giovanni Paolo II, riabilitando Galileo dal punto di vista religioso. 8 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 3 GALILEI: L’ELIOCENTRISMO SPERIMENTALE Ma la conversion diurna si dà per moto proprio e naturale al globo terrestre, ed in conseguenza a tutte le sue parti, e come impresso dalla natura è in loro indelebile; e però67 quel sasso, che è in cima della torre, ha per suo primario instinto l’andare intorno al centro del suo tutto in ventiquattr’ore, e questo natural talento esercita egli eternamente, sia pur posto in qualsivoglia stato. E per restar persuaso di questo, non avete a far altro che mutar un’antiquata impressione fatta nella vostra mente, e dire: “Sì come, per aver stimato io sin ora che sia proprietà del globo terrestre lo stare immobile intorno al suo centro, non ho mai auto difficultà o repugnanza alcuna in apprendere che qualsivoglia sua particella resti essa ancora naturalmente nella medesima quiete; così è ben dovere che quando naturale instinto fusse del globo terreno l’andare intorno in ventiquattr’ore, sia d’ogni sua parte ancora intrinseca e naturale inclinazione non lo star ferma, ma seguire il medesimo corso”. Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, cap. VII 1. Galilei matematico, inventore tecnico, ricercatore empirico Le tre leggi di Keplero indubbiamente fecero compiere un salto di qualità alla rivoluzione astronomica. La teoria eliocentrica non si sarebbe però imposta come paradigma scientifico efficacemente concorrenziale rispetto alla teoria aristotelico-tolemaica senza l’opera di Galileo Galilei. In campo astronomico, il contributo decisivo di Galilei è la scoperta delle prime prove sperimentali favorevoli alla teoria eliocentrica. Galilei è infatti innanzitutto un grande osservatore e un geniale costruttore di strumenti d’indagine scientifica. Ma egli è al tempo stesso un matematico neoplatonico e neopitagorico che condivide la visione matematica del cosmo di Copernico. Di conseguenza Galilei presuppone metafisicamente che la teoria eliocentrica sia vera e impegna tutto se stesso nell’impresa scientifica di provare sperimentalmente e di argomentare teoricamente la verità dell’eliocentrismo. 2. L’invenzione del telescopio e la nascita della scienza sperimentale Saputo che in Olanda veniva usato uno strumento ottico capace di ingrandire le dimensioni degli oggetti molto distanti, Galilei progetta e costruisce autonomamente un cannocchiale e lo utilizza per la prima volta per scrutare gli astri. L’uso galileiano del cannocchiale a scopi scientifici rappresenta simbolicamente la nascita della scienza sperimentale, cioè di una scienza: non più basata sull’esperienza immediata e naturale dei sensi, cioè semplicemente empirica; ma sull’esperienza mediata e artificiale resa possibile da una strumentazione tecnica capace di potenziare enormemente i sensi naturali. Da questo punto di vista si può legittimamente affermare che Galilei non inventò il cannocchiale, ma inventò certamente il telescopio – cioè l’uso scientifico del cannocchiale – e che in tal modo inventò anche la scienza sperimentale. 3. Le osservazioni sperimentali di Galilei I risultati delle osservazioni al telescopio di Galilei sono altrettante falsificazioni delle tesi che compongono e sostengono la teoria geocentrica: 67 Perciò. 8 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – la superficie lunare non è perfettamente sferica ma presenta irregolarità (monti, valli, crateri) come quella terrestre; il Sole mostra delle macchie scure variabili, indizi di processi naturali, e dunque è soggetto al divenire come la Terra; Giove possiede 4 satelliti e ciò toglie alla Terra il monopolio della centralità rispetto ai moti di tutti gli altri corpi celesti e inoltre dissocia la centralità dalla fissità: un astro può muoversi anche se è il centro dell’orbita di altri astri; Venere presenta delle fasi simili a quelle lunari - cioè la sua superficie visibile dalla Terra varia ciclicamente - il che attesta che non possiede una luminosità propria, come credeva Aristotele, ma che brilla di luce solare riflessa, e soprattutto che, in modo analogo alla Luna, si muove tra il Sole e la Terra, ossia è più vicino alla Terra di Mercurio, come sostenuto da Copernico; oltre le cosiddette stelle fisse vi sono miriadi di altre stelle, invisibili a occhio nudo, e dunque l’universo è molto più grande di quanto pensavano gli astronomi geocentrici, si tratta di un argomento a favore dell’impossibilità di rilevare la parallasse della Terra rispetto alle stelle fisse, dunque anche se la parallasse non si vede è possibile che la Terra si muova; Venere inoltre appare sempre molto vicino al Sole, cosa che per Galilei non è spiegabile in base al loro moto di rivoluzione intorno alla Terra, bensì solo assumendo che Venere orbiti intorno al Sole; le dimensioni visibili di tutti i pianeti variano fortemente nel tempo in una misura superiore alle variazioni delle loro distanze dalla Terra stabilite dalla teoria tolemaica. 4. Dalle osservazioni astronomiche alla rivoluzione fisica Ogni scoperta osservativa di Galilei apre una crepa nell’edificio teorico di Tolomeo ma nessuna può essere considerata una prova risolutiva a favore della teoria eliocentrica. Consapevole di ciò, Galilei si impegna a fondo anche nella confutazione teorica dei temibili argomenti antieliocentrici sostenuti dai tolemaici. Per questa via, egli arriva a rivoluzionare la teoria fisica grazie alla elaborazione di due principi fondamentali della fisica moderna: il principio d’inerzia e il principio di relatività detta appunto “galileiana”. Il principale argomento scientifico che i tolemaici muovevano contro la teoria eliocentrica era quello che se la Terra si muovesse su se stessa e intorno al Sole – a velocità notevolissima – il suo moto dovrebbe provocare effetti catastrofici o comunque macroscopici sulla superficie terrestre: il lancio verso l’alto di tutti gli oggetti appoggiati sul suolo, la fuga di uccelli e nuvole verso ovest, la caduta non perpendicolare al suolo dei gravi, la deviazione verso ovest delle palle di cannone sparate in direzione nord-sud o viceversa (la nuova argomentazione elaborata da Tycho Brahe). 5. Principio di inerzia e principio di relatività Per confutare questo argomento, Galilei giunge a sostenere, inizialmente per via unicamente teorica, che tutti i corpi terrestri partecipano al moto della Terra e conservano questo moto anche quando non sono a contatto con la superficie terrestre. Ma ciò implica che la condizione naturale dei corpi non sia la quiete bensì il movimento, ovvero che i corpi tendono a muoversi indefinitamente a meno che una causa esterna ne blocchi il moto – l’esatto contrario di quanto teorizzato da Aristotele. In questo modo Galilei scopre quello che sarà poi chiamato “principio di inerzia”. Estendendo e generalizzando poi questo principio, Galilei giunge a teorizzare che all’interno di un corpo in moto rettilineo uniforme (la stiva di una nave, ma anche la Terra comprensiva di tutta la sua atmosfera) non è possibile stabilire se il corpo stesso è fermo o in moto in quanto tutte le sue parti si muovono alla stessa velocità e dunque le distanze tra loro rimangono invariate allo stesso identico modo che se il corpo fosse fermo. Ciò implica che il giudizio sullo stato fisico di un 8 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – corpo dipende dal punto di vista dell’osservatore: se l’osservatore A è all’interno di un corpo A’ in moto rettilineo uniforme per lui il corpo A’ è fermo, se l’osservatore B è su un corpo B’ - esterno al corpo A’ e in quiete rispetto a questo – per lui il corpo A’ è in moto. Tale relatività, però, non rende soggettiva la fisica, in quanto le osservazioni di A e di B sono traducibili l’una nell’altra, cioè riconducibili a un’unica oggettività, in base a equazioni matematiche di trasformazione, chiamate trasformazioni galileiane. In questo modo Galilei riesce a controbattere e smontare teoricamente gli argomenti tolemaici che confutavano il moto terrestre e, al contempo, a gettare le fondamenta della fisica moderna. Il principio di relatività di Galilei stabilisce che un osservatore che appartiene a un sistema di riferimento in moto rettilineo uniforme (detto “inerziale”), cioè senza variazioni di velocità, non è in grado di stabilire se il sistema di riferimento stesso è fermo o in movimento, poiché gli eventi fisici interni appaiono identici in ognuno dei due casi. Galilei fa l’esempio di una nave, o meglio di una stiva senza finestre di una nave in moto rettilineo uniforme: per un osservatore al suo interno le mosche svolazzano e le gocce cadono perpendicolarmente dal soffitto allo stesso modo sia che la nave non si muova sia che si muova (non è che siccome si muove le mosche vanno a spiaccicarsi sulla parete di poppa della stiva). Oggi possiamo fare l’esempio di un treno o di un’auto, assumendo naturalmente che i passeggeri siano isolati sensorialmente dall’esterno. Ne consegue che, se io sono in uno scompartimento di un treno che procede a velocità costante su un binario rettilineo, non sento alcun vento, non vedo fuggire nessun oggetto sospeso in aria (p.e. un foglio di carta caduto da un libro) nel senso opposto a quello di marcia, non vedo cadere “all’indietro” i corpi più pesanti, ecc. Solo se posso vedere fuori dal finestrino degli alberi o delle case (ma non varrebbe se vedessi solo un altro oggetto che si muove nella stessa direzione alla stessa velocità) potrei stabilire di essere in movimento (rispetto a quei corpi). Il principio di relatività di Galilei smonta la confutazione tolemaica della possibilità che la Terra ruoti su se stessa. Tolomeo, con una tipica argomentazione dialettica, aveva ridotto all’assurdo il moto terrestre sostenendo che esso avrebbe dovuto provocare degli effetti macroscopici facilmente osservabili (la fuga di nuvole e uccelli verso ovest, il lancio nel cielo di tutto ciò che è appoggiato sulla superficie terrestre, un vento intensissimo in direzione est-ovest, la caduta dei gravi non perpendicolare rispetto alla superficie terrestre), effetti che invece non si riscontrano affatto. Galileo controconfuta l’argomentazione tolemaica affermando che tutti i corpi che appartengono al sistema di riferimento Terra, atmosfera terrestre inclusa, sia che la Terra non si muova sia che si muova, non mutano le loro distanze relative e pertanto osservatori interni al sistema di riferimento, anche se la Terra si muovesse, non potrebbero osservare alcun effetto del suo moto. In altre parole, un osservatore sulla superficie terrestre è nella stessa condizione di un osservatore dentro la stiva senza finestre di una nave o dentro il vagone di un treno completamente isolato dall’esterno. E’ doveroso notare che, nel sostenere la sua tesi, Galilei compie delle forzature. In primo luogo, una nave del XVII secolo non era in grado di muoversi di moto rettilineo uniforme e quindi il principio di relatività allora non era sperimentalmente controllabile. In questo caso, Galilei afferma che è possibile ricorrere a un esperimento mentale, cioè a immaginare ciò che non è possibile realizzare effettivamente. In secondo luogo, il moto di rotazione della Terra non è né rettilineo né uniforme e dunque, a rigore, il principio di relatività galileiana non dovrebbe essergli applicabile. Galilei risolve questo problema affermando che, data l’enorme ampiezza della curvatura terrestre e la gradualità e la piccolezza di accelerazioni e decelerazioni rispetto all’enorme velocità media della Terra, per i sensi umani è come se la Terra si muovesse in modo rettilineo e a velocità costante, per cui è lecito assumere per approssimazione che la Terra sia un sistema di riferimento inerziale. 8 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Soprattutto, però, l’applicazione del principio di relatività alla Terra non argomenta che la Terra certamente si muove ma solo che è possibile che si muova. Infatti, proprio perché all’interno di una sistema di riferimento inerziale non è possibile stabilire se ci si muove o se si è fermi, anche per la Terra sono possibili entrambi gli stati fisici e noi osservatori interni non possiamo risolvere il dilemma. In altre parole, con il suo principio di relatività, Galilei riesce solo a argomentare che è falsa la certezza tolemaica della fissità della Terra non che è certo che la Terra si muova. Proprio per questo, Galilei ricorre a un ulteriore argomento, quello delle maree, che, a suo giudizio, forniscono la prova empirico-osservativa del moto terrestre. Secondo Galilei, infatti, l’alzarsi e l’abbassarsi del livello delle acque marine (che alterna ogni 6 ore circa alta e bassa marea) dipende dall’alternarsi di accelerazioni e decelerazioni del moto di rotazione terrestre ogni 12 ore per ogni punto della superficie terrestre. Infatti, ogni punto della superficie della Terra ha una velocità data dalla combinazione della sua velocità di rivoluzione intorno al Sole e della sua velocità di rotazione intorno al proprio asse. Poiché per 12 ore il senso della rivoluzione e quello della rotazione coincidono, la velocità di un punto della superficie terrestre è data dalla somma della velocità di rotazione e di quella di rivoluzione; poiché nelle successive 12 ore lo stesso punto ruota all’inverso, e dunque il senso della rotazione è opposto a quello della rivoluzione, la velocità di rotazione si sottrae a quella di rivoluzione. In questo modo ogni punto della superficie terrestre nel corso di ogni giorno accelera e decelera. Di conseguenza le acque marine tendono a salire (alta marea) o ad abbassarsi (bassa marea) rispetto alle coste, in modo analogo all’acqua contenuta in un catino trasportato su un carrello che continuamente alterna accelerazioni e decelerazioni. Tuttavia, la teoria delle maree di Galilei era erronea, in quanto la scienza successiva ha appurato che esse dipendono soprattutto dall’attrazione gravitazionale esercitata sulla superficie terrestre dalla Luna, dal Sole e dagli altri pianeti del nostro sistema solare (benché in parte minore dipenda anche dalla forza centrifuga sviluppata dal sistema TerraLuna intorno al proprio centro di massa). In conclusione, la prova empirica sostenuta da Galilei, e che per lui attestava la verità della teoria eliocentrica, era in realtà falsa. Dunque Galilei fornisce molti indizi empirici e notevoli argomenti teorici della verità della teoria eliocentrica ma nemmeno lui riesce a trovarne una prova empirica o sperimentale. 8 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VIAGGI DI IERI E VIAGGI DI OGGI La relatività di Galilei e la relatività di Einstein Il principio di relatività di Galilei costituisce il presupposto più diretto della teoria della relatività di Einstein. Quest’ultima infatti è una generalizzazione della prima: la relatività galileiana era limitata ai moti inerziali meccanici mentre la relatività einsteiniana comprende dapprima (relatività ristretta o speciale) tutti i moti inerziali, non solo quelli meccanici ma anche quelli elettromagnetici (p.e. il moto della luce), e, in un secondo tempo, anche i moti non inerziali, cioè quelli accelerati/decelerati (che includono anche quelli rotatori). 8 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – GALILEI: IL METODO MATEMATICO-SPERIMENTALE La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. [...] Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. Galilei, Il Saggiatore Dopo aver dato il suo decisivo, ma pur sempre parziale e fallibile, contributo alla causa dell’eliocentrismo, Galilei si impegna nella costruzione della Fisica come scienza matematica. In questo senso, è lo scienziato che dà l’avvio allo sviluppo della rivoluzione astronomica in rivoluzione scientifica. Per comprendere appieno l’importanza di questo passaggio occorre ricordare che, prima di lui, la scienza fisica era rappresentata dalla fisica aristotelica, ovvero da una scienza basata sulla esperienza diretta dei sensi, che privilegiava gli aspetti qualitativi rispetto a quelli quantitativi e che, di conseguenza, non faceva uso, se non parzialmente, della matematica. Per Galilei la fisica aristotelica non è scienza innanzitutto in quanto le sue teorie – p.e. quella della proporzionalità tra velocità di caduta dei gravi e loro peso – sono false. Ma la falsità dei contenuti della scienza aristotelica, secondo Galilei, dipende dall’indadeguatezza del metodo scientifico aristotelico, cioè da un’erronea procedura di ricerca e da erronei criteri di giudizio della verità di una tesi. Di conseguenza Galilei fonda la sua nuova fisica su un’impostazione metodologica radicalmente diversa imperniata sul primato della matematica e su una nuova modalità di verifica: l’esperimento, cioè un’esperienza artificiale progettata teoricamente e costruita tecnicamente. Tuttavia, per comprendere il nuovo metodo scientifico galileiano, bisogna innanzitutto considerare che il suo fondamento ultimo non è scientifico. E’ Galilei stesso a dichiarare esplicitamente che la sua nuova scienza fisica poggia su due pilastri filosofico-metafisici, il primo desunto da Democrito, il secondo da Pitagora e Platone: la realtà fisica possiede unicamente delle proprietà quantitative (altezza, larghezza, peso, volume, ecc.), le proprietà qualitative (colori, odori, sapori, ecc.) sono illusioni dei nostri sensi, i quali, dunque, non possono essere considerati scientificamente del tutto affidabili; la realtà fisica possiede un’organizzazione interna di tipo matematico e funziona matematicamente e quindi ogni fenomeno naturale deve essere ricondotto a leggi universali e necessarie e deve essere descritto e spiegato attraverso una formula/funzione matematica. In relazione a queste due tesi decisive, la grandezza di Galilei consiste sia nell’aver contaminato due tradizioni filosofiche antitetiche – quella materialistica di Democrito e quella idealistica di Pitagora e Platone – sia nell’aver attribuito anche al mondo terrestre 9 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – quell’ordine matematico che Pitagora e Platone avevano confinato al solo mondo celeste e nell’aver così ritenuto possibile, contro Platone, una scienza matematica dei fenomeni terrestri. Già considerando i due pilastri filosofico-metafisici, appare evidente come la scienza galileiana subordini l’esperienza sensibile alla teoria razionale: essa, infatti, assume che la vera realtà è un’astrazione mentale basata sull’eliminazione di tutte le proprietà qualitative e di tutto ciò che non è riconducibile a leggi matematiche. Questa impostazione razionalistica è confermata e chiarita dalla descrizione e soprattutto dalla pratica galileiana del metodo della ricerca scientifica. A questo riguardo, dobbiamo tener conto che Galilei non scrive mai un trattato di metodologia scientifica, ma si limita a inserire alcune brevi riflessioni metodologiche nelle sue opere incentrate sull’esposizione delle sue teorie scientifiche, oppure nelle sue epistole. In altre parole, a livello metodologico, gli scritti galileiani ci offrono solo spunti frammentari e, in tal senso, per interpretare correttamente il metodo galileiano bisogna rifarsi non solo e non tanto al metodo galileiano teorizzato ma anche e soprattutto a quello praticato, ricavabile dalla sua esposizione delle sue procedure di ricerca e scoperta scientifica. Nelle sue annotazioni metodologiche, Galilei afferma chiaramente che il metodo scientifico è costituito da due componenti: 1. le “sensate esperienze”, espressione che, nella lingua italiana del ‘5-600, significa “esperienze dei sensi”; 2. le “necessarie dimostrazioni”, espressione con la quale Galilei si riferisce ai ragionamenti matematici. In prima battuta, “sensate esperienze” sembra riferirsi all’aspetto empirico del processo scientifico, “necessarie dimostrazioni” all’aspetto teorico. Se è vero che Galilei oscilla nel dare la priorità all’una o all’altra, e addirittura che in una sua lettera afferma che bisogna “anteporre le esperienze a qualsivoglia discorso”, i due presupposti filosofico-metafisici di Galilei e la sua pratica scientifica – in particolare la coincidenza tra “sensate esperienze” ed esperimenti – comprovano che per “sensate esperienze” Galilei non intende l’esperienza sensibile naturale. Innanzitutto, infatti, come potrebbe Galilei fondare la scienza moderna sul primato dell’esperienza sensibile se pensa che tutte le sensazioni qualitative siano false? In secondo luogo, già sappiamo che Galilei abbraccia la teoria eliocentrica ben prima di effettuare le osservazioni con il telescopio, ovvero ben prima di trovare nuovi indizi empirici a favore della teoria eliocentrica. E’ anzi propria la preventiva opzione a favore dell’eliocentrismo che stimola e orienta l’osservazione telescopica degli astri che permette a Galilei di rinvenire quegli indizi. Lo stesso vale per la teoria della caduta dei gravi: contro l’esperienza sensibile, che sembra attestare che gli oggetti più leggeri cadano più lentamente di quelli più pesanti, Galilei ipotizza teoricamente che tutti i gravi cadono con la stessa accelerazione uniforme e solo dopo questa teorizzazione, e in base ad essa, riesce a confermare la sua ipotesi teorica in base all’esperienza, ma non all’esperienza ingenua dei sensi, ma all’esperienza avveduta degli esperimenti. E’ proprio questa il punto decisivo: l’esperienza su cui si deve basare la scienza per Galilei non è l’esperienza sensibile naturale, che semmai è il criterio di verità della falsa scienza antica, ma l’esperimento, cioè una esperienza artificiale e sofisticata. Più precisamente, l’esperimento si differenzia dalla semplice esperienza per questi motivi: 1. è premeditato e progettato in base a un’ipotesi teorica, cioè è un’esperienza teoricamente orientata e mirata; 2. è organizzato e condotto con strumenti tecnici capaci di potenziare i sensi umani e di permettere una precisa misurazione matematica dei fenomeni fisici; 3. è selettivo e astratto, cioè costruisce uno stato fisico artificiale, in quanto isola ed accentua alcuni aspetti della realtà fisica eliminandone o riducendone al minimo altri (p.e. l’attrito nel caso della caduta dei gravi). 9 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Torniamo appunto all’esempio della legge di caduta dei gravi. A livello teorico, e in modo controintuitivo, cioè in contrasto con l’esperienza sensibile immediata, Galilei teorizza non solo che tutti i corpi in caduta libera nell’atmosfera terrestre si muovono verso il centro della Terra con la stessa accelerazione uniforme ma anche che lo spazio percorso aumenti in modo proporzionale al quadrato del tempo di caduta. Per trovare conferma alla sua teoria matematica della caduta dei gravi, Galilei costruisce e realizza il famoso esperimento del piano inclinato. Grazie ad esso, innanzitutto, anziché far cadere i corpi verticalmente nell’aria, Galilei li fa scivolare obliquamente su un piano di legno, in modo da ridurne il moto di caduta e da poterlo osservare meglio, per così dire al rallentatore; in secondo luogo sul piano di legno scava e leviga una scanalatura e vi fa rotolare delle biglie di bronzo, di diversa grandezza e peso, il più sferiche e lisce possibili, in modo da ridurre al minimo, ovvero da rendere irrilevante, l’attrito; in terzo luogo, misura la lunghezza della scanalatura e vi posiziona dei campanelli di segnalazione del passaggio delle biglie nei punti in cui, in base alla legge matematica da lui ipotizzata, prevede che la biglia arrivi ogni uguale intervallo di tempo, cioè ogni secondo di scivolamento; in quarto luogo, costruisce e usa un orologio ad acqua per misurare il trascorrere del tempo nel modo più preciso possibile. Date queste premesse, Galilei riesce a confermare la sua legge di caduta dei gravi: due o più biglie di peso doppio l’una rispetto all’altra “cadono” tutte con la stessa accelerazione uniforme (9,8 m/s2) e secondo le misure matematiche previste dalla legge di proporzionalità tra lo spazio percorso e il quadrato del tempo di percorrenza. Ciò attesta, per Galilei, che, anche in questo caso, l’esperienza sensibile naturale è ingannevole in quanto l’apparente proporzionalità tra i moti di caduta e il peso dei gravi (anziché i quadrati dei loro tempi di caduta) dipende solo dall’interferenza dell’attrito dell’aria che rallenta maggiormente i corpi più leggeri rispetto a quelli più pesanti. In questo modo, siamo in grado di comprendere meglio i significati, le funzioni e l’interazione di “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni” nel procedimento scientifico. Dal momento che le “sensate esperienze” sono gli esperimenti e che gli esperimenti presuppongono le “necessarie dimostrazioni” – cioè un’ipotesi teoricomatematica – ne segue che per Galilei: le “necessarie dimostrazioni” hanno una priorità, per quanto relativa; “sensate esperienze”, non significa “esperienze spontanee dei sensi naturali” ma “esperienze dei sensi guidati dalla teoria, ossia dalla ragione, e potenziati da un’apparecchiatura tecnica” (il che, a livello linguistico, spiega anche il successivo slittamento di significato dell’aggettivo “sensato” a sinonimo di “ragionevole”). A questo punto, possiamo anche schematizzare i passaggi fondamentali del nuovo metodo scientifico utilizzato da Galilei: 1. conoscenza delle teorie fisiche tradizionali (p.e. teoria geocentrica, teoria della caduta dei gravi, teoria dei proiettili, ecc.) e del loro corredo di prove empiriche e argomenti razionali; 2. messa in dubbio della scientificità delle teorie tradizionali; 3. elaborazione razionale di un’ipotesi teorica nuova e alternativa formulata come una legge matematica; 4. deduzione da essa di possibili fenomeni singoli adatti alla sperimentazione; 5. realizzazione di esperimenti di verifica della corrispondenza (ma nel senso di buona approssimazione, non della perfetta coincidenza) tra lo svolgimento di uno dei fenomeni deducibili dall’ipotesi teorica e la legge matematica che la esprime; 6. conferma o smentita dell’ipotesi teorica: nel primo caso l’ipotesi viene promossa a teoria scientifica, nel secondo o viene corretta o viene scartata e sostituita da una nuova ipotesi. 9 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – In relazione all’ultimo punto, va evidenziato che per Galilei, benché le “necessarie dimostrazioni” abbiano una relativa priorità, le “sensate esperienze” (cioè gli esperimenti) possono retroagire sulle “necessarie dimostrazioni” (cioè le ipotesi teoriche) contribuendo alla loro correzione e perfino alla loro sostituzione con nuove ipotesi teoriche. In questo caso, è senz’altro vero che, secondo Galilei, le “sensate esperienze” hanno la parola finale e che, se esse sono impostate in base alle “necessarie dimostrazioni”, possono a loro volta contribuire all’elaborazione di queste ultime. In altri termini, il procedimento scientifico galileiano è circolare e interattivo, fermo restando che il la, cioè l’avvio, è di tipo teorico. Tirando le somme finali, la conclusione è che, mentre la scienza antico-medievale, ovvero aristotelica, si basa su un metodo osservativo-induttivo imperniato sull’esperienza sensibile naturale, la scienza moderna, ovvero galileiana, si fonda su un metodo ipoteticodeduttivo incardinato sull’esperimento. Sinteticamente, la scienza antica è classificabile come una scienza empirica, la scienza moderna come una scienza sperimentale. 9 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – GALILEI: LA SCIENZA NON INTERFERISCE CON LA RELIGIONE SALVIATI Molto acutamente opponete; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Giornata I Il motivo, dunque, che loro [chi accusava Galilei di eresia, ndr] producono per condennar l’opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è che leggendosi nelle Sacre Lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra. Sopra questa ragione parmi primeriamente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento, il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quel che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani ed occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future, le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna. Di qui mi par di poter assai ragionevolmente dedurre che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto mistero. Perché, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d’accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati, attribuendo sino all’istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi 9 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – vorrà asseverantemente sostenere che l’istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d’acqua, di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? E massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ad alla salute dell’anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo. […] Dalle quali cose descendendo più al nostro particolare, ne séguita per necessaria conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se il cielo si muova o stia fermo, né la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la Terra sia contenuta nel centro di esso o da una banda, non avrà manco avuto intenzione di renderci certi di altre conclusioni dell’istesso genere, e collegate in maniera con le pur ora nominate, che senza la determinazion di esse non se ne può asserire questa o quella parte; quali sono il determinar del moto e della quiete di essa Terra e del Sole. E se l’istesso Spirito Santo a bello studio ha pretermesso d’insegnarci simili proposizioni, come nulla attenenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come si potrà adesso affermare, che il tener di esse questa parte, e non quella, sia tanto necessario che l’una sia de Fide, e l'altra erronea? Potrà, dunque essere un’opinione eretica, e nulla concernente alla salute dell'anime? o potrà dirsi, aver lo Spirito Santo voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo. Galilei, Lettera a Cristina di Lorena Roma, 22 giugno 1633 [...] Essendo che tu, Galileo fig.lo del q.m Vinc.o Galilei, Fiorentino, dell’età tua d’anni 70, fosti denuntiato del 1615 in questo S.o Off.o, che tenevi come vera la falsa dottrina, da alcuni insegnata, ch’il sole sia centro del mondo et imobile, e che la terra si muova anco di moto diurno; ch’havevi discepoli, a’ quali insegnavi la medesima dottrina come vera; che all’obiettioni che alle volte ti venivano fatte, tolte dalla Sacra Scrittura, rispondevi glosando detta Scrittura conforme al tuo senso; e successivamente fu presentata copia d’una scrittura, sotto forma di lettera, quale si diceva esser stata scritta da te ad un tale già tuo discepolo, et in essa, seguendo la positione del Copernico, si contengono varie propositioni contro il vero senso et auttorità della Sacra Scrittura; Volendo per ciò questo S.cro Tribunale provedere al disordine et al danno che di qui proveniva et andava crescendosi con pregiuditio della S.ta Fede, d’ordine di N.S.re e degl’Eminen.mi et Rev.mi SS.ri Card.i di questa Suprema et Universale Inq.ne, furono dalli Qualificatori Teologi qualificate le due propositioni della stabilità del sole et del moto della terra, cioè: Che il sole sia centro del mondo et imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente heretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura; Che la terra non sia centro del mondo né imobile, ma che si muova etiandio di moto diurno, è parimenti propositione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide. [...] Et acciò che si togliesse affatto così perniciosa dottrina, e non andasse più oltre serpendo in grave pregiuditio della Cattolica verità, uscì decreto della 9 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Sacra Congr.ne dell’Indice, col quale furno prohibiti li libri che trattano di tal dottrina, et essa dichiarata falsa et omninamente contraria alla Sacra et divina Scrittura. Et essendo ultimamente comparso qua un libro, stampato in Fiorenza l’anno pross.to (sic), la cui inscrittione mostrava che tu ne fosse l’autore, dicendo il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; et informata appresso la Sacra Congre.ne che con l’impressione di detto libro ogni giorno di più prendeva piede e si disseminava la falsa opinione del moto della terra e stabilità del sole; [...] Pertanto, visti e maturatamente considerati i meriti di questa tua causa, con le sodette tue confessioni e scuse e quanto di ragione si doveva vedere e considerare, siamo venuti contro di te alla infrascritta diffinitiva sentenza. Invocato dunque il S.mo nome di N. S.re Gesù Christo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria; per questa nostra diffinitiva sentenza, qual sedendo pro tribunali, di consiglio e parere de’ RR. Maestri di Sacra Teologia e Dottori dell’una e dell’altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti nella causa e cause vertenti avanti di noi tra il M.co Carlo Sinceri, dell’una e dell’altra legge Dottore, Procuratore fiscale di questo S.o Off.o, per una parte, e te Galileo Galilei antedetto, reo qua presente, inquisito, processato e confesso come sopra, dall’altra; Diciamo, pronuntiamo, sententiamo e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Off.o vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dei sacri canoni et altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori et heresie et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica ed Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data. Et acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, et sii più cauto nell’avvenire et essempio all’altri che si astenghino da simili delitti, ordiniamo che per pubblico editto sia prohibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei. Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t’imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitentiali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare, o levar in tutto o parte le sodette pene e penitenze. [...] Sentenza del Sant’Uffizio del 1633 (ENO, XIX, 402-6) Cattolico osservante, ma accusato di eresia da vari ecclesiastici a causa del suo sostegno alla teoria eliocentrica di Copernico, Galilei è spinto ad affrontare il problema del rapporto tra scienza e religione. Al riguardo, la sua posizione fondamentale è semplice e netta: la conoscenza scientifica non può essere mai in contrasto con la rivelazione religiosa, perché il Dio cristiano, rivelatosi nell’Antico e nel Nuovo Testamento, è lo stesso Dio che ha creato l’ordine naturale che costituisce il contenuto della scienza. 9 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Tuttavia, molti esponenti del clero cattolico, ma prima ancora molti protestanti, primo fra tutti Martin Lutero, avevano sostenuto che diversi passi dell’Antico Testamento affermano che il Sole si muove e la Terra è ferma, in contraddizione con quanto sostenuto dalla teoria copernicana. Poiché, secondo gli stessi esponenti, la verità del testo biblico è assoluta, a loro giudizio la teoria copernicana era certamente falsa e chi ne sosteneva la veridicità era da considerarsi eretico in quanto negava il dogma della verità della rivelazione divina. Galilei ribatte a questa accusa sostenendo due argomenti: lo scopo della rivelazione biblica è insegnare a ogni uomo la via della salvezza ultraterrena, non di istruirlo sulle leggi della natura terrena, pertanto le affermazioni bibliche relative ai fenomeni naturali non hanno un significato oggettivo, e dunque un valore scientifico, ma solo un significato simbolico funzionale al loro scopo salvifico; dato questo scopo, il requisito fondamentale della rivelazione biblica è che sia comprensibile a tutti gli uomini, i quali per la maggior parte sono ignoranti, e dunque il testo biblico deve essere semplice e adeguato al modo di pensare tutt’altro che scientifico della maggior parte degli uomini. Avvalendosi di questi due argomenti, Galilei arriva a concludere che la verità religiosa è incommensurabile con la verità scientifica e viceversa: così come gli enunciati biblici relativi ai fenomeni naturali non hanno alcun valore scientifico, gli enunciati scientifici si riferiscono solo ai fenomeni naturali e non possono inficiare in nessun modo l’assolutezza della verità della rivelazione divina che riguarda la vita ultraterrena. Con un gioco di parole, Galilei sintetizza la sua posizione sentenziando “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”. Se dunque qualcuno – erroneamente – sostiene che una teoria scientifica, p.e. la teoria copernicana, sia in contraddizione con la Bibbia, ciò avviene, afferma Galilei, solo perché interpreta male il testo biblico, ovvero perché gli attribuisce un fine di divulgazione scientifica che invece gli è del tutto estraneo. Ma la chiesa cattolica, sempre più condizionata dal conflitto con le chiese protestanti, non è disposta ad accettare la posizione di Galilei per il timore che ammettere gli errori scientifici della Bibbia minerebbe comunque la fede nell’infallibilità divina della parola biblica. Ciononostante, sulla teoria eliocentrica, la chiesa cattolica assume una posizione sfumata: vieta che se ne parli e se ne scriva proponendola come una teoria fisica – cioè come una descrizione delle reali posizioni e dei reali movimenti di Sole, Terra e pianeti – ma ammette che se ne parli e se ne scriva presentandola come una ipotesi matematica – cioè solo come un sistema più semplice e più preciso per calcolare posizioni e moti degli astri senza alcuna implicazione riguardo alla realtà fisica. A favore di questa posizione, la chiesa cattolica adduce anche un argomento scientifico, ossia la mancanza di prove empiriche effettive che avvalorino il fondamento fisico della teoria eliocentrica. Su queste basi, Galilei viene ufficialmente ammonito dal Sant’Uffizio dell’inquisizione a non parlare e a non scrivere più della teoria copernicana come di una teoria fisica ma solo come di un’ipotesi matematica. Ma per Galilei, la diplomatica distinzione stabilita dalla chiesa cattolica non ha senso. Egli, infatti, è da sempre convinto che Dio abbia creato il cosmo in base a un ordine matematico e pertanto per lui se la teoria eliocentrica è matematicamente migliore di quella tolemaica, come gli stessi eccelsiastici cattolici ammettevano, ne segue necessariamente che è vera, cioè che descrive la realtà fisica come effettivamente è. Galilei, inoltre, è altrettanto convinto che la scienza umana – cioè la fisica matematica – è una conoscenza limitata, a differenza di quella divina che è infinita, ma qualitativamente completa e certa tanto quanto quella divina. In altri termini, secondo Galilei, lo scienziato dispone di conoscenze di un numero infinitamente minore di quelle di Dio ma le limitate conoscenze di cui dispone sono assolutamente vere. Pertanto, per Galilei se una teoria, come quella 9 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – copernicana, è scientifica, essa è anche assolutamente vera, cioè descrive la realtà in modo certo, preciso e completo. Convinto di questo, e confidando nel potere persuasivo della verità scientifica, Galilei cerca e trova nuovi argomenti teorici (principio d’inerzia, principio di relatività) e soprattutto quella che ritiene, a torto, la prova empirica indubitabile a favore della teoria eliocentrica: le maree. Forte di questi nuovi elementi, li rende noti pubblicando il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Benché prudenzialmente Galilei si sia sforzato di presentare la teoria copernicana come un’ipotesi matematica e di illustrare imparzialmente sia gli argomenti a favore dell’eliocentrismo sia quelli a favore del geocentrismo, adottando per questo la forma letteraria del dialogo, la sua nuova opera lascia trapelare fin troppo chiaramente la sua preferenza per la teoria eliocentrica oltretutto nella sua interpretazione realistica. Denunciato al Sant’Uffizio dell’inquisizione, Galilei viene così processato e condannato per eresia, in quanto la sua opera viene giudicata in contraddizione con la verità biblica. In seguito alla sentenza inquisitoriale, i testi di Galilei sono inseriti nell’Indice dei libri proibiti della chiesa cattolica e di conseguenza ne viene vietata la stampa, la diffusione e la lettura in tutti gli Stati cattolici. Nella prima metà dell’800, in seguito alla scoperta di prove empiriche del doppio movimento della Terra, la chiesa cattolica toglie le opere di Copernico e Galilei dall’Indice dei libri proibiti. Nel 1992, la chiesa cattolica annulla la condanna del Sant’Uffizio dell’inquisizione contro Galilei. 9 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU… LA VERSIONE RAZIONAL-EMPIRISTICA DELLA SCIENZA MODERNA In stretta connessione con lo sviluppo della rivoluzione scientifica moderna, e in taluni casi con un diretto coinvolgimento nella ricerca scientifica, nel corso del Seicento il pensiero filosofico si configura prevalentemente – ma non esclusivamente, come si vedrà – come un’ermeneutica, cioè una teoria interpretativa, della scienza moderna e come perorazione della sua affermazione a tutti i livelli. In questa prospettiva, i problemi fondamentali della ricerca filosofica sono: 1. la configurazione del nuovo metodo scientifico, cioè del metodo sperimentale; 2. la definizione di una nuova visione complessiva della natura coerente con i risultati già acquisiti della ricerca scientifica ma, al contempo, funzionale a orientarla verso nuove scoperte; 3. l’individuazione delle conseguenze pratico-politiche della nuova scienza, ossia di come i suoi risultati possano e debbano essere applicati per migliorare le condizioni materiali e l’organizzazione socio-politica della civiltà umana. Esaminando le diverse soluzioni offerte a questi problemi dai filosofi “scientifici” del Seicento, si possono delineare due indirizzi principali: un indirizzo razional-empiristico, che si basa perlopiù su una concezione materialistica della natura e che accomuna i filosofi britannici o insulari; un indirizzo empirico-razionalistico, che si basa perlopiù su una visione dualistica (in parte materialistica e in parte idealistica) della natura e che accomuna i filosofi continentali. In altri termini, i filosofi scientifici secenteschi partono dal comune denominatore della natura come meccanismo e della scienza moderna come combinazione di teoria razionale e verifica sperimentale ma si dividono nell’interpretazione metafisica (materialistica e/o idealistica) del meccanismo naturale e nell’accordare la priorità alla teoria razionale piuttosto che alla verifica sperimentale, e di conseguenza nel definire la loro interazione, cioè la sequenza dei momenti/operazioni fondamentali della ricerca scientifica. Tuttavia, va tenuto ben presente che filosofi insulari e filosofi continentali comunicano e dibattono tra loro, spesso direttamente, stimolandosi reciprocamente a perfezionare le proprie impostazioni di fondo e che, di conseguenza, ognuno dei due filoni contamina qualcosa dell’altro e soprattutto che ogni singolo filosofo elabora una sua posizione originale diversa anche da quella degli altri esponenti del proprio indirizzo. In questo quadro, Francis Bacon è il primo significativo protagonista dell’indirizzo razional-empiristico insulare, che, guardando al passato, si può considerare un’attualizzazione e uno sviluppo della filosofia inglese bassomedievale di Roger Bacon e William of Ockham. Sono due i contributi più significativi dati da Francis Bacon alla filosofia scientifica: 1. l’affermazione del fine pratico-utilitaristico della scienza moderna e l’esaltazione delle sue potenzialità tecniche capaci di rendere l’uomo padrone delle forze naturali; 2. la definizione di un nuovo metodo induttivo-sperimentale, alternativo al metodo induttivo tradizionale, di origine aristotelica, proprio della scienza antica e medievale. 