Aida 1913, 1982 - Il Saggiatore

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Si ringrazia la Fondazione Arena di Verona
per la gentile collaborazione.
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini
e dei testi, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.
La traduzione dall’italiano all’inglese è di Giuseppina Maria Sella.
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© il Saggiatore S.p.A., Milano 2013
Sommario
Premessa 2013
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Premessa 1982
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Aida 1913, 1982
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Appendice
Il «programma» egiziano
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L’Aida di Bibbiano (Reggio Emilia) del 1897
160
Teatri d’estate dal Corriere della Sera 11-12 settembre 1901 – Parigi 168
Su Franz Kafka presunto spettatore all’Aida del 1913
168
Aida, Roma 1914
171
La scenografia nell’Arena di Verona di Ettore Fagiuoli
173
Manifesto dello spettacolo
178
Aida 1982, 2013
179
Interviste
A Corrado Ferraro
243
A Francesco Girondini
247
A Paolo Gavazzeni
255
Conclusioni
261
Ringraziamenti e fonti
265
Aida 1913-2013
History and Images of the Best Aida ever Staged
271
Premesse
Premessa 2013
Diario per una regia all’Arena fu il sottotitolo del libro che il Saggiatore volle pubblicare
nel 1982 per documentare ricerche e studi, sviluppati con criteri non comuni, per la nuova messinscena di Aida, ipotesi di rievocazione della storica rappresentazione del 1913,
che aveva inaugurato gli spettacoli d’opera nell’anfiteatro veronese.
Il volume viene qui riproposto integralmente perché fornisce la singolare storia della
nascita di un progetto che ha conseguito un esito eccezionale: è la documentazione della
proposta che l’indimenticabile sovrintendente Carlo Alberto Cappelli mi fece e del lungo lavoro di ricerca che fu alla base della mia fortunata regia.
Le ultime pagine del libro, uscito poco prima dell’andata in scena di quell’Aida del
1982, elencavano la distribuzione degli artisti e dei tecnici che avrebbero partecipato alla
prima rappresentazione del 10 luglio. Io e Cappelli eravamo convinti della validità della
proposta, ma non potevamo immaginare che la nuova realizzazione scenica, ispirata dai
pochi documenti del 1913 rimasti, sarebbe diventata lo spettacolo più replicato nella storia ormai centenaria dell’Arena.
Qualche dato: 212 repliche fino al 2012 e la presenza nella stagione del Centenario
del Festival lirico; il numero di spettatori a questa Aida, soltanto in Arena, ammonta a
quasi due milioni (1 903 610) fino al 2012, per 17 stagioni, con un incasso che ha superato i cento miliardi di lire (102 658 694 648 lire per l’esattezza) e successivamente quasi
raggiunto i 35 milioni di euro (34 653 784,16).
Non vi è dubbio che la soluzione scenografica del 1913 dell’architetto veronese Ettore Fagiuoli risolvesse in maniera esemplare la presenza di Aida di Verdi nel monumento
antico, sintesi estetica fra le esigenze del melodramma e l’architettura romana.
La riproposta dell’Aida del 1913 nell’anno del Centenario è la conferma della geniali-
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tà delle invenzioni del Fagiuoli e della qualità scenica della nostra realizzazione del 1982.
Per questo vogliamo qui documentare l’eccezionale e continua accoglienza da parte del
pubblico e della stampa allo spettacolo, divenuto ormai un simbolo della storia dell’Arena.
Dall’ormai lontana stagione 1982, organizzata dal sovrintendente Cappelli, la sua ultima, alla stagione del Centenario, con il giovane sovrintendente Francesco Girondini,
sono passati trent’anni di successi di questa Aida in Verona e all’estero, Giappone, Israele, Austria e Germania. Un lungo viaggio, per cui vada il mio ringraziamento prima
di tutto alla Fondazione Arena di Verona per la costante collaborazione e con particolare commozione a Luca Formenton, che, coadiuvato da Marica Fasoli e Paola Sala, con il
suo Saggiatore ha inteso continuare la politica culturale di suo padre Mario, amico carissimo, che volle pubblicare Aida 1913, 1982.
Gianfranco de Bosio
Premessa 1982
Genere paradossale e incoerente, il melodramma continua a spiegare i propri sortilegi,
a sedurre gli spettatori, a stimolare le intelligenze critiche. I luoghi scenici si moltiplicano: il melodramma esce dalle sue sedi deputate per invadere i campi e gli anfiteatri, per
allietare le competizioni canore o i carrozzoni festivalieri. «Il teatro in musica» mi disse
un tempo ormai lontano Dimitri Mitropoulos «è un po’ come i gatti: vive sempre anche
se lo getti dall’ultimo piano.» È quello che è accaduto spesso nelle prime estive dell’Arena, che hanno contrabbandato l’idea più spettacolarmente esibizionistica dell’opera lirica. Eppure ci ritroviamo da sempre, nella seconda settimana di luglio, a Verona, magari
per ribadire i nostri dubbi o i nostri dissensi.
Da qui, e proprio da quello storico 1913, in cui venne rappresentata per la prima volta
Aida, il melodramma cominciò a uscire all’aria aperta, a moltiplicare le suggestioni loggionistiche, a divenire olimpiade, gara, corrida. Tuttavia l’ideatore di quel primo spettacolo, allestito in tutta fretta e quasi per caso, era un giovane architetto veronese, Ettore
Fagiuoli, che aveva capito intuitivamente le risorse potenziali di un nuovo spazio scenico
e che aveva ideato proprio a Verona una Aida severa, definita da alcuni elementari blocchi
scenografici che si innestavano naturalmente nella stessa struttura ambientale. Il monumentale sfuggiva alle logiche della vistosa illustrazione, anche se i cronisti ci raccontano
che agivano sul palcoscenico ben ottocento comparse e che il Trionfo di Radamès non
era un corteo – secondo le precise prescrizioni verdiane – ma un affresco appariscente,
con cavalli e parate.
A quella prima Aida sottilmente studiata in tutti i dettagli ora Gianfranco de Bosio
ha voluto ripensare per il suo nuovo allestimento dell’opera: in questo diario di lavoro ci
spiega le ragioni della sua regia, nella volontà di riprendere una strada interrotta, sottopo-
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sta dallo stesso Fagiuoli a successive contaminazioni e poi totalmente alterata nelle mille
Aide che si sono viste in Arena. Certo c’è stata, è vero, un’eccezione, la programmazione
del 1969, che rimane sempre un punto di riferimento a cui continuiamo a guardare con
immutata nostalgia. La risposta a una difesa critica della tradizione – concepita come codificazione delle cattive abitudini – ci è venuta proprio quando de Bosio divenne sovrintendente dell’Ente Arena avendo al suo fianco Mario Medici come direttore artistico.
