MARIA ED ELISABETTA ( Luca 1,39-56) Fin da bambine/i abbiamo imparato a pregare con l’Ave Maria, una preghiera che sintetizza due momenti singolari: l’annuncio di Gabriele e l’incontro di Maria con Elisabetta narrato con grande sensibilità e maestria dal vangelo secondo Luca. “Ave Maria piena di Grazia il Signore è con Te …” è quanto abbiamo meditato prima, ora ci soffermiamo sulla seconda frase: “Tu sei benedetta fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno: Gesù”. Nel colloquio con Gabriele, Maria ha saputo che Elisabetta, vecchia e sterile, è già al sesto mese di gravidanza, per cui, narra Luca, intraprende da sola ed in fretta il lungo viaggio che la porterà dal villaggio di Nazaret, in Galilea, verso le montagna della Giudea nel villaggio di Ain-Karin, distante quattro giornate di cammino. Maria, messaggera (angelo) del Signore, si fa prossimo solerte, benedizione e aiuto concreto per Elisabetta. Niente permette di identificare il grado di parentela tra le due donne, tradizionalmente definite cugine, ma più verosimilmente zia e nipote. Maria “entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta” narra l’evangelista, e questo è un affronto al padrone di casa: Maria avrebbe dovuto salutare prima il sacerdote Zaccaria e solo dopo Elisabetta, ma la giovane donna è portatrice dello Spirito e questo non poteva essere comunicato al sacerdote che nel tempio quando Dio gli si era manifestato, era rimasto incredulo, sordo alla voce del Signore (Lc 1,20).Il saluto di Maria si rivolge ad Elisabetta, da donna a donna in cui palpita una nuova vita generata contro ogni speranza o aspettativa. Ambedue, a differenza di Zaccaria, chiuso alla novità, si sono aperte alla vita, e lo Spirito di Dio le ha investite della sua forza rendendole feconde, gravide di promesse. Ogni figlio che nasce è una promessa generata alla vita, è una risorsa per il futuro, è un incentivo a non perdere la speranza, a non lasciarsi catturare dal pessimismo dominante, una sfida ad investire energie per la costruzione di un bene che appartiene al patrimonio dell’umanità. “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria il bimbo sussultò nel suo grembo e lei fu ripiena di Spirito Santo” come dire che Maria sulla quale lo Spirito di Dio creatore è sceso, lo comunica ad Elisabetta che ne rimane impregnata. Il figlio che nascerà da lei è “ripieno di Spirito Santo fin dal seno materno” (Lc 1,15).Elisabetta non guarda più Maria come la sua giovane parente, ma la riconosce e la benedice come la madre del suo Signore e la proclama “beata” perché “ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45).La lode di Elisabetta a Maria contiene un implicito rimprovero per suo marito che non ha creduto alle parole del Signore, e per la sua incredulità non è in grado di proferire parole di speranza, di fiducia, di liberazione. Spesso anche noi, come Zaccaria, in momenti bui della nostra vita non siamo in grado di esprimerci se non con parole dure, pesanti, o con silenzi che sanno di sfida, di ricatto, di vendetta, dimenticando che siamo amate/i dal Padre sempre e comunque, mettiamo in forse il suo amore, quasi che lui possa ritrarlo da noi a causa della nostra indegnità o limitatezza. La nostra afasia crea separazione, distanza, anche dalle persone che amiamo, relegandoci in una solitudine muta ed infruttuosa. L’esultanza delle due donne si scioglie in un inno di lode: il Magnificat canto che può essere attribuito ad entrambe le donne, infatti non tutti i testi antichi del vangelo di Luca hanno come soggetto del Magnificat Maria, Ma alcuni manoscritti latini del IV e V secolo, pongono come protagonista Elisabetta, come attestano importanti Padri della chiesa come Origene e Ireneo di Lione. Verosimilmente nel testo originale Lc ha la- sciato volutamente ambiguo il soggetto, in seguito la maggior parte dei copisti ha rimediato inserendo alcuni il nome di Maria, altri quello di Elisabetta, in quanto alcuni versetti del Magnificat sembrano più riferirsi a lei: “Ha guardato l’umiliazione della sua serva” (e non l’umiltà) intendendo l’onta della sterilità che aveva colpito Elisabetta. E lei, come Anna, la madre di Samuele (!Sam !,6) benedice il Signore. Inoltre l’inno, posto in bocca ad Elisabetta, sarebbe parallelo a quello del marito Zaccaria (Lc 1, 67-79) . Il cantico del Magnificat esprime una lode appassionata