Università degli Studi di Torino Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione Corso di Semiotica (Proff. Ferraro e Leone) a.a. 2008/2009 Dispense del corso 1 1. I processi di comunicazione La comunicazione è il contenitore della nostra vita quotidiana Va rilevato in primo luogo che il termine “comunicazione” presenta due principali accezioni. Si parla infatti di “sistemi di comunicazione” sia pensando a infrastrutture come le ferrovie, le autostrade e le linee aeree, sia pensando, nel senso delle cosiddette “scienze della comunicazione”, a sistemi che permettano qualche forma di espressione, come la lingua, il telefono o la musica. Perlopiù non c’è confusione né sovrapposizione tra le due accezioni: è per tutti intuitivamente chiaro che il treno e il telefono rispondono a funzioni facilmente distinguibili, e i “sistemi di comunicazione” del primo tipo restano ben distinti rispetto a quelli del secondo. È però interessante notare che in anni recenti si sono posti al centro dell’attenzione sistemi in qualche modo ibridi, che fondamentalmente arricchiscono le nostre risorse per la comunicazione di contenuti mentali (come era il caso del telefono o della letteratura), ma che secondariamente funzionano anche nel modo in cui i treni o gli aerei trasportano cose e persone. Internet, pensata per la “comunicazione” nel senso del telefono o del libro, è diventata anche uno strumento importante per la distribuzione di prodotti (software, musica, film) in forma digitalizzata – e non c’è dubbio che si tratti di oggetti che prima dovevano essere trasportati usando treni e furgoni. E per quanto la rete non sia ovviamente in grado di spostare fisicamente le persone, sappiamo quanto si possa in effetti parlare della dimensione spaziale in modo del tutto indipendente dalla sua fisicità. Le metafore ben note del surf sulla rete o del viaggio nell’iperspazio, lo stesso termine di sito scelto per indicare i complessi comunicativi organizzati su Internet, e altri esempi di questo genere, valgono a mostrare immediatamente come possa aver senso parlare della dimensione spaziale in modo del tutto indipendente dalla sua fisicità: la sensazione di muoversi, di accedere a un altrove, a luoghi in cui si trovano i materiali comunicativi rende l’esperienza della rete totalmente diversa da quella dei media tradizionali (ove invece è forte la sensazione opposta di ricevere materiali comunicativi restandosene fermi in uno spazio proprio). La rete offre in molti casi anche la sensazione di incontrare altre persone, di essere insieme in uno stesso spazio. Da un punto di vista non fisico ma psicologico e sociologico, la rete sposta dunque anche le persone, permette di dar vita a spazi sociali che agiscono come luoghi fisici. Questo non fa che renderci meglio evidente che la comunicazione non è semplicemente scambio funzionale di informazioni ma azione sociale, base per la costruzione di forme di aggregazione ed elemento fondamentale per la costruzione di quell’universo culturale dentro il quale collochiamo la nostra vita e le nostre attività. Più che pensare alla comunicazione come qualcosa che si svolge “dentro” un universo sociale che la contiene, dovremmo 2 insomma pensare che il mondo nel quale operiamo è essenzialmente “fatto” di comunicazione: che quest’ultima costituisce insomma più il contenitore che tutto ingloba che non una specifica attività fra le tante che ci troviamo a svolgere. Il modello di Jakobson In semiotica, il modello di riferimento per ragionare sui processi di comunicazione resta tuttora quello di Roman Jakobson, formulato nel 1958. Va detto che il senso della proposta di Jakobson è risultato poco evidente, dal momento che dobbiamo constatare come le interpretazioni che ne sono state date si presentino decisamente diverse. Ciò è dovuto principalmente al fatto che Jakobson prese le mosse dall’esposizione di un modello del tutto tradizionale, di chiara derivazione “cibernetica” (oggi diremmo “informatica”), per poi innovarne profondamente le prospettive e, sostanzialmente, rovesciarne il senso. Si trattava di dimostrare, infatti, quanto povera fosse la visione corrente rispetto alla complessità dei fatti di comunicazione. Il modello, di per sé molto noto, può essere richiamato rapidamente nei suoi sei elementi componenti: il mittente, cioè colui che invia il messaggio, il messaggio stesso, fulcro di tutto il processo, il destinatario cui tale messaggio è inviato, il canale che connette mittente e destinatario, il contesto circostante e il codice, che deve essere almeno in buona parte comune al mittente e al destinatario perché questi possano capirsi. La necessità di un “codice” segnala il fatto che neppure in una concezione semplificata si può pensare che il “messaggio” corrisponda direttamente all’informazione che s’intende inviare al destinatario: le informazioni non possono scorrere lungo i “canali” e raggiungere i loro destinatari in quanto tali, ma devono essere sostituite da elementi d’altro genere, ciò che appunto avviene tramite l’operazione detta di codifica, per essere poi recuperate e rielaborate dal destinatario tramite una simmetrica operazione di decodifica. Se il principio è già valido pensando a una comunicazione tra due macchine, lo è ancora di più e in modo più evidente quando si tratti di due (o più) esseri umani. Diciamo che il codice corrisponde a quell’insieme di conoscenze condivise che permettono di far corrispondere dei contenuti mentali a delle entità passibili di una realizzazione materiale. Sono infatti delle mere entità materiali, come nel caso di un pezzo di carta con tracce d’inchiostro, a essere chiamate “messaggi” nella terminologia impiegata da Jakobson: una terminologia, va notato, che differisce nettamente dall’uso comune, in cui 1 1 Cfr. “Linguistica e poetica”, in Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966 (l’originale è del 1958). Ricordiamo che Roman Jakobson (1896-1982) fu uno dei grandi “padri fondatori” della semiotica, e che tanto la varietà dei luoghi in cui ha lavorato e insegnato (dalle più importanti università dell’Europa orientale alle più influenti degli Stati Uniti) quanto il rilievo dei ruoli organizzativi rivestiti (da fondatore dei celebri Circoli Linguistici di Mosca e di Praga alla creazione dell’Associazione Internazionale di Studi Semiotici) hanno assicurato alle sue proposte teoriche grandissima visibilità, diffusione e autorevolezza. 3 spesso il termine “messaggio” non indica l’oggetto materialmente percepibile ma il suo valore di significato (si pensi a casi come ad esempio il tipico.: “Hai capito qual è il messaggio di questo film?”). 4 Ecco dunque lo schema risultante: Codice messaggio mittente destinatario c a n a l e contesto di riferimento Se questo schema generale si presenta neutro e “oggettivo”, apparentemente compatibile con l’idea arcaica che vedeva la comunicazione come un “trasferimento di informazioni”, i passi successivi portano Jakobson ben lontano da questa prospettiva. Prendiamo il caso emblematico del canale. Secondo la teoria dell’informazione, si tratta in sostanza di un supporto fisico che mette in collegamento l’unità mittente con quella ricevente. In apertura del processo di comunicazione può essere utile accertarsi che il canale funzioni, ricevendo un feedback da parte dell’interlocutore, come quando al telefono si chiede “Mi senti?” e si risponde “Sì ti sento, parla pure”. Dopo questo riferimento preliminare alla presenza funzionale del canale, si passa quindi alla comunicazione vera e propria. Ma l’esposizione di Jakobson sottolinea come ciò che davvero conta nella comunicazione umana non siano le basi fisiche o tecnologiche quanto i rapporti psicologici e sociali che si instaurano tra i soggetti, e che devono essere mantenuti perché i processi di comunicazione possano aver luogo. L’idea non è dunque quella del banale “Sì ti sento, parla pure”, bensì quella del “Sì, sono interessato a quello che mi puoi dire, sono disposto a impiegare un po’ del mio tempo, della mia attenzione e della mia intelligenza per starti a sentire e cercare di capire”. In questa prospettiva, il senso del riferimento al canale cambia profondamente e assume tutt’altri valori. È anche possibile separare il “canale”, inteso come relazione sociale che consente il flusso comunicazionale, dalla presenza di effettivi contenuti di comunicazione: non è infatti infrequente che due o più persone si impegnino nel tenere attivo un canale di comunicazione pur non avendo nulla da dirsi, per il mero piacere – o in altri casi per l’obbligo sociale – di mantenere aperta una comunicazione: perché la comunicazione è un rapporto sociale, indipendentemente dalla rilevanza dei suoi contenuti informativi. Jakobson, impiegando un termine di derivazione antropologica, chiama “fàtica”questa 5 comunicazione puntata essenzialmente sulla relazione sociale, o sul mantenimento e la valorizzazione del rapporto comunicativo in quanto tale. Se è possibile pensare a un atto di comunicazione il cui scopo primario non è trasmettere informazioni ma mantenere vivo il rapporto comunicativo, è a maggior ragione possibile individuare una componente fàtica in moltissimi processi di comunicazione: ciò che del resto è ovvio, se si pensa che chi produce un messaggio deve sempre preoccuparsi non solo del fatto che il suo messaggio sia correttamente interpretabile ma anche che sia tale da attirare e mantenere un’attenzione sufficiente per farsi ricevere e decodificare. Dal punto di vista teorico, queste osservazioni ci portano però già lontanissimi dall’idea che tutto debba essere puntato sui contenuti informativi. Ma, come l’obiettivo può essere spostato sul canale comunicativo, così può essere spostato su qualsiasi altro elemento del processo; di conseguenza si possono distinguere sei casi teorici diversi, corrispondenti a sei differenti funzioni attribuibili ai messaggi (si noti bene che si tratta sempre di funzioni assolte dal messaggio, e non da altri elementi del processo). Parleremo cioè di: 1. Funzione referenziale: è quella se vogliamo più ovvia, poiché corrisponde a quei messaggi, o parti di messaggi, che svolgono una funzione informativa, facendo riferimento a un qualche aspetto della realtà circostante, cioè a quello che Jakobson chiama, con termine un po’ discutibile, “contesto”. Più precisamente, in semiotica s’intende per contesto l’ambiente circostante l’atto comunicativo, che in quanto tale definisce e influenza tanto l’organizzazione quanto il senso di quanto viene comunicato (si pensi alla variazione nei modi di esprimersi e nei valori assunti anche dai medesimi segni, a seconda che si stia comunicando in un ambiente di lavoro o familiare, in una chiesa o in un’osteria). Per Jakobson, invece, il “contesto” è tutta la realtà, anche molto lontana dal luogo in cui si svolge l’atto comunicativo: si tratta, semplicemente, di tutto l’universo cui un atto di comunicazione può fare riferimento: dunque, tanto la parete della stanza in cui siamo quanto la più lontana delle stelle del firmamento. 2. La seconda funzione è quella che Jakobson chiama emotiva, pensando in particolare a uno degli aspetti per i quali si può dire che un messaggio, o una sua parte, centra la sua attenzione sul mittente. Una frase come “Sono proprio contento”, o allo stesso modo un’espressione del viso, hanno appunto una “funzione emotiva”. Ma possiamo ricordare anche altri modi in cui il messaggio può parlare del proprio mittente: per esempio, sottolineando il suo ruolo, la sua autorità, la sua competenza, un suo atteggiamento relazionale (come nel caso di espressioni di atteggiamenti paterni, amichevoli, guardinghi…), o magari per mostrare semplicemente di essere in grado di usare un certo sistema comunicativo (si pensi ad esempio a casi in cui ci si limita a schizzare un accenno di figura su un 6 3. 4. 5. 6. foglio, o si accenna qualche accordo al pianoforte), e questo elenco ovviamente potrebbe continuare (ma riprenderemo tra poco l’argomento). Simmetrica a questa, vi è la funzione svolta da quei messaggi, o loro componenti, che puntano la loro attenzione sul destinatario. Jakobson, che chiama questa funzione conativa, ha in mente il caso in cui il messaggio rivolge ordini o appelli, ma anche in questo caso ci sono modi più sottili di far riferimento al destinatario nel messaggio: per esempio quello di attribuire all’interlocutore una identità, una competenza, un’autorevolezza ecc. Abbiamo già detto del caso particolarmente interessante della funzione fàtica, cioè del caso in cui il messaggio, globalmente o per certi suoi aspetti, risulta porre al centro della sua attenzione soprattutto il canale di comunicazione. Si noti che i messaggi a fortissimo valore fàtico finiscono per sostenere un canale comunicativo in sostanza vuoto di altre funzioni, dando vita a un caso di comunicazione a contenuti informativi zero! Molto interessanti sono anche i messaggi centrati sul codice, cioè sulle regole stesse della comunicazione. Casi comuni sono la richiesta di spiegazione del senso di una parola, ma ci possono essere esempi assai più elaborati, in cui il flusso di comunicazione viene interrotto per ragionare sulle regole stesse che ne reggono il funzionamento; Jakobson chiama questa funzione metalinguistica, ma ovviamente possiamo generalizzare il concetto parlando di comunicazione metasemiotica, per esempio anche in casi in cui si usa un’opera teatrale per parlare di come funzioni il teatro stesso (si pensi a certi drammi di Pirandello). Infine – questo è il caso più singolare – vi sono messaggi che tendono a portare l’attenzione su se stessi. Ricordiamo per Jakobson “messaggio” non è il significato ma l’entità concreta che lo sostituisce; ora in certi casi una costruzione linguistica, un dipinto, una scultura o un brano musicale, tendono a concentrare l’attenzione del destinatario sulla loro stessa materialità – le loro sonorità, i loro concreti elementi compositivi, con le loro tangibili misure o durate di tempo, i loro percepibili modi di disposizione, di ripetizione, ecc. Jakobson, manifestamente influenzato da concezioni poetiche di tipo formalista, ritiene che questo sia lo specifico della poesia, e chiama appunto poetica questa particolare e affascinante funzione che un messaggio può assumere. Tuttavia, sottolinea subito che tale funzione è presente in territori di comunicazione a finalità tutt’altro che estetiche: l’esempio più celebre che egli cita è quello dello slogan “I like Ike”, creato nel 1952 per l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Dwight David Eisenhower, che era appunto soprannominato “Ike”; basta confrontare con la traduzione italiana “Mi piace Ike” per rendersi conto di quanto può aver valore la pura forma del messaggio, anche a parità di significati. 7 Capovolgendo la prospettiva Da quanto si è detto risulta già ben evidente come la visione di Jakobson segni il punto di rottura che porta la riflessione semiotica su terreni non confrontabili con quelli della vecchia teoria dell’informazione d’origine cibernetica. Quest’ultima, elaborata soprattutto da ingegneri e specialisti attenti alla scienza nascente della comunicazione tra macchine, nasceva dall’ipotesi che princìpi molto semplici potessero essere spostati anche a livello umano, e che i contenuti di comunicazione potessero essere tradotti in unità oggettive, addirittura quantificabili, di informazione. Le riflessioni di Jakobson rompono evidentemente questa ingenua illusione, facendo comprendere quanto più complesso sia l’universo della comunicazione a livello umano – le macchine, per esempio, non si pongono problemi di costruzione di una propria immagine di autorevolezza, non hanno manifestazioni emotive, e non compongono poesie. La comunicazione è dunque un’attività complessa che non può essere ridotta all’idea di uno scambio di informazioni. Ma al di là di questo, le concezioni di Jakobson aprono una prospettiva molto più ampia sui rapporti – di dipendenza, di inclusione, ecc. – che possono intercorrere tra i messaggi e gli altri elementi del quadro comunicativo. Nella prospettiva tradizionale, infatti, si pensa che l’emissione del messaggio da parte del mittente possa avvenire soltanto dopo che gli altri elementi del quadro si sono costituiti. Sembra anzi addirittura ovvio: come si potrebbe mai pensare, per esempio, che il messaggio possa essere inviato al suo destinatario prima dell’esistenza del “canale” destinato a portarlo a destinazione? Lo stesso destinatario, ma anche (e a maggior ragione) il mittente, devono esistere prima che l’atto di comunicazione abbia luogo, e devono entrambi avere appreso il codice che permetterà loro di intendersi. Il messaggio, insomma, presuppone la presenza e la definizione di tutti gli altri elementi del quadro comunicazionale. Questo sembra ovvio e inevitabile, e per alcuni versi certamente lo è. Per esempio, è possibile comunicare senza avere un codice comune? Certo non ci si può capire se un soggetto conosce solo l’italiano e l’altro solo il cinese, e tuttavia basta una parte di codice comune per attivare processi metasemiotici che producono via via nuovi segmenti di codice. Si può spiegare il significato di parole note a solo uno degli interlocutori, si possono costruire insieme nuovi segni o cambiare il valore di quelli esistenti: tutti casi in cui almeno certe porzioni del codice sono posteriori all’emissione dei messaggi. Ma se consideriamo l’ambito della comunicazione artistica, dove è normale l’elaborazione di nuovi codici espressivi, possiamo senz’altro dire che in molti casi l’esistenza di una nuova forma di codificazione è il risultato e non il presupposto della diffusione dei testi, cioè in questo caso delle opere d’arte, che la sostengono. Così, per intenderci, se pensiamo per esempio alle opere di Picasso, i frequentatori delle gallerie che all’epoca hanno visto le sue tele innovative sono entrati in contatto immediato con i messaggi pittorici, e solo a partire da questi hanno elaborato una nuova sensibilità e una nuova 8 grammatica: un codice condiviso è stato non la precondizione bensì la conseguenza della messa in circolo dei dipinti. In tutti i campi ove esiste una componente in qualche modo “estetica” (non solo quelli propriamente artistici, ma anche ad esempio quelli dell’abbigliamento, del design, dell’invenzione gastronomica…) svolge un ruolo fondamentale la creazione di prodotti-messaggi che palesemente innovazione le regole, proponendo come risultato nuovi codici. Si può fare, molto facilmente anzi, un analogo ragionamento a proposito del “canale”. In effetti, quella relazione sociopsicologica che consente al mittente di rivolgersi al destinatario e quell’attenzione che fa sì che quest’ultimo riceva davvero il messaggio inviato dal mittente, devono per definizione essere precedenti all’invio del messaggio? Certamente no, poiché tutti sanno che il messaggio può agire in modo determinante sulla trasformazione di queste caratteristiche, e dunque sul “canale”: talvolta basta alzare la voce o assumere un tono particolare, oppure usare espressioni come “Ora stai ben attento perché ti dico una cosa importante”, per attivare un canale altrimenti deficitario. Il che dimostra che anche il canale può essere l’effetto, e non la precondizione, del messaggio. Un campo particolarmente interessante a questo proposito è quello pubblicitario, dal momento che la funzione fàtica è qui considerata assolutamente basilare: in molti casi, la preoccupazione primaria dei creativi è quella di colpire l’attenzione, in modo da far guardare o leggere il proprio messaggio: dunque, di tener vivo e attivo il canale con il destinatario, di ridefinirne il carattere, di ricontrattarne il valore. Che dire allora a proposito del mittente? Non si può certo sostenere che la persona che formula il messaggio non esista fisicamente prima dell’atto comunicativo; tuttavia, è anche vero ad un altro livello – al livello non meramente fisico ma a quello dei processi di comunicazione – che l’identità di ciascuno di noi, il modo in cui siamo riconosciuti dagli altri, o anche il modo in cui ci rappresentiamo a noi stessi, dipende in buona misura dai modi in cui comunichiamo. Questo vale per gli individui come per i gruppi o per le istituzioni. Ogni atto di comunicazione ridefinisce l’identità del suo mittente, tanto che si può dire che ciascuno di noi è insieme tanto il creatore quanto il risultato della sua attività di comunicazione. In modo forse un po’ meno evidente ma non sostanzialmente diverso si può dire che anche i destinatari siano in certa misura ridefiniti dai messaggi: a ben guardare, non siamo quello che siamo in conseguenza della comunicazione cui ci esponiamo, non costruiamo la nostra identità attraverso i giornali e i libri che leggiamo, i film che guardiamo, la musica che ascoltiamo, i siti in rete che frequentiamo, e così via? Se già queste riflessioni possono far pensare che in qualche misura anche l’identità del destinatario si collochi a posteriori rispetto ai processi di comunicazione, c’è però da considerare un’altra dimensione più specifica, di cui parleremo tra breve. Vogliamo prima sottolineare che questa linea di sviluppo di riflessioni suggerite dal modello di Jakobson ci avvia verso un significativo 9 capovolgimento di prospettiva. Se prima ci pareva inevitabile ritenere che il messaggio costituisse un elemento all’interno del quadro di comunicazione complessivo, ora possiamo pensare che a un altro livello il messaggio contenga invece l’intero quadro comunicativo: perché all’interno del messaggio c’è la definizione e l’immagine del suo mittente come del suo destinatario, ci sono le regole di codificazione di cui esso è portatore, così come i presupposti per la costruzione di un canale che gli permetta di raggiungere i suoi destinatari. Non abbiamo però ripreso in considerazione, finora, il “contesto”. In che senso i processi di comunicazione possono ridefinire il contesto? Innanzi tutto, se prendiamo il termine “contesto” nella sua accezione oggi corrente, non c’è dubbio che nel comunicare possiamo ad esempio mutare la percezione della situazione in cui ci troviamo possiamo trasformare una riunione tra amici in una discussione accademica, o una funzione religiosa in una bagarre politica. Ma quando pensiamo al “contesto” ci riferiamo a quello che forse più precisamente potrebbe essere definito come un ambiente di comunicazione: un luogo delimitato, internamente strutturato (spesso suddiviso in aree funzionalmente diverse), e opportunamente arredato (divani, cattedre, palcoscenici, sistemi d’amplificazione e tutto quanto può essere opportuno per lo svolgimento dei processi comunicativi). In questa prospettiva, l’allestimento dell’ambiente appare precedente e indipendente dall’azione comunicativa. Ma sempre più spesso, e in modo del tutto evidente nel caso dei nuovi media, la costruzione dell’ambiente, dalla sua delimitazione alla sua strutturazione interna, è interamente operata in termini di costrutti comunicativi, sulla base di pure esigenze di comunicazione. È sintomatico che il concetto di “ambiente” non si distingua più dal concetto di “testo”, tant’è vero che molte analisi, anche semiotiche, prendono a loro oggetto di studio quelli che, con significativa metafora spaziale, si è soliti chiamare “siti”. Il “sito” corrisponde evidentemente all’ambiente di comunicazione, e tuttavia viene visto come testo: un testo contenitore, dentro il quale si pongono altri testi, i quali a loro volta possono agire come contenitori di testi ulteriori… E così, non c’è dubbio, anche l’idea di “contesto” è stata risucchiata, in modi per noi di grande interesse, non più fuori ma dentro l’area assegnata al “messaggio”. Se poi, restando più aderenti ai concetti di Jakobson, prendiamo il termine “contesto” nel senso di “realtà esterna cui facciamo riferimento nel comunicare”, si apre una prospettiva molto complessa ma ancora più affascinante. I nostri linguaggi possono “parlare del mondo” come realtà propriamente preesistente, oppure al contrario la nostra percezione e rappresentazione del mondo che ci circonda dipende dal modo in cui ne parliamo, in qualche modo ne è l’effetto? La questione non è semplice, e sarà ripresa più avanti, ma diciamo subito che secondo la semiotica - e secondo quanto opere quali Matrix hanno cercato di far comprendere a un pubblico più ampio - noi viviamo come chiusi all’interno di un involucro, una sorta di 10 matrice insieme protettiva e severa che ci separa dal contatto diretto con “le cose”: noi viviamo in una “realtà” perennemente mediata, organizzata, tradotta, filtrata dai sistemi semiotici. E in questo senso il mondo stesso che ci circonda non esiste per noi come una condizione che preceda la comunicazione che ne parla, ma necessariamente come un effetto dei discorsi che intorno al mondo scambiamo. Un target mobile Nel suo complesso, questo capovolgimento di prospettiva è tanto rilevante dal punto di vista teorico quanto ricco di conseguenze operative. Pensare che l’atto di comunicazione rimetta in gioco ogni volta l’intera situazione comunicativa può essere uno dei punti qualificanti di una prospettiva sociosemiotica. Ritorniamo per un momento a considerare, con maggiore attenzione, la relazione tra il messaggio e i suoi destinatari. Il soggetto che collochiamo nel ruolo di destinatario è davvero caratterizzato in modo rigido? Si pensi a quello che succede quando si studia una comunicazione fortemente, come si dice in certi ambiti, “targettizzata”, cioè appunto tagliata su un destinatario di cui si prevedono gli atteggiamenti e le preferenze, le competenze e i sistemi valoriali. questo modo di pensare la comunicazione, implicito nella logica d’uso di molte ricerche applicate, presuppone che il destinatario possa essere precisamente definito, e che grazie a questa conoscenza preventiva sia possibile elaborare dei messaggi “confezionati su misura”. La debolezza di questo modo di procedere è diventata del tutto palese in questi ultimi anni, anche proprio nell’ambito delle ricerche di mercato e della comunicazione pubblicitaria. Il problema è, appunto: è possibile definire il target a monte del modo in cui elaboriamo una relazione comunicativa? Ci si è in effetti resi conto che, al fine di progettare comunicazione, non è possibile definire le persone, soprattutto in una società complessa come l’attuale, né in termini di variabili sociodemografiche (sesso, età, residenza, professione, condizioni economiche…), né in termini di corrispondenza a stili di vita (modi di vestire o di passare il tempo libero, poniamo, ma anche modi di comunicare, valori privilegiati, e così via). Ciascuno di noi partecipa di modelli culturali differenti e anche contraddittori, non solo ad esempio nel suo modo di vestire o di mangiare, che cambiano drammaticamente da momento a momenti, ma anche negli stili di comunicazione volta a volta adottati, nelle forme testuali privilegiate, e nello stesso disegno perennemente mobile delle gerarchie di valori. Ciò che allora è per noi più interessante è che un destinatario così mobile e in perenne mutamento risulta particolarmente sensibile al modo in cui è strutturata la comunicazione che a lui si rivolge. Basta cambiare registro linguistico, mutare il mix di competenze comunicative che il messaggio richiama, o lavorare sui collegamenti tra comunicazione nuova e comunicazione pregressa, per far sì che siano attivati, nel destinatario, segmenti sensibilmente diversi all’interno della globalità di 11 atteggiamenti, di abitudini a pratiche comunicative, di riferimenti valoriali ecc. che a tale destinatario appartengono. La concezione tradizionale pensa al destinatario come a un bersaglio (“target”, appunto) sostanzialmente fermo, di cui bisogna conoscere perfettamente la posizione per centrarlo nel modo più efficace con la nostra freccia-messaggio. La concezione più avanzata pensa invece a un bersaglio mobile che, come il portiere nel gioco del calcio, assume una posizione definita solo come risultato del comportamento dell’attaccante: il portiere si troverà là dove l’attaccante l’ha spinto a buttarsi. Il destinatario è dunque in qualche misura spostato dalle scelte di comunicazione che decidiamo di adottate, ed è riduttivo assumerlo come una costante definita a priori. La visione sociosemiotica, sensibile alla complessità che caratterizza i processi di comunicazione, è così consapevole che nei processi di comunicazione ogni elemento è insieme condizione e conseguenza di ogni altro, in un sistema fluttuante di fattori in definizione reciproca. Il “messaggio”, o “testo” che dir si voglia, non è una “cosa” situata in un contesto fatto di persone, strumenti, relazioni interpersonali e obiettivi pragmatici. E veniamo così, appunto, al “messaggio” stesso. È forse questo, fra tutti, l’elemento che possiede una sua identità stabile, definita una volta per tutte? È così nella prospettiva di una semiotica “testualista”, ma non può esserlo nella prospettiva sociosemiotica attenta ai processi che intorno ai testi concretamente si svolgono, e che continuamente ne ridefiniscono il valore e l’identità. I testi vengono infatti di continuo ripresi, commentati, reinterpretati, collegati ad altri testi, ripetuti in mille forme di trasformazione, vengono parodiati, mutilati od espansi… Un testo ha valori diversi a seconda della prospettiva con cui lo si guarda, a seconda dell’ambiente in cui lo si fruisce, a seconda del mutare delle competenze o delle attese del lettore, a seconda dei modi in cui si decide di appropriarsene o di rifiutarlo. Insomma, i testi non esistono, neanche loro, al di fuori dell’interazione con i soggetti che stanno loro intorno. 