Nel breve giro di qualche mese le produzioni subirono una vigorosa sterzata e si dimostrò che lo spettacolo poteva calamitare l’interesse del pubblico senza appagarne le aspettative più ovvie. Anche i pervicaci censori dovettero ricredersi e pensare che finalmente
l’Ente Arena sarebbe riuscito a inventare una festa scenica di grande richiamo popolare,
ma nel contempo sollecitare la consapevolezza che i testi non vivono di una vita artificiale, ma stimolano nuovi strumenti conoscitivi e di comunicazione.
Punto centrale di quella esperienza fu il Don Carlo (accolto solo nel ’69 in Arena!) con
la regia di Jean Vilar alla sua prima esperienza veronese. I princìpi del grande regista francese erano in fondo basati sulla estrema semplificazione degli elementi scenografici e sul
decisivo potenziamento di quelli luministici: si inventava un nuovo spazio teatrale attraverso la valorizzazione dei vuoti contro le solite produzioni gremite e congestionate care all’Arena. C’era qualcosa di oscuro e di tragico in questa versione, una monumentalità
statica che tuttavia riusciva a divenire racconto, con il rosso e nero concepiti come altrettanti emblemi della sopraffazione clericale e della regale imponenza. Di colpo si spalancava di fronte ai nostri occhi increduli una possibilità inedita: l’Arena poteva diventare
uno spazio irripetibile proprio se strettamente collegato alla stessa finzione teatrale. Lo
scenografo era Luciano Damiani e il costumista Pier Luigi Pizzi. Fu proprio Pizzi che
negli stessi giorni, nella Turandot, giocò con Squarzina una (apparente) carta opposta:
l’immensa muraglia, nera e opprimente, svelava gli aspetti crudeli della favola pucciniana
e l’impossibilità di amare si configurava come rito di morte. Ci accorgemmo allora che
la qualità scenografica poteva divenire qui la struttura portante dello spettacolo. E ancora l’Aida, a torto censurata, di Luciano Damiani, primo esempio in Arena di una sorta di
«anti-Aida» che puntava sul ripiegamento, sull’intimismo, sfruttando tuttavia una grande
intuizione di Fagiuoli, ossia la continuità tra le gradinate dell’anfiteatro e l’illusione scenica. Ma è una via che non ha avuto seguito (a parte alcune illuminanti intuizioni della Forza del Destino di Giò Pomodoro che tuttavia ci portano su altri terreni e comunque
fuori della favola melodrammatica).
Ora Gianfranco de Bosio ci racconta la storia della genesi dell’Aida che sarà rappresentata il 10 luglio e ci spiega il perché della ricostruzione dello spettacolo di Fagiuoli del
1913 (abbiamo sufficienti testimonianze circa la scenografia per poterla ripensare oggi,
ma sono andati perduti i bozzetti dei costumi). L’idea di de Bosio parte dalla convinzione
che proprio quella prima Aida del ’13, con cui si iniziarono gli spettacoli lirici in Arena,
costituisce, assieme all’Aida del ’69, che a quell’esempio si richiama anche per le esplicite
dichiarazioni dello stesso Damiani, riportate in questo volume, l’unica interpretazione fino a oggi accettabile del capolavoro verdiano più manomesso dalla messinscena veronese. Direi che le intuizioni di Fagiuoli attualmente ci appaiono incontestabili soprattutto
nella concezione strutturale dello spazio, nonostante le inevitabili suggestioni della egittologia d’epoca. E rimane anche incontestabile la concezione tra il «grandioso» e il «lirico» che con il «fantastico» costituiscono il nucleo centrale del pensiero teatrale di Verdi.
Grandioso e lirico, appunto, non sono termini antitetici, ma complementari. Per Verdi l’uno si specchia nell’altro e viceversa: per questo siamo convinti che le Aide esclusivamente intimistiche (che oggi tornano di moda) siano altrettanto false delle Aide soltanto
spettacolari (ove si tenga conto che lo spettacolo voluto da Verdi per la Scala nel ’72 – la
rappresentazione del Cairo infatti non interessò il musicista ed egli nemmeno vi partecipò – prevedeva nella scena del corteo di Radamès oltre a 107 coristi, solo una novantina
di persone tra «trombettieri», «portinsegne», soldati, ufficiali e ballerini).
Per i costumi, invece, de Bosio ricorre alle edizioni del Teatro dell’Opera del Cairo e
della Scala del ’71 e del ’72, ai bellissimi bozzetti dell’egittologo Mariette – consapevole
però della tradizione operistica francese – e a quelli relativamente affini del Casnedi. Questa scelta, che andrà verificata alla ripresa areniana, nasce dalla convinzione del nostro regista che l’Aida di Fagiuoli probabilmente si ispirò per la costumistica alla prima piuttosto
che alle successive Aide scaligere, rimanendo indenne di fronte al gusto che incominciava
a irradiarsi all’inizio del secolo. Ci troveremo così di fronte a una specie di contaminazione fra l’edizione del ’13 e ai costumi pensati quaranta anni prima. Ciò che più interessa
tuttavia è il tentativo di cogliere alle origini il progetto dell’attuale spettacolo areniano,
che ovviamente non può essere antiquariale sia per l’incompletezza delle testimonianze,
sia perché soltanto l’intervento attualizzato della regia può rivitalizzare un cadavere (e ciò
vale per tutta la ricostruzione storicistica che oggi sollecitano gli organizzatori teatrali).
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Rimane naturalmente aperto il quesito di fondo, che è come abbiamo detto la duplicità del pensiero teatrale verdiano. C’è una lettera rivelatrice al riguardo di Verdi a Ghislanzoni che risale al novembre 1870 e che si riferisce al duetto Aida-Radamès del quarto
atto: «con le parole stesse del recitativo mi sono impasticciato nei versi settenari e ho visto che si può fare una melodia. Sembrerà strana una melodia su parole che paiono fatte da un avvocato. Ma sotto queste parole di avvocato vi è un cuore di donna disperata e
ardente di amore. La musica può riuscire egregiamente in questo stato d’animo e a dire
in un certo modo due cose in una volta. È una qualità di questa arte male considerata dai
critici». Dire due cose in una volta questo è il problema. In Aida Verdi punta con decisione
sullo sdoppiamento delle situazioni tra piano cerimoniale e piano psicologico e la pittura
del grandioso che deve ricevere l’immagine lirica. Non è il grandioso reale ma un sistema
per far sentire una situazione intima sul fondo monumentale, ovvero una spettacolarità
del lirico. L’Aida è una storia fragile, di fragilità psicologiche, quasi da dramma pucciniano, ambientata tra figli di faraoni, re etiopi, solenni immagini templari. Anche l’orientalismo è una finzione: le melodie modali, arcaicizzanti, esotiche e sacrali sono desunte
persino da canti marinari o da canti di strada parmigiani di venditori di pere cotte, alle
origini dell’invocazione delle sacerdotesse del terzo atto: «O tu che sei l’Osiride / Madre
immortale e sposa» secondo una sicura testimonianza coeva. Di qui potrebbero discendere alcuni corollari circa l’Egitto di Aida e circa le curiose collimazioni che si stabilirono al Cairo con la riproposta fedelmente archeologica degli ornamenti orientali (fatta da
Mariette sulla base della bibbia ottocentesca dei repertori egizi, lo Champollion, secondo una precisa esigenza delle autorità locali). Rimane comunque sempre attuale la celeberrima definizione di Barilli, laddove parla di un Oriente visto all’interno di un frutto
nostrano come il cocomero. Insomma l’Aida, l’opera più usurata di Verdi, continua a sollecitare una risposta proprio da parte degli allestitori scenici e soprattutto a chiedere di
essere ripensata come un racconto che non accetta più le ridondanze d’apparato ma nemmeno eccessivi ascetismi. Il melodramma celebra qui le sue sublimi incontinenze, le sue
illusioni, le sue dolcezze stremate. Con questo penetrante diario de Bosio rende generosamente giustizia a coloro che lo hanno preceduto, ci aiuta a rivedere con occhio di oggi
la lontana Aida del 1913, e ci svela i suoi segreti di bottega.