all’amore fedele di Dio e un duro e sferzante attacco alle ingiustizie perpetrate dagli uomini dominati da una logica di sopraffazione e di separatezza. E’ una lode alla sorgente della sapienza divina offerta al mondo a piene mani, la sola che può liberare le creature dall’inganno del male, difendendole da ogni sopruso e dal tragico imbroglio generato dal maligno secondo cui “chi raggiunge potere e autorità è nella verità e nella giustizia”. Occorre sgombrare la mente da questa menzogna, perché solo quando i popoli del mondo comprenderanno che non è l’autorità a possedere la verità, ma è la verità ad essere autorevole, non si ,lasceranno più facilmente sottomettere e sfruttare. Il Magnificat è un invito chiaro e deciso, rivolto ad ogni persona a non servire più il potere degli uomini, ma ad aprire il proprio cuore ad accogliere l’amore incessante che Dio ci dona in modo gratuito e incondizionato. E’ un invito a prendere consapevolezza che le consuetudini, le paure, le abitudini, le convenzioni condizionano la coscienza, non le permettono di individuare il gioco devastante dei potenti mirante a piegare le ginocchia e la schiena dei più. Il cantico presenta Dio con tre nomi: Kyrios = il Signore del mondo, il Padre fedele, il creatore di tutto Soter = il Salvatore (Gesù) la Via, la Verità, la Vita che rivela il volto del Padre Dynamis = Spirito divino che pervade la vita, nessuno può sapere “di dove viene e dove va” e radica le creature nella sua stessa energia vitale. Questa trinità d’amore, sorgente di vita lavora nelle coscienze di quanti l’accolgono per liberare l’umanità dai tre mali che governano il mondo e irretiscono, come piovra con i suoi tentacoli, le creature umane. La sua azione “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore”: i superbi sono seminatori di idolatria perché pongono se stessi al posto di Dio, vivendo in una costante menzogna, nell’affermazione progressiva del proprio “ego”; “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili”: i potenti sono coloro che usano il potere e la prepotenza per sottomettere l’uomo e si oppongono all’azione dello Spirito che è grazia, bellezza, armonia. I loro desideri sono macchinazioni con l’unico scopo di dominare il mondo e lo raggiungono tenendo tutto e tutti sotto controllo, creando così vaste aree di sofferenza, di ingiustizia, di conflitti, di schiavitù. L’energia dell’amore di Dio disperde questi progetti nella loro essenza, mostrandone l’intrinseca inefficienza e inutilità. Ci sono due tipi di umili: gli umiliati, coloro che sono scavati dalla sfiducia in se stessi, dalla paura del giudizio altrui, dal timore di non riuscire in nulla: sono i sommersi del mondo e della storia. Ci sono poi altri umili per scelta di amore, che confidano in Dio, non scendono a compromessi con nessuna forma di potere, di ingiustizia, di competizione e possesso. Sono gli umili delle Beatitudini, coraggiosi, felici anche nelle persecuzioni, mai sottomessi, né rassegnati. Sono i “servi” i sapienti che fanno propri i desideri di Dio e si mettono al loro servizio con piena autonomia, riconoscendo nella verità di Dio l’unica autorità. “Riempie di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote”: agli offesi ed umiliati della storia, assicura il cantico, viene resa giustizia perché molti sapranno condividere ciò che sono e ciò che hanno riducendo all’essenziale il proprio stile di vita. Coloro invece che della disonesta ricchezza hanno fatto lo scopo del proprio stare al mondo e perseguono il proprio obiettivo a scapito del benessere di tutti, sperimentano la vacuità dell’accumulo, l’insensatezza nel perseguire i beni materiali che “il ladro ruba e la tignola consuma”. Come Abramo, capostipite di un popolo, anche ciascuno di noi può essere il segno di una nuova umanità per la quale la terra di provenienza, la famiglia, la tradizione, le norme non sono più un riferimento spirituale significativo, ma cordoni ombelicali che frenano l’autentica crescita ed espansione dello spirito. Il Magnificat invita a cambiare il modo di desiderare il bene, di pregare, di pensare e concepire la salvezza per se stessi e per tutti, esorta ad agire ogni giorno con coraggio perché l’umanità nella sua interezza, con i suoi bisogni e potenzialità fisiche, psicologiche, spirituali, conosca e sperimenti “nuovi cieli e nuova terra”. Il messaggio di liberazione annunciato nel Magnificat si realizza quando le creature umane sperimentano Dio come Padre e si faranno simili a lui nell’amore gratuito e incondizionato per tutti. Maria, scrive Luca, rimase con Elisabetta “circa tre mesi, poi tornò a casa sua” (Lc 1,56). L’indicazione dei tre mesi non è una mera precisazione temporale, ma Luca fa riferimento ad un importante episodio della storia di Israele quando l’Arca dell’Alleanza rimase tre mesi in casa di Obed – Edom di Gat e il Signore benedì lui e la sua casa.