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Sarajevo, l’epopea dei centri commerciali
Andrea De Noni |Sarajevo
9 aprile 2014
Dal 20 marzo scorso la capitale bosniaca ha un nuovo centro commerciale, il “Sarajevo City
Center”. È il quarto nel raggio di un chilometro, in un paese dove la popolazione tende a
impoverirsi sempre di più
Il grande palazzo a Marijin Dvor, a cinquanta metri
di distanza dal parlamento, non è stato nemmeno
completato.
C’è
tutta
una
parte
che,
per
il
momento, è rimasta vuota e nella quale solo ora
cominciano a essere montate le vetrate. Sarà
terminata nei prossimi mesi, e in futuro verrà
adibita a uffici e appartamenti. Per ora, solo la
base
della
quattro
costruzione
piani
è
sviluppati
aperta
al
pubblico,
prevalentemente
in
orizzontale che ospitano un centro commerciale. È
Sarajevo, il BBI (Foto M. Fontasch)
il quarto, nel raggio di meno di un chilometro.
Il Sarajevo City Center è l’ennesimo grande magazzino ad aprire i propri battenti nella città, dopo che negli
scorsi anni avevano visto la luce il BBI, Alta e, davanti all’ambasciata americana, Importanne. Dopo qualche
rinvio, è stato ufficialmente inaugurato il 20 marzo scorso, alla presenza di circa cinquecento sarajevesi,
dell’ambasciatore saudita, dell’Alto rappresentante internazionale Valentin Inzko, del sindaco di Sarajevo Ivo
Komšić e di Sulejman Al-Shiddi, il proprietario dell’omonimo gruppo di investimento che formalmente
possiede l’immobile. “Questo centro commerciale vuole essere il nostro regalo ai cittadini di Sarajevo”,
dichiarava raggiante Al-Shiddi, mentre Valentin Inzko sottolineava come “questo palazzo diventerà presto
uno dei nuovi simboli della città”.
Le due Sarajevo
Il Sarajevo City Center, secondo le dichiarazioni della proprietà, permetterà la creazione di 1.500 posti di
lavoro, ripartiti nei più di cento punti vendita distribuiti su 49.500 metri quadrati. Un’opera mastodontica.
Non è semplice tentare di descrivere lo stato d’animo della cittadinanza di fronte alla notizia della sua
apertura. L'inaugurazione è infatti avvenuta in un momento molto critico per la Bosnia Erzegovina, a un
mese di distanza dalle proteste che hanno visto la popolazione ribellarsi contro un ventennio di governi
parassitari. La partecipazione alla cerimonia d’inaugurazione, però, ha pur sempre avuto dimensioni
comparabili a quella del primo plenum cittadino e oltre dieci volte maggiori rispetto all’attuale dimensione
della protesta, che continua quotidianamente nella capitale, ma che ormai non riesce a portare nelle strade
più di una trentina di persone.
L’ideale contrapposizione tra queste “due Sarajevo” è inevitabile, per quanto forzata, e si percepisce nei
commenti che si sentono qui, tra i cittadini: se per alcuni “l’unico vero regalo sarebbe una fabbrica, altro che
shopping”, altri sono meno critici nei confronti dell’opera di Al-Shiddi. Anche un’attività commerciale crea
posti di lavoro. E un nuovo tempio del commercio, nel quale opereranno anche marchi di rilievo
internazionale (in particolare Zara, che ha aperto il suo primo punto vendita in città, e sul quale i sarajevesi
hanno non poco fantasticato, nel corso degli ultimi mesi) è pur sempre sinonimo di novità, di cambiamento.
Lo shopping costa meno dello psichiatra?
Dopo tre settimane, comprensibilmente, esaurita l’euforia dei primi giorni, anche la curiosità nei confronti del
City Center è andata placandosi. Visitandolo oggi, ci si imbatte in qualche centinaio di persone che
passeggiano tra le boutique. In pochi, però, comprano effettivamente qualcosa – una tendenza già messa in
evidenza, qualche tempo fa, proprio su Osservatorio– e quelli che sono in condizione di permetterselo lo
fanno, per lo più, pescando qualche maglietta dai cestini con le promozioni, acquistandola per pochi marchi.