Mario Messinis
Aida 1913, 1982
3 luglio 1981
Sono a Verona con il Gruppo della Rocca. Cinque mesi di prove per impadronirci del linguaggio del mio nuovo Ruzante. Sede della «recita fantastica» è il Teatro romano, splendida cavea in riva all’Adige, il fiume che la notte senti passare fra le parole degli attori.
Nessuno lo confonde, a Verona, con l’altro luogo romano, l’anfiteatro chiamato l’Arena, il più famoso del mondo, e il più romano ancor oggi nella sua architettura non contaminata. Il Teatro romano invece contiene in sé la chiesa medievale di Santa Libera, che
sorse esorcizzante entro la cavea, ed è sovrastato da costruzioni d’altre civiltà. I cipressi
moderni e la vista della città ci trasportano in un’ambientazione romanticamente equivoca che lo rendono indimenticabile.
Perché ancora il Ruzante? Cosa significa per me questa fedeltà di oltre trent’anni? Il
rifiuto della cultura ufficiale, della lingua letteraria, la conquista del teatro teatrale, del
teatro degli attori, del linguaggio degli emarginati, dell’azione violenta sulla scena, della
forza delle parole non condizionata dalle maniere, dalle convenzioni morali e sociali; la
convinzione di riparare a un delitto perpetrato per tre secoli, l’emarginazione, l’oblìo d’un
artista grandissimo, respinto ai margini della citazione perché la sua invenzione fantastica non apparteneva più, dalla Controriforma in poi, all’ideologia dominante: i personaggi che trasmettevano l’umanità del suo messaggio erano contadini sconfitti.
Debbo incontrarmi con Cappelli.
Carlo Alberto Cappelli, Lallo, come lo chiamano gli amici, è un vero esperto d’impreditoria teatrale e lirica; da un decennio sovrintendente all’Arena di Verona mi aveva invitato come regista una prima volta nel 1977 per realizzare il debutto italiano di Romeo
e Giulietta di Gounod, e due anni dopo per la fortunata ripresa del Mefistofele di Boito.
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Ma la nostra conoscenza risaliva ancora al Ruzante; fu sempre Cappelli che nel lontano 1950 invitò il Teatro dell’Università di Padova a Bologna con la Moscheta, la mia prima messinscena professionale dell’autore prediletto.
Cappelli, allora sovrintendente del Teatro comunale di Bologna, vi aveva istituito un
Festival della Prosa, per riportare il pubblico di quella città al teatro di parola: già, perché
conviene non dimenticare che gli anni del dopoguerra e in particolare gli anni cinquanta
furono difficili, duri, per quanto riguarda l’affluenza del pubblico a teatro; i giovani oggi
forse non sanno che i loro padri, i loro nonni non conoscevano granché di teatro – non
che oggi in Italia esista un vero pubblico teatrale, ma ci si può accontentare, se ci riferiamo allo squallore del passato.
Cappelli nel ’77 mi aveva riconciliato con l’Arena, con cui avevo rotto bruscamente i
rapporti sette anni prima.
Cos’era accaduto? Ricordarlo non è senza utilità perché si possano intendere le motivazioni che mi indussero alla ricerca cui questo diario è dedicato.
Verona era stata la mia città di nascita e di educazione scolare: andai e venni e riandai
durante i primi anni dell’Università di Padova, e furono gli anni di militanza nella Resistenza; dal 1946 si può dire che tornavo a Verona soltanto per incontrare i miei genitori.
Fu per questo che, nel 1968, Renato Gozzi, un sindaco di notevole intelligenza, mi
propose di ritornare a Verona per collaborare al suo progetto di rilancio della città. Mi offrì i due incarichi di sovrintendente dell’Ente lirico Arena e di direttore artistico dell’Estate
teatrale veronese, che si incentrava sul Festival shakespeariano al Teatro romano. Si voleva
dare una rigorosa impostazione artistica agli spettacoli dell’Arena e svilupparvi intorno una
pluralità di manifestazioni che facessero dei mesi estivi a Verona un appuntamento culturale per il pubblico europeo. Un programma che avrebbe richiesto anni di attività concorde. All’inizio furono mesi di studio, poi venne l’estate del 1969, un’esperienza esaltante.
Gli spettacoli dell’Arena raggiunsero quell’anno una rara qualità: ancora viene ricordato il Don Carlo che riunì, per la prima volta in Italia e in Arena, il regista Jean Vilar, Luciano Damiani e Pierluigi Pizzi e sul palcoscenico, diretti da Inbal, Montserrat Caballé e
Placido Domingo con la Cossotto e Cappuccilli; ancora si ricordano la Turandot regia di
Squarzina, scene e costumi di Pizzi con Birgit Nilsson, Domingo e il debutto di Maria
Chiara, e la controversa Aida di Damiani di cui dovremo parlare più avanti.
La stagione lasciò un lungo strascico di memorie: nel ’76 ero a New York con Burt
Lancaster; aprendo per caso una rivista – il New Yorker – Burt vi lesse il ricordo del critico musicale di quella straordinaria lontana stagione.
Ma intorno all’Arena in quell’estate del ’69 si erano aperte al pubblico piazze e chiese, teatri e cortili di palazzi e del Castello: furono mesi di speranza.