9 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO FRANCIS BACON Nacque nel 1561 a Londra, figlio di Sir Nicholas Bacon, Lord guardasigilli di Elisabetta I, e di Anna Cook, entrambi calvinisti. L’educazione calvinista contribuì non poco a far emergere il Leitmotiv non solo della filosofia ma della stessa esistenza di Bacon: “sapere è potere”, la scienza deve avere un fine pratico-utilitaristico, deve permettere all’uomo di realizzare, grazie allo sviluppo tecnico, la sua missione di continuatore della creazione divina. A 12 anni Bacon cominciò a frequentare l’università di Cambridge. I suoi studi giuridici – voluti dal padre e a cui si rassegnò come “all’estrazione di un dente che fa male” – furono interrotti da un lungo soggiorno a Parigi, al seguito dell’ambasciatore inglese, durante il quale Bacon frequentò l’élite intellettuale francese, e si conclusero solo nel 1579, l’anno del suo ritorno in Inghilterra a causa della morte del padre. Successivamente Bacon iniziò la carriera di avvocato, aspirando però a entrare nell’amministrazione reale. Nel 1593 fu eletto alla Camera dei Comuni e ottenne l’incarico di consulente legale della Corona. Nel 1597 pubblicò la sua prima opera, Essays. Amico, protetto e consigliere del conte di Essex, che gli regalò una proprietà terriera, in seguito a una congiura in cui Essex fu implicato, sostenne l’accusa di tradimento contro di lui, come legale di corte, e ne chiese e ne ottenne la condanna a morte. Nel 1603, in seguito alla morte di Elisabetta I, salì al trono James I Stuart, fautore dell’assolutismo. Bacon aderì al progetto politico del nuovo re in quanto lo riteneva convergente con il proprio progetto filosofico di affermazione e sviluppo della scienza moderna. Per convincere e al contempo ingraziarsi James I, Bacon scrisse una nuova opera, Advancement of learning (Progresso della conoscenza), che conteneva un programma di riforma degli studi e dell’istruzione finalizzato alla promozione e diffusione di un nuovo sapere scientifico che, secondo lui, avrebbe garantito un formidabile progresso economico-sociale, potenziando il potere monarchico. Nel 1607 Bacon sposò Alice Barnham e divenne avvocato generale della Corona, quindi nel 1613 procuratore generale, nel 1617 lord guardasigilli fino ad assumere la massima carica politica nel 1617, quella di lord cancelliere, cioè di primo ministro del re, cui si aggiunse il titolo di barone di Verulamio. Nonostante gli impegni governativi, negli stessi anni Bacon scrisse il Novum Organum (letteralmente Nuovo strumento, tenendo però presente che Organum era il titolo latino attribuito agli scritti di logica di Aristotele), in cui espose il suo nuovo metodo induttivo e che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere la seconda parte di una grande opera enciclopedica intitolata Instauratio magna (La grande instaurazione). La trionfale carriera politica di Bacon fu troncata nel 1621 dall’accusa di corruzione dovuta al fatto che aveva accettato doni da imputati che doveva giudicare. Dopo aver tentato inutilmente di sostenere la sua innocenza, si dichiarò colpevole e fu condannato all’interdizione dalle cariche pubbliche, a una notevole ammenda e al carcere a tempo indeterminato nella Torre di Londra. Ma James I lo graziò e Bacon trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita nella sue dimore rurali, dedicandosi alla filosofia. Così nel 1623 pubblicò De dignitate et augmentis scientiarum (Sul valore e gli accrescimenti delle scienze), prima parte dell’Instauratio magna, che sarebbe dovuta constare di altre quattro sezioni, che però Bacon non riuscì a portare a termine. Riuscì invece a concludere New Atlantis (Nuova Atlantide), un saggio nel quale delinea una utopia tecnopolitica, e che fu pubblicato nel 1627, un anno dopo la sua morte, dovuta alle complicazioni di una bronchite contagiata mentre studiava la conservazione dei corpi grazie al congelamento. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – BACON: LA SCIENZA E’ POTENZA TECNICA Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause, dei movimenti delle cose e delle più intime proprietà della natura, allo scopo di ampliare i confini del potere umano verso l’attuazione di ogni possibile meta. I mezzi e gli strumenti di cui ci avvaliamo sono i seguenti: abbiamo ampie caverne di differenti profondità, le più profonde delle quali giungono fino a seicento cubiti sottoterra. […] Noi chiamiamo queste caverne “regioni inferiori” e ce ne serviamo per gli esperimenti di coagulazione, indurimento, refrigerazione e conservazione dei corpi. Le usiamo anche ad imitazione delle miniere naturali e per produrre nuovi metalli artificiali, per mezzo della combinazione di vari materiali preparati e depositati là per moltissimi anni. E qualche volta le usiamo per la cura di certe malattie, benché quest’uso possa stupirti, e per esperimenti sul prolungamento della vita, che facciamo su alcuni eremiti che si prestano a vivere laggiù. Essi, ben provvisti di tutto il necessario, dimostrano una straordinaria longevità e da loro noi apprendiamo molte cose. Francis Bacon, La nuova Atlantide, § 3 L’attività filosofica di Bacon ha come scopo ultimo dimostrare che la scienza tradizionale, quella aristotelico-scolastica, è una falsa scienza e va sostituita con la scienza moderna, l’unica vera scienza. Per marcare la differenza tra i due modelli scientifici, Bacon ricorre a una metafora chiara e incisiva. Il vero scienziato, afferma Bacon, non opera né come un ragno, che costruisce la sua ragnatela traendola unicamente da se stesso, né come una formica che raccoglie e accumula alla rinfusa solamente materiali esterni a sé. Il vero scienziato agisce come un’ape che innanzitutto sugge il nettare dai fiori ma subito dopo lo elabora al proprio interno trasformandolo in miele e cera. La metafora significa che il vero scienziato non si deve basare né solamente sulla teoria razionale né soltanto sull’esperienza sensibile, ma deve farle interagire, deve cioè rielaborare razionalmente l’esperienza sensibile. Più specificamente: il ragno rappresenta il filosofo che si basa sulla deduzione razionale pura e che quindi concepisce e pratica la scienza come costruzione di teorie metafisiche, indipendenti dall’esperienza e quindi false; la formica rappresenta il filosofo che si basa sull’induzione per enumerazione – cioè sulla generalizzazione di fenomeni o proprietà riscontrati in molti casi dall’osservazione sensibile (p.e., ho osservato molti cigni bianchi, quindi per induzione concludo che tutti i cigni sono bianchi) – e che quindi concepisce e pratica la scienza come accumulo di osservazioni sensibili e loro generalizzazione in leggi altrettanto false delle teorie metafisiche a causa dei limiti dei sensi umani; l’ape rappresenta il filosofo che si basa sul nuovo metodo scientifico (che approfondiremo nella prossima tappa) e che quindi concepisce e pratica la scienza come una combinazione di induzione e deduzione, ovvero di esperienza sensibile e di teoria razionale, giungendo così a scoprire le vere leggi della natura. Per Bacon lo pseudoscienziato aristotelico-scolastico è un po’ ragno e un po’ formica, comunque finisce per produrre conoscenze false, in quanto non si comporta mai come un’ape. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Ma l’attività dell’ape, che Bacon sceglie come allegoria della vera ricerca scientifica, contiene anche altri due importantissimi significati simbolici: la connessione scienza-tecnica e il fine pratico-utilitaristico della conoscenza. Lo scienziato-ape, infatti, non si limita a connettere e combinare le osservazioni empiriche e le teorie razionali, bensì manipola anche gli oggetti concreti e li trasforma sulla base di un proprio progetto razionale allo scopo di renderli adeguati a soddisfare pienamente tutti i bisogni umani sia a livello quantitativo sia a livello qualitativo. In questo modo Bacon traccia un’altra decisiva linea di demarcazione tra pseudoscienziati aristotelico-scolastici e scienziati moderni: mentre i primi diffidano del ricorso alla tecnica e reputano la conoscenza scientifica fine a se stessa, i secondi ritengono indispensabile l’utilizzo della tecnica e sono convinti che l’utilità pratica sia un requisito costitutivo della verità scientifica, ossia che una conoscenza non può essere vera se non consente un’applicazione tecnica capace di produrre beni materiali utili alla vita umana. Ciò vale per Bacon a due livelli: le tecniche sono indispensabili per potenziare e rendere più precisi i sensi e quindi per controllare e selezionare le ipotesi scientifiche non più sulla base della semplice esperienza naturale, bensì sulla base di esperimenti, cioè di esperienze “artificiali”, ovvero tecnicamente strutturate e svolte; l’efficacia tecnica di una teoria scientifica - cioè la sua capacità di fungere con successo da progetto razionale per la trasformazione della natura nella direzione voluta dall’uomo - è quanto meno una delle modalità più importanti di verifica della sua verità. In questo senso l’empirismo razionale di Bacon si tinge di pragmatismo, ovvero di quella concezione per cui la funzionalità pratico-utilitaristica della conoscenza è criterio, parziale o totale, della sua verità. Si tratta, tuttavia, di un pragmatismo moderato, in quanto Bacon è convinto che “la natura non si vince se non assomigliandole” (“Natura non nisi parendo vincitur”), ovvero che l’efficacia tecnica della scienza ha il suo presupposto nello scrupoloso e preciso adattamento teorico della mente umana alla natura. Anzi, in questo senso, egli afferma che prerequisito indispensabile di ogni buon scienziato è l’umiltà nei confronti della natura in quanto opera di Dio. Nonostante questa remora tradizionalistica, più precisamente tomistica, Bacon si fa banditore della nuova scienza sulla base dello slogan “sapere è potere”. In altre parole, Bacon propaganda la nuova scienza sostenendo che essa costituisce l’unico sapere grazie al quale l’uomo può diventare il padrone della natura, cioè può dominare le risorse e le forze naturali e sfruttarle per conseguire i propri fini utilitaristici. Tuttavia, la tesi di cui Bacon si fa banditore – il sapere è potere, l’uomo deve essere il “ministro” della natura – non è del tutto originale. Essa, infatti, era già emersa nell’ambito della filosofia umanistico-rinascimentale e in particolare del suo filone magico. Bacon peraltro riconosce il suo debito con la tradizione della magia rinascimentale, non solo ammettendo di aver tratto da essa la tesi dell’indispensabile scopo pratico-operativo della vera scienza ma addirittura attribuendo una patente di scientificità ad alcune teorie propriamente magico-alchemiche, quali quella della possibilità di trasformare un metallo in un altro e quella dell’influsso dell’immaginazione su alcuni fenomeni fisici (p.e. sulla fermentazione del malto che produce la birra). Ciononostante, Bacon contrappone la nuova scienza anche al sapere magicorinascimentale, di cui dunque nega la scientificità accusandolo innanzitutto di essere aprioristico e intuizionistico, cioè privo di rigore metodologico e quindi vero qualche volta ma solo per caso, per lo più spacciatore di falsità e confusioni. Ma, in secondo luogo, alla tradizione magica Bacon contesta anche l’individualismo e la segretezza. A differenza della magia rinascimentale, la nuova scienza, infatti, secondo Bacon deve basarsi sulla 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – collaborazione e l’interazione più stretta tra gli scienziati e quindi sullo scambio e sulla pubblicità di tutte le conoscenze raggiunte da ognuno. Tuttavia, Bacon, in questo ancora in parziale continuità con la tradizione magica, ammette che debba essere la comunità scientifica a decidere quali conoscenze rivelare e quali non rivelare non solo all’umanità ma perfino allo Stato, cioè alle autorità politiche. Infine, Bacon argomenta che la magia rinascimentale si basa sull’erroneo presupposto che tutta la natura sia un organismo, ossia un essere vivente, mentre la natura è anche una macchina e dunque in molti casi va spiegata non in base a relazioni animistiche di simpatia/antipatia bensì in base a relazioni meccaniche di causa/effetto. La nuova scienza, afferma Bacon, deve fondare anche un nuovo tipo di Stato. In altre parole, Bacon propone anche una nuova scienza della politica, ovvero una teoria scientifica delle istituzioni statali. Le tesi fondamentali della scienza politica baconiana sono: i governanti devono essere scienziati (tecnocrazia); il fine prioritario dello Stato, cui tutti gli altri devono essere subordinati, deve essere il massimo e più rapido sviluppo della scienza e della tecnica. In questo modo, Bacon riprende e unifica l’utopia platonica di uno Stato perfetto e il mito di Atlantide, immaginando “Nuova Atlantide”, cioè una comunità socio-politica perfetta governata appunto da scienziati e in cui tutti i bisogni umani sono pienamente soddisfatti dalla tecnica. Al vertice di Nuova Atlantide vi è un’autorità suprema, chiamata Padre. E’ lui a dichiarare al visitatore Bacon che lo scopo del suo Stato è la conoscenza scientifica della natura per conferire all’uomo il potere di realizzare tutte le sue aspirazioni. E’ ancora lui a descrivere i molteplici e variegati modi in cui la comunità scientifica di Nuova Atlantide pratica la ricerca scientifica e inventa nuove tecniche mettendole a disposizione di tutta la popolazione. In questa descrizione Bacon in parte si rifà alle tecnologie più recenti della sua epoca, in parte immagina tecnologie ancora inesistenti, quali la desalinizzazione dell’acqua marina, l’aria condizionata, la pioggia artificiale, il laser, il sottomarino e la rianimazione dei corpi umani. L’utopia di Nuova Atlantide diventa così la modalità baconiana più efficace per propagandare e diffondere la fede nella nuova scienza facendo leva sui prodigi tecnici che essa produce e soprattutto sempre più produrrà in futuro. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – BACON: IL NUOVO METODO INDUTTIVO Occorre, però, che la forma stessa dell’induzione, e il giudizio che sorge da essa, siano profondamente modificati. Infatti quella forma di induzione, di cui parlano i dialettici68, e che procede per enumerazione semplice, è qualcosa di puerile, e conclude senza necessità, perché resta esposta al pericolo di un’istanza che contraddice, conosce solo particolari abituali, e non raggiunge mai una conclusione. Per la scienza è invece necessaria un’induzione, che sia capace di vagliare e analizzare l’esperienza, per mezzo di esclusioni e reiezioni rigorose, e di concludere infine secondo necessità. Se la logica volgare dei dialettici ha richiesto una lunga elaborazione ed ha fatto esercitare tanti ingegni, ancor più ci si dovrà affaticare per quest’altra, che non deriva dai recessi della mente, ma dalle viscere stesse della natura. Francis Bacon, La grande instaurazione, Introduzione, II Come abbiamo visto, Bacon propone un nuovo modello di metodo scientifico, da lui introdotto ed esemplificato con la metafora dell’attività dell’ape, che, da un lato, consiste nel succhiare il nettare dai fiori – cioè da oggetti esterni – ma, dall’altro, nel trasformarlo in miele e cera con gli organi interni di cui l’ape è dotata. Il risucchio del nettare dai fiori rappresenta la conoscenza sensibile, la trasformazione del nettare in miele e cera la conoscenza razionale. Dunque, in prima battuta, con la sua metafora Bacon ci vuole dire che la scienza moderna deve basarsi su una combinazione di conoscenza sensibile – ossia di esperienza – e di conoscenza razionale – ossia di teoria –, assegnando alla prima un primato relativo sulla seconda, in quanto fornisce i contenuti indispensabili alla sua elaborazione. Secondo Bacon, questa combinazione produce un metodo scientifico del tutto nuovo, il solo in grado di garantire una conoscenza vera. Forte di questa convinzione, Bacon annuncia di aver compiuto una “grande instaurazione della scienza”, cioè di aver individuato un procedimento certo per conquistare la conoscenza vera e definitiva della realtà naturale. La “grande instaurazione della scienza” è concepita da Bacon come un processo distinto in 2 fasi complementari e consequenziali: a) una fase distruttiva (pars destruens), ovvero l’individuazione e l’eliminazione di tutte le cause degli errori logici e metodologici che stanno alla base della cattiva scienza, cioè delle false conoscenze sostenute sia dalla scienza scolastica sia dalla magia rinascimentale; b) la fase costruttiva (pars adstruens) ovvero l’individuazione e la definizione delle caratteristiche e dei passaggi del procedimento scientifico capace di garantire la conquista della verità, in altre parole la descrizione del nuovo metodo scientifico. Secondo Bacon, gli errori delle pseudoscienze tradizionali non sono casuali, ma affondano le loro radici nella struttura mentale naturale dell’uomo e in particolare nell’uso incontrollato e quindi indebito della facoltà dell’immaginazione. In altri termini, ogni 68 I filosofi aristotelici scolastici. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – uomo per Bacon ha la capacità di costruirsi “fantasmi” (idòla) meramente mentali, cioè immagini che non hanno alcuna corrispondenza con la realtà. Tali fantasmi sono di 4 tipi: 1) I fantasmi della tribù, cioè dell’umanità in quanto specie naturale, che derivano dall’uso inappropriato dei sensi e dell’intelletto: i primi sono spesso soggetti a ingannarsi e comunque la loro percezione della realtà è sempre parziale; il secondo tende a postulare un ordine molto più razionale e stabile di quello che la realtà possiede e inoltre, influenzato dalla volontà e dalle passioni, finisce spesso per cadere in generalizzazioni frettolose, dovute alla ricerca delle sole osservazioni confermative e al rifiuto di ricercare e considerare le osservazioni contrarie. 2) I fantasmi della caverna, cioè dell’individuo in quanto appartenente a un gruppo familiare e a un contesto sociale, che derivano dalla sua costituzione psicofisica individuale, dalla sua educazione, dal condizionamento dell’ambiente naturale e sociale in cui è cresciuto. 3) I fantasmi della piazza, cioè dell’individuo in quanto membro attivo di una società, che derivano dal principale strumento dell’interazione sociale, cioè il linguaggio comune, le cui parole hanno significati plurimi, e quindi equivoci, e spesso non corrispondenti all’esperienza, cioè a qualcosa di effettivamente reale. 4) I fantasmi del teatro, cioè della forma più spettacolare e suggestiva della cultura umana, la filosofia, consistenti in teorie false ma credute vere perché piacevoli, capaci di sorprendere e abbindolare, come fanno appunto le opere teatrali. In conclusione, Bacon sostiene che la prima operazione da compiere quando si dà inizio a un’indagine scientifica è quella di liberarsi di tutti i pregiudizi dovuti alla propria costituzione biologica e alla propria tradizione culturale. Solo così, infatti, lo scienziato può osservare la natura in modo neutro e quindi rendere il suo intelletto simile ad essa ( natura non nisi parendo vincitur) e dunque conoscerla per quello che effettivamente è. Una volta compiuta la preliminare operazione distruttiva di ogni pregiudizio, per Bacon è possibile cominciare la ricerca della vera conoscenza della realtà. Questa consiste nell’individuazione della causa o forma di ogni cosa, ovvero dell’organizzazione razionale specifica che è il fondamento di ogni essere fisico. Secondo Bacon, la forma di una cosa – p.e. del corpo umano – consiste a sua volta nell’unione di: “schematismo latente”, cioè della sua struttura intrinseca profonda, ovvero della sua organizzazione dal punto di vista statico, p.e. l’anatomia del corpo umano; e “processo latente”, cioè il dinamismo non immediatamente visibile che la produce e la fa evolvere, p.e. la riproduzione, la nutrizione, la respirazione, la circolazione sanguigna ecc., del corpo umano. Ma come si fa a conoscere la “forma” di qualcosa? In generale, Bacon risponde che bisogna basarsi sull’esperienza, ovvero su ripetute e diversificate osservazioni della cosa che si vuole conoscere (conoscenza sensibile), e poi inferire per via induttiva da tali osservazioni le sue proprietà e leggi generali (conoscenza razionale). P.e., osservando che molti oggetti di metalli differenti (piombo, ferro, zinco, rame, ecc.) scaldati da molti e diversificate fonti di calore (il fuoco, il Sole, la lava, ecc.) aumentano sempre il loro volume si può ricavare per induzione la legge “il calore dilata i metalli”. Dunque, per Bacon la conoscenza razionale consiste nel ragionamento induttivo, ovvero in quell’inferenza che trae delle proprietà e delle leggi generali dalla comparazione di molte sensazioni singolari simili. Tuttavia, è lo stesso Bacon a riconoscere che il metodo induttivo era stato proposto da Aristotele e adottato dagli scolastici. Ma allora com’è possibile per 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Bacon sostenere di aver inventato un nuovo, diverso metodo scientifico? Il fatto è che per Bacon possono esserci due modelli diversi di induzione: 1. l’induzione “per enumerazione”, propria della scienza antica e medievale; 2. l’induzione “per eliminazione”, propria della nuova scienza moderna. Secondo Bacon, l’induzione per enumerazione è rozza e spesso erronea perché si fonda sulla semplice raccolta del maggior numero possibile di osservazioni confermative, oltretutto basate solo sui sensi, di una legge teorica generale (p.e. “quando ci sono le nuvole piove”), senza preoccuparsi di verificare – e quindi senza trovare quando esistono – le possibili osservazioni confutative (p.e. “oggi ci sono le nuvole ma non piove”). Al contrario, l’induzione per eliminazione, secondo Bacon, è metodica, cioè è un procedimento graduale, articolato in una serie di operazioni distinte, ordinate secondo una precisa successione in modo tale da garantire la validità del suo esito finale. La prima di queste operazioni consiste nell’orientare e suddividere le osservazioni empiriche in base a una tipologia triadica così articolata: 1) tabella della presenza, comprendente tutte le osservazioni in cui compare il fenomeno/cosa di cui vogliamo individuare la causa/forma; 2) tabella delle anomalie o dell’assenza nella somiglianza, comprendente tutte le osservazioni in cui quel fenomeno/cosa non compare nonostante la loro somiglianza alle osservazioni del tipo precedente; 3) tabella dei gradi, comprendente tutte le osservazioni in cui il fenomeno/cosa si manifesta a livelli di intensità diversificati, ovvero crescendo o decrescendo. Per esempio, supponiamo di voler stabilire la causa/forma del calore: secondo Bacon, i raggi solari sono un caso del 1° tipo; i raggi lunari un caso del 2°; un corpo umano che passa dal camminare al correre e viceversa un esempio del 3°. Compiuta questa operazione si può passare alla seconda, chiamata da Bacon “prima vendemmia”, che consiste nell’individuare induttivamente le più attendibili ipotesi di forma. Per farlo bisogna compiere un confronto incrociato tra le osservazioni dei 3 tipi, in modo da selezionare le ipotesi che sono compatibili con ognuno di essi. P.e., l’ipotesi che la “forma” del calore sia la luminosità va scartata perché confutata sia dalla osservazione del 2° tipo sia da quella del 3° tipo; quella invece che la forma del calore sia il moto di particelle materiali di cui ogni cosa è fatta è compatibile con tutti i tipi di osservazione e dunque va assunta come valida. A questo punto inizia la fase della verifica e dell’eventuale conferma delle ipotesi induttive. Essa deve basarsi su 3 tipi di prove: 1) le prove informative basate sui sensi, cioè su osservazioni sensibili ma effettuate con strumenti e procedure che amplificano e migliorano la percezione sensibile (telescopio, microscopio, bilancia, vetri affumicati, ecc.); 2) le prove informative basate sull’intelletto, dette anche “prove del bivio”, cioè esperimenti progettati e attuati allo scopo di confrontare due ipotesi teoriche opposte e di permettere di selezionarne una sola (p.e., la forma del calore è il moto di particelle di cui sono fatti i corpi vs la forma del calore è il moto di un fluido caldo imponderabile che può passare in tutti i corpi); 3) le prove pratiche basate sull’efficacia tecnica dell’ipotesi, cioè sulla possibilità di ricavare dall’ipotesi delle procedure tecniche capaci di trasformare le cose/fenomeni naturali e di produrre benefici pratici per l’umanità. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Al termine di questa procedura se tutte le operazioni sono state condotte in modo rigoroso il metodo induttivo, afferma Bacon, permette di stabilire con certezza la forma unica di qualcosa, ovvero di conseguire la conoscenza del vero. In conclusione, possiamo dire che laddove il metodo induttivo antico-medievale era meramente empirico, quello baconiano si può definire sperimentale, sia in quanto si avvale di una strumentazione tecnica, capace di correggere gli errori osservativi dei sensi naturali, sia in quanto l’induzione è orientata, organizzata e controllata dalla ragione, ovvero dalla teoria. Tuttavia, possiamo definire “sperimentale” il nuovo metodo induttivo baconiano solo in senso debole, dal momento che Bacon non dà alcun rilievo a un fattore fondamentale dell’esperimento scientifico moderno, ossia la misurazione matematica che rende poi possibile formulare matematicamente, e dunque con la massima precisione, le leggi della natura. Sotto questo aspetto, Bacon rimane irretito nella concezione e nella pratica aristotelica della scienza, che appunto sminuiva - quando non ignorava del tutto - l’uso della matematica e si limitava così a una descrizione qualitativa della natura anziché a una sua spiegazione quantitativa ( Galilei). A maggior ragione per questo, si può ragionevolmente classificare la concezione baconiana della scienza moderna come “razional-empirismo”: pur dando una certa importanza alla teoria razionale, Bacon privilegia e promuove maggiormente la componente empiricoosservativa della ricerca scientifica, e in tal modo la sua configurazione del metodo scientifico rimane impigliata proprio in quella scienza aristotelico-scolastica di cui pure Bacon proclama la falsità. Se in questo senso, la filosofia di Bacon non contribuisce allo sviluppo della fisica moderna, sempre più matematica e quindi teorica, tuttavia essa dà un contributo alla crescita e all’innovazione metodologica di quelle scienze – come la biologia – nelle quali la spiegazione teorico-matematica ha un ruolo meno importante. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU… LA VERSIONE SPERIMENTAL-RAZIONALISTICA DELLA SCIENZA MODERNA Sempre nell’ambito del pensiero scientifico secentesco, se si può considerare Bacon il capostipite della corrente razional-empiristica britannica, allo stesso modo si può giudicare Descartes il capostipite della corrente empirico-razionalistica continentale. Infatti, il metodo scientifico teorizzato da Descartes si fonda esplicitamente sulla convinzione – diversa, benché non del tutto opposta a quella di Bacon – che la mente umana possegga delle idee innate, cioè alcuni contenuti conoscitivi indubitabilmente veri, che devono costituire gli assiomi dai quali trarre deduttivamente le teorie scientifiche. Inoltre, se anche per Descartes le teorie scientifiche devono essere controllate in base all’esperienza, non solo per lui tale controllo spetta solo all’esperienza artificiale – teoricamente impostata e tecnicamente strutturata – degli esperimenti, ma gli stessi esiti sperimentali devono essere a loro volta interpretati e giudicati in ultima istanza dalle idee innate. Inoltre, Descartes fonda questa concezione decisamente idealistica della teoria della conoscenza e del metodo scientifico su una nuova metafisica dualistica – ossia parzialmente idealistica e parzialmente materialistica – della realtà fisica. Il mondo, infatti, per Descartes, è creato da Dio sulla base delle idee, cioè dei suoi criteri assolutamente razionali, ma è costituito di materia dotata di movimento e dunque è una grande macchina che funziona in modo autonomo. In questo senso, a differenza di Galilei e Bacon, i quali – il primo perché scienziato, il secondo perché non era riuscito a ultimare il suo progetto filosofico – non avevano proposto una visione complessiva dell’universo coerente con le scoperte della scienza moderna, Descartes – al tempo stesso matematico, fisico, biologo e filosofo – rappresenta una pietra miliare nello sviluppo del pensiero scientifico e filosofico perché per primo non solo propone un’immagine materialistico-meccanicistica dell’universo – in antitesi con la precedente concezione animistico-finalistica – ma ne diede anche una originale e potente argomentazione metafisica, contribuendo così in modo decisivo all’affermazione di quel paradigma meccanicistico che è il volano metafisico della scienza moderna. 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO RENÈ DESCARTES Nacque nel 1596 – due anni prima della fine della guerra civile francese (1566-1598) con la vittoria di Enrico IV di Borbone – a La Haye, nella Turenne, che oggi fa parte della regione della Francia chiamata Centro, il cui capoluogo è Orléans. Il padre, avvocato nominato giudice del Parlamento (che allora era un’alta corte di giustizia) di Rennes (capoluogo della Bretagna), con l’acquisto della carica era diventato un nobile di toga dotato di possedimenti terrieri. Sua madre morì di parto l’anno successivo alla sua nascita e Descartes fu allevato da una balia e dalla nonna paterna. Dal 1607 al 1615 studiò nel rinomato collegio dei gesuiti di La Flèche, nello stesso 1615 iniziò a frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’università di Poitiers e già l’anno successivo conseguì il baccellierato (il diploma di laurea intermedio) in diritto canonico e civile. Ma anziché esercitare l’avvocatura, nel 1618 (l’anno di inizio della guerra dei Trent’anni) si arruolò in un reggimento francese di stanza a Breda (Paesi Bassi), dove divenne commilitone e amico del medico Isaac Beekman, discutendo e studiando con il quale cominciò a scoprire la sua passione per la ricerca matematica e scientifica. Ma Descartes entrò anche in contatto con il matematico tedesco Faulhauber affiliato dei Rosacroce, una setta segreta di matematici, alchimisti e scienziati che perseguivano il cambiamento del mondo in base alla scienza e si opponevano alle divisioni religiose. Non è escluso che Descartes sia entrato a far parte dei Rosacroce. Di certo, in seguito Descartes viaggiò per l’Europa del Nord, visitando Amsterdam, Copenaghen, Danzica, l’Ungheria, Francoforte, dove assistette all’incoronazione a imperatore di Ferdinando d’Asburgo. Perseverando ancora nella carriera militare, dal 1619 si stabilì in Germania entrando nell’esercito del duca di Baviera, il capo della Lega cattolica alleato dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo. Ma nella notte del 10 novembre 1619 Descartes fece dei sogni rivelatori della sua vocazione scientifica e filosofica. In seguito scrisse che in quell’occasione aveva scoperto i “fondamenti di una scienza mirabile”, cioè della nuova scienza – nel senso di sapere universale – che avrebbe poi delineato nelle sue opere (ma la “scienza mirabile” potrebbe anche essere la geometria analitica). Quindi riprese a viaggiare, questa volta in Italia, cercando, senza riuscirci, di incontrare Galilei. Nel 1620 abbandonò la carriera militare e tornò in Francia cominciando a dedicarsi completamente alla ricerca filosofica, nella quale sarà stimolato e sostenuto dal frate francescano, teologo e scienziato, Mersenne. Nel 1627 Descartes scrisse la sua prima opera – Regole per la guida dell’intelligenza – che però rimase incompiuta e fu pubblicata postuma nel 1701. Nel 1628 decise di proseguire i suoi studi nei Paesi Bassi, contando su un ambiente intellettuale più innovativo e più tollerante, dato che la Repubblica delle sette province unite, tra cui predominava l’Olanda, era il rifugio degli ebrei e dei protestanti perseguitati negli Stati cattolici. Dal 1630 al 1633 scrisse Il Mondo o Trattato sulla luce, opera in cui sostiene la teoria eliocentrica, benché la presenti come una mera ipotesi matematica; ma proprio nel 1633 venne a sapere della condanna appena comminata a Galilei dal Sant’uffizio dell’inquisizione cattolica e, spaventato, non pubblicò nemmeno la sua seconda opera. Solo nel 1637, Descartes si decise a pubblicare il suo scritto più famoso, il Discorso sul metodo, proposto come introduzione di tre saggi scientifici: Diottrica, Meteore e Geometria, trattati rispettivamente di ottica, di fisica e di geometria. In particolare, per quanto riguarda la geometria, e più in generale la matematica, Descartes elaborò la “geometria analitica”, ossia un metodo per tradurre l’algebra (branca dell’aritmetica) in geometria e viceversa, unificando così i due rami della matematica. Successivamente, tra il 1639 e il 1640, Descartes scrisse le Meditazioni sulla filosofia prima (o Meditazioni 1 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – metafisiche), la sua maggiore opera filosofica complessiva, che fu pubblicata nel 1641 insieme alle obiezioni dei maggiori intellettuali dell’epoca (tra cui il filosofo inglese Hobbes) e alle sue controargomentazioni. Poiché la sua filosofia cominciò a diffondersi, autorità cattoliche e protestanti iniziarono ad accusare Descartes di ateismo, in quanto egli, pur riconoscendo Dio come creatore, sosteneva che l’universo è una macchina che funziona in modo del tutto autonomo. Ma il principe olandese d’Orange – massima autorità esecutiva dei Paesi Bassi – e l’ambasciatore francese lo difesero impedendo che venisse espulso e che i suoi libri fossero bruciati. In tal modo, Descartes nel 1644 pubblicò I principi della filosofia, che tratta non solo e tanto di filosofia, quanto soprattutto di fisica, biologia e fisiologia umana; e nel 1649 Le passioni dell’anima, che tratta di psicologia ed etica. Invitato dalla regina Cristina di Svezia, nello stesso anno si recò a Stoccolma, dove morì l’anno successivo. Le circostanze della morte non sono certe. Tradizionalmente la morte di Descartes è stata attribuita a una polmonite, ma ci sono indizi per sostenere che fu avvelenato per paura che spingesse la regina a convertirsi al cattolicesimo, come in effetti fece qualche anno dopo la morte di Descartes. Nel 1633 la Chiesa cattolica mise all’Indice tutte le opere di Descartes. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 1 DESCARTES: IL FONDAMENTO DELLA SCIENZA E’ L’EVIDENZA Quando ero più giovane avevo studiato un poco, tra le parti della filosofia, la logica, e, delle matematiche, l’analisi geometrica e l’algebra, tre arti o scienze che sembrava dovessero contribuire in qualche modo al mio disegno. Ma esaminandole, mi accorsi che, per quanto riguarda la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte dei suoi precetti servono, piuttosto che ad apprendere, a spiegare ad altri le cose che si sanno, o anche, come l’arte di Lullo, a parlare senza giudizio di quelle che si ignorano. E benché contenga di fatto numerosi precetti molto veri e molto buoni, a questi se ne mescolano altrettanti che sono nocivi o superflui, sicché è quasi altrettanto difficile districarne i primi quanto tirarne fuori una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Per quanto mi riguarda poi l’analisi degli antichi e l’algebra dei moderni, oltre al fatto che si riferiscono solo a oggetti molto astratti e che non sembrano avere nessuna utilità, la prima è sempre così strettamente unita alla considerazione delle figure, che non può esercitare l’intelletto senza una gran fatica per l’immaginazione; e nell’altra ci si è resi schiavi di certe regole e formule tanto da farla diventare un arte confusa e oscura che impaccia l’ingegno invece che una scienza che l’accresce. Perciò pensai che fosse necessario cercare un altro metodo che, raccogliendo i pregi di queste tre, fosse immune dai loro difetti. E come un gran numero di leggi riesce spesso a procurare scuse ai vizi, tanto che uno stato è molto meglio ordinato quando, avendone assai poche, vi sono rigorosamente osservate; così, in luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle. La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne. La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente. La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra. E l’ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla. Il punto di partenza del progetto cartesiano di riforma dell’intero sapere umano, in nome della scienza moderna, è la definizione di un nuovo metodo scientifico. Contrapponendosi provocatoriamente ai metodi logico-matematici tradizionali, da lui accusati di basarsi su un groviglio inestricabile di criteri astrusi, Descartes propone un metodo composto da quattro semplici regole, da applicarsi secondo il loro ordine di successione: 1. l’evidenza; 2. l’analisi; 3. la sintesi; 4. il controllo. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Di queste quattro regole, la più importante è la prima. Ma cosa intende Descartes per evidenza? In prima battuta, possiamo definire l’evidenza come il segnale mentale che garantisce in modo indubitabile la verità di una conoscenza. Nel pensiero filosofico, in questo senso, già da tempo erano state distinte: un’evidenza sensibile, intesa come requisito di verità delle intuizioni sensibili, cioè delle sensazioni, il cui oggetto sono le cose fisiche: p.e. se io metto un dito sopra una fiamma avverto indubitabilmente il suo calore; un’evidenza razionale (o intellettiva), intesa come requisito di verità delle intuizioni razionali (o intellettive) il cui oggetto sono alcuni contenuti mentali, che si possono intendere come assiomi (p.e. il principio di identità, il principio di non-contraddizione, la proprietà transitiva, “il tutto è maggiore di una sua parte”, ecc.) o addirittura come idee (p.e. l’uguaglianza, la somiglianza, la simmetria, la proporzione, ecc.). L’evidenza che costituisce, per Descartes, la prima regola del metodo scientifico è l’evidenza razionale che scaturisce dall’intuizione intellettiva delle idee mentali vere. In altre parole, l’evidenza cartesiana è il segnale certo della verità di una nostra idea, ovvero lo strumento infallibile che ci permette di giudicare vere o false le nostre idee. Ma, allora, secondo Descartes, quante e quali idee abbiamo, e da dove provengono? Descartes risponde distinguendo tre tipi di idee mentali: 1. le idee “avventizie”: sono quelle che provengono dal mondo fisico esterno alla mente attraverso la mediazione dei nostri sensi, in altre parole sono le copie mentali delle sensazioni, e, come tali, possono essere sia vere sia false, dal momento che i nostri sensi a volte si ingannano e comunque hanno capacità limitate (p.e. giallo, caldo, pesante, cane, metallo, ecc.). 2. le idee “fattizie”: sono quelle costruite arbitrariamente dalla nostra immaginazione in base alla scombinazione e alla libera ricombinazione di idee avventizie differenti, e dunque sono sempre false (p.e. Pegaso, la chimera, i titani, ecc.). 3. le idee “innate”: sono conoscenze intrinseche alla nostra mente, ossia presenti in essa sin dalla nascita grazie alla volontà creatrice di Dio, e pertanto assolutamente vere (p.e. congruenza, radice quadrata, causa/effetto, moto, materia, spazio, tempo, ecc.). Dunque, in base a quanto detto sopra, ora possiamo aggiungere che l’evidenza, per Descartes, è il criterio mentale che ci permette di riconoscere le idee innate e quindi di accogliere le idee avventizie vere e di respingere le idee avventizie false e tutte le idee fattizie. Infatti, una volta individuate le idee innate, sostiene Descartes, sono vere tutte le altre idee che non le contraddicono e false tutte quelle che le contraddicono. Ma come facciamo ad essere sicuri dell’evidenza di un’idea innata, ossia della verità? Non potremmo sbagliarci a giudicare evidente un’idea quando invece non lo è? Secondo Descart, se la nostra mente (o ragione o intelletto) non è influenzata dalle emozioni, non può cogliere l’evidenza se questa non si manifesta e, viceversa, se l’evidenza si manifesta nell’atto dell’intuizione razionale di un’idea la nostra mente non può non riconoscerla. In questo senso, Descartes indica due prerequisiti negativi – ovvero che non devono 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – interferire – dell’evidenza: il pregiudizio; la precipitazione. In altri termini, afferma Descartes, per riconoscere un’idea innata, e quindi vera, bisogna aver sgomberato la mente da ogni conoscenza acquisita in modo non scientifico, non parteggiare faziosamente per una tesi – cioè non voler aver ragione a tutti i costi ma essere neutri e distaccati – e non essere frettolosi nell’arrivare a un giudizio, ma riflettere con calma e a lungo. Inoltre, Descartes, benché consideri l’evidenza fondamentalmente intuitiva, la caratterizza ulteriormente in base ad altri due requisiti positivi – ovvero che costituiscono l’evidenza stessa: la chiarezza: un’idea evidente è mentalmente chiara, cioè si comprende pienamente e senza ombra di dubbio; la distinzione: un’idea evidente è mentalmente diversa da tutte le altre, cioè non si mischia nemmeno parzialmente con alcuna altra. Così spiegata la regola dell’evidenza, Descartes passa alla delucidazione, assai più semplice, delle altre tre regole. La regola dell’analisi (dal greco analyo=dividere) consiste nel suddividere ogni problema conoscitivo complesso nel maggior numero di parti semplici in modo da risolverlo facilmente affrontando una parte alla volta. La regola della sintesi (dal greco syntithemai=unificare) consiste nel ricomporre l’oggetto conoscitivo sottoposto ad analisi ma secondo una sequenza, ovvero un ordine, stabilito dalla ragione, cioè quello più funzionale alla sua comprensione conoscitiva, perfino quando non è possibile individuare nessuna organizzazione interna. La regola del controllo consiste nel verificare scrupolosamente l’applicazione delle due regole precedenti, l’analisi attraverso l’enumerazione, cioè il conteggio, delle parti semplici e la sintesi attraverso la revisione dell’ordine di ricomposizione. Sulla base di questa definizione del metodo scientifico, non v’è dubbio che Descartes propone una versione della scienza come sistema ipotetico-deduttivo, ovvero come un procedimento razionale che parte dall’intuizione puramente razionale di una teoria, ovvero di una spiegazione universale di un fenomeno fisico, trae da esse delle deduzioni particolari e infine controlla sperimentalmente la corrispondenza fisica di queste ultime per confermare o smentire le prime. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – DESCARTES – TAPPA 2 L’EVIDENZA INDUBITABILE E’ LA MIA ESISTENZA COME IO PENSANTE Non so se debbo riferirvi le prime meditazioni che ho fatto qui; perché sono tanto astratte e tanto insolite, che non saranno forse apprezzate da tutti. Tuttavia, perché si possa giudicare se sono abbastanza solidi i fondamenti che mi son dato, mi trovo in qualche modo costretto a parlarne. Avevo notato da tempo, come ho già detto, che in fatto di costumi è necessario qualche volta seguire opinioni che si sanno assai incerte, proprio come se fossero indubitabili; ma dal momento che ora desideravo occuparmi soltanto della ricerca della verità, pensai che dovevo fare proprio il contrario e rigettare come assolutamente falso tutto ciò in cui potevo immaginare il minimo dubbio, e questo per vedere se non sarebbe rimasto, dopo, qualcosa tra le mie convinzioni che fosse interamente indubitabile. Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all’errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch’io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse. Dopo di ciò, considerai in generale quel che si richiede ad una proposizione perché sia vera e certa; infatti, poiché ne avevo appena trovata una che sapevo essere tale, pensai che dovevo anche sapere in che cosa consiste questa certezza. E avendo notato che non c’è niente altro in questo io penso, dunque sono, che mi assicuri di dire la verità, se non il fatto di vedere molto chiaramente che, per pensare, bisogna essere, giudicai che potevo prendere come regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono tutte vere; e che c’è solo qualche difficoltà a vedere bene 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – quali sono quelle che concepiamo distintamente. Descartes, Discorso sul metodo, parte IV Descartes non si accontenta di elaborare il nuovo metodo scientifico imperniato sul criterio dell’evidenza razionale. Egli si propone l’obiettivo ben più ambizioso, e arduo, di fondarlo in modo indubitabile, cioè di argomentarlo in modo universale e necessario. Di conseguenza, come vedremo, la sua filosofia da metodologica diventa ontologica o metafisica, ovvero si amplia a teoria del tutto, della realtà nella sua totalità. In questo modo, il pensiero cartesiano assume lo status filosofico di una nuova concezione complessiva dell’universo coerente con i risultati della scienza moderna, ossia ambisce ad essere la visione scientifica moderna della realtà. L’argomentazione cartesiana del metodo scientifico è una versione estrema ed originale dell’argomentazione dialettica, ovvero della dimostrazione per assurdo. Essa, infatti, parte dalla confutazione per arrivare alla dimostrazione, ma il suo oggetto non è una singola tesi – p.e. un teorema geometrico – ma l’intera conoscenza, e il suo criterio confutativo non è la riduzione all’assurdo, ovvero la falsità, bensì il semplice dubbio. In termini più espliciti, Descartes prende le mosse dalla messa in discussione della verità di ogni conoscenza e quindi decide di mettere alla prova ogni tipo di conoscenza per vagliare se è vera o falsa. Perché questa sorta di test sia assolutamente attendibile, Descartes sceglie il criterio di valutazione più severo: il dubbio. Ciò significa che per confutare la verità di una conoscenza, e quindi per bocciarla, non è necessario dimostrarne la falsità – dimostrazione più complessa e difficile – ma basta argomentare la sussistenza al suo riguardo di un solo ragionevole dubbio – argomentazione decisamente più semplice e facile. Per usare una similitudine giudiziaria, sarebbe come se per condannare un imputato fosse sufficiente un indizio, che attesta solo che è possibile che l’imputato sia colpevole, anziché almeno una prova, che attesta invece che certamente l’imputato è colpevole. In questo senso, Descartes definisce “iperbolico”, cioè estremo, esagerato, il dubbio da lui usato come criterio di giudizio, in quanto lo equipara alla falsità: basta che una conoscenza sia incerta per bocciarla come falsa, dubitare equivale a falsificare. Poiché tradizionalmente la conoscenza è distinta in sensibile e razionale, Descartes sottopone alla prova del dubbio innanzitutto la conoscenza sensibile. Che sia ragionevole dubitare di essa, afferma Descartes, lo attestano i numerosi casi, noti fin dall’antichità, di inganni prodotti dai sensi, p.e. esempio il remo che nell’acqua sembra spezzarsi o la maggiore grandezza del Sole o della Luna quando sono vicini all’orizzonte. Infatti, se in alcuni casi i sensi si rivelano strumenti fallibili è possibile che essi ci trasmettano sempre false conoscenze. Questo, tuttavia, continua Descartes, sembrerebbe valere solo per le sensazioni che si riferiscono a cose lontane o troppo piccole, ma non per sensazioni ravvicinate di cose di grandezza media, come essere seduti alla propria scrivania, in casa propria, con una penna in mano e un foglio su cui si scrive davanti. Ma anche in questo caso il dubbio ha la meglio. Infatti, sostiene Descartes, gli uomini spesso sognano di essere seduti in casa propria o di svolgere qualche mansione quotidiana con i consueti strumenti di lavoro, e nei sogni essi sono certi di essere seduti a casa propria tanto quanto quando lo sono da svegli. Pertanto, conclude Descartes, non possiamo escludere che sogniamo sempre e che i nostri sensi ci 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ingannino sempre anche relativamente a oggetti alla nostra portata di mano. Il test del dubbio ha certificato che la conoscenza sensibile non è certamente vera, pertanto, iperbolicamente l’ha scartata come falsa. Descartes passa, dunque, a vagliare la conoscenza razionale. Egli argomenta che spesso facciamo ragionamenti erronei, per distrazione o fretta, per esempio nei calcoli aritmetici, oppure cadiamo in fallacie logiche, ossia prendiamo per veri ragionamenti che lo sembrano ma non lo sono perché invalidi (p.e. “Tutti gli equini sono quadrupedi, tutti i cavalli sono quadrupedi, tutti i cavalli sono equini”, oppure “Se un bambino ha fame allora piange; ma non ha fame quindi non piange”). Dunque, secondo Descartes, vale per i ragionamenti ciò che valeva per le sensazioni: se sono erronei in alcuni casi non possiamo escludere che lo siano sempre. Tuttavia, ammette Descartes, vi sono alcune idee quantitativo-matematiche (estensione, grandezza, numero, spazio, tempo) che sembrano immuni da ogni dubbio perché non dipendono dalle sensazioni e nemmeno dai ragionamenti. In quanto intuitiva, la loro verità appare evidente, cioè indubitabile. Ma anche in questo caso, sostiene Descartes, si può individuare un modo per dubitarne, basato oltretutto sulla tradizione teologica cristiana. Poiché Dio è volontà onnipotente assoluta, e dunque può fare quello che vuole, in linea di principio è possibile che ci abbia infuso delle idee apparentemente vere ma invece false, cioè prive di realtà fisica. Certo, Dio non vuole ingannarci, e dunque l’inganno per lui è mera potenzialità mai attuata, ma non possiamo escludere che esista un “genio maligno”, cioè una sorta di dio onnipotente ma maligno, che non solo possa ma anche voglia ingannarci facendoci credere che esiste un mondo fisico dotato di estensione, grandezza, numero, spazio, tempo, mentre invece non esiste nulla di fisico. Quest’ipotesi ragionevole del genio maligno, secondo Descartes, è dunque in grado di insinuare il dubbio anche riguardo alle idee quantitativo-matematiche e pertanto di ridurle iperbolicamente alla falsità. La prova del dubbio è terminata. Almeno in prima battuta, nessuna conoscenza è riuscita a superarla. Pertanto, tutta la conoscenza umana sembrerebbe essere stata confutata, dimostrata falsa. Di più, sembrerebbe non ci sia alcuna possibilità di fondare un metodo scientifico e di costruire una scienza. Il dubbio ha ridotto la conoscenza umana a un cumulo di macerie sulle quali e dalle quali non è possibile ricostruire alcunché. E invece, per Descartes, è proprio dalle macerie delle conoscenze distrutte dal dubbio che emerge una conoscenza indubitabile: “penso, dunque sono” (“cogito ergo sum”). Cosa vuol dire? Cosa c’entra con il dubbio? E, comunque, perché anche questa conoscenza non potrebbe essere sottoposta alla prova del dubbio e non potrebbe essere distrutta come tutte le altre? Il dubbio, replica Descartes, presuppone il pensare. Non posso dubitare se non penso. Il pensiero è a monte del dubbio, dunque il dubbio non può dubitare del pensiero, perché senza il pensiero non ci sarebbe nemmeno il dubbio. D’accordo. Ma perché dal pensiero conseguirebbe la mia esistenza (“dunque sono”)? Descartes chiarisce che la proposizione “penso, dunque sono”, nonostante la forma linguistica induca a credere il contrario, non è una deduzione, ma un’intuizione, di cui offre per questo un’altra formulazione più coerente, ossia “Io penso, io sono”. In altre parole, Descartes non deduce l’esistenza umana dal pensiero, ma intuisce l’esistenza dell’io in quanto attività pensante. In un modo ancora più semplice: “io sono” non si riferisce alla mia esistenza fisica, al mio corpo, ma solo al mio pensiero, alla mia mente. “Penso dunque sono” significa allora che quando io mi autointuisco come pensiero in atto, come soggetto pensante, ne ricavo la certezza immediata e indubitabile della mia esistenza come essere pensante. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – In questo modo, Descartes ritiene di aver trovato una verità immune dal dubbio, inscalfibile, e dunque il fondamento sicuro e saldo del metodo scientifico e della nuova scienza. Infatti, il cogito è un’idea innata dotata di evidenza e pertanto la sua indubitabilità attesta che l’evidenza è il segno infallibile della verità. In altre parole, se il cogito è vero e si manifesta come una idea evidente ne segue che l’evidenza è l’attestato di garanzia della verità di tutte le altre idee innate. E poiché il metodo scientifico cartesiano è incardinato sul criterio veritativo dell’evidenza, Descartes in questo modo ritiene di averlo pienamente legittimato. 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – DESCARTES – TAPPA 3 L’OGGETTIVITA’ DELLA VERITA’ MENTALE E’ GARANTITA DA DIO Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch’io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse. Dopo di ciò, considerai in generale quel che si richiede ad una proposizione perché sia vera e certa; infatti, poiché ne avevo appena trovata una che sapevo essere tale, pensai che dovevo anche sapere in che cosa consiste questa certezza. E avendo notato che non c’è niente altro in questo io penso, dunque sono, che mi assicuri di dire la verità, se non il fatto di vedere molto chiaramente che, per pensare, bisogna essere, giudicai che potevo prendere come regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono tutte vere; e che c’è solo qualche difficoltà a vedere bene quali sono quelle che concepiamo distintamente. In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che di conseguenza il mio essere non era del tutto perfetto, giacché vedevo chiaramente che conoscere è una perfezione maggiore di dubitare, mi misi a cercare donde avessi appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quel che ero; e conobbi in maniera evidente che doveva essere da una natura che fosse di fatto più perfetta. Per quel che riguarda i pensieri che avevo di molte altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore, e mille altre, non mi davo molta pena di cercare donde mi venissero, giacché non notavo in essi nulla che li rendesse superiori a me, e perciò potevo credere che, se erano veri, dipendevano dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione; e se non lo erano, mi venivano dal nulla, cioè erano in me per una mia imperfezione. Ma non potevo dire lo stesso dell’idea di un essere più perfetto del mio: perché, che mi venisse dal nulla, era chiaramente impossibile; e poiché far seguire o dipendere il più perfetto dal meno perfetto è altrettanto contraddittorio quanto far procedere qualcosa dal nulla, non poteva neppure venire da me stesso. Di modo che restava che fosse stata messa in me da una natura realmente più perfetta della mia, e che avesse anche in se tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, e cioè, per spiegarmi con una sola parola, che fosse Dio. A questo aggiunsi che, poiché conoscevo qualche perfezione di cui mancavo del tutto, non ero il solo essere esistente (userò qui liberamente, se non vi spiace, alcuni termini della Scuola), ma occorreva necessariamente che ce ne fosse qualche altro più perfetto, dal quale dipendevo e dal quale avevo ottenuto tutto quel che avevo. Giacché se ne fossi stato solo e indipendente da ogni altro e avessi così avuto da me stesso tutto quel poco che partecipavo dell’essere perfetto, avrei potuto avere da me, per la stessa ragione, tutto il di più che sapevo mancarmi, ed essere per tanto io stesso infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, avere insomma tutte le perfezioni che 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – potevo vedere in Dio. Poiché, seguendo i ragionamenti appena fatti, per conoscere la natura di Dio per quanto la mia ne era capace, non dovevo far altro che considerare ogni cosa di cui trovavo in me qualche idea, se era una perfezione possederla, e così ero sicuro che nessuna di quelle che indicavano qualche imperfezione era in lui, mentre vi erano tutte le altre. Così vedevo che il dubbio, l’incostanza, la tristezza e le altre cose simili a queste non potevano essere in lui dal momento che sarei stato anch’io ben felice di esserne privo. Oltre a ciò avevo idee di cose sensibili e corporee: giacché anche se supponevo di sognare, e che fosse falso tutto quel che supponevo o immaginavo, non potevo negare tuttavia che le idee di queste cose fossero realmente nel mio pensiero. Ma poiché avevo conosciuto molto chiaramente in me stesso che la natura intelligente è distinta da quella corporea, considerando che ogni composizione attesta una dipendenza, e che la dipendenza è manifestamente un difetto, giudicai da ciò che non avrebbe potuto costituire una perfezione in Dio l’essere composto di quelle due nature, e dunque che non lo era; e che anzi, se c’era qualche corpo al mondo, o qualche intelligenza o altre nature che non fossero del tutto perfette, la loro esistenza doveva dipendere dalla sua potenza in modo tale che non potessero sussistere un solo momento senza di lui. R. Descartes, Discorso sul metodo, parte IV La fondazione del metodo scientifico secondo Descartes non può arrestarsi all’argomentazione dell’evidenza come criterio veritativo infallibile. Descartes, infatti, distingue due livelli di verità conoscitiva: la verità mentale (o soggettiva, nel significato però di comune a tutte le ragioni umane); la verità fisica (o oggettiva, nel significato di relativa agli oggetti materiali esterni, ovvero eterogenei, rispetto alla mente). Per Descartes l’argomentazione che l’evidenza è il segnale infallibile di un’idea vera vale unicamente per il primo tipo di verità, cioè per la verità mentale (o soggettiva). In altre parole, le idee innate (estensione, figura, quantità, spazio, tempo, uguaglianza, proporzione, punto, ecc.) in quanto evidenti certamente contengono una conoscenza vera, ma ciò non implica la certezza che abbiano anche una corrispondenza nel mondo fisico, ossia che siano vere anche oggettivamente. A maggior ragione, perché l’argomentazione dell’evidenza ha accertato che esiste la mente (che Descartes chiama anche res cogitans, realtà pensante), ma non che esiste il mondo fisico (res extensa, realtà estesa, di cui fanno parte anche i corpi umani), sul quale dunque continua a pendere la spada di Damocle del dubbio. Ma, dal momento che il metodo scientifico ha come obiettivo la conoscenza del mondo fisico, per fondarlo davvero occorre argomentare anche l’esistenza della res extensa e quindi la corrispondenza tra le idee innate e le cose fisiche. Da dove cominciare, allora, per questa ulteriore argomentazione? Naturalmente da dove era arrivata quella precedente, ossia dalle idee innate che, ora è certo, in quanto evidenti sono vere (seppur solo mentalmente). Ma da quali o da quale? Descartes risponde che bisogna ripartire da un’idea innata che si 1 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – distingue intuitivamente da tutte le altre perché coincide con l’idea di infinito/perfezione: l’idea di Dio. Per garantire il rigore della sua argomentazione, Descartes, tuttavia, non dà per scontato che ogni mente umana possegga l’idea di Dio, ma lo argomenta affermando che: è evidente che ogni io (res cogitans/mente) ha l’idea di finitezza; dati i limiti della sua conoscenza, ogni io sa di essere finito; ma la finitezza si può concepire solo come negazione dell’infinitezza e dunque presuppone l’infinitezza; l’io può avere la consapevolezza di essere finito solo perché ha l’idea di infinito (=Dio). Così argomentata la presenza dell’idea di Dio in ogni mente umana, Descartes ha buon gioco a rilevare la differenza macroscopica tra l’idea di Dio (infinita e perfetta) e tutte le altre idee (differenti ma tutte finite e imperfette), compresa l’idea di res cogitans. Su questa base, è inevitabile, afferma Descartes, sollevare il problema di quale sia la fonte/causa possibile dell’idea di Dio. Infatti: mentre tutte le altre idee, in quanto finite, è possibile che derivino da fonti/cause finite, l’idea dell’infinito non può derivare da qualcosa di finito dato il principio evidente dell’equivalenza causa/effetto. In altri termini, né la mente umana né alcuna possibile cosa fisica può aver generato l’idea innata di Dio. Di conseguenza la fonte/causa dell’idea di Dio non può che essere Dio stesso e pertanto Dio necessariamente esiste. Ad abundantiam, Descartes aggiunge un’argomentazione dialettica: ipotizziamo che l’idea di Dio sia generata dalla mente umana, in tal caso la res cogitans dovrebbe essere infinita e perfetta e, se così fosse, essa si sarebbe autocreata; ma, se ciò fosse vero, si sarebbe creata finita e imperfetta pur potendo crearsi infinita e perfetta, il che è assurdo. A maggior ragione, dunque, solo Dio può aver infuso nella menta umana l’idea di infinito/perfezione. Ancor più ad abundantiam, Descartes rafforza le due argomentazioni precedenti riformulando in modo logicamente più rigoroso l’antico argomento a priori (detto “ontologico”) inventato da Anselmo d’Aosta: tutti gli uomini hanno l’idea di Dio come perfezione assoluta (premessa fondata 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – sulle precedenti due argomentazioni), tale idea include tutte le perfezioni, cioè tutte le proprietà positive (p.e. l’amore ma non l’odio) a un grado infinito; l’esistenza è una perfezione positiva; Dio necessariamente esiste. A questo punto, dall’esistenza di Dio (basata però sull’esistenza dell’io) Descartes può trarre agevolmente l’argomentazione della verità oggettiva delle idee innate e dell’esistenza del mondo fisico (res extensa): Dio possiede tutte le perfezioni positive a un grado infinito; dunque, egli, pur potendolo, non vuole ingannarci, al contrario vuole che noi uomini conosciamo tutta la verità; quindi le idee innate sono vere non solo mentalmente ma anche fisicamente; pertanto il mondo fisico esiste per creazione divina. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – DESCARTES – TAPPA 4 IL MONDO FISICO E’ UNA GRANDE MACCHINA MATEMATICA Lasciate dunque che per un poco il vostro pensiero esca da questo mondo per venirne a vedere un altro, nuovissimo, che farò nascere in suo cospetto negli spazi immaginari. I filosofi ci insegnano che questi spazi sono infiniti e, dato che sono stati loro a crearli, dobbiamo credere a ciò che dicono. Ma per non essere impediti e impacciati da quest’infinità rinunciamo al tentativo di toccarne il termine; penetriamoci solo quanto basta a farci perder di vista tutte le creature create da Dio cinque o seimila anni fa; e dopo esserci fermati in un certo punto, supponiamo che Dio crei di nuovo attorno a noi tanta materia che, ovunque la nostra immaginazione si stenda, non scorga più alcun luogo vuoto […]. Ora, questa materia immaginata dal libero gioco della nostra fantasia, attribuiamo, se volete, una natura in cui non vi sia niente che non risulti da chiunque conoscibile col massimo della perfezione. A tal fine supponiamo espressamente che essa non abbia la forma né della terra, né del fuoco, né dell’aria, né altra forma più particolare, per esempio del legno, di una pietra, di un metallo; e nemmeno qualità, come caldo o freddo, secco o umido, leggero o pesante; oppure sapore, odore, suono, colore, luce o altra qualità simile, nella cui natura possa riscontrarsi qualcosa che non sia evidentemente conosciuto da tutti. E non pensiamola d’altra parte come quella materia prima dei filosofi dove, a furia di spogliarla di tutte le sue forme e qualità, non è rimasto nulla che si possa chiaramente intendere. Concepiamola come un vero corpo perfettamente solido che riempie allo stesso modo tutte le lunghezze, larghezze e profondità del grande spazio in mezzo a cui ci siamo fermati col pensiero; sicché ognuna delle sue parti occupa sempre una parte di questo spazio così esattamente commisurata alla sua grandezza che non potrebbe né riempirne una più grande, né restringersi in una più piccola, né consentire di trovarvi contemporaneamente posto a nessun’altra parte di materia. Supponiamo inoltre che questa materia possa venir divisa in tutte le parti e secondo tutte le forme immaginabili; e che ognuna di queste parti possa ricevere in sé tutti i movimenti da noi concepibili. E supponiamo ancora che Dio la divida davvero in parecchie di tali parti, più grosse le une, più piccole le altre; queste d’una forma, quelle d’un’altra, come ci piacerà d’immaginarle. Ma che non le separi perciò l’una dall’altra in modo da lasciarvi un vuoto frammezzo; supponiamo che le distingua solo per la diversità dei movimenti che ricevono da lui, in modo che, dall’istante in cui le crea, le une comincino a muoversi da un lato, le altre da un altro; le une a muoversi più rapide, le altre più lente (o, se credete, a non muoversi affatto), persistendo in seguito nel loro movimento secondo le leggi ordinarie della natura. Dio infatti ha sì mirabilmente stabilito queste leggi che se, per ipotesi, non creerà nulla più di quanto ho detto, senza neppure portarvi ordine e proporzione, facendone il più confuso e ingarbugliato caos che i poeti possano descrivere, basteranno le leggi della natura a far sì che le parti del caos arrivino a districarsi da sé, disponendosi in bell’ordine, così da assumere la forma di un mondo perfettissimo, dove si potranno vedere, non solo la luce, ma anche tutte le altre cose, generali e particolari, che compaiono in questo mondo reale. Cartesio, Il mondo, cap. VI 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Come si è visto, in base all’evidenza dell’intuizione “Io penso, io sono” Descartes ha argomentato l’esistenza della mente (res cogitans) e la verità mentale delle idee innate; in base alla deduzione dell’esistenza di Dio dalla sua idea innata ha argomentato l’esistenza del mondo fisico (res extensa) e la verità fisico-oggettiva delle idee innate. In tal modo, ha dimostrato la fondatezza del suo nuovo metodo scientifico e può dunque utilizzarlo per costruire la nuova scienza della natura. Essa, secondo Descartes, deve basarsi sull’idea innata di estensione, la quale consiste in: uno spazio tridimensionale omogeneo, di grandezza indefinita (ovvero infinito ma solo potenzialmente), privo di vuoto, coincidente con una materia che lo riempie completamente, ma che è infinitamente divisibile in parti di varie dimensioni e configurazioni, che sono dotate di diverse quantità di moto e si muovono in diverse direzioni e versi con differenti velocità. In altre parole, per Descartes le proprietà fondamentali dell’universo sono quelle della geometria euclidea, ossia l’universo possiede solo proprietà di tipo quantitativomatematico (grandezza, volume, figura, velocità, ecc.), ed è privo di proprietà qualitative (caldo, freddo, secco, umido, colori, odori, ecc.). Queste ultime sono soggettive, in quanto prodotte dai nostri sensi a uno scopo unicamente pratico, quello cioè di spingersi verso le cose che ci procurano benessere e di farci rifuggire da quelle che ci procurano danno, p.e. un odore nauseante ci tiene lontani dall’oggetto che l’emana mentre un profumo ci spinge ad avvalerci dell’oggetto che lo emette. In questo senso, le sensazioni qualitative attestano gli effetti che le cose naturali producono al nostro corpo (p.e. il solletico rispetto a una piuma), ma non ci fanno conoscere le cose naturali (p.e. il solletico non è una proprietà oggettiva della piuma). Dunque, in base all’idea innata di estensione, afferma Descates, la mente può stabilire che le idee avventizie, cioè quelle derivanti dalle sensazioni, sono vere solo se quantitative, false se qualitative. L’universo fisico, inoltre, continua Descartes, si basa su leggi universali e necessarie, le prime e le più generali delle quali sono: il principio di conservazione della materia, secondo il quale questa può scomporsi infinitamente ma mai annichilirsi, ovvero la quantità complessiva della materia universale rimane sempre costante; il principio di conservazione del moto, secondo il quale le quantità di moto di ogni parte materiale si redistribuiscono di continuo, in base agli “urti” tra le parti, ma la quantità di moto universale rimane costante; il principio di inerzia, secondo il quale ogni corpo, cioè ogni parte di materia, tende a mantenere all’infinito il proprio moto salvo interferenze di un altro corpo. In particolare, in base al principio di inerzia, secondo Descartes, il moto è sempre originariamente rettilineo anche se esso tende poi a diventare curvilineo a causa degli urti che ogni corpo subisce costantemente da parte di altri corpi. Infatti, afferma Descartes, non essendoci il vuoto, qualsiasi corpo si muove perennemente 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – e completamente in contatto con altri corpi, come p.e. una corrente marina che è sempre avvolta dall’acqua oppure come un oggetto lanciato in aria, che è sempre circondato e “toccato” da quest’ultima. In altri termini, ogni corpo è sempre sottoposto a un attrito da parte degli altri corpi, e ciò fa sì che la direzione rettilinea del suo moto tenda ad incurvarsi. Oltre al principio d’inerzia e ai due principi di conservazione della materia e del moto, l’universo è regolato da altre leggi più specifiche (p.e. la legge di gravità, o quella dei vasi comunicanti, ecc.) che sono: universali (relativamente a uno specifico e omogeneo insieme di corpi/fenomeni), necessarie, cioè cogenti e immodificabili, razionali, cioè quantitativo-matematiche, nel senso che determinano i fenomeni in base a precisi rapporti matematici. Le leggi della natura, secondo Descartes, sono state stabilite e imposte all’universo, insieme a tutte le sue altre proprietà, da Dio all’atto della sua creazione. Esse hanno, cioè, un fondamento assoluto, e quindi un’assoluta garanzia scientifica, nella razionalità perfetta, e dunque immutabile, di Dio. In altre parole, poiché Dio non muta, ovvero è eterno, anche le leggi della natura sono immutabili ed eterne. Inoltre, le leggi naturali sono autonome e dunque l’universo stesso è autonomo, nel senso che Dio, infondendogli le sue leggi, ha fatto in modo che esso si regolasse e funzionasse da solo. Indubbiamente, si tratta di una concezione in grado di infondere in ogni scienziato la certezza che i suoi sforzi di scoprire l’ordine razionale dell’universo prima o poi saranno coronati dal successo. In base a questa concezione generale dell’universo, Descartes elabora anche una sua teoria astronomica, ovvero una sua versione (o modello) della teoria eliocentrica. Secondo Descartes, lo spazio tra i corpi celesti è occupato da una materia particolarmente rarefatta che egli chiama “etere”. Tutti gli astri, di conformazione sferica, si muovono nell’etere di moto inerziale originariamente rettilineo. L’attrito dell’etere, però, da un lato incurva le loro traiettorie, dall’altro provoca la rotazione degli astri intorno al loro asse. Il moto di rotazione degli astri sul proprio asse a sua volta produce vortici d’etere intorno ad essi, di ampiezza e intensità proporzionali alla loro massa e alla loro velocità di rotazione. Poiché il Sole è l’astro di massa maggiore, girando su se stesso esso produce il vortice d’etere di gran lunga più ampio e intenso del sistema solare. I pianeti (Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno) sono catturati dal vortice solare e per questo, oltre a ruotare su se stessi, ruotano intorno al Sole con un moto di rivoluzione circolare. La Luna e i pianeti medicei (scoperti da Galilei), invece, ruotano rispettivamente intorno alla Terra e a Giove, perché sono imbrigliati dai vortici prodotti dalle rotazioni dei due pianeti. Con questo modello della teoria eliocentrica, Descartes si contrappone apertamente al modello elaborato da Keplero, da lui accusato di teorizzare un’impossibile “azione a distanza” (la forza magnetica di attrazione solare) e di rimanere così succube di una visione magica, dunque antiscientifica, del cosmo. In alternativa al modello kepleriano, Descartes propone un modello in cui tutti i moti astrali sono spiegati in modo materialisticomeccanicistico, ossia in base al contatto diretto di corpi (Sole-etere-pianeti). Paradossalmente, però, il “matematico” Descartes non riesce a elaborare nessuna legge matematica dei moti planetari alternativa alle tre leggi matematiche di Keplero. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Nella sua nuova concezione della natura, Descartes considera macchine anche gli esseri viventi, cioè animali e piante. In altre parole, gli esseri viventi sono degli automi meccanici che agiscono in base a leggi universali e necessarie. Gli stessi corpi umani sono, di per sé, automi come i corpi di ogni altro essere vivente, salvo che gli uomini sono gli unici esseri naturali a possedere, per volere divino, un io razionale (res cogitans) capace di determinare liberamente, in base alla volontà, i comportamenti del corpo. In questo modo, Descartes consegna alla storia del pensiero filosofico e scientifico la prima visione materialistico-meccanicistica dell’intero universo, quella che, secondo lui, è l’unica visione scientifica, cioè vera, della realtà fisica. Tuttavia, la metafisica scientifica di Descartes è nettamente dualistica: la realtà non è solo fisica ma anche puramente razionale, e dunque se, da un lato, è solo una grande macchina (res extensa), di cui ogni singolo corpo è un ingranaggio, dall’altro lato è pensiero libero (res cogitans). In altre parole, la realtà, per Descartes, è spaccata in due: da una parte tutti gli esseri materiali, dall’altra Dio e le menti umane. Questa spaccatura emerge soprattutto nell’uomo, l’unico essere misto, sia materiale sia razionale. Apparentemente, questa doppia natura umana sembrerebbe poter conciliare l’opposizione materia/mente e invece finisce per evidenziarne proprio l’inconciliabilità. Infatti, nell’uomo, la res extensa dovrebbe influenzare, attraverso le sensazioni, la res cogitans; e a sua volta la res cogitans dovrebbe determinare, attraverso la volontà, i comportamenti della res extensa (corpo umano). Ma come sarebbe possibile nell’uomo l’interazione mente/corpo dal momento che la mente e il corpo sono del tutto eterogenei? In termini analogici, come fanno a comunicare due linguaggi intraducibili l’uno nell’altro? Descartes risponde che nel cervello c’è una ghiandola (da lui chiamata “pineale”, e che oggi chiamiamo epifisi) all’interno della quale tra i terminali delle fibre nervose e i pensieri mentali si stabilisce un contatto e quindi una comunicazione. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ROTTA SU… IL MATERIALISMO MECCANICO-MATEMATICO DI HOBBES Per Hobbes esiste solo la materia, tanto che si spinge a sostenere che lo stesso Dio, creatore dell’universo, è un essere materiale, seppure dotato di una materialità speciale. In altri termini, secondo Hobbes, c’è una sola realtà composta da corpi dotati di movimento. Questa realtà fisico-meccanica è, al tempo stesso, ordinata matematicamente, in quanto è stata creata da Dio, e dunque possiede unicamente proprietà quantitative. Su questo rigoroso monismo materialistico meccanico-matematico, Hobbes impianta tutta la sua filosofia, che parte dalla teoria della conoscenza e della scienza, continua con la matematica, la meccanica e la fisica per approdare all’etica e alla politica. In questo modo, Hobbes propone la sua filosofia come un sapere enciclopedico, ossia compresivo di tutte le conoscenze umane possibili, e al contempo sistematico, cioè ordinato unitariamente in quanto ogni sua branca è dedotta da alcuni principi primi comuni. I principi primi fondamentali, che devono essere alla base del metodo scientifico e che garantiscono la verità dei risultati della ricerca scientifica, sono appunto quelli della materialità, della meccanicità e dell’ordine quantitativo-matematico di tutti gli esseri e di tutti i fenomeni reali. Di conseguenza, per Hobbes tutti gli esseri, anche quelli viventi, sono macchine programmate in modo universale e necessario da Dio e pertanto tutti gli eventi sono riconducibili a cause meccaniche naturali universali e necessarie. In altri termini, l’universo è sì autonomo da Dio, in quanto questi lo ha creato in modo che funzionasse in base a leggi naturali proprie, ma funziona in modo deterministico, cioè in base alle leggi scelte da Dio all’atto della creazione e cui sono assoggettati tutti gli esseri e gli eventi. Ciò vale anche per gli uomini, che dunque sono degli automi tanto quanto gli animali e i vegetali. In questa prospettiva, per Hobbes la mente umana, da cui nasce il pensiero, si identifica con il cervello e il suo funzionamento dipende da cause fisiche che producono effetti necessari. Di conseguenza, secondo Hobbes anche l’etica e la politica sono scienze “naturali”, ossia scienze che hanno il compito di scoprire e fare seguire le leggi naturali che devono regolare sia i comportamenti individuali sia i comportamenti collettivi degli uomini. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO THOMAS HOBBES Nacque a Malmesbury – città del sud-ovest dell’Inghilterra, a 150 km ad ovest di Londra e a 50 km a sud di Bristol – nel 1588, l’anno in cui l’Invencible Armada spagnola di Filippo II tentò l’invasione dell’Inghilterra, evento storico che ne causò il parto prematuro, poiché la madre era terrorizzata dalla paura dell’imminente arrivo dei soldati spagnoli. Lo stesso Hobbes lasciò scritto che insieme al latte aveva succhiato dalla madre la paura. Come non bastasse, quando Hobbes compì i 16 anni, il padre, un pastore anglicano, fu costretto ad andarsene da Malmesbury e ad affidare i suoi tre figli al fratello. Hobbes poté comunque studiare prima nella sua città natia poi addirittura ad Oxford alla Magdalen Hall, in cui apprese le arti liberali secondo l’impostazione scolastica tradizionale e ottenne il baccellierato nel 1608, a vent’anni. Così terminati gli studi universitari, cominciò a lavorare come precettore, cioè insegnante privato, del figlio del conte di Devonshire e, come tale, dal 1610 al 1613, lo guidò in un tour europeo, in particolare in Francia e in Italia, cioè in quello che allora era considerato un viaggio d’istruzione indispensabile alla formazione culturale di un giovane aristocratico inglese. In questo modo Hobbes entrò per la prima volta in contatto con le innovative teorie filosofiche e scientifiche europee. Tornato in Inghilterra, divenne segretario del suo allievo, divenuto adulto e quindi nuovo conte di Devonshire, e frequentò gli intellettuali inglesi dell’epoca, tra cui il drammaturgo Ben Jonson e soprattutto Francis Bacon. In questo stesso periodo inglese, Hobbes tradusse e pubblicò La guerra del Peloponneso di Tucidide, da cui ricavò la convinzione che uno Stato democratico era più debole e quindi perdente in caso di guerra. Nel 1628, il conte di Devonshire morì di peste. Hobbes trovò lavoro di nuovo come precettore del figlio di un aristocratico scozzese e condusse anche lui in un viaggio europeo d’istruzione nel corso del quale scoprì e lesse gli Elementi di Euclide, che, come lui stesso scrisse, lo fecero “innamorare della geometria”, cioè più in generale della matematica, da cui trasse la convinzione che ogni vera scienza dovesse avere la medesima impostazione e organizzazione ipotetico-deduttiva. Di nuovo in Inghilterra, nel 1630 viene riassunto dai Devonshire per educare il figlio del suo primo allievo, destinato a diventare il nuovo conte. Così, tra il 1634 e il 1636, torna in Europa, per un terzo viaggio d’istruzione, durante il quale incontra a Pisa Galileo Galilei, stringe amicizia a Parigi con padre Marsenne, a sua volta amico di Descartes e matura definitivamente la sua vocazione filosofica, progettando di scrivere un trattato di fisica, di etica e di politica. Tornato in Inghilterra, scrive e fa circolare tra gli amici la sua prima opera – Elementi di legge naturale e politica, pubblicata poi nel 1650 – ma nel 1640, prevedendo lo scoppio della guerra civile e temendo di essere considerato un sostenitore di Carlo I Stuart, fuggì in Francia, dove divenne precettore del principe di Galles – ovvero il futuro Carlo II Stuart – e divenne un protagonista del dibattito filosofico dando anche il suo contributo alle Obiezioni alle Meditazioni sulla filosofia prima di Cartesio, con la sua famosa confutazione del cogito cartesiano. A Parigi, soprattutto, scrive una seconda opera, pensata come la terza parte degli Elementi, il De cive (Elementi filosofici sul cittadino), e pubblicata anonima nel 1642, nella quale teorizza l’assolutismo ma fondandolo sulla natura umana anziché sul volere divino. Dopo aver rischiato la morte, a causa di una grave malattia, Hobbes scrive e pubblica nel 1651 il Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, opera il cui titolo si ispira a un mostro marino, presente nel Libro di Giobbe (Bibbia), simbolo dell’impero egiziano, e sulla cui copertina era rappresentato un grande uomo con corona e 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – nelle mani una spada e un pastorale (il bastone del vescovo), simbolo dello Stato assoluto, composto però da tanti piccoli uomini, simbolo dell’idea hobbesiana che la forza dello Stato consiste nell’unità disciplinata delle forze di tutti i suoi membri. Il Leviatano si apriva con la dedica a Cromwell, il leader della rivoluzione inglese ormai di fatto dittatore dell’Inghilterra, costò a Hobbes l’accusa di traditore da parte dei sostenitori degli Stuart e lo spinse ad accettare il Commonwealth e a tornare in Inghilterra dal momento che, avendo Cromwell imposto un ordine ferreo, si riteneva molto più sicuro lì che in Francia. Tornato al servizio del conti di Devonshire nel 1653, scrisse e pubblicò il De corpore (1655) e il De homine (1658). Tra il 1654 e il 1656 fu accusato dal vescovo anglicano Bramhall di negare il libero arbitrio e gli rispose scrivendo Problemi riguardanti la libertà, la necessità e il caso. Morto Cromwell, divenne re Carlo II Stuart, che nel 1660 conferì al suo ex precettore una pensione, rendendolo economicamente indipendente e agiato. Nel 1666 la Camera dei Comuni approvò una legge contro l’ateismo e, nonostante la protezione di Carlo II, in base a tale legge il Leviatano fu messo sotto inchiesta, procurando nuovi attacchi d’ansia ad Hobbes ma nessuna effettiva condanna. L’ultima opera originale di Hobbes fu Behemoth: la storia delle cause delle guerre civili d’Inghilterra (1670). Hobbes morì nel 1679 nel castello dei conti di Devonshire e venne tumulato nella capella del castello. 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – HOBBES – TAPPA 1 TUTTO CIO’ CHE E’ REALE E’ MATERIALE E IN MOVIMENTO Per quanto concerne i pensieri dell’uomo, li considererò dapprima singolarmente e poi in serie o dipendenza l’uno dall’altro. Singolarmente, ciascuno di essi è rappresentazione o apparenza di qualche qualità o altro accidente di un corpo fuori di noi, il quale è comunemente chiamato un oggetto. Tale oggetto opera sugli occhi, le orecchie e altri parti del corpo umano e, per via della diversità della sua opera, produce una diversità di apparenze. L’origine di tutti è ciò che noi chiamiamo SENSO [sense] (poiché non c’è alcuna concezione della mente umana che non sia stata dapprima, in tutto o per parti, generata dagli organi di senso). Il resto è derivato da quella origine. […] La causa del senso è il corpo esterno o oggetto che preme l’organo proprio ad ogni senso o immediatamente come nel gusto e nel tatto, o mediatamente come nel vedere, nell’udire e nell’odorare. Tale pressione, per la mediazione dei nervi e degli altri filamenti e membrane del corposi continua all’interno fino al cervello e al cuore dove causa una resistenza o contropressione o sforzo del cuore per liberarsi, il quale sforzo, perché diretto verso l’esterno, ci appare come una materia posta al di fuori. Questa sembianza o fantasia [seeming, or fancy] è ciò che gli uomini chiamano senso e consiste per l’occhio in una luce o colore figurato, per l’orecchio in un suono, per il naso in un odore, per la lingua e il palato in un sapore e per il resto del corpo in caldo, freddo, duro, molle e le altre qualità che discerniamo con il tatto. Tutte queste qualità chiamate sensibili, nell’oggetto che le causa non sono altro che altrettanti svariati movimenti della materia per mezzo dei quali esso preme diversamente i nostri organi. E in noi che siamo premuti, esse non sono altro che diversi movimenti (poiché il movimento non produce che movimento). Ma le loro apparenze su di noi sono fanteasie, sia che siamo svegli, sia che dormiamo. E come il premere, il fregare o il percuotere l’occhio, fa sì che abbiamo la fantasia di una luce; e il premere l’orecchio produce un suono; così anche i corpi che vediamo o sentiamo producono la stessa cosa in virtù della loro azione che è forte, anche se inosservata. Infatti se quei colori e suoni fossero nei corpi o negli oggetti che li causano, non potrebbero essere da essi separati, come vediamo che sono per mezzo degli specchi, e della riflessione nell’eco; in questi casi sappiamo che la cosa che vediamo è in un luogo, l’apparenza in un altro. E sebbene ad una certa distanza l’oggetto vero e reale sembri investito dalla fantasia che genera in noi, tuttavia sempre l’oggetto è una cosa e l’immagine o fantasia un’altra. Cosicché il senso in tutti i casi non è altro che la fantasia originaria causata (come ho già detto) dalla pressione, vale a dire, dal movimento delle cose esterne sopra i nostri occhi, le nostre orecchie e gli altri organi a ciò ordinati. Thomas Hobbes, Leviatano, cap. I, § 1, La nuova Italia, 1976, pp. 11-12-13 La teoria della conoscenza di Hobbes parte dalla tradizionale distinzione tra: conoscenza sensibile, da lui considerata originaria e quindi indispensabile; conoscenza razionale, derivata da quella sensibile ma la sola che possa essere scientifica. La conoscenza sensibile è prodotta, secondo Hobbes, da una duplice azione fisicomeccanica: 1 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – 1. la compressione – diretta o mediata da un mezzo intermedio – esercitata sul corpo umano dai corpi esterni e che si trasmette dagli organi di senso al cervello e al cuore attraverso i nervi; 2. la contropressione che parte dal cuore e dal cervello, passa per i nervi e arriva ai sensi, che la trasmettono fuori dal corpo umano, ovvero sui corpi esterni da cui era pervenuta la compressione iniziale. L’azione dei corpi esterni sul nostro corpo spiega per Hobbes la formazione nella nostra mente di idee che altro non sono che fantasmi, ovvero rappresentazioni, dei corpi esterni; la reazione del nostro corpo sui corpi esterni spiega perché non ci rappresentiamo le idee collocandole all’interno del nostro corpo – dove pure le riceviamo e le cogliamo – ma ce le rappresentiamo nello spazio esterno al nostro corpo, da dove cioè effettivamente provengono. In ogni caso, poiché tutte le sensazioni sono singolari, anche le idee sono ugualmente singolari. Tuttavia, afferma Hobbes, osservando che alcune correlazioni tra idee singolari si ripetono – p.e. che un bicchiere d’acqua rovesciato su una candela ne spegne la fiamma – per la forza naturale dell’abitudine siamo portati naturalmente a farci l’idea di un legame stabile e a utilizzare questo tipo di idee per fare delle previsioni. Ma a livello delle ideefantasmi derivanti dalle sensazioni non c’è alcuna possibilità di stabilire se ognuna di esse e le loro correlazioni siano vere o false, e dunque se le previsioni siano attendibili o meno. Pertanto, sostiene Hobbes, è necessario passare dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale, la sola che permetta di costruire una scienza, cioè una conoscenza vera. La conoscenza razionale, per Hobbes, è istituita e costituita dal linguaggio, inteso come costruzione artificiale e convenzionale della mente umana. Il linguaggio a sua volta consiste: 1. nell’etichettare le idee con delle parole, cioè con segni grafici o con suoni (p.e. “cane”); 2. nel combinare le parole dando luogo a dei discorsi. Le parole possono etichettare delle idee singolari (p.e. Galileo Galilei) ma anche insiemi di idee, sia intesi come classi di corpi (cane, gatto, mammifero, metalli, ecc.) sia intesi come classi di relazioni tra corpi, ovvero come leggi dei fenomeni naturali (p.e. la legge di caduta dei gravi). In questo secondo caso, le parole hanno un significato universale, ma, per Hobbes, questo non comporta che esistano corpi universali e nemmeno rappresentazioni mentali universali, cioè concetti. In altri termini, secondo Hobbes i termini universali sono dei meri segni grafici o fonici – cioè delle etichette o dei contrassegni – senza alcuna corrispondenza né reale né mentale: alla parola “cane” non solo non corrisponde una realtà collettiva – una “specie” in senso aristotelico – ma nemmeno una rappresentazione mentale, dal momento che quando diciamo o leggiamo o udiamo “cane” pensiamo sempre a un’idea singolare di cane (p.e. Rex). In questa prospettiva, gli elementi di un insieme (p.e. sempre quello dei cani), secondo Hobbes, sono stabiliti arbitrariamente dagli uomini in base ai loro bisogni pratici. P.e., il fatto che nella classe dei cani siano inseriti gli alani ed escluse le volpi dipende solo dal fatto che per gli uomini gli alani fanno la guardia mentre le volpi no, e magari (almeno per gli inglesi) è preferibile cacciarle e farle inseguire dai cani. In sintesi, tutto ciò significa che per Hobbes il linguaggio è una costruzione convenzionale umana: sia le parole sia i loro significati (almeno nel caso dei termini universali) non hanno un fondamento oggettivo ma sono un’invenzione soggettiva condivisa da un gruppo umano in base a un accordo. Stabilito che la conoscenza razionale consiste nel linguaggio e che il linguaggio è una convenzione condivisa, Hobbes distingue tra linguaggio comune e linguaggio scientifico. Quest’ultimo è l’unico che garantisce la verità della conoscenza razionale in quanto è basato su alcune regole rigorose: 1. ci deve essere una corrispondenza biunivoca tra ogni parola e ogni significato, per 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – evitare equivoci e giochi di parole (anfibolie), il che implica anche il divieto di fare un uso metaforico o comunque traslato delle parole; 2. non è ammesso l’uso di parole che significano cose non fisiche, ovvero che non esistono (p.e. “transustanziazione”, “res cogitans”); 3. si devono stabilire alcune definizioni fondamentali – quelle dei termini moto, corpo, spazio, tempo – cui tutte le altre devono essere coerenti; 4. tutte le altre parole devono essere definite in termini quantitativi, matematici e meccanici; 5. è vietato l’uso di parole che significano qualità sensibili (profumo, giallo, ecc.). Sulla base di queste regole, secondo Hobbes, il linguaggio scientifico si configura come un calcolo matematico esatto. Infatti, la scienza si costruisce combinando tra loro più parole rigorosamente definite ed usate, ovvero sommando/moltiplicando oppure sottraendo/dividendo parole con parole. P.e.: uomo=animale+razionale; animale=uomorazionale. In questo senso, per Hobbes, ragionare equivale a calcolare, la mente (o ragione) coincide con il cervello – cioè con un organo del tutto materiale – e il cervello non è altro che una macchina di calcolo (oggi diremmo un computer). Tutte le scienze, secondo Hobbes, sono accomunate dal basarsi sul linguaggio scientifico – e quindi innanzitutto sui principi primi di moto, corpo, spazio e tempo – e su un metodo consistente nel ragionare/calcolare al fine di stabilire correlazioni generali di causa/effetto, cioè delle leggi naturali. In altre parole, le scienze consistono in teorie di spiegazione causale dei diversi tipi di fenomeni naturali. Grazie alle teorie esplicative scientifiche gli uomini possono utilizzare le sostanze e le leggi naturali per soddisfare i propri bisogni. Ciò significa che anche per Hobbes la scienza è tale solo se si traduce in tecnica, permettendo all’uomo di dominare la natura e di migliorare così le sue condizioni materiali di vita. Benché in questo modo tutte le scienze abbiano uno stesso metodo fondamentale e uno stesso fine ultimo di tipo pratico, Hobbes le distingue in 2 gruppi differenziati per procedimento e per grado di verità: le scienze a priori, comprendenti geometria, meccanica, etica e politica: dal momento che lo scienziato conosce le cause dei fenomeni studiati da queste scienze, poiché i loro rispettivi oggetti (gli enti matematici, le macchine, il comportamento individuale e lo Stato) sono costruzioni umane, può procedere dalle loro cause – idee razionali della mente umana – per determinare i loro effetti, raggiungendo così verità universali e necessarie, cioè un grado completo di verità; le scienze a posteriori, comprendenti tutte le scienze della natura (astronomia, fisica, biologia, chimica): dal momento che lo scienziato non conosce le cause dei fenomeni studiate dalle scienze naturali, in quanto la natura è prodotta da Dio, deve procedere dagli effetti – accertati dall’esperienza sensibile – per risalire alle loro cause, che tuttavia possono essere conosciute solo indirettamente, dunque parzialmente, conseguendo così un grado di verità solo probabile. 