2 – Segno: concetti fondamentali La comunicazione richiede strumenti indiretti Partiamo da una riflessione che può apparire ovvia ma il cui rilievo e le cui conseguenze sono troppo spesso trascurati: tanto l’innegabile complessità dell’universo della comunicazione quanto le caratteristiche dei suoi modi di funzionamento dipendono da una singolare condizione di partenza: tutto ciò che ci interessa comunicare – sentimenti, sensazioni, concetti, ricordi, ragionamenti più o meno complessi, o magari storie o fantasie… contenuti mentali di un qualche tipo, dunque – sono entità che, in quanto mentali, non 12 possono essere “comunicate”, cioè non possono essere spostate ad altre persone al modo in cui, per esempio, è possibile spostare un paio di forbici o un pacco contenente un panettone. Se quello che desideriamo è condividere entità che per loro natura non possono essere spostate da un soggetto a un altro, si può ben capire perché i processi di comunicazione risultino complessi, difficili, talvolta propriamente rischiosi. Il primo punto da stabilire con chiarezza è che dunque – al contrario di quanto molte espressioni e modelli della comunicazione correnti sembrerebbero presupporre – la comunicazione non è un processo di spostamento di contenuti (come potrebbe essere, per intenderci, nel caso in cui funzionasse la telepatia). Tutti i sistemi semiotici possono anzi essere visti come dimostrazioni dell’ingegnosità con cui il genere umano si è impegnato a superare tale difficoltà di partenza. Si chiarisce così anche quale sia la differenza tra la “comunicazione” nel nostro senso e gli apparati di “spostamento” di cose e di persone, detti anch’essi “sistemi di comunicazione” come ferrovie, autostrade e linee aeree. Un treno, ad esempio, contiene effettivamente le cose e le persone che deve spostare da un luogo all’altro; un messaggio, al contrario, non contiene ciò che si vorrebbe “inviare”. Il confronto è istruttivo: se immaginiamo che la stessa impossibilità di spostamento da una persona all’altra valesse anche per un panettone, come si potrebbe pensare di aggirare tale difficoltà? Non potendo spedire il panettone, potremmo inviare al nostro destinatario una ricetta, indicandogli i materiali da procurare, le operazioni da compiere, l’ordine e i tempi da rispettare per avere alla fine il soffice e delizioso dolce che vogliamo fargli gustare. In altre parole, non potendo inviare “la cosa”, inviamo delle istruzioni relative a operazioni da compiere per produrre un suo equivalente; nel nostro caso, possiamo vedere i processi di comunicazione come invio di istruzioni per l’elaborazione di contenuti mentali. Quello che chiamiamo “messaggio” può essere pensato in effetti come un insieme di istruzioni inviate al destinatario: questi non riceve affatto “contenuti”, ma indicazioni di operazioni mentali da compiere, di locazioni nel suo archivio mentale ove andare a pescare certe strutture concettuali preformate, indicazioni di regole di sintassi da applicare, e così via. Il destinatario vede nel messaggio la traccia di un lavoro da compiere. Siamo dunque di fronte a sistemi per definizione indiretti, nel senso che il nostro comportamento comunicativo è dominato dalla necessità di ricorrere a mezzi sostitutivi: un fatto evidente, ma che normalmente ci appare tanto ovvio da farcelo dimenticare, o da farci perdere la consapevolezza di quanto bizzarro possa essere il nostro comportamento comunicativo; cosa dire ad esempio di una persona che, per comunicare sentimenti o ragionamenti complessi, si impegna nel roteare con grande attenzione, su un foglio di carta bianco, un bastoncino da cui cola un liquido colorato? L’esempio vale a rendere evidente un fatto essenziale, relativo allo statuto dell’oggetto materialmente impiegato per comunicare, che in questo esempio si presenta come traccia di inchiostro su un foglio di carta: tale oggetto è per noi totalmente privo di interesse, se non in 13 quanto strumento che rinvia a ciò che veramente ci importa. L’ingegnosità dei sistemi di comunicazione corrisponde in effetti a questa capacità di inventare escamotage, entità sostitutive, forme potremmo dire di ripiego eppure spesso di straordinaria intelligenza e di sorprendente efficienza. È dunque chiaro: non sono i contenuti mentali ad essere spostati da un soggetto a un altro bensì questi elementi sostitutivi – oggetti fisici, necessariamente – che possono essere chiamati segnali o artefatti, e che percepiamo come tracce o riflessi dei nostri contenuti mentali. Ogni processo comunicativo richiede l’uso di un qualche tipo di oggetto fisico che agisca da sostituto rispetto alle entità da comunicare; la semiotica può essere specificamente pensata come la scienza destinata a spiegare (e non semplicemente a descrivere) come avvengano tali processi di sostituzione. Tra i compiti primari della semiotica si pone quindi senza dubbio la necessità di comprendere e spiegare come agiscano i meccanismi che reggono il funzionamento della sostituzione segnica. Una semiotica che non si pensi come mera teoria astratta ma come disciplina scientifica dotata di un definito oggetto di studio, e tanto più una semiotica orientata in senso sociale, deve occuparsi in primo luogo dei modi in cui i segni consentono di correlare contenuti mentali e strumenti espressivi. Come funziona un processo comunicativo Può risultare sorprendente a questo punto dover ammettere che la semiotica non sia disponga tuttora di definizioni soddisfacenti a proposito di cosa siano i segni, di quale siano le loro varietà, i loro modi di funzionamento, le condizioni che consentono loro di raggiungere lo scopo. Tale ritardo nella messa a punto di quelli che sono indubbiamente concetti chiave può essere riferito in misura decisiva al disorientamento derivante dal particolare squilibrio presente nelle definizioni dei due autori cui più di ogni altro, per la definizione di segno, si è fatto riferimento. Ferdinand de Saussure ci ha proposto una definizione di segno raffinata e complessa, ma non definitivamente chiarita e messa a punto – tant’è vero che, anche per questo motivo, egli non ha messo per scritto i fondamenti del suo insegnamento. Le principali difficoltà, nella concezione saussuriana del segno, derivano dalla centralità assoluta conferita al segno linguistico. Ritenendo che l’esempio della lingua dovesse valere come modello per ogni altro sistema semiotico, Saussure cercò invano di trovare il modo per conciliare le elaborate concezioni teoriche pensate per il segno linguistico a casi che finivano per apparirgli fatalmente troppo eterogenei. Di conseguenza le proposte di Saussure non hanno potuto avere, almeno fino ad oggi, quel posto fondamentale che in semiotica resta, a conti fatti, scoperto, dal momento che la semiotica ha bisogno di modelli teorici capaci di coprire tutto il grande spazio in cui essa si esercita, e non soltanto poche zone, importanti ma delimitate. 14 Da questo punto di vista, i fondamenti di Peirce presentano l’indubbio vantaggio di tener conto di tutta l’ampia gamma dei modi di presentarsi dei segni, con una più debole e non così decisiva sopravvalutazione del modello linguistico. Quando parliamo della varietà dei tipi di segni, facciamo in effetti quasi sempre riferimento a Peirce, e in particolare alla sua notissima tripartizione in “simboli”, “indici” e “icone”. Tuttavia, questo non ha veramente risolto nessun problema. Gli scritti di Peirce, tuttora in fase di pubblicazione, oltre a risultare non di rado oscuri e contraddittori, presentano un taglio vicino alla speculazione filosofica più che ai bisogni delle scienze umane. Peirce ci parla anche di segni culturali, ma dedica molta attenzione ai segni naturali, alle idiosincrasie individuali, alla possibilità di associazioni imprevedibili e puntuali; siamo dunque ben lontani dal rigore di Saussure e dalla sua attenzione per la dimensione sociale e per le logiche di strutturazione psichica dei fatti semiotici. Peirce prevede una più larga gamma di segni, è vero, ma non dispone di una visione teorica soddisfacente per spiegarne il funzionamento semiotico. Alcuni suoi concetti chiave, come quello di “interpretante”, confondono categorie di fatti che il rigore di Saussure non avrebbe accettato di mettere insieme, e le ipotesi per cui i “segni” potrebbero consistere in oggetti fisici, o dall’altro lato rimandare a entità dell’universo fisico, appaiono decisamente arcaiche rispetto alla visione delle scienze umane che, partendo da Durkheim e Saussure, avrebbe dominato il Novecento. Alla semiotica non resta, in definitiva, che affrontare un compito non più differibile, cercando i modi per collegare insieme la varietà dei sistemi semiotici indicata da Peirce con la profondità e la modernità dell’elaborazione teorica di Saussure: ciò che appunto si propone nelle pagine che seguono, quale contributo a una base fondante per la costruzione della nuova prospettiva “sociosemiotica”. Per evitare i rischi di un’eccessiva focalizzazione su un possibile tipo o su un possibile uso dei segni, considereremo subito tre esempi ben diversi, differenziati in modo da toccare tipi diversi di relazioni segniche, differenti sistemi comunicativi, e anche differenti funzionalità: nel primo caso si tratta di comunicare un’informazione molto semplice, nel secondo di agire sulla stessa situazione comunicativa nel corso del suo svolgimento, e nel terzo caso di comunicare a un livello più complesso, prevalentemente emotivo e in certo senso estetico. Rispettivamente, i tre casi esemplificano una comunicazione linguistica, una gestuale e una fotografica. Per il primo tipo di segni, un esempio linguistico Prendiamo in esame un caso molto semplice di comunicazione linguistica, cercando di individuare i diversi passi implicati nel processo (consideriamo che mittente e destinatario usino senza problemi la lingua italiana). Il caso concreto è quello di una persona a cui è stato chiesto di che colore sia l’auto che ha appena comprato; ci concentriamo quindi sulla mera indicazione di un 15 colore. Immaginiamo allora le operazioni mentali di questa persona, la quale ha ben presente il particolare punto di colore della sua nuova auto (un elemento che magari è stato addirittura decisivo nell’acquisto); ora egli deve tradurre questo suo contenuto mentale in una parola, un termine di colore appartenente alla lingua italiana. Un attimo d’incertezza, per noi rivelatrice: il nostro uomo si chiede se quella ben determinata sensazione di colore rientri meglio, poniamo, nell’area di significato del termine “blu”, oppure in quella del termine “azzurro”. Perché, se vi si riflette, è indubbio che i significati dei termini linguistici non corrispondono al livello psicologico individuale, con i suoi contenuti specifici, bensì a un livello psicologico collettivo, ove i contenuti mentali sono strutturati, raggruppati e classificati. Così la domanda che il nostro parlante deve porsi – pur se a un livello inconsapevole ed implicito – è di questo tipo: la mia personale rappresentazione mentale di una tinta del tutto specifica, in quale categoria di colore, socialmente condivisa, propriamente rientra? Se il mittente parte dai contenuti mentali che intende comunicare (una realtà almeno in prima battuta extrasemiotica), non c’è dubbio che il punto più delicato del suo percorso consiste nel passare da questa entità di partenza, in quanto tale non comunicabile, a una corrispondente entità semiotica, in questo esempio linguistica. Si tratta cioè di decidere qual è, nella lingua che sta per impiegare, il segno (la parola, approssimativamente) il cui significato meglio corrisponde a ciò che egli vuole dire. E si noti che in questa decisione il parlante non deve far riferimento a se stesso, bensì al suo, o ai suoi destinatari: il “significato” è immediatamente un’entità che non possiede un’identità definita rispetto a me che parlo ma rispetto agli altri a cui penso di rivolgermi. Del resto, nel senso detto sopra, un atto di comunicazione invia al destinatario istruzioni che egli dovrà eseguire in prima persona. È allora molto importante tener presente che è a questo punto che si gioca l’essenziale del processo di comunicazione: una volta presa tale decisione, nel nostro esempio una volta stabilito a quale area di colore sia opportuno far riferimento, la lingua, diciamo, rende la vita piuttosto facile, proponendoci bell’e pronta la forma espressiva della parola prescelta, “blu” o “azzurro” che sia. Non si tratta ormai che di inviare agli organi di fonazione gli ordini per realizzare in suoni materiali la parola, nel nostro caso la sequenza di suoni corrispondente ai tre fonemi della parola /b-l-u/. Questo processo, che porta alla realizzazione di una qualche entità fisica, è detto manifestazione. La manifestazione ci dà un oggetto materiale e singolo: infatti la parola /blu/ se pronunciata da un vecchio dalla voce profonda o da un bambino dalla voce argentina dà luogo a manifestazioni sonore indubbiamente molto diverse, pur se si tratta sempre “della stessa parola”; lo stesso accade, per fare un altro esempio, quando la stessa parola viene scritta a mano da persone diverse: la traccia materiale d’inchiostro sulla carta può essere anche molto differente, ma noi riconosciamo che si tratta sempre “delle stesse lettere”, o grafemi. 16 Il modello mentale della struttura espressiva di un segno linguistico è detto significante – uno dei termini fondamentali della semiotica saussuriana. Schematizzando, il parlante segue dunque un percorso che lo porta dai suoi personali contenuti mentali di partenza (la percezione del colore della sua auto) alla produzione di una sequenza di suoni che, in quanto oggetto materiale, può essere spostato e inviato al destinatario. I passi successivi ch’egli compie sono i seguenti: contenuti mentali personali significato di un termine della lingua forma espressiva del termine stesso manifestazione in suoni materiali. Rappresentazione mentale di un preciso punto di colore Entità di pensiero individuali Significato Significante ----------------- ⇓ Categoria di colore “blu” ⇓ Modello mentale generale della parola /b-l-u/ ⇓ Manifestazione --------- I diversi oggetti sonori prodotti da ( = singole unità espressive) persone diverse che pronunciano /blu/ Il lavoro del ricevente è esattamente simmetrico. Alle sue orecchie arrivano i suoni materiali prodotti dal mittente, cioè un oggetto di manifestazione, e da questo punto di vista la parte spesso più impegnativa consiste nel riconoscere la corrispondenza tra questi suoni materiali e i modelli delle relative parole, cioè i significanti memorizzati nell’archivio linguistico mentale. Si pensi a cosa accade quando si parla in un luogo rumoroso o su una linea telefonica disturbata, o quando si usa una lingua che non ci è ben nota. Ci si domanda allora, per esempio: «I suoni che ho sentito corrispondono al termine “blu” oppure “buio”, o magari il mio interlocutore mi ha detto “buh”, non sapendo lui stesso come definire il colore della sua macchina nuova?». Si noti che riconoscere l’entità linguistica non vuol dire afferrarne il significato (io posso ad esempio riconoscere che il mio interlocutore, parlando in inglese, ha usato la parola /bet/, che so avere un ben determinato significato, anche se in questo momento non so più quale sia tale significato). Del resto, se le sequenze sonore prodotte nel parlare sono sempre un po’ diverse (la stessa parola non suona mai allo stesso modo, neppure se pronunciata due volte dalla stessa persona), è logico che possa risultare problematica la corrispondenza tra la singola occorrenza concreta di un segno e quei modelli standard, generali ed astratti, che la semiotica chiama significanti. Per una corretta teoria semiotica, è molto importante ricordare 17 che i “significanti” non sono entità oggettivamente date, ma il risultato di un’attribuzione soggettivamente operata dal ricevente. Una teoria dell’interpretazione del testo deve tener presente che il passaggio dal dato testuale oggettivo al significante mentalmente costruito è il risultato di un lavoro complesso, che richiede tra l’altro la capacità raffinata di riconoscere entità generali astratte dietro la variabilità di occorrenza di volta in volta anche molto diverse. Una volta individuato il significante, anche qui la lingua semplifica sensibilmente il lavoro, poiché troviamo già accoppiati sistematicamente i significanti ai relativi significati. Una volta riconosciuto che i suoni che ho udito corrispondono al significante della parola italiana blu, il passaggio al significato è percepito come immediato. Ed è questo “significato” – un contenuto mentale regolato, definito dalla lingua – a costituire il punto di arrivo del lavoro mentale del ricevente. Possiamo quindi schematizzare l’intero processo come segue: MITTENTE Contenuti mentali personali RICEVENTE Contenuti mentali personali ⇓ Significato Significato ⇓ Segno Segno ⇑ Significante Significante ⇓ ⇑ Segnale (oggetto materiale inviato al destinatario…)Segnale I segni come realtà sociali Se questo processo è possibile, se cioè il parlante è in grado di prevedere le operazioni mentali che saranno compiute dal suo destinatario, è perché quelli che chiamiamo significati sono entità standardizzate, valide per tutta la collettività. Il significato di una termine linguistico, com’è evidente, non ha nulla di personale, tant’è vero che si può trovarlo descritto in quel libro assolutamente impersonale che è il dizionario. Proprio perché appartengono alla collettività, i significati non possono avere corrispondenza con contenuti mentali specifici e personali; come abbiamo visto nel caso dei termini di colore, anche i significati di temini come “automobile” o “albero” raccolgono insieme, con un atto classificatorio, rappresentazioni di oggetti e di animali che per altri versi è possibile distinguere in modo più analitico e che 18 certamente non sono affatto identiche. L’efficienza della lingua, come di altri sistemi semiotici, è legata a questa capacità di semplificare e raggruppare: si crea dunque un’importante correlazione tra sistemi di comunicazione e sistemi di classificazione. Ma se i significati sono entità standardizzate, generali e collettive, lo stesso vale per i significanti: nella nostra mente è depositato un modello astratto della sequenza di fonemi che compongono le varie unità linguistiche, come quella dei tre fonemi di /b-l-u/ o la sequenza di quattro fonemi di /b-e-n-e/. Il modello è astratto e generale, rigorosamente distinto dalle sue realizzazioni concrete; un principio spesso dimenticato ma fondamentale e prezioso della semiotica di Saussure è che il significante non corrisponde all’aspetto materiale, bensì a una rappresentazione mentale standardizzata: è un’entità psichica, di natura insieme soggettiva e collettiva. Significati e significanti sono i due lati di un’entità solidale e non possono essere separati tra loro. Non si può parlare di un “significato” se non come risultato dell’azione di un’entità che “lo significa”, cioè di un “significante”: pensare a un significato a se stante è un palese controsenso – per intenderci, sarebbe come pensare a qualcosa che sia “additato” a prescindere da qualcosa che lo additi, a un “premuto” senza nulla che lo prema, e così via – e in effetti questo modo discutibile di pensare si è rivelato ad esempio come uno dei punti di debolezza della teoria semiotica di A.J. Greimas. Allo stesso modo, non c’è “significante” se non in riferimento a ciò che esso è in grado di “significare” (per intenderci, allo stesso modo in cui, quando si parla di qualcosa “trainante” si implica che qualcos’altro risulta “trainato”, e così via); qualcuno, persino in semiotica, è arrivato a parlare di “significanti che non significano nulla”, con effetti di totale incongruenza, se non di involontaria comicità. L’entità indissolubile che lega in correlazione significato e significante, il segno, è dunque anch’essa un’entità al tempo stesso mentale e sociale; il segno può essere anzi considerato come un prototipo di entità profondamente “sociali”, in quanto costruite sulla base di una soggettività collettiva che assegna, per consenso comune, valori definiti secondo comuni finalità culturali e comunicative. Pensato così, il segno costituisce uno dei più chiari esempi di “oggetto sociale”, nel senso che deriva dai fondamenti di teoria sociale di Émile Durkheim. Dal segno è di conseguenza escluso, coerentemente, ciò che concerne la sua realizzazione materiale (il piano di manifestazione). Questo non vuol dire che dobbiamo dimenticarci dell’esistenza di questa dimensione; soprattutto in vista dell’applicazione a campi diversi da quello linguistico. È importante ricordare che ogni singola occorrenza di un significante, all’interno di un singolo specifico atto comunicativo, è diversa da ogni altra occorrenza, e tuttavia è facile osservare che consideriamo usualmente simili tra loro le diverse realizzazioni sonore – per esempio le diverse realizzazioni della parola /blu/ pronunciata da persone diverse. Ma del resto, in fondo 19 nello stesso modo, pensiamo che le diverse specifiche tonalità di colore che mentalmente possono corrispondere alla parola “blu”, per quanto differenti l’una dall’altra (toni più chiari e più scuri, più caldi o più freddi, eccetera), abbiano comunque degli importanti aspetti di analogia, tanto che un po’ ingenuamente questo ci sembra giustificare il fatto che tutte queste possibili immagini mentali di colore rientrino nel significato della stessa parola “blu”. La parola “blu” indica un solo colore sul piano del significato e ha una sola struttura fonemica sul lato del significante, ma su un lato come sull’altro queste entità singole si presentano al tempo stesso come insiemi, o classi, di varianti. Poiché gli elementi riuniti insieme dal sistema semiotico a formare una classe sono sentiti come simili, chiamiamo co-analogia questo tipo specifico di analogia; nel nostro esempio, vi è co-analogia fra tutte le varie rappresentazioni mentali corrispondenti al significato della parola “blu” (i vari punti di blu cui possiamo pensare), così come vi è co-analogia tra tutte le realizzazioni fisiche del significante della stessa parola. 20 percezioni di colore sentite come simili tra loro… c o – a n a l o g i a …perché raccolte insieme in quella che per la lingua… …è un’unica classe di colore, il significato “blu” Significato Il significante /b-l-u/ Significante viene realizzato tramite… …molte concrete realizzazioni sonore, sentite come simili tra loro c o – a n a l o g i a Il segno pone quindi in correlazione non entità concrete e puntuali, bensì astratte e generali. Basta rifletterci un attimo per rendersi conto che questo costituisce un aspetto essenziale dell’efficienza del sistema linguistico. Sul lato del significato, con una sola parola noi possiamo far riferimento, nel nostro esempio, a tantissime immagini mentali di colori, riunendole insieme; in caso contrario, dovremmo imparare una spaventosa quantità di termini differenti per rendere conto di tutti i punti di “blu” che ci possono venire in mente. Sul lato del significante, il fatto di possedere un modello mentale, astratto e generale, della parola, ci permette di riconoscerla nonostante le differenze fra le tante diverse pronunce con cui possiamo entrare in contatto. Già questo può far intuire come tali puntualizzazioni, che possono magari apparire eccessivamente astratte, costituiscono l’ossatura portante e imprescindibile di una semiotica intesa come scienza sociale: questo modo di vedere, che ha la sua origine in Saussure e importanti approfondimenti in Luis Prieto, consente di vedere i fatti semiotici nei termini di una connessione sistematica tra oggetti concreti e modelli culturali, tra “locale” e “globale”, tra individuale e sociale. Il concetto di “co-analogia”, come qui l’abbiamo introdotto, consente, come vedremo, di dare una migliore rappresentazione semiotica a molti fenomeni sociali. Tra l’altro, si può subito osservare, a 21 partire da questo modello, che anche la relazione tra individuo e individuo (tra un acquirente di un’auto e l’amico che vuol conoscerne il colore, nel nostro caso), per quanto ci sembri appartenere a un livello che potremmo dire “squisitamente privato”, richiede necessariamente una traduzione dell’individuale in collettivo. Sottolineiamo inoltre che i segni – questo è un principio di grandissima rilevanza – non stanno dentro i singoli testi. I testi, infatti, usano i segni (come nel caso delle parole, per intenderci), ma non si tratta che di impieghi o applicazioni locali di realtà che esistono fuori, nel sistema culturale (in questo caso, nella lingua). Il segno attraversa il testo che ci troviamo di fronte, ma ricompare in altri testi, con la medesima identità pur se con varianti di manifestazione. Si noti che questo principio, che appare ovvio quando parliamo di fatti linguistici, risulta invece utilmente innovativo quando si parli di correlazioni segniche che agiscono, poniamo, nel cinema, nella letteratura, nel racconto fiabesco o nei messaggi pubblicitari. Chiudiamo queste riflessioni con alcune precisazioni importanti. Data la struttura del processo, si deve ritenere che un atto di comunicazione abbia successo se il significato individuato dal destinatario al termine del suo lavoro di interpretazione è analogo al significato prescelto dal mittente. Non è invece rilevante ciò che può essere alla fine presente nella mente del mittente, ma che va al di là di quanto è stato introdotto nel processo di comunicazione: se per esempio il mittente possiede un terranova ma dice semplicemente di avere un “cane”, il processo comunicativo ha successo se il destinatario intende che si tratta di un qualche tipo di cane, non ci interessa se poi può magari supporre che il mittente possieda un alano, certo ben diverso da un terranova. Questo è del resto un corollario del fatto, prima ricordato, che i sistemi semiotici operano per classi concettuali e non fanno riferimento a entità singole. Un’altra considerazione importante è quella per cui il mittente, all’atto della scelta dei segni di cui intende servirsi, compie delle scelte decisive anche in termini di generalità o specificità. Egli può ad esempio parlare di un color “cobalto” invece che semplicemente “blu”, oppure dire di possedere un “terranova” anziché genericamente un “cane”. Ma, s’intende, può fare ben di più: descrivere minuziosamente il punto di colore colori o la struttura dell’animale, specificare gradi di saturazione e centimetri di lunghezza del pelo… Ma quanto questo può risultare conveniente? Da un lato va considerato il grado di sicurezza di comprensione: perché tutti conoscono il “blu” e non tutti il color “cobalto”, chiunque sa interpretare la parola “cane” ma solo alcuni il termine “terranova”. Dall’altro lato ci sono considerazioni sull’opportunità di impegnare se stesso e l’interlocutore in un lavoro più lungo e faticoso del necessario (tant’è vero che, lo sappiamo tutti, 2 2 Per evitare complicazioni aggiuntive, parliamo qui approssimativamente di “parole”; la nozione corretta è invece quella di “monema” o “morfema”, da intendere come unità minima capace di correlare un significante a un significato. Per esempio /bianchissime/, pur essendo una sola parola, comprende tre monemi: /bianch/ che rimanda a un certo colore, /issim/ che veicola l’idea di superlativo e la finale /e/ che indica femminile plurale. 