E venne subito l’inverno, con la malevolenza, la diatriba cosiddetta sindacale, le piccole opposizioni corporative, il malgiudizio di qualche partito o, meglio, dei numerosi
sciocchi annidati nei partiti, e le assurdità della legge detta Corona, ancor oggi non corretta: una fra le molte quella di perpetuare la figura del sovrintendente così come l’aveva
voluta il fascismo, una specie di controllore-garante cui tutto si richiede salvo la competenza professionale; è già somma fortuna che agli enti venga preposta di tanto in tanto
una persona competente, e per questo fuori legge…
Perché soltanto in Italia il sovrintendente non viene scelto obbligatoriamente fra i professionisti di teatro e come professionista non viene pagato, al contrario di quel che accade in tutta Europa.
Così a primavera diedi, come si dice, irrevocabili dimissioni e conclusi il mio mandato con oltre due anni di anticipo.
Era rimasto un malumore nei miei confronti da parte dei miei pochi amici veronesi,
un rancore da amanti traditi, ma in cambio mi sorridevano paghi tutti coloro che, con la
mia partenza, avevano ritrovato voce e autorità.
Il ritorno in Arena nel 1977 fu quindi un segnale di pace che accettai con piacere: mi
consentiva di rimettervi piede nella veste che prediligo.
4 luglio
Cappelli mi ha ripetuto il suo desiderio di avermi in Arena. «Da due anni me lo chiedi»
risposi «e sono sempre costretto a dirti di no perché le vostre decisioni di repertorio avvengono troppo tardi per me, quando sono già impegnato. Non puoi dirmi adesso in luglio l’opera che mi proponi per l’anno prossimo?»
Cappelli rise: «Tu sai bene che mi è impossibile, stretto come sono fra tante costrizioni burocratiche». Se lo so, se lo so! – e so che Cappelli, lasciato libero, potrebbe in un
mese fare il programma per quattro anni! «Per adesso vatti a vedere la mostra di Fagiuoli
e ci rivediamo a settembre.» Ci lasciammo con questo appuntamento.
5 luglio
Titolo della mostra: Scenografie in Arena e Acqueforti veronesi. Un percorso di vita (18841961) che il catalogo, scritti ufficiali a parte, illustra con rigore, senza indulgenze.
Il Fagiuoli entra in Arena fin dall’inizio: è l’inventore delle scene del primo anno (1913)
e da questa esperienza di «scenografo quasi improvvisato» acquista titoli per diventare lo
scenografo dell’Arena fino al 1924 e, dopo un’interruzione, fino al 1931. Rimarrà uno dei
protagonisti sino all’inizio degli anni cinquanta. La mostra parla chiaro sulle tendenze
della scenografia d’opera in Arena, ne afferma gli orientamenti iniziali, gli sviluppi, le variazioni. Direi che si possono individuare quattro periodi nell’attività del Fagiuoli: il primo esperimento; gli anni dello sviluppo di una sua tendenza personale, in parte difforme
dall’origine, che vanno dal ’14 fino al ’31; il mutamento di stile che coincide con l’istituzione dell’Ente lirico e la pressione della cultura ufficiale fascista; la ripresa del dopoguerra.
Sorprendono nell’esame delle opere esposte la semplicità, il rigore del primo esperimento del ’13. Salta agli occhi la preoccupazione degli anni successivi di appropriarsi del
grande spazio areniano, quasi la voracità d’ingoiarne le prospettive, lasciate invece libere
nel ’13: si noti (fig. 1) la scelta di disporre gli spettatori intorno alla scenografia.
In seguito l’anfiteatro diventa sempre più possibilità e occasione di costruzioni gigantesche; lo si constata ad esempio dalla sequenza delle numerose Aide.
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1. Aida 1913. Bozzetto
di Ettore Fagiuoli
per il primo atto.
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Con la discussione postfuturista e del Bragaglia s’individua lo sforzo della stilizzazione modernista e gli echi rimandati di Craig e Appia nell’Andrea Chénier, il volumetrismo
di Aida del ’36 e la successiva stilizzazione di Carmen. Conclude l’itinerario lo spaesamento eclettico del dopoguerra, con un ritorno all’amato Wagner, vicinissimo nello stile al mondo delle acqueforti.
Rimanda invece al raro gusto essenziale del ’13 l’esempio dei Pagliacci del 1922; sembra un momento di riposo e di spontaneità nella responsabilità scenografica del Fagiuoli,
e di nuovo riappare il pubblico stretto intorno alla scena sentita circolarmente.
Lo spazio areniano attira e respinge, presume una affluenza sbalorditiva di pubblico
che insieme spaventa e affascina; di qui via via nasce l’esigenza in Fagiuoli di rispettare il
monumento, oppure di sfruttarne l’immensità per coprirlo. Con le soluzioni degli anni
trenta Fagiuoli copre ancora ma con volumi più puri, essenziali; è una soluzione intermedia quella che propone, mediana direi, fra il decorativismo assoluto e l’estrema semplicità.
Assillato dalla costante ricerca delle soluzioni pratiche per consentire montaggi
e smontaggi, ridurre i tempi degli intervalli, i problemi di stivaggio ecc., l’architetto
Fagiuoli emerge da questa mostra come lo scenografo pioniere nella storia dell’Arena.
1º settembre
C’era una gran confusione nell’anticamera della sovrintendenza: cantanti nervosi che
aspettavano da tempo di essere ricevuti, sindacalisti di opposte fazioni che tumultuavano
in un ufficio, uomini politici veronesi nello studio del sovrintendente. M’affacciai all’u-
scio, Cappelli era allo scrittoio, elegante, giovanilmente abbronzato sotto i suoi capelli bianchi – mi disse poi che era stato alla crociera annuale degli Amici della Lirica – mi
pregò di aspettarlo in uno studiolo in fondo al corridoio, sarebbe venuto subito. Così avvenne: aveva fretta, ma ebbe il tempo di dirmi che aveva pensato di riprendere l’Aida del
’13, adesso ch’erano stati ritrovati i disegni esecutivi: cosa ne pensavo?
È un’idea intrigante, gli risposi, susciterà curiosità in tutto il mondo.
«Ti andrebbe di farla?»
«Sì, è un lavoro di ricerca che m’interessa, ma vorrei fare insieme un’altra opera, una
regia di mia creazione.»
«Vuoi fare Otello con Atlantov?»
Un attimo di esitazione, mi tuffo nell’imprevisto, emozionato:
«Sì».
«Qua la mano» e me la strinse forte tra le sue «siamo d’accordo così. Ti basta vero?»
Cosa rispondere se non sì? Non era divertente nel 1981 un contratto siglato da una
stretta di mano, senza nemmeno sapere l’onorario, i tempi di lavoro, i direttori, le compagnie di canto e così via? Ma con Cappelli conviene fidarsi, e dopo inseguirlo per mettere nero su bianco.
Scappò dai suoi politici sindacalisti cantanti, mi pregò di andare all’ufficio stampa per
avere una prima documentazione; contava su di me perché organizzassi la ricerca.