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – HOBBES – TAPPA 2 L’AGIRE DIPENDE DALL’IMPULSO INDIVIDUALE DI CONSERVAZIONE Vi sono negli animali due specie di movimenti ad essi peculiari. L’uno chiamato vitale che comincia nella generazione e continua senza interruzione per tutta la vita, come il corso del sangue, il polso, il respiro, la concozione, la nutrizione, l’escrezione ecc.; per questi movimenti non occorre l’aiuto dell’immaginazione. L’altro è il movimento animale, chiamato altrimenti movimento volontario, come l’andare, il parlare, il muovere qualche membro, nella maniera determinata prima nella nostra mente dalla fantasia. […] E poiché andare, parlare, e simili movimenti volontari, dipendono sempre da un precedente pensiero del dove, del per quale via, del che cosa, è evidente che l’immaginazione è il primo inizio interno di ogni movimento volontario. E benché gli uomini incolti non concepiscano affatto che ci sia un qualunque movimento, dove la cosa mossa è invisibile, o lo spazio in cui si muove (per la sua strettezza) è insensibile, pure ciò non impedisce che ci siano tali movimenti. Infatti, per quanto uno spazio sia piccolo, quel che si muove su uno spazio più grande, di cui quello piccolo è una parte, deve prima muoversi su quello. Questi piccoli inizi di movimento entro il corpo umano, prima che appaiano nel camminare, nel parlare, nel percuotere, e in altre azioni visibili, sono comunemente chiamati SFORZO. Questo sforzo, quando è volto verso qualcosa che lo causa si chiama APPETITO o DESIDERIO; quest’ultimo è il nome generale e l’altro è spesso ristretto a significare il desiderio di cibo, cioè la fame e la sete. Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa, si chiama generalmente AVVERSIONE. Questi vocaboli, appetito e avversione, che noi abbiamo dai latini, significano entrambi dei movimenti, l’uno quello di avvicinarsi, l’altro quello di ritirarsi. […] Ciò che gli uomini desiderano si dice anche che l’AMINO o che ODINO quelle cose per le quali hanno avversione. Cosicché desiderio e amore sono la stessa cosa, se si eccettua il fatto che con desiderio noi significhiamo sempre l’assenza dell’oggetto, con amore, più comunemente la presenza di esso. Così pure con avversione, noi significhiamo l’assenza e con odio la presenza dell’oggetto. […] E per il fatto che la costituzione del corpo umano è in continuo mutamento, è impossibile che tutte le stesse cose causino sempre nell’uomo gli stessi appetiti e avversioni; molto meno tutti gli uomini possono consentire nel desiderio di un solo e medesimo oggetto, quale che sia, o quasi. Ma, qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio di un uomo, è ciò che egli, per parte sua, chiama buono; l’oggetto del suo odio e della sua avversione cattivo e quello del suo dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo Stato) o (in uno Stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola. […] Questo movimento, che viene chiamato appetito e, per la sua apparenza, diletto e piacere, sembra sia una corroborazione e un aiuto del movimento vitale. […] Perciò il piacere (o diletto) è l’apparenza o il senso di ciò che è buono; e la 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – molestia o dispiacere, l’apparenza o il senso di ciò che è cattivo. Di conseguenza ogni appetito, desiderio e amore, è accompagnato da qualche diletto, maggiore o minore, e ogni odio e avversione da maggiore o minore dispiacere e offesa. T. Hobbes, Leviatano, cap. VII, La Nuova Italia, pp. 49-53. Coerentemente con la sua epistemologia, Hobbes concepisce e costruisce l’etica (o morale) come una scienza naturale del comportamento umano. Per l’etica hobbesiana, dunque, i comportamenti umani sono moti del corpo di cui si devono individuare le cause, generali e specifiche. In questo senso, come abbiamo visto, l’etica, per Hobbes, è una scienza a priori, che procede cioè dalle cause agli effetti, in modo dunque ipotetico-deduttivo, dal momento che l’uomo ha in se stesso i moventi del suo agire e quindi li può conoscere pienamente. Pertanto, secondo Hobbes, la scienza etica può stabilire le leggi necessarie del comportamento umano. La legge necessaria più generale del comportamento umano, ma comune a tutti gli animali, è la conservazione individuale. Essa, per Hobbes, comporta non solo il mantenimento della propria condizione ma il suo potenziamento, in quanto migliori e più numerosi sono capacità e mezzi di un individuo, maggiori sono le chance di conservazione individuale. A sua volta il principio di autoconservazione individuale causa due tipi generali di comportamento: il desiderio di ciò che favorisce l’autoconservazione e che, proprio per questo, è fonte di piacere ed è pertanto chiamato bene; l’avversione per ciò che contrasta l’autoconservazione e che, proprio per questo, è fonte di dispiacere, ossia di sofferenza, ed è pertanto chiamato male. Di conseguenza tutti i comportamenti umani sono riconducibili: o all’amore, inteso come ricerca e uso di oggetti piacevoli, cioè di beni; o all’odio, inteso come allontanamento e difesa dagli oggetti spiacevoli, cioè i mali. A seconda dei vari tipi di beni e di mali, o dei diversi modi di ricercarli o rifuggirli, l’amore e l’odio si configurano in modo specifico dando origine alle diverse emozioni, che sono i moventi, ossia le cause immediate, delle singole azioni. P.e. il timore è l’avversione per qualcosa che si pensa possa procurare danno, la gelosia è l’amore per una singola persona unito al timore che non sia ricambiato. Poiché tutte le azioni umane sono causate da emozioni naturali a loro volta determinate dall’impulso naturale alla conservazione individuale, ovvero poiché i comportamenti umani sono imputabili a leggi naturali necessarie, cioè sono istintivi, Hobbes nega che l’uomo possegga il libero arbitrio e la volontà intesa come facoltà di decidere il proprio agire in modo razionale, e quindi indipendente dall’istintività naturale. Come tutti gli esseri viventi, gli uomini per Hobbes sono automi, oggi diremmo robot, cioè macchine che funzionano in base a cause interne secondo una precisa programmazione. La libertà umana, dunque, non consiste nello scegliere i propri comportamenti, ma nel poter attuare i comportamenti determinati dalle leggi naturali. P.e., se un’emozione come la gioia mi costringe a voler saltare e a gridare, io sono libero solo nel senso che non c’è niente o nessuno che mi impedisca di farlo. 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Dal momento che il principio di autoconservazione e quindi i moventi di tutte le azioni umane sono individualistici, secondo Hobbes, la natura umana è costitutivamente egoistica e quindi porta necessariamente ogni uomo a voler sopraffare gli altri esseri, compresi i propri simili. In questo senso, Hobbes ipotizza che l’umanità in origine vivesse in uno “stato di natura”, cioè in una situazione di totale assenza di leggi e istituzioni statali, nella quale i suoi comportamenti erano dunque determinati unicamente dai suoi istinti naturali. In tale “stato di natura” ogni individuo umano è titolare per natura di un diritto (ius) illimitato, cioè può volere e fare qualsiasi cosa, compreso depredare o uccidere. Per questo, benché non sia stato il primo a teorizzare un diritto naturale, si può plausibilmente ritenere Hobbes il fondatore del “giusnaturalismo” moderno, cioè di una nuova concezione del diritto naturale. Se dunque nello stato di natura ogni individuo gode della massima libertà, meglio di una licenza assoluta, per Hobbes ciò non solo non corrisponde a una condizione di benessere ma anzi alla peggiore delle condizioni possibili. Infatti, “homo homini lupus”, scrive Hobbes citando Lucrezio, e quindi nello stato di natura vige “la guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes). In altre parole, dalla natura egoistica e violenta dell’uomo deriva necessariamente, per Hobbes, che lo stato di natura umano sia uno stato di guerra, cioè una situazione di conflitto violento continuo e incessante tra tutti gli uomini. In una situazione di questo genere, afferma Hobbes, gli uomini non possono migliorare il loro tenore di vita, sviluppando per esempio l’agricoltura, l’industria e il commercio, perché sono completamente assorbiti dall’esigenza di difendersi da possibili aggressioni e perché non sono motivati a farlo, dato che potrebbero essere depredati in qualsiasi momento dei prodotti del loro lavoro. Soprattutto, nello stato di natura tutti gli individui sono in costante pericolo di morte, ossia sono condannati a una vita breve e oltretutto nella costante insicurezza e dunque nella costante ansia. L’alta probabilità di morire rende lo stato di natura la peggiore condizione umana, perché la morte annulla lo ius illimitato. In altri termini, poiché tutti i diritti illimitati, ovvero la licenza di fare qualsiasi cosa, dipendono dalla vita, persa la vita si perdono tutti i diritti. Dunque il godimento dei diritti da parte dell’uomo nello stato di natura è del tutto precario. Tuttavia, continua Hobbes, l’uomo possiede una dote che lo differenzia da tutti gli altri esseri e che gli dà la possibilità di migliorare la propria condizione naturale, ossia di uscire dallo stato di natura. La dote specifica dell’uomo è la ragione, intesa da Hobbes come capacità di calcolare, e quindi di prevedere. Si tratta di una capacità naturale, il corrispettivo della capacità di volare degli uccelli o di nuotare nell’acqua dei pesci, ovvero di una funzione specifica prodotta da un organo fisico, il cervello. Grazie alla sua facoltà razionale, l’uomo nello stato di natura può prevedere la sua probabile morte imminente e dunque prevenirla, ossia agire per evitarla. Infatti, la facoltà previsionale della ragione, secondo Hobbes, è strettamente correlata all’emozione della paura, intesa come tendenza a evitare ciò che procura danno. Si può dire, in questo senso, che per Hobbes la paura aguzza l’ingegno, ovvero che attiva appunto la capacità razionale 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – di prevedere. In tal modo, considerando l’alta probabilità di morire, nonché quella di permanere sine die in una condizione di miseria economica, gli uomini naturali, secondo Hobbes, sono determinati a desiderare di uscire dallo stato di natura. Ma per riuscirvi essi devono risolvere un problema cruciale e di ardua soluzione: come si fa a costruire uno “stato civile”, cioè quell’organizzazione socio-politica che chiamiamo Stato? 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – HOBBES – TAPPA 3 LO STATO SI FONDA UN PATTO GARANTITO DA UN POTERE ASSOLUTO A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto, della giustizia e dell’ingiustizia non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è giustizia. […] E ciò basti per quel che riguarda la triste condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una possibilità di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione. Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti. T. Hobbes, Leviatano, cap. XIII, La Nuova Italia, pp. 122-123. Da quella legge di natura, per la quale siamo obbligati a trasferire ad altri quei diritti che, se vengono trattenuti, ostacolano la pace del genere umano, ne segue una terza, questa, che gli uomini adempiano i patti fatti da loro: senza di essa i patti sono vani e solo vuote parole, e rimanendo il diritto di tutti gli uomini a tutte le cose, si è sempre nella condizione di guerra. E’ in questa legge di natura che consiste la fonte e l’origine della GIUSTIZIA. Infatti, dove in precedenza non v’è stato alcun patto, non è stato trasferito alcun diritto ed ogni uomo ha diritto ad ogni cosa; di conseguenza nessuna azione può essere ingiusta. Ma quando un patto è fatto, allora infrangerlo è ingiusto e la definizione dell’INGIUSTIZIA non è altro che il non adempimento del patto. E tutto ciò che non è ingiusto è giusto. Ma per il fatto che i patti di fiducia reciproca, ove vi sia il timore che una delle due parti non li adempia (come è stato detto nel precedente capitolo) non sono validi, benché l’origine della giustizia sia il fare dei patti, pure effettivamente non vi può essere alcuna ingiustizia, finché non sia tolta la causa di tale timore; e ciò non si può fare finché gli uomini sono nella naturale condizione di guerra. Perciò, prima che i nomi di giusto e ingiusto possano aver luogo, ci deve essere qualche potere coercitivo per costringere ugualmente gli uomini all’adempimento dei loro patti, per mezzo del terrore di una qualche punizione più grande del beneficio che si aspettano dall’infrangerli e per rendere sicura quella proprietà che gli uomini acquisiscono per contratto reciproco in ricompensa del diritto universale che abbandonano; e tale potere non c’è prima dell’erezione di uno Stato. T. Hobbes, Leviatano, cap. XV, La Nuova Italia, pp. 138-139. Secondo Hobbes, la ragione, intesa come dote naturale propria della specie umana, è in grado non solo di prevedere l’alto rischio di morte e il futuro di miseria permanente insiti nello stato di natura, ma anche di provvedere a trovare una via d’uscita dallo stato di natura e a raggiungere una condizione di sicurezza e agiatezza, che Hobbes denomina “società civile”. In che modo e con quali mezzi? Hobbes risponde che la ragione, pungolata dall’autoconservazione, ha la capacità di scoprire le “leggi di natura” e quindi di utilizzarle per permettere all’uomo di passare dallo stato di natura alla “società civile”. Ma cosa intende Hobbes per “leggi di natura” della ragione umana? Nonostante l’omonimia, che può indurre in confusione, in questo caso 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Hobbes non si riferisce alle leggi naturali di tipo fisico (per esempio la legge di caduta dei gravi) o di tipo biologico, e quindi nemmeno alle leggi dell’uomo in quanto animale, che sono leggi naturali istintive, ossia l’autoconservazione, l’amore, l’odio e tutte le specifiche emozioni. Le nuove “leggi di natura” sono naturali sì, ma razionali, e dunque peculiari dell’uomo, nient’affatto comuni a tutti gli animali. Esse sono sempre “di natura”, poiché per Hobbes la ragione è una dote naturale tanto quanto le corna dei cervi o la proboscide degli elefanti o, meglio ancora, la capacità di fare il miele delle api, ma sono una produzione esclusiva della natura umana. In questo senso, le leggi di natura razionali, proprie solo dell’uomo, si distinguono da quelle meccaniche della natura inorganica e da quelle istintive della natura organica, in quanto sono leggi “civili”, ossia politiche. In altre parole sono “leggi” intese innanzitutto come regole di convivenza pacifica tra gli uomini e in secondo luogo come prescrizioni coercitive dello Stato. In questa accezione, la legge naturale è l’opposto del diritto naturale vigente nello stato di natura. In altri termini, lo stato di natura si basa sul diritto naturale, negazione della legge naturale, mentre la società civile si fonda sulla legge naturale, che è negazione del diritto naturale. Ma in cosa consistono allore le leggi di natura della ragione umana? Hobbes ne enuncia molte, ma le più significative sono le prime tre: 1. tranne quando non c’è alcuna possibilità di evitare la guerra, gli uomini devono fare di tutto per assicurarsi una condizione di pace, cioè devono astenersi dal danneggiarsi a vicenda; 2. per ottenere e mantenere la pace, quanti più uomini possibile devono stringere un patto in base al quale tutti rinunciano simultaneamente ai loro diritti naturali, tranne a quello alla vita – in quanto lo scopo del patto è proprio esercitare questo diritto al meglio possibile e il più a lungo possibile – in modo tale che nessuno danneggi più alcun altro e che tutti godano della massima quota di libertà individuale compatibile con la sua reciprocità; 3. una volta stretto il patto di convivenza pacifica, tutti i contraenti si devono impegnare a rispettarlo per sempre. Il limite delle leggi di natura della ragione umana, rileva Hobbes, è che esse obbligano sì gli uomini a rispettarle, ma solo interiormente, e quindi solo virtualmente. In altre parole, gli uomini possono sottoscrivere il patto ma non c’è alcuna garanzia che poi effettivamente lo rispettino. Infatti, il patto non elide la natura istintivo-emozionale dell’uomo, cioè la tendenza umana a preferire il diritto naturale alla legge naturale, soprattutto nel momento in cui, grazie al patto, gli individui possono sentirsi più sicuri e possono contare sul vantaggio di attaccare per primi altri individui rispettosi e quindi indifesi. Anche questo decorso, che porterebbe alla rapida dissoluzione del patto sociale, è tuttavia prevedibile dalla ragione. Ciò comporta che nessun uomo è disposto a sottoscrivere il patto senza che vi sia una garanzia che esso sia effettivamente mantenuto. Quale può essere questa garanzia? E’ ancora una volta la ragione che provvede a trovarla: un potere coercitivo che incuta 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – “terrore” agli individui in maniera tale che questi si convincano che il danno che quel potere potrebbe infliggere loro sarebbe di gran lunga superiore al beneficio derivante dalla trasgressione del patto. In questa prospettiva, Hobbes chiama “patto d’unione” (pactum unionis) il patto fondativo della società civile e sostiene che esso deve essere al tempo stesso e senza alcuna distinzione: un “patto associativo” (pactum societatis), cioè un accordo di rispetto reciproco; un “patto di assoggettamento” (pactum subiectionis), cioè un impegno collettivo ad obbedire a un’autorità suprema, ossia a diventare sudditi di un sovrano. Ma come fa il sovrano ad avere una forza talmente soverchiante rispetto alla moltitudine dei sudditi da incutere loro terrore e da costringerli così a rispettare il patto d’unione? Innanzitutto, risponde Hobbes, in linea di principio il sovrano non è un contraente del patto, dunque, mentre tutti i sudditi hanno rinunciato a tutti i loro diritti, ad esclusione di quello della vita, il sovrano mantiene tutti i suoi diritti naturali illimitati sancendo così la sua preponderanza di diritto. In secondo luogo, in punto di fatto, il sovrano conserva in particolare il diritto a disporre dei beni materiali dei sudditi, a maggior ragione perché ne tutela la proprietà, e dunque dispone di risorse materiali enormemente maggiori di qualsiasi suddito o gruppo di sudditi e può così mantenere un apparato giudiziario, poliziesco e militare che gli assicuri il monopolio della violenza all’interno dello Stato nonché la capacità di difendere lo Stato dai nemici esterni. Di qui, il “leviatano”, cioè il gigantesco mostro biblico, simbolo hobbesiano dello Stato; ma anche la raffigurazione hobbesiana del sovrano come un gigante, reso tale, però, dal collage di una moltitudine di piccoli sudditi. In questo modo Hobbes teorizza e argomenta la necessità che il potere statale sia: irrevocabile: il patto d’unione potrebbe essere revocato, in linea di principio, solo con il consenso non soltanto di tutti i sudditi ma al contempo anche del sovrano, cosa di fatto impossibile; indivisibile: il sovrano può essere individuale o collettivo, ma dev’essere in ogni caso un unico organo, ovvero sono da escludere forme di governo “miste”, cioè basate sul bilanciamento reciproco di due o più organi (p.e. il re, il Parlamento, la magistratura giudiziaria); assoluto: il sovrano è legibus solutus, ossia è svincolato dal rispetto delle leggi essendo il loro fondamento, il suo potere non deve avere limiti, se non quello della legge divina, che tuttavia spetta solo a lui rispettare o meno, il che comporta che le autorità ecclesiastiche siano suoi sudditi come chiunque altro, ovvero che la chiesa sia sottomessa allo Stato. In sintesi, Hobbes propone una teoria scientifica, più ancora che dello Stato assoluto, dell’assolutismo dello Stato, nel senso che per lui solo se è assoluto uno Stato può essere davvero tale. In altre parole, per Hobbes l’assolutismo è l’essenza dello Stato, per cui a rigore è insensato parlare di uno Stato assoluto, se inteso come un tipo di Stato accanto ad altri tipi possibili, p.e. uno Stato di diritto, o uno Stato democratico, ecc. Per Hobbes uno Stato o è assoluto o non è uno Stato. Data la radicalità della sua posizione, è lo stesso Hobbes che ammette e considera una facile obiezione alla sua teoria: un sovrano assoluto può fare quello che vuole, dunque 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – potrebbe anche fare uccidere tutti i suoi sudditi, o comunque una buona parte, o comunque imporre tasse tanto alte da provocare la miseria dei suoi sudditi, ecc. A quest’obiezione Hobbes replica che il potere del sovrano dipende dal numero, dalla ricchezza e dal consenso dei suoi sudditi e quindi un sovrano che affliggesse il suo popolo agirebbe contro il suo interesse, addirittura sarebbe autolesionista, in quanto il malgoverno provocherebbe una rivoluzione che lo priverebbe di tutto. In questo senso, per Hobbes il vero sovrano assoluto è chi, da un lato, impedisce e reprime ogni opposizione interna con la forza, ma, dall’altro, governa in modo giusto, promuovendo il benessere e rispettando le libertà dei sudditi. 1 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO BARUCH SPINOZA Nacque nel 1632 (l’anno della pubblicazione del Dialogo di Galilei) ad Amsterdam, nella provincia olandese dell’allora Repubblica delle sette province unite, in guerra per l’indipendenza contro il Regno di Spagna nell’ambito della più generale Guerra dei 30 anni (1618-1648). Apparteneva a una famiglia di mercanti ebrei portoghesi costretti a emigrare in Olanda agli inizi del ‘600 a causa della politica antisemitica attuata dal cattolico Regno del Portogallo. Sua madre morì quando lui aveva solo 6 anni; suo padre, membro del direttivo della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam, lo fece studiare alla scuola della comunità basata sulla Torah e il Talmud (i testi sacri ebraici). Ci è stato tramandato che Spinoza era un ragazzo magro, scuro di carnagione, con grandi occhi e lunghi capelli ricci, di carattere malinconico e dal regime di vita ascetico. A 17 anni, in seguito alla morte del fratello maggiore, il padre lo obbligò ad abbandonare gli studi e ad aiutarlo nella conduzione della sua azienda commerciale. Tuttavia, Spinoza continuò a studiare autonomamente, leggendo classici latini, i filosofi rinascimentali, Bacon, Hobbes e soprattutto Descartes. Nel 1656 la comunità ebraico-portoghese pronunciò un anatema contro di lui e lo espulse per eresia, in particolare perché negava la personalità e la trascendenza di Dio. Dovette così abbandonare l’azienda e la casa paterne, farsi ospitare da un amico e in seguito addirittura trasferirsi in camere d’affitto di altre città olandesi e guadagnarsi da vivere facendo il molatore di lenti per telescopi e microscopi. Alla morte del padre, le sorelle cercarono di estrometterlo dall’eredità paterna. Spinoza fece loro causa, la vinse ma poi lasciò loro la sua parte d’eredità tenendo solo un letto col baldacchino. Dopo la cacciata dalla comunità ebraico-portoghese, Spinoza cominciò a elaborare la sua filosofia, organizzando un proprio circolo filosofico e scrivendo le sue prime opere: Principi della filosofia cartesiana, Pensieri metafisici, Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, gli unici saggi che egli pubblicò col proprio nome in vita. I libri successivi – Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (il più importante), Trattato politico (incompiuto) – furono pubblicati postumi nel 1677, ad eccezione del Trattato teologico-politico, pubblicato nel 1670 ma anonimo, che subì la condanna delle Corti olandesi nel 1674 e di cui dunque fu proibita la diffusione. Ciò fu l’esito dell’involuzione politica interna della Repubblica delle sette province unite, dovuta all’invasione da parte della Francia di Luigi XIV e alla conseguente guerra civile. Il nuovo Stato da semidemocratico e tollerante diventò di fatto monarchico e intollerante. Nel 1679 anche la Chiesa cattolica inserì le opere di Spinoza nel suo Indice dei libri proibiti. Il fine ultimo della sua attività filosofica è così enunciato dallo stesso Spinoza: “Io voglio dirigere tutte le scienze ad un unico fine e scopo: che è quello di pervenire alla somma perfezione umana […]” (Trattato sull’emendazione dell’intelletto). In altre parole, la filosofia per Spinoza aveva un fine etico, era cioè una pratica individuale di autoperfezionamento allo scopo di raggiungere la massima felicità. In questa cornice si inquadra una celeberrima sentenza spinoziana: “L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte. La sua sapienza è una meditazione, non della morte, ma della vita”. Trasferitosi all’Aia dal 1670, Spinoza vi incontrò il più giovane filosofo tedesco Leibniz, venuto appositamente per discutere di filosofia con lui, e vi morì nel 1677, non prima però di aver ricevuto la proposta di una cattedra dalla prestigiosa università tedesca di Heidelberg, proposta che declinò sostenendo che non voleva limitare la sua libertà di pensiero per evitare di entrare in contrasto con le istituzioni religiose. 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – SPINOZA – TAPPA 1 LA REALTA’ E’ SVOLGIMENTO DI UN PROGRAMMA RAZIONALE INFINITO I. II. III. IV. V. VI. Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande. Così un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. Intendo per sostanza ciò che è in sé e viene concepito di per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale esso debba essere formato. Intendo come attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza. Intendo per modi le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo è pure concepito. Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita. Baruch Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, parte I La filosofia di Spinoza, innanzitutto, assume come stile filosofico quello “geometrico” che Euclide aveva utilizzato nei suoi Elementi. Si tratta di uno stile rigorosamente ipoteticodeduttivo basato sulla suddivisione in parti gerarchicamente ordinate – definizioni, spiegazioni, assiomi, proposizioni (=teoremi), dimostrazioni, scolii – e sequenzialmente numerate. Questo stile geometrico non è estrinseco rispetto al suo contenuto veritativo, ma anzi garantisce la sua verità. Infatti, secondo Spinoza, una proposizione è vera se, e solo se, è una parte logicamente coerente di un sistema ipotetico-deduttivo. In questo senso, tutta la realtà e tutta la scienza per Spinoza sono incardinate su un principio primo unico. Tale principio primo, da cui tutto il resto segue logicamente, necessita certo di una definizione, ma non di una dimostrazione, in quanto la sua verità è attestata per così dire sintatticamente dalla coerenza logico-formale dell’insieme delle proposizioni che da esso si possono dedurre. Il principio primo e unico della realtà e della scienza, secondo Spinoza, è la Sostanza. Spinoza la definisce come “causa di sé”, ossia come ciò la cui essenza implica l’esistenza, ovvero: sul piano ontologico, come ciò che esiste di per sé, cioè in modo del tutto indipendente, senza bisogno di nient’altro (l’autoesistente); sul piano gnoseologico (o conoscitivo), come ciò che si può comprendere di per sé, cioè senza ricorrere a un altro concetto. Come tale la Sostanza è l’unica cosa davvero reale – la Realtà con la maiuscola, e la Verità con la maiuscola – ed è pertanto infinita, dunque eterna (senza inizio né fine) e perfetta, quindi è Dio. Ma, per Spinoza, in quanto Sostanza, Dio non è una persona, bensì una legge onnicomprensiva, e non è trascendente, bensì immanente, ossia coincide con la Natura (Deus sive Natura), cioè con l’universo psicofisico (perché comprende anche gli intelletti umani). Spinoza spiega quest’ultimo concetto aggiungendo che Dio è sì causa dell’universo psicofisico ma non causa transitiva, bensì causa immanente. In altre parole, Dio non è esterno all’universo, è una causa che produce un effetto in sé stessa; e l’universo non è fuori di Dio, al contrario è un effetto che rimane nella causa che l’ha prodotto. O ancora: 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Dio è natura naturans (natura generante) e l’universo è natura naturata (natura generata), dunque Dio e universo sono distinti ma si coappartengono e costituiscono un tutt’uno. Ma, stando così le cose, in che modo Dio produce l’universo e in che modo Dio e l’universo si coappartengono? Per risolvere questi problemi, Spinoza introduce tre ulteriori principi, derivati dal principio primo, che costituiscono altrettanti livelli o strati ontologici dell’universo: 1. gli attributi: sono le qualità essenziali della Sostanza/Dio, ognuna infinita, benché di un’infinitezza inferiore a quella della Sostanza/Dio in quanto parziale, e di numero infinito, benché noi uomini ne riusciamo a conoscere solo due, a causa della limitatezza delle nostre menti: il Pensiero (res cogitans) e l’Estensione (res extensa); 2. i modi infiniti del Pensiero, cioè le menti, e i modi infiniti dell’Estensione, cioè i corpuscoli materiali dotati di moto inesauribile; 3. i modi finiti del Pensiero, cioè le idee, e i modi finiti dell’Estensione, cioè i corpi. In altre parole: dal Pensiero infinito derivano le menti infinite (ma di un’infinità inferiore perché ogni mente è solo una parte del pensiero) e da queste le idee finite; dall’Estensione infinita derivano i corpuscoli infiniti dotati di moto infinito (ma di un’infinità inferiore perché ogni corpuscolo è una parte dell’estensione) e da questi i corpi finiti (aggregati di corpuscoli in moto). Attributi, modi infiniti e modi finiti sono considerati da Spinoza “affezioni” della Sostanza, ossia sue modificazioni specifiche, ovvero suoi dettagli particolari. In questo modo Spinoza chiarisce la coappartenenza Dio-universo, che si configura come un’immanenza dell’universo in Dio. In altre parole, Spinoza non sostiene un panteismo – cioè la totale coincidenza tra Dio e l’universo – ma un teopantismo, cioè la totale appartenenza dell’universo a Dio e la parziale, ma non totale, appartenenza di Dio all’universo. L’infinitezza di Dio, infatti, è per Spinoza superiore a quella dell’universo, in quanto la seconda è una parte della prima. Ma, allora, che rapporto sussiste tra Pensiero ed Estensione? Spinoza risponde: “L’ordine e la connessione delle idee sono gli stessi dell’ordine e della connessione dei corpi”. In altri termini, tra idee e corpi sussiste un rapporto di corrispondenza biunivoca, tale per cui a ogni idea corrisponde un solo corpo (stato fisico, proprietà fisica) e a ogni corpo (stato fisico, proprietà fisica) una sola idea. Tale corrispondenza biunivoca va però intesa in senso dinamico: Pensiero ed Estensione sono concepiti da Spinoza come due svolgimenti (o processi) paralleli tra loro sincronizzati di un’unica Legge (o Programma), cioè la Sostanza/Dio. La loro sincronizzazione, ovvero la loro corrispondenza biunivoca di tipo però dinamico, dipende appunto dal fatto che sono due modalità diverse di svolgimento della stessa Legge. Per fare un esempio analogico: due traduzioni, una in inglese e una in francese, di uno stesso libro latino. Per comprendere fino in fondo il rapporto Pensiero/Estensione, bisogna aggiungere che per Spinoza la Legge/Programma in cui consiste la Sostanza/Dio è di tipo matematico e dunque il suo svolgimento – come quello di una equazione – è del tutto necessario, ossia non può essere diverso da com’è. Ciò significa che sia i fenomeni fisici sia i nostri pensieri sono totalmente determinati secondo un ordine matematico. In altre parole l’universo psicofisico non è finalistico, ma è un immenso meccanismo causalistico-matematico: lo svolgimento dell’Estensione è un’infinita catena di cause e di effetti, lo svolgimento del 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Pensiero è un’infinita connessione logica di antecedente e conseguente (p.e. dato il fuoco ne segue la combustione del legno) corrispondente e simultanea alla catena causale fisica. Dunque, per Spinoza, Pensiero ed Estensione, e perciò anche menti e corpi, non interagiscono direttamente, per contatto. Ciò significa che le sensazioni non sono il prodotto di una compressione dei corpi esterni sul nostro corpo, che, attraverso i sensi, si trasmette alla mente. Secondo Spinoza, ogni mente è programmata a cogliere in sé immagini sensibili in una precisa successione che è sincronizzata con i movimenti del nostro corpo e con i contatti che il nostro corpo ha con i corpi esterni. In altre parole, ogni sensazione è puramente mentale, ha un’origine del tutto mentale e rimane del tutto interna alla mente, ma è anche oggettiva perché ha sempre il suo pertinente corrispettivo fisico. P.e., se io vedo un arcobaleno in un dato momento di una data giornata, ciò avviene perché il flusso del mio pensiero, come fosse un film, è stato programmato dalla Sostanza-Dio in modo tale che in quel momento di quel giorno nella mia mente apparisse l’idea di quell’arcobaleno. Però, a sua volta lo svolgimento dell’Estensione è stato programmato dalla Sostanza/Dio in modo tale che in quel giorno e a quell’ora nel cielo apparisse effettivamente un arcobaleno. Per cui io vedo dentro di me qualcosa che esiste oggettivamente fuori di me così come la vedo io dentro di me. 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO JOHN LOCKE Nacque a Wrington, a sud-ovest di Bristol, nel 1632 (lo stesso anno della nascita di Spinoza e della pubblicazione del Dialogo di Galilei). Il padre era un esponente della gentry (la piccola nobilità terriera istituita da Enrico VIII), di professione avvocato e di fede puritana, che aveva partecipato alla I rivoluzione inglese (1642-49) come ufficiale dell’esercito del Parlamento, ovvero dei roundheads di Oliver Cromwell (anch’egli proveniente dalla gentry e puritano). Locke studiò dapprima, quindicenne, alla scuola di Westminster, poi, dai vent’anni, all’università di Oxford, dove, dopo sei anni di logica, metafisica e teologia, di impostazione aristotelico-scolastica, diventò maestro delle Arti nel 1558, l’anno della morte di Cromwell, l’evento che avrebbe aperto le porte alla restaurazione degli Stuart, con Carlo II, figlio di Carlo I, giustiziato nel 1649. Nonostante il tradizionalismo di Oxford, durante e dopo gli studi universitari canonici, Locke si appassionò autonomamente alla storia, all’astronomia e soprattutto alla nuova medicina moderna, basata sul metodo sperimentale, che approfondì anche grazie all’amicizia col medico Thomas Sydenham, col matematico John Wallis e soprattutto con il chimico Robert Boyle, uno dei fondatori nel 1660 della Royal Society, l’accademia scientifica inglese. La passione di Locke per la medicina, che gli valse il soprannome “il dottor Locke” da parte degli amici, gli permise di scoprire e praticare il metodo scientifico moderno, e di abbandonare così il metodo scolastico tradizionale. Dopo alcuni anni di piccoli incarichi di insegnamento ad Oxford, la pubblicazione di due libri politico-giuridici (Trattati sul magistrato civile e Saggi sulla legge di natura) e un incarico come diplomatico nel Granducato del Brandeburgo, nel 1666 Locke divenne medico personale e consigliere del conte di Shaftesbury, leader degli whigs, i liberali inglesi, e andò a vivere nel suo palazzo a Londra, dove cominciò a scoprire la sua vocazione filosofica, tanto che già l’anno successivo scrisse la sua prima opera filosofica, Saggio sulla tolleranza. Nel 1668, anche grazie al fatto che Shaftesbury era diventato ministro del governo di Carlo II Stuart, Locke fu ammesso nella Royal Society nella quale sarebbe entrato nel 1675 anche Isaac Newton, di cui Locke divenne amico anche per le comuni idee politiche. Dopo un breve viaggio in Francia, nel 1672 Shaftesbury, divenuto Lord Cancelliere, nominò suo segretario Locke, il quale così ottenne il permesso di praticare la medicina e di conseguire il baccellierato in medicina al Christ Church College di Oxford. Nel 1675, per motivi di salute, soggiorna a Montpellier, sede della più importante facoltà europea di medicina dell’epoca, e quindi per due anni a Parigi, dove lesse le opere di Cartesio, Pascal, Malebranche e Gassendi, i più importanti filosofi francesi del 1600. Nel 1679 ritornò a Londra come precettore del nipote di Shaftesbury, che sarebbe diventato un importante filosofo della morale. Nel 1682, in seguito al fallimento del tentato colpo di Stato di Shaftesbury, Locke fuggì in Olanda, dove abitò fino al 1689, frequentando gli scienziati olandesi e cominciando a comporre le sue opere filosofiche più importanti. In contatto con William of Orange, Locke contribuì anche all’organizzazione e all’attuazione della “Gloriosa rivoluzione” inglese del 1688/89, che portò alla cacciata di Giacomo II Stuart e all’instaurazione di una monarchia parlamentare in Inghilterra. Tornato a Londra al seguito della nuova regina Maria Stuart, moglie di Guglielmo d’Orange, Locke pubblicò tra il 1689 e il 1690 Lettera sulla tolleranza, Saggio sull’intelletto umano e Due trattati sul governo. Riconosciuto e onorato ufficialmente da corona e parlamento, ne trasse incarichi e prebende, in particolare divenne consigliere per il commercio nelle colonie e socio della Royal African Company, ricavandone lauti guadagni, basati purtroppo soprattutto sulla tratta degli schiavi, benché nei suoi scritti Locke avesse biasimato la schiavitù. Dal 1691, anche per motivi di salute, Locke si trasferì a vivere in campagna, a Oates, 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – nell’Essex, ospite di Lady Masham, figlia del filosofo platonico di Cambridge Cudworth, con la quale nel 1703 entrò in corrispondenza epistolare il filosofo tedesco Leibniz. Questi, già nel 1695, dopo aver letto il Saggio sull’intelletto umano, aveva inviato il suo commento a Locke tramite un comune amico, ma Locke non aveva voluto rispondergli direttamente limitandosi a dire all’amico comune di essere stato deluso dalle critiche di Leibniz. Attraverso Lady Masham, Leibniz sollecitò di nuovo una risposta esplicita di Locke ai suoi rilievi critici, ma neanche questa volta ebbe da lui soddisfazione, anche perché ormai egli si dedicava esclusivamente a studi biblici e teologici. Morì l’anno dopo, nel 1704, a Oates, assistito da Lady Masham. 