22 chi vuole comunicare in maniera troppo precisa e dettagliata rischia di apparire tanto noioso da perdere il diritto ad essere ascoltato). In pratica, ogni atto di comunicazione, anche il più semplice, presuppone una fase – di norma implicita e inconsapevole – di scelte progettuali relative all’economia della comunicazione, ove il parlante sceglie quanto gli convenga impiegare risorse in termini di tempo e di attenzione, e quanto possa essere utile e opportuno scendere in dettagli e usare una terminologia specifica. L’arbitrarietà definisce i segni del primo tipo Abbiamo chiarito alcuni aspetti fondamentali della struttura del segno, ma non abbiamo precisato cosa leghi un significato al correlativo significante, permettendo di compiere il passaggio tanto in una direzione quanto nell’altra. È evidente che, nel caso di sistemi come quello linguistico, la conoscenza che abbiamo di tale correlazione dipende per intero dall’apprendimento e dalla conseguente memorizzazione – come ci è del tutto evidente quando facciamo fatica nell’apprendere il vocabolario di una lingua straniera. Questo dipende dal fatto che, a differenza di quanto può valere nel campo della pittura o della gestualità, i segni linguistici sono istituiti come pure convenzioni; ciascuna lingua è diversa proprio perché non c’è alcun motivo che faccia sì che quel dato significante piuttosto che un altro rimandi a quel determinato significato. Questa convenzionalità semplice e completa viene detta – con termine che assume un ruolo chiave nella teoria di Saussure – arbitrarietà. Si noti che arbitraria è in primo luogo la relazione che lega ciascun significante al relativo significato, ma stabiliti da convenzione sono anche i due termini della relazione, dunque sia il significante sia il significato. Questo è certo evidente per il significante, poiché il confronto tra lingue diverse ci ha abituati a constatare l’impiego di significanti diversi: noi italiani, per esempio, abbiamo l’entità significante cane e non abbiamo strong, che invece è un elemento del sistema di significanti della lingua inglese. Ma questo vale anche sul lato dei significati, dove ciascuna lingua elabora un sistema in qualche misura suo peculiare: ne sono prova le difficoltà dei traduttori, i quali molto spesso non possono trovare nella seconda lingua un termine il cui significato sia davvero equivalente al significato del termine usato nel testo originario. L’apprendimento di una lingua straniera richiede quindi che impariamo anche il modo in cui quella lingua disegna l’area di significato dei suoi segni; basti pensare a come nelle prime lezioni d’inglese si spiega che tale lingua non possiede un verbo che equivalga all’italiano “potere”, o che ci sono dei problemi a tradurre l’italiano “pecora”; si scopre poi la non perfetta sovrapposizione tra significati di termini anche apparentemente molto simili: si pensi ad esempio alla non corrispondenza tra l’area di valore del termine italiano di colore “blu” rispetto all’inglese “blue”, o – per citare un’area lessicale toccata da Saussure – alla non sovrapposizione tra l’italiano “foresta” e il francese 23 “forêt”: “forêt” può valere in molti casi per l’italiano “bosco”, così come “blue” per punti di colore per i quali un italiano userebbe “azzurro”. In pratica, possiamo trovarci di fronte a tutti i casi teoricamente possibili: - lingue diverse usano significanti del tutto diversi per significati che appaiono molto simili (cfr. il caso di “finestra” / “window” / “ventana”…) - lingue diverse usano un significante identico o molto simile ma con significati diversi. È molto noto l’esempio scolastico di belli che ha significati del tutto diversi in italiano e in latino, ma si pensi alla tipica delusione dell’italiano che ordina un toast in un paese di lingua inglese, e scopre con disappunto che il significato da lui attribuito al termine è squisitamente specifico alla lingua italiana - lingue diverse propongono termini dal significante diverso e dal significato solo apparentemente analogo; in realtà differiscono sia i significanti sia l’area di significato coperta. Un esempio evidente è la convinzione che il termine italiano “libro” copra l’area semantica dell’inglese “book”: ciò che palesemente non è vero, dal momento che in certi casi siamo obbligati a impiegare in italiano proprio il termine “book” e non “libro”, come accade ad esempio parlando di una dossier che raccoglie esempi dell’opera di un fotografo, o immagini di presentazione di una modella. In questo caso, il significante è del tutto diverso, ma neanche i significati si sovrappongono. Questi ragionamenti e questi esempi ci introducono a un principio molto importante: ciascun sistema di segni non è solo un insieme strumentale di significanti, utili per trasmettere dei contenuti di pensiero, ma è anche un insieme di significati, dunque di concetti specifici a quel sistema di segni. Un sistema semiotico non è solo una realtà operativa ma anche un modo per organizzare il nostro pensiero e la nostra relazione con l’esperienza: un sistema semiotico non “trasmette” un’immagine del mondo ma in una certa misura la costruisce. Questo principio diventa poi sempre più valido quanto più ci allontaniamo dal caso della lingua e pensiamo a sistemi di segni a forte differenziazione e rapida evoluzione, come ad esempio la pittura o la musica (non c’è confronto tra la velocità con cui si trasformano i codici pittorici o musicali, rispetto a quelli linguistici!). C’è una spiegazione logica: sistemi di segni così formalmente organizzati e rigorosamente fondati sul principio di arbitrarietà sono molto efficienti ma inevitabilmente anche molto rigidi. Di fatto, non a caso, sistemi di questo genere sono anche molto rari: in pratica, non si trovano molti esempi oltre a quello appunto della lingua e di alcune forme di comunicazione ad essa connesse, come la scrittura alfabetica o l’alfabeto morse. La lingua costituisce insomma una forma di comunicazione tanto raffinata quanto specifica, tanto preziosa quanto in definitiva particolare. Curiosamente, per molto tempo la semiotica ha ragionato sulla base di un eccessivo orientamento sul modello linguistico, il 24 che ha portato a molti fraintendimenti teorici, e molto tempo perso nell’illusione di adottare la lingua come modello per lo studio di ogni altro sistema di segni. Alla fine, le difficoltà che ne sono conseguite hanno portato non pochi studiosi a ritenere che il problema si annidasse nella stessa nozione di “segno”, sicché per un certo periodo, la nozione di segno ha finito per essere quasi accantonata (ciò che sembrerebbe valere quale esempio di come la nota favola della “Volpe e l’uva” possa riproporsi anche nell’ambito della ricerca scientifica). Gli “indici” e le connessioni sintagmatiche Facciamo riferimento, per questo secondo esempio, a un gesto dal valore ben noto, tipico di molte comuni interazioni conversazionali. Sappiamo tutti che se, nel corso di una conversazione, l’interlocutore guarda il proprio orologio, specie se con una certa insistenza, è comune intendere questo gesto come indice di un ben definito desiderio dell’interlocutore. Conosciamo il senso di questo gesto: lo abbiamo usato, lo abbiamo visto usare da altri, ci hanno raccontato di situazioni in cui è stato impiegato, ne abbiamo magari letto casi narrati in un romanzo, messi in scena a teatro, recitati in televisione, e così via. Non c’è dubbio, però, che l’atto di guardare l’orologio sia un gesto la cui funzione originaria è, ovviamente, quello di sapere che ora sia; in effetti, quelli che chiamiamo “indici” corrispondono spesso, anche se non necessariamente, a un impiego comunicativo che arriva dopo un altro impiego funzionale, sicché i due impieghi si possono confondere. Questo vale ad esempio anche nel caso dell’abbigliamento, poiché noi aggiungiamo valore semiotico a entità che comunque esisterebbero per altri scopi (ripararci dal freddo, difenderci da cose che potrebbero ferirci, nascondere certe parti del corpo…); come dire: “giacché dobbiamo metterci addosso qualcosa per ripararci, perché non approfittarne per attribuire a questi oggetti anche dei valori semiotici?”. In effetti, il valore di segno si aggiunge al valore funzionale senza cancellarlo; se per esempio riteniamo che indossare una pelliccia costosa sia indice di status economico elevato, la persona in questione può sempre sostenere di non avere intenzione di fare un uso simbolico dell’indumento (“Pelliccia di visone? Oh, figurati se do valore a queste cose: avevo così freddo che mi sarei messa addosso il primo straccio che avessi trovato, purché tenesse caldo!”). Come si vede, una caratteristica interessante degli indici è che essi consentono spesso di comunicare in forma implicita e senza precise assunzioni di responsabilità. Ma più importante è ora per noi definire come si arrivi in questi casi all’assegnazione di senso. Per capire che l’insistenza del nostro interlocutore nel guardare l’orologio non è da prendere solo come un modo per leggere l’ora, o allo stesso modo per attribuire significato alla pelliccia di visone, dobbiamo avere appreso dei codici specifici? No, possiamo arrivarci per ragionamento, dato che sappiamo che se qualcuno guarda insistentemente 25 l’ora è perché ha in mente un altro impegno successivo, e nell’altro caso perché sappiamo che per possedere abiti costosi è necessario disporre di abbondante denaro. Possiamo insomma arrivarci usando una forma logica di tipo detto “abduttivo”, essendo l’abudzione quella forma di inferenza che ci consente di avanzare ipotesi ragionevolmente probabili sulla base dei dati forniti dall’esperienza. Nella visione di Peirce, al quale dobbiamo l’idea di segni che funzionino appunto come “indici”, possono valere come tali anche fatti puramente naturali: nuvole scure sono indice di probabilità di pioggia, oppure l’impronta di un animale nella neve è indice del passaggio dell’animale – a tal proposito, si noti che anche la firma di una persona in calce a un documento vale come indice, in fondo simile a un’impronta lasciata sul foglio, a testimoniare dell’avvenuto passaggio, dell’avvenuta presa di contatto fisico con il documento. Come molti hanno notato, gli indici sembrano spesso implicare una qualche sorta di contatto, ma se andiamo più a fondo nel considerare il modo in cui leggiamo indici nella realtà che ci circonda, possiamo notare che facciamo affidamento su un’abitudine a muoverci all’interno di catene di eventi. Dato che nella nostra percezione dell’esperienza gli eventi si legano gli uni agli altri in una sequenza, questo ci permette di risalire logicamente da un anello della catena di fatti ad altri anelli della stessa catena. Così, per tornare al nostro primo esempio di indice, quando stiamo conversando con qualcuno sappiamo bene che quella persona vive all’interno di una catena di fatti che si succedono nel tempo, come piccoli “episodi” che compongono la vita quotidiana. Il gesto di guardare l’ora, o altri equivalenti, ci fanno capire che quella persona si sta preoccupando del fluire del tempo che la porta verso l’evento successivo: guardare l’orologio ora, nel contesto di questa conversazione, definisce il gesto attuale in relazione a un evento successivo, che si sta facendo sempre più pressante e centrale nella sua attenzione: così noi assumiamo che tale gesto funga da anello che regola il passaggio da un episodio di vita quotidiana a quello che segue. Nel caso della signora con pelliccia, il ragionamento muove in senso inverso: se questa persona indossa adesso la pelliccia, è perché prima l’ha acquistata, e per acquistarla ha dovuto prima ancora disporre di molto denaro. In questo esempio, il meccanismo è più complesso e interessante: se una persona ha molto denaro ed è disposta a spenderlo per un bene non essenziale, è perché questa disponibilità economica è abbastanza facilmente ripetibile; la catena sintagmatica in cui l’acquisto della pelliccia si inserisce prende così dimensioni più ampie, avvicinandosi a quella forma complessa e articolata di catena di eventi che, nella vita quotidiana, disegna uno “stile di vita”. In termini più generali, si può collegare un evento noto tanto alla sua causa (se vedo molte persone camminare per strada con l’ombrello aperto questo per me significa che sta piovendo) quanto alle sue possibili conseguenze (se vedo una di queste persone chiudere l’ombrello e agitarlo 26 minacciosamente verso un’altra, significa che sta per scoppiare una baruffa). Affidandoci a questa nostra capacità di passare da un anello all’altro della catena, possiamo interpretare un tratto osservabile nel comportamento di qualcuno come sintomo di qualcosa di più ampio (per esempio di un suo stile di vita che si distende nel tempo), come segnale di una sua intenzione d’azione, o come una sorta di traccia lasciata da un atto precedentemente compiuto. Ricordando che in semiotica si dice “sintagmatica” la connessione tra gli elementi che compongono una catena strutturata, possiamo dire che questo tipo di segni, che per tradizione chiamiamo “indici”, sia definito dal suo fondarsi su connessioni sintagmatiche. Se l’origine del concetto di “indice” è collocata nella semiotica di Peirce, va ricordato che lo studioso americano non impiegava concetti elaborati come quelli di “significante” e “significato”, sicché il punto più debole della sua concezione è nel farci pensare che la connessione tra l’indice e il suo valore si situi a livello locale. Per riprendere uno dei suoi esempi più classici, quando vediamo nel cielo un grosso nuvolone nero pensiamo che probabilmente si metterà a piovere: una nuvola particolare rinvia alla possibile pioggia di quella particolare giornata. Se vi riflettiamo, non è davvero così. In primo luogo, è chiaro che, esattamente nello stesso modo, il nuvolone nero che vedrò fra tre giorni sarà collegato alla possibilità di pioggia che vi sarà in quella giornata, e così via. Io vedo materialmente un nuvolone nero alla volta, esattamente come nelle pagine precedenti dicevamo che io sento una singola persona che in un certo momento pronuncia una data parola. Ma come la singolare occorrenza mi rimanda al modello generale di quella parola, contenuto nel mio archivio mentale, così non c’è dubbio che l’interpretazione del singolo nuvolone nero avviene grazie al fatto che io lo riconosco come occorrenza particolare di un modello generale, e so che non quel nuvolone in modo specifico, ma la classe generale dei nuvoloni neri significa per me “possibilità di pioggia”. Da questo punto di vista, un indice funziona in modo non diverso dal segno linguistico. Il significante di questo indice non è un singolo oggetto atmosferico, ma il modello, l’immagine mentale che accomuna in una stessa classe tutti i possibili nuvoloni neri; come sempre, anche la manifestazione di questo significante non può essere che puntuale e singola, un singolo nuvolone che vedo in un giorno particolare a una data ora in un luogo specifico. Quanto poi al lato del significato, anche questo non corrisponde all’idea specifica della pioggia che potrà esserci oggi o di quella che potrà cadere fra tre giorni, bensì al concetto generale di una “possibilità di pioggia”: un modello mentale standardizzato e condiviso a livello collettivo. Entità di pensiero individuali Modi personali di pensare una possibile pioggia 27 | Significato --------- Concetto “Possibilità di pioggia” | Significante --------- Modello mentale del nuvolone nero | Manifestazione --------- I diversi particolari nuvoloni che può accadere di vedere concretamente È chiaro che lo stesso si deve dire a proposito del gesto di guardare l’ora. In questo momento in un certo luogo il signor J.R. guarda insistentemente il suo Rolex in oro massiccio, ma tra pochi secondi in tutt’altro luogo il signor Mario Rossi poserà insistentemente il suo sguardo sul suo Fossil in acciaio satinato, proprio mentre migliaia di chilometri più a nord un tal Benny Bentham estrarrà reiteratamente dal panciotto ricamato la gloriosa “cipolla” ereditata dal bisnonno, e così via: orologi digitali, vecchie pendole, sveglie appese al collo, e per chi non ha con sé un orologio andranno bene gli schermi dei telefonini o i quadranti su campanili o stazioni. In alternativa, si può sempre chiedere l’ora a un passante, o ancora meglio al nostro stesso interlocutore! Non importa: pur cambiando il modo concreto di manifestazione, il significante resta lo stesso, e insieme immutato è il suo significato. Anche in questo caso, possiamo dunque rappresentare lo schema di un indice esattamente nello stesso modo impiegato per i segni di tipo arbitrario: se in questo caso il significato corrisponde a un “Desiderio di chiudere una conversazione”, il significante corrisponde dal canto suo al rendere visibile in qualche modo una preoccupazione per l’ora attuale, ma questa preoccupazione può realizzarsi , a livello di manifestazione, in un numero indefinito di modi diversi. Concepire l’indice in questo modo presenta vantaggi molto importanti, rispetto alla visione corrente radicata nelle proposte di Peirce: permette di tener fermo il principio per cui il segno è una realtà generale e condivisa, mentale e non materiale, disegnata da un sistema culturale e non legata a fattori naturali. Al contrario di quanto pensava Peirce, per una semiotica intesa come scienza sociale il segno non è mai un oggetto: l’oggetto è semplicemente la manifestazione concreta e puntuale di un’entità mentale e stabile, generale e culturalmente definita. 28 I segni “iconici” e il problema dell’analogia Come il secondo tipo di segni rielabora il concetto di “indice”, questo fa riferimento al terzo tipo di segni distinto da Peirce, l’icona (termine che deriva dal greco eikon, immagine). Com’è largamente noto, Peirce pensa a segni per i quali il riconoscimento del senso avvenga sulla base di un rapporto analogico. Pur prendendo qui una prospettiva molto diversa, manteniamo almeno due aspetti chiave delle classiche definizioni di Peirce: a) Il segno opera il suo rinvio a “qualcos’altro” non in se stesso – non oggettivamente, dunque – bensì nella mente di un soggetto, di un “interprete”, in forma soggettiva; b) L’icona è un segno caratterizzato dal fatto che il rinvio semiotico è fondato su una analogia. Dall’insieme delle due definizioni, ricaviamo l’idea che l’icona si fonda sul riconoscimento soggettivo, da parte e nella mente di un interprete, di un qualche tipo di “somiglianza” o “analogia”. La somiglianza non è nelle cose, ma dipende dal modo di guardare dell’interprete, dalla prospettiva che questi assume; del resto va ricordato che non esistono entità che siano in se stesse segni, ma ci sono solo modi di guardare che attribuiscono un valore segnico a determinate entità (è assolutamente da evitare qualsiasi concezione che riduca le relazioni segniche a rapporti tra cose, perché questo ne rende impossibile la comprensione). La comunicazione iconica assume in questa prospettiva una maggiore possibilità di declinazione, e insieme un maggior fascino teorico. Per chi operi nel quadro delle scienze umane, è senz’altro più appassionante chiedersi “per quale motivo un certo soggetto vede A come simile a B” che non “come fa un oggetto A ad assomigliare a un’entità B”. Le “somiglianze” non sono date e descrivibili, ma costruite e soggette a spiegazione. Il riconoscimento di analogie dipende dal patrimonio culturale che ciascuno ha appreso e quindi da determinate tecniche culturali, capaci di istituire (istituire, non registrare!) effetti di analogia fra entità più o meno disparate. Per chi è privo della necessaria preparazione culturale, infatti, un certo brano di musica, un film, una poesia, possono risultare privi di senso, illeggibili, in quanto non si è in grado di individuare una qualche analogia con un certo sistema di pensiero, un’emozione, un’esperienza di vita… analogie che un’altra persona, grazie a un diverso patrimonio culturale, individua magari con relativa facilità. La comunicazione iconica ha dunque le proprie radici in codici culturali specifici, che ci guidano a padroneggiare il modo in cui un contenuto mentale può essere fatto corrispondere per analogia a un significante iconico. Torniamo per un momento alla visione di Peirce, per cui un’icona è fondamentalmente un “qualcosa” che per analogia rimanda a un “qualcos’altro”. Nei casi più semplici, i segni iconici rinviano in effetti a qualcosa che “esiste nel mondo”: per esempio, la fotografia del viso di una 29 persona rimanda per analogia alla persona ritratta, e la mappa schematica dell’appartamento di cui ci viene proposto l’acquisto ci fa pensare a uno spazio architettonico reale che abbia quella certa forma e quella suddivisione interna. Sembra chiaro e facile, in questo senso, il meccanismo dell’icona, considerata come pura riproduzione delle “cose”, ma alcune osservazioni ci fanno subito rendere conto che la questione è meno semplice. Per esempio, non è detto che l’icona assomigli a qualcosa di cui abbiamo esperienza visiva, dato che possiamo riconoscere il rinvio “per somiglianza” a luoghi, cose o persone che non abbiamo mai visto, e possiamo anzi, sempre “per somiglianza”, muovere in senso inverso, riconoscendo una persona per averla vista prima in fotografia. E il meccanismo dell’analogia vale anche per il disegno di un “unicorno”, animale che nella realtà zoologica non esiste affatto. D’altro canto, la pianta dell’appartamento può corrispondere non a un appartamento esistente ma a un puro progetto, e non al progetto di un particolare appartamento bensì a quello di un tipo generale, che potrà essere poi realizzato magari in centosette appartamenti concreti. Ancora, è possibile capire che la fotografia di uno stambecco (su una guida per passeggiate in montagna, per esempio) non si riferisce affatto a un dato animale ripreso dalla macchina fotografica bensì all’idea generale di “stambecco” in quanto specie zoologica (l’icona “assomiglia” allora a un concetto, a un modello). Si è già capito, insomma, che l’idea per cui l’icona riproduce un qualche oggetto concreto risulta limitata e riduttiva tanto quanto lo sarebbe pensare che l’universo linguistico si dovesse limitare ai soli nomi propri, capaci appunto di designare singole entità esistenti nel mondo (il Kilimangiaro e Luigi XVI, per esempio, ma non “la montagna” o “i francesi”). Al contrario, è proprio perché il segno iconico ha per rinvio di significato una realtà psichica e non fisica, che può facilmente rinviare anch’esso a un’entità generale, a una classe, piuttosto che a un’entità singola. L’utilità di ripensare il concetto di “icona” nel quadro della teoria del segno fornita da Saussure diventa allora evidente. Le analogie su cui i segni iconici si fondano sono relazioni mentali, che legano tra loro rappresentazioni mentali; questo ci spiega perché possiamo interpretare il disegno di un unicorno anche se questo non ha alcuna possibilità di “somigliare” all’animale-unicorno, entità inesistente: riconosciamo infatti il disegno dell’unicorno come somigliante all’idea che la nostra cultura ha prodotto e che ci ha portato ad apprendere. Consideriamo ora un nostro esempio, immaginando un fotoreporter cui si chieda di fornire un’immagine adatta a illustrare un articolo per una rivista. Il pezzo tratterà della necessità di difendere la bellezza dei luoghi naturali, troppo spesso deturpati dalle esigenze dell’industrializzazione; di qui deriva il senso che la fotografia deve esprimere. Il nostro fotografo pensa allora a un’immagine che mostri un piacevole ambiente naturale montano rovinato dai piloni e dai fili della linea elettrica ad alta tensione che lo attraversa. L’ipotesi che immaginiamo è del tutto verisimile, tanto che è facile riconoscere una tale 30 idea come non particolarmente originale, anzi diffusa nelle rappresentazioni comuni. Il nostro fotografo parte, armato della sua fedele reflex, e percorre diverse valli e regioni montuose alla ricerca di un panorama che presenti le caratteristiche desiderate. Via via, esclude molte inquadrature possibili, in quanto non pienamente rispondenti alla sua idea, finché, magari dopo qualche migliaio di inquadrature prese in considerazione e poi scartate, trova il posto adatto per realizzare la sua fotografia. Sceglie accuratamente la direzione e il taglio dell’immagine, attende il momento in cui la luce illumina tutto nel modo da lui desiderato, regola a suo giudizio profondità di campo e grado di luminosità, e finalmente scatta. La fotografia ottenuta in questo modo riproduce senza dubbio, in modo apparentemente quasi meccanico, la scena inquadrata; tuttavia, dal punto di vista semiotico, possiamo dire davvero che tale immagine abbia il valore di semplice riproduzione di un luogo esistente nel mondo? Generata da una ricerca partita da un’idea assai precisa, selezionata fra decine di migliaia di altre immagini possibili, studiata accuratamente nel taglio, nella prospettiva e nella qualità visiva, questa immagine vale assai più come riproduzione di una rappresentazione mentale del suo artefice che non come calco di uno spazio visibile. La scena che ha permesso l’esecuzione della fotografia è qui uno strumento che serve alla realizzazione di uno scopo espressivo. Una fotografia, come un quadro o uno schizzo a matita – in apparenza imitazioni di un “oggetto” – è di fatto strumento per l’espressione di contenuti mentali; come lo sono le parole, come lo sono gli altri tipi di segni. La struttura del segno iconico Abbiamo chiarito che, nel nostro esempio come ovviamente in molti altri casi possibili, la fotografia non “sta per” una realtà materiale, bensì per un contenuto concettuale che potremmo esprimere linguisticamente in termini come “L’industria violenta la natura”, o altre formulazioni del genere. È chiaro che si tratta di un concetto generale che ciascuno può poi – ma è una realtà extrasemiotica – specificarsi come preferisce, secondo i suoi personali vissuti della realtà industriale come del dato naturale. Ma se a questo punto ci chiediamo se tale concetto sia esprimibile solo attraverso l’immagine realizzata dal nostro fotografo, una risposta negativa è immediata: altri luoghi avrebbero potuto essere fotografati, altri panorami montani, ma perché no anche marini od agresti. E l’intervento dell’attività industriale avrebbe potuto essere rappresentato, invece che da quella specifica linea elettrica ad alta tensione, da un altro tipo di linea elettrica, o da un gruppo di ciminiere, e così via (gli esempi, purtroppo, non mancherebbero…). Rileviamo allora che anche nell’ambito dell’icona vale lo stesso modello teorico proposto più sopra a partire dalle riflessioni saussuriane originariamente riferite al segno linguistico. Nel caso di questo esempio, lo schema prende questa disposizione: 31 Contenuti mentali individuali Gamma variata di idee individuali sull’impatto negativo di installazioni industriali in contesti naturali Significato Il concetto generale “L’industria violenta la natura” -------- Significante Manifestazione Modello mentale generale di un -------- paesaggio naturale rovinato da elementi industriali -------- Singole fotografie, disegni, paesaggi… Certo, questo modo di pensare vale, propriamente, per i casi di configurazioni iconiche portatrici di un vero e proprio significato. Per esempio, la fotografia tecnica e di documentazione, alcuni tipi standard di mappe o casi di semplice riproduzione di parole o gesti compiuti da altre persone, per citare solo qualche esempio, si collocano in un altro tipo di fenomeni iconici, semioticamente più elementare e certamente più vicino a esempi tipici di Peirce. In questo caso, la dimensione segnica può tendere a ridursi a una semplice riproduzione semplificata dell’oggetto di partenza; pur non arrivando alla mera duplicazione o al fenomeno extra-semiotico della pura specularità, ci si avvicina a casi che possono già travalicare l’ambito proprio al segno (come sarebbe ad esempio per la mera registrazione audio di un discorso o per il calco delle impronte digitali di una persona: la copia pura e semplice non prevede rinvio segnico). Si può certo decidere di distinguere le più semplici “icone descrittive” da quelle che potrebbero essere dette “icone simboliche”, in quanto più ricche di significato, ma va rilevato che si tratta comunque di una variazione a carattere graduale. Il regno dell’iconico è sterminato, perché il meccanismo analogico è quello largamente più impiegato per creare relazioni segniche, e dunque è logico che esso contenga al suo interno fenomeni per vari aspetti assai differenti. In un quadro tanto ampio, le icone a carattere meramente descrittivo occupano comunque un’area secondaria, rispetto alla posizione predominante di quelle costruzioni iconiche che propriamente fanno riferimento a un “significato” concettuale, ben distinto da una mera designazione o descrizione oggettuale. Ricordiamo anche che solo i sistemi semiotici del primo tipo, basati sulla totale convenzionalità di relazioni arbitrarie, portano a istituire liste di segni ben distinti, con dimensioni compatte e poco variabili; negli altri casi, proprio perché non esistono liste di segni precostituite, le relazioni segniche possono legare da un lato entità di significato anche molto complesse, e dall’altro lato entità significanti realizzate nei testi tanto tramite elementi ben identificati quanto grazie a un insieme di componenti disseminate in varie parti del testo, 32 o manifestate grazie a caratteri diffusi – “testure espressive”, nei termini di Eco – come potrebbe valere ad esempio per un uso del colore diffuso in tutto il corso di un film, e correlabile nel suo complesso all’espressione di un certo senso specifico. 