In compenso, i bar all’interno del centro sono pieni, così come le aree attrezzate a sala giochi al terzo e al
quarto piano. I centri commerciali, a Sarajevo, sembrano così avere una funzione “ricreativa”, socializzante,
piuttosto che commerciale: così come i suoi omologhi, anche il City Center resta per lo più un luogo dove
sorseggiare il caffè o mangiare un trancio di pizza.
In definitiva, il complesso sembra essere soprattutto un monumento al mito dello shopping, più che un luogo
dove consumarne concretamente il rito. All’ingresso, una ragazza si fa immortalare dal proprio compagno di
fronte alle modelle sorridenti di un poster pubblicitario. I muri sono ricoperti di slogan, citazioni, aforismi in
inglese e bosniaco: “Chiunque abbia detto che i soldi non fanno la felicità, semplicemente non sapeva dove
fare shopping”; o ancora: “Le donne hanno bisogno di cibo, acqua, complimenti e, di tanto in tanto, di un
nuovo paio di scarpe” (una galleria completa è stata realizzata da ‘Radio Sarajevo’ed è visibile a questo
indirizzo).
Proprio una di queste scritte ha innescato, poco tempo fa, una piccola polemica. La frase incriminata era “lo
shopping costa meno dello psichiatra”, ed ha suscitato la risposta indignata di una giovane psicoterapeuta
sarajevese, Tihana Majstorović, che ha scritto una lettera aperta per difendere la propria dignità
professionale e scagliarsi duramente contro la mentalità contenuta nel messaggio. “Non c’è davvero nessun
bisogno di ricordare come la nostra sia una realtà molto complicata, che ha subito molti traumi e perdite;
non c’è bisogno di sottolineare quanto la gente abbia sofferto per la guerra, e continui a soffrire tuttora: si
tratta di gente che resta isolata nelle proprie case, che cerca disperatamente una via d’uscita dalla propria
condizione spesso attraverso comportamenti malati, si uccidono, bevono, piangono, torturano animali,
picchiano i propri figli…”
Tihana, intervistata da Osservatorio Balcani e Caucaso, difende il proprio j’accuse: “La mentalità bosniaca è
molto tradizionalista, spesso il terapeuta non è visto come una figura di riferimento. Qui la gente va più
facilmente da un omeopata, da un curatore oppure da un religioso. E messaggi come quello apparso sui muri
del City Center non fanno bene alle persone”. La psicoterapeuta non critica, in sé, lo shopping o l’apertura
del centro commerciale, ma “il messaggio che il consumismo sia la soluzione ai problemi che ci affliggono”.
I centri commerciali, tra utopia e rimpianto
Majstorović si spinge oltre, cercando anche di spiegare la formula del ‘successo’ che i centri commerciali
hanno avuto nel corso degli ultimi anni. “Occorre dire che qui a Sarajevo esiste ormai una classe sociale che,
per quanto ristretta, può effettivamente permettersi di godere il proprio stipendio. Esiste una ‘classe media’,
relativamente benestante, che non è soltanto composta dai dipendenti delle organizzazioni internazionali”.
Ma è anche vero che “è diffuso, nella gente di qui, un certo tipo di mentalità che ti spinge a vivere al di sopra
dei tuoi mezzi, un senso delle priorità molto distorto, per cui può capitare che una famiglia di contadini sia
poverissima, ma tenga in salotto una televisione al plasma, soltanto per impressionare i vicini”.