Così ebbe inizio la regia di questa Aida, la mia prima regia di Aida, di un’opera che
avevo sempre temuto fra tutte perché ne avevo viste troppe edizioni e spesso deludenti, in
Arena e fuori dell’Arena; un’opera che però rappresentava anche per me, come per i veronesi popolari, «la stessa cosa», la parola omonima che significa opera lirica: «Che Aida
andemo a védar stasera in ’Rena?».
Non credo che mi sarei mai adattato a mettere in scena Aida se non si fosse trattato
di un’Aida da ricostruire, da ritrovare, e soltanto alla fine da reinventare. Né avrei probabilmente accettato se non avessi sentito nel nucleo inventivo della scenografia di Fagiuoli un germe della concezione che aveva ispirato la stagione areniana del 1969. Non avevo
dimenticato che Luciano Damiani, nel creare la sua tanto discussa Aida di quell’anno, si
era ispirato ai disegni e al concetto dello spazio, anzi della scenografia nello spazio areniano, del primo spettacolo del 1913.
2 settembre
Ho con me i primi materiali di documentazione dell’Aida fornitimi da Bruno Moreschi.
La briga di procurarmeli mi ha impedito di dedicar tempo a considerare la proposta di
Otello, vecchio desiderio diventato ora realtà. Ritorno a Milano, a casa, in treno. È un
vecchio piacere – mi ricorda i viaggi Verona-Padova al primo anno d’università – quello di leggere in treno, di astrarsi dalla gente sprofondando nella lettura; e quella sera c’erano pochi viaggiatori.
Mi leggo i capitoli dei numeri unici dell’Ente lirico dedicati all’Aida del ’13, in primo
luogo l’ormai introvabile Cinquant’anni di melodramma all’Arena di Verona del 1963. Mi
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2. Aida 1913.
Foto di scena del Trionfo
(atto secondo).
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ferma con un brivido di timore la famosa foto del Trionfo di Radamès (fig. 2), l’unico documento fotografico di una scena di massa dell’opera. Indugio ad analizzarla: d’un lato la
banda disposta a piramide fra i palmizi, con i suoi luccicanti strumenti moderni, secondo le precise disposizioni verdiane; al centro i cavalli al passo su tappeti presumibilmente
rossi rigati d’oro, i sacerdoti a sinistra in prima, il popolo dietro verso il fondo, il Re sul
podio a destra tra i flabelliferi, Amneris seduta su un tronetto portato in scena a braccia;
davanti sulla destra una sedia abbandonata e un treppiede. La foto è scattata alla luce del
giorno: saprò poi che, alla fine delle repliche, un pomeriggio fu effettuata una ripresa cinematografica del Trionfo.
La foto presenta un miscuglio di elementi accettabili e
di anacronismi sgarbati: la luce accentua il disagio. Il problema dei costumi che postula questa foto non è di semplice soluzione; il documento è evidentemente incompleto
ma il gusto è sicuramente incerto.
L’elemento scenografico, nella sua povertà, è invece nitido e, a suo modo, esauriente.
Una foto dei celebri protagonisti in abito borghese,
Ester Mazzoleni (Aida) in cuffietta bianca, la bella Maria
Gay (Amneris) in abito scuro, Giovanni Zenatello (Radamès) con un berretto a visiera di foggia americana, che
mangiano con gusto l’anguria piegati in avanti, aggiunge
un momento di verità festosa alla rievocazione.
I volti giovani dei tre e quello del maestro Tullio Serafin, il direttore d’orchestra, che appaiono in un’altra pagina con Ettore Fagiuoli danno il senso della lontananza da
quel giorno, e non sapevo che almeno Aida, Ester Mazzoleni, vive ancora, a 99 anni.
Leggo le parole di Serafin che vale la pena di trascrivere:
È ancora vivo in me il ricordo della mia prima visita all’Anfiteatro di Verona, quando, su invito di Giovanni Zenatello,
e più ancora della sua consorte Maria Gay, forte temperamento d’artista, vi fui nel lontano 1913, per decidere se trovavo consigliabile eseguirvi alcune recite di Aida. Ricordo:
era il meriggio di una giornata estiva. Solo, in quel meraviglioso monumento, rimasi per alcuni momenti combattuto.
Portare là dentro le «spade di legno» e i «cimieri di cartone»
dei personaggi da melodramma…
Però… avrebbero quegli attrezzi le note di Giuseppe Verdi!
Invitai alcuni professori d’orchestra: un oboe, un flauto, una
tromba, un violino. Ebbi subito l’impressione esatta del risultato. Singolarmente magnifico, l’oboe specialmente per la
qualità del suono penetrante; ma ridotto l’effetto delle masse, anche se numerose. Nel confronto con l’ampiezza dell’ambiente, la relatività sarebbe
stata rimarchevole. Così fu, così è. Però l’effetto generale non poteva che riuscire magnifico. Molte e ardue furono le difficoltà da superare; ma il risultato ripagò tutti gli sforzi, primo quello dei coniugi Zenatello.
Nel 1913 non esistevano, o quasi, teatri all’aperto. Quanti sono oggi? La mia natura d’artista, la mia coscienza di musicista, non ne va fiera. Al contrario; la musica va eseguita in
ambienti possibilmente intimi. Ricordo lo scherzoso detto dell’ahimè scomparso Antonio
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Guarnieri: «All’aperto si gioca alle bocce»… Aveva ragione: chiamiamoci perdonati e soddisfatti dalla divulgazione della nostra arte che tali spettacoli hanno portato.
Novello Papafava dei Carraresi, caro uomo, un nobile illuminato che sembrava scusarsi con la sua intelligenza dei privilegi della nascita – un gattopardo veneto – era presente
nel ’13, e scrive un ricordo che voglio qui riportare, almeno in parte:
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E venne la sera del 10 agosto. Clima perfetto, dopo le piogge del giorno precedente; l’aria era limpida, magnifica la luna. Entrati nell’Arena, si aveva il primo grande spettacolo: un teatro di massa, o piuttosto di popolo vivo, articolato in gruppi di persone animate
da varie correnti di attesa, di curiosità, di rispetto e di gaiezza. Un momento appariva,
in un gesto di saluto, il bianco di migliaia di fazzoletti; in un altro brillavano i lumetti di
tantissimi cerini accesi; forti mormorii d’impazienza venivano soverchiati da sibilanti zittii. Finalmente Tullio Serafin attacca. S’intuisce subito che un felice rapporto fra i volumi
dei suoni degli strumenti e del canto, e delle proporzioni visive, si stabilisce fra la scena e il grande pubblico: la particolare suggestione dello spettacolo è sorta e si accresce sino al termine. Naturalmente la grande scena del Trionfo di Radamès suscita entusiasmo;
ma il massimo dell’adesione e della fusione artistica fra spettacolo e spettatori viene raggiunto nel terzo atto: quello che ha per scena le rive del Nilo e che, apparentemente, per
la sua intimità e sobrietà scenica, non molto dovrebbe prestarsi all’apprezzamento popolare. E invece il duetto fra Aida implorante «Oh Patria mia quanto mi costi» e Amonasro
esortante a pensare «che un popolo vinto e straziato per te soltanto risorger può» domina la folla, che rimane estatica sino alla chiusura dell’atto, quando essa prorompe in una
manifestazione di commosso entusiasmo, mentre Zenatello rilancia dalla ribalta il fatidico grido: «Viva Verdi!». Sì, veramente viva Verdi; e lo diceva con tutto il cuore anche un
giovane rigurgitante di problematica mitico-concettuale wagneriana. Di certo quella sera era avvenuto qualche cosa che superava la sfera della storia dello spettacolo e incideva
nell’animo di un popolo, poiché migliaia e migliaia di persone avevano vissuto, semplicemente e sinceramente, un momento di identità di intuizione ed espressione degli schietti valori della propria vita.