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LOCKE – TAPPA 1 LA CONOSCENZA E’ ESPERIENZA PIU’ ELABORAZIONE MENTALE Non c’è ipotesi più comunemente accettata di quella secondo la quale esistono certi principi sia teoretici che pratici (poiché si fa riferimento a entrambi) universalmente accettati dal genere umano: si ritiene che tali principi debbano avere necessariamente origine da impressioni costanti che l’anima degli uomini riceve agli albori della sua esistenza, e che porta con sé nel mondo in modo così necessario e reale come vi porta ciascuna delle facoltà che le sono proprie. Questo argomento, derivato dal consenso universale, ha il seguente inconveniente: se in realtà fosse vero che esistono alcune verità sulle quali concorda tutto il genere umano, comunque non si sarebbe dimostrato che tali verità siano anche innate, se può essere presentato un altro modo mediante il quale gli uomini sono in grado di giungere all’accordo universale su quelle cose intorno a cui essi esprimono il proprio assenso; la qual cosa credo possa essere dimostrata. Ancora peggio, però, che questo argomento del consenso universale, di cui s’è fatto uso per dimostrare l’esistenza di principi innati, mi sembra invece dimostrare che non ne esistono affatto, poiché non v’è alcun principio su cui il genere umano sia universalmente concorde. Comincerò dai principi teoretici, in particolare dal caso dei famosi principi dimostrativi che più di tutti vantano i requisiti per essere considerati innati: tutto ciò che è, è; e è impossibile che la stessa cosa sia e non sia. Questi principi godono della fama così accreditata di massime universalmente riconosciute, e si troverà senz’altro strano che qualcuno osi metterli in discussione. Mi prendo tuttavia la libertà di dire che queste proposizioni sono assai lontane dal ricevere un consenso universale, poiché a una parte considerevole del genere umano esse non sono neppure note. Innanzitutto è evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la benché minima percezione o comprensione di tali principi, e questa mancanza è sufficiente a distruggere quel consenso universale che dovrebbe essere il dato concomitante e necessario di tutte le verità innate; mi sembra quasi contraddittorio affermare che ci sono verità impresse nell’anima che però questa non percepisce o non comprende affatto, poiché l’atto dell’imprimere, se mai significa qualcosa, non è altro che consentire a certe verità di essere percepite. Infatti l’imprimere qualcosa nella mente senza che la mente stessa lo percepisca mi sembra una cosa difficilmente intelligibile. D’altra parte, se i fanciulli e gli idioti hanno un’anima, se hanno una mente con in se stessa tali impressioni, devono inevitabilmente percepire tali principi e necessariamente conoscere e dare il proprio assenso a quelle verità; ma poiché ciò non accade, è evidente che tali impressioni non esistono affatto. Infatti, se non sono concetti impressi naturalmente, come possono essere innati? E se sono concetti impressi, come possono rimanere sconosciuti? Dire che un concetto è impresso nella mente; e tuttavia allo stesso tempo dire che la mente l’ignora e che finora non ne ha mai avuto coscienza, significa rendere vana questa impressione. […] Se queste massime speculative, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non sono accolte da tutto il genere umano con un effettivo assenso universale, così come abbiamo dimostrato, riguardo ai principi pratici è ancora più evidente che essi sono ben lontani dal ricevere un assenso universale; e credo sarebbe assai difficile citare una norma morale in grado di 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – pretendere un assenso così immediato e generale come la seguente massima: ciò che è, è; o che possa essere a sua volta una verità manifesta quanto la massima: è impossibile che la stessa cosa sia e non sia. Da ciò risulta evidente che i principi morali hanno ancor meno titolo a qualificarsi come innati, e il dubbio che siano impressioni originarie della mente è in questo caso più forte che per gli altri principi. Non che questo dubbio metta per nulla in questione la loro verità. I principi morali sono ugualmente veri, benché non ugualmente evidenti. I principi speculativi portano con loro stessi la propria evidenza, mentre i principi morali richiedono il ragionamento e l’argomentare, e una certa abilità della mente nello scoprire la certezza della loro verità. Essi non si presentano come caratteri incisi nella mente; se vi fossero impressi così, dovrebbero necessariamente rendersi visibili da soli e, mediante la loro propria luce, essere certi e conosciuti per ogni uomo. Ma questo non sminuisce in alcun modo la loro verità e la loro certezza, così come non diminuisce la verità e la certezza della proposizione: i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti, solo perché essa risulta meno evidente di questa: il tutto è più grande della parte, e non è altrettanto adeguata a ricevere l’assenso non appena formulato. Basta che queste regole morali siano suscettibili di dimostrazione; e quindi sarà colpa nostra se non riusciremo a conseguirne una conoscenza certa. Ma l’ignoranza in cui molti uomini versano rispetto a tali regole, e la lentezza con cui altri uomini danno loro il proprio assenso, sono la prova manifesta che esse non sono innate né tali da offrirsi da sé, senza indagine, all’intelletto di costoro. […] La giustizia e l’osservanza dei contratti è ciò su cui la maggior parte degli uomini sembrano concordi: è un principio che si ritiene opportuno estendere anche ai covi di ladri e alla compagine dei peggiori scellerati; e coloro che più contribuiscono a distruggere l’umanità sono fedeli gli uni agli altri e osservano regole di giustizia. Riconosco che gli stessi banditi rispettano la legge l’uno con l’altro, ma senza avere ricevuto queste regole come leggi di natura innate. Le osservano come regole di convenienza all’interno della loro comunità; è infatti impossibile che consideri la giustizia come un principio pratico colui che agisce equamente con i suoi compagni di banda, ma allo stesso tempo deruba e uccide il primo uomo onesto che incontra. La giustizia e la verità sono i legami comuni della società, e così anche i fuorilegge e i ladri, che per il resto hanno rotto i rapporti con tutto il mondo, devono mantenere fra loro la fedeltà e le regole di equità, altrimenti non potrebbero vivere insieme. Ma qualcuno sosterrà mai che quanti vivono di frode e rapina hanno innati i principi di verità e giustizia, da loro peraltro ammessi e ai quali concedono il proprio assenso? […] Ma non riesco a capire come alcune persone possano trasgredire queste regole morali con convinzione e serenità, se esse sono innate e impresse nelle loro menti. Considerate un esercito impegnato nel saccheggio di una città e osservate quale riguardo, quale sensibilità per i principi morali, o quale rimorso di coscienza dimostrano quegli uomini per le violenze da loro compiute. Saccheggi, assassinii, stupri sono il divertimento di persone cui è stata garantita l’impunità da ogni castigo e biasimo. Non vi sono forse state intere nazioni, anche fra quelle più civili, per le quali abbandonare i propri bambini, lasciandoli nei campi a morire di inedia o come preda di bestie feroci, è stato un gesto così poco condannato o messo in discussione quanto il metterli al mondo? E in certi paesi non è pratica ancora in uso seppellire i bambini nella tomba con la madre quando questa muoia nel darli alla luce? O di ucciderli se un sedicente astrologo dichiara che essi sono nati sotto una 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – cattiva stella? E non vi sono luoghi dove a una certa età i figli uccidono o abbandonano i propri genitori, senza alcun rimorso? In una certa parte dell’Asia, quando si dispera della guarigione di un malato, lo si conduce all’aperto e lo si depone a terra, prima che egli sia morto, e lo si lascia là, esposto ai venti e alle intemperie, fino a che non muoia, senza conforto o pietà. E’ consuetudine presso i Mingreliani, popolo che si professa cristiano, seppellire vivi i propri bambini senza scrupolo alcuno. Vi sono luoghi dove i genitori mangiano i propri bambini. Gli abitanti dei Caraibi erano soliti castrare i loro bambini perché ingrassassero, per poi cibarsene. E Garcilasso de la Vega ci racconta di una popolazione in Perù che d’abitudine ingrassava e poi mangiava i bambini generati dalle loro prigioniere, che a questo scopo mantenevano in vita come concubine fino a che fossero fertili, ma quando superavano l’età della procreazione, esse a loro volta venivano uccise e mangiate. I Topinambur ritenevano il vendicarsi dei propri nemici e il nutrirsi in abbondanza delle loro carni azioni virtuose da perseguire al fine di meritare il paradiso. Essi non hanno neppure un nome per designare Dio, non hanno alcuna conoscenza di Dio, non hanno religione né culto. I santi che vengono canonizzati dai Turchi conducono una vita che non si può raccontare con pudicizia. […] Dove sono allora quei principi innati di giustizia, di pietà, di riconoscenza, di equità e di castità? E dov’è quell’assenso universale che ci assicura dell’esistenza di principi innati? Da quando la moda ha concesso dignità ai duelli, si commettono omicidi senza alcun rimorso di coscienza, anzi in certi luoghi, in un simile frangente, l’innocenza si trasforma nella peggiore ignominia. E infine se andiamo a vedere fuori dai nostri confini e consideriamo gli uomini quali sono realmente, scopriremo che in un luogo gli uomini provano rimorso se compiono o trascurano d’eseguire ciò che, altrove, altri trovano meritorio perseguire o negligere. Colui che scrupolosamente attenderà allo studio della storia del genere umano e osserverà le diverse tribù di uomini, e considererà senza pregiudizio le loro azioni, si persuaderà da sé che non c’è quasi principio della morale o regola della virtù, che si possa definire o considerare tale (fatta eccezione per i principi assolutamente necessari a fondare il vivere comune e civile, comunemente trascurati da società intere nei riguardi di altre società), che non sia però da qualche parte disprezzato e condannato dalla pratica generale di intere società, governate da opinioni e regole di vita pratica completamente opposte ad altre. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Milano, Bompiani, 2006, libro I, capp. II e III Lo scopo ultimo dichiarato della filosofia teoretica – gnoseologica ed epistemologica – di Locke è quello di stabilire con certezza la portata e gli eventuali limiti della capacità conoscitiva dell’uomo, ossia l’effettivo potere conoscitivo dell’intelletto umano. Solo così, infatti, è possibile, secondo Locke, garantire la verità della scienza e un suo uso efficace e quindi vantaggioso. Ma per misurare il potere conoscitivo dell’intelletto umano, per Locke occorre preliminarmente analizzare come si svolge il processo conoscitivo, ossia è necessario mettere a punto una veritiera teoria della conoscenza. Il punto di partenza ne è l’esclusione di qualsiasi contenuto innato dell’intelletto. Pertanto, Locke si impegna innanzitutto in una confutazione dell’innatismo, ossia della teoria secondo la quale l’intelletto possiede fin dalla nascita delle idee, cioè delle conoscenze intramentali, a priori, cioè prima di, e quindi indipendentemente da, qualsiasi sensazione. 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Secondo Locke, l’argomento fondamentale degli innatisti è quello del “consenso universale”: poiché tutti gli uomini condividono le stesse idee del bene, dei principi logici e di Dio, poiché tali idee non possono essere state tratte dalle loro esperienze sensibili, in quanto queste sono estremamente diversificate, allora esse devono essere innate. Dato questo argomento, la strategia confutativa di Locke mira a falsificarlo esibendo una serie di prove empiriche che lo smentiscono. In questo senso, la confutazione lockiana dell’innatismo si dipana su tre piani: 1. quello relativo ai principi morali (bene/male); 2. quello relativo all’esistenza di Dio; 3. quello relativo ai principi logici (identità, non-contraddizione, terzo escluso, ecc.). Per quanto riguarda la presunta idea innata del bene, Locke, anche basandosi su resoconti etnografici di europei che avevano viaggiato nei nuovi continenti, cita diversi esempi di usanze e norme di comportamento di popoli non europei in contrasto con quelle europee ma anche tra di loro stesse, p.e. il cannibalismo, in particolare quello che avrebbe avuto come oggetto perfino i figli. Anche a proposito della presunta idea innata di Dio, Locke ha buon gioco a riportare testimonianze di viaggiatori circa l’ateismo di alcune popolazioni extraeuropee. Infine, per quanto concerne le presunte idee innate dei principi logici, ma anche di Dio, Locke sostiene che i bambini di pochi anni e i malati di mente dimostrano di non possederne alcuna nozione, in quanto nei loro comportamenti o nei loro discorsi non ne fanno alcun uso. Per quest’ultimo caso, Locke considera anche l’obiezione che gli innatisti gli avevano opposto, e cioè che bambini e psicopatici ignorano il principio di non-contraddizione e l’idea di Dio non perché non ne abbiano le corrispettive idee innate, ma solo perché, pur possedendole, non ne sono coscienti, i primi perché il loro organismo non si è ancora sviluppato, i secondi perché il loro organismo ha subito delle menomazioni. A questa obiezione, Locke replica che il concetto di “idea inconscia” è autocontraddittorio (in linguaggio logico, una contradictio in adiecto, contraddizione rispetto all’aggettivo) dal momento che “idea” significa, e non può che significare, “contenuto mentale impresso nella mente”, e dunque cosciente. In altre parole, per Locke la mente coincide con la coscienza, e quindi è impossibile che un’idea sia inconscia, ovvero se è inconscia non è un’idea, cioè non è presente nella mente, e dunque non può essere innata. Sgombrato il campo dalla falsa credenza nell’innatismo, Locke può enunciare il principio primo e fondamentale della sua teoria della conoscenza: l’intelletto (o mente, mind) prima della nascita è una tabula rasa, ovvero un foglio bianco; in altri termini, è vuoto, privo di qualsiasi idea, e dunque qualsiasi idea dell’intelletto deriva dall’esperienza sensibile che comincia solo con la nascita. Sulla base di questo principio, Locke elabora una nuova teoria delle idee, distinguendone 3 tipi e spiegando per ognuno di essi come si costituiscono e in cosa consistono: 1. le idee semplici, a loro volta divise in idee semplici di sensazioni e idee semplici di riflessioni; 2. le idee complesse, a loro volta divise in idee complesse di modi, di sostanze e di relazioni; 1 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – 3. le idee generali, ovvero i concetti propriamente detti. Le idee semplici sono idee individuali del tutto passive, nel senso che l’intelletto si limita a riceverle, in quanto sono l’effetto mentale immediato delle singole sensazioni, intese da Locke come microsensazioni, per così dire come “istanteanee”, p.e. una sfumatura di rosso di una parte della copertina di un libro, quella che i miei occhi mettono a fuoco qui e ora, salvo passare subito a un’altra sfumatura di un’altra parte. Esse possono arrivare all’intelletto attraverso il “senso esterno”, ossia che percepisce ciò che è extrapsichico, e in questo caso Locke le denomina propriamente “sensazioni”, p.e., altezza di una casa, profumo di un fiore, ecc.; oppure attraverso il “senso interno”, ossia che percepisce ciò che è psichico, e in questo caso Locke le chiama “riflessioni”, p.e., la gioia, la tristezza, il ricordare (ovvero percepisco che sto ricordando qualcosa), il calcolare (“sto facendo una divisione”), il dedurre, l’indurre, ecc. Le “sensazioni” propriamente dette, continua Locke, possono a loro volta riguardare: o le “qualità primarie” degli oggetti fisici, cioè le loro proprietà quantitative (altezza, volume, peso, forma geometrica, ecc.), che danno luogo a idee semplici effettivamente oggettive, cioè reali; o le “qualità secondarie” degli oggetti fisici, cioè le loro proprietà qualitative, che generano in noi idee semplici soggettive, cioè immaginarie, in quanto rispecchiano il nostro modo di percepire gli oggetti fisici non gli oggetti fisici in se stessi. Le idee complesse sono aggregati di due o più idee semplici. Esse, pur essendo individuali come quelle semplici, se ne differenziano perché: derivano indirettamente dall’esperienza sensibile; non sono passive, ma attive, ossia sono una costruzione dell’intelletto umano. Dunque, per Locke, l’intelletto umano non si limita a ricevere le idee semplici, ma possiede una propria capacità autonoma di elaborarle, più precisamente di associarle, ovvero di combinarle. Secondo Locke, l’intelletto usa 3 diverse modalità di associazione da cui derivano 3 corrispondenti sottotipi di idee complesse: 1. le idee complesse di “modi”: sono quelle delle singole proprietà di un oggetto – p.e. il colore blu di questo libro, oppure il suo volume o il suo peso (naturalmente il primo modo è soggettivo, solo gli altri due sono oggettivi) – e si differenziano dagli altri due sottotipi perché non sono autosufficienti ma si riferiscono a qualcos’altro, cioè alle idee complesse di “sostanze” (nell’esempio, il libro); 2. le idee complesse di “sostanze”: sono quelle autosufficienti dei singoli oggetti (questo libro, questo gatto, questa scoperta di un errore di calcolo, questa paura di essere interrogato in…, ecc.) intesi come collage di modi (p.e., questo gatto è l’unione di un certa lunghezza, una certa altezza, l’avere un pelo di un certo colore, l’avere quattro zampe e una coda, miagolare, fare le fusa, ecc.); 3. le idee complesse di “relazione”: sono quelle che contengono i rapporti tra due o più idee complesse, p.e. la loro somiglianza, o la loro differenza, oppure l’essere causa una e il suo effetto l’altra. A proposito delle idee complesse di sostanze, Locke stesso solleva un problema: perché la nostra mente associa alcuni modi e non altri, p.e. perché non include nell’idea di questo cavallo anche la sua sella o perché non esclude dall’idea di questo serpente la sua pelle (che 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – sta cambiando)? In prima battuta, la risposta di Locke è: perché l’esperienza ci attesta che determinati modi ci si presentano sempre, o più spesso, connessi (questo cavallo ci appare più spesso senza sella, questo serpente con la pelle). Ma, continua Locke, è anche vero che, quando pensiamo questo cavallo o questo serpente, noi presupponiamo che siano qualcosa di più di un mero insieme di modi, ovvero pensiamo che le loro proprietà si presentino stabilmente associate in quanto appartengono a un nucleo unico, a un qualcosa di cui esse sono proprietà. Questo qualcosa, questo nucleo unitario, per così dire questo collante che tiene stabilmente insieme alcune proprietà, separandole da altre e costituendo in tal modo tutti gli oggetti come tali, è propriamente ciò che Locke chiama “sostanza” (e che corrisponde alle “sostanze o essenze prime” di Aristotele). Secondo Locke, dunque, l’intelletto combina alcune proprietà, e ne scarta altre, in base alla “sostanza”, e, inoltre, a seconda che le idee complesse nascano da idee semplici di sensazioni o da idee semplici di riflessione, distingue anche tra sostanze fisiche e sostanze psichiche, ovvero conosce due tipi di sostanze, quelle materiali e quelle mentali. Tuttavia, afferma Locke, se la nostra esperienza delle sostanze è sufficiente per darci la certezza che esse esistono, è invece insufficiente per permetterci di conoscere che cosa sono, cioè di stabilire con certezza le loro essenze (quelle che Aristotele aveva chiamato “sostanze o essenze seconde” o anche “forme razionali”). In altre parole, noi non possiamo sapere in cosa consistono le sostanze: innanzitutto, se effettivamente vi siano sostanze materiali e mentali, o solo materiali, o solo mentali, o né l’una né l’altra, o addirittura ve ne siano sì, ma di tutt’altro genere; in secondo luogo, che cosa siano effettivamente le cose in quanto sostanze, ovvero quale sia la loro reale completa costituzione e quale sia il loro senso ultimo. Per chiarire meglio la sua concezione della sostanza – chiaramente alternativa a quella della tradizione aristotelico-scolastica – Locke usa un’analogia, riportando uno scambio di battute tra un viaggiatore inglese e un indiano (dell’India): il primo chiede al secondo come spiegano gli indiani il fatto che la Terra sia ferma nello spazio vuoto e il secondo gli risponde che gli indiani ritengono che la Terra poggi sul vasto dorso di un enorme elefante; l’inglese allora chiede su cosa poggi per gli indiani l’elefante e l’indiano risponde: sull’immenso carapace di una gigantesca testuggine; l’inglese gli pone la stessa domanda a proposito della testuggine e questa volta l’indiano risponde: la testuggine poggia su qualcos’altro che non si sa che cosa sia. Infine, le idee generali sono aggregazioni di idee complesse e, come tali, sono ancora più costruzioni mentali di quelle complesse, ma se ne differenziano, e a maggior ragione da quelle semplici, perché non sono individuali bensì universali. In altre parole, le idee generali sono i concetti, cioè rappresentazioni mentali di insiemi, o classi, di cose, p.e. “cane”, “conifera”, “metallo”, “vegetale”, ecc. Secondo Locke, le idee generali, cioè i concetti, hanno due aspetti: il contenuto conoscitivo (significato), che deriva dall’associazione per somiglianza di insiemi di idee complesse, p.e. tante idee complesse di singoli cani (un levriero, un pastore tedesco, un alano, ecc.), in base alla quale la mente costruisce l’idea generale, p.e. di cane, eliminando le differenze (p.e. le diverse lunghezze e altezze) e isolando solo i modi uguali (p.e. la quadrupedicità, la coda, l’abbaiare, ecc.); il nome (significante), ovvero il suono/segno adibito a etichettare il contenuto conoscitivo e a facilitarne l’elaborazione mentale e la comunicazione interumana, p.e. il termine “cane”, che è un prodotto del tutto artificiale dell’intelletto umano ed 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – ha un valore unicamente convenzionale, ovvero dipende da un libero accordo tra più uomini. Insomma, Locke è un concettualista per quanto riguarda il significato dei concetti, poiché per lui i concetti, pur non avendo alcuna realtà fisica, posseggono una realtà mentale, in quanto sono effettive rappresentazioni universali seppure solo a livello di astrazione intellettiva; ma è un nominalista e un convenzionalista per quanto riguarda il significante dei concetti, ossia il linguaggio, in quanto ritiene che non vi sia nessun legame intrinseco tra il contenuto conoscitivo di un’idea generale e il suo nome, che i nomi siano delle invenzioni arbitrarie, e come tali sempre sostituibili, e che il fatto che più uomini usino lo stesso linguaggio dipende solo da un accordo utilitaristico. 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LOCKE – TAPPA 2 LO STATO CIVILE E’ UNO STATO DI NATURA PIU’ PACIFICO E SICURO Essendo gli uomini, come si è detto, tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono. Questo può essere fatto da un gruppo di uomini poiché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono lasciati tali e quali nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di uomini ha così consentito a costituire una comunità o governo, essi sono con ciò immediatamente associati e costituiscono un solo corpo politico in cui la maggioranza ha il diritto di deliberare e decidere per il resto. Infatti quando un gruppo di uomini ha, con il consenso di ciascun individuo, costituito una comunità, ha con ciò fatto di quella comunità un solo corpo, con il potere di agire come un solo corpo, cioè solo in base alla volontà e decisione della maggioranza. Infatti, essendo ciò che una comunità fa non altro che il consenso degli individui a essa appartenenti; ed essendo necessario che ciò che costituisce un solo corpo si muova in una sola direzione, è necessario che quel corpo si muova nella direzione in cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza. Altrimenti gli sarebbe impossibile deliberare o continuare a sussistere come un solo corpo, come una sola comunità, quale il consenso di ciascun individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; e così ciascuno è tenuto da quel consenso a essere determinato dalla maggioranza. Perciò vediamo che in assemblee investite del potere di deliberare da leggi positive, quando nessun numero è stabilito dalla legge positiva che l’ha investita di quel potere, la deliberazione della maggioranza è considerata come deliberazione della totalità, e ovviamente determina, per legge di natura e di ragione, il potere della totalità. […] Infatti, se il consenso della maggioranza non può essere ragionevolmente accettato come atto della totalità, determinando così ogni individuo, null’altro che il consenso di ciascun individuo può rendere qualcosa un atto della totalità. Ma tale consenso è pressoché impossibile da ottenere se si considerano i malanni fisici e le attività lavorative che, anche in un gruppo molto meno numeroso di una società politica, necessariamente terranno fuori molti dalla pubblica assemblea. Se a ciò si aggiungono la varietà di opinioni e il contrasto d’interessi inevitabilmente presenti in ogni raggruppamento di uomini, l’entrata in società a tali condizioni equivarrebbe all’entrata di Catone in teatro, il quale vi entrava solo per uscirne. Una costituzione come questa doterebbe il potente Leviatano di una durata più breve delle più deboli creature, e non lo lascerebbe sopravvivere al giorno in cui è nato; il che non può essere supposto, a meno che non si voglia pensare che le creature razionali desiderino e costituiscano società solo per poi scioglierle. Infatti, dove la maggioranza non può determinare tutti gli altri, ivi non si può deliberare come un solo corpo, e questo, di conseguenza, immediatamente si dissolve. […] 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Se l’uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché rinuncia alla sua libertà? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo di un altro potere? A ciò è ovvio rispondere che, sebbene nello stato di natura egli abbia un tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alle violazioni da parte di altri. Infatti, essendo tutti re tanto quanto lui, essendo tutti suoi pari ed essendo per lo più poco rispettosi dell’equità e della giustizia, il godimento della proprietà che egli ha in questo stato è molto incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di continui pericoli. Non è senza ragione che egli cerca e desidera unirsi in società con altri che sono già riuniti, o hanno in mente di riunirsi, per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni: cose che io denomino con il termine generale di proprietà. Il grande e principale fine per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà. A tale fine lo stato di natura è per molti rispetti inefficiente. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa, nota, accettata e riconosciuta per comune consenso come criterio del giusto e dell’ingiusto e come comune misura per decidere ogni controversia fra loro. Infatti, per quanto la legge di natura sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini, influenzati dai loro interessi e ignari di essa per mancanza di riflessione, non sono portati a riconoscerla come una legge che li vincola nell’applicazione ai loro casi particolari. In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice riconosciuto e imparziale, con l’autorità di risolvere tutte le divergenze sulla base della legge stabilita. Ciascuno, infatti, essendo in quello stato giudice ed esecutore della legge di natura, ed essendo gli uomini parziali nei propri riguardi, la passione e lo spirito di vendetta tendono a spingerli troppo oltre e a scaldarli troppo quando si tratta di casi propri; così come la negligenza e il disinteresse tendono a renderli noncuranti dei casi altrui. In terzo luogo, nello stato di natura manca spesso un potere che appoggi e sostenga la sentenza quando sia giusta, e le dia la dovuta esecuzione. Coloro che hanno commesso un’ingiustizia raramente mancano, quando ne sono capaci, di sostenere con la forza la loro ingiustizia; e tale resistenza molte volte rende pericoloso, e sovente mortale, il tentare di infliggere la punizione. Così gli uomini, nonostante tutti i privilegi dello stato di natura, trovandosi comunque in una condizione sfavorevole finché vi rimangono, sono spinti ben presto a costituire una società. Perciò accade che raramente troviamo un gruppo di uomini che viva per qualche tempo in questo stato. Gli inconvenienti cui quella condizione li espone per l’irregolare e incerto esercizio del potere che ogni uomo ha di punire le altrui trasgressioni, li inducono a mettersi sotto la protezione delle leggi stabilite di un governo e in esse cercano la salvaguardia della loro proprietà. È questo che li rende così propensi a rinunciare ciascuno al proprio diritto di punire, affinché sia esercitato da quello soltanto che fra loro sarà in tal senso designato e secondo regole su cui la comunità, o quelli autorizzati da essa, converranno. E in ciò troviamo l’originario diritto e l’origine del potere sia legislativo che esecutivo, come pure degli stessi governi e società. Infatti nello stato di natura, tralasciando la libertà di godere di piaceri innocenti, l’uomo ha due poteri. Il primo consiste nel fare tutto ciò che ritiene 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – opportuno per la conservazione di se stesso e degli altri entro i limiti consentiti dalla legge di natura, per la quale legge – a tutti comune – lui e tutto il resto del genere umano sono una sola comunità e costituiscono una società distinta da quelle di tutte le altre creature. E se non fosse per la corruzione e la malvagità di uomini degenerati, non ci sarebbe bisogno di altra società; non sarebbe necessario per gli uomini separarsi da questa grande comunità naturale e unirsi sulla base di accordi positivi in associazioni più piccole e separate. Un altro potere che l’uomo ha nello stato di natura è il potere di punire i reati commessi contro la legge di natura. A entrambi questi poteri egli rinuncia quando si unisce a una società politica privata – se così posso chiamarla – o particolare, e si incorpora in uno Stato distinto da tutto il resto del genere umano. Al primo potere – quello di fare tutto ciò che ritiene opportuno alla conservazione di se stesso e di tutto il resto dell’umanità – egli rinuncia affinché sia regolato da leggi fatte dalla società secondo quanto richiede la conservazione sua e degli altri membri di quella società: leggi della società che in molte cose limitano la libertà che egli possiede per legge di natura. In secondo luogo, al potere di punire egli rinuncia interamente e impegna la sua forza naturale (che prima poteva impiegare nell’esecuzione della legge di natura, per autorità individuale propria, come riteneva opportuno) per aiutare il potere esecutivo della società, a seconda che lo richieda la legge di questa. Trovandosi ora in un nuovo Stato, in cui gode di molti vantaggi provenienti dal lavoro, dall’assistenza e dalla società di altri membri della stessa comunità,come pure della protezione che gli deriva dalla forza complessiva della comunità stessa, egli deve rinunciare anche alla propria naturale libertà di provvedere a sé stesso, nella misura in cui lo richiedono il bene, la prosperità e la sicurezza della società. E questo non è solo necessario, ma anche giusto, dalmomento che gli altri membri della società fanno lo stesso. Ma, sebbene gli uomini quando entrano in società consegnino l’eguaglianza, lalibertà e il potere esecutivo che essi avevano nello stato di natura nelle mani della società, affinché il legislativo ne disponga come richiede il bene della società stessa; tuttavia, poiché ciascuno fa questo con l’intenzione di meglio conservare sé, la sua libertà e proprietà (perché non si può supporre che una creatura razionale muti la sua condizione con l’intenzione di stare peggio), non è lecito supporre che il potere della società, o il legislativo da essi costituito oltrepassi i limiti del bene comune, anzi è obbligato ad assicurare la proprietà di ciascuno prendendo le debite misure contro i tre difetti sopra menzionati, che avevano reso lo stato di natura così incerto e difficile. E così, chiunque detenga il potere legislativo o supremo di uno Stato è tenuto a governare secondo leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non secondo decreti estemporanei; per mezzo di giudici imparziali e retti, che decidano le controversie secondo quelle leggi; e a impiegare la forza della comunitàall’interno solo per l’esecuzione di quelle leggi, e all’esterno al fine di prevenire e risarcire le offese esterne, e mettere al sicuro la comunità da incursioni e invasioni. E tutto questo non deve essere diretto ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo. J. Locke, Il secondo trattato sul governo, Milano, Rizzoli, 1998, cap. VIII e cap. IX. Anche Locke fonda la sua teoria dello Stato civile sullo “stato di natura”, cioè assume che in origine gli uomini vivessero in una condizione di totale anarchia, ossia senza leggi 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – codificate ed autorità che ne imponessero il rispetto. In tale stato di natura originario ogni individuo per Locke è totalmente “libero, uguale e indipendente” e quindi decide autonomamente i propri comportamenti. Ma in base ai quali criteri? La risposta di Locke è che tutti gli uomini hanno insiti nella loro ragione un diritto naturale e una legge naturale, corrispondenti alla “legge divina”, ossia stabiliti da Dio. In base al diritto naturale, tutti gli uomini sono titolari di alcuni diritti, inalienabili in quanto propri della loro natura creata da Dio. I principali sono: 1. il diritto alla vita, da cui scaturisce l’impulso all’autoconservazione, ovvero la tendenza a evitare il “disagio” (uneasiness) e a ricercare la felicità; 2. il diritto alla sicurezza, intesa come integrità del proprio corpo, ovvero salvaguardia da ogni possibile danno fisico; 3. il diritto alla libertà, cioè ad agire in base alla propria scelta individuale senza dover obbedire a nessuno; 4. il diritto alla proprietà, cioè alla disponibilità di beni materiali intesi come strumenti per godere effettivamente e il più possibile dei precedenti diritti. Secondo Locke, il diritto naturale è strettamente connesso alla legge naturale che consiste in un insieme di regole razionali di comportamento collettivo, ossia in una legge morale la quale, come tale, da un lato, impone a ogni individuo di tener conto degli altri e, dall’altro, si fa valere non in base alla forza ma solo in base alla sua razionalità, ossia in quanto liberamente scelta. Secondo Locke, la legge morale naturale (=razionale) consiste essenzialmente nel rispettare i diritti naturali altrui, ovvero nel principio di reciprocità grazie al quale se ogni uomo rispetta i diritti altrui otterrà il rispetto dei propri. In ultima analisi, dunque, per Locke, la legge naturale è razionale in senso utilitaristico, cioè perché è quella massimamente conveniente per tutti. Stando così le cose, è chiaro che per Locke lo stato di natura non è una guerra permanente di tutti contro tutti. Ma allora perché gli uomini dovrebbero abbandonarlo per costituire una Stato civile? Locke risponde che nello stato di natura non c’è la garanzia che non si verifichino guerre, ovvero che esso a volte è teatro di guerre. Com’è possibile, se gli uomini sono razionali e seguono la legge naturale? E’ possibile, e anzi addirittura probabile, afferma Locke, per due motivi: in generale, perché la razionalità umana è parziale, l’uomo è anche istintivo e passionale, dunque a volte in tutti gli uomini, anche nei più razionali, la ragione è sopraffatta dalla passione e inoltre vi sono uomini che per costituzione o educazione hanno un basso o quasi nullo grado di razionalità e quindi agiscono per lo più istintivamente, cioè malvagiamente; nello specifico, perché nella vita economica dello stato di natura, dal momento che ogni individuo mira alla propria conservazione, possono sorgere dei conflitti di interessi che a loro volta possono degenerare in litigi e quindi in scontri violenti. Locke approfondisce ulteriormente questa seconda causa di probabili guerre nello stato di natura elaborando una teoria storica della nascita e dell’evoluzione della proprietà privata e, più in generale, dell’economia sociale. Secondo Locke in partenza, e quindi in linea di principio, la terra, creata da Dio, appartiene solo a Dio il quale l’ha donata a tutta 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’umanità, dunque l’ha resa una proprietà comune. Successivamente però ogni uomo ha privatizzato una parte della terra comune ed è dunque nata la proprietà privata. Per Locke però questo cambiamento è stato del tutto legittimo sia perché l’abbondanza di terre disponibili non penalizzava nessun uomo sia perché ogni uomo poteva appropriarsi di una porzione di terra necessariamente limitata, in quanto corrispondente a quella che ognuno poteva lavorare e dalla quale poteva ricavare quanto necessario alla sua vita senza alcuna eccedenza. In altri termini, secondo Locke la privatizzazione originaria della terra non ha negato il diritto naturale perché, da un lato, era praticamente uguale per tutti, non inficiava cioè l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, dall’altro era fondata sul lavoro, ovvero sul fatto che ogni individuo aveva aggiunto qualcosa di suo alla terra (dissodare, arare, seminare, raccogliere, ecc.). Tuttavia, in una fase successiva, continua Locke, gli uomini inventarono la moneta che permise loro di accumulare ricchezza, ovvero di possedere un’eccedenza di beni materiali rispetto a quanto necessario alla loro vita. Infatti, la moneta non deperisce, mentre le materie prime, se accumulate, deperiscono e quindi vanno perdute. L’invenzione della moneta, unita alle differenze naturali tra gli uomini, provocò così l’emergere della disuguaglianza economico-sociale: lavorando di più e meglio, alcuni uomini estesero la loro proprietà terriera; lavorando di meno e peggio, altri la persero a favore dei primi. In questo modo si formarono una classe di latifondisti e una classe di nullatenenti. Questi ultimi, per sopravvivere, dovettero necessariamente vendere la propria capacità lavorativa ai latifondisti. Locke giustifica anche questa ulteriore evoluzione delle relazioni economiche dello stato di natura, innanzitutto perché la giudica una conseguenza di libere scelte individuali connesse a differenze naturali tra gli individui; in secondo luogo, perché apprezza e anzi esalta il progresso economico che la diseguaglianza ha reso possibile. Per Locke, infatti, l’economia basata sulla divisione tra proprietari e nullatenenti si è dimostrata assai più produttiva di quella originaria, ha innescato uno sviluppo tendenzialmente illimitato e quindi in ultima analisi è risultata vantaggiosa anche per i nullatenenti. E’ chiaro, però, che nella nuova situazione economico-sociale le probabilità di conflitti di interessi crescono, in particolare si stabilisce un conflitto d’interessi strutturale tra i proprietari e i nullatenenti. Inoltre, sostiene Locke, i nullatenenti, a causa dalla loro condizione di inferiorità, possono essere maggiormente spinti dalla passione a infrangere la legge naturale per impossessarsi dei beni dei proprietari. In realtà, per Locke, nei casi in cui i conflitti di interesse degenerino in ingiustizie, cioè in infrazioni dei diritti naturali di alcuni da parte di altri, gli uomini nello stato di natura dispongono di un rimedio. Infatti, ogni uomo, quando qualcun altro lede i suoi diritti naturali, può esercitare un diritto naturale supplementare, quello a farsi giustizia da sé. In altre parole, Locke teorizza che anche nello stato di natura si possono punire, e quindi arginare, le azioni criminali. Tuttavia, egli afferma anche che proprio l’esercizio del diritto a farsi giustizia da sé è un’ulteriore fonte di violenza. Infatti, chi è coinvolto in un giudizio non può essere un giudice giusto in quanto la passione a perseguire il proprio interesse offusca la riflessione razionale. Inoltre, prosegue Locke, poiché un giudizio ingiusto dà luogo a una punizione sproporzionata, questa si trasforma a sua volta in un’ingiustizia nei confronti del punito che dunque è legittimato a farsi giustizia da sé contro il suo punitore, dando il via a una spirale crescente di violenze reciproche sempre maggiori, ovvero a una guerra sempre più cruenta e vasta. Insomma, alla fine il diritto a farsi giustizia da sé si 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – rivela per Locke un rimedio peggiore del male. Tutto ciò spiega perché per Locke nello stato di natura esiste un’alta probabilità di guerra e dunque gli individui non hanno la garanzia di poter godere dei loro diritti fondamentali. Ne deriva l’esigenza di fuoriuscire dallo stato di natura fondando uno Stato civile. Anche per Locke lo Stato civile può nascere solo da un patto tra tutti gli uomini, ovvero da un contratto collettivo. Il problema, a questo punto, consiste nell’individuare le clausole di questo contratto. Per farlo, secondo Locke, bisogna chiarire innanzitutto gli obiettivi, ovvero i compiti che gli uomini voglio attribuire allo Stato. Tali compiti, per quanto detto, non possono che consistere nel garantire lo stabile rispetto dei quattro diritti naturali fondamentali di ogni individuo: vita, sicurezza, libertà, proprietà. Di conseguenza, lo Stato non può che essere uno “Stato di diritto”, proprio in quanto la sua funzione consiste nell’assicurare il godimento permanente da parte dei suoi membri dei loro diritti naturali. Ne segue necessariamente che il contratto statale non può prevedere la rinuncia ai quattro diritti fondamentali. Ma allora quale limitazione comporta? Essenzialmente, sostiene Locke, la rinuncia al diritto a farsi giustizia da soli. In questo modo, infatti, l’esercizio della giustizia viene affidato a funzionari terzi, cioè super partes, i quali, non essendo coinvolti nei conflitti di interessi che devono giudicare, sono in grado di essere razionalmente equanimi, e di infliggere pene giuste, cioè proporzionate ai reati, evitando così la degenerazione dei conflitti in guerre. Se dunque lo Stato, per Locke, consiste fondamentalmente nell’istituzione di una magistratura giudiziaria è chiaro che questa per svolgere la sua funzione abbisogna anche di un corpo di polizia, di leggi codificate – e quindi di un potere legislativo –, nonché di un esercito e di una diplomazia, per la difesa da attacchi esterni, e quindi di un potere di governo o esecutivo. In sintesi, di uno Stato. In questo modo la legge naturale diventa legge statale, dunque non è più liberamente seguita ma imposta con la forza di un apparato giudiziario-militare e, inoltre, la maggior parte degli uomini deve obbedire a pochi altri, le autorità statali. Ma così non viene leso il diritto alla libertà individuale? Locke replica che lo Stato comporta anche una parziale limitazione del diritto naturale alla libertà che però si giustifica innanzitutto perché è minima. Infatti, essa può riguardare solo i comportamenti individuali che hanno ripercussioni negative sulla collettività, ovvero non può riguardare le scelte private dell’individuo (privacy). In particolare, le leggi statali non possono limitare la libertà di culto religioso. In questo senso Locke si pronuncia a favore della tolleranza religiosa e della separazione Chiese/Stato, ovvero a favore della laicità dello Stato, anche se non ammette tolleranza né per i cattolici, a causa della loro intolleranza, né per gli atei, a causa della loro immoralità. Inoltre, secondo Locke, la limitazione della libertà individuale è minima perché il potere legislativo deve essere affidato a un Parlamento rappresentativo della popolazione (ma eletto solo dai possidenti, unici titolari del diritto di voto) e dunque le leggi statali sono scelte dai cittadini (proprietari). Infine, la limitazione statale della libertà individuale è funzionale al godimento di un più alto grado effettivo di libertà in quanto grazie ad essa, e più in generale alle istituzioni statali, non ci sono guerre interne e quindi un numero inferiore di individui lede la libertà degli altri. 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Ma se elimina il rischio di guerre, lo Stato non può comportare un altro rischio, quello cioè che un’autorità politica si avvalga del potere conferitogli per imporre un regime dispotico a proprio individuale vantaggio? Locke risponde affermativamente, ma proprio per questo, secondo lui lo Stato deve in primo luogo essere “minimo”, cioè disporre giusto della quantità di funzioni e di relativo potere indispensabile a svolgere il suo compito di garante dei diritti naturali dei cittadini; in secondo luogo deve basarsi sulla divisione dei poteri in modo tale che un organo statale faccia da limite dell’altro, evitando gli abusi di potere. Tuttavia, Locke si limita a teorizzare una bipartizione dei poteri tra due organi istituzionali superiori: il Parlamento, detentore del potere legislativo e di quello giudiziario; il Governo, guidato dal re, detentore del potere esecutivo, cioè di mettere in pratica le leggi e le sentenze giudiziarie, ma anche di quello “federativo”, consistente nella conduzione della politica internazionale e delle guerre esterne. Locke afferma che il Governo è legittimato dal Parlamento e dunque può essere da questo revocato. D’altra parte attribuisce al re il potere di “prerogativa”, ovvero un potere decisionale autonomo in casi di emergenza o di urgenza nonché quello discrezionale di mitigare le condanne. Tuttavia, né la minimizzazione dello Stato né la divisione dei poteri bastano secondo Locke a evitare la possibilità di abusi di potere, ovvero di una tirannia. Pertanto, Locke proclama anche il “diritto alla resistenza”: in caso di abuso di potere grave e continuato da parte di un’autorità individuale o collegiale, il popolo ha diritto alla rivoluzione, anche se questo diritto deve essere esercitato solo dopo aver tentato inutilmente tutte le vie legali per porre fine all’abuso di potere in modo pacifico, ovvero solo come extrema ratio. 