3 I segni iconici travalicano la loro testualizzazione Veniamo ora a un esempio più complesso, che ci può fare meglio comprendere il funzionamento dei sistemi iconici. Il film di M. Night Shyamalan Il sesto senso si apre con un’inquadratura per noi molto interessante: la macchina da presa ci mostra una lampadina a incandescenza che si accende lentamente, passando dal buio totale alla luce. Successivamente, l’inquadratura verrà giustificata diegeticamente, perché vediamo che si tratta della luce della cantina, ove la moglie del protagonista sta scendendo a prendere una bottiglia di vino; noi ci fermiamo qui alla sola inquadratura iniziale. Pochi spettatori (pochissimi se facciamo riferimento a chi vede il film per la prima volta) attribuiscono un significato a ciò che pure, in questi primi diciotto secondi, è ben evidenziato; d’altro canto parecchi spettatori, rivedendo il film, invitati esplicitamente ad attribuire un significato a queste immagini, concordano su un’interpretazione che loro stessi riconoscono in effetti essere del tutto facile: la lampadina che lentamente si accende, in apertura di un film, dichiara che il testo parlerà in qualche modo di come noi conosciamo cose che inizialmente ci risultano oscure. Cerchiamo ora di capire in che modo essi giungano a questa interpretazione, lasciando per un momento successivo la riflessione sul perché, spontaneamente, i più tendono a non attribuire significati a molto di quanto vedono in un film. Il meccanismo dell’interpretazione è semplice, ci assicurano gli stessi interessati, perché di “lampadine che si accendono” è pieno ad esempio il mondo dei fumetti o quello del parlare comune – per non parlare dell’esperienza diretta di una luce che si accende nel buio, ovviamente. È loro evidente che possono interpretare quella lampadina perché altre ne hanno viste, dal vero o nei disegni, e altre ne hanno sentite citare da persone cui “si era accesa una lampadina”. Questo vuol dire che, se quella specifica lampadina che si accende sta nel film, non è però che un’occorrenza di un tipo culturalmente consolidato: il tipo “luce che si accende nel buio”, con il suo significato “processo con cui si raggiunge una conoscenza in un campo che prima era oscuro”: questo non sta nel film, ma nel sistema culturale. E allora ci troviamo ancora una volta a poter applicare lo schema base del segno: Entità di pensiero individuali 3 I mille modi di pensare il processo che porta dall’ignoranza alla conoscenza Cfr. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, p. 283. 33 Significato ------- Come si raggiunge la conoscenza in un campo che prima era oscuro Significante ------- Una luce che si accende nel buio ------- Immagini, disegni, modi di dire, ecc. di luci d’ogni tipo che si accendono in uno spazio buio Manifestazione ( = singole unità espressive) Anche in questo caso, significante e significato sono costruzioni di carattere collettivo e generale, la cui realtà si colloca su un altro piano rispetto al testo, e che nel testo hanno una specifica occorrenza di manifestazione. Come abbiamo notato, questo può essere riconosciuto dagli stessi comuni spettatori di un film, consapevoli di poter comprendere ciò che compare in un’inquadratura solo in quanto occorrenza di una struttura semiotica di più ampia validità. Vale anche qui il principio della co-analogia, che in particolare lega tra loro tutte le possibili realizzazioni del significante “Luce che si accende nel buio”: luci bianche o gialle o azzurre, di lampadine a incandescenza o tubolari, di fari d’auto o di mare, di provenienza artificiale o naturale, eccetera: una correlazione iconica è una realtà assai più complessa rispetto all’idea di assegnazione di senso a un singolo oggetto. co-analogia le tante rappresentazioni individuali del passaggio dall’ignoranza alla conoscenza “Raggiungere la conoscenza In un campo prima oscuro” Significato Il significante “Luce che si accende nel buio” Significante viene realizzato tramite… co-analogia molti modi concreti di rappresentazione visiva, sentiti come simili tra loro 34 La R-analogia Tutto questo non ci dice però ancora quale sia la relazione che lega il modello mentale di una luce che si accende nel buio (significante) al suo significato, che possiamo sostanzialmente rappresentare a parole come “processo con cui si raggiunge una conoscenza in un campo che prima era oscuro”. Bene, basta esprimere la domanda perché risulti evidente che, per quanto il significante sia l’immagine mentale di un fenomeno osservabile e il significato sia un concetto riguardante i processi conoscitivi, tra i due – significante e significato – si nota una palese analogia. Il buio metaforizza in effetti assai facilmente l’ignoranza, perché è esperienza generale che il buio ci metta in uno stato di non-conoscenza, e così tutti sappiamo che il buio è come l’ignoranza: buio e ignoranza, accendersi della luce e aprirsi della conoscenza, formano coppie di analoghi, e tuttavia non si tratta assolutamente dei coanaloghi di cui più volte si è detto. La metaforizzazione non è reversibile, il buio è la condizione sensibile e concreta, e perciò anche facilmente testualizzabile, che sta per un concetto astratto come il “non sapere” o “non capire”. L’analogia è dunque usata come meccanismo sostitutivo, come principio costitutivo del rinvio tra i due piani del segno. L’analogia non è più, qui, un rapporto che si pone fra elementi che appartengono allo stesso piano, ma attraversa la linea che separa il piano del significante da quello del significato. Parliamo in questo caso di una relazione di rinvio segnico fondata sull’analogia, e la denominiamo R-analogia. Riconosciamo dunque tre diversi criteri che possono legare tra loro il piano significante a quello significato: nel primo caso si tratta di una pura convenzione arbitraria, nel secondo dell’impiego delle connessioni logicosintagmatiche, nel terzo del riferimento a relazioni associative analogiche. fondati su: Segni Segni arbitrari pura convenzione Indici connessioni sintagmatiche Icone R-analogia, analogica) (rinvio per associazione Si può osservare che in tutti e tre i casi – dunque anche in quello dei segni arbitrari e delle connessioni indicali – un ruolo fondamentale è attribuito ai rapporti analogici (in effetti, nessun sistema semiotico può funzionare senza l’entrata in scena di relazioni analogiche); tuttavia, mentre nel caso dei primi due tipi di relazioni segniche si tratta unicamente di forme di co-analogia, i sistemi iconici uniscono il funzionamento della co-analogia a quello del rinvio 35 segnico a fondamento analogico, o r-analogia. La combinazione dei due tipi di analogia può certo rendere il meccanismo più complesso, e se si aggiunge che non sempre è facile distinguere, nei casi concreti, il limite tra le due forme di relazione analogica, si comprende perché intorno al segno iconico si sia creata così tanta confusione teorica e perché per molto tempo questa distinzione sia rimasta poco esplicitata. L’iconismo nel sistema culturale Se conducessimo ricerche sistematiche e osservative, ci renderemmo conto che nell’interpretazione di questo tipo di segni non c’è distinzione sostanziale tra casi di rinvio fondati propriamente sulla similarità e altri basati per esempio sul rapporto che lega il caso singolo al tipo generale, la parte al tutto, l’allusione al suo riferimento, e lo stesso dicasi per sostituzioni fondate su altri procedimenti metaforici, sinestesie, parallelismi formali, o su altre possibili soluzioni di impiego di una figura concreta in rappresentanza di un’entità più astratta. La nozione di “analogia” indica forse il criterio più usato e più evidente, ma di fatto siamo di fronte a un insieme più ampio di relazioni fondate su meccanismi associativi. Come la lettura degli indici poggia su un principio di connessione sintagmatica, diremmo di avere in questo caso a che fare con un legame associativo. Per quanto comunque riguarda l’operatività di tali meccanismi, dobbiamo rilevare che tali legami associativi assumono una direzione ben determinata: nella relazione iconica, il caso singolo sta per il tipo generale, la parte per il tutto, l’allusione puntuale per l’entità più globale, il concreto per l’astratto, e così via: insomma, si rappresenta ciò che è più complesso attraverso qualcosa di più semplice – e questo è un aspetto chiave del funzionamento dei sistemi iconici. Si pensi anche a casi elementari come gli schizzi, gli schemi, le mappe: tutti oggetti che sintetizzano in pochi tratti una realtà più complessa. Com’è evidente, la semplificazione è attuata tramite una selezione, dunque una scelta operata a partire da un determinato punto di vista. Più in generale, un’icona implica sempre un percorso di interpretazione che porta all’assunzione di una tra le prospettive possibili. S’intende che, poiché l’icona tende ad essere più semplice rispetto a ciò cui fa riferimento, essa è anche più facilmente comprensibile: ci è più facile comprendere la struttura di un territorio su una mappa invece che muovendoci sul terreno reale; ci è più facile cogliere il carattere di una persona grazie a un paio di metafore indovinate che non attraverso il contatto diretto; e così ci è più facile farci un’idea di come funziona un certo tipo di atteggiamento caratteriale attraverso la lettura di un romanzo che sintetizza un dato “tipo psicologico”… L’elaborazione iconica sintetizza porzioni della realtà, dell’immaginario o del pensabile, offrendone un’immagine semplificata, o come anche possiamo dire, un modello. Questa modellizzazione dell’esperienza ha valenze tanto pratiche quanto estetiche: si può in effetti pensare che l’arte, in generale, ci affascini proprio 36 anche per questa sua capacità di offrirci modelli, intelligentemente costruiti, della nostra esperienza del mondo. È noto che molti nostri giudizi estetici si riferiscono a quella capacità d’astrazione che consentirebbe all’arte di raggiungere le “essenze profonde” o “assolute” delle cose. Anche nel caso della fotografia, per esempio, l’immagine d’autore si distingue tipicamente per la sua capacità di proporci immagini più essenziali, depurate dagli elementi non significativi, rese in tratti e colori più spogli, costruite su forme geometriche rigorose e nitide. Considerando come questo tipo di immagini riesce a sintetizzare una certa porzione di realtà in modelli testuali organizzati, si comprende come un aspetto fondamentale della comunicazione iconica possa consistere proprio in questo processo che, dietro la sensazione immediata dell’analogia, cela ben più complesse operazioni di cancellazione e organizzazione concettuale, miranti a riprodurre non “le cose” ma una “idea delle cose”. Questo processo si fonda sull’azione di quello che chiamiamo principio di pertinenza. Tale principio seleziona a ogni livello ciò che in una certa entità è “pertinente” alla definizione di un’identità e di un senso. Si tratta di un processo centrale nel funzionamento di qualsiasi sistema culturale, in quanto consente a un gruppo sociale di elaborare una rappresentazione del reale organicamente “pensata”, dunque razionalmente organizzata e riempita di senso. Le relazioni iconiche, fondamentalmente, non danno vita a segni che banalmente “descrivono” o “riproducono” il reale, ma assumono una funzione costruttiva che in molti casi ci sfugge. Proprio perché sembrano riprodurre le cose, i testi iconici rischiano di farci sfuggire il fatto che essi non “copiano” una visione immediata del mondo ma che, tutt’al contrario, producono come loro effetto una specifica percezione del reale. È importante sottolineare a questo punto come il modo di funzionare della significazione iconica sia estremamente diffuso nella nostra realtà semiotica. Non c’è alcuna ragione di concepire l’icona come un tipo di segno unicamente visivo; si impiegano associazioni analogiche in tantissimi ambiti, e anzi la lingua stessa può essere usata in chiave iconica: per esempio, partendo da un caso piuttosto banale, le onomatopee corrispondono a segni linguistici costruiti per analogia con una data entità sonora (si pensi a parole codificate nella lingua italiana come “ticchettare” o “chicchirichì”); anche in questi casi, si noti, suoni complessi e variabili sono riportati dalla lingua a un modello iconico essenziale. Esempio più interessante: anche le metafore – corrispondenti, come tradizionalmente si dice, a un uso figurato della lingua – sono icone costruite con materiale linguistico: quando ad esempio diciamo che “Pierino è un terremoto”, esprimiamo un’attribuzione di qualità che rende il carattere di Pierino per certi versi analogo a taluni effetti di un terremoto. C’è relazione associativa analogica, dunque iconica, tra Pierino e il terremoto. E tale relazione regge tutte le capacità di ben più complessa suggestione metaforica che sono alla base di molta poesia – ciò che tra l’altro consente a un testo poetico di offrirci un’immagine tanto densa ed emozionante della 37 nostra condizione esistenziale: a patto, naturalmente, che sappiamo cogliere questo rinvio al di là di parole che spesso sembrano comunque parlare di oggetti, di scene naturali, di gesti quotidiani. Si pensi poi al caso del teatro: un’arte da sempre considerata mimetica, nel senso che le azioni e i discorsi presentati sulla scena in qualche modo riproducono per analogia azioni e discorsi che persone “reali” compiono nella vita di ogni giorno. Non si tratta soltanto della semplice riproduzione analogica di azioni o discorsi, poiché vengono riprodotti e rappresentati in scena anche relazioni interpersonali e condizioni esistenziali, fino a raggiungere livelli di alta complessità. Ben lontano da un’elementare riproduzione mimetica, si tratta di elaborare un raffinato modello concettuale che collega l’imitazione di determinati momenti di vita (piano del significante) a una forma logica e valoriale, spesso propriamente etica, che li renda intelligibili (sul piano del significato). Ciò che vale per il teatro può essere poi per molti aspetti esteso tanto al cinema quanto a molta fiction televisiva; ma la narrazione in tutte le sue forme ci presenta un campo sterminato di applicazioni dei principi dell’iconismo: romanzi, film, serie televisive, balletti a soggetto, fiabe e leggende, musica con e senza parole, fumetti, cartoni animati, spot pubblicitari e mille altri modi d’espressione in qualche modo narrativa ci forniscono esempi di testi che riproducono mimeticamente taluni aspetti della nostra esperienza di vita, e al tempo stesso ne mostrano la corrispondenza con modelli concettuali e valoriali, con semplici investimenti emozionali o con fondamentali costrutti etici o ideologici. Esempi e approfondimenti in tal senso saranno presentati e discussi nei capitoli che seguono, ma va riconosciuta immediatamente la grandissima presenza e importanza culturale dei sistemi iconici. In questa prospettiva, è importante tornare, in conclusione, su quanto l’apparente, ingannevole trasparenza dei costrutti iconici abbia contribuito a una percezione dell’icona come fenomeno innocentemente descrittivo, anche all’interno della stessa teoria semiotica. Non pochi studiosi tendono in effetti a sminuire le capacità e la ricchezza di senso dei fenomeni iconici – si tratti di espressioni visive, narrative, musicali, e così via; viene così gravemente sottostimata la ricchezza di significati in cui, secondo la nostra prospettiva, siamo al contrario quotidianamente immersi. Questa differenza, tutt’altro che secondaria, marca in pratica uno dei principali tratti distintivi di una prospettiva propriamente “sociosemiotica”, e dunque di uno sguardo attento ai valori culturali e sociali dei fatti semiotici. Si consideri anche il semplice e piccolo esempio esaminato più sopra. I primi diciotto secondi del Sesto Senso aprono un film complesso e intelligente che presenta rilevanti livelli di senso – e questi investono tra l’altro, non a caso, proprio una riflessione sui meccanismi di significazione. Tuttavia, la maggior parte degli spettatori – e dei recensori, si noti – si limita a considerare il film nei termini della sua, pur ammirevole, organizzazione 38 formale – in significativa contraddizione con il fatto che il testo si apre proprio con quella che appare come una palese dichiarazione metaforica del suo oggetto di discorso: si tratta di un film che parla di “come si arriva alla conoscenza”. Come abbiamo notato prima, la lettura del senso di questa prima inquadratura è agevole per uno spettatore medio; ciò che gli manca non è la capacità di interpretare ma l’idea dell’opportunità stessa di dare un senso a ciò che vede (“Era facile capire, ma non ci ho pensato!”, dichiarano gli spettatori). Sembra dunque che sia in questione l’assunzione di un atteggiamento a priori: chi guarda il film come un oggetto dotato di senso, nota che il film si apre con una lampadina che si accende, si rende conto di conoscere il senso di questa immagine e dunque si predispone a una certa visione del film; in effetti, lo spettatore attento e intelligente, convinto della ricchezza di senso di quanto gli viene offerto dai prodotti culturali che lo circondano, sarà premiato dalla partecipazione a un raffinato gioco semiotico. I casi sembrano in effetti essere due. Nel primo, di fronte a una lampadina del tutto evidente, ci comportiamo da ciechi che non vedono nulla, e il film si diverte in effetti a porre tanto lo spettatore quanto il protagonista della vicenda di fronte a una molteplicità di indizi che, per quanto evidenti, non vengono letti: il film ci parla proprio della nostra cecità di fronte ai segni più evidenti, e ci conduce a fare di questo un’esperienza concreta. Nel secondo caso, noi leggiamo le immagini che aprono un nuovo testo cinematografico riferendole a un’entità semiotica – la lampadina che si accende – di cui conoscevamo già prima tanto il modello figurativo quanto il senso metaforico; ma il film ci mostra che in certi casi la “lampadina si accende”, cioè raggiungiamo una conoscenza reale, solo quando abbandoniamo il riferimento a modelli già conosciuti, rinunciando per un momento a proiettare quello che già sappiamo, e dunque a inserire l’esperienza in categorie culturali preformate, per dare invece a noi stessi la possibilità di scoprire qualcosa di profondamente nuovo, inatteso e dirompente: magari perché, come accade nel film, ci rendiamo conto che possiamo comprendere quanto vediamo solo a patto di ri-vederlo con lo sguardo degli altri. In effetti, non avremmo potuto chiudere questa parte, destinata a introdurre il complesso funzionamento dei fenomeni iconici, senza sottolineare anche questa ulteriore duplicità: da un lato, nel loro più comune modo d’agire, i sistemi iconici si basano su correlazioni segniche di più ampia portata, che attraversano molti testi e molte concrete occorrenze d’impiego, consentendoci di riconoscere in ciascun caso un’associazione segnica che può esserci già familiare. Ma dall’altro lato non è un caso che l’impiego dell’associazione analogica sia centrale in qualsiasi forma di espressione artistica: perché essa apre all’autore di un testo la possibilità di offrire ai suoi destinatari l’esperienza di una inedita chiave di percezione, la vertigine di un gioco di connessione analogica impensato e inventivo, talvolta davvero come una sorta di lacerazione che, grazie alla possibilità di passare attraverso lo sguardo originale di un altro, apre uno squarcio su un nuovo codice di lettura e di rappresentazione del mondo. 39 40 3. Il sistema narrativo La forma narrativa come strumento interpretativo Com’è noto, la storia della semiotica ha spesso visto collocare in un posto di primo piano lo studio delle forme narrative. Questo è certamente dovuto al fatto che forme narrative sono alla base del funzionamento di molti differenti sistemi semiotici: dalla letteratura al cinema, dalla fiaba al fumetto, dal teatro al giornalismo, dal melodramma a molti generi di programmi televisivi, e così via. In modo meno ovvio, ma forse per questo più interessante, forme narrative possono essere rinvenute dietro la superficie di realizzazioni testuali più particolari come certi generi di musica, di videogiochi, di umorismo, di scrittura saggistica, e molti altri ancora. Ciò appare ancora più significativo se si considera la vasta gamma di funzionalità cui la forma narrativa può rispondere: non ci sono, infatti, da ascrivere al dominio della forma narrativa, solo i pur numerosi universi della fiction, ma anche quelli della cronaca in senso lato, dunque dell’informazione e dell’esposizione di esperienze personali. “Raccontare” è il modo più comune in cui il giornalista trova opportuno esporre la conoscenza degli eventi, e “ “raccontare” è anche il modo che ci è più naturale per riferire ad altri le nostre esperienze. Questo è tutt’altro che banale; introduce, anzi, uno degli aspetti chiave di una teoria della narrazione, vale a dire l’ambivalenza delle forme narrative tra il mondo della fiction – cioè delle storie costruite, del piacere dell’invenzione e dell’affabulazione – e il mondo della nostra esperienza quotidiana – di quella che non a caso si chiama la “storia di vita”. Lo stesso termine “storia” è singolarmente ambiguo, poiché lo usiamo tanto per contrapporlo all’universo dei fatti reali (“ma dai, non è vero, è una storia!”) quanto per identificare porzioni autonome della nostra esperienza di vita (“Mio fratello ha avuto ‘una storia’ con la vicina di casa”) o addirittura per indicare il contenuto di testi autorevoli in cui sono esposte le vicende, attestate e documentate, che hanno segnato lo sviluppo di una nazione o le vicende di un popolo (il “libro di storia”). Ma c’è di più – anche se si tratta di un aspetto sul quale assai scarsa è stata la riflessione semiotica. Se è vero che noi usiamo la forma narrativa per riferire ad altri le nostre esperienze (la cronaca giornalistica come l’esposizione dei fatti significativi della proprio vita assumono, appunto, la forma di un racconto), è anche vero che la stessa operazione avviene nell’universo totalmente privato della nostra rappresentazione personale di quanto viviamo. L’organizzazione narrativa non interviene infatti solo nel momento in cui noi dobbiamo comunicare ad altri una certa catena di eventi, ma anche al più immediato livello a cui i nudi fatti registrati dai nostri sensi 41 vengono tradotti in qualcosa di realmente pensabile, cioè di organizzato, dotato di una forma logica. Questa comune esperienza ci aiuta a capire cosa in effetti sia il “racconto”. Non un semplice succedersi di eventi, ma una successione di eventi legata da un ordine logico. La registrazione dei singoli eventi, quale ci può arrivare dalla percezione sensoriale, può essere ricca di dati, ma è in effetti priva di strutturazione logica. Accade A, accade B, accade C, e così via. Ma tra questi eventi c’è un qualche ordine logico? Il fatto che i nostri sensi, per esempio, abbiano registrato B un po’ dopo aver registrato l’accadere di A è casuale o no? Avremmo potuto allo stesso modo registrare B e in seguito A? L’insieme [“John estrae la pistola” + “Buck cade insanguinato”] è lo stesso che [“Buck cade insanguinato” + “John estrae la pistola”]? Basta fare un esempio del genere per renderci conto di quanto immediatamente, istintivamente, e potremmo dire ineluttabilmente, la nostra mente cerca subito di annodare i fatti in una sequenza logica, pur se solo ipotetica e presunta. La sequenza logica lega i dati di fatto attribuendo loro un ordine e un senso. Questa è la capacità della forma narrativa: legare, dare ordine, tradurre gli eventi in qualcosa che ci pare avere un senso. I dati immediati – la cui percezione immediata può essere facilmente ansiogena – prendono l’aspetto di qualcosa di spiegabile. Un campo in cui questi fenomeni si presentano con grande evidenza è ad esempio quello dell’informazione. Perché per il fruitore dell’informazione è molto meglio leggere l’articolo sul giornale o ascoltare il servizio in televisione piuttosto che scorrere il seguito di flash d’agenzia sulla cui base informativa quell’articolo o quel servizio sono in effetti interamente costruiti? La relazione tra i due piani è palesemente proprio quella di cui parliamo. I singoli flash di agenzia forniscono i puri dati di fatto sugli eventi, spesso senza legarli tra loro, senza metterne in evidenza un filo logico. Il lavoro del giornalista è proprio quello di collegare i dati, traducendo un seguito di fatti in una storia, ove gli eventi acquisiscono un ordine, delle connessioni, un senso, una comprensibilità. Questo rende evidente, tra l’altro, che la forma narrativa, proprio perché lega e connette logicamente i dati di fatto, agisce come un potente strumento di interpretazione. I dati ricevono un ordine e un senso, dunque risultano letti, definiti, resi significativi. La forma narrativa non tocca i dati di fatto, ma collega i dati a possibili significati. Basta confrontare, restando sempre in questo campo, i racconti che giornalisti di diverse testate costruiscono a partire dagli stessi dati di fatto – come accade nei casi, tutt’altro che rari, in cui si lavora avendo a disposizione le stesse identiche fonti d’agenzia, o le stesse affermazioni pronunciate durante una conferenza stampa. Pur presentando gli stessi dati di fatto, giornalisti di diverso orientamento ideologico li legano secondo logiche diverse, offrendoci ipotesi interpretative differenti in quanto basate su differenti modi di connettere i medesimi eventi. Collegare in un modo o in un altro, decidendo ad esempio che B accade come reazione ad A e non che A è stato messo in atto proprio per 42 provocare B, è con tutta evidenza un modo per stabilire quale sia il senso dei fatti. Una versione formalista del concetto di narratività insiste non a caso sull’idea che la narrazione non consista propriamente in una serie di eventi bensì nella pura struttura logica che li tiene insieme. Che si voglia aderire o meno a tale prospettiva più ristretta, non si può negare il ruolo primario che nella costruzione di un racconto svolge questa struttura connettiva, così come non si può negare che un racconto inevitabilmente attribuisce agli eventi una logica specifica, una chiave di lettura, un’interpretazione (ciò che tra l’altro, in ambito giornalistico, rende insostenibile l’ingenuità che vuole “i fatti separati dalla loro interpretazione”). Uno sviluppo di questo discorso potrebbe mostrare le profonde e interessanti analogie tra forma narrativa e interpretazione scientifica. Anche quest’ultima, infatti, non cerca di trovare le logiche di connessione tra i singoli dati sperimentali? Una teoria scientifica assomiglia molto a una struttura di connessione logica tra dati di fatto, e la sensazione di spiegabilità che essa fornisce è significativamente analoga a quella di cui abbiamo parlato a proposito delle costruzioni narrative. Soprattutto, però, in entrambi i casi siamo di fronte a congegni di interpretazione dei dati di fatto, che di questi ultimi propongono, pur sempre, una tra le letture possibili. La narrazione come sistema primario di modellizzazione dell’esperienza Non è questa la sede per porsi domande ultime sul perché la nostra mente percepisce come fonte d’ansia ciò che è slegato, mentre con tutta evidenza si rassicura di fronte alle forme che legano i singoli dati (ma ricordiamo che la psicologia della percezione, a partire dalla scuola della Gestalt, ha prodotto per esempio un gran numero di ricerche che affrontano questo fenomeno a livello di percezione visiva); in ogni caso le conseguenze che ne possiamo trarre sono evidentemente di grande interesse per una teoria della narrazione. Un aspetto ingiustamente trascurato dai semiotici è del resto quello della genesi delle competenze narratologiche nella mente individuale. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che le prime forme di pensiero infantile prendano proprio i modi della proto-narrazione. Di fronte all’angosciante fenomeno dell’apparire e sparire delle cose e delle persone – della mamma in primo luogo, tipicamente – il bambino cerca di compiere l’operazione appunto del collegare i nudi dati di fatto. Collegati in qualche modo, per quanto rozzo e approssimativo, i fatti d’esperienza fanno meno paura. Se la sparizione della mamma ha un legame di qualche tipo con la sua ricomparsa, o se il giocattolo può essere gettato per terra e poi fatto ricomparire irrorando gli astanti con un congruo numero di strilli, allora vuol dire che il mondo ha un ordine, strano e scomodo forse, ma un ordine comunque. Tant’è vero che, al contrario degli eventi singoli, queste strutture di eventi slegate sono 43 ripetibili (di qui la perversa abitudine del bambino a ributtare giù dalla culla il giocattolo che gli è appena stato raccolto). Il bambino, già nei suoi primi mesi di vita, cerca di esplorare il mondo che lo circonda sforzandosi di trovare connessioni, abbozzi di rapporti causa/effetto, regolarità di collegamento (se piango / allora mi danno da mangiare…). Anche qui, dunque, si tratta di tradurre un’esperienza composta da singoli eventi in una struttura legata, che possiede un qualche ordine e che ci sottragga alla sensazione angosciante di ciò che è privo di senso perché composto da singole entità isolate. Il codice narrativo è impiegato assai presto, si direbbe anzi che possa costituire il primo e più fondamentale strumento di riduzione del senso di angoscia, e se vogliamo il primo e più fondamentale strumento di mediazione tra l’esterno e l’interno, cioè tra gli eventi esterni su cui sentiamo di non avere controllo e la nostra psiche, desiderosa di controllare e organizzare l’esperienza. Questo vale, ovviamente, non solo per il bambino. Un esempio attuale e significativo che può essere citato in proposito è al centro dell’originale film Signs, di M. Night Shyamalan, dove un religioso in crisi si interroga sulla presenza di un ordine e di una volontà superiore dietro gli eventi che compongono l’esistenza umana. Vi sono, egli dice, persone che ritengono che sia il caso a governare la nostra vita, e che non vi sia nulla al di là del fortuito accadere delle cose: essi si sentono soli, e dunque in fondo pieni di paura. Altri invece – e sono i più - non concepiscono mere coincidenze ma vedono ovunque segni, prove di un qualche ordine superiore, per cui hanno la sensazione che ci sia qualche entità “lassù” che li protegga, e questo li riempie di speranza. L’opposizione segni/caso è per noi molto significativa, poiché ci indica proprio come i sistemi semiotici svolgano una funzione di riduzione dell’ansia tramite l’attribuzione di un ordine. Il sistema narrativo, in particolare, presenta questa capacità di legare gli eventi producendo la sensazione di una logica che tiene insieme i fatti e ce li fa percepire come non casuali. Si potrebbe proseguire il discorso su quanto le forme narrative siano basilari nella costituzione dei sistemi religiosi, ideologici, etici. Ma in questa sede ci interessa soprattutto sottolineare quanto il codice narrativo sia in questo senso basilare, primario, e ontogeneticamente precedente all’acquisizione del linguaggio. A tal motivo esso meriterebbe di essere considerato come il sistema primario di modellizzazione dell’esperienza, togliendo quindi questo primato al linguaggio, cui era precedentemente stato attribuito. In questa luce, tra l’altro, potrebbero diventare più significative le connessioni tra i due sistemi semiotici. Se è stato osservato che la sintassi linguistica reca le tracce di un’organizzazione in qualche modo narrativa (c’è un soggetto che agisce su un oggetto, ecc.), questo è forse da considerare l’effetto, se non di una dipendenza, di una successione coerente tra acquisizione delle competenze narratologiche e acquisizione delle competenze linguistiche nella crescita intellettuale dell’individuo. 44 Codice narrativo e codice di manifestazione Una riflessione altrettanto importante è quella per cui la genesi indipendente e primaria del codice narrativo può in qualche modo spiegarne una rilevante anomalia. Quello narrativo è infatti forse l’unico sistema semiotico che funziona indipendentemente da un qualche atto di manifestazione a livello comunicativo. Noi possiamo rappresentarci mentalmente un racconto senza che necessariamente pensiamo che questo racconto sia fatto di parole o di immagini o di azioni teatrali e così via. Possiamo pensarne i personaggi, l’ambientazione, gli eventi, lasciando del tutto impregiudicato il fatto che tale racconto sia poi tradotto in un film, in un fumetto, in una coreografia o in una narrazione verbale. Nessun altro sistema semiotico, si direbbe, possiede questa caratteristica. Noi possiamo certamente pensare, ad esempio, una poesia senza recitarla o senza scriverla, ma questa poesia è fatta di parole: le stesse parole che possono essere pronunciate con la voce, o scritte. Possiamo ricordare o creare mentalmente una musica, ma questa musica mentale è composta semplicemente dalle rappresentazioni di quelle storie note e di quegli stessi timbri che fanno della musica un fenomeno acustico. Il caso della narrazione è diverso: eventi, ambientazioni, personaggi possono avere una realtà puramente psichica. Per diventare comunicabili, per essere manifestati, devono essere tradotti, come nota Greimas, in un qualche altro codice semiotico: il codice verbale o quello teatrale, il codice del fumetto o della danza, e così via. Un racconto può essere manifestato e comunicato ad altri solo se tradotto in qualcos’altro: parole, immagini, suoni… ma il racconto di per sé non è fatto di parole, immagini o suoni bensì, come si è detto, di una catena organizzata di eventi, e di ambientazioni e personaggi. Un racconto possiede il suo significato indipendentemente dal sistema semiotico scelto per la sua manifestazione – anche se quest’ultimo ci aggiunge ovviamente valori e coloriture suoi propri. La storia del Corvo e della Volpe, poniamo, ha i suoi significati e la sua morale, a proposito dei rischi e della logica dell’adulazione, indipendentemente dal fatto che sia espressa a parole o a fumetti. La poesia può essere un veicolo più elegante rispetto a una serie di vignette, ma la vicenda del Corvo che perde il suo formaggio perché convinto dalla Volpe a dar prova delle sue qualità vocali possiede di per sé il suo senso. Una volta costruiti quei personaggi e quella catena di eventi, personaggi ed eventi possiedono dunque indubbiamente il loro significato, indipendentemente dal fatto che si decida poi di farne un fumetto o una poesia. Il principio sembra intuitivamente evidente, anche se molti studiosi tendono a negarlo, probabilmente proprio perché questo apre un’anomalia singolare tra tutti i sistemi semiotici. Tuttavia, nella ricerca scientifica le anomalie devono essere accettate e spiegate, e non cancellate perché ritenute imbarazzanti. Il codice narrativo presenta dunque questa anomalia: esso possiede ovviamente, come ogni sistema semiotico, il suo piano del 45 significante (o dell’espressione) e il suo piano del significato (o del contenuto) pur se non possiede di per sé un modo di manifestazione, ma ha bisogno per manifestarsi di far intervenire altri sistemi semiotici. Nel caso della storia di cui parlavamo, ad esempio, i personaggi della Volpe e del Corvo, l’albero e il formaggio, la catena di eventi e di comportamenti, servono tutti a costituire il piano del significante; il significato lo conosciamo tutti, è il senso e la morale della storia. Forse, il fatto che il codice narrativo sia acquisito prima di ogni altro sistema semiotico, e che esso agisca nella mente individuale come strumento per rendere pensabile l’esperienza della propria vita, può spiegare l’anomalia di cui parliamo. Il codice narrativo non ha di per sé una manifestazione perché è fatto per funzionare prima e indipendentemente dai comportamenti comunicativi, è fatto per funzionare nella nostra mente individuale, è fatto perché noi possiamo darci una rappresentazione psichica della nostra esperienza, anche indipendentemente da ogni atto di comunicazione diretto ad altre persone. Lo stesso non può dirsi neppure del linguaggio, che pure ha un’enorme presenza nella vita psichica individuale: poiché comunque il linguaggio appare elaborato innanzi tutto a scopi di comunicazione interindividuale, e solo in secondo luogo è usato come strumento di pensiero individuale. La dipendenza del codice narrativo da un sistema esterno di manifestazione ci porta alla definizione di un modello schematizzabile come segue – secondo una formulazione semiotica che corrisponde al concetto hjelmsleviano di “codice connotativo”: Significato Sistema narrativo ---------------Significante = Significato ---------------- Sistema di manifestazione Significante Gli elementi che per il sistema narrativo costituiscono il significante – pensiamo immediatamente a tutte le componenti di ordine figurativo: personaggi, ambientazioni, ecc. – diventano i significati dei segni linguistici, grafici o altro, grazie ai quali il racconto ha la sua manifestazione. Questo modo di pensare riporta la semiotica della narrazione nella prospettiva fondamentale di una disciplina interessata in primo luogo ai modi in cui il piano del significato e quello del significante (o se si vuole il piano del contenuto e il piano dell’espressione) si coordinano tra loro. Tale prospettiva, nel caso, è non solo resa complessa dalla necessità di subordinare al codice narrativo un codice esterno di manifestazione ma anche dal fatto che la natura stessa della narratività rende possibili modi diversi di concepire la 46 relazione tra i contenuti e le strutture espressive. Affrontiamo ora, brevemente, quest’ultimo problema. Il triangolo delle funzioni della narratività lico R o Simb S Rea le Invenzione simbolica, esposizione di eventi, forma: queste sono di fatto le tre componenti che entrano a definire l’identità del sistema narrativo. Alcuni racconti privilegiano manifestamente la dimensione dell’invenzione fantastica, esprimendo significati più o meno complessi secondo modalità che siamo soliti definire “simboliche”. Altri racconti puntano invece sul versante cronachistico, e non sembrano – almeno a prima vista – possedere alcun componente simbolico, poiché non fanno altro che “riportare” o “riferire” elementi e fatti tratti dal mondo “reale”. Infine, vi sono ancora altri racconti che sembrano non avere né funzionalità informative né obiettivi di espressione simbolica: centrale sembra essere, in pratica, il piacere di presentare una storia ben costruita, capace di avvincere il destinatario, di stupirlo, di affascinarlo, talvolta addirittura avvicinandosi quasi alla bravura del gioco di prestigio. Le tre funzioni, c’è da pensare, non si escludono mai, e anzi si mescolano in misura molto variabile e in modi anche molto complessi. Possiamo rappresentare lo spazio teorico delle funzionalità semiotiche di un testo narrativo secondo la semplice schematizzazione di un triangolo. I singoli testi, o naturalmente anche i diversi generi, si collocano in punti diversi all’interno del triangolo. Poiché nessun testo è esclusivamente formale, totalmente simbolico o puramente informativo, non vi sono casi che si collocano direttamente sui lati esterni; si dà invece una miriade di posizioni diverse che combina variamente le tre componenti. F Formale Un racconto giornalistico, per esempio, tende a collocarsi nei pressi del lato C. Tuttavia anche un testo di questo genere deve essere attento a criteri di buona forma narrativa, se non altro proprio per la necessità di risultare rapido e scorrevole alla lettura. Il grande autore di reportage tende anzi ad accrescere l’attenzione dedicata a questa componente, facendo magari di un brano di informazione anche un pezzo di bravura nella costruzione abile ed elegante 47 dell’intreccio. Ancora più in là – ci spostiamo sempre più dal lato C verso il lato A del nostro triangolo – un autore di letteratura può prendere la cronaca di un evento come spunto di partenza da calare in una forma sempre più complessa, raggiungendo magari i vertici formali di un “pasticciaccio” alla Gadda. In un altro caso, invece, il fatto di cronaca può essere assunto come emblema (cioè come caso esemplare e simbolico), costruendovi sopra un testo narrativo a forti valenze espressive, e in questo caso dal lato C ci spostiamo verso la componente B. Data un’idea di queste possibilità, cerchiamo di chiarire meglio i termini del problema. Nel caso del testo che usa il racconto per dare espressione simbolica a determinate idee, valori, contenuti ideologici ecc., ci collochiamo nella prospettiva del “percorso generativo” di Greimas. Si parte dalle pure strutture di contenuto astratte – strutture logico-valoriali – e su tale base si allestisce una configurazione narrativa, si organizzano temi e ruoli attanziali, si costruiscono gli elementi figurativi concreti. Ci si muove dunque a partire dal piano del contenuto, e si pensa come dargli espressione tramite l’elaborazione di un adeguato significante narrativo. Ma possiamo pensare allo stesso modo il lavoro di costruzione narrativa svolto dal giornalista? Almeno in prima battuta, egli ci sembra operare in senso diametralmente opposto. Invece di mettere in scena gli eventi a partire dai significati che vuole esprimere – come fa ad esempio il romanziere – l’autore di un pezzo di cronaca parte da eventi che gli si pongono davanti come un dato e cerca di organizzarli in modo da dar loro un senso. Come dire: si parte dal livello figurativo, e si arriva a quello delle strutture semantiche profonde. Apparentemente si tratta di due processi totalmente differenti; tuttavia la semiotica è convinta che le cose non stiano così, e che il lavoro del romanziere e quello del giornalista abbiano più punti in contatto di quanto non appaia a prima vista. Per approfondire realmente questo problema sarebbe necessario un lungo percorso attraverso diversi generi e forme narrative; possiamo provare però a darne una possibile espressione sintetica, tracciando almeno alcune prime linee di riflessione. Si osserva da un lato che anche racconti apparentemente fantastici e irreali come le fiabe costituiscono, tutt’al contrario, modelli per la rappresentazione e la concettualizzazione della nostra concreta esperienza di vita. E d’altro canto è stato anche rilevato come le forme narrative canoniche – quelle che stanno alla base delle regole su cui si fonda il codice del racconto – corrispondano ai modi della nostra soggettiva percezione dell’esperienza di vita. Come dire: da un lato nei racconti anche meno realistici si spiega di fatto come si deve pensare che sia fatta la vita reale, e dunque anche la narrativa più immaginosamente simbolica è una strada di accesso alla logica dell’esperienza concreta. D’altra parte la stessa grammatica generale della narrazione – quella che viene usata per inventare anche i racconti più fantastici – è costruita sulla base dell’osservazione di elementi portanti della 48 struttura della nostra vita reale. Si determina insomma una specie di circolo chiuso: noi concepiamo i fatti quotidiani sulla base di modelli simbolici che sono a loro volta costruiti sulla base dell’esperienza quotidiana. Possiamo allora pensare che ci sia un’effettiva contrapposizione tra la capacità di affabulazione e invenzione fantastica da un lato e quella di rappresentazione del reale dall’altro lato? Diremmo davvero di no. In altre parole, la grammatica narrativa fondamentalmente definisce la forma logica secondo la quale noi possiamo darci una rappresentazione – e una spiegazione – dei fatti che compongono la nostra realtà quotidiana. Il problema riguarda anche il lato più “formale” del nostro triangolo delle funzioni del testo narrativo: quando diciamo che un racconto è “formalmente ben costruito” stiamo dicendo, in qualche misura, che esso obbedisce alla forma logica tramite la quale interpretiamo la realtà. Cosa potrebbe essere in effetti una “buona forma” se non ci fosse un qualche riferimento a una forma adatta a rappresentare razionalità, logica, senso? I tre lati del nostro triangolo appaiono, come già si può intravedere, strettamente correlati e dipendenti l’uno dall’altro: fatto che, si noti, non diminuisce ma anzi accresce l’interesse di distinguere le tre funzioni, e potere di conseguenza ragionare sulle loro interrelazioni. La capacità principale dei sistemi narrativi sembra in effetti essere quella di omogeneizzare sotto gli stessi apparati formali l’invenzione e l’esperienza, il simbolico e il fattuale, la forma astratta e l’esemplificazione pedagogica. Propp: il concetto di “funzione” Se l’opera principale di Vladimir Propp, La morfologia della fiaba, è da molti considerata come il punto di partenza degli studi recenti di teoria della narrazione, ciò è dovuto presumibilmente al combinarsi di due ragioni. Da un lato si tratta della grande intuizione per la quale la sua metodologia decide di collocarsi su un piano di analisi più astratto, soggiacente a quello del racconto concreto e non riducibile a quest’ultimo. Dall’altro lato il merito è, possiamo dire, dell’oggetto cui lo studioso si è applicato, giacché si è poi compreso con chiarezza quanto la fiaba costituisca una forma narrativa fondamentale e primaria, e quanto dunque le indagini su questo universo narrativo possano risultare interessanti per una riflessione generale sulle forme del racconto. Al centro dell’elaborazione teorica di Propp si pone il concetto di “funzione” – concetto non banale e di non facilissima definizione. La stessa definizione di Propp non è del tutto chiara, ma è interessante notare che chiunque di noi possiede di fatto una “nativa competenza” narratologica grazie alla quale percepisce ciò che l’autore della Morfologia della fiaba intende sostenere. Basta infatti considerare i quattro esempi da cui egli parte per spiegare il suo metodo. Propp confronta i casi di quattro diversi racconti in cui si trovano episodi che possono essere così riassunti: 4 4 Propp, V. JA. Morfologija skazki, "Academia", Leningrad, 1928; trad. it. Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966. 49 1. Il re dà ad un suo prode un’aquila. L’aquila lo porta in un altro regno. 2. Il nonno dà a Sucenko un cavallo. Il cavallo lo porta in un altro regno. 3. Lo stregone dà a Ivan una barchetta. La barchetta lo porta in un altro regno. 4. La figlia del re dà a Ivan un anello. I giovani evocati dall’anello lo portano in un altro regno. 5 L’analogia tra i quattro esempi appare subito percepibile, e acquista tratti più significativi (e, diciamolo, anche più precisi di quelli lasciati intravedere da Propp) nel momento in cui cerchiamo di conoscere meglio i rispettivi contesti narrativi. Per esempio, nel caso dell’esempio 3 protagonista è Ivan Figlio-DiContadino, il quale incontra un mago che per aiutarlo disegna sulla sabbia una barca: appena Ivan vi si pone all’interno, il disegno si anima e la barca fatata prende il volo, consentendo alla vicenda di concludersi per il meglio. L’altra fiaba, quella corrispondente all’esempio accennato al punto 4, è quella di Scheletro Senza Morte. Scheletro, in questo racconto, rapisce la moglie dello zar; il figlio Ivan cercherà dunque di liberarla. Dopo un cammino lungo e difficile, il principe Ivan ritrova sua madre e sconfigge Scheletro Senza Morte, liberando in tal modo non solo sua madre ma anche una bella principessa, anch’essa rapita dal malvagio. Inevitabile il colpo di fulmine: Ivan e la principessa si scambiano una promessa di matrimonio, e tutti e tre intraprendono la lunga strada di ritorno. A un certo punto però la ragazza si rammarica di aver dimenticato a casa di Scheletro un anello di brillanti. Ivan affida le due donne ai suoi fratelli e torna indietro a cercare i preziosi. I fratelli, però, convincono la madre e la principessa che Ivan è morto, e per essere sicuri che questi non possa più far ritorno a casa tagliano la corda necessaria per calarsi lungo il ripidissimo fianco di una montagna. Se non che, fortuna vuole che l’anello di brillanti ricuperato da Ivan sia dotato di proprietà magiche: non appena Ivan lo agita, compaiono dodici giovanotti, che lo trasportano in volo giù dalla montagna. Il finale è classico: Ivan raggiunge in incognito il palazzo paterno, e un momento prima che si celebrino le nozze rivela la sua identità. Sarà lui a sposare la principessa, mentre i perfidi fratelli saranno cacciati in esilio. Ora, rispetto ad esempio a queste due fiabe, nel momento cruciale in cui ci presenta il suo concetto di funzione, Propp concentra l’attenzione soltanto sui due episodi che considera analoghi: quello della barchetta disegnata sulla sabbia nella prima fiaba, e quello del magico anello che evoca i dodici giovani della seconda. In effetti, di fronte a esempi di questo genere, il nostro intuito ci dice che, per quanto molte cose possano essere diverse da un racconto all’altro, traspare chiara in tutti questi episodi una struttura fondamentale invariata. Dietro una superficie mutevole, riconosciamo lo 6 5 6 Op. cit., p. 25. Si tratta della fiaba numero 93, secondo la numerazione di Propp. Nella traduzione italiana della raccolta di Afanasjev (v. alla nota precedente), la si trova alle pp. 377-382. 50 stesso valore funzionale: eventi in se stessi diversi svolgono cioè un ruolo in qualche modo analogo. La barchetta disegnata sulla sabbia o l’anello che evoca i dodici giovani, così come l’aquila fatata o il cavallo donato dal nonno, pur essendo in se stessi concretamente diversi (un’aquila è certo tutt’altra cosa da una barca, o un cavallo da un anello) svolgono però nelle rispettive fiabe una medesima funzione narrativa. Una delle riflessioni interessanti che molti studiosi hanno proposto successivamente è che a ben guardare siamo di fronte non al ripetersi di singole “funzioni” analoghe, bensì a più complessi moduli che si ripetono da un racconto all’altro con la stessa logica compositiva. Per esempio, questo accade nel caso in cui l’eroe deve superare una prova grazie alla sua generosità o cortesia, per ottenere da altri personaggi un aiuto che si dimostrerà indispensabile al compimento della sua impresa. In questo caso tre funzioni, corrispondenti rispettivamente alla messa alla prova, al superamento della prova e all’ottenimento dell’aiuto vengono a formare un gruppo solidale dotato di una precisa fisionomia narratologica. Il principio generale corrisponde comunque alla possibilità di individuare – a un livello di maggiore o minore complessità – delle costanti narrative riconoscibili anche dietro a episodi che possono apparire a prima vista molto diversi. La costanza di struttura può permanere anche se ogni elemento della storia muta. Le letture semplificate della Morfologia della fiaba intendono non di rado che a mutare siano i personaggi e le loro caratteristiche, e a restare costanti le azioni che questi personaggi compiono. Ciò non è assolutamente vero. A parità di funzioni svolte, le azioni possono variare decisamente. Nei casi citati, per esempio, non c’è dubbio che l’azione del disegnare una barca sulla sabbia è molto diversa dall’agitare l’anello di brillanti: eppure entrambe le azioni realizzano la stessa funzione, che è quella di dare origine a un mezzo di spostamento che consenta l’accesso dell’eroe a uno spazio altrimenti inaccessibile. Come si vede, è l’effetto sullo svolgimento degli eventi che è analogo, mentre non lo è affatto l’azione compiuta. In pratica, si ricava dallo studio di Propp che: A) gli eventi che hanno luogo nel corso della fiaba sono definiti non dal loro modo di svolgersi, non dai fatti concreti come questi si presentano nel racconto, ma solo dalla funzione che svolgono nel complesso della vicenda, o se vogliamo dai risultati cui essi portano – secondo una prospettiva che privilegia evidentemente la connessione causa-effetto B) del tutto analogamente, l’identità dei personaggi dipende non dal modo concreto in cui essi si presentano nel racconto, bensì dal ruolo che essi svolgono. 