Chiarisce tanto entusiasmo una asciutta osservazione di Lanfranco Franzoni, nello stesso Numero unico, nel corso d’un breve saggio sui venti secoli dell’anfiteatro: «il popolo non poteva rimanere senza gli spettacoli in Arena, dove lo spazio vasto e concluso
gli permetteva di ammirare se stesso come elemento corale e riconoscersi parte dello
spettacolo».
Nella citazione di un articolo del direttore dell’autorevole Marzocco, Angiolo Orvieto, trovo un’eccitata descrizione della scenografia di Fagiuoli:
Gli organizzatori dello spettacolo […] piegando alla dura necessità del palcoscenico moderno, hanno pur saputo con pochi segni – due obelischi, due sfingi, otto colonne abbinate,
un portale, il simulacro del sotterraneo, qualche palmizio – ottenere effetti di decorazione
scenica assolutamente straordinari. Nei palcoscenici dei teatri chiusi più ammennicolati e
più realisticamente compiuti, nelle Aide di primo ordine, sulle quali incombe l’azzurro purissimo del cielo, di carta, senza macchia, non avevamo mai veduto nulla di simile. Taluni
effetti coreografici e luminosi parvero cosa affatto nuova.
Ma anche più mirabile mi è sembrata l’ingegnosità mediante la quale, rapidamente, negli intermezzi frequenti, questi vari elementi venivano diversamente accostati a simulare la
scena diversa. La grande penombra consentiva ai macchinisti di compiere, sotto gli occhi
del pubblico, le loro operazioni, senza che all’accendersi delle luci della ribalta e al subitaneo dardeggiare dei riflettori, iniziandosi il nuovo atto, riuscisse per nulla diminuito il piacere della sorpresa. A Verona, nell’Arena, si è compiuto il doppio miracolo di sopprimere
il sipario e le quinte. Le masse e gli individui isolati uscivano, dall’ombra alla luce, misteriosamente, come se prendessero corpo e figura al primo toccare del piede sul palcoscenico. Oltre il quale vedevamo sparpagliato sulle enormi gradinate un altro pubblico speciale,
che aveva, per dir così, una visione retrospettiva dello spettacolo: un pubblico a cui le prime parti, le masse, le ballerine voltavano le spalle; ma anche questo pubblico, senza pretese, ha avuto i suoi momenti buoni: e in grazia dell’azione stessa dell’Aida, non troppo rari.
Ogni volta che sacerdoti e ballerine si voltavano a riverire l’«immenso Ftà», il pubblico retrostante vedeva le facce.
Nel Numero unico della stagione 1976 Carlo Bologna scrive un utilissimo articolo su
Giovanni Zenatello, tenore di formazione veronese, cui rimando chi voglia conoscere le
principali vicende della sua carriera artistica che lo portò nelle Americhe e in particolare a New York, la sua seconda patria canora. Penso in ogni modo che le menti più lucide
nell’intendere la proiezione nel futuro dell’opera lirica in Arena furono quelle di Zenatello e della moglie: senza la loro formazione internazionale e il loro prestigio di celebri cantanti, l’avvio dell’Arena non sarebbe stato subito così efficiente e fortunato.
Ottobre-novembre
«So di oppormi all’opinione comune, per la quale il miglior Verdi consisterebbe nell’adulterazione del genio a cui si devono Rigoletto, Il Trovatore, Aida e La Traviata; so di
difendere precisamente quel che l’élite del suo tempo disprezzava nell’opera del grande
compositore. Me ne rincresce, ma sostengo che vi è più sostanza e autentica invenzione
nell’aria della “Donna è mobile” – in cui quella élite scorgeva soltanto una deplorevole facilità – che non nella retorica e nelle vociferazioni della Tetralogia.»
È la celebre invettiva di Stravinskij a Harvard, che fissa un punto di arrivo della Verdi-Renaissance.
In settembre avevo ripreso Il Trovatore, che era stato l’ultimo mio lavoro con la scenografa Maria Antonietta Gambaro prima della sua inaspettata scomparsa: come mi manca
la cara Chicca, con cui preparavamo in mesi di lavoro segreto, lei costretta dalla nascita
in carrozzella, i modellini dei nostri spettacoli, l’Oberto, Conte di San Bonifacio, Il Trovatore appunto e le due produzioni dell’Arena, Romeo e Giulietta e Mefistofele; non potrò dimenticare come gioiva la piccola creatura degli spazi immensi.
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La frase di Stravinskij, di cui avevo realizzato con Lele Luzzati La carriera di un libertino, mi ronzava in testa – già mi aveva aiutato a superare una mia incerta resistenza ad
abbandonarmi alle onde del Trovatore; Chicca diceva: «È l’opera di Verdi che più amo» –,
ora mi serviva per accostarmi all’Aida con atteggiamento nuovo, come se l’ascoltassi per
la prima volta, e si può capire quanto questo sia difficile.
Compro lo spartito, sento Aida del ’55, dirige Serafin con la Callas, una curiosità,
poi l’edizione discografica di Karajan (1958) con lo stile di Bergonzi, che aveva avuto in
Arena nel 1969, e ancora Tebaldi e Simionato; sento ripetutamente la registrazione più
recente di Muti con Domingo, Cossotto, Cappuccilli, Ghiaurov e un’eccellente Montserrat Caballé.