Se è vero che la popolazione bosniaca è povera, occorre anche dire che spesso ci si imbatte in segnali
discordanti: per la Banca Mondiale, un bosniaco su 5 vive sotto la soglia di povertà (dato evidenziato in un
report del 2013). Il salario medio si aggira sui quattrocento euro. Ciò nonostante, soltanto nel 2012 nel
paese si sono vendute circa 85.000 automobili di lusso, come scrive Večernje Novosti. E molte agenzie
turistiche locali (Centro tours, Relax tours e Nebo tours, soltanto nella capitale) quando organizzano dei
viaggi in Italia, inseriscono nel loro itinerario, immancabilmente, una visita all’outlet di Palmanova, tappa
obbligata durante le escursioni tra Venezia e Verona.
L’agenzia Damy, di Sarajevo, aveva addirittura pensato a un pacchetto di tre giorni: partenza dalla capitale,
una giornata di shopping, e ritorno. Il costo? 65 marchi. Il tentativo, ad ogni modo, non è andato
particolarmente a buon fine, ci spiegano all’agenzia. “In realtà, solo qualche decina di persone ha
partecipato. I prezzi di Palmanova, generalmente, sono troppo alti per le nostre tasche”.
Il fatto, però, che dalla Bosnia Erzegovina si possa progettare un viaggio di tre giorni e seicento chilometri
unicamente allo scopo di visitare un outlet italiano pone dei quesiti interessanti sul rapporto che c’è tra i
cittadini e le costruzioni come il City Center. I bosniaci forse non possono permettersi di comprare, ma è
apparentemente vero che la formula del centro commerciale risulta avere un proprio fascino, come se ci si
potesse accontentare di guardare il “sogno capitalista”, l’Europa dal di fuori, sorseggiando il proprio caffè da
uno dei tavolini tra le vetrine, preferibili – in apparenza – alle pur molte kafane della città.
È una realtà che sembra verificarsi, regolarmente, in ogni centro commerciale sarajevese. “Qui da noi
l’apertura del City Center non ha portato nessun cambiamento, la gente è numerosa esattamente come
prima”, dicono, all’unanimità, cassieri e camerieri dei bar all’interno del BBI.
Proprio il BBI, lo scorso 5 aprile, ha festeggiato il proprio quinto compleanno con un grande concerto in
piazza Djece Sarajeva. La data scelta all’epoca dell’inaugurazione, il 6 aprile 2009, non era casuale, essendo
la stessa della festa della città di Sarajevo, nella quale si commemora la liberazione della capitale
dall’occupazione nazista nel 1945, e che coincide con l’inizio dell’assedio del 1992.
Il Sarajka
Proprio il 6 aprile del 1975, nel medesimo luogo dove ora sorge il BBI, era stato aperto anche il primo centro
commerciale in assoluto della città, l’Unima, che gli abitanti ribattezzarono però velocemente Sarajka. Per la
prima volta, in piena epoca comunista, l’avvenire della città e il senso del progresso venivano direttamente
collegati con l’istituzione di un grande magazzino.
Col tempo il Sarajka divenne uno dei simboli della città e forse anche la sua distruzione durante la guerra
spiega, in parte, la fascinazione che i sarajevesi nutrono tuttora nei confronti dei centri commerciali: “Un
giorno apparve il Sarajka che, nella sua bellezza e nel suo splendore, simboleggiava la fede in una società in
crescita, nel futuro e nel progresso”, aveva scritto anni fa l’artista Nebojša Šerić Šoba nel suo blog
personale, descrivendo il suo rientro nella città e commentando la distruzione del vecchio centro
commerciale, nel quale si cominciavano a gettare le fondamenta di quello che sarebbe poi diventato il BBI.
“All’inizio ho cercato di rincuorarmi dicendomi che, dopotutto, il Sarajka era soltanto un edificio orrendo. Ma
in fondo, non è che desse poi tanto fastidio. Lì dentro avevo comprato la mia prima chitarra, la mia prima
bottiglia di vino, i dischi dei Led Zeppelin e dei Deep Purple. Quando ero ragazzino, per me quello era un
posto pieno di giochi, di tutto ciò che si potesse desiderare. Un posto magico”.