(2Sam 6,11; 1Cr 13,14). L’evangelista vede Maria come la nuova “Arca” del Signore, fonte di benedizione per la casa di Zaccaria. Nelle litanie mariane c’è l’invocazione “Foederis arca” = arca dell’alleanza per la sua perenne fedeltà al progetto di Dio. Ma le sorprese non sono fi- nite. Quando dopo otto giorni “vennero per circoncidere il bambino e per chiamarlo con il nome di suo padre” perché come Zaccaria sarebbe stato sacerdote, Elisabetta si oppone, interviene con fermezza dicendo: ”No, si chiamerà Giovanni” (Lc 1,59-60) Impensabile all’epoca un tale comportamento in una donna, ma ad Elisabetta, piena di Spirito Santo, Luca attribuisce lo stesso ruolo dell’angelo del Signore che aveva annunciato a Zaccaria la nascita del figlio che si doveva chiamare Giovanni. I presenti protestano perché una cosa del genere non si era mai verificata: si è sempre fatto così, perché cambiare? Spesso, specialmente le persone molto religiose, scambiano per fede le loro certezze che non sono disposte a mettere in discussione ed alzano un muro ad ogni proposta di cambiamento, quasi che esso metta in scacco o in qualche modo faccia tremare le fondamenta del proprio essere costruito con rinunce, sacrifici e mortificazioni. I parenti cercano l’appoggio del padre, rivolgendosi a lui con cenni, dato che è ancora muto per la sua incapacità di accogliere la novità annunciata dall’angelo del Signore. Ora, lontano dal tempio, non più in funzione sacerdotale, ma in veste di padre, Zaccaria finalmente comincia a capire che la missione del figlio sarebbe stata quella di “ricondurre il cuore dei padri verso i figli”(Lc 1,17). I padri, eredi delle tradizioni e del passato, dovevano rinnovarsi dal di dentro per accogliere il nuovo che veniva avanti con i loro figli. E come afferma Paolo in 2Cor 4,13: “Ho creduto, perciò ho parlato” Zaccaria fa cadere ogni riserva, accoglie in pieno il messaggio e può finalmente parlare, confermando: “Giovanni è il suo nome” (Lc 1,63).Tutti si rendono conto del radicale cambiamento avvenuto in quella casa per opera dello Spirito Santo. Il sacerdote sordo e muto intona un inno di ringraziamento a Dio: “Benedetto il Signore, il Dio di Israele che ha visitato e redento il suo popolo”. Ancora una volta, il brano appena meditato ci fa comprendere che gli evangelisti non sono semplici cronisti di fatti, ma teologi che vogliono trasmetterci verità di fede, messaggi di liberazione validi per gli uomini di ogni tempo e luogo. La preghiera dell’Ave Maria è costituita di due parti: la prima, come abbiamo visto di carattere eminentemente biblico, la seconda “Santa Maria, madre di Dio ….” di carattere teologico. Mentre la prima parte è testimoniata nell’uso liturgico fin dal IV secolo, la seconda entra nell’uso solo nel XIV secolo. Nel 1568 Pio V la introduce nel breviario. Maria qui è invocata come “Madre di Dio” (Teotokos) espressione potenzialmente esplosiva e contraddittoria, ma contenente la convinzione che nella persona di Gesù Cristo l’umanità e la divinità sono una cosa sola, per cui ogni dualismo tra materiale e spirituale non ha consistenza. Il titolo di “madre di Dio” fu sancito nel Concilio di Efeso del 431 contro Nestorio, patriarca di Costantinopoli, che accentuava l’umanità di Gesù e considerava più opportuno chiamare Maria con il titolo di Madre di Cristo. Cirillo, patriarca di Alessandria, era di opinione contraria. Dopo varie dolorose vicende la questione venne decisa dall’autorità imperiale, non con un documento ufficiale, bensì con una lettera. L’espressione :”…prega per noi peccatori…” è tipica di una teologia che considera con pessimismo l’umanità (“massa dannata” secondo S. Agostino), mentre nel Vangelo Gesù ci ha rivelato che Dio ci guarda come figli fragili sì, ma sempre figli che avvolge nel suo amore gratuito e incondizionato.
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