Rileggo le pagine di Leibowitz, Conoscete Verdi?. Ritrovo motivi per risentire «Celeste Aida»: «una melodia relativamente semplice, senza cromatismi o grandi intervalli,
che tuttavia richiede una eccezionale potenza di mezzi vocali, se non proprio del virtuosismo. Il registro, costantemente teso, si eleva fino al si bemolle acuto nel momento in
cui lo slancio amoroso giunge al massimo dell’ardore e Radamès parla di innalzare un
trono alla donna amata. L’accompagnamento sottolinea con la sua relativa semplicità armonica il carattere per ora semplice e “tutto d’un pezzo” del giovane guerriero: ma d’altra parte attraverso la ricca varietà dei suoi moduli ritmici ci fa comprendere la generosità
del suo animo».
La lettura consigliabile per chiarezza e informazioni è quella di Tutte le opere di Verdi
di Charles Osborne, un aiuto per riconsiderare le opere verdiane. In modo conciso egli
informa delle origini dell’opera, le pagine di Auguste Mariette Bey su cui ritorneremo, le
possibili derivazioni dal Metastasio e dal Racine con la mediazione del Du Locle, la datazione dell’opera:
«Il conflitto tra l’Egitto e l’Etiopia si estese per centinaia d’anni. Intorno al 1000 a.C.,
l’epoca di Aida, avvennero varie guerre durante le quali, per una o due generazioni, l’Etiopia ebbe il sopravvento, e fu sottomessa agli egiziani solo per un periodo. Ambedue i
paesi, in quel tempo, veneravano Amon, il dio del sole, e molti personaggi reali hanno il
nome che incomincia col prefisso Am. Così, nella sinossi di Mariette, troviamo la principessa Amneris e il re etiope Amonasro».
Pure il libro di Osborne smentisce il luogo comune che Aida sia stata eseguita la prima volta in occasione dell’apertura del Canale di Suez, che in realtà era avvenuta prima
della commissione dell’opera e addirittura due anni prima della rappresentazione del Cairo, 24 dicembre 1871.
Ma questa guida critica all’ascolto delle opere verdiane fa giustizia di troppi luoghi comuni di natura musicale e artistica, fino alla conclusione che mi piace ricordare: «la più
originale opera di Verdi si conclude con un pppp. Aida è opera notevole che rischia di essere vittima della sua stessa popolarità. In un certo senso si lascia sfuggire due occasioni: non possiede l’impetuoso vigore delle vecchie opere né la penetrazione psicologica di
Otello e di Falstaff. In termini puramente musicali, comunque, è semplicemente un miracolo di bellezza melodica e di fantasia strumentale. Nonostante le sue scene di massa,
è il più intimo grand-opéra e, ascoltandola, si percepisce la grande malinconia verdiana.
Il mondo sonoro che Verdi ha creato non rappresenta una pittoresca visione dell’Egitto:
Verdi ha inventato un suo proprio Egitto come il prediletto Shakespeare aveva inventato
quello di Anthony and Cleopatra. L’uso drammatico dei ricorrenti motivi musicali è perfettamente calibrato, e l’equilibrio tra la descrizione oggettiva e il sentimento soggettivo
è perfetto. Verdi ha scritto, per i cantanti, quattro ruoli superbi; e in Amneris, che quasi
sottrae l’opera ad Aida, ha creato forse il più grande personaggio per mezzosoprano. Nei
suoi due aspetti, spettacolare e intimo, Aida è il trionfo della fantasia».
La lettura che più mi aiuta a un ascolto rinnovato è quella dell’ Arte di Verdi di Massimo Mila.
Nei suoi profili di opere scrive su Aida (e Otello) pagine indimenticabili. Il suo giudizio
appare più trattenuto di quello di Osborne, ci parla di Aida come di un amore giovanile
«di qui la speranza che si ripone sempre nel fattore esecutivo, che magari riesca talvolta
ad arrestare lo sgretolamento di questo idolo della nostra giovinezza»; da critico militante teme che l’Aida sia un’opera che «d’anno in anno diventa più difficile da rappresentare. Scenografi e registi non hanno ancora trovato uno stile contemporaneo per la parte
spettacolare e decorativa di Aida; e lo stile del secolo scorso, che trasforma i due finaloni
del primo e secondo atto in una parata da gigantesco teatro dei burattini, è irrimediabilmente perduto per il nostro gusto. Lo stesso ordine di difficoltà s’incontra praticamente
nell’interpretazione musicale dell’opera. Il progressivo allontanamento cronologico dalle
fonti della tradizione interpretativa, insieme al rapido mutamento del gusto, della cultura e del costume, rende sempre più problematica la scoperta del giusto tono, dell’accento
appropriato che riesca a conferire artistica attendibilità al fastoso dramma della principessa etiope e del condottiero egiziano».
La citazione mi fa rabbrividire, per la responsabilità che mi sono assunto di ripercorrere a ritroso il cammino della messinscena dell’opera, proprio alla ricerca dell’interpretazione perduta. Tuttavia Mila ti prende poi per mano e ti conduce a gustare «una specie
di paradossale “contro-Aida”, nella quale recedono in ombra i passi che in teatro scatenano il plauso più rigoroso, ed emergono invece tratti di consapevole maturità drammatica, ai quali poche esecuzioni, in verità, rendono giustizia».
E Mila ti guida a cogliere i valori dell’altra Aida, le battute d’introduzione dell’opera, il ritratto d’Amneris, il tema della gelosia – «cromaticamente raggomitolato entro un
minimo ambito melodico, si aggira su se stesso, irrequieto e tormentoso, come una belva in gabbia, aspettando il momento di distendersi fino alla tonica, nella sesta battuta,
con una zampata felina» – e l’insinuarsi del tema di Aida, «il mirabile» duetto fra le donne, il racconto del messaggero, e così via nel fluire dell’opera ritrovando i fili preziosi nello sfarzo della decorazione.
Seppure in Mila emerga la stanchezza critica di fronte alle pagine troppo note e acclamate dell’opera, rapinoso è il suo giudizio sul terz’atto: «selvaggiamente originale», e
ancora «mai la musica aveva espresso la patria in un senso di così terrestre animalità» a
proposito delle rievocazioni di Amonasro. Nel giudizio complessivo si sente il durevole sotterraneo amore di Mila: «singolare paradosso di quest’opera troppo amata e troppo
disprezzata per la sua facile esteriorità spettacolosa, e ricca poi di particolari di una tale
finezza che solo a un attento esame della partitura si rivelano pienamente! Sì che, mal difendibile proprio sul terreno del suo maggior successo, le parate sfarzose, le marce trion-
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fali e il colorito acceso, si riscatta poi nella maniera più imprevedibile sul terreno della
“coscienziosità drammatica”, della “diligenza nell’elaborazione tecnica” e soprattutto della “nobiltà e unità di stile” che lo Hanslick giustamente vi ammirava».