1 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO GOTTFRIED WILHELM VON LEIBNIZ Nacque a Lipsia, città della Sassonia (Germania centro-orientale), nel 1646, da una famiglia di origine slava e di religione luterana. Il padre, professore universitario di filosofia, morì quando Leibniz aveva solo 6 anni, ma ciò non limitò le sue possibilità di istruirsi sia avvalendosi di precettori sia da autodidatta, utilizzando la grande biblioteca paterna grazie all’acquisizione della capacità di leggere il latino a 8 anni e il greco a 12. A 14 anni cominciò a frequentare l’università di Lipsia e tre anni dopo conseguì il baccellierato in Filosofia, quindi studiò matematica all’università di Jena, poi ancora a Lipsia diritto, e infine si laureò in Legge all’università di Altdorf (Baviera). Nel 1666, benché avesse ricevuto l’offerta di un incarico universitario, Leibniz preferì intraprendere la carriera diplomatica, mettendosi al servizio dei principi tedeschi dell’epoca: prima dell’arcivescovo-elettore di Magonza, poi, dal 1676, dei duchi di Hannover, l’ultimo dei quali, anche grazie all’azione diplomatica di Leibniz, divenne nel 1714 re d’Inghilterra con il nome di Giorgio I. Alla base di questa scelta professionale di Leibniz v’era il suo proposito, vissuto come una missione, di conciliare cattolici e protestanti e di tessere un’alleanza politico-militare tra tutti i sovrani cristiani. Questo progetto politico leibniziano va visto sullo sfondo delle dinamiche storiche europee dell’epoca, in particolare di due espansionismi antitedeschi, quello francese di Luigi XIV, che provocò quattro guerre consecutive (di devoluzione, d’Olanda, della Lega di Augusta, di successione spagnola), e quello degli ottomani i quali nel 1683 giunsero, per la seconda volta, a porre Vienna sotto assedio. Pur fallendo nella realizzazione della sua missione storico-politica, grazie alla sua attività diplomatica Leibniz ebbe l’occasione di viaggiare, soggiornando a Parigi, a Londra e in Olanda, ed entrando così in rapporti diretti con alcuni dei maggiori filosofi e scienziati dell’epoca, tra cui Malebranche, Arnauld, Huygens, Boyle, Oldenburg (segretario della Royal Society), Spinoza. In questo modo acquisì stima e notorietà e fu nominato membro dell’Académie des Sciences e della Royal Society, cui aveva presentato il suo progetto di una calcolatrice meccanica capace di compiere le quattro operazioni aritmetiche di base (la prima calcolatrice meccanica era stata inventata nel 1623 ma era in grado solo di addizionare e sottrarre). A sua volta, fu tra i principali fondatori dell’Accademia delle scienze di Berlino, nel Granducato di Brandeburgo, di cui fu il primo presidente. Oltre a una missione storico-politica, però, Leibniz dedicò la sua vita a una missione filosofico-scientifica, altrettanto, se non ancor più, grandiosa: la composizione di una nuova visione enciclopedica della realtà che includesse e collegasse logicamente tutte le conoscenze e le produzioni ideali dell’umanità. Di conseguenza, la produzione teorica di Leibniz, già intersecata con il suo lavoro di diplomatico, fu molto vasta e anche molto diversificata e frammentaria, in quanto non solo spaziò dalla matematica all’economia, ma si servì di varie forme comunicative: il trattato ma soprattutto l’opuscolo (saggio breve), l’articolo su riviste e la lettera (il carteggio leibniziano è enorme ed ebbe come corrispondenti Hobbes, Spinoza, Malebranche, Newton, Samuel Clarke, Arnauld). In altre parole, Leibniz non scrisse mai un’opera sintetica e complessiva, fallendo così anche nella sua missione filosofico-scientifica. Ma, almeno in questo caso, il fallimento di Leibniz fu più ricco e glorioso della maggior parte dei successi, in quanto ci ha lasciato in eredità una marea di scritti la cui pubblicazione, cominciata nel 1923 a cura dell’Accademia delle scienze prussiana, non si è ancora conclusa e che si prevede occupi, una volta terminata, non meno di 40 volumi. A parte la sua tesi di laurea (Dissertazione sull’arte combinatoria, 1666), la prima pubblicazione rilevante di Leibniz non riguardò la filosofia ma la matematica. Infatti, nel 1684 Leibniz pubblicò sulla rivista Acta eruditorum, da lui fondata, la sua teoria del calcolo 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – infinitesimale. Tre anni dopo, nei suoi Principia Mathematica, Newton esponeva la propria teoria del calcolo infinitesimale, rivendicando la priorità della scoperta. Poiché già nel 1676 vi era stato tra Leibniz e Newton uno scambio epistolare in cui Newton aveva delineato la sua teoria, la Royal Society attribuì a lui la priorità della scoperta. Indagini successive hanno appurato che Leibniz e Newton giunsero alla scoperta del calcolo infinitesimale in modo del tutto autonomo l’uno dall’altro, tant’è vero che lo formalizzarono con due notazioni e due procedimenti diversi. Oltretutto l’attuale procedimento deriva da quello di Leibniz, giudicato più semplice. Anche le successive pubblicazioni di Leibniz furono di carattere matematico: Nova methodus pro maximis et minimis (1684) e De geometria recondita (1686). Solo più tardi Leibniz pubblicò le sue opere filosofiche: Discorso di metafisica (1686), Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo (1695), Saggi di teodicea (1710), Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714), Principi della filosofia o monadologia (1714). Tra il 1701 e il 1704, Leibniz, però, aveva scritto anche il libro Nuovi saggi sull’intelletto umano, critica del Saggio sull’intelletto umano di Locke (1690), che però fu pubblicato postumo nel 1765. Leibniz, infatti, morì ad Hannover nel 1716, afflitto dalla gotta ma soprattutto amareggiato dall’accusa di aver plagiato Newton, accusa contro la quale, nella sua epoca, non aveva trovato sostenitori. Forse la citazione che meglio esprime, e spiega, la mentalità e lo stile di vita di Leibniz è la seguente: “La nostra felicità non consisterà mai e non deve affatto consistere in una gioia piena, in cui non ci sarebbe più nulla da desiderare – e che renderebbe ottuso il nostro spirito – ma in una progressione continua di nuovi piaceri e di nuove perfezioni”. (Principi razionali della natura e della grazia, 1714). 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LEIBNIZ – TAPPA 1 DIO HA CREATO IL MIGLIORE DEGLI INFINITI MONDI POSSIBILI Fin qui abbiamo parlato come semplici fisici; ora dobbiamo elevarci alla metafisica, servendoci del grande principio, comunemente poco usato, che nulla accade senza ragion sufficiente, cioè, che nulla accade senza che sia possibile, a chi conosce in profondità le cose, indicare una ragione che sia sufficiente a determinare perché la cosa è accaduta così e non altrimenti. Posto questo principio, la prima questione che si ha diritto di porre sarà: Perché esiste qualcosa anziché niente? Giacché il nulla è più semplice e più facile di qualcosa. Inoltre, supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna che sia possibile dare la ragione perché debbano esistere così e non altrimenti. Ora, questa ragione sufficiente dell’esistere dell’universo non potrebbe trovarsi nella serie delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime; e ciò perché essendo la materia in se stessa indifferente al moto ed alla quiete o a questo o quest’altro movimento, è impossibile trovarvi la ragione del movimento, tanto meno di un determinato movimento. E benché il movimento attuale, che si trova nella materia, derivi dal precedente, e questo a sua volta da un altro precedente, quand’anche si andasse lontano quanto si voglia, non si avanzerebbe di molto, e la questione rimarrebbe la stessa. Perciò è necessario che la ragione sufficiente, che non ha bisogno di un’altra ragione, sia fuori dalla serie delle realtà contingenti e si trovi in una sostanza, che ne sia la causa, che sia un Essere necessario che porti la ragione della sua esistenza con sé. In caso contrario, non si avrebbe una ragione sufficiente, alla quale sia possibile arrestarsi. Questa ragione ultima delle cose è chiamata Dio. Questa sostanza semplice ed originaria deve racchiudere in modo eminente le perfezioni contenute nelle sostanze derivate, che ne costituiscono gli effetti; così avrà potenza, conoscenza e volontà perfettissime, cioè onnipotenza, onniscienza e bontà sovrana. E come la giustizia, intesa in senso generalissimo, non è che la bontà conforme alla saggezza, così è necessario che anche in Dio vi sia una giustizia sovrana. E la ragione, che ha fatto esistere le cose per suo mezzo, le fa dipendere ancora da Lui nell’esistere e nell’operare: da Lui ricevono in modo continuo ciò che costituisce la loro perfezione, mentre quanto d’imperfezione resta in loro deriva dalla limitazione essenziale ed originaria d’ogni creatura. Dalla perfezione suprema di Dio deriva che, creando l’universo, ha scelto il miglior piano possibile, nel quale la più grande varietà (possibile) è congiunta col massimo ordine (possibile); il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati; la maggior quantità d’effetti è prodotta con le vie più semplici; nelle creature si trovano la maggior potenza, la maggiore conoscenza, la maggior felicità e bontà che l’universo potesse ammettere. E ciò perché, nell’intelletto divino, in proporzione alle loro perfezioni, tutti i possibili pretendono all’esistenza; il risultato di tutte queste pretese dev’essere il mondo attuale, il più perfetto possibile. Senza di ciò, non sarebbe possibile rendere ragione del perché le cose siano accadute così e non altrimenti. La saggezza suprema di Dio, in particolare gli ha fatto scegliere le leggi del movimento più adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche. Grazie ad esse, si conserva la stessa quantità di forza totale ed assoluta, o dell’azione; la stessa quantità della forza rispettiva o della reazione, ed infine 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – la stessa quantità di forza direttiva. Inoltre l’azione è sempre uguale alla reazione, e l’effetto intero è sempre equivalente alla sua causa totale. Ed è sorprendente che, considerando soltanto le cause efficienti o della materia, non si può rendere ragione di queste leggi del movimento, scoperte nel nostro tempo e delle quali una parte è stata scoperta da me stesso. Infatti io ho trovato che è necessario ricorrere alle cause finali, perché queste leggi non dipendono dal principio della necessità, come le verità logiche, aritmetiche e geometriche; ma dal principio della convenienza, cioè della scelta della Saggezza. Questa è una delle prove più efficaci e tangibili dell’esistenza di Dio, per coloro che possono approfondire queste cose. Dalla perfezione dell’autore supremo consegue ancora che non solo l’ordine dell’universo intero è il più perfetto possibile, ma anche che ciascuno specchio vivente che si rappresenta l’universo dal suo punto di vista, cioè ciascuna Monade o centro sostanziale, deve avere le proprie percezioni e le proprie appetizioni regolate nel miglior modo compatibile con tutto il resto. […] Tutto è, infatti, regolato nelle cose, ed una volta per tutte, con tutto l’ordine o la corrispondenza possibili: la suprema saggezza e bontà non possono agire che secondo un’armonia perfetta: il presente è gravido dell’avvenire, il futuro potrebbe essere letto nel passato, ciò che è lontano è espresso in ciò che è vicino. Sarebbe possibile conoscere la bellezza dell’universo in ciascuna anima, se fosse possibile dispiegare tutte le pieghe che si sviluppano in modo sensibile solo col tempo. Ma, siccome ogni percezione distinta dell’anima comprende un’infinità di percezioni confuse che racchiudono tutto l’universo, l’anima stessa non conosce le cose di cui ha percezioni, se non in quanto ne abbia percezioni distinte ed in rilievo, e la sua perfezione è in proporzione alle sue percezioni distinte. Ciascuna anima conosce l’infinito, conosce tutto, ma confusamente, come quando uno passeggia in riva al mare ed ode il grande rumore che esso produce, ode i rumori particolari di ciascuna onda della quale il fremito totale è composto, ma non li distingue nettamente. Così le percezioni confuse sono il risultato delle impressioni dell’intero universo su di noi: lo stesso accade in ogni monade: Dio soltanto ha la conoscenza distinta di tutto, perché ne è la sorgente. E’ stato molto ben detto che Egli come centro è ovunque, mentre la sua circonferenza è in nessun luogo, perché tutto gli è immediatamente presente, senza alcuna lontananza da quel centro. G.W. Leibniz, Principi della natura e della grazia, §§ 7-12 La filosofia di Leibniz ha la sua alfa e la sua omèga in Dio. In altre parole, per lui, tutto comincia da Dio e finisce con Dio e dunque, in ultima analisi, tutto è in Dio benché Dio, in quanto infinito, sia sempre più di tutto e dunque sia in sé trascendente. Per argomentare l’esistenza di Dio, e fondare così la sua visione filosofica, Leibniz rielabora in modo personale e logicamente più rigoroso le tradizionali “prove” a priori e a posteriori. La sua riformulazione più originale ed efficace è quella dell’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta. Secondo la versione di Leibniz, tutti gli uomini hanno il concetto di Dio inteso come l’essere che possiede infinite perfezioni infinite, cioè una quantità infinita di perfezioni ognuna di grado qualitativo infinito. Posto che l’esistere è una perfezione ne segue che Dio deve necessariamente esistere e al massimo grado, cioè eternamente. A questa riformulazione dell’argomento ontologico, Leibniz fa poi un’aggiunta, a suo parere necessaria per renderlo effettivamente cogente sul piano logico. Infatti, scrive Leibniz, 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – considerando la definizione del concetto di Dio – l’essere che possiede infinite perfezioni infinite – a rigore non possiamo escludere che almeno due delle sue perfezioni possano essere inconciliabili, il che renderebbe quel concetto di Dio autocontraddittorio e dunque logicamente falso. Pertanto, continua Leibniz, alla definizione del concetto di Dio bisogna aggiungere la definizione rigorosa di “perfezione” come una proprietà semplice e dunque completamente positiva. In questo modo, è logicamente escluso che due perfezioni possano negarsi a vicenda e l’argomento ontologico risulta assolutamente valido e vero. Dimostrata così l’esistenza di un Dio infinito, cioè dotato di un numero infinito di qualità/capacità di livello qualitativo infinito (onnipotenza, onniscienza, volontà di bene, ecc.), Leibniz si pone e risolve l’antico problema filosofico del perché esista qualcosa anziché il nulla. Data la contingenza della sua esistenza, l’universo esiste perché è stato creato da Dio, in quanto unico essere necessario, ossia unico essere che non ha bisogno di ricevere l’esistenza da qualcos’altro. Ma se in questo Leibniz nulla aggiunge alla filosofia a lui precedente, è invece decisamente innovativo per la sua teoria della creazione, cioè nel concepire il modo in cui Dio ha creato l’universo. Secondo Leibniz, infatti, Dio, in quanto super-mente, pensa, ovvero progetta, un numero infinito di universi (finiti e infiniti) possibili e li compara tra loro, stilandone, per così dire, una classifica in ordine di perfezione decrescente. Precisiamo: per Leibniz nessun universo può essere Dio, dunque nessun universo può essere assolutamente perfetto. La perfezione di tutti gli infiniti universi pensati/progettati da Dio è dunque sempre relativa, ovvero è sempre una “minore imperfezione” di uno relativamente all’altro rispetto alla perfezione assoluta di Dio. Ciò chiarito, secondo Leibniz, ogni universo è più o meno imperfetto, ossia più o meno parzialmente perfetto, rispetto a tutti gli altri e quindi c’è un universo che è il meno imperfetto di tutti gli altri, ossia il più approssimato alla perfezione divina. Qual è questo universo e quali sono i criteri della perfezione relativa usati da Dio per stilare la sua classifica degli universi da lui pensati? Quello che Leibniz chiama “il migliore di mondi possibili” è il nostro universo ed è tale per lui perché è quello che abbina la massima quantità, e quindi varietà, di esseri con la massima qualità complessiva, ossia il massimo bene totale. Ciò chiarito, Leibniz si impegna a delineare una “radiografia” del migliore dei mondi possibili, ovvero a svolgerne una descrizione complessiva. In questo senso, egli prende le mosse da tre capisaldi scientifici, che sono al tempo stesso i suoi tre più considerevoli contributi teorici alla scienza moderna: la teoria del calcolo infinitesimale; la teoria del carattere relazionale dello spazio e del tempo; la teoria della forza (nei termini della fisica contemporanea: energia cinetica). In base alla sua teoria del calcolo infinitesimale, Leibniz è convinto che la natura, in quanto perenne mutamento, si trasformi continuamente per accumulo progressivo nel tempo di incrementi o decrementi infinitesimali. In altre parole, per Leibniz tutti i fenomeni naturali sono caratterizzati da gradualità e continuità e cominciano in modo microscopico, e quindi spesso inosservabile, per arrivare a manifestarsi macroscopicamente solo in un secondo tempo. 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Per quanto riguarda lo spazio e il tempo, Leibniz nega che essi siano due realtà oggettive autonome. Egli infatti afferma che: lo spazio è “l’ordine delle coesistenze possibili”, cioè l’organizzazione (la dislocazione) che rende possibile che una molteplicità di cose esista nello stesso istante; il tempo è “l’ordine dei possibili non coesistenti”, cioè l’organizzazione (la successione prima-poi) che rende possibili che una stessa cosa esista in due o più luoghi diversi, p.e. che Cesare sia in Gallia e che Cesare sia a Roma. In altre parole, spazio e tempo per Leibniz non esistono, non sono enti reali, ma sono due modi razionali di organizzazione dell’esperienza consistenti in due diversi tipi di relazione tra le cose e tra gli eventi: lo spazio è un insieme di relazioni di vicinanza/lontananza, il tempo un insieme di relazioni di successione secondo il prima e il poi. Infine, a proposito del moto, posto che esso è una proprietà universale della natura, Leibniz argomenta in base a esperimenti fisici che esso non equivale al prodotto della massa per la velocità (mv), ossia alla quantità di moto, come teorizzato da Descartes, ma alla “forza”, cioè a una capacità di produrre movimento, data dal prodotto della massa per il quadrato della velocità (mv2). In altre parole, secondo Leibniz, i corpi non si limitano a ricevere passivamente il moto dall’esterno, ma lo generano attivamente al loro interno. Una riprova ne è, per Leibniz, l’inerzia: il fatto che un corpo in quiete resista alla forza che lo mette in movimento attesta che possiede un’energia propria. Queste scoperte scientifiche spingono Leibniz a mettere in dubbio la visione materialisticomeccanicistica dell’universo propria dei precedenti filosofi scientifici. Leibniz, tuttavia, non rigetta il meccanicismo. Egli afferma che a livello fenomenico, ossia dell’apparenza immediata, la realtà si presenta effettivamente come un ordine meccanico basato su rapporti di causa-effetto. Ma tale ordine, per così dire superficiale, nasconde – ed è generato da – un ordine più profondo di tipo energetico e finalistico. In altri termini, l’universo che sembra costituito da aggregazioni di corpuscoli materiali dotati di moto e che sembra funzionare come una grande macchina di cui ogni cosa è un ingranaggio, a un livello più profondo è formato da “atomi” di energia che tendono ad accrescersi, cioè a perfezionarsi. 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LEIBNIZ – TAPPA 2 L’UNIVERSO E’ PENSIERO COSTITUITO DA INFINITE MENTI PENSANTI La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè senza parti. E dobbono esserci sostanze semplici, perché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici. Ora, laddove non ci sono parti, non c’è estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. Non è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi. Per la stessa ragione non c’è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione. Così si può affemare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto comincia o finisce per parti. Di conseguenza, non c’è mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c’è mutamento tra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. Gli accidenti non possono staccarsi dalle sostanze, né passeggiare fuori di esse, come in altri tempi facevano le specie sensibili degli Scolastici. Così, né le sostanze, né gli accidenti possono entrare da di fuori di una monade. Nondimeno è necessario che le monadi abbiano alcune qualità, altrimenti non sarebbero neppure esseri. E se le sostanze semplici non differissero per le loro qualità, non vi sarebbe mezzo per scorgere alcun mutamento nei corpi, perché ciò che è nel composto non può derivare che dagli elementi semplici, e le monadi, supposte senza qualità, sarebbero indistinguibili l’una dall’altra, visto che non differirebbero neppure per la quantità… […] Ritengo come ammesso che ogni essere creato, e perciò anche la monade creata, è soggetto a mutamento, e che questo mutamento è continuo in ciascuna. Da quanto abbiamo detto consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da un principio interno, perché una causa esterna non potrebbe influire nel suo interno. Occorre però che oltre il principio del mutamento, si trovi in essa un dettaglio di ciò che muta, che costituisca, per così dire, la specificazione e la varietà delle sostanze semplici. Questo dettaglio deve implicare una molteplicità nell’unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni mutamento naturale avviene per gradi, qualcosa muta o qualcosa permane; di conseguenza bisogna che nella sostanza semplice vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché non vi siano parti. Lo stato passeggero, che implica e rappresenta una molteplicità nell’unità o sostanza semplice, non è altro che ciò che è chiamato percezione, e che deve essere distinta dall’appercezione o coscienza, come si vedrà in seguito. […] 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – L’azione del principio interno che opera il mutamento o passaggio da una percezione all’altra può essere chiamata appetizione: questa, è vero, non può raggiungere interamente la percezione cui tende, pur ne raggiunge sempre una parte e giunge a percezioni nuove. […] Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte le sostanze semplici o monadi create, perché esse hanno una certa perfezione […], una certa autosufficienza (autàrkeia), che le rende come sorgenti delle loro azioni interne e, per così dire, automi incorporei. […] La creatura si dice che agisce verso l’esterno, in quanto ha perfezione, e che patisce, da parte di un’altra, in quanto imperfetta. Così alla monade si attribuisce azione, in quanto ha percezioni distinte, e passione, in quanto le ha confuse. E una creatura è più perfetta di un’altra, in quanto in essa si trova ciò che a priori è in grado di rendere ragione di ciò che accade nell’altra; ed è per ciò che si dice che l’una agisce sull’altra. Ma nelle sostanze semplici non si ha che un’influenza ideale di una monade sull’altra, che non può avere il suo effetto se non per l’intervento di Dio, in quanto nelle idee di Dio una monade giustamente domanda che Dio, regolando sin dal principio le altre, abbia riguardo ad essa. E ciò perché, non potendo avere una monade creata un’influenza fisica all’interno dell’altra, è soltanto per questo mezzo che l’una può subire una dipendenza da un’altra. Ed è a questo modo che, tra le creature, le azioni e le passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due sostanze semplici tra loro, trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad adattarvi l’altra; e di conseguenza ciò che è attivo sotto certi aspetti, è passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che in essa è conosciuto distintamente serve a rendere ragione di ciò che accade in un’altra; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade in essa si trova in ciò che si conosce distintamente nell’altra. […] Ora questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia rapporti che esprimono tutte le altre e che essa sia di conseguenza un vivente e perpetuo specchio dell’universo. E come una medesima città, guardata da punti differenti, sembra tutt’altra e come moltiplicata secondo le prospettive, così accade, analogamente, che, per la molteplicità infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi che però non sono che le prospettive d’un unico universo, secondo i diversi punti di vista di ciascuna monade. E’ questo il modo di ottenere la massima varietà possibile, congiunta col maggior ordine possibile, cioè il mezzo per ottenere la massima perfezione possibile. G.W. Leibniz, Monadologia, §§ 1-19, 49-52, 56-58 Come si è visto, per Leibniz la meccanicità (res extensa) della realtà è solamente una sua configurazione apparente. Ciò non significa che sia sviante e quindi ingannevole rispetto alla realtà vera, ma soltanto che ne è una manifestazione parziale e secondaria. In altre parole, che l’universo sia costituito da aggregati di corpuscoli materiali dotati di moto e che si scambino continuamente tale moto urtandosi l’un l’altro, in base a relazioni di causa ed effetto, secondo Leibniz è solo un fenomeno di superficie prodotto da uno strato più profondo e nascosto della realtà. In cosa consiste, allora, questa realtà primaria e fondamentale? 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – In generale, risponde Leibniz, la realtà effettiva è pensiero, attività pensante (res cogitans), un flusso mentale perenne e infinitamente produttivo, cioè sempre nuovo e sempre più ricco. Più specificatamente, questo flusso di pensiero è costituito da infinite sostanze pensanti (res cogitantes) individuali, cioè da infinite menti, che Leibniz chiama “monadi” per evidenziare che ognuna di esse è: “semplice”, cioè un’unità omogenea senza parti né differenziazioni; unica e irripetibile, ovvero diversa da tutte le altre; autosufficiente, cioè dotata di un’esistenza propria e indipendente (rispetto alle altre monadi, non certo rispetto a Dio almeno in quanto suo creatore). Le monadi, in questo senso, non si generano né si distruggono in quanto sono state portate all’esistenza dalla “fulgurazione” divina e potrebbero tornare nulla solo se Dio decidesse di annichilirle. Secondo Leibniz, le monadi sono “atomi spirituali”, cioè sono la realtà effettiva, di tipo mentale, che è a fondamento dei corpuscoli materiali dotati di moto. In altri termini, i corpi fisici, apparentemente aggregati di particelle mobili, sono composti in realtà da “punti di energia” o “centri di forza” la cui potenza dinamica, che si manifesta nei moti corporei, è la loro attività pensante, la loro continua produzione di pensiero. Per usare un esempio analogico, i corpi in prima approssimazione sembrano comportarsi come palle di biliardo dopo la spaccata iniziale; in realtà essi sono come delle automobiline caricate a molla con una carica inesauribile, salvo che la molla non è fisica, ma mentale, cioè è carica di attività pensante. Ma allora cosa pensano le monadi, ovvero qual è il contenuto del loro perenne pensare? La risposta di Leibniz è che ogni monade si rappresenta tutte le altre, ossia si rappresenta l’intero universo, dal momento che tutti i corpi fisici che costituiscono l’universo sono composti di monadi. Per comprendere questa concezione, si può usare l’immagine analogica dell’universo come un insieme infinito di specchi ognuno dei quali riflette tutti gli altri. Ogni monade, scrive Leibniz, è “un perpetuo specchio vivente dell’universo”. Ma allora tutte le monadi pensano la stessa cosa? Sì e no, sostiene Leibniz: sì in parte, in quanto tutte le monadi si rappresentano (rispecchiano) lo stesso universo; no in parte, perché ogni monade si rappresenta (rispecchia) – Leibniz usa preferibilmente il termine “percepisce” – l’universo dal suo peculiare e irripetibile punto di vista e dunque se ne fa un’immagine parzialmente differente da quelle di tutte le altre. Ciò implica che la visione prospettica dell’universo di ogni monade sia limitata e quindi che ogni monade, in quanto attività pensante, sia finita, cioè disponga di una percezione, o rappresentazione, parziale dell’universo. In questo senso, sviluppando l’analogia del gioco di specchi, possiamo aggiungere che la riflessione di ogni specchio tende a diventare, quanto più si guarda in profondità, sempre più oscura e confusa. L’immagine completa, e quindi perfetta, dell’universo può essere data, secondo Leibniz, solo dalla somma di tutte le infinite prospettive visive di tutte le infinite monadi, cioè da una sorta di superspecchio capace di riflettere in sé nitidamente tutti i rispecchiamenti di tutti gli altri infiniti specchi. Ma questa immagine è riservata a Dio, la monade delle monadi, lo specchio di tutti gli specchi, in quanto unica monade infinita. In altri termini, Dio, in quanto creatore di tutte le monadi, sintetizza in sé tutte le loro visioni prospettiche. In questo senso il Dio di Leibniz può essere esemplificato per analogia anche attraverso 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – l’immagine di una metamente infinita di cui le infinite monadi costituiscono gli infiniti neuroni. Ciò potrebbe portare a giudicare panteistica la filosofia di Leibniz. Ma non è così perché non dobbiamo dimenticare che Dio, secondo Leibniz, pensa anche infiniti altri universi che nessuna monade può percepire. Ma se le monadi sono menti che pensano ad altre menti, allora come mai l’universo appare materiale e meccanico? Ovvero come fa Leibniz a dedurre la “faccia” meccanica della realtà dal suo fondamento mentale, cioè argomentare che l’una derivi dall’altro? La deduzione di Leibniz si impernia sulla finitezza delle monadi, ossia delle attività pensanti o percezioni. La percezione che ogni monade ha di tutte le altre, ossia dell’universo, in quanto è limitata, in parte è chiara e distinta – e quindi pienamente attiva – in parte tende a diventare sempre più oscura e confusa – e quindi sempre più passiva. L’apparenza della materialità deriva dunque dal lato oscuro-passivo del pensiero delle monadi. In altre parole, ciò che le monadi si rappresentano in modo confuso e oscuro è da esse subìto e assume l’apparenza della materia, cioè appunto di qualcosa di opaco, impenetrabile e inerte, ossia che oppone resistenza all’attività pensante. Ma se le monadi “non hanno finestre”, cioè se sono autosufficienti, come fanno a percepire le altre monadi, ossia l’universo? Leibniz chiarisce che la percezione monadica è sempre e solo interna, in quanto le monadi non interagiscono causalmente tra loro. Ogni monade, tuttavia, percepisce al suo interno, in base al proprio flusso di pensiero, tutte le altre, come in una sorta di film che si proietta perennemente nella mente. Naturalmente questo “film” percettivo è prodotto da Dio che fa in modo che tutti i film di tutte le monadi siano sincronizzati e in accordo reciproco tra loro. Pertanto quello che ogni monade percepisce “al suo interno” corrisponde a quanto succede “al suo esterno”, ovvero a quello che percepiscono “al proprio interno”, dal loro diverso punto di vista, le altre monadi. Questa armonizzazione divina delle infinite percezioni delle infinite monadi, costitutiva dell’universo, è chiamata da Leibniz “armonia prestabilita”. Per esemplificarla, Leibniz stesso utilizza l’analogia degli orologi: due orologi possono essere sincronizzati tra loro o facendo in modo che uno agisca causalmente sull’altro oppure intervenendo continuamente ad aggiustarne il movimento delle lancette oppure ancora programmandoli in modo tale che autonomamente battano sempre la stessa ora. L’armonia prestabilita naturalmente corrisponde a quest’ultimo caso. In tal senso, benché Dio sia la causa prima delle percezioni delle monadi – per così dire il regista, lo sceneggiatore, lo scenografo, e perfino l’intero cast del film cosmico – egli, secondo Leibniz, rispetta l’autonomia delle monadi, avendo infuso loro un impulso interno alla percezione – per così dire, ogni monade è il proiezionista del proprio film cosmico. In altre parole, le monadi sono costituite da una “appetizione” a percepire, ovvero da una tensione a conoscere sempre più e sempre meglio, ed è questa tensione che le rende attive. L’impulso a conoscere delle monadi spiega anche, per Leibniz, l’ordine libero e finalistico dell’universo, di cui quello causal-meccanico è al contempo una manifestazione e uno strumento di attuazione. Infatti, grazie alla loro pulsione a conoscere, le monadi incrementano qualitativamente la loro percezione, e tale incremento corrisponde a un continuo autoperfezionamento dell’universo, cioè a un aumento del bene cosmico. Per comprendere appieno la concezione finalistica dell’universo monadico di Leibniz 1 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – occorre, però, tener presente che le monadi si differenziano per grado di percezione, ovvero per il livello qualitativo della loro attività conoscitiva. Esse, pertanto, compongono una infinita scala gerarchica che va dal minimo al massimo grado di percezione – ovvero dalla percezione relativamente più oscura e confusa (più limitata) a quella più chiara e distinta (meno limitata) – passando per tutti i gradi intermedi ognuno dei quali differisce dal precedente o dal successivo solo per un incremento o un decremento infinitesimale. Benché dunque non via sia alcuna soluzione di continuità nella serie infinita delle monadi, Leibniz ne stabilisce tre categorie generali: 1. le monadi inferiori, cioè quelle affette da maggior passività/oscurità, che costituiscono i corpi inorganici (minerali); 2. le monadi intermedie, cioè quelle affette da un livello medio di passività/oscurità, che costituiscono i corpi organici (vegetali e animali); 3. le monadi superiori, cioè quelle affette dal minimo grado di passività/oscurità, che costituiscono menti umane (spiriti). Su questa base, Leibniz sostiene che tutti i corpi fisici sono aggregati di monadi ma che il livello e la modalità di aggregazione varia a seconda che siano organici, inorganici e spirituali. Posto che l’aggregazione presuppone in ogni corpo la funzione ordinatrice di una monade dominante di livello superiore, nei corpi inorganici, mancando una monade dominante nettamente superiore, l’aggregazione è minima; nei corpi organici è maggiore perché vi è una monade dominante superiore – che Leibniz chiama “anima” – dotata di memoria, cioè della capacità di ricordare le percezioni avute; nei corpi umani è massima perché la monade dominante superiore è un’anima razionale, dotata cioè non solo di memoria ma anche e soprattutto di “riflessione”, cioè di autocoscienza. In questo senso, secondo Leibniz, ogni corpo umano è un aggregato gerarchicamente organizzato di monadi di primo e secondo livello tenuto insieme e ordinato da una monade superiore, cioè l’anima razionale, ovvero la mente autocosciente. Per denotare il livello qualitativamente superiore dell’attività percettiva delle monadi spirituali Leibniz chiama la loro percezione “appercezione”, ossia autopercezione, in quanto le monadi spirituali non solo percepiscono (come le monadi inorganiche), non solo si ricordano delle precedenti percezioni (come le monadi organiche) ma in più percepiscono di percepire. Grazie alla loro autocoscienza, afferma Leibniz, le monadi spirituali conoscono l’universo in modo simile a Dio e in tal modo giungono a conoscere Dio stesso. In altre parole, dato che il cosmo è una “fulgurazione” di Dio, la conoscenza umana del cosmo non solo è l’immagine più chiara e distinta del cosmo stesso ma è anche, proprio per questo, un’immagine di Dio stesso. Ciò significa che, secondo Leibniz, la scienza umana non scopre solo e tanto come funziona la natura, ma soprattutto rivela l’esistenza e l’essenza di Dio. La superiorità dell’uomo, in quanto spirito, rende la specie umana, sostiene Leibniz, il fine ultimo dell’universo. Infatti, tutte le monadi, come si è visto, hanno come meta cui tendono il maggior livello di conoscenza possibile. Ma, poiché sono le monadi spirituali degli esseri umani quelle che possono raggiungere il grado più alto di conoscenza, ne segue che tutte le monadi universali hanno come fine l’esistenza e l’attività conoscitiva delle monadi umane. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – LEIBNIZ – TAPPA 3 TUTTE LE IDEE SONO INNATE MA SI CHIARISCONO CON L’ESPERIENZA Si tratta di sapere se l’anima in se stessa è assolutamente vuota come una tavoletta sulla quale non è stato ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo Aristotele e l’autore del Saggio [Locke, ndr], e se tutto ciò che vi è impresso proviene unicamente dai sensi e dall’esperienza; o se l’anima contiene originariamente i princìpi di più nozioni e conoscenze, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto, in determinate occasioni, come credo con Platone e con la Scuola […] . Donde nasce un’altra questione, se cioè tutte le verità provengano dall’esperienza, cioè a dire dall’induzione e dalle prove, o ve ne siano che hanno un altro fondamento. Giacché, se certi avvenimenti possono essere previsti avanti d’averne fatta qualsiasi esperienza, è evidente che portiamo in ciò qualcosa da parte nostra. I sensi, benché necessari per tutte le nostre conoscenze presenti, non son sufficienti a darcele tutte, in quanto essi non ci offrono se non esempi, cioè verità particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi, che confermano una verità generale, in qualunque numero essi siano, non sono sufficienti a stabilire la necessità universale di questa medesima verità, giacché non consegue affatto che ciò che è accaduto debba accadere sempre nella medesima guisa. Per esempio, i greci, i romani e tutti gli altri popoli, osservarono sempre che nel corso di ventiquattro ore il giorno si muta in notte e la notte in giorno. Ma avrebbero errato credendo osservarsi lo stesso ordine dappertutto, giacché nella Nuova Zembla [isole del mar Artico, ndr], si è visto appunto il contrario. E così errerebbe chi credesse che, nelle nostre regioni almeno, sia quella una verità necessaria ed eterna, poiché bisogna credere che la Terra e lo stesso Sole non esistono necessariamente, e che verrà forse un tempo nel quale questo bell’astro non sarà più, né tutto il suo sistema, almeno nella sua forma presente. Donde appare che le verità necessarie, quali si trovano nelle matematiche pure, e particolarmente nell’aritmetica e nella geometria, devono avere princìpi, la prova dei quali non dipende dall’esperienza, e perciò neppure dalla testimonianza dei sensi; benché senza l’aiuto dei sensi non vi si sarebbe mai posto mente. Bisogna intender bene ciò, ed Euclide l’ha inteso bene, dimostrando sovente per mezzo della ragione ciò che si vede sufficientemente per via d’esperienza e di immagini sensibili. […] Mi sono dunque servito del paragone d’un blocco di marmo venato, piuttosto che di quello di un blocco di marmo uniforme, o delle tavolette vuote, o, in altre parole, di ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Giacché, se l’anima fosse come queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come l’immagine d’Ercole in un blocco di marmo, quando questo marmo è del tutto indifferente a ricevere questa immagine, o qualche altra. Se nel blocco fossero invece venature che segnassero l’immagine d’Ercole a preferenza di altre immagini, questo blocco vi sarebbe più disposto, e l’Ercole vi sarebbe in certo modo come innato, per quanto fosse sempre necessario un lavoro per scoprire queste vene e polirle, togliendo ciò che impedisce loro di mostrarsi. Nello stesso modo ci sono innate le idee e le verità, e cioè come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non già come operazioni, benché queste virtualità siano sempre accompagnate da spesso insensibili operazioni corrispondenti. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – […] D’altra parte, vi sono mille indizi che fanno credere essere in noi ad ogni istante un’infinità di percezioni, ma senza appercezione e senza riflessione; cioè a dire reali mutamenti dell’anima, dei quali non abbiamo coscienza perché le impressioni relative sono troppo piccole o troppo numerose o troppo uniformi, di modo che non hanno nulla che le caratterizzi partitamente; unite ad altre tuttavia, esse non mancano di fare il loro effetto e di farsi sentire nel complesso, almeno confusamente. Nello stesso modo l’abitudine fa sì che non prestiamo più attenzione al rumore d’un mulino o d’una cascata d’acqua, quando vi abbiamo dimorato vicino per qualche tempo. Non già che questo rumore non colpisca ancora i nostri sensi, e che nella nostra anima non avvenga qualcosa che gli risponda, a causa dell’armonia tra l’anima e il corpo; ma le impressioni che sono nell’anima e nel corpo, destituite dall’attrattiva della novità, non sono abbastanza forti da trattenere la nostra attenzione e la nostra memoria; e allorché, per dir così, noi non badiamo a porgere attenzione a qualcuna delle nostre percezioni presenti, la lasciamo sfuggire senza farne oggetto di riflessione, o addirittura senza notarla; ma, se qualcuno, trascorso appena un istante, ce ne avverte, e ci fa notare, per esempio, un rumore che s’è da poco udito, noi ce ne rammentiamo e ci accorgiamo di averne infatti avuta allora qualche percezione. Si trattava cioè di percezioni, di cui immediatamente non avevamo avuto coscienza; essendo l’appercezione, in questo caso, suscitata soltanto dall’avvertimento, dopo un certo intervallo, per piccolo che sia questo intervallo. A fine di chiarire ancora meglio questa materia delle piccole percezioni che non sapremmo distinguere nel loro complesso, sono solito servirmi dell’esempio del muggito o rumore del mare che udiamo stando sulla riva. Per percepire questo rumore come lo si percepisce è ben necessario si odano le parti che ne formano il complesso, cioè a dire il rumore di ogni onda, benché ciascuno di questi piccoli rumori non si faccia sentire che nell’insieme confuso di tutti gli altri, e sarebbe inafferrabile se l’onda che lo produce fosse sola. Ma è ben necessario che si riceva in qualche modo una impressione dal movimento di quest’onda, e che si abbia qualche percezione di ciascuno di questi rumori per quanto piccoli; altrimenti, non se ne potrebbe avere del rumore di centomila onde, giacché centomila nulla non danno che nulla. E non avviene mai che si dorma tanto profondamente da non avere qualche percezione, per quanto velata e confusa; e il più grande rumore del mondo non ci sveglierebbe se non avessimo qualche percezione del suo principio, che è piccolo; a quel modo che non si spezzerebbe mai, neppure col più grande sforzo del mondo, una corda che non si tendesse e si allungasse qualche poco mediante sforzi di minore entità, benché il piccolo allungamento ch’essi ottengono non sia percettibile. Queste piccole percezioni sono dunque di più grande virtù che non si creda. Sono esse che formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità dei sensi, chiare nel complesso ma confuse nelle parti, quelle impressioni che i corpi che ci circondano fanno su noi, e che racchiudono l’infinito, quel rapporto che ogni essere ha col resto dell’universo. Si può anche dire che è per queste piccole percezioni che il presente è pieno dell’avvenire e carico del passato, che tutto è conspirante […] e che nella minore delle sostanze un occhio acuto come quello di Dio potrebbe leggere l’intero ordine delle cose dell’universo. G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Proemio 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Come abbiamo visto, per Leibniz la realtà è un insieme infinito di sostanze individuali che si rappresentano reciprocamente, ovvero un sistema di specchi che si riflettono infinitamente ognuno in tutti gli altri. Ciò significa che la realtà è attività conoscitiva infinita, cioè che tutto ciò che esiste, esiste in quanto conosce. Tuttavia, si è anche evidenziato che, secondo Leibniz, l’attività conoscitiva della maggior parte delle monadi è inconscia o semiconscia, e che solo le monadi spirituali, che costituiscono le menti umane, conoscono in modo consapevole, ovvero svolgono un’attività conoscitiva in senso proprio. Su questa base, Leibniz elabora la sua teoria della conoscenza e della scienza, incardinandola su una concezione della verità come corrispondenza tra il linguaggio e la realtà. Per Leibniz, infatti, la conoscenza non è una rappresentazione che assomiglia alla realtà (p.e. una fotografia di una città), ma ne è una rappresentazione per “espressione”, cioè una riconfigurazione simbolica (p.e. la piantina stradale di una città). Questa concezione leibniziana della conoscenza potrebbe sembrare in contrasto con la sua metafisica delle monadi. Non si è appena ribadito, infatti, che tutte le monadi, comprese quelle razionali degli uomini, si rispecchiano reciprocamente? Certo, ma non bisogna dimenticare che ogni rispecchiamento è prospettico, ossia non copia ma appunto rielabora la configurazione delle altre monadi. Inoltre dobbiamo tener presente che le monadi non sono fondamentalmente materiali, non hanno un reale aspetto fisico, ma sono attività pensante, dunque la loro conoscenza reciproca non può basarsi su immagini visive somiglianti, ma per così dire su reciproce codificazioni, cioè su mutue ma diversificate rappresentazioni linguistico-simboliche. Leibniz ci propone l’esempio matematico dell’equazione algebrica che “esprime” una figura geometrica (o viceversa) – ovvero di due enti che sono esprimibili in due forme simboliche, ovvero in due linguaggi, differenti ma corrispondenti – oppure quello, ancora più immediato, dei sordi che “ascoltano” il movimento delle labbra – cioè il linguaggio labiale – anziché i fonemi del linguaggio verbale. Insomma, secondo Leibniz, conoscere significa rappresentare la realtà attraverso diversi codici simbolici. Ma poiché la stessa realtà è un insieme di codici simbolici – si potrebbe dire un sistema semiotico infinitamente complesso – conoscere significa decodificare e ricodificare, in termini più semplici tradurre un linguaggio in un altro. Ne deriva che il criterio fondamentale della conoscenza è la corrispondenza tra ogni linguaggio e l’altro. In questa prospettiva, Leibniz afferma che la conoscenza si fonda sul “principio di inerenza” dei predicati rispetto ai soggetti, secondo cui: una proposizione è vera se congiunge o disgiunge un predicato da un soggetto (p.e. “la somma degli angoli interni di un quadrato è 360°” o “la somma degli angoli interni di un quadrato non è 100°”) in modo corrispondente alla relazione che sussiste tra la cosa, cui la proposizione si riferisce, e le sue proprietà. P.e., la proposizione “Socrate è un filosofo” è vera se, e solo se, vi è corrispondenza tra il soggetto della proposizione e Socrate, cioè il Socrate reale, e se la capacità di filosofare appartiene a Socrate. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Tuttavia, secondo Leibniz, il principio di inerenza, benché sia in sé il fondamento unico di tutta la conoscenza, si declina per noi in due distinte modalità, che differenziano la conoscenza umana in due tipi corrispondenti a due gradi diversi di verità: 1. l’inerenza necessaria, su cui si fondano le “verità di ragione”, basate sui principi logici di identità e non-contraddizione: p.e., “un angolo di un triangolo equilatero misura 60°” è un’asserzione necessariamente vera perché altrimenti si incorrerebbe in una contraddizione rispetto alla definizione di “triangolo equilatero”; 2. l’inerenza probabile, su cui si fondano le “verità di fatto”, basate sul principio di ragion sufficiente, secondo il quale ogni cosa/evento deriva da una causa o, meglio, da un processo causativo, cioè da una concatenazione di cause: p.e. la ragione sufficiente di una frana è una pioggia intensa (a sua volta causata da altri eventi atmosferici connessi). Le verità di ragione sono proprie, afferma Leibniz, delle scienze teoretiche, cioè delle scienze costruite dalla mente umana, come l’aritmetica, la geometria, la logica, la metafisica e in generale le scienze umane (etica, giurisprudenza, politica). Queste scienze sono in grado di conseguire verità necessarie perché si basano su idee proprie della mente umana – e dunque a priori, cioè indipendenti dall’esperienza – che corrispondono alle idee essenziali di Dio, cioè a quelle idee che fanno parte dell’identità di Dio e dunque non sono scelte tra altre, come le idee del nostro universo selezionate tra quelle di tutti gli universi possibili, e pertanto sono il fondamento univoco di qualsiasi universo possibile. Le verità di fatto comprendono, invece, le scienze della natura: fisica, astronomia, chimica, medicina, biologia. Queste scienze sono in grado di conseguire verità soltanto probabili perché si basano su idee derivate dalle sensazioni – e dunque a posteriori, cioè ricavate dall’esperienza – che corrispondono alle idee esistenziali, cioè quelle scelte da Dio per creare il migliore dei mondi possibili e che Dio ha pertanto reso esistenti, reali, a differenza di quelle di tutti gli altri universi, possibili ma peggiori e dunque rimasti increati. Ma perché in base alle idee ricavate dall’esperienza non possiamo raggiungere delle verità di ragione? Ovvero, perché le scienze della natura non possono essere necessarie come le scienze teoretiche? Non dipende, risponde Leibniz, da una differenza ontologica, cioè propria della realtà, ossia dal fatto che gli enti naturali siano più indeterminati e quindi più disordinati degli enti matematici o dei comportamenti morali umani. Dipende, invece, dal limite della conoscenza umana. La conoscenza appercettiva, infatti, benché superiore, è pur sempre finita e questa finitezza consiste nell’incapacità di individuare tutte le infinitesimali sfumature dei processi causativi dei fenomeni naturali. Non potendo, in tal modo, conoscere completamente la causazione di un fenomeno naturale, le scienze naturali possono stabilirne sì delle leggi ma soltanto probabili, non necessarie. In altre parole, secondo Leibniz, oggettivamente il principio di inerenza è sempre necessario. P.e., dato il concetto di Terra – intesa come pianeta con moti tellurici sotterranei – il linea di principio in esso sono impliciti come attributi necessari tutti i terremoti avvenuti e che avverranno. Insomma, per Leibniz, tutti gli eventi fisici sono determinati e quindi necessari, ma siccome l’uomo non ne conosce completamente le cause, per lui essi sono solo probabili. Infatti, Dio che, essendone il creatore, conosce completamente tutta la natura, è in grado di prevedere perfettamente tutto ciò che accadrà. Dio, dunque, nel concetto di qualsiasi cosa, compreso ogni uomo, conosce tutte le proprietà e tutti i fatti che la concernono. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Ma se l’uomo ricava le verità di fatto dall’esperienza, motivo per cui esse sono probabili, da dove ricava le verità di ragione? Detto altrimenti, perché la mente umana ha la capacità di generare le scienze teoretiche? Dal momento che, come si è visto, le verità di ragione sono le idee essenziali di Dio, è chiaro che per Leibniz è Dio stesso che ha infuso nelle monadi spirituali umane i principi delle verità di ragione, a cominciare da quello di identità e noncontraddizione. L’uomo, dunque, secondo Leibniz, possiede delle idee innate, p.e. essere, sostanza, semplice, composto, infinito (o Dio), punto, quantità, insomma i concetti logici e ontologici più generali. Tuttavia, come poteva Leibniz credere ancora nella teoria innatistica delle idee dopo aver letto la confutazione dell’innatismo di Locke? La risposta è quasi scontata: Leibniz elabora una controconfutazione con la quale riabilita l’innatismo. Al tempo stesso, però, riforma e innova la tradizionale teoria innatistica, tenendo conto degli argomenti di Locke. Leibniz infatti fonda il suo innatismo su due nuove tesi: 1. le idee mentali innate nell’uomo non sono mai per così dire o del tutto spente o del tutto accese, ossia o del tutto oscure, cioè inesistenti, o completamente chiare; in altre parole non sono statiche, ma sono dei processi, degli sviluppi graduali per cambiamenti infinitesimali continui, che partono da un grado minimo di chiarezza per arrivare a un grado massimo; 2. la mente non coincide con la coscienza ma è costituita anche da una conoscenza inconscia, in quanto l’attività mentale consiste proprio nel passaggio dall’inconscio al conscio, cioè nel prendere una sempre maggiore coscienza dei suoi contenuti inconsci. In base a queste due tesi, l’innatismo riformato di Leibniz non soccombe all’obiezione di Locke secondo cui un’idea inconscia non può esistere perché si tratterebbe di un concetto autocontraddittorio dal momento che la mente è solo cosciente. Secondo Leibniz tra “idea” e “inconscia” non c’è alcuna contraddizione poiché, in primo luogo, un’idea non è mai del tutto inconscia, ovvero oscura, e, in secondo luogo, perché la mente è sia conscia sia inconscia. Ma come argomenta Leibniz la sua nuova teoria della mente e delle idee? Egli ricorre all’analisi delle nostre percezioni. Secondo Leibniz per ogni sensazione, cioè per ogni percezione cosciente, che abbiamo, le nostre menti sono bersagliate da miriadi di “piccole percezioni”, ossia di micropercezioni inconsce o seminconsce, di cui non ci rendiamo conto. P.e., quando udiamo il suono del mare, spiega Leibniz, la nostra sensazione uditiva cosciente è una somma di una molteplicità di micropercezioni inconsce dei suoni delle singole onde che si frangono sulla spiaggia. Oppure, se al mattino un rumore ci sveglia, continua Leibniz, ciò avviene perché prima, a poco a poco, percezioni infinitesimali di quel rumore si sono accumulate fino a raggiungere il valore di soglia della coscienza. Ciò significa che, prima della sensazione cosciente del rumore che ci ha svegliati, in noi si è formata e si è sviluppata un’idea inconscia di quel rumore che è diventata sempre meno inconscia fino a raggiungere lo stato conscio. Ma se le idee innate per Leibniz sono dei processi che partono da un grado minimo di coscienza/chiarezza per arrivare a una grado massimo (relativamente alla monade umana, non in assoluto, cioè al livello di Dio) qual è la causa della loro processualità, ovvero del loro divenire sempre più coscienti/chiare? In prima approssimazione, Leibniz risponde che è l’esperienza a far sviluppare le idee innate le quali, a mano a mano che le idee empiriche 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – si accumulano, da potenziali/virtuali diventano sempre più attuali. Leibniz chiarisce questa sua tesi con l’analogia di un blocco di marmo – simbolo dell’idea innata allo stato potenziale iniziale, cioè oscura/inconscia – che presenta però delle venature – simbolo della potenzialità di diventare sempre più chiara/conscia – seguendo le quali lo scultore – simbolo della mente attiva/cosciente – usando martello e scalpello – simboli dell’esperienza – giunge a produrre la statua – simbolo naturalmente dell’idea che ha raggiunto il massimo livello di chiarezza/coscienza. Tuttavia, a un livello più profondo, anche le idee empiriche per Leibniz sono innate. Abbiamo visto, infatti, che per lui il mondo fisico e quindi l’esperienza sono solo apparenti, in realtà esistono solo enti mentali ed eventi psichico-conoscitivi, ossia le monadi e le loro attività percettive del tutto interne e programmate da Dio. Quindi, anche le monadi spirituali umane fanno esperienza al loro interno secondo una successione prestabilita. Ma allora, se sia le idee innate sia le idee empiriche sono oggetti intramentali preordinati dal disegno divino, che differenza sussiste tra esse? Semplicemente, le prime sono più generali e astratte delle seconde e le precedono cronologicamente, nel senso che sono tutte presenti, benché confusamente, nella mente umana fin dall’inizio della sua attività conoscitiva, mentre le seconde sono più specifiche e concrete e distribuite nel tempo, cioè acquisite successivamente una dopo l’altra nel corso della vita. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Tappa 1 ISAAC NEWTON Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. […] Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell’universo […]. Da una cieca necesssità metafisica, che è assolutamente identica sempre e ovunque, non nasce alcuna varietà di cose. L’intera varietà di cose create, per luoghi e per tempi, poté essere fatta nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un ente necessariamente esistente. Newton, Principia, Scolio generale La produzione scientifica di Newton può essere a buon diritto considerata il trionfale compimento della rivoluzione scientifica moderna. Newton, infatti, in primo luogo scopre, con la sua teoria della gravitazione universale, la prima legge fisico-matematica unitaria dell’intero universo; in secondo luogo, elabora una versione completa e canonica della fisica meccanica, promuovendola a scienza regina, cioè a modello di scientificità, e imponendo così il paradigma scientifico materialisticomeccanicistico, destinato a egemonizzare la ricerca scientifica fino alla fine dell’Ottocento, cioè fino alla rivoluzione scientifica contemporanea di Einstein e dei fisici quantistici (Bohr, Heisenberg, ecc.). La legge di gravitazione universale è codificata da Newton nella seguente formula matematica: F = G . m1, . m2 / r2 nella quale: F rappresenta la forza di attrazione gravitazionale; G una costante di proporzionalità; m la massa di un corpo; r la distanza tra i centri di due o più masse. La formula newtoniana stabilisce che tutti i corpi si attraggono in misura direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. Essa, inoltre, implica che la forza attrattiva muova il centro del corpo di massa minore verso il centro del corpo di massa maggiore. Perché la legge di gravitazione di Newton rappresenta una pietra miliare nello sviluppo della scienza? Cos’ha di più della legge galileiana di caduta dei gravi o delle tre leggi di Keplero, dalle quali quella di Newton è ricavata, costituendone una sintesi? Fermo restando il loro comune e fondamentale carattere matematico, senza il quale non sarebbero leggi scientifiche, la superiorità della legge gravitazionale newtoniana consiste nella sua universalità, cioè nell’essere la prima legge fisica unitaria dell’intero universo, valida per tutti i moti di tutti i corpi. 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – In altre parole, la teoria della gravitazione universale è la prima teoria scientifica di grande unificazione, in quanto, facendoli dipendere dalla stessa legge, unifica tutti i fenomeni meccanici che avvengono nell’universo. Infatti, la legge gravitazionale spiega ad un tempo i moti dei pianeti e delle comete intorno al Sole, i moti dei satelliti intorno ai pianeti, la caduta dei gravi nell’atmosfera terrestre, i moti dei corpi sulla superficie terrestre, le maree. In base a questi elementi, è sensato affermare che Newton supera completamente e definitivamente la fisica aristotelica, ossia la scienza antica, decretando così la vittoria della rivoluzione scientifica moderna. Infatti, benché altri filosofi e scienziati precedenti abbiano sostenuto e argomentato l’unità e l’omogeneità del cosmo, solo Newton, grazie alla sua formula, giunge a dimostrarle in modo fisico-matematico, cioè scientifico; solo Newton, insomma, riesce ad abbattare effettivamente il muro che, per gli antichi, divideva la sfera terrestre dalla sfera celeste, e di conseguenza spaccava la fisica in due. Inoltre, la legge gravitazionale ha un’ulteriore decisiva implicazione. Dal momento che essa stabilisce che il corpo di massa maggiore attira verso il suo centro quelli di massa minore, ne consegue che il Sole deve occupare una posizione centrale nell’universo e che i pianeti, Terra compresa naturalmente, devono muoversi intorno al Sole. In altri termini, la teoria gravitazionale newtoniana costituiva anche una formidabile conferma della teoria eliocentrica. Ma allora come si applica la teoria gravitazionale alla spiegazione dei moti planetari? Newton, partendo dalle leggi di Keplero, risponde che il moto ellittico dei pianeti intorno al Sole è la risultante (cioè la combinazione secondo il parallelogramma delle forze) di due moti: un moto inerziale nello spazio, originario e potenzialmente infinito (perché non soggetto ad attrito), centrifugo rispetto al centro solare; un moto di attrazione verso il centro del Sole, cioè centripeto rispetto ad esso, dovuto alla forza gravitazionale. In parole semplici, ogni pianeta è soggetto a una forza centrifuga e a una forza centripeta e il loro bilanciamento produce il moto ellittico di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole (collocato, come stabilito prima legge di Keplero, in uno dei due fuochi). Per semplificare ulteriormente, si può dire che per Newton la forza gravitazionale solare è come un lazo (ma immateriale e invisibile) che cattura i pianeti e li costringe a girare intorno al Sole, in modo analogo a un oggetto legato a una corda che possiamo far ruotare intorno al nostro corpo. In questo senso, secondo la legge newtoniana, la proporzionalità inversa della forza gravitazionale rispetto al quadrato della distanza tra il centro del pianeta e il centro del Sole spiega la seconda legge di Keplero, cioè l’accelerazione del pianeta in prossimità del perielio e la sua decelerazione con l’avvicinamento all’afelio: vicino al perielio l’attrazione gravitazionale aumenta, lontano da esso invece diminuisce. Dopo aver così messo in luce i titanici meriti della teoria gravitazionale di Newton, è doveroso considerarne anche i limiti e i problemi. Da questo punto di vista, bisogna innanzitutto rilevare che il suo fondamento è, e a lungo rimane, soprattutto teorico. Non che Newton non disponga di conferme empirico-sperimentali, anzi. A livello dei moti terrestri esse sono pressoché illimitate e probanti, ma a livello dei moti planetari si tratta 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – solo di indizi. Come per le leggi di Keplero, il fatto che le posizioni planetarie osservate corrispondano con buona approssimazione ai calcoli matematici ricavabili dalla formula gravitazionale, può essere considerata una prova solo assumendo che l’universo sia ordinato matematicamente, tesi metafisica giacché scientificamente non attestabile. Newton non trova, ma neanche cerca, prove empirico-sperimentali dei moti della Terra (che non sono rinvenute fino alla seconda metà del ‘700). Al contrario, la teoria gravitazionale newtoniana presenta due consistenti anomalie, cioè due osservazioni empirico-sperimentali che contraddicono le sue predizioni: la precessione dell’apogeo lunare, cioè lo spostamento ad ogni rivoluzione del punto di massima distanza dell’orbita lunare intorno alla Terra; la precessione del perielio di Mercurio, cioè lo spostamento ad ogni rivoluzione del punto di massima vicinanza di Mercurio al Sole. La prima di queste anomalie non è in realtà (come in seguito si sarebbe scoperto) dovuta a un difetto della teoria, ma la seconda sì (e infatti la precessione del perielio di Mercurio sarà predetta esattamente solo dalla teoria della relatività allargata di Einstein). Ma il vero problema della teoria della gravitazione universale – che è lo stesso Newton a dichiarare apertamente – è quello di sostenere l’esistenza di una forza che agisce a distanza nel vuoto, cioè senza alcun contatto fisico né diretto né indiretto (cioè attraverso un mezzo), e oltretutto istantaneamente, in altre parole capace di propagarsi a velocità infinita. E’ questo il motivo per cui la teoria newtoniana viene rigettata, almeno in un primo tempo, da un’ampia parte della stessa comunità scientifica moderna, in particolare dagli scienziati di impostazione cartesiana, che accusano Newton di non essere uno scienziato ma un mago rinascimentale, dal momento che la sua teoria gravitazionale non è coerente con la visione materialistico-meccanicistica dell’universo bensì con quella animistico-finalistica. In effetti, Newton, da un lato, imposta la sua fisica, a partire dai suoi tre principi basilari (inerzia, proporzionalità tra accelerazione e forza, azione e reazione), in modo meccanicistico, dall’altro è convinto che il meccanicismo non sia in grado di dare una spiegazione esauriente dei fenomeni fisici (e meno che mai di quelli chimici) e pertanto non rinnega del tutto la visione animistico-finalistica dell’universo. Anzi si può ragionevolmente sostenere che è proprio grazie al fatto che non fosse un meccanicista dogmatico, ovvero che fosse aperto a suggestioni magico-animistiche, nonché un fedele appassionato di teologia, che Newton non si lasciò bloccare dal timore di teorizzare una forza istantanea che agisce senza contatto fisico e poté così giungere, dopo anni di calcoli, alla scoperta della legge gravitazionale. Tuttavia, prima e dopo la sua scoperta, Newton si pone e continua incessantemente a porsi il problema di cosa sia la forza gravitazionale, di quale sia la sua natura, di come faccia a produrre effetti istantanei a distanza. Inizialmente, influenzato dai suoi studi sulla natura e la propagazione della luce, Newton crede di aver trovato una soluzione scientifica del problema nella tesi dell’esistenza di una “sostanza eterea”, che pervade l’intero spazio, una sostanza ancora più sottile dell’aria, molto elastica, e perciò capace di dilatarsi e contrarsi. Nei Principia, però, abbandona questa tesi, e si dichiara apertamente incapace di riuscire a risolvere il problema a livello scientifico, giungendo alla famosa affermazione “Hypotheses non fingo”, cioè “Non m’invento ipotesi”. Cionondimeno, Newton non può fare a meno di continuare a cercare delle risposte, ma non sul piano scientifico, bensì su quello metafisico-religioso. In questo senso, bisogna 1 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – innanzitutto ribadire che per Newton la scienza – nel senso di scienza moderna, materialistico-meccanicistica – non esaurisce e non può esaurire la verità. La verità scientifica, secondo Newton, deve pertanto essere integrata e ampliata da quella metafisico-religiosa. Tra la prima e la seconda, tuttavia, vi è, secondo Newton, continuità: la scienza fisica è la premessa della scienza metafisica, che a sua volta coincide con la religione, in quanto questa può e deve essere del tutto razionale. In questo senso, Newton dedica una parte (lo “Scolio generale”) dei Principia, cioè della sua più importante opera scientifica, all’esposizione della sua teologia naturale. Newton vi argomenta l’esistenza di Dio come “signore dell’universo” sulla base della necessità di una causa prima del moto e della materia nonché del fatto che l’universo è immensamente vario e complesso, ma al contempo possiede un ordine matematico, cioè assolutamento preciso, e pertanto esso può essere spiegato solo come l’opera di un essere di infinita intelligenza. Ma la continuità tra scienza fisica e teologia naturale emerge anche, e forse ancor più, in relazione alla concezione newtoniana di spazio, tempo e moto. Secondo Newton, la fisica studia spazi e tempi relativi, ma questi presuppongono l’esistenza di uno spazio assoluto, cioè sciolto da qualsiasi relazione con qualcosa di esterno, omogeneo e immobile; e di un tempo assoluto, o “durata”, anch’esso privo di relazioni a qualcos’altro, che scorre eternamente in modo del tutto uniforme. In altre parole, per Newton lo spazio e il tempo assoluti sono i “contenitori” di tutti i fenomeni naturali, cioè realtà oggettive uguali per qualsiasi osservatore presente nell’universo. Poiché i moti sono variazioni di luoghi nel tempo, vi sono moti relativi ma esiste anche un moto assoluto, quello relativo allo spazio assoluto e al tempo assoluto. Lo spazio vero, il tempo vero e il moto vero sono quelli assoluti, ma la fisica, afferma Newton, tratta di moti relativi a spazi e tempi relativi perché lo spazio e il tempo assoluti non possono essere oggetto dei nostri sensi e quindi non possono essere misurati. Ma come fa Newton a sostenere scientificamente l’esistenza di realtà inosservabili e che pertanto non possono essere incluse nella spiegazione scientifica dei fenomeni fisici? La risposta è duplice: da un lato, lo spazio e il tempo relativi, scientificamente misurabili, presuppongono l’esistenza di uno spazio assoluto e di un tempo assoluto, altrimenti sarebbero infondati e insensati; dall’altro, lo spazio e il tempo assoluti, per Newton, sono il “medium” attraverso il quale Dio interviene negli eventi fisici e governa l’universo. Newton arriva a definire spazio e tempo assoluti il “sensorium Dei”, cioè l’organo di senso di Dio, e in questa prospettiva sostiene, a livello metafisico, l’esistenza di uno “spirito sottilissimo”, che pervade l’intero spazio cosmico, agendo sul quale Dio interviene costantemente sull’universo conferendogli il suo ordine. In questo modo Newton giunge a trovare la soluzione del problema della natura della forza gravitazionale: essa è la manifestazione fisica dell’attività ordinatrice di Dio che si realizza attraverso lo “spirito sottilissimo” che riempie lo spazio. Non priva di presupposti teologici appare anche un’altra tesi scientifica newtoniana di rilevante importanza, quella dell’infinità dell’universo. E’ chiaro, infatti, che se spazio e tempo assoluti rappresentano la presenza di Dio nell’universo, quest’ultimo non può che essere infinito, benché rimanga sempre la possibilità che la sua infinità sia inferiore a quella trascendente di Dio. Ma al di là di questa argomentazione teologica, Newton deduce l’infinità dell’universo dalla 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – sua legge di gravitazione universale. Infatti, assumendo una distribuzione omogenea degli astri, ossia della massa, nello spazio, se quest’ultimo fosse finito, la forza gravitazionale, in quanto unicamente attrattiva, provocherebbe la concentrazione di tutta la massa. Il fatto che questo non accada attesta, secondo Newton, che lo spazio, e quindi l’universo, è infinito in quanto solo in questo modo è possibile che le distanze tra gli astri siano tali da diluire e controbilanciare l’effetto attrattivo del prodotto delle masse. 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO BLAISE PASCAL Nacque a Clermont-Ferrand, nella regione francese centrale dell’Alvernia, nel 1623, durante il regno di Luigi XIII, un anno prima che il cardinale Richelieu fosse nominato primo ministro. Sua madre morì quando lui aveva solo tre anni, per i postumi del parto di una seconda figlia. Fu dunque il padre, nobile di toga e matematico, ad occuparsi della sua educazione e istruzione, facilitata dalle sue doti intellettuali da enfant prodige, ma resa difficile dalla costituzione fisica debole e dalla salute cagionevole (p.e. Pascal soffrì per tutta la sua vita di emicrania). Nel 1635, la famiglia Pascal si trasferì a Parigi, dove Blaise, dodicenne, entrò a far parte del circolo di intellettuali che ruotava intorno a frate Mersenne, amico e sostenitore di Descartes, oltre che in contatto con Galileo, Fermat, Torricelli. Nel 1639, la famiglia Pascal traslocò ancora a Rouen, dove Pascal visse fino al 1647, perché il padre vi svolgeva una funzione amministrativa affidatagli dal cardinale Richelieu. A Rouen, nel 1640 Pascal pubblicò la sua prima opera – Essai pour les coniques (Saggio sulle coniche) –, in cui espose un teorema fondamentale (poi chiamato “teorema di Pascal”), e nel 1644 progettò e poi costruì una macchina calcolatrice, detta Pascalina, capace di addizionare e sottrarre. Nel 1646, il padre di Pascal si ferì in una caduta e fu curato da due seguaci del giansenismo, la corrente religiosa cattolica molto vicina alla teologia protestante e avversaria dei gesuiti, che in Francia aveva la sua roccaforte nell’abbazia di Port-Royal, situata nei dintorni di Parigi (che Luigi XIV avrebbe poi fatto chiudere nel 1708). In seguito a questo episodio la famiglia Pascal tornò a Parigi e si convertì al giansenismo, ma almeno per il momento Blaise continuò a condurre una vita mondana e a praticare i suoi studi scientifici, che tuttavia dovette interrompere dal 1650 al 1653 a causa di gravi problemi di salute intrecciati con due lutti familiari: Pascal, infatti, perse prima il padre, per morte naturale, e poi la sorella, che decise, contro la sua volontà, di entrare nel convento di Port-Royal. Nel 1653, grazie a un miglioramento della salute, Pascal scrisse e pubblicò il Traité du triangle arithmétique (Trattato sul triangolo aritmetico), dove espose il “triangolo di Pascal”, una disposizione geometrica dei coefficienti binomiali. Tra il 1653 e il 1654, Pascal alternò un’intensa attività scientifica con la frequentazione di intellettuali libertini, che rigettavano le credenze religiose rifacendosi agli scettici e agli epicurei. I più rilevanti risultati della sua ricerca scientifica in questo periodo furono il “principio di Pascal” (“La pressione esercitata da un liquido si trasmette con uguale intensità in tutte le direzioni”), la definizione del concetto di pressione (la cui unità di misura porta il suo nome), la dimostrazione dell’esistenza del vuoto, contributi al calcolo delle probabilità, nonché le invenzioni della pressa idraulica e della siringa. Nel 1654, Pascal ebbe un incidente sul ponte di Neuilly, nei sobborghi di Parigi: i cavalli della carrozza sulla quale viaggiava scartarono oltre il parapetto e finirono nella Senna, mentre la carrozza si fermò miracolosamente sul bordo del ponte. In seguito a questo evento, Pascal cadde in una profonda crisi spirituale nel corso della quale maturò la sua “seconda conversione”. Egli abbandonò così le ricerche scientifiche ed entrò a far parte, come sua sorella, dei “solitari” di Port-Royal, cioè di una confraternita di laici che conducevano una vita monastica, dedita alla preghiera e agli studi teologici. Tra il 1656 e il 1657 Pascal scrisse e pubblicò 18 lettere-saggi, con il titolo di Lettere provinciali, nelle quali difese il giansenismo contro le accuse di eresie mossegli dai teologi dell’università parigina della Sorbona. Nel 1660 l’opera fu censurata dal governo di Luigi XIV alla cui guida vi era il cardinale Mazarino. In seguito, Pascal iniziò la stesura di una nuova opera complessiva, di carattere teologico-filosofico, che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta essere una moderna apologia del cristianesimo. Ma la morte, sopravvenuta a Parigi nel 1662, a soli 39 anni, interruppe il suo lavoro prima che giungesse a compimento. Il suo 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – cadavere fu sottoposto ad autopsia ma i referti che ci sono rimasti non risultano univoci: essi potrebbero attestare sia una morte per tubercolosi sia una morte per tumore allo stomaco, o entrambe le cause insieme. I fogli sui quali Pascal aveva cominciato a stendere la sua ultima opera, incompiuta, in stile aforistico, furono assemblati e pubblicati (ma non tutti) nel 1669, da amici e familiari, sotto il titolo di Pensieri. Dal 1844 al 1936 ne uscirono altre 5 edizioni, ad opera di diversi studiosi, complete e filologicamente curate. 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Tappa BLAISE PASCAL 1 - Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Nel primo i principi sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga ad essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionare male sopra principi così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta avere buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principi noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui principi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i principi, a loro non familiari, della geometria. Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i principi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai principi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuole finezza, nella quale i principi non si lasciano trattare nella stessa maniera. Infatti, esse di scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé: sono talmente tenui e in così gran numero che occorre un senso molto perspicace e molto delicato per sentirle e per giudicarne poi in modo retto e giusto secondo tale sentimento, senza poterle il più delle volte dimostrare con ordine rigoroso, come nella geometria, perché non se ne possiedono nella stessa maniera i principi e volerlo fare sarebbe un’impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa di primo acchitto con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto. E così è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini geometri, perché i primi vogliono trattare con metodo geometrico le cose che esigono finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai principi: metodo fuor di luogo in questo specie di ragionamento. Non che la mente non lo faccia, ma lo fa in modo tacito, naaturalmente e senz’arte, perché l’espressione di esse eccede le umane capacità e pochi ne possiedono il sentimento. E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata, rimangono talmente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e principi sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne infastidiscono e se ne disgustano. 51 - Non posso perdonare a Descartes. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – un colpetto per mettere in movimento il mondo: dopo di che non sa che farsi di lui. 176 – Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco; ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo, e che fosse questo il vero studio che gli è proprio. Sbagliavo: sono meno ancora di quelli che studiano le matematiche. Solo perché si è incapaci di quello studio si cerca tutto il resto; o, piuttosto, non è nemmeno questa la scienza necessaria dell’uomo ed è meglio per lui ignorare se stesso se vuol essere felice? 112 – Dio per mezzo di Gesù Cristo. Noi conosciamo Dio soltanto per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo Mediatore, ogni comunicazione con Dio è impossibile; per mezzo di Gesù Cristo conosciamo Dio. Tutti coloro che hanno preteso di conoscere Dio e di provarne l’esistenza senza Gesù Cristo, avevano soltanto prove inefficaci. Per provare Gesù Cristo noi abbiamo, invece, le profezie, che sono prove solide e tangibili. E il fatto che esse si siano avverate e siano state provate dall’evento, fonda la certezza di quelle verità e costituisce, quindi, la prova della divinità di Gesù Cristo. In lui e per lui conosciamo, dunque, Dio. Senza di ciò e senza la Scrittura, senza il peccato originale, senza Mediatore necessario promesso e venuto, non si può provare assolutamente Dio, né insegnare buona dottrina e buona morale. Ma per Gesù Cristo e in Gesù Cristo si prova Dio e si insegna la morale e la dottrina. Gesù Cristo è, dunque, il vero Dio degli uomini. Ma noi conosciamo in pari tempo la nostra miseria, perché quel Dio non è se non il riparatore della nostra miseria. Così possiamo conoscere rettamente Dio solo conoscendo insieme le nostre iniquità. Onde coloro che hanno conosciuto Dio senza conoscere la loro miseria, non lo hanno glorificato, ma si sono glorificati. […] 144 – Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniano, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principi – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri – è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). […] 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – 146 – Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l’essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volga verso di lui o verso di sé e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione? 148 – Il cuore, e non la ragione, sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione. 195 – L’ultimo atto è cruento, per quanto bella sia la commedia in tutto il resto: alla fine gettiamo un po’ di terra sulla testa, ed è finita per sempre. 348 – Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci. 353 – Noia. Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. 354 – Distrazione (Divertissement). Quando mi sono messo, talvolta, a considerare le varie agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono, nella Corte, in guerra, e donde nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso sconsiderate, ecc., ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli, in una camera. Un uomo che possieda tanto da vivere, se sapesse starsene con piacere in casa propria, non se ne allontanerebbe per andare sul mare o all’assedio di una piazzaforte. Si compera a così caro prezzo un grado nell’esercito soltanto perché riuscirebbe insopportabile non muoversi dalla città; e si cercano le conversazioni e lo svago dei giuochi soltanto perché non si può rimanere a casa propria con piacere. Ma, quando ho meditato la cosa più a fondo, e, dopo aver trovato la causa di tutti i nostri mali, ne ho voluto scoprire le ragioni, mi sono reso conto che ce n’è una realissima: l’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, e talmente misera che nulla ci può consolare, allorché ci riflettiamo con attenzione. […] 366 – Miseria. La sola cosa che ci consoli delle nostre miserie è la distrazione; tuttavia, è la più grande di tutte, perché essa soprattutto ci impedisce di pensare a noi stessi e fa che ci perdiamo insensibilmente. Senza di lei, saremmo nella noia; e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per uscirne. Mentre la distrazione ci svaga, e ci fa giungere alla morte senza che ce ne avvediamo. 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – 367 – Noi corriamo spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che c’impedisca di vederlo. 377 – L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiamo cercare la ragione per elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo, dunque, a ben pensare: ecco il principio della morale. B. Pascal, Pensieri 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA HUME: LA CONOSCENZA SI BASA SULLA FORZA DELL’ABITUDINE Ecco una palla da biliardo che sta ferma su un tavolo ed un’altra palla che si muove verso di essa con rapidità; le due palle si urtano e quella delle due che prima era ferma, ora acquista un movimento. Questo è un esempio della relazione di causa ed effetto tanto perfetto quanto ogni altro di quelli che noi possiamo conoscere sia per mezzo della sensazione che della riflessione. Perciò esaminiamolo. E’ evidente che le due palle si sono toccate l’una con l’altra prima che il movimento fosse comunicato alla seconda e che non vi fu intervallo fra l’urto e il movimento della seconda palla. Perciò la contiguità nel tempo e nello spazio è una circostanza richiesta perché operi una causa qualunque. E’ del pari evidente che il movimento che è causa precede il movimento che è effetto. Pertanto la priorità nel tempo è un’altra circostanza che si richiede per ogni causa. Ma questo non è tutto. Facciamo la prova con altre palle qualsiasi della stessa specie in circostanze uguali e troveremo sempre che l’impulso dell’una produce il movimento nell’altra. Ecco quindi una terza circostanza, quella cioè della congiunzione costante, fra la causa e l’effetto. Qualunque oggetto simile alla causa produce sempre qualche oggetto simile all’effetto. In questa causa non posso scoprire nulla, oltre a queste tre circostanze della contiguità, della priorità e della congiunzione costante. La prima palla è in movimento e tocca la seconda; immediatamente la seconda si mette in movimento; e quando faccio la prova con la stessa o con palle simili, nella stessa circostanza o in circostanze simili, trovo che dopo il movimento e l’urto dell’una segue sempre il movimento dell’altra. Per qualunque lato io giri la cosa, e per quanto la esamini, non vi posso trovare nulla di più. Questo è il caso che si verifica quando sia la causa che l’effetto sono presenti ai sensi. Vediamo ora su che cosa si fonda la nostra inferenza quando noi concludiamo dalla presenza di uno di essi che l’altro è esistito o esisterà. Supponiamo che io veda una palla che si muove in linea retta verso un’altra; immediatamente concludo che esse si urteranno e che la seconda si metterà in movimento. Questa è l’inferenza dalla causa all’effetto, e di questa natura sono tutti i ragionamenti che facciamo nella condotta della vita; su ciò si fonda tutta la nostra credenza nella storia e di qui deriva la filosofia, con la sola eccezione della geometria e dell’aritmetica. Se potessimo spiegare l’inferenza che ricaviamo dall’urto delle due palle, saremmo anche in grado di dare spiegazione di quest’operazione della mente in tutti gli altri casi. Se un uomo fosse creato, come Adamo, nel pieno vigore della sua intelligenza, egli, senza esperienza, non sarebbe in grado di inferire dal movimento ed impulso della prima palla il movimento della seconda. Non esiste nella causa nulla che la ragione veda e che ci faccia inferire l’effetto. Tale inferenza, se fosse possibile, equivarrebbe ad una dimostrazione, in quanto sarebbe fondata soltanto sulla comparazione delle idee. Ma nessuna inferenza dalla causa ell’effetto equivale a una dimostrazione. Di ciò ecco una prova evidente. La mente può sempre concepire che un qualsiasi effetto tenga dietro a una qualunque causa e che un evento qualunque segua a un altro; ora tutto ciò che concepiamo è possibile, quanto meno in un senso metafisico; ma dovunque interviene una dimostrazione, il contrario è impossibile ed implica contraddizione. Perciò non vi è dimostrazione per una qualsiasi congiunzione di causa ed effetto. E questo è un principio che è generalmente ammesso dai 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – filosofi. Sarebbe stato quindi necessario per Adamo (salvo il caso di un’ispirazione divina) aver avuto esperienza dell’effetto che ha tenuto dietro all’urto delle due palle. Egli avrebbe dovuto vedere, in più casi, che quando una palla ne urta un’altra, la seconda si mette sempre in movimento. Se avesse visto un numero sufficiente di casi di questo genere, ogni volta che vedesse una palla muoversi verso un’altra, concluderebbe sempre senza esitazione che la seconda si metterà in movimento. Il suo intelletto anticiperebbe la sua vista e formerebbe una conclusione conforme alla sua passata esperienza. Ne segue, allora, che tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l’effetto sono fondati sull’esperienza e che tutti i ragionamenti che derivano dall’esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. Noi concludiamo che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili. Può essere ora opportuno considerare che cosa ci induce a formulare una conclusione di portata così infinita. E’ evidente che Adamo, con tutta la sua scienza, non sarebbe mai stato in grado di dimostrare che il corso della natura deve continuare ad essere uniformemente lo stesso e che il futuro deve essere conforme al passato. Ciò che è possibile non si può mai dimostrare che è falso; ed è possibile che il corso della natura possa cambiare, dal momento che noi possiamo concepire tale cambiamento. Ma io dico di più ed afffermo che Adamo non sarebbe riuscito a provare con argomenti probabili qualsiasi che il futuro deve essere conforme al passato. Tutti gli argomenti probabili sono basati sulla supposizione che vi sia conformità tra il futuro e il passato e perciò non possono provare tale supposizione. Questa conformità è una questione di fatto e, se deve essere provata, non ammetterà altra prova che non sia quella tratta dall’esperienza. Ma la nostra esperienza del passato non può provare nulla per il futuro, se non in base alla supposizione che ci sia una somiglianza tra passato e futuro. Perciò questo è un punto che non ammette affatto prova di sorta e che noi diamo per concesso senza prova alcuna. D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, Laterza, 1971 Che i nostri sensi non offrano le loro impressioni come immagini di qualcosa di distinto o indipendente ed esterno, non c’è dubbio: perché essi trasmettono a noi un’unica percezione, e non ci danno il minimo sentore di qualcosa al di là di essa. Né quell’unica percezione può mai produrre l’idea di una doppia esistenza [quella delle nostre rappresentazioni delle cose e quella delle cose in se stesse, nota mia], salvo che per un’inferenza o della ragione o dell’immaginazione. D. Hume, Trattato sulla natura umana, I, IV, 2. Come il titolo della sua più importante opera – Trattato sulla natura umana – lascia trapelare, Hume ambisce a emulare Newton nell’ambito della scienza dell’uomo, ovvero a scoprire la legge che governa il funzionamento della mente umana, da lui definita come una “dolce forza che comunemente s’impone”. La ricerca humiama di questa “dolce forza” parte dal principio primo della tradizione razional-empiristica britannica: non c’è nulla nella mente umana che non derivi dall’esperienza, cioè dalle percezioni, che possono riferirsi sia a cose esterne (sensazioni) sia a stati d’animo interiori (riflessioni). Le percezioni, afferma Hume, danno origine a due 1 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – tipi di contenuti mentali: le impressioni e le idee. Le impressioni sono le rappresentazioni che la mente acquisisce nell’atto stesso di una percezione, cioè immediatamente; le idee sono impressioni “illanguidite”, cioè rappresentazioni mentali di percezioni passate ma mnemonicamente conservate. Di conseguenza, l’unica differenza tra un’impressione e l’idea corrispondente è che la prima è più vivida della seconda. La conoscenza, secondo Hume, si basa sull’associazione delle idee in base ai criteri di somiglianza e di causa/effetto. L’attività associativa della mente umana è del tutto naturale e spontanea, cioè è una sua proprietà intrinseca. Essa, afferma Hume, è una “specie di attrazione” che le idee esercitano una sull’altra e che fa sì che si aggreghino tra loro. Grazie a questa attrazione mentale, l’uomo produce due tipi di conoscenza: 1. la conoscenza delle “relazioni tra le idee”, propria della matematica, nella quale si analizzano e si correlano, in base al principio di non-contraddizione, le idee in quanto tali, cioè astraendo dal loro contenuto empirico e attenendosi unicamente alla loro forma logica; 2. la conoscenza di “materie di fatto”, cioè dei contenuti delle idee, propria di tutte le scienze naturali, il cui criterio di verità è il controllo dell’esperienza. Mentre la conoscenza delle relazioni tra idee è dimostrativa e incontrovertibile, perché la negazioni di ogni suo enunciato sarebbe una contraddizione; la conoscenza delle materie di fatto, invece, è ipotetica e discutibile, perché ogni suo enunciato non esclude che sia vera anche la sua negazione. P.e., che la somma degli angoli interni di un triangolo sia 180° è certamente vero perché la sua negazione è contraddittoria rispetto alla definizione del triangolo; ma che domani sorga il sole non è certamente vero perché se non sorgesse ciò non sarebbe contraddittorio e dunque domani il sole potrebbe anche non sorgere e solo la futura esperienza potrà accertare se domani il sole sorgerà oppure no. Ma se la conoscenza scientifica è una conoscenza di “materie di fatto” come può allora fare previsioni certe? La risposta di Hume è che effettivamente non può farne. Ma, se è così, ciò non implica che nemmeno le leggi scientifiche, su cui sono fondate le previsioni, sono certe? Sì, nemmeno le leggi scientifiche sono certe, risponde Hume. L’argomentazione humiana di questa tesi consiste nella confutazione del principio classico di causalità, in quanto fondamento unico di tutte le leggi scientifiche. Sia Galileo sia Newton, ma più in generale tutti i filosofi e gli scienziati passati ad eccezione degli scettici, avevano indicato come uno degli assiomi della scienza della natura la tesi secondo cui “alle stesse cause corrispondono sempre e univocamente gli stessi effetti”. In altre parole per gli scienziati moderni, ma anche antichi, era evidente che la natura, essendo causalmente ordinata, era uniforme, cioè un insieme di interazioni invariabili. In tal senso, il principio di uniformità della natura altro non era che l’altra faccia del principio di causalità ed entrambi fungevano da pilastro della universalità e della necessità delle leggi scientifiche, p.e. della legge di gravità newtoniana. Secondo Hume, assunto che tutto ciò che è presente nella mente umana deriva dall’esperienza, il principio di causalità/uniformità non possiede alcun fondamento oggettivo e razionale. Per argomentarlo, Hume invita a osservare un esempio prototipico di 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – rapporto di causa/effetto: due biglie che si scontrano su un tavolo da biliardo: la biglia A è lanciata contro la biglia B, inizialmente