51 Lo schema compositivo della fiaba Per la precisione, nell’universo narrativo della fiaba di magia Propp distingue 31 differenti funzioni e solo 7 tipi di ruoli che i personaggi possono rivestire. Quanto a questi ultimi, Propp riconosce con chiarezza i ruoli dell’Eroe, dell’Antagonista, del Donatore dei mezzi magici, dell’Aiutante e del cosiddetto Mandante, corrispondente a colui che propone all’eroe l’impresa da compiere. Per ragioni davvero poco chiare, lo studioso russo duplica quest’ultimo ruolo aggiungendovi quello “della Principessa e del re suo Padre”, ma questo con tutta evidenza non è propriamente un ruolo bensì solo l’evidenziazione di quali personaggi tipicamente occupino il ruolo di Mandante. Decisamente più interessante è l’introduzione del ruolo del Falso Eroe, che erroneamente altri studiosi confonderanno con quello dell’Antagonista. In compenso, egli dimentica di mettere in elenco il ruolo della Vittima, che pure nomina altrove più volte e che è tra l’altro assai tipico dell’universo narrativo della fiaba. A questi, si dovrebbe aggiungere il ruolo del Tutore che compare tipicamente all’inizio del racconto, in forma di persona adulta, genitore, amico più esperto o simili (è solo perdendo questo elemento di protezione che il protagonista sarà esposto all’attacco dell’Antagonista). Otteniamo dunque questo elenco di ruoli narrativi: 1. Eroe 2. Antagonista 3. Donatore dei mezzi magici 4. Aiutante 5. Mandante 6. Falso Eroe 7. Vittima 8. Tutore Più decisiva è però l’individuazione delle funzioni. Di queste noi daremo ora l’elenco originale, accompagnandole tuttavia con commenti più aggiornati e significativi di quelli che si trovano nel testo di Propp. Si noti che a ciascuna funzione Propp assegna un nome, una definizione e un simbolo sintetico – che nella maggior parte dei casi è una lettera dell’alfabeto. È molto importante, per molti sviluppi della teoria semiotica, comprendere bene, più che i singoli dettagli, la logica che tiene insieme questo schema, e che come si vedrà è molto più complessa e raffinata di quanto lo stesso Propp potesse sospettare. Innanzi tutto, va rilevato che alcune funzioni sono manifestamente più importanti di altre, nell’economia di costruzione del racconto. La più importante di tutte è in effetti quella che agisce come vera macchina che attiva e fa muovere il congegno narrativo: si tratta della funzione denominata da Propp “Mancanza”, e che corrisponde a quel desiderio che spinge all’azione, che attiva insomma il motore narrativo. Se questo desiderio sia riferito a qualcosa che non è posseduto all’origine si tratta in senso stretto di 52 una “Mancanza”, ma in altri casi si fa riferimento a qualcosa che all’origine era posseduto e che è stato sottratto o distrutto da un Antagonista, e in tal caso si parla di “Danneggiamento”. Mancanza e Danneggiamento sono varianti sostitutive che, in due modi parzialmente diversi, aprono la necessità di un’azione, e dunque muovono la logica della storia. Propp, giustamente, non le considera come due “funzioni” diverse ma come varianti comunque significativamente differenti di una stessa funzione fondamentale. Stranamente, non rileva però in pieno che l’alternativa tra storie che partono da una Mancanza e storie fondate sul Danneggiamento genera altre rilevanti differenze strutturali. Se vi è un Danneggiamento, infatti, vi dovrà essere un responsabile di questa azione negativa, un Antagonista, e dunque il clou dell’azione consisterà nello scontro tra Eroe e Antagonista, corrispondente alle funzioni Lotta e Vittoria. Nel caso non vi sia Danneggiamento ma Mancanza, non essendovi di conseguenza un Antagonista da sconfiggere, il momento centrale della storia sarà costituito da una o più prove che l’eroe dovrà superare (funzioni Compito difficile e Adempimento del compito). Un’altra differenza importante deriva dal fatto che, essendo la Mancanza uno stato di partenza e il Danneggiamento uno stato, potremmo dire, di Mancanza procurata, la prima si presenta come punto iniziale da cui muove la vicenda, mentre il secondo si pone come risultato di una o più azioni progettate dall’Antagonista. Propp distingue al proposito, nello “schema compositivo” della fiaba, una parte preparatoria che porta al compimento del Danneggiamento e che dunque non può essere presente nelle fiabe fondate sulla Mancanza. La sezione preparatoria La sezione preparatoria muove da uno stato di partenza – funzione Situazione iniziale – ed è composta da quattro piccoli episodi. Si tenga presente che il Danneggiamento avviene ai danni di una Vittima, personaggio tipicamente debole e indifeso. Il primo momento, molto interessante per la comprensione della logica di costruzione del racconto, è dunque quello in cui la futura Vittima deve essere separata da personaggi (più adulti, più accorti, più forti…) che altrimenti saprebbero impedire l’azione negativa. Propp chiama tale funzione Allontanamento, giacché tipicamente nella fiaba capita che gli adulti protettivi si allontanino dai giovani lasciandoli indifesi o – come ad esempio in Cappuccetto Rosso – che siano loro stessi ad inviarli lontano. Nello stesso senso agiscono le funzioni Divieto / Infrazione: la mamma di Cappuccetto Rosso, per esempio, manda la bimba dalla nonna, ma per evitarle situazioni pericolose le raccomanda di passare per il bosco; la figlia non osserva la raccomandazione, e difatti incontra il lupo, con tutto ciò che ne segue. Come in questo esempio, il Divieto ha funzione protettiva (“Istruzioni protettive” sarebbe in effetti una dizione più chiara per questa funzione), e non osservarlo è un modo di mettersi in pericolo. Tuttavia, questa coppia di 53 funzioni può avere un valore sottile ed ambiguo, poiché in molti casi si comprende che solo violando queste istruzioni protettive i giovani possono esplorare la realtà e diventare adulti. Il valore etico e ideologico di questa costruzione narrativa è evidente: si è al sicuro solo fino a che si resta all’interno delle regole… La sezione preparatoria è completata da due episodi di struttura simile. Nel primo l’Antagonista, con domande ingannevoli, ottiene delle informazioni utili per compiere il Danneggiamento; nel secondo egli mette in atto un inganno nel quale la vittima, altrettanto ingenuamente, cade. Il primo episodio si compone dunque delle due funzioni Investigazione e Delazione (termine un po’ ingannevole: la Vittima fornisce sì informazioni indebite, ma questo avviene per pura ingenuità), il secondo episodio della coppia di funzioni Tranello/Connivenza (anche qui il termine sembra, a torto, implicare una partecipazione voluta della Vittima). Ciò che va rilevato è che in questo modo la Vittima perde delle difese essenziali: nel primo episodio cedendole sul piano cognitivo, del sapere regalato all’Antagonista (poiché le informazioni fornite rendono più facile l’attacco dell’avversario), nel secondo caso sul piano della forza o delle possibilità di accesso, poiché si cede all’avversario un potere che prima non aveva, per esempio aprendo indebitamente la porta di casa, cioè annullando scioccamente un ostacolo che l’altro non sarebbe stato in grado di superare con le sue forze. A questo punto la parte preparatoria è terminata, poiché la Vittima ha “sbagliato” in tutti i modi possibili e l’Antagonista ha la strada libera per operare il suo Danneggiamento. Notiamo che nei quattro episodi della parte preparatoria il protagonista perde successivamente: la protezione di persone più forti, una condizione che lo poneva al riparo, una sicurezza sul piano cognitivo e una difesa sul piano materiale. L’avvio all’azione dell’Eroe Che vi sia stato Danneggiamento o che si parta da una Mancanza, si ha a questo punto un tipico problema di comunicazione: il danno o la mancanza deve essere reso noto, insieme alle indicazioni opportune perché qualcuno si dia da fare a cercare la soluzione. In molte fiabe si ha qui il tipico, interessante motivo del “bando”. Il bando – malauguratamente Propp non se ne avvede, ma lo sottolineerà poi Greimas – contiene una componente informativa, ma anche una contrattuale. Il bando è infatti un testo particolare, che lega tre cose: a) l’informazione sul passato (ciò che è avvenuto, il problema da risolvere), b) un progetto di azioni future (l’impresa da compiere), c) la definizione della sanzione di riconoscimento finale (il premio previsto per chi compirà l’impresa). Nella Morfologia della fiaba, purtroppo, questa interessantissima funzione, denominata Mediazione o Momento di connessione, non riceve l’attenzione che merita. Ma vi torneremo sopra. 54 A questo invito all’azione risponde comunque la decisione ad agire da parte del futuro Eroe, funzione detta Inizio della reazione (si noti come più volte ricorrano nella struttura della fiaba meccanismi del tipo Proposta/Decisione di agire, Domanda/Risposta, e simili). Questa funzione apre la strada al processo migliorativo che di qui in poi verrà esposto nel racconto. La parte centrale della storia Segue la prima funzione di movimento (se teniamo conto dell’Allontanamento, in verità questa sarebbe la seconda funzione di questo genere che incontriamo), corrispondente alla Partenza dell’eroe da casa. È interessante notare che le prove decisive compiute dal protagonista non sono quasi mai collocate nello spazio dove il racconto inizia, ma dislocate in uno spazio sostanzialmente diverso e selvaggio (il bosco, la montagna, il deserto…). Poco più avanti si troverà in effetti l’altra funzione di spostamento che risponde a questa, vale a dire il Trasferimento, o forse più chiaramente l’Arrivo al luogo in cui si trova l’oggetto cercato. Durante il complesso tragitto che porta l’eroe dall’uno all’altro spazio – dallo spazio sociale e protettivo di partenza a quello selvaggio, solitario e spaventoso di arrivo – si colloca però un altro episodio capitale. L’Eroe incontra un personaggio, di solito anziano e misterioso. Questi lo sottopone, spesso in forma anche implicita, a un qualche tipo di prova, allo scopo di comprenderne le inclinazioni o le capacità; quindi, sulla base delle positive risposte del protagonista, gli fornisce un aiuto che sarà decisivo per il compimento dell’impresa. In molti casi l’aiuto consiste in un oggetto magico (una spada che attribuisce una speciale forza, per esempio), dunque un incremento del potere dell’Eroe, ma altre volte ci si situa anche qui sul piano del sapere, fornendo all’Eroe conoscenze indispensabili, per esempio sul luogo in cui si nasconde il suo Antagonista. Nei termini di Propp, l’episodio consta di tre distinte funzioni: la Prima funzione del Donatore¸ che mette alla prova l’Eroe, la corretta Reazione dell’Eroe e la conclusiva Consegna del mezzo magico. Con l’arrivo sul luogo ove si trova l’oggetto cercato si giunge al cuore dell’azione. Come già si era detto, nelle fiabe basate sul meccanismo del Danneggiamento si hanno qui le funzioni Lotta e Vittoria; in quelle che muovono dalla Mancanza si ha invece il Compito difficile e il suo Adempimento. In entrambi i casi si giunge ad un’altra funzione cardinale, corrispondente alla soluzione del problema di partenza: la Rimozione della sciagura o della mancanza. Ci si avvia ora verso le fasi conclusive, che possono rivelarsi tuttavia assai più complesse di quanto ci aspetteremmo. Ma notiamo innanzi tutto una certa analogia nel percorso spaziale di ritorno rispetto a quello di andata. Anche qui abbiamo due funzioni di spostamento: l’inizio del Ritorno e l’Arrivo (vedremo tra poco che la definizione di questa funzione è in realtà più complessa), e anche qui un episodio che si colloca lungo il percorso, pur se si tratta in questo 55 caso di un episodio meno importante, una sorta di prolungamento della lotta con l’antagonista. Per fare un esempio, se nella fase Lotta-Vittoria il drago è stato ucciso, possono arrivare ora all’inseguimento del nostro protagonista la moglie o i figli del drago. L’episodio, strutturalmente poco rilevante e utile più che altro per allungare un po’ la narrazione, corrisponde in Propp alle funzioni Persecuzione / Salvataggio. Le fasi conclusive Assai più significative sono invece le funzioni che compongono l’ultima parte del racconto: funzioni che del resto sembrano porsi fuori della logica narrativa seguita fino a questo punto. Perché non si passa direttamente alla consegna all’eroe del premio inizialmente pattuito? Perché l’identità dell’eroe non risulta affatto chiara. Il suo arrivo a casa corrisponde alla funzione detta Arrivo in incognito – in pratica due funzioni, una di spostamento e una relativa al fatto che l’eroe, di norma, non viene riconosciuto come tale. Un altro personaggio, il Falso Eroe, si presenta invece come il vero autore della risoluzione – funzione Pretese infondate del Falso Eroe. Il Mandante, cui spetta ora il compito di assegnare premi e punizioni, si trova a questo punto in imbarazzo, non sapendo attribuire ai personaggi la loro corretta identità; la vicenda, come si vede, ha una svolta interessante, entrando in questioni più sottili concernenti appunto l’identità dei personaggi. I possibili percorsi di soluzione sono a questo punto due. Il primo, più interessante, si avvale di un segno che l’Eroe ha raccolto, volutamente o no, al momento in cui ha compiuto la sua impresa: per esempio può trattarsi delle lingue strappate al drago, o anche più semplicemente delle ferite ricevute in battaglia. In tal caso, nella fase precedente del racconto, accanto alle funzioni Lotta e Vittoria se ne deve inserire un’altra, detta Marchiatura, corrispondente appunto al momento in cui il segno viene acquisito, o ricevuto. Nella fase di chiusura è in tal caso sufficiente esibire quella prova per passare alle funzioni di Identificazione e, corrispettivamente, di Smascheramento del Falso Eroe. In alternativa si può più banalmente introdurre una nuova apposita prova da superare, ripetendo le funzioni Compito difficile / Adempimento, giungendo anche per questa strada alla Identificazione e allo Smascheramento. Superato questo episodio, siamo alle funzioni finali. Ci sarà ovviamente il premio per l’Eroe – banalmente concretizzato da Propp nella funzione Nozze, e Punizione per il Falso Eroe. Ma prima di questi momenti di chiusura si colloca un’ultima funzione interessante: la cosiddetta Trasfigurazione dell’Eroe, giacché in molti di questi racconti il protagonista assume alla fine un aspetto diverso (può trattarsi di una trasformazione magica, o anche solo di un cambiamento nel modo di vestire). Questa trasformazione corrisponde del resto al suo mutamento di status: difatti, quello che all’inizio della vicenda era di norma un “nessuno”, un ragazzetto 56 qualunque, spesso povero e non considerato, diventa alla fine principe consorte, titolare di una metà del regno, o comunque membro ricco e stimato della comunità. Perché, a conti fatti e con di fronte agli occhi l’elenco completo delle funzioni definite da Propp, è logico chiedersi se non dobbiamo riconoscere che sia questa la vera storia narrata in questi racconti: la storia della trasformazione dell’identità sociale di una persona, una trasformazione anzi di solito tanto evidente e sottolineata quanto radicale e decisiva. Si noti, in proposito, che la funzione detta “Trasfigurazione” è collocata prima del premio di chiusura ma dopo l’identificazione del protagonista da parte delle istituzioni (tipicamente il re, nella fiaba): come a indicarci che l’assunzione di un nuovo aspetto, legato a un nuovo status, è conseguenza del giudizio di identità dato dalle istituzioni sociali. Perché questa nuova identità assunta dal protagonista della storia è guadagnata sì nel corso delle sue imprese ma è definita, nei suoi contenuti, dalla superiore istanza sociale. L’eroe diventa a questo punto quello che la società decide che egli deve essere: la nuova identità va pensata essenzialmente come effetto della sanzione sociale. 57 Elenco delle funzioni di Propp con il relativo simbolo indicatore, accompagnate da una ridefinizione operativa e chiarificatrice Simb . Definizione di Propp Ridefinizione operativa e note i Situazione iniziale e Allontanamento Distacco della Vittima dal Tutore, personaggio in grado di proteggerla k Divieto Istruzioni a scopo protettivo, dal Tutore alla Vittima q Infrazione del divieto (da parte della Vittima, che così si mette in pericolo) v Investigazione L’Antagonista cerca di carpire alla Vittima informazioni utili w Delazione L’Antagonista riceve le informazioni dalla Vittima j Tranello ordito dall’Antagonista, per superare difese… y Connivenza … difese perse dalla Vittima cadendo nell’inganno x/X Mancanza/Danneggiamento (motore primario della narrazione) Y Mediazione (la sciagura o mancanza è resa nota) a) Informazione su quanto accaduto b) Indicazione dell’azione da compiere c) Contratto di scambio W Inizio della reazione Il futuro Eroe decide di passare all’azione ↑ Partenza dell’eroe da casa (dallo spazio “proprio” verso lo spazio “altrui”) D Prima funzione del Donatore Messa alla prova dell’Eroe E Reazione dell’eroe Superamento della prova Z Conseguimento del mezzo magico Mezzo magico = Oggetto con Valore d’uso Donatore = Destinante dei Valori d’uso R Trasferimento al luogo in cui si trova l’oggetto cercato (arrivo nello spazio “altrui”) L/C Lotta contro l’Antagonista / Compito difficile Varianti, funzioni alternative (Lotta se c’è Antagonista, se Danneggiamento) 58 M Marchiatura Acquisizione di un segno V / Vittoria dell’Eroe / Adempimento del compito A Varianti, funzioni alternative R m Rimozione del Danneggiamento o della Mancanza (come risultato del successo dell’Eroe nella azioni precedenti) ↓ Ritorno dell’Eroe verso casa (partenza dallo spazio “altrui” verso lo spazio “proprio”) P Persecuzione Ripetizione secondaria della Lotta S Salvataggio Ripetizione secondaria della Vittoria ° Arrivo in incognito (dell’Eroe) Due funzioni fuse: Arrivo nello spazio “proprio” + Non riconoscimento dell’Eroe (“Stato incognito”) F Pretese infondate del Falso Eroe Un altro personaggio si fa passare per chi ha compiuto l’impresa (Finzione, rovescia lo Stato incognito) C Compito difficile, o meglio Compito Supplementare A Adempimento del compito (supplementare) I Identificazione dell’Eroe Da distinguere due funzioni diverse: a) Esibizione del segno (conseguente alla Marchiatura) b) Stato risultante: Identità dell’Eroe nota) Sm Smascheramento del Falso Eroe L’altra faccia dell’Identificazione, nel senso di Stato Risultante (anche l’identità del Falso Eroe è ora nota) T Trasfigurazione dell’Eroe Cambiamento di aspetto che esprime un cambiamento di status e identità – È parte dello stato finale Pu Punizione del Falso Eroe, s’intende (altra faccia dello stato finale) N Nozze Comprende due aspetti, a rigore: a) Premio finale, tipicamente inteso come assegnazione di un nuovo status all’Eroe b) Omologazione (per imparentamento) tra Eroe e Mandante, dunque tra Soggetto e Istituzione 59 Schema della fiaba e rappresentazione della vita A quanto detto nel precedente paragrafo, aggiungiamo subito un’osservazione importante. Le funzioni così descritte costituiscono quello che Propp chiama lo “schema compositivo unitario”: cioè, potremmo dire, il modello culturale sottostante a questo genere narrativo. Parlando di “modello culturale” ci si riferisce però a qualcosa che esiste su un livello profondo e non immediatamente visibile, a una sorta di grammatica della fiaba di magia. Come tale, questo modello è deducibile dallo studio di un certo numero di racconti concreti, ma non si manifesta nella sua interezza in nessuna fiaba particolare. Ogni testo realizza una certa parte dello schema comune, puntando su certi aspetti e certi episodi e tralasciandone altri, dunque lasciando inutilizzate altre funzioni. Ciò non toglie che tutte le fiabe di magia della tradizione russa facciano riferimento, secondo Propp, a un medesimo schema di base: conclusione questa tutt’altro che banale, dato che in apparenza si tratta di racconti assai diversi tra loro. Sorge, ovviamente, la curiosità di capire da dove discenda il disegno di questo schema profondo cui si riconosce un tale rilievo culturale. La risposta di Propp arriva parecchi anni dopo, nel volume tradotto in italiano con il titolo Le radici storiche dei racconti di fate. Egli ipotizza una derivazione storica delle fiabe – passando attraverso i miti – dai riti di iniziazione, cioè da complessi di azioni simboliche diffusi in molte parti del mondo con caratteri significativamente analoghi. Molti particolari che gli etnografi hanno registrato a proposito di questi rituali si ritroverebbero nei racconti fiabeschi, ma ciò che soprattutto a noi interessa è che tra i riti iniziatici e la forma narrativa base della fiaba si registra una profonda analogia di logica e di significato. Il rito iniziatico, in sostanza, corrisponde alla messa in scena simbolica del più fondamentale passaggio di status nella vita dei membri della comunità, segnando il momento in cui essi acquisiscono una condizione di adulti, mutando radicalmente la loro definizione sociale. Grazie a questa azione rituale, ragazzi che non erano “nessuno” costruiscono la loro vera identità all’interno del gruppo (tra l’altro, presso molte culture i giovani che hanno passato l’iniziazione incomincino a pensare a scegliersi un partner per costruire una propria famiglia: la funzione “Nozze”). Non solo molti elementi di dettaglio e molti momenti del racconto fiabesco, ma la stessa logica portante dello schema compositivo trovano in effetti riscontro in aspetti corrispondenti del rito iniziatico. Se non crediamo più oggi a ipotesi di derivazione storica della fiaba dal rito, questa profonda analogia mantiene tutto il suo interesse nei termini di una corrispondenza di valore e di configurazione semantica. Il rito iniziatico sintetizza il modo in cui i giovani entrano veramente a far parte del gruppo sociale, mentre dal canto suo la fiaba spiega alle nuove generazioni in che modo crescere e diventare adulti. 60 Su questa base si può anche ragionevolmente ipotizzare che la struttura narrativa della fiaba faccia in definitiva riferimento a un modello fondamentale per la rappresentazione della logica narrativa della vita umana. Secondo questo modello, è possibile pensare la storia della vita individuale da un lato come un seguito di momenti di crescita che fanno aumentare le nostre capacità e le nostre conoscenze e dall’altro lato come un seguito di prove che ci consentono di dimostrare le nostre capacità e di conseguenza di fare riconoscere una nostra identità via via più adulta, più degna di stima, eccetera. Il primo aspetto, decisamente personale, corrisponde a una progressiva trasformazione di sé, laddove il secondo ha carattere senza dubbio più interindividuale, trattando dei modi in cui ciascuno di noi entra in rapporto con il proprio contesto sociale. In questo modello narrativo, il protagonista deve prima staccarsi dal suo ambiente, per crescere, affrontando luoghi paurosi, personaggi strani, mostri (che possono ben essere proiezioni di un inconscio interno al protagonista), laddove nella seconda parte della vicenda il protagonista si trova tipicamente confrontato con le sanzioni di un re, vale a dire di un’autorità pubblica garante di un giudizio idealmente collettivo. La fiaba, insomma, vale anche come rappresentazione del contrasto tra il sociale e l’individuale, tra l’ambiente esterno in cui ci troviamo e la realtà che noi stessi costruiamo sulla base dei nostri desideri. Tutto questo, si noti, non si svolge nello spazio rarefatto di una vicenda puramente interiore, ma è collegato all’agire concreto dell’eroe in un ambiente complesso in cui deve spostarsi, reperire persone e oggetti necessari per compiere le sue imprese, e soprattutto risolvere problemi concreti come eliminare esseri pericolosi, liberare principesse, difendere la causa dei giusti e la libertà del reame. Perché la vita, dobbiamo capire, è una faccenda complicata, in cui la definizione di noi stessi dipende tanto da ciò che facciamo quanto da come sappiamo interagire con gli altri, tanto dalle capacità che riusciamo ad acquisire quanto da ciò che gli altri diranno di noi, tanto dal saperci porre i nostri obiettivi quanto dal poter contribuire al raggiungimento di obiettivi di altri o della collettività cui apparteniamo. La logica portante del racconto fiabesco A ben guardare, lo schema fiabesco corrisponde non a una storia soltanto ma più propriamente a due storie, intrecciate tra loro. Questo spiega, tra l’altro, perché quando si arriva alla Rimozione della mancanza o del danneggiamento la storia prosegue, pur se apparentemente è ormai risolto il problema di partenza. Questo può accadere, ovviamente, perché il seguito della vicenda non ha più direttamente a che vedere con il problema posto all’inizio dalla Mancanza o dal Danneggiamento, bensì con l’altro tema centrale della cui primarietà ci siamo ora resi conto, vale a dire quello concernente il riconoscimento dell’identità del protagonista. Capiamo insomma che una fiaba presenta due piani narrativi perché parte da due 61 Mancanze: quella pubblica e istituzionale tipicamente segnalata dal Re e quella privata e personale che tocca il protagonista. L’identità di quest’ultimo, sul piano narrativo personale, viene trasformata nel corso dell’azione ch’egli conduce per rimuovere il danno o la mancanza. In questa luce risulta chiaro che l’azione compiuta assume una doppia valenza: da un lato porta alla risoluzione del problema concernente l’oggetto desiderato (piano narrativo che propongo di chiamare “oggettivo”), dall’altro lato serve al protagonista per mettere alla prova le sue capacità, darne dimostrazione e quindi acquisire un più alto posto nella comunità. In altri termini, la fiaba tipica contiene due storie perché intreccia due problematiche, concernenti l’una uno specifico problema da risolvere (un oggetto da conquistare, una persona da liberare, un disastro da scongiurare, e così via), l’altra la conquista di una nuova identità per il protagonista. In una visione d’insieme, il piano della storia soggettiva si presenta come principale, poiché la storia oggettiva vi si inscrive come fase importante e dotata di relativa autonomia, ma comunque subordinata rispetto all’ottenimento della sanzione principale, quella che riguarda il riconoscimento della nuova identità conquistata dal Soggetto, e che non a caso è collocata a conclusione di tutta la struttura narrativa. Veniamo dunque al perno di tutta la storia, cioè al meccanismo fondamentale che consente di mettere in relazione i due piani narrativi. Non c’è dubbio che il punto che fa da cerniera corrisponde a quel decisivo episodio che abbiamo detto avere natura contrattuale (il bando, nella fiaba, come si ricorderà). Il contratto funziona in effetti proprio nel senso di affermare che ciò che viene fatto sul piano oggettivo determina il riconoscimento dell’identità sul piano soggettivo. Oggettivo e soggettivo sono per statuto traducibili l’uno nell’altro (si pensi ad esempio all’equivalenza per cui la principessa salvata vale il diritto alla metà del regno). È certo significativo il fatto che la fiaba tenda spesso a rendere poco percepibile la differenza tra i due piani narrativi, legandoli tra loro in modo molto stretto: ciò che è particolarmente evidente nella tipica assimilazione tra i contenuti della mancanza oggettiva e quelli della mancanza soggettiva. Storia fin troppo comune: la figlia del re viene rapita, il re suo padre ovviamente si dispera e invita a liberarla. Il nostro eroe, povero in canna, senza una posizione sociale e vanamente speranzoso dell’incontro con una bella ragazza che lo voglia, capisce che questa può essere la sua occasione e parte, a ben guardare e comprensibilmente, in cerca della propria fortuna più che della sventurata figlia del re. Il fatto è che la fanciulla di sangue reale, che il bando promette appunto in sposa a chi la salverà, rappresenta proprio tutto quello di cui il giovanotto è alla ricerca: è una ragazza bella e buona, nobile e ricca. La liberazione della fanciulla rimuove in primo luogo il problema del re, ma subito dopo, di conseguenza, quello del protagonista. La ragazza è, sì, sempre la stessa persona, ma svolge due ruoli distinti nel racconto perché in una prospettiva è figlia e nell’altra sposa, nella prima 62 entità mancante al re, nel secondo entità risolutiva per il protagonista. A controprova, la fiaba di Scheletro senza morte citata più sopra, poggiando sul rapimento della moglie e non della figlia dello zar, consente di distinguere tra l’oggetto mancante per il re e l’entità risolutiva per il protagonista – una principessa straniera: in questo caso ci è più facile capire che, da un punto di vista funzionale, si tratta di rispondere a due mancanze distinte. D’altro canto, questa forma di assimilazione ci aiuta a comprendere che la realizzazione meglio riuscita di questa forma contrattuale è quella che porta le due parti a condividere gli stessi oggetti di desiderio, dunque gli stessi valori. Al di là della forma dello scambio, questo contratto mira a raggiungere il legame più stretto di una partnership profonda, anzi addirittura di una comunanza di sentimenti e di affetti. L’imparentamento cui il racconto mira – l’eroe diventa in effetti genero del suo committente – non è un tratto di superficie ma un aspetto della logica profonda della fiaba. Si noti del resto che in tal senso la fiaba si allontana vistosamente dalla realtà storica: se i suoi eventi tipicamente in un “reame”, dunque in regime monarchico, dimentica però che le famiglie reali usano essenzialmente forme di successione per discendenza, e non per cooptazione. La successione per contratto stipulato tra un re e un poveraccio, decisamente anomala, apre la fiaba a una figura stranamente moderna di self made man: un uomo che costruisce per sé un fulgido futuro grazie alla propria iniziativa personale. Il risultato è al tempo stesso – assai significativamente – sia l’affermazione di sé sia l’assimilazione del protagonista all’istituzione: riconosciuto dal re come eroe della vicenda, come colui che è stato capace di osare e di compiere l’impresa, il nostro soggetto non riceve a conti fatti un’identità propria ma viene assimilato all’istituzione: diventa re egli stesso, o quanto meno principe ereditario! Le due storie diventano alla fine una sola: per l’ideologia cui la fiaba fa riferimento, non c’è in definitiva altro che la collettività, l’istituzione, al di fuori della quale l’individuo in quanto tale non esiste. 