Paradosso singolare è anche quello del divario inevitabile fra l’emozione e il successo di massa che l’opera continua a suscitare nei suoi momenti più noti, e il timore critico
che il successo provoca. Mi ritorna in mente il riconoscimento di Stravinskij della «Donna è mobile». Non potrebbe il critico ritrovare la libertà di emozione di chi ascolta per
la prima volta, la libertà della giovinezza incolpevole dello stesso Mila? Ma pesa in ogni
modo la minaccia del cattivo teatro, e il sovrapporsi del cattivo gusto di rappresentazione e d’esecuzione musicale.
18 dicembre
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Dal viaggio a Verona erano passati tre mesi nei quali avevo concluso a Roma Delitto di
Stato. Ci lavoravo da alcuni anni, prima la stesura della sceneggiatura con Maria Bellonci,
scrittrice di straordinarie qualità inventive, e con Annamaria Rimoaldi, dal lucido cervello analitico; poi le riprese a Mantova e in studio e infine l’edizione che ora avevo compiuto a Roma. Avevamo definito il nuovo Delitto di Stato romanzo televisivo, per sfuggire
alla sonorità spregiativa della parola «sceneggiato» che la qualità del nostro lavoro sapevamo non meritare.
Forse era la prima volta nella mia carriera che provavo indifferenza per il consenso dei
recensori e del pubblico, che pure non mancò, tanto ero appagato del risultato del mio
lavoro. Nell’atmosfera malefica e cristallina di quella storia ero penetrato dopo una lunga
frequentazione quotidiana di quei personaggi e di quei luoghi. La presenza aristocratica
del conte Striggi, prudente e affascinante portatore di morte, era diventata familiare nelle
mie fantasie, insieme alle sue donne e alle donne del duca malato e perverso, con quei preti che gli giravano attorno, e lo splendore del palazzo, le gallerie lunghissime specchianti
il gelo della bellezza e della morte. Così ricordo ora il viluppo di delitti di quella storia, e
la morte del conte Striggi che la conclude e rinchiude, e la figura finale, impossibile, del
giovane Paride a cavallo fra gli alberi e l’erba alta delle rive del Po.
Ritornando a Milano, a casa, ritrovai dopo mia moglie e mio figlio, un grosso plico di carte: me l’aveva inviato Vittorio Rossi, architetto responsabile degli allestimenti in Arena.
Aprii il plico con la fretta di chi apre un regalo: dentro c’erano le riproduzioni su grandi
fogli dei due bozzetti rimasti dell’Aida del ’13 e i relativi disegni esecutivi; insieme, una
quantità di ritagli fotocopiati di giornali dell’epoca che Rossi aveva ritenuto utili alla descrizione dell’allestimento scenico.
Mi ci tuffai con ansia e subito la vecchia prosa mi trascinò nel divertimento della
rievocazione.
Il giornale veronese L’Arena pubblica nel numero del 29-30 luglio 1913 un articolo
d’informazione di notevole interesse: attribuisce alla prossima prima del 10 agosto l’importanza d’essere «il primo esperimento di rappresentazione di un’opera lirica moderna
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3. Aida 1913. Manifesto di Plinio Codognato.
4. Aida 1913. Locandina pubblicata nel primo «Numero unico» dell’Arena di Verona,
edizione speciale per il Centenario Verdiano.
completa all’aperto» e identifica apertamente in Giovanni Zenatello il principale meritorio responsabile dell’iniziativa.
Se la prima notizia non è esatta perché fuori d’Italia fin dal 1901 erano avvenute rappresentazioni d’opera lirica all’aperto e in particolare di Aida a Bayonne, presso Biarritz,
nel 1901 e al Cairo, alle Piramidi, nel 1912, è indiscutibile che vada attribuito a Zenatello il merito della diffusione internazionale della notizia della manifestazione veronese,
assai rapida dato che non erano passati due mesi dal varo dell’iniziativa.
Dal manifesto dell’opera, «sparso in migliaia di copie, con indovinato e largo gesto di richiamo, per tutta Italia e all’estero […], leva al cielo le vigorose braccia la colossale egizia figura ideata dal Codognato come ergentesi da una confusa teoria di gladiatori combattenti e
di torneanti cavalieri nella bimillenaria nostra Arena soffusa dell’aurea luce del sole» (fig. 3).
Dall’impresario Ottone Rovato, collaboratore di Zenatello, il cronista raccoglie molte notizie utili anche a noi.
La preparazione della scenografia si svolge senza interrompere la sera le consuete rappresentazioni del Circo Manetti installato in Arena; ogni sera il pubblico che va al circo
«osserva e commenta il progredire dei lavori d’impianto del palcoscenico».
Con il sottotitolo «Uno sguardo al palcoscenico», il giornale così continua:
Com’è noto, l’ellisse formato dal piano inferiore dell’Arena ha l’asse maggiore lungo 76 m,
l’asse minore è lungo 44 m. Circa una metà di questo elisse, verso il lato di via Leoncino,
è occupato dal palcoscenico – all’altezza del primo gradino circolare – su una superficie di
1100 mq. circa. La fronte del palcoscenico – il quale ha una profondità di 30 metri – ha
una larghezza di 42 m.; il boccascena, di 26 m.
A questo proposito, giova ricordare che il boccascena del nostro Filarmonico, ch’è pure uno
dei più ampi d’Italia, non è che di 18 m. circa. La parte anteriore del palcoscenico poggia,
ai due lati estremi, sui gradini di fianco dell’Arena con tre gradini per parte, ognuno dei più
alti dei quali regge una grande sfinge opera del nostro Righetti, lunga 6 m. e alta 2,5. Le
due estremità del boccascena sono limitate invece da due obelischi – in stile egiziano, come
ogni altra soprastruttura costituente il quadro generale della scena – che si elevano per ben
17 m. L’arcone trionfale (dal lato sempre di via Leoncino) che forma lo sfondo del palcoscenico è ricoperto da una grandiosa ricostruzione raffigurante la Porta di Tebe dalla quale
entra il colossale corteo del vittorioso Radames – corteo che, tra parentesi, sarà costituito
da circa 800 persone senza calcolare una trentina di cavalli e parecchi buoi.
Ai lati anteriori della porta, due grandi «escamilli» o zoccoli, alti 5 m., sostengono due sfingi uguali alle due che posano alle estremità del fronte del palcoscenico.
Dal monumentale portale alto 13 m. e largo 12, ergentesi come si è detto, sovra l’arcone
di fondo, si elevano al cielo per altri 5 m. due poderose antenne sorrette da mensole, dalle
quali pendono festoni e ghirlande. Questo portale serve d’ingresso principale per le masse
nelle grandi scene d’assieme, oltre che per quelle del trionfo di Radames. Gli artisti entrano ed escono di scena, normalmente, dai sei primi «vomitori» laterali (tre per parte) come,
press’a poco, da altrettante quinte.
Quanto abbiamo fin qui descritto costituisce la parte, diremo così, stabile del palcoscenico.
Passiamo ora alla parte che definiremo mobile.
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