ferma, che, non appena è toccata dalla biglia A comincia a muoversi. Cosa abbiamo realmente osservato in questo rapporto di causa ed effetto?, chiede Hume. E risponde: due spostamenti, ovvero due cambiamenti di posizione nello spazio, uno dopo l’altro, ossia secondo un ordine di successione nel tempo. In altre parole, continua Hume, abbiamo osservato che tra il moto della palla da biliardo A e quello della palla da biliardo B c’è una relazione di continuità spazio-temporale, un “hoc post hoc”. Abbiamo osservato qualcos’altro? Nient’altro, risponde Hume. Ma allora, in base a quello che abbiamo osservato, cioè in base all’esperienza, siamo autorizzati a pensare che tutte le volte che ripeteremo lo stesso esperimento, naturalmente ceteris paribus (a parità di tutte le sue condizioni: palle, energia cinetica, direzione, senso, ecc.), la palla B si sposterà nello stesso modo? In altri termini, possiamo razionalmente stabilire che allo stesso spostamento della biglia A seguirà sempre e univocamente lo stesso spostamento della biglia B? Ovvero che F=ma, il secondo principio della meccanica newtoniana, è una legge universale e necessaria? Per Hume è chiaro che la risposta è no. Perché? Perché per rispondere sì, nello scontro tra la biglia A e la biglia B avremmo dovuto osservare anche qualcos’altro, cioè una connessione necessaria tra le due biglie, una sorta di filo che le collegasse e che, essendo presente anche in tutti i possibili successivi scontri uguali, facesse in modo che ogni volta che la biglia A fosse lanciata, ceteris paribus, contro la biglia B, lo spostamento della biglia B fosse sempre uguale ai precedenti. In realtà, secondo Hume, il principio di causalità/uniformità tradizionale si fonda proprio sull’assunzione dell’esistenza di questo “filo” capace di cucire in modo invariabile tutti i rapporti di causa/effetto uguali; fuor di metafora, sull’esistenza di una connessione universale e necessaria in quanto proprietà oggettiva, intrinseca, delle cose/fenomeni naturali. E’ grazie a questa assunzione che l’ “hoc post hoc” può essere magicamente, e quindi fallacemente, trasformato in un “hoc propter hoc”, cioè la semplice continuità spazio-temporale può essere concepita come una consequenzialità causale invariante. Peccato, continua Hume, che l’assunzione dell’esistenza di una connessione necessaria sia del tutto arbitraria, come ha asseverato l’esperimento delle palle da biliardo: nel loro scontro, infatti, non abbiamo osservato la presenza di alcuna connessione necessaria. Dunque, chi sostiene il principio di causalità/uniformità può farlo solo in contrasto palese con l’esperienza, ossia ignorandola. A riprova di quanto argomentato, Hume ci invita a immaginare Adamo non appena creato, e dunque privo di ogni esperienza e a chiederci: poteva prevedere qualche fenomeno naturale, p.e. che il fuoco lo scottasse? La risposta di Hume ovviamente è no, almeno finché Adamo non avesse provato sul suo corpo molte scottature, perché nemmeno una sola o poche sarebbero bastate per indurlo a prevedere che un futuro nuovo contatto con il fuoco gli avrebbe certamente provocato una scottatura. Hume, tuttavia, non si limita a smascherare la fallacia del principio di causalità/uniformità. Egli è ancor più interessato a comprendere come e perché la mente umana cade in questa fallacia, dato che si tratta di una fallacia universale, comune a tutti gli uomini, perfino ai più geniali. Indagando in questa direzione, sulla base 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – dell’introspezione, Hume scopre che la fallacia della causalità nasce dall’abitudine: poiché nel corso della nostra esperienza noi notiamo alcune congiunzioni costanti tra due o più eventi, col tempo la forza dell’abitudine si cristallizza nella credenza nell’invariabilità di quelle congiunzioni, ossia fa germinare nelle nostre menti il principio di causalità/uniformità. Ciò significa, afferma Hume, che la causalità, lungi dall’essere una proprietà oggettiva della natura, razionalmente attestabile, è una proprietà soggettiva della nostra mente sentimentalmente connotata. L’abitudine, infatti, è una nostra attitudine emotiva, uno stato d’animo pratico, in quanto si traduce in determinati comportamenti, non un criterio della nostra ragione teoretica, come p.e. l’uguaglianza o la transitività. Non pago di aver confutato la razionalità del principio di causalità, Hume muove all’attacco di un secondo principio-cardine della filosofia e della scienza antiche ma anche moderne, quello della sostanza, sia come sostanza materiale (res extensa) sia come sostanza razionale (res cogitans). Riguardo alla sostanza materiale, cioè alla tesi, comunemente accettata, dell’esistenza di una realtà fisica esterna alla nostra mente/coscienza, e quindi indipendente da questa, Hume fa notare che, se consideriamo attentamente le nostre percezioni sensitive, cioè relative ai presunti oggetti fisici, notiamo che è impossibile riferirle con certezza a qualcosa di altro dalla nostra mente/coscienza. La percezione, ovvero la rappresentazione mentale, di un oggetto/fenomeno naturale, p.e. dello sbocciare di una rosa, è sempre interna alla nostra coscienza, e non ci autorizza a inferire l’esistenza indipendente di una rosa in fiore fuori della nostra coscienza. Il che, naturalmente, non esclude che al di là della nostra mente esista un mondo fisico indipendente, ma non esclude nemmeno il contrario, cioè che non esista. Se, tuttavia, tutti siamo convinti che esiste un mondo fisico indipendente fuori della nostra mente, ciò avviene, secondo Hume, sempre per una credenza nata dall’abitudine. Quanto alla sostanza razionale, Hume afferma che la tesi della sua esistenza implica che ogni mente individuale consista in un “io pensante” (cogito, res cogitans) inteso come il soggetto invariante, cioè come l’autore e il contenitore unitario e stabile di tutti i pensieri e gli stati mentali, emozioni incluse, che si avvicendano incessantemente nella nostra mente. Ma anche in questo caso, l’osservazione, nella forma della riflessione, ossia dell’introspezione mentale, attesta che percepiamo solo il continuo e rapido avvicendarsi di rappresentazioni, immagini, ragionamenti, sentimenti, ecc., mai qualcosa di stabile e unitario che li produca e li contenga. La nostra mente/coscienza, continua Hume, è come uno spettacolo teatrale continuo, un’azione scenica sempre mutante, del tutto priva di un palcoscenico, di quinte, sipario, sala teatrale, poltrone per gli spettatori; insomma una pièce della stessa durata della nostra vita che però si rappresenta senza alcun teatro. Anche in questo caso, per Hume è la forza dell’abitudine che ci porta a credere che intorno alla rappresentazione vi sia un teatro. Le confutazioni di Hume appaiono come un mirabile esempio di scetticismo radicale, per non dire estremo. Tuttavia si tratta di un radicalismo, o estremismo, unicamente teoretico, che all’atto pratico si risolve in uno scetticismo moderato. Una volta argomentato che causalità, sostanza materiale e sostanza razionale sono tutte credenze basate sulla forza 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – dell’abitudine, Hume, infatti, non invita a rigettarle, bensì a seguirle in quanto utili, per non dire indispensabili, alla nostra esistenza pratica. Con l’avvertenza, però, di mettere nel conto la possibilità che esse siano smentite, ovvero che possano accadere fatti che non ci aspettiamo in quanto eccezioni alle nostre credenze abitudinarie. In questo senso, le leggi scientifiche, secondo Hume, vanno seguite e utilizzate per prevedere e prevenire, ma nella consapevolezza che esse non sono universali e necessarie, ma particolari e probabili: valgono nella maggior parte dei casi, ma non è detto che valgano in tutti i casi. Insomma: anche domani è assai probabile che sorgerà il Sole, afferma Hume, ma non è escluso del tutto che non sorga. Dunque, si potrebbe aggiungere, meglio avere sempre a disposizione una consistente scorta di candele. A conferma del pragmatismo della filosofia humiana. 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 2 HUME: LA MORALE SI FONDA SUL SENTIMENTO Il fine di tutte le speculazioni morali è quello di insegnarci il nostro dovere, di generare in noi, mediante opportune rappresentazioni della natura deforme del vizio e della bellezza della virtù, le abitudini corrispondenti, e di costringerci ad evitare l’uno e ad abbracciare l’altra. Ma ci si può mai attendere ciò da inferenze e da conclusioni dell’intelletto che di per sé non hanno affatto presa sugli affetti e non sollecitano l’uomo ad agire? Esse scoprono delle verità; ma quando le verità che scoprono risultano indifferenti, e non generano il minimo desiderio o la minima avversione, esse non possono avere nessun influsso sulla condotta e sul comportamento. Ciò che è onorevole, ciò che è leale, ciò che è conveniente, ciò che è nobile, ciò che è generoso si impadronisce del cuore e ci incoraggia ad abbracciarlo e a conservarlo. Ciò che è intellegibile, ciò che è evidente, ciò che è probabile, ciò che è vero procura solamente il freddo assenso dell’intelletto e, gratificando una curiosità di natura speculativa, pone termine alle nostre ricerche. Distruggete tutti i caldi sentimenti e tutte le buone predisposizioni in favore della virtù, e ogni disgusto e avversione per il vizio, rendete l’uomo talmente indifferente verso queste distinzioni, e l’etica cesserà di essere uno studio capace di incidere sulla prassi e non conserverà più la minima tendenza a regolare la nostra vita e le nostre azioni. D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, I, p. 136, Rusconi, 1980 Prendiamo un’azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio premeditato; esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In qualsiasi maniera la prendiate troverete solo certe passioni, motivi, volizioni, pensieri. Il vizio sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto del sentimento, non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto. Così quando dichiarate viziosa un’azione o un carattere, non intendete dire nient’altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli […]. La morale, perciò, è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio, per quanto questo senso o sentimento sia di solito tanto dolce e lieve che siamo portati a confonderlo con una idea, secondo la nostra solita abitudine di prendere per identiche le cose che hanno una forte rassomiglianza reciproca. D. Hume, Trattato sulla natura umana, libro III, parte I, sez. I-II. Dopo aver individuato le leggi del funzionamento teoretico-conoscitivo della mente umana, Hume passa a ricercare le leggi mentali che determinano il comportamento umano allo scopo di elaborare una teoria morale realmente efficace perché fondata sull’effettiva natura dell’uomo. 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – Egli individua innanzitutto tre principi esplicativi dell’agire umano, che costituiscono altrettante condizioni della moralità: 1. le azioni di ogni individuo sono determinate dalle sue “passioni”; 2. la ragione umana può solo conoscere l’essere, cioè la realtà naturale, ma non può stabilire il dover-essere, cioè i valori e le regole del comportamento; 3. ogni individuo è dotato per natura dell’empatia, cioè della capacità di sentire i sentimenti altrui come se fossero i propri. Dunque, in primo luogo, secondo Hume, il comportamento di ogni uomo è causato unicamente dalle “passioni”. Con il termine “passione” Hume intende genericamente tutti i sentimenti e le emozioni, tant’è vero che poi distingue tra “passioni violente”, che noi per lo più chiamiamo propriamente “passioni” (p.e. la passione per il gioco d’azzardo), e “passioni calme”, che di solito vengono chiamate sentimenti (p.e. l’affetto amicale, la pudicizia, ecc.). Secondo Hume, noi siamo agitati, di volta in volta, da più passioni, spesso in conflitto tra loro, e alla fine il nostro comportamento è determinato dalla passione predominante, cioè da quella che si afferma sopra le altre. In ogni caso, che siano violente o calme, che sia predominante l’una o l’altra, l’uomo, afferma Hume, è schiavo delle sue “passioni”. Ciò comporta, naturalmente, che per Hume la ragione teoretico-conoscitiva, ossia la scienza, non governa in alcun modo le azioni umane e che, pertanto, l’uomo non possiede il libero arbitrio, inteso come la capacità razionale di scegliere un’azione piuttosto che un’altra e di obbligare la volontà a eseguirla. In secondo luogo, ma anche consequenzialmente, la ragione, continua Hume, può solo fornirci una descrizione e una spiegazione di come avvengono i fenomeni naturali, azioni umane comprese, ma non può stabilire, nel più assoluto dei modi, che cosa dobbiamo fare. In altre parole, secondo Hume non esiste una ragione pratica, cioè la mente umana non possiede la facoltà di individuare delle regole di comportamento universali puramente razionali e di prescriverle a tutti gli uomini. Non che qualcuno non ci abbia mai provato o possa continuare a provarci. Ma vanamente, perché a parere di Hume le morali razionali sono sempre state e sono inefficaci, ovvero hanno lo stesso effetto dell’incenso sui morti. Ma allora la ragione scientifica non ha nulla a che vedere con i nostri comportamenti? No, risponde Hume, tra passioni e ragione vi è un rapporto, però di tipo unicamente strumentale: le conoscenze scientifiche servono per soddisfare più efficacemente, o con il minor danno possibile, le passioni di volta in volta predominanti. In altri termini: quando una passione determina un certo comportamento, p.e. cucinare una torta per soddisfare la propria golosità, la ragione suggerisce la ricetta per renderla più gustosa possibile. In certi casi, ammette Hume, addirittura la ragione può prevenire una scelta comportamentale e indurci a cambiarla, p.e. se ci piacciono i funghi, la scienza ci permette di distinguere i funghi velenosi e ci distoglie così dal mangiarli, anche se desidereremmo farlo. Ma anche in tal caso, ciò avviene perché a una iniziale passione predominante, la golosità, se ne sostituisce, certo con l’aiuto della ragione, un’altra: la paura della morte o comunque del malessere. In particolare, Hume valorizza questa funzione smascheratrice della ragione, capace di prevenire dolori e danni, in riferimento alle superstizioni, in quanto false idee, miraggi, truffe, che suscitano passioni destinate alla frustrazione e alla sofferenza. In terzo luogo, Hume afferma che la moralità umana si fonda sulla “simpatia”, nel senso etimologico del termine, ovvero su quella che chiamiamo più comunemente “empatia”, da 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – lui descritta come una sorta di attrazione interiore verso gli altri, più precisamente come il sentimento, o senso, dei sentimenti altrui; come un co-sentire, ossia come la capacità di sentire i sentimenti degli altri come se fossero i nostri, di immedesimarci nelle emozioni altrui rivivendole dentro di noi. E’ grazie all’empatia, secondo Hume, che dentro di noi, nella nostra mente, sentiamo che alcuni comportamenti, quelli altruistici, o almeno quelli rispettosi degli altri, sono migliori di altri, quelli egoistici, o almeno quelli irrispettosi degli altri. I comportamenti che preferiamo, infatti, sono quelli più universali; quelli che detestiamo, di converso, i più particolaristici o individualistici: in entrambi i casi non potremmo sentire quello che sentiamo se non fossimo empatetici, cioè se fossimo indifferenti ai sentimenti altrui. Una volta fissati questi tre principi, Hume arriva a identificare la legge fondamentale della moralità: il sentimento morale (moral sense). Si tratta di un sentimento, cioè di una passione, come gli altri, e pertanto la sua caratteristica fondamentale è quella di produrre in noi una sensazione di piacere, di fronte a un comportamento morale, e invece di dispiacere, di fronte a un comportamento immorale. In altre parole, secondo Hume, noi giudichiamo morale un comportamento perché suscita in noi sensazioni piacevoli: simpatia, stima, ammirazione, benevolenza, affetto, gratitudine, ecc.; lo giudichiamo immorale perché provoca in noi sensazioni spiacevoli: ripugnanza, vergogna, fastidio, disprezzo, odio. Ma molti altri sentimenti/passioni suscitano piacere o dispiacere. P.e. la golosità quando il cibo è buon provoca piacere, quando è cattivo dispiacere. Che differenza c’è allora tra il sentimento morale e gli altri? Possibile che l’ammirazione per un gesto d’onestà o di lealtà non sia un piacere diverso da quello che provo mangiando una torta di mele? Hume risponde che in effetti sono due piaceri diversi, cioè che il sentimento morale si distingue da tutti gli altri per una sua proprietà peculiare, esclusiva: è un sentimento del tutto disinteressato. Cosa vuol dire? Che noi lo proviamo indipendentemente dal nostro interesse egoistico, anzi addirittura contro il nostro interesse egoistico. P.e., proviamo piacere nel comportarci onestamente, e proviamo riprovazione per chi agisce in modo disonesto, anche se così facendo non massimizziamo il nostro interesse egoistico; oppure proviamo piacere nell’ammirare un gesto eroico in battaglia, anche se chi lo compie è un nostro nemico e il suo eroismo, quindi, per noi è dannoso. E’ proprio perché è disinteressato che il sentimento morale è universale. In conclusione, in base alla sua teoria naturale della morale, Hume sceglie una via di mezzo rispetto ai sostenitori dell’egoismo naturale, da un lato, e a quelli, dall’altro, dell’altruismo naturale dell’uomo. In altri termini, Hume non pensa che la natura umana sia univocamente altruistica, e che quindi gli uomini si comportino, sempre o anche solo frequentemente, in modo sociale; ma nemmeno che la natura umana sia unilateralmente egoistica e che quindi gli uomini agiscano, sempre o anche solo frequentemente, in modo individualistico. L’esperienza dei comportamenti umani, afferma Hume, smentisce entrambe queste tesi antropologiche e attesta invece che gli uomini, pur comportandosi a volte in modo egoistico, tendono perlopiù ad agire altruisticamente, in quanto, almeno quando si gode un certo benessere, la generosità è una delle maggiori fonti di piacere. 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – VITA DI UN CAPITANO JEAN-JACQUES ROUSSEAU Jean-Jacques Rousseau nacque nella Repubblica di Ginevra, patria del calvinismo, nel 1712, da una famiglia di origine francese e di religione calvinista. Sua madre, una donna di cultura, morì pochi giorni dopo la sua nascita a causa di una cosiddetta “febbre perpuerale”, cioè per un’infezione contratta durante il parto a causa della mancanza d’igiene. Fu così allevato dal solo padre, un orologiaio, ma anche un intellettuale, che l’educò all’amore per la cultura e per la repubblica ginevrina. Tuttavia, nel 1719 il padre, in seguito al coinvolgimento in una rissa, fuggì da Ginevra per sottrarsi all’arresto, affidando il figlio a uno zio. Sia prima sia dopo la fuga del padre Rousseau ebbe la possibilità di leggere i libri della biblioteca di famiglia e di darsi così un’istruzione da autodidatta, tanto libera quanto disordinata. Nel 1728, a sedici anni, in seguito a una scampagnata troppo prolungata, Rousseau rimase chiuso fuori delle mura di Ginevra. Decise allora di abbandonare la città, cominciando così la sua vita erratica. Consigliato da un parroco, si recò ad Annecy e si mise sotto la protezione della nobildonna Madame de Warens, ex protestante diventata cattolica, che era finanziata dalla chiesa romana per propagandare la conversione al cattolicesimo nella Savoia. Su indicazione di Madame de Warens, Rousseau si recò a Torino, presso il Collegio dell’ospizio del Santo Spirito, dove si battezzò col rito cattolico. Tra il 1728 e il 1731, soggiornò in varie città della Francia e anche a Parigi, facendo vari mestieri: domestico, insegnante di musica, interprete, precettore. Nel 1732 si stabilì a Chambéry, ospite di Madame de Warens, presso cui rimase per dieci anni, lavorando come suo maestro di musica e come suo amministratore, ma soprattutto diventando il suo amante, benché avesse tredici anni meno di lei. Nel 1738, durante un viaggio per motivi di salute, ebbe una relazione passionale con un’altra nobildonna e al suo ritorno scoprì di essere stato sostituito da un nuovo favorito. Tuttavia poté continuare a vivere, e ad approfondire i suoi studi, nella casa di Madame de Warens fino al 1742, quando decise di trasferirsi a Parigi. Qui presentò all’Accademia delle scienze un nuovo sistema di notazione musicale, da lui inventato, che fu apprezzato ma non accolto. Nel 1743 pubblicò il saggio Une dissertation sur la musique moderne e cominciò a frequentare gli illuministi. Messosi al servizio del conte Montaigu, ambasciatore francese presso la Repubblica di Venezia, Rousseau soggiornò qualche mese nella città lagunare. Di nuovo a Parigi nel 1744, nell’albergo in cui alloggiava, conobbe la cameriera semianalfabeta Marie-Thérèse Levasseur, con la quale stabilì una duratura ma intermittente relazione. Ne nacquero cinque figli che vennero affidati all’Ospizio dei Trovatelli. Nel 1746 Rousseau divenne segretario di Madame Dupin, che animava un salotto di intellettuali nella sua casa parigina, e si trasferì nel suo castello di Chenonceau. Rousseau vi scrisse la commedia L’engagement téméraire, che fu poi rappresentata a Parigi. Nel 1747 Diderot affidò a Rousseau la stesura delle voci dell’Encyclopedie dedicate alla musica e all’economia politica. Ma la svolta decisiva della vita di Rousseau fu, nel 1750, la vittoria – al concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema “Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi” – del suo saggio Discorso sulle scienze e sulle arti, che ne decretò la celebrità. La sua fama aumentò nel 1752 quando fu rappresentato alla corte di Fontainebleau, alla presenza di Luigi XV, il suo melodramma comico L’indovino del villaggio. Al re piacque a tal punto che lo invitò a un incontro per conferirgli la carica di poeta di corte. Ma Rousseau declinò l’invito. Nello stesso anno, la Comédie française rappresentò un suo nuovo dramma, Narcisse. Nel 1753 l’Accademia di Digione bandì un nuovo concorso sul tema: “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini e se essa è 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – autorizzata dalla legge naturale”. Rousseau vi partecipò con il saggio Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, che non vinse ma ebbe poi un notevole successo di pubblico. Nel 1754 tornò a Ginevra per un breve periodo e si riconvertì al calvinismo, ma poi si accorse che la sua città natale non corrispondeva, come aveva creduto, ai suoi ideali morali e politici. Nel biennio 1756-7 Rousseau fu ospite di madame d’Epinay nell’Ermitage, la sua casa di campagna vicino a Montmorency, dove cominciò a scrivere il romanzo sentimentale Giulia o la nuova Eloisa, ma proseguì anche il suo carteggio con Voltaire, in cui spicca la Lettre à Voltaire sur la Providence, che ha per tema il terremoto di Lisbona del 1755. Nel 1757, a causa del suo amore per la contessa d’Houdetot, Rousseau entrò in contrasto con la sua ospite e si trasferì a Montlouis. In questo stesso periodo Rousseau ruppe anche con Diderot e con d’Alembert, e più in generale con gli illuministi, Voltaire compreso, i quali non avevano affatto apprezzato il suo secondo Discorso perché in contrasto con le loro idee. Nel 1759 Rousseau trovò una nuova ospitalità, da parte del maresciallo François de Luxembourg, nel piccolo castello di Montmorency, da dove fece pubblicare a Londra La nuova Eloisa nel 1760, e dove iniziò a scrivere il saggio politico Il contratto sociale e il saggio pedagogico L’Emilio, entrambi pubblicati nel 1762. Il Parlamento di Parigi condannò entrambe le opere, ne fece bruciare le copie pubblicate e ordinò l’arresto di Rousseau che si rifugiò in Svizzera. Ma anche le autorità di Ginevra condannarono e fecero bruciare i saggi roussoiani. Rousseau trovò tuttavia accoglienza nel Canton Neuchatel e rinunciò alla cittadinanza ginevrina. Nel 1764 iniziò a scrivere Le confessioni, un’opera autobiografica. In quello stesso anno, fu duramente colpito da un opuscolo di Voltaire, che lo denigrava in particolare come padre snaturato, procurandogli forti rimorsi. Nel settembre del 1765 la casa in cui Rousseau abitava fu presa a sassate dalla folla. Rousseau dovette fuggire e si rifugiò su un’isoletta del piccolo lago svizzero di Bienne. L’anno successivo andò con Thérèse Lavasseur in Inghilterra invitato da David Hume che aveva preso a cuore la sua sorte. Ma le idee e i caratteri dei due filosofi erano troppi diversi e la loro relazione amicale si bruciò rapidamente. Così nel 1767 Rousseau tornò in Francia sotto falso nome, si spostò tra Lione, Chambéry, Grenoble e Bourgoin, nel 1768 sposò Thérèse Lavasseur e l’anno successivo si stabilì in una fattoria nel dipartimento della Sarthe dove terminò di scrivere Le confessioni. Nel 1770, caduto in prescrizione il mandato d’arresto nei suoi confronti, Rousseau tornò ad abitare a Parigi dove iniziò a dare pubbliche letture della sua opera autobiografica che furono però bloccate dalla polizia a causa di una denuncia per diffamazione sporta da Diderot e da Madame d’Epinay. Ripiegò sulla scrittura di altre opere: il saggio autocritico Rousseau giudice di Jean-Jacques, l’opera lirica Daphnis et Chloé, il saggio di introspezione Le fantasticherie di un passeggiatore solitario. Isolato, sempre più vittima di manie di persecuzione, ma anche malato fisicamente, trovò ospitalità presso il marchese de Girardin, suo ammiratore, nel castello di Ermenonville, a nord di Parigi, dove il giovane Robespierre, seguace del suo pensiero, andò a incontrarlo. Vi morì nel 1778, mentre la moglie Thérèse gli sopravvisse fino al 1801. Seppellito nella tenuta di Ermenonville, nell’isola dei Pioppi, per suo espresso desiderio, nel 1794, su ordine della Convenzione il suo corpo fu trasportato nel Panthéon di Parigi dove fu inumato con tutti gli onori. 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – TAPPA 1 ROUSSEAU: LO STATO DEV’ESSERE SOCIALE Soprattutto non concludiamo con Hobbes che l’uomo, per il fatto che non ha alcuna idea della bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che neghi sempre ai suoi simili dei servizi che egli creda non esser loro dovuti, né che in forza del diritto che egli a ragione si attribuisce sulle cose di cui ha bisogno s’immagini stoltamente essere il solo proprietario di tutto l’universo. […] Ragionando sui principi posti da lui stesso, l’Autore [Hobbes, ndr] avrebbe dovuto dire che, essendo lo stato di natura quello in cui la salvaguardia della nostra conservazione reca meno danno a quella altrui, di conseguenza questo stato era il più propizio alla pace e il più conveniente al genere umano. […] Hobbes non ha visto che la causa stessa la quale impedisce ai selvaggi di usare la ragione (come pretenderebbero i nostri giuristi) impedisce loro nello stesso tempo di abusare delle loro facoltà (come pretende lui); in modo che non si può dire che i selvaggi siano cattivi solo perché non sanno cosa voglia dire essere buoni, perché ciò che impedisce loro di non fare il male non sono né lo sviluppo dell’intelligenza né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio: Tanto plus in illis proficit vitiorum ignoratio quam in his cognitio virtus. D’altra parte c’è un altro principio, che Hobbes non ha visto affatto, e che, essendo dato all’uomo per addolcire in certe circostanze la ferocia del suo amor proprio, o (prima della nascita di questo amor proprio) del suo desiderio di conservazione, tempera l’ardore che egli ha per il suo benessere con una ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile. Non credo di correre il rischio di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù naturale che anche il detrattore più spinto delle virtù umane è stato costretto a riconoscere all’uomo: voglio dire la pietà, disposizione che conviene a esseri tanto deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi, virtù tanto più universale e tanto più utile all’uomo in quanto in lui precede l’uso di qualsiasi riflessione e tanto naturale che persino le bestie ne danno qualche volta dei segni sensibili. […] Quand’anche fosse vero che la compassione altro non è che un sentimento che ci mette al posto di colui che soffre – sentimento oscuro e vivo nell’uomo selvaggio, sviluppato ma debole nell’uomo civile – che fa quest’idea alla verità di ciò che dico, se non darle maggior forza? Difatti la compassione sarà tanto più energica quanto più l’animale che guarda s’identificherà intimamente con l’animale che soffre. Ora, è evidente che questa identificazione è dovuta essere infinitamente più stretta nello stato di natura che nello stato di ragione. E’ la ragione che genera l’egoismo ed è la riflessione che lo rafforza; è questa che fa ripiegare l’uomo su se stesso e lo allontana da tutto ciò che lo angoscia e lo affligge. E’ la filosofia che lo isola; è in virtù della filosofia che egli, vedendo un uomo soffrire, dice in cuor suo: crepa se vuoi – io sono al sicuro. J.-J Rousseau, Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza fra gli uomini, Parte I, Feltrinelli, 1988, pp. 60-63. Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o 1 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!”. Ma c’è molto motivo di credere che allora le cose fossero già giunte a un punto tale da non poter continuare così com’erano; perché questa idea di proprietà dipendente da molte idee che si sono potute formare solo successivamente, non nacque improvvisamente nello spirito umano: fu necessario fare molti progressi, che si acquistassero molte capacità e molti lumi, e che questi fossero trasmessi e aumentati da un’epoca all’altra prima che si arrivasse a quest’ultimo confine dello stato di natura. […] E infine l’ambizione divorante, l’intenso desiderio di elevare la propria condizione (non tanto per un vero bisogno ma per mettersi al di sopra degli altri), ispira a tutti gli uomini una trista inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia, tanto più dannosa in quanto, per agire con più sicurezza, si mette spesso la maschera della benevolenza – insomma, concorrenza e rivalità da una parte, dall’altra opposizione di interessi, e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a danno degli altri: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e l’inseparabile accompagnamento della nascente disuguaglianza. […] Fu così che le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, lo sfrenarsi delle passioni di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e cattivi. Fra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante sorse un conflitto perpetuo che finiva soltanto con i combattimenti e le uccisioni. La nascente società cedette il posto al più orribile stato di guerra: il genere umano avvilito e desolato non poteva tornare indietro, né rinunciare alle disgraziate conquiste che aveva fatte, e con l’abuso delle facoltà che lo onorano lavorava soltanto alla sua vergogna; cosicché si portò da sé alla vigilia della sua rovina. […] Questa fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco, distrussero irrimediabilmente la libertà naturale, stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e per il profitto di alcuni ambiziosi assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. J.-J Rousseau, Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza fra gli uomini, Parte II, Feltrinelli, 1988, pp. 72, 84-86, 88. “Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e resti libero come prima”. Questo è il problema fondamentale che il Contratto sociale risolve. […] Le clausole si riducono in fondo a una sola: cioè, l’alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; poiché, in primo luogo, dandosi ognuno tutto intero, tale condizione è la stessa per tutti; e, essendo eguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla più grave per altri. […] Perciò, se si elimina dal patto sociale ciò che non ne fa parte essenziale, si troverà che può ridursi in questi termini: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo consideriamo ogni singolo membro come parte indivisibile del tutto. Subito, al posto della persona singola di ogni contraente, quest’atto di associazione crea un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che riceve da quest’atto stesso la sua unità, 2 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, formata dall’unione di tutte le altre, che si chiamava in altri tempi città, oggi repubblica o corpo politico, è chiamato ora, dai suoi membri, col nome di Stato quando è passivo, sovrano quando è attivo, potenza in rapporto ai suoi simili. Per quanto riguarda gli associati, essi prendono il nome collettivo di popolo e individualmente sono cittadini, in quanto partecipano dell’autorità sovrana, e sudditi, in quanto obbediscono alle leggi dello Stato. J.-J Rousseau, Il contratto sociale, Mursia, 1983, pp. 30-31. Benché per lui non sia storicamente accertabile e quindi sicuramente reale, anche Rousseau basa la sua teoria politica sullo stato di natura, ossia su una condizione umana originaria caratterizzata dall’assenza di leggi civili e autorità statali. Ma la configurazione rousseauiana dello stato di natura si differenzia sensibilmente da quelle dei precedenti filosofi giusnaturalisti. Infatti, contro chi aveva sostenuto la moralità dell’uomo primitivo, in quanto dotato di ragione, Rousseau afferma che il selvaggio è del tutto istintivo e dunque non può avere un comportamento morale; d’altra parte, a chi aveva asserito che l’uomo originario, in quanto privo di ragione, agisce in modo egoistico e violento, Rousseau oppone l’immagine del “buon selvaggio”, cioè di un uomo che rifugge istintivamente dalla violenza contro gli altri. Rousseau argomenta la sua reinterpretazione dello stato di natura innanzitutto sostenendo che la costituzione istintivo-naturale dell’uomo lo rende un individuo autosufficiente, cioè capace di sopperire agevolmente a tutti i suoi bisogni essenziali usando ciò che la natura spontaneamente offre, e che pertanto i primi uomini, anche grazie alla loro esiguità numerica, vivevano isolatamente gli uni dagli altri, con contatti sporadici e scarse occasioni tanto di collaborazione quanto di conflitto. In secondo luogo, Rousseau sostiene che il comportamento del “selvaggio”, cioè dell’uomo naturale, è determinato sì dall’istinto di autoconservazione individuale ma anche dal sentimento della compassione, inteso come un istintivo senso di ripugnanza per la sofferenza di un altro essere umano. Il selvaggio, quindi, secondo Rousseau, è istintivamente “buono” sia perché evita di fare del male ai suoi simili sia perché è anzi portato, se ciò non lo danneggia, ad aiutarli in caso di necessità. In questo senso Rousseau afferma che il principio del comportamento del selvaggio consiste nella massima “Fa’ il tuo bene con il minor male possibile altrui”. Ma, stando così le cose, per quale motivo i selvaggi si civilizzano? Ovvero cosa causa il passaggio dallo stato di natura alla società civile, cioè la nascita dello Stato? Rousseau risponde che la natura umana, a differenza di quella degli altri animali, è caratterizzata dalla “perfettibilità”, cioè dalla capacità di svilupparsi. Tale capacità, secondo Rousseau, include la razionalità e la libertà, in quanto sulla possibilità di svincolarsi dalla determinazione degli istinti e di modellarsi in base a una scelta consapevole. A sua volta la “perfettibilità” umana, continua Rousseau, è stimolata ed attivata da eventi naturali esterni, fortuiti, come un’alluvione, ma anche strutturali, come la crescita demografica. Tali eventi rompono l’equilibrio naturale dello stato di natura e provocano una situazione di scarsità delle risorse. I selvaggi sono così spinti a usare la ragione per inventare le tecniche, a cominciare da quella del fuoco, e contemporaneamente a unirsi in 2 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – famiglie e in piccoli gruppi. Si tratta per Rousseau di uno sviluppo graduale che tuttavia compie un salto di qualità con l’invenzione delle tecniche agricole e metallurgiche, in quanto queste permettono di accumulare la ricchezza e così provocano l’imporsi della proprietà privata. Una volta affermatasi, afferma Rousseau, la privatizzazione della terra induce una vera e propria mutazione antropologica: gli uomini non si valutano più per quello che sono ma per quello che hanno, e sostituiscono all’ “amore per sé”, cioè al desiderio di autoconservazione, l’ “amor proprio”, cioè il desiderio di accrescere i loro possedimenti per poter sentirsi superiori agli altri. Di conseguenza il sentimento naturale della compassione si atrofizza e gli uomini, le cui occasioni di contatto si moltiplicano, aumentando così i conflitti di interessi, diventano sempre più competitivi, aggressivi e infine violenti gli uni verso gli altri. L’esito di questo processo, per Rousseau, è una condizione di guerra generalizzata permanente che induce gli uomini più ricchi a promuovere la sottoscrizione di un patto sociale, ossia la costituzione di uno Stato, come strumento per imporre e garantire la pace. Ma benché il patto sia sottoscritto da tutti, esso è in realtà il frutto di un accordo tra i ricchi per evitare di perdere le loro proprietà a favore di altri ricchi ma soprattutto dei poveri. In altre parole, lo Stato nasce e si rafforza come il mezzo principale con il quale le classi superiori si garantiscono il loro predominio su quelle inferiori. Da qui la sua originaria essenza dispotica che prima o poi lo porta ad assumere una forma assolutistica, ovvero a trasformare tutti i cittadini in sudditi di un unico padrone. In questo modo, Rousseau spiega, e al contempo condanna, l’esistenza dell’ancien régime, ovvero del sistema socio-politico dominante nella sua epoca. Ma egli vuole anche e soprattutto delineare un’alternativa, una possibilità di cambiamento, mancando la quale, a suo parere, la civiltà europea sarebbe destinata a una terribile e distruttiva rivoluzione. L’alternativa, per Rousseau, non consiste, come superficialmente potrebbe apparire, in un ritorno allo stato di natura, perché ciò sarebbe da un lato irrealistico e dall’altro non costituirebbe neppure l’opzione preferibile. L’uomo razionale e libero, infatti, secondo Rousseau, è di diritto superiore all’uomo naturale, e anche se non lo è stato finora di fatto, ha tuttavia la possibilità di diventarlo. In altre parole, per Rousseau il fatto che l’uomo, nel momento in cui ha attivato la sua libertà, abbia scelto il male, non impedisce che possa ravvedersi e scegliere il bene. Come si può conseguire questo bene? Sciogliendo, risponde Rousseau, il vecchio patto collettivo, che era in realtà il patto di una parte, e stipulando un nuovo “contratto sociale”, cioè un patto autenticamente universale. La clausola fondamentale, e sostanzialmente unica, di questo nuovo patto, secondo Rousseau, deve essere la totale alienazione, da parte di ogni individuo, di tutti i propri diritti naturali all’intera collettività e l’immediata successiva attribuzione paritetica, da parte della comunità politica così istituita, degli stessi diritti a ogni individuo, ma in quanto cittadino, cioè in quanto membro dello Stato. Ma il contratto sociale non si riduce così una banale “partita di giro”, cioè a un dare e riavere la medesima cosa? Solo apparentemente. In realtà, il patto così concepito, secondo Rousseau, in primo luogo trasforma i diritti individuali naturali in diritti individuali sociali, cioè forniti e garantiti dallo Stato, e in secondo luogo ne statuisce l’uguaglianza. In 2 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – altre parole, il contratto sociale fa sì che i diritti di ognuno, in quanto fondati sullo Stato, non possano essere goduti in modo individualistico, e quindi illimitatamente, ma debbano essere esercitati in modo collettivistico, cioè finalizzato al massimo interesse comune, e debbano quindi essere limitati. In questo senso, Rousseau indica il principio fondamentale del nuovo Stato sociale nella “volontà generale”, intesa come volontà di realizzare il massimo bene dell’intera comunità politica. Il significato concreto della trasformazione dei diritti naturali in diritti politici emerge chiaramente riguardo alla proprietà privata, da Rousseau intesa innanzitutto e soprattutto come proprietà della terra. Essa nello Stato sociale, afferma Rousseau, non sarà abolita ma commisurata alla capacità lavorativa e ai bisogni di ogni cittadino, e pertanto ogni cittadino godrà di una proprietà terriera sostanzialmente uguale a quella di ogni altro . In ogni caso, lo Stato sociale dovrà impedire che possano esserci cittadini in grado di comprare il voto di altri cittadini così come cittadini costretti a vendere il loro voto per potersi mantenere. In altre parole, la disuguaglianza economica potrà esserci ma senza mai superare un preciso limite. La preoccupazione di Rousseau per la possibile compravendita dei voti è legata al principio-cardine dello Stato sociale da lui teorizzato: la volontà generale. Per Rousseau, questa può effettivamente realizzarsi solo se lo Stato è una repubblica in cui il potere legislativo viene affidato all’assemblea di tutti i cittadini. In altri termini, per Rousseau il nuovo Stato sociale si fonda sulla democrazia diretta, cioè sulla responsabilità e l’attività politica di ogni cittadino, sulla elaborazione e sulla deliberazione delle leggi da parte di tutti i cittadini in prima persona, senza alcuna delega a rappresentanti. Solo la democrazia diretta, infatti, garantisce che le leggi realizzino la volontà generale, cioè il massimo interesse comune. Ciò implica che le leggi per essere approvate ed entrare in vigore debbano essere approvate all’unanimità dall’assemblea dei cittadini? La risposta di Rousseau è negativa: per l’approvazione di una legge è sufficiente il voto della maggioranza dei cittadini in quanto tale voto esprime comunque la volontà generale, anche se non è unanime. D’altra parte Rousseau precisa che la volontà generale non coincide necessariamente con la volontà dei più e addirittura nemmeno con la volontà di tutti. In altre parole, non è detto che una votazione a maggioranza e perfino all’unanimità garantisca l’attuazione della volontà generale. In linea di principio, infatti, afferma Rousseau, perfino una votazione unanime potrebbe corrispondere a una somma di volontà particolari, cioè a un compromesso tra interessi di parte, che è altra cosa dalla volontà generale, cioè dall’interesse comune. Ma allora come si fa a garantire che una deliberazione a maggioranza, o anche unanime, sia effettivamente espressione della volontà generale? Rousseau indica due condizioni: 1. ogni cittadino deve votare usando consapevolmente il criterio della volontà generale, cioè astraendo dai suoi interessi individuali o dagli interessi particolari del gruppo cui appartiene; 2. devono essere vietate le associazioni politiche che uniscano solo una parte dei cittadini, ovvero che dividano i cittadini in fazioni basate su interessi particolari. Una volta garantite queste due condizioni, le decisioni dell’assemblea popolare, secondo Rousseau, non possono che essere espressione della volontà generale e quindi tutti i cittadini, anche gli eventuali contrari, sono obbligati a rispettarle. In questo senso Rousseau si spinge ad affermare che lo Stato sociale è uno Stato assoluto. Stabilito che il potere legislativo, e con esso la sovranità, appartengono all’assemblea dei 2 0 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTIFICO – cittadini, Rousseau passa a configurare il potere esecutivo, cioè il governo dello Stato sociale. Egli lo delimita rigorosamente in quanto semplice strumento di realizzazione concreta delle deliberazioni legislative dell’assemblea popolare. In altre parole, il governo per Rousseau deve essere un organo tecnico del potere legislativo, cioè dell’assemblea popolare. Come tale, secondo Rousseau, esso può essere sia monarchico, sia aristocratico, sia democratico. Benché Rousseau ammetta che la scelta di una di queste tre forme di governo è relativa alle diverse caratteristiche (grandezza, economia, cultura) dei diversi Stati, egli indica come migliore in assoluto quella aristocratica, cioè quella basata su un esecutivo composto da un numero limitato di cittadini selezionati tra i più competenti dall’assemblea popolare. In altri termini per Rousseau il criterio su cui deve basarsi il governo è la competenza, e in base a questo criterio né la monarchia – in cui il capo del governo è ereditario e gli altri membri sono da lui scelti –, né la democrazia – in cui tutti i cittadini a rotazione sono governanti – possono essere le forme di governo preferibili. In particolare, a proposito del governo democratico Rousseau afferma che esso sarebbe il migliore se e solo se gli uomini fossero dei. 2 0
© Copyright 2024 ExpyDoc