63 4. La soggettività nella teoria di Greimas Premessa: il modello del “percorso generativo” L’elaborazione della teoria narratologica di Greimas parte soprattutto da una riflessione sul modello proposto da Propp: da quest’ultimo riprende non solo molte indicazioni sulla forma sintagmatica del racconto ma anche l’idea di ruoli funzionali, distinti dai personaggi concreti – ruoli che Greimas definisce “attanziali”. Questa derivazione ci consente tra l’altro di vedere molto bene lo svolgersi del passaggio da una concezione tendenzialmente oggettivante quale quella di Propp a una nuova concezione centrata sulla nozione di Soggetto. Al contrario di quanto vale per Propp, inoltre, la visione di Greimas è legata a molti dei concetti chiave della storia della semiotica e cerca di porre in primo piano quella prospettiva semantica – interessata al senso rivestito dai componenti di un racconto – che Propp aveva esplicitamente accantonato. Purtroppo, Greimas non riconosce nel caso del codice narrativo l’articolarsi di una correlazione tra piano dell’espressione e piano del contenuto – e del resto non sembra aver ben chiaro quanto Saussure aveva inteso parlando di “significante” e “significato”. Cedendo a suggestioni in definitiva esterne ed eterogenee rispetto alla tradizione semiotica, Greimas si rifà al modello generativo di Chomsky, all’epoca decisamente alla moda. Lo strumento fondamentale intorno al quale si costruisce la teoria greimasiana prende dunque il nome di “Percorso generativo” – espressione con cui si fa riferimento non ai passi mentali che portano l’autore a comporre il testo bensì a un modello logico e strutturale che intende mostrare quale sia la strada tortuosa che lega la faccia concreta e manifesta del testo (la faccia leggibile, visibile, ascoltabile…) ai suoi più profondi fondamenti di senso. Il modello assume dunque, logicamente, una configurazione a strati successivi, che nascondono all’interno il nucleo semantico fondamentale e che via via lo traducono in forme sempre più superficiali e più concrete, dunque più adatte alla costruzione del definitivo oggetto semiotico – il testo narrativo. In luogo della correlazione tra i livelli del significante e del significato (dell’espressione e del contenuto nella semiotica di Hjelmslev), si pensa qui piuttosto a un nucleo di fondo che si amplifica, attraverso trasformazioni successive che complicano e arricchiscono sempre più il nocciolo centrale di partenza – come in un modello a cipolla, formato da strati concentrici successivi. Nella sua rappresentazione più seguita, il percorso generativo è organizzato secondo quattro livelli principali, dove il cosiddetto “livello profondo” corrisponderebbe al nucleo centrale: 1. Livello Profondo 64 2. Livello Superficiale 3. Livello Figurativo 4. Livello di Manifestazione La sintetica presentazione che segue ha il mero scopo di situare approssimativamente nello schema complessivo le principali componenti della teoria greimasiana, che dobbiamo in questa sede considerare già note per altra via. 1. Il Livello Profondo Sul piano profondo si collocano le strutture semantiche di base; in pratica, si tratta di un insieme di entità valoriali (valori, per intenderci, come Uguaglianza e Dominazione, o come Sapienza e Forza fisica, e così via). Tali entità valoriali sono connesse fra loro da relazioni logiche che ne registrano, o meglio ne stabiliscono, la consonanza o l’opposizione, la presupposizione per cui l’una richiede l’altra o la negazione per cui l’una cancella l’altra. Secondo un’ipotesi molto nota, e però mai sufficientemente giustificata, Greimas sostiene che tali relazioni logiche debbano prendere la forma di un “quadrato semiotico”. Sottoposto a usi diversi e poco coerenti, il “quadrato semiotico” ha finito per fungere da strumento di stimolo e di bussola per i ricercatori, più che come reale modello scientifico dotato di una vera solidità logica. Ciò che resta invece importante – e che la teoria di Greimas condivide con quella di altri studiosi – è l’idea che alla base dei testi narrativi si pongano strutture logico-valoriali di un qualche tipo. Parliamo, per intenderci, delle strutture logico-valoriali che reggono ad esempio affermazioni del genere: “A lungo andare la sincerità ha la meglio sulla menzogna”, oppure “Finezza d’intelligenza e uso della forza bruta sono incompatibili”, o ancora “Meglio un giorno da leone che una vita da pecora”, o anche “Giustizia e iniquità non stanno mai per intero da una sola parte”. Tutte queste affermazioni esprimono in effetti strutture concettuali in cui relazioni logiche di un qualche tipo («essere meglio di…», «essere incompatibile con…», «essere più forte di…», ecc.) si pongono tra entità valoriali che possono corrispondere a qualità morali, modelli di vita e così via. Questo principio è molto interessante, perché ne deriva che le fondamenta dei testi narrativi possono essere pensate come estranee alla forma tipica della narratività (che implica una collocazione sequenziale nel tempo): come se la dimensione narrativa intervenisse dopo, sulla base di una precisa utilità espressiva e non in quanto componente immediata e costitutiva. Il codice narrativo traduce in sequenze di eventi delle strutture semantiche profonde che hanno forma atemporale, e dunque logica ma non narrativa. 2. Il Livello Superficiale Nella concezione greimasiana, la grammatica superficiale trasforma le strutture profonde in forme propriamente narrative. Perché questo avvenga 65 non è spiegato e approfondito come meriterebbe; l’idea è, tuttavia, che si tratta di attribuire alle strutture logiche del piano profondo una rappresentazione essenzialmente antropomorfa: dando loro, cioè, quelle che sono le forme tipiche dell’azione e dell’esperienza umana. A questo livello non abbiamo ancora elementi concreti ma una configurazione narrativa astratta, in cui entità definite in termini essenzialmente sintattici, gli attanti, agiscono per ridefinire la distribuzione dei valori in gioco. La modifica delle attribuzioni dei valori in gioco – che comporta continue “congiunzioni” e “disgiunzioni” di questi valori – porta al susseguirsi di stati differenti, richiedendo dunque che vi siano degli attanti trasformatori e dei ruoli passivi… dispiegando così ai nostri occhi l’embrione di qualcosa che possiamo incominciare a percepire come l’ossatura di un racconto. Essenzialmente, nelle schematizzazioni greimasiane vediamo qui Soggetti che si scontrano per il possesso di (“la “congiunzione con”) Oggetti di valore, sotto il controllo di entità sovraordinate che controllano, organizzano e sanzionano questi processi (si pensi al ruolo del re nella fiaba): entità dette da Greimas “Destinanti”, in quanto reggono il destino dei Soggetti e la destinazione degli Oggetti di valore. Il “racconto” nasce dunque come trasformazione di quelle che erano strutture logico-valoriali in sequenze di eventi capaci di replicare la logica dell’agire umano: la logica, per esempio, del desiderio e dell’invidia, della preparazione paziente e dell’azione di forza, del successo e della delusione. Sappiamo bene in effetti che configurazioni concettuali dotate di un loro senso preciso diventano molto più comprensibili e più efficaci se si decide di tradurle in una forma che ricorda l’esperienza umana concreta. Lo dicevano già gli antichi retori, lo sapeva bene ad esempio Gesù Cristo, quando per rendere più comprensibili idee difficili le traduceva nella forma di una storia vicina alla logica della comune esperienza di vita: una “parabola”. Ecco dunque che per Greimas la struttura narrativa prende, già sul livello superficiale, l’aspetto di una vicenda percepita secondo la visione soggettiva di qualcuno – un “Soggetto”, appunto – che agisce sulla base di propri desideri, che attraversa fasi complesse di preparazione (ove viene “modalizzato” mutando i suoi stati di sapere e di potere), e che agisce per raggiungere i propri fini. 3. Il Livello Figurativo Lo schema narrativo astratto (“Un Soggetto, desiderando un Oggetto di valore, conquista un Sapere…”) si traduce sul piano figurativo in un racconto fatto di personaggi concreti, di luoghi, di oggetti presentati nella loro specificità. Ciascun Attante – ad esempio il Soggetto – corrisponde qui a un personaggio (o eventualmente anche a più personaggi) dotato di un nome, un carattere, un aspetto definito e così via. “Figure” sarebbero appunto le componenti concrete che rendono specifico e verisimile ciascun testo narrativo; nella schematizzazione di Greimas, che comporta senza dubbio una 66 semplificazione eccessiva, sul piano figurativo si pongono personaggi, o “attori”, nonché ambientazioni spaziali e temporali – si parla rispettivamente di “attorializzazione”, “spazializzazione” e “temporalizzazione”. Si noti che, se da un lato attori e ambienti possiedono un valore sintattico, dall’altro lato svolgono un compito semantico, in quanto capaci di dare rappresentazione a determinati valori collocati sul piano profondo. È facile ad esempio immaginare come un ambiente definito quale “prigione” possa prestarsi a far funzionare in certi modi il racconto sul piano dell’organizzazione sequenziale degli eventi (sintassi) ma al tempo stesso, sul piano semantico, servire ad esprimere valori ben determinati (“negazione della libertà”). È davvero un peccato che Greimas, in molte delle sue esposizioni teoriche – al contrario di quanto ha spesso fatto al momento delle sue più rilevanti analisi concrete – non abbia mantenuto il modello semiotico della correlazione tra i piani del significante e del significato. Il livello figurativo è infatti eminentemente definibile come piano del significante¸ nel senso che le sue componenti – personaggi, luoghi, oggetti concreti di desiderio, ecc. – costituiscono i modi che danno rappresentazione narrativa ai valori (significati) che si trovano sul piano profondo. La prospettiva semiotica classica avrebbe offerto certamente più potenza esplicativa, più precisione e più duttilità concettuale, rispetto a un modello di derivazione chomskyana che presenta qui un carattere, in definitiva, essenzialmente formale. 4. Il Livello di Manifestazione Questo ultimo livello è solitamente citato per sottolinearne, in pratica, l’estraneità rispetto alla grammatica narrativa. Il racconto, che sul piano “figurativo” è ormai perfettamente formato e dotato di ogni componente concreta, deve essere infine tradotto in parole, in disegni, in scene teatrali o in sequenze cinematografiche, in una musica o nei gesti di un mimo… Una particolarità del sistema narrativo è infatti la sua necessità di ricorrere a un altro sistema semiotico, cui appoggiarsi per avere una “manifestazione”, appunto, che consenta di dargli un’esistenza non puramente mentale e interiore. Greimas considera il livello di Manifestazione estraneo a una grammatica propriamente narrativa, poiché esso concerne l’entrata in scena di altri codici semiotici (linguistici, cinematografici, teatrali, ecc.). Le cose sono tuttavia un po’ più complesse, poiché bisogna tener conto di quanto i codici di manifestazione possano retroagire sulla costituzione del racconto, in particolare a livello figurativo; tutti sappiamo infatti che la “stessa storia” tende ad acquisire modalità significativamente diverse se raccontata, ad esempio, in un film o in un romanzo. È vero comunque che ci troviamo di fronte a una composizione gerarchica tra due differenti sistemi semiotici, e non è certo privo di rilevanza il fatto che il sistema narrativo tenda ad assumere una posizione sovradeterminata rispetto ad altri sistemi come 67 quello linguistico o quello audiovisivo. E parimenti più corretto appare considerare – nel caso del cinema, poniamo – il singolo film non come un caso di “narrazione cinematografica” bensì come luogo di rappresentazione cinematografica di una composizione narrativa: mantenendo, cioè, la percezione della messa in relazione di due sistemi semiotici differenti e in prima istanza indipendenti (esistono infatti, com’è ovvio, tanto film non narrativi quando narrazioni che non usano il cinema…). Le nozioni di Soggetto e Oggetto di valore Come già anticipato, per l’analisi che conduciamo in queste pagine, centrata sull’evoluzione delle concezioni della narratività, uno degli aspetti più interessanti tra quelli che segnano l’allontanamento di Greimas dalla sensibilità proppiana consiste nell’adozione di una prospettiva di carattere molto più soggettivante. Per lo studioso lituano, il racconto non è più da pensare come una catena di eventi oggettivi, definibili dall’esterno dei personaggi, bensì come una sequenza logica governata soprattutto dal pensiero di un personaggio principale, il Soggetto. Più dettagliatamente, possiamo evidenziare in questo senso cinque punti chiave su cui fermare la nostra attenzione: 1. La ridefinizione delle sfere d’azione in ruoli attanziali, con al centro le nozioni di Soggetto e Oggetto di valore 2. La nozione di programma narrativo 3. Il pur non completato ripensamento della forma narrativa come centrata sui valori piuttosto che sugli eventi 4. La teoria delle modalità 5. La teoria delle passioni, di cui si possono tra l’altro indicare con più precisione le possibili connessioni con altri aspetti della teoria narratologica. Dall’Eroe al Soggetto Greimas costruisce il suo modello dei ruoli attanziali sulla base di una diretta ed esplicita rielaborazione delle proposte della Morfologia della fiaba. Propp aveva presentato in quelle pagine la nozione di “Sfera d’azione”, legata al principio per cui il ruolo dei personaggi è definibile a partire dalle funzioni che essi svolgono nella vicenda: se per esempio un personaggio compie un Danneggiamento, non c’è dubbio che corrisponderà al ruolo di Antagonista. Per quanto ciò possa sembrare tanto semplice da essere indiscutibile, si noti che tale modo di pensare corrisponde comunque al principio per cui ciò che i personaggi sono dipende da ciò che essi fanno. Per Greimas, invece, i personaggi non sono definiti tanto da ciò che essi 68 fanno quanto dalla relazione tra l’agire e il pensare: una relazione che tiene conto non solo dei fatti ma anche dei progetti, non solo delle realizzazioni ma anche delle intenzioni, non solo del fare ma anche del modo di essere dei personaggi. Alle sette sfere d’azione di Propp corrispondono i meglio ordinati sei ruoli attanziali del modello iniziale greimasiano, organizzato secondo tre coppie: Soggetto e Oggetto di Valore, Destinante e Destinatario, Aiutante e Opponente. La trasformazione più evidente è quella che concerne il ruolo principale. Propp parlava di un “Eroe”, cioè del ruolo di un personaggio dotato di una forte ed efficace capacità di azione. Non possono esserci eroi che non agiscano affatto, o che non agiscano in modo da ottenere, per quanto sta in loro, il successo. La nozione di Soggetto corrisponde ancora, come quella di Eroe, all’indicazione del personaggio posto al centro dell’azione, ma non dice più così esplicitamente che egli agisca con totale positività ed efficacia realizzativa, e neppure che egli agisca per nulla. Il Soggetto può, a rigore, limitarsi a pensare, a desiderare, a immaginare. Tutta la logica della vicenda è centrata sulla sua soggettiva lettura della realtà che lo circonda. In particolare, è fondamentale il fatto che non esistano più valori riconoscibili in assoluto bensì entità che per autonoma decisione del Soggetto sono dotate di valore: quelli che Greimas chiama gli Oggetti di valore. Forse ciò che rende più evidente la risolutezza della svolta greimasiana è proprio la natura profondamente soggettiva di quelli che giustamente vengono detti “oggetti”. In un mondo definito dalle assegnazioni soggettive di senso e di ruolo, anche gli oggetti assumono la loro identità in dipendenza di come sono pensati e del posto che prendono nella costruzione “modale” di un soggetto (sono oggetti da volere, oppure capaci di contribuire alla formazione di un sapere, o tali da permettere lo sviluppo di un potere, di una capacità di fare?). La teoria greimasiana coglie così una dimensione fondamentale della cultura del novecento, che allontana la nuova sensibilità dall’oggettivismo ottocentesco. Per noi, sempre più, gli “oggetti” hanno un’identità e un valore dipendenti dai significati che noi, soggettivamente, assegniamo loro. D’altro canto, nella teoria greimasiana non esistono Soggetti fuori di una prospettiva relazionale che li leghi a certe componenti del mondo che li circonda. Non esiste un Soggetto fino a che non vi è un’entità personificabile capace di percepire il suo essere congiunto o disgiunto rispetto a qualcosa, là fuori: qualcosa che assuma per lui un valore definito, positivo o negativo, di attrazione o di repulsione. Tali valori sono attribuiti, beninteso, a seguito di scelte che il Soggetto stesso compie sulla base di una propria logica di progettazione, di un proprio universo valoriale, dunque di un proprio sistema di codificazione della realtà. Per quanto Greimas non abbia pienamente sviluppato questa prospettiva, possiamo oggi dire però che il suo è fondamentalmente un soggetto codificante che assegna alle cose un ruolo e un senso. Si potrebbe anzi dire che in questa luce Greimas sostituisce 69 alla centralità del protagonista d’azione della visione di Propp l’idea di una centralità di un protagonista di pensiero. Non è più detto che il Soggetto sia il personaggio che fa di più, che ottiene maggiori risultati sul piano pragmatico. Ciò che importa è piuttosto la capacità del Soggetto di dare un senso alla realtà che lo circonda, costruendone una lettura prospettica. Non contano più, potremmo dire, le sue mani che agiscono, bensì i suoi occhi che guardano. Aspetti problematici della nozione di Soggetto Possiamo però rilevare che ci sono altri ruoli attanziali in grado di assumere la capacità del Soggetto di attribuire valori alle cose. È abbastanza evidente, in effetti, che anche quello del Destinatario è un ruolo caratterizzato dalla capacità di definire Oggetti di valore e di codificare il mondo. Per fare un esempio molto semplice, quando nella fiaba il re si sveglia dopo avere sognato un cavallo alato e chiede ai giovanotti del paese di andare a cercargliene uno, egli si colloca come Destinante sul piano della logica delle azioni (non agisce lui ma invita altri a compiere l’impresa), tuttavia è alla sua soggettività – ai suoi sogni, addirittura – che dobbiamo la costruzione dell’Oggetto di valore, ed è lui difatti ad essere modalizzato verso l’Oggetto sotto l’aspetto del volere. In questo senso la teoria greimasiana appare limitata, perché non considera che la capacità di definire valori è in effetti spartita tra più ruoli attanziali. Questo è importante, perché in una storia ci possono essere più personaggi riconosciuti come portatori di soggettività. Greimas aveva considerato un solo caso, per quanto assai interessante, di presenza nel racconto di più punti che originano soggettività. La nozione di Antisoggetto nasce proprio sulla base della rilevazione di una capacità di costituire un polo prospettico che si contrappone a quello del primo Soggetto. Il Cavaliere Nero che, poniamo, rapisce la principessa in una fiaba, può ben dichiarare di esserne sinceramente innamorato; non solo egli riconosce nella principessa l’Oggetto del suo desiderio ma codifica significati e valori in una sua ottica, più o meno eticamente condivisibile ma comunque capace di fornire soggettività in misura magari anche maggiore di quella del Soggetto. Si pensi all’esistenza di narrazioni in cui l’Antisoggetto – benché riconosciuto tale sul piano della logica delle azioni – detiene però una centralità molto maggiore di quella del Soggetto in quanto fornitore di un punto di vista sulle cose. Per citare un esempio certamente significativo in questo senso, si pensi al film Dracula di Coppola: il vampiro è esplicitamente riconosciuto come personaggio negativo e condannabile sul piano delle azioni e la trama ci conduce consapevoli all’eliminazione di quello che è manifestamente un personaggio Danneggiatore, tuttavia lo stesso personaggio ci fornisce, sui fatti narrati, la più significativa e più importante delle visioni soggettive: tant’è vero che è ai suoi stati patemici che noi ci sentiamo vicini ed è per lui che proviamo simpatia. Tutto questo è particolarmente coerente e 70 rilevante in un film che ragiona proprio sulla capacità del cinema di farci percepire il mondo secondo prospettive che ci sono estranee, tuttavia non si tratta certo di un caso isolato. La nozione di Antisoggetto costituisce senz’altro un primo passo per trasformare una concezione monoprospettica del racconto in una concezione multiprospettica. La formulazione del primo modello attanziale da parte di Greimas è chiaramente fondata sull’idea che in ciascun racconto ci sia un solo protagonista portatore di un suo punto di vista. La sostanziale sostituzione del ruolo di Opponente con quello di Antisoggetto porta nella teoria narratologica l’idea di uno spazio testuale che sia luogo non solo di scontro fattuale (personaggi che lottano tra loro) ma anche di scontro intorno alla semiotizzazione del mondo (personaggi che sono portatori di sistemi interpretativi e di codificazioni diverse della realtà). Siamo dunque già in presenza di una concezione multiprospettica, pur se questa non è né pienamente esplicitata né rigorosamente sviluppata. Aggiungiamo alcune osservazioni rispetto a un altro problema che genera forti difficoltà: quello della relazione fra gli attanti Soggetto e Destinatario. Se, come ha fatto Greimas, non distinguiamo tra due piani narrativi – quello Oggettivo e quello Soggettivo – e di conseguenza due “storie”, due mancanze, due desideri e due diversi Oggetti di valore, non si può capire perché il Destinante dovrebbe far pervenire a un Destinatario un Oggetto di valore che è stato definito come tale dal Soggetto. È senz’altro giustificata la tipica perplessità espressa anche da molti studenti: com’è possibile che il Soggetto, innamoratosi della sua bella (Oggetto di valore), agisca in modo da far sì che questa sposi un altro, il Destinatario? Parrebbe al contrario evidente che, poiché è il Soggetto a costruire l’Oggetto di valore e a darsi da fare per ottenerlo, il Soggetto dovesse inevitabilmente coincidere con il Destinatario. E nella stessa linea di pensiero si potrebbe osservare che vale anche viceversa: se il Destinatario è tale in modo consapevole, egli concepisce il suo premio come Oggetto di valore, e poiché concepisce Oggetti di valore – ciò che definisce il ruolo di Soggetto – è automaticamente promosso Soggetto. Soggetto e Destinatario non sembrano in alcun modo distinguibili. La confusione dipende appunto dalla mancata consapevolezza del fatto che, come abbiamo visto, nella maggior parte dei racconti in effetti si intrecciano due storie: nell’ambito della storia soggettiva, i Valori sono appunto proiettati dal Soggetto sugli oggetti che ne diventano significanti, laddove nella storia oggettiva i valori sono attribuiti in linea generale su base istituzionale: sono i valori stabiliti dalla comunità, o prescelti da un’autorità superiore come quella del re (questo è il sistema di valorizzazione di cui si fa rappresentante il Destinante). Greimas coglie bene il piano della visione prospettica del Soggetto, offre strumenti interessanti per l’analisi della elaborazione personale dei progetti e per la definizione degli stati emozionali, ma molto meno coglie la dinamica delle relazioni interpersonali, i modi di 71 definizione collettiva dei valori, le interazioni tra i progetti d’azione e la costruzione sociale degli stati patemici e delle loro definizioni. Nella direzione dello sviluppo di una sociosemiotica, è chiaro che queste nuove dimensioni diventano al contrario centrali. La nozione di “Programma narrativo” Il passaggio dalla nozione di Eroe a quella di Soggetto comporta, come abbiamo visto, un decisivo spostamento di attenzione dal piano delle azioni compiute dal personaggio al piano della sua interiorità. Anche un Soggetto che non raggiunge alcun risultato, anche un Soggetto incapace di azione, concepisce però un suo piano mentale che virtualmente lo porterebbe a realizzare i suoi obiettivi. Ed è a partire da questo piano mentale che si struttura la storia. La vicenda, dunque, non è più dominata da una catena di cause ed effetti, bensì da un adeguamento a un progetto mentale. Il suo muoversi non dipende più dal suo punto d’origine ma dall’obiettivo che si vuole raggiungere; ogni stato presente dipende manifestamente non dagli stati passati ma da ipotesi e immaginazioni degli stati futuri. Diventa dunque centrale la nozione di “programma narrativo”, molto diversa di fatto rispetto all’idea comune di una “struttura narrativa” leggibile nei fatti. Il programma narrativo è una realtà soggettiva, psichica, progettuale. L’analisi narratologica non è più legata all’individuazione di nessi nell’accadere degli eventi – non è più una logica di tipo evenemenziale – bensì puntata all’individuazione di nessi esistenti nella rappresentazione soggettiva di qualcuno. Questo modo di vedere cancella l’orientamento causale predominante in Propp per assumere un taglio prospettico, taglio tra l’altro molto più adeguato per l’analisi della grande narrativa letteraria, anche se ancora poco adeguato per l’analisi di realtà culturali complesse o di forme narrative come quelle tipiche del tardo novecento e dell’inizio del nuovo millennio, caratterizzate tra l’altro dall’aggrovigliarsi di molteplici piani di soggettività. La teoria greimasiana, semplificando ulteriormente il modello fiabesco di Propp, propone un modello di costruzione dei testi narrativi di estrema semplicità, fondato sul succedersi delle quattro fasi della Manipolazione, dell’acquisizione di Competenze, della Performanza e della Sanzione: un modello certo interessante dal punto di vista logico, ma orientato a una linearità semplice