Franco Carlisi - Siamo sommersi da un profluvio di immagini che passano davanti ai nostri occhi senza sfiorare la nostra memoria. Eppure capita, a volte, di imbattersi in fotografie impossibili da dimenticare. E non perchériguardino il nostro vissuto o ci avvicinino allo scandalo dell’orrore, ma perché contengono un fondo, un significato non dichiarato che genera dentro di noi un’inquietudine, una lacerazione nella consapevolezza di ciò che siamo e di come ci situiamo all’interno di questo mondo; un’incertezza nella definizione di quell’ambigua linea di confine che separa ciò che è giusto da quello che non lo è. In particolare,non riesco a dimenticareil bimbo,pelle e ossa, rannicchiato su se stesso, nel mirino non soltanto di Kevin Carter ma anche di un avvoltoio che, ritto sulle zampe, con le ali chiuse, è in attesa di vederlo morire. Così recita la didascalia: “A vulture watches a starvingchild in southern Sudan, March 1, 1993”.Un’immagine divenutaun’icona del Terzo Mondo e della fame nel Terzo Mondo. E, benché meno simbolica, non dimentico la foto dell’uomo che, nel bagno circondato da specchi, picchia selvaggiamente la moglie mentre in un angolo si intravede Donna Ferrato,appoggiata su un piano del lavabo, intenta a scattarenascosta dalla macchina fotografica. Questa fotografia fa parte di una serie che valse a Donna Ferrato il Premio Eugene Smith nel 1985 e spinse la fotografa a consacrare l’opera di una vita al tema della violenza tra le pareti domestiche e a fondare un’associazione per l’assistenza alle vittime di violenza familiare. Donna Ferrato è mentore di un’altra fotografa, Sara Naomi Lewkowicz,vincitrice quest’anno del primo premio nella sezione ContemporaryIssues al World Press Photo e già premiata in Italia al Festival della Fotografia Eticacon il reportage A portraitofdomesticviolence. Leimmagini di Sara Naomi Lewkowiczdescrivono la violenza subita da una giovane mamma, Maggie, per opera del compagno Shane, sotto gli occhi terrorizzati della figlia piccolissima ma anche sotto quelli attenti - e fedeli al proprio ruolo–dellaLewkowicz. Le fotografie sorprendono -e sarà questa la ragione del loro successo- per una qualità formale inattesa di fronte a un tema così difficile da documentare. Riprendere la violenza tra le mura di casa prevede infattiuna prossimità, una sorta di intimitàtra fotografo e fotografato,un coinvolgimento che rende problematicol’esercizio del ruolo di reporter in quel contesto. Guardando le fotografie di Sara, a una prima occhiata, mi pare assurdo che la scena sia vera.È possibile che l’uomo non si sia accorto della presenza così ravvicinata della fotografa? Probabilmente è così. O forse ne è perfettamente consapevole:nell’era del Grande Fratello la realtà stessa si completa nella sua rappresentazione.Trasformare la vita, anche quella dei momenti privati e più cupi, in una recita, appare come un mezzo per intensificarla. Divenire protagonisti di una foto viene percepito come un incremento di essere,l’esaltazione della propria individualità e preziosità ratificata nella sola maniera ritenuta possibile: attraverso la sua rappresentazione pubblica. Viene da pensarela solita considerazione: il condizionamento subìto dall’osservato per la presenza dell’osservatore. Se la fotografa con la sua presenza non ha inibito l’azione violenta, può addirittura averla prolungata, sobillata, proprio a causa di quell’ansia di protagonismo ed egocentrismo che caratterizza le persone violente. Ma c’è ancora di più,si aggiunge un’ulterioreelementodi inquietudine e di imbarazzo di fronte aun atteggiamento difficile da decodificare: una persona assiste a un atto di violenza, perpetrato davanti ai propri occhi,e non sta ferma – come, al limite, ci si potrebbe aspettare da chi in stato di shock non riesce a muoversi - piuttosto agisce, ma per fotografare.Chi avrà rassicurato Donna Ferrato o Sara Naomi Lewkowiczche l’esito di quei pugni non sarebbe stato letale? Perché non si sono opposte in qualche modo a quanto avveniva? Per denunciare, dicono Donna e Sara; per rendere visibile ciò che è solo detto, per smuovere gli animi. Sara Naomi Lewkowicz dichiara in un articolo di essere riuscita, in quei frangenti, a recuperare dalla tasca dell’uomo il proprio cellulare, che precedentementelo stesso Shane aveva sottratto sia alla fotografa sia alla compagna. E che cosa fa Sara quando rientra in possesso del cellulare?Lo dà a un’altra persona, presente nella stanza, chiedendole di chiamare la polizia: lei non può, è impegnata a documentare. A un fotografo di guerra, che si trovi a scattare in condizioni critiche non si può chiedere un atto temerariosenza mettere seriamente a repentaglio la sua vita. Che cosa potrebbe fare per evitare l’imminenza di uno scontro? O per evitare che un’ingiustizia si compia? Nulla. Il fotografo può, in questo caso, svelare la tragedia all’opinione pubblica, spesso ipnotizzata dalla televisione o condizionata da un giornalismo “embedding”; può documentare ma non può cambiare lo svolgersi degli eventi.In una situazione come quella di Donna Ferrato o Sara Naomi Lewkowicz non funzionaperò nello stesso modo. Il fotografo è all’interno di mura domestiche in cui sono presenti anche dei bambini; non riesce a separare se stesso dal proprio ruolo: sceglie di non intervenire e di fotografare il fluire degli eventi. Ma ritorniamo a Kevin Carter e alla sua immagine icona. Numerose furono le critiche che giunsero a Carter per quella foto. Che cosa era successo dopo lo scatto a quel bimbo? Carterpare non sapesse rispondere. Qualche tempo dopo si uccise.Solo anni dopo si scoprì che il bambino era sopravvissuto (nella foto è peraltro visibile il braccialetto bianco della locale missione ONU nella qualeil bimbo era stato già accolto e registrato).Carter forse aveva taciuto che il bimbo era già sotto la cura dellaOngMedici nel Mondo per non sottrarre un’ulteriore cifra di tragicità all’immagine,ma non poteva essere in alcun modo responsabile di quell’evento e nulla di più poteva fare di quanto non stessero già facendo gli operatori sanitari. Nulla di più, tranne scattare, tranne mostrare al mondo il volto assassino della carestia. Così mentre Kevin Cartersi situa nell’evento promuovendo una reazione nella coscienza dell’osservatore,Sara Naomi Lewkowicz, nonostante le sue migliori intenzioni,rischia di situarsi nell’evento promuovendo nell’osservatore l’inazione a favore della spettacolarizzazione. L’eticità delle sue fotografiesembra risolversi nel messaggio esplicito che apparentemente veicolano: “Attenzione alla violenza domestica! Guardate che cosa può accadere!”. Main fondoA portraitofdomesticviolenceappare intriso di un contenuto implicitoche non ha nulla di eticoperché promuove la passività, alimenta e legittima quella cultura dell’indifferenza così largamente diffusa nella nostra società;ci trasforma in spettatori inerti di un atto di violenza che diviene spettacolo avendo perduto la sua valenza drammatica per il solo fatto che la fotografavi assiste esattamente come avrebbe fatto di fronte a una fiction.Nessuna immedesimazione con la vittima, quanto piuttosto con il fotografo che “coglie l’attimo”, “che non si ferma davanti a nulla”. Non più testimone partecipema semplicespettatore, come tutti noi. L’eticità della fotografia consistenell’eticità dello sguardo del fotografo. Franco Carlisi
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