e monocentrica in cui la cultura contemporanea fatica indubbiamente a riconoscersi. La teoria delle modalità Altro punto fondamentale della costruzione di un quadro semiotico puntato verso l’interiorità dei personaggi e verso la soggettività è quella nota come teoria delle modalità. Queste ultime corrispondono a modi di essere del Soggetto che in pratica definiscono la relazione di quest’ultimo 72 con gli stati di cose con cui ha a che fare. Il Soggetto è in grado di risolvere un certo problema? Allora è caratterizzato dall’essere in grado di affrontare quel problema. Il Soggetto non dispone di un’informazione necessaria per portare a termine il suo compito? Ecco allora che nel suo modo di essere si evidenzia un non sapere, significativo se visto in relazione con un certo progetto d’azione. Le modalità, in altri termini, non qualificano il Soggetto per ciò che egli è in assoluto – forte o debole, sapiente o ignorante, capace o incapace - bensì in relazione a uno specifico progetto d’azione, a uno specifico fare mirato a trasformare lo stato del mondo che lo circonda. Diremmo dunque che le modalità rappresentano dunque relazioni tra il Soggetto e il mondo, e descrivono le trasformazioni che via via avvengono in questa struttura relazionale: indicandoci per esempio quando il Soggetto ha acquisito un maggiore dominio sulla realtà in cui opera, o una migliore conoscenza di questa realtà. La caratterizzazione modale delle relazioni tra Soggetto e mondo può toccare una gamma di aree e di indirizzi che resta ancora da precisare. La distinzione greimasiana tra volere, sapere e potere costituisce un punto di partenza certo interessante, anche se indebolito dal fatto che si tratta di categorie di diretta e ingiustificata derivazione dalla lingua francese: già in inglese, come sappiamo, la categoria modale del potere risulterebbe articolata in due categorie separate: /avere la forza di…/ e /avere il diritto di…/. Un’altra categoria di grande interesse, anch’essa confusa nella grande congerie del “potere” è quella che riguarda la capacità di accedere a uno spazio – fisico o sociale. Modalità che ha un ruolo importante in molti testi narrativi, questa costituisce addirittura il centro degli esempi con cui Propp presenta il concetto di funzione (si veda più sopra, l’inizio del capitolo sul modello di Propp: il problema è sempre quello di un personaggio che per compiere la sua impresa deve ottenere la possibilità di accedere a uno spazio apparentemente irraggiungibile). La teoria delle modalità, completata e precisata, dovrebbe anche distinguere con maggiore forza e maggiore chiarezza tra modalizzazioni soggettive e oggettive: le prime cambiano l’essere del Soggetto (facendogli acquisire qualità come ad esempio la Saggezza o il Coraggio, che entrano appunto a far parte del suo modo di essere), mentre le seconde concedono al Soggetto il possesso o l’uso momentaneo di strumenti (come una spada fatata o la mappa di un tesoro) che riguardano la definizione del suo avere anziché del suo essere. La teoria delle passioni È stata ovviamente l’attenzione per quanto si svolge nell’interiorità dei personaggi a portare Greimas sulla strada di un’analisi degli stati emozionali: quella che nei suoi termini è nota come teoria semiotica delle “passioni”. L’analisi degli stati emotivi, o “patemici”, si presenta ancora come un settore d’indagine non adeguatamente correlato con il disegno generale della teoria 73 narratologica e non ben inserito nel modello del “percorso generativo”. Non possiamo però dimenticare che le componenti patemiche sono decisive nella stessa meccanica di base che attiva il funzionamento del congegno narrativo, dal momento che senza il più fondamentale degli stati emotivi – il desiderio – non si ha né l’esistenza di un Soggetto e di un Oggetto di valore né il riconoscimento di quelle “mancanze” o “disgiunzioni” che danno l’avvio allo svolgersi della vicenda. La componente patemica è dunque primaria, costituendo l’imprescindibile fondamento dell’architettura narrativa. È altresì importante l’uso della componente patemica nel senso che Greimas definisce “timico”, vale a dire quale strumento per indicare la positività o negatività emotiva e prospettica scelta dal testo: la comunicazione di valori emozionali segnala cioè al destinatario quali siano i personaggi, o i valori, o le parti politiche, eccetera, per cui deve simpatizzare, che deve percepire come positivamente connotati. In quella contrapposizione tra personaggi – o “attori” – e tra valori contrastanti, che è fondamentale nell’architettura dell’intreccio, determinate entità sono marcate come positive, o “euforiche”, altre come negative, o “disforiche”. Anche questo è essenziale, perché la fruizione di un testo narrativo è tipicamente non neutrale e oggettiva: anche qui, vediamo la rilevanza della componente soggettiva. In termini più generali, e andando un po’ al di là della teoria di Greimas, è possibile pensare agli stati patemici come effetti di senso di una certa configurazione narrativa. “Questo racconto mi comunica un’infinita malinconia sulla condizione umana”; “Questo film mi dà un grande senso di serenità e di fiducia nella vita”: espressioni di questo genere mostrano come la componente patemica possa essere al centro del contenuto che il testo comunica al suo destinatario. E lo stesso vale, s’intende, per gli stati emotivi che proviamo in dipendenza degli eventi che compongono la nostra esperienza di vita: anche qui, gli stati emotivi ci appaiono come uno dei livelli di significato che emergono dalla interpretazione di quanto ci accade. La teoria greimasiana riconosce che tutti gli stati emotivi celano in effetti una più o meno complessa struttura narrativa: non c’è “stato patemico” che non nasca sulla base di una concatenazione logica di eventi. L’ipotesi che qui si propone, costruita su una riflessione che prende ad esempio un campione relativamente ampio di stati emotivi, è che vi sia un legame ancora più stretto tra emozioni e narrazione. Ogni stato emotivo, come ogni configurazione narrativa sia pur minima, si fonda sulla messa in relazione di almeno due differenti “stati di cose”. Perché si abbia racconto ci devono essere due situazioni diverse, poste tra loro in rapporto di trasformazione (tipicamente, ma non necessariamente, si tratterà di una situazione di partenza e una di arrivo, connesse dal verificarsi di un evento trasformatore). Ma perché si crei uno stato emotivo ci devono essere due situazioni diverse che vengono confrontate tra loro. Se il desiderio confronta uno stato attuale di mancanza con uno stato virtuale in cui si raggiungeranno gli obiettivi 74 voluti, la nostalgia confronta lo stato attuale con uno stato passato. La vergogna sorge da un confronto tra ciò che si è fatto e ciò che si sarebbe dovuto fare, il broncio o l’irritazione dal confronto tra ciò che un altro ha fatto e ciò che avrebbe dovuto fare. Molto spesso ci prende la rabbia perché confrontiamo il modo in cui “le cose sono andate” con quello che invece sarebbe stato il corso di eventi più logico o conseguente, e allo stesso modo proviamo delusione confrontando lo stato attuale con quello che avevamo auspicato. E così di seguito. Quelle che percepiamo come condizioni emotive sono l’effetto di senso derivante dal confronto tra due differenti stati di cose; è per questo che le emozioni presuppongono una dimensione narrativa, ed è forse anzi possibile concludere che tra emozioni e configurazioni narrative non c’è, a ben guardare, una sostanziale differenza: le prime corrispondono all’effetto che noi sentiamo, e le seconde al motore che tale effetto genera e definisce. 75 Storie “intraducibili” Su Seta di Alessandro Baricco Premessa La nostra rilettura del modello del racconto fiabesco messo in luce da Propp – quello che lo studioso russo ha definito lo “schema compositivo unitario” – ci ha portati a distinguere la presenza di due piani narrativi che abbiamo indicato come “soggettivo” l’uno, “oggettivo” l’altro. Tali piani narrativi – che nel modello di base sono entrambi importanti e anzi necessari l’uno all’altro – si connettono secondo una specifica forma di articolazione. Questa, in sostanza, ci presenta il piano oggettivo come funzionale rispetto a quello soggettivo, definendo dunque il fare come decisivo per la definizione dell’essere del soggetto. La fiaba, da questo punto di vista, concepisce i due piani narrativi come essenzialmente solidali, ponendo tra loro un rapporto di implicazione… in nessun modo, ci viene da pensare, si potrebbe dare il caso in cui l’uno dei due piani risulti negare o contraddire l’altro. In questo modo la fiaba ci offre tra l’altro una visione ottimistica e pragmatica della vita umana. Ciascun soggetto costruisce e trasforma la sua identità sulla base di quanto egli fa: la sanzione positiva concernente l’essere degli attori in gioco è attribuita sulla base di un riconoscimento del loro concreto operare. Ma, c’è da chiedersi a questo punto, quanto abbiamo rilevato nel caso della tipica costruzione fiabesca è valido per altre forme di narrazione? Se anche si può riscontrare che la presenza di questi due piani fondamentali possa essere alla base di molti modi di costruire testi narrativi, questo vuol dire che il modo in cui i due piani sono posti in relazione tra loro resta in tutti i casi fondamentalmente lo stesso? Questo capitolo prende in analisi un romanzo di particolare successo scritto da Alessandro Baricco; si tratta di Seta, pubblicato da Rizzoli nel 1996. Ne sarà analizzato in particolare proprio il modo – assai diverso da quello della fiaba – in cui tale testo gioca la relazione tra piano soggettivo e piano oggettivo. Come si potrà constatare, la definizione dello statuto di questi regimi narrativi può in effetti risultare facilmente decisiva per il senso e per l’identità del testo. L’oggetto di analisi è scelto conformemente a quella che pensiamo debba essere la vocazione da riconoscere alla prospettiva semiotica, vale a dire quella di una scienza sociale, fondata sull’osservazione e puntata sulla comprensione dei fenomeni culturali, cui non spettano primariamente finalità di ordine etico e valutativo. Il romanzo di Baricco - nel caso specifico - ha ricevuto dai critici letterari valutazioni molto diverse, che vanno da espressioni fortemente dubbiose fino a giudizi entusiastici. Ciò che a noi in questa sede soprattutto interessa è però il fatto che si tratti, sotto ogni punto di 76 vista, di un “romanzo di successo”: che sia tale non solo, e forse non tanto in termini di copie vendute, quanto nei termini stessi della sua concezione, che possiamo legittimamente pensare sia stata sapientemente studiata in modo da realizzare strutture semiotiche fortemente significative, nell’ambito di certi segmenti dell’odierno panorama culturale. Al tempo stesso, e anche al di là di queste considerazioni, si può aggiungere che un romanzo come questo, volutamente semplice ed essenziale, si presta bene quale oggetto per l’approfondimento di taluni concetti e talune procedure fondamentali dell’analisi narratologica. Non condurremo in queste pagine, in effetti, una tipica analisi narratologica del testo, ma cercheremo piuttosto di avvicinarci, quanto meno, al problema del rapporto tra i modi in cui si costruiscono le storie e le corrispondenti strutture di pensiero. Sintesi della vicenda narrata in Seta La storia ha inizio nel 1861, a Lavilledieu, in una cittadina di provincia della Francia meridionale ove è stata impiantata una fiorente industria per la produzione della seta, sull’iniziativa del preveggente Baldabiou. Il nostro protagonista è Hervé Joncour, trentadue anni, sposato con Hélène, il quale si guadagna facilmente la vita andando ogni anno ad acquistare larve di bachi da seta in Medio Oriente. La sua esistenza è molto tranquilla, non accade mai nulla di notevole, tanto che egli ha l’impressione di assistere alla sua vita anziché esserne protagonista. D’altro canto, egli non prende mai alcuna decisione; Baldabiou decide tutto per lui; di più, Baldabiou “scrive il destino” per lui. Persino il suo rapporto d’amore con la moglie, sembra ad Hervé come vissuto da un’altra persona. Quell’anno, tuttavia, una grande epidemia colpisce in quasi tutto il mondo le larve dei bachi. Non c’è che un posto ove sia ancora possibile procurarsene: il Giappone. Incaricato dal solito Baldabiou, Hervé parte dunque per il Giappone: un paese molto lontano, un’impresa molto difficile perché non c’è da ritenere che i giapponesi siano disposti a vendere i loro bachi. Di fatto Hervé sembra essere riuscito a ottenere le sue larve, ma mentre sta per ripartire viene bloccato e portato al cospetto di un uomo misterioso e imprendibile, Hara Kei. Questi lo interroga, vuole sapere del suo paese e dei suoi viaggi. Accanto a lui è una sua giovane amante, la quale fissa i suoi occhi, con grande intensità, sullo straniero. Hervé posa la sua tazza di te, la ragazza la prende e beve, avendo cura di posare le sue labbra nel medesimo punto in cui lo straniero aveva posato le sue. Hara Kei non si avvede di quanto sta accadendo; prende anzi in simpatia il francese e gli rivela che chi gli ha venduto le larve lo ha truffato, dandogli uova di pesce. Ma Hervé risponde che lo sa bene, e che non a caso ha pagato con dell’oro falso. I due si accordano per un acquisto reale; la ragazza, intanto, continua a fissare lo straniero. L’industria della seta, a Lavilledieu, prospera più che mai. L’anno seguente Hervé torna in Giappone, ritrova Hara Kei e la ragazza, che riprende 77 a guardarlo. Accade solo un fatto nuovo: una sera, mentre Hervé sta facendo il bagno, una mano femminile gli copre gli occhi con un asciugamano perché lui non la veda, poi lo accarezza e gli mette in mano un biglietto, scritto in giapponese. Tornato in Francia, Hervé viene a sapere che in una città vicina vive una certa Madame Blanche, di origine giapponese, tenutaria di un bordello. Va da lei a farsi tradurre il biglietto. C’è scritto: “Tornate, o morirò”. L’anno seguente Hervé torna in Giappone, rincontra la ragazza. La sera, la trova ad attenderlo a casa sua, insieme ad un’altra ragazza giapponese. Lei lo accarezza, ma poi scappa via, lasciandolo volutamente insieme all’altra, con cui Hervé ha un rapporto d’amore: con lei, ma non con lei… La mattina seguente, Hara Kei e tutto il suo seguito sono partiti. Di nuovo, l’anno seguente Hervé torna ancora in Giappone, ma nel frattempo è scoppiata la guerra. Trova città semidistrutte, la casa di Hara Kei bruciata. Guidato da un ragazzino sulle montagne, ritrova Hara Kei, il quale però lo invita solo ad andarsene. Il giorno dopo scopre che il ragazzino che lo aveva aiutato è stato impiccato: condannato a morte perché portatore di un messaggio d’amore. Hervé si procura altrove le uova di baco, ma queste si dischiudono in anticipo nel viaggio di ritorno, e le larve muoiono tutte. Sei mesi dopo il suo ritorno a casa, Hervé riceve una lunga lettera, scritta in giapponese, che decide di tenere con sé, preferendo non sapere cosa ci sia scritto. Poi finalmente va a farsi leggere da Madame Blanche questa lunga, intensa lettera d’amore e d’erotismo. Tre anni dopo la moglie, Hélène, muore. Sulla sua tomba, due mesi dopo, Hervé nota dei particolari fiori blu, che aveva visto solo da Madame Blanche. Torna a cercare quest’ultima, cosa non facile perché l’anziana giapponese si è trasferita a Parigi. Finalmente la trova, e ha la conferma al suo sospetto: la lettera è stata tradotta in giapponese da Madame Blanche, ma era stata scritta da Hélène: Hélène, che aveva tanto desiderato “essere quella donna”. Dopo di questo, Hervé vive ancora ventitré anni, ma nulla accade più nella sua vita, una vita in cui solo le abitudini lo difendono dall’infelicità. Le storie sono sempre duplici Seta è la storia di una vita insieme singolare e regolare, di una vita fatta di grandi tragitti ma di piccole emozioni, di una vita priva di alcun interesse e quasi di una sua vera narrabilità, se non fosse per un’imprevista increspatura che vi si disegna sopra, lieve come un disegno creato sull’acqua ferma da un soffio leggero di vento. Seta è, come tanti, un romanzo costruito su una duplicità resa evidente dalla organizzazione spaziale: un qui quotidiano e familiare, e un altrove remoto e misterioso, incomprensibile ed estraneo ma di fatto infinitamente più “vero”. Come tutti i racconti - ma in questo caso più consapevolmente e più manifestamente - Seta è l’insieme di due storie: le due storie, i due eterni piani della storia oggettiva e di quella soggettiva che da sempre - a partire 78 dalle fiabe - si sovrappongono, si intrecciano, e si scontrano. Questa duplicità è in certi casi più dichiarata e più evidente, in altri più nascosta. Se prendiamo il caso della tipica struttura fiabesca, nei termini in cui essa è stata analizzata in particolare da Vladimir Propp, la stessa disposizione delle “funzioni” che costruiscono la struttura del testo mostra con chiarezza la compresenza di due “storie” distinte. Da un lato, vi è la storia dell’oggetto, desiderato o sottratto: una storia che ha inizio dunque da una “mancanza” o da un “danneggiamento”, e si conclude con la funzione di “rimozione”. Ma la fiaba non si arresta affatto a questo punto. La fine della storia dell’Oggetto porta anzi in primo piano e pone in piena evidenza la vicenda che riguarda il Soggetto. L’eroe che ha portato a termine l’impresa, e che fino a quel punto poteva sembrare unicamente strumento perché quella vicenda giungesse a buon fine, appare ora significativamente segnato dalle azioni che ha compiuto. Prendendo la decisione di agire, conquistando nuove conoscenze e acquisendo nuove facoltà, e poi soprattutto dimostrando nella prova principale il suo coraggio e la sua capacità di successo, egli ha trasformato se stesso. Come il seguito della struttura fiabesca dimostra in tutta chiarezza, egli ha raggiunto una nuova identità, cui spetterà di conseguenza il riconoscimento di un nuovo status e una nuova collocazione nella società. Le due storie sono - almeno nel caso delle fiabe tradizionali - strettamente intrecciate, ma al tempo stesso indubbiamente distinte. Già nel caso della fiaba, in effetti, è facile segnalare alcuni racconti in cui la storia oggettiva risulta praticamente assente, mentre tutto è centrato sull’identità, le capacità e la trasformazione del soggetto protagonista. E d’altro canto vi sono invece altre fiabe in cui l’attenzione sull’oggetto da raggiungere è tanto forte da lasciare in secondo piano il personaggio che compie l’impresa: una volta raggiunto l’obiettivo, l’eroe della storia riceve a malapena una qualche ricompensa, ma nulla si dice a proposito della sua identità o della sua trasformazione interiore. Le due storie corrispondono, di fatto, a due piani narrativi profondamente diversi, o anche meglio a due differenti modi di narrare. Passando dall’uno all’altro piano, non è infatti solo l’argomento del racconto a cambiare, ma il tipo di eventi e la rilevanza della percezione prospettica. Il primo dei due piani può infatti essere definito “oggettivo” non solo perché si tratta della storia di un oggetto cercato, ma anche perché questa storia è composta essenzialmente di eventi esteriori, di spostamenti e battaglie, di fatti fisici “oggettivamente osservabili”. Al contrario, dobbiamo rilevare che il secondo piano narrativo è caratterizzato piuttosto da eventi che hanno a che vedere con il problema dell’identità e con l’interiorità dei personaggi: due aree che per definizione non sono soggette a un banale, immediato rilevamento osservativo. Entra qui in gioco l’opposizione tra essere e apparire, la difficoltà di cogliere la vera identità delle cose e delle persone, il gioco delle prospettive e delle soggettività che si incrociano e si scontrano: “falsi eroi” che fanno 79 pensare di essere ciò che non sono, veri “eroi” che si nascondono, tracce da seguire, indizi che ingannano e marchiature che traspaiono... Questa non è più una storia che si possa definire e capire osservando dall’esterno, ma un intreccio la cui comprensione richiede che noi entriamo nei personaggi, ne comprendiamo la logica, gli obiettivi, la strutturazione dell’agire in vista di un fine. E questo, insomma, non è più un modo di narrare “oggettivo”, ma al contrario un esempio già ben definito, pur nella misura ristretta dei suoi limiti, di quello che è un modo di narrare “soggettivo” Torniamo ora al romanzo di Baricco, e osserviamo più da vicino le caratteristiche dei due universi e, parallelamente, delle due storie che vi si intrecciano. La prima riguarda, s’intende, la ricerca dei bachi da seta, Oggetto di valore - ma valore d’uso, non fine in se stesso - che deve essere ogni anno regolarmente rinnovato. La seconda concerne la storia d’amore tra il protagonista e la misteriosa ragazza incontrata in Giappone: una storia, al contrario, che ha tutto il suo valore nel fatto stesso di venir concepita, poiché è senza speranze di poter mai giungere a realizzare qualcosa che non stia nella pura e semplice compresenza dei due personaggi. Ci sono dunque, in Seta, i due universi, due sistemi di valori e di regole: tanto che a un certo punto il conflitto di interessi diventa del tutto esplicito e tangibile. Da un lato si pongono gli interessi di una collettività mercantile e concreta, rozza e ignorante - interessi che esigono tra l’altro una perfetta regolarità di tempi - e dall’altro lato una passione che è solo del protagonista, non comunicabile, personale e interiore; una passione che lo spinge - finalmente - ad andare. Come è evidente, il primo lato rappresenta molto bene il piano dei valori oggettivi, il secondo invece quello della prospettiva soggettiva; in parallelo, vale l’opposizione tra collettivo e individuale. E tutto ciò corrisponde, come nelle più classiche strutture narrative, alla messa in contrapposizione di due spazi che siamo soliti indicare come spazio “proprio” e spazio “altrui”. La storia oggettiva Il protagonista del romanzo, Hervé, ci viene presentato come una creatura di Baldabiou. È quest’ultimo che quasi gli impone, gli “scrive” il suo destino. Hervé è inviato, senza personale consapevolezza e senza diretto interesse: egli non ci appare dunque come un vero soggetto, bensì piuttosto come un semplice esecutore. La vaga intonazione “femminile” che lo caratterizza - il termine è evidenziato in corsivo alla quinta riga del romanzo - ne conferma una tendenza alla passività, al lasciarsi vivere senza decidere, che sarà poi più volte ripresa e approfondita nel testo. Egli agisce, dunque, come inconsapevole Risolutore rispetto ai problemi della collettività, a favore della quale opera quasi senza pensare al suo stesso tornaconto, peraltro tangibile. È come se tutto si svolgesse semplicemente all’interno di un meccanismo di cui egli è una parte, priva di controllo e di capacità di indirizzo soggettivo. 80 Questa prima storia presenta per intero, e anzi accentua significativamente, le caratteristiche di un narrare oggettivo: la vicenda procede sotto la spinta di connessioni esterne, di rapporti tra cause ed effetti (siccome scoppia un’epidemia qua, bisogna andare là...), insomma secondo una logica che appare esterna rispetto ai personaggi, che non richiede alcuna loro vera partecipazione, o l’elaborazione di quelli che i narratologi chiamano “programmi narrativi”. L’assenza di questi ultimi è anzi esplicitamente sottolineata. Non ci viene fatto pensare, ad esempio, che Hervé si proponga di diventare ricco, o di far del bene alla propria comunità, né nient’altro del genere. Hervé diventa ricco, è vero, ma quasi senza volerlo e senza neppure veramente rendersene conto: è un fatto di cui lui stesso si accorge quasi a posteriori, come se fosse un semplice osservatore degli eventi anziché il principale soggetto agente. Di lui si dice del resto, con una evidenza che non sfugge ad alcun lettore, che “era uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla” (cap. 4, corsivi nel testo). A Hervé le cose insomma accadono, quasi non fosse lui a determinarle. Citiamo, come ulteriore esempio, un passaggio del cap. 29, dove si dice che una notte “accadde a Hervé Joncour di svegliarsi, quando era ancora buio” e di avvicinarsi al letto della moglie. Quando quest’ultima aprì gli occhi, ciò leggiamo nel testo non è che Hervé le disse che l’avrebbe amata per sempre, ma che “sentì la propria voce dire piano: «Io ti amerò per sempre»”. Tutto questo non fa, in sostanza, che enfatizzare fino all’esasperazione le caratteristiche che sono proprie, in generale, del piano degli eventi “oggettivi”. E si aggiunga che, se è vero che Hervé è indubbiamente una persona che vive senza un programma narrativo che lo orienti verso una meta finale, lo stesso vale per altri personaggi che condividono lo spazio del paese di Lavilledieu. Si pensi al caso di Baldabiou, che gioca a biliardo con se stesso, e affida la sua vita a un fatto del tutto casuale come il verificarsi di un colpo particolarmente fortunato. È dunque questo un universo senza progetti, senza sogni e di conseguenza senza mancanze: un universo mercantile in cui le cose accadono, le ragioni oggettive della produzione determinano tutto, il senso degli eventi è interamente definibile tramite un’osservazione esterna. La ripetitività e la regolarità degli spostamenti e delle azioni del protagonista rientrano evidentemente in questo tipo di logica, in cui tutto si svolge secondo tempi e percorsi predeterminati. E rientra quindi anche in questa logica, a livello stilistico, la ripresa di interi brani da parte dell’autore. Il sapere oggettivo Rispetto a questa prima storia, e stando ai classici ruoli narrativi, toccherebbe naturalmente ad Hervé il ruolo del “Soggetto”, così come spetterebbe a Baldabiou quello del Destinante. A differenza di quanto avviene nel fiabe, tuttavia, Baldabiou non mette alla prova il protagonista: anzi, gli 81 affida un incarico senza in alcun modo testarne le “competenze”, le capacità o le inclinazioni. A riprova del fatto che non lo considera propriamente come un “soggetto”. Come gli analoghi personaggi delle fiabe, però, anche Baldabiou è caratterizzato dal possesso di un singolare sapere, che appare in effetti vagamente misterioso, e che sembra determinare in lui il piacere di possedere dei segreti per poterli comunicare ad altri. Si dice anzi, di lui (cap. 6), che svelare ai concittadini i segreti del mestiere lo divertiva di più, addirittura, che fare soldi a palate. “Insegnare. E avere segreti da raccontare. Era un uomo fatto così”. Baldabiou, dunque, rappresenta il sapere. E, come è facile vedere, questo sapere è, per la collettività che lo circonda, una conoscenza fondante, una guida senza la quale il mondo non sarebbe quello che è. Tutta la fortuna del paese è dovuta alla sua iniziativa e alle sue conoscenze. Baldabiou svolge quindi realmente, nei termini di Greimas, il ruolo di un Destinante. Ma, sotto un altro punto di vista, questo personaggio ricorda anche una figura tipica di miti e leggende di molti paesi: è la figura, spesso ambigua e misteriosa, di un uomo che possiede un sapere ignoto agli altri, e grazie al quale introduce nella collettività conoscenze e pratiche economiche fin allora sconosciute. Nel caso, queste conoscenze nuove e provenienti da luoghi più o meno lontani, assumono però la forma, oggettivata e funzionale, di macchine, le macchine per fare la seta. E se poi, al di là di questo, ci si chiede in che cosa, più in particolare, consista il sapere di Baldabiou, la nostra attenzione è attirata dal fatto che ciò che egli sa vedere sono non percepibili equivalenze tra le cose. Quando Baldabiou si reca per la prima volta nell’ufficio del sindaco, appoggiando sulla scrivania una sciarpa di seta, chiede:«Sapete cos’è questa?»; il sindaco risponde: «Roba da donna», e Baldabiou lo corregge: «Sbagliato. Roba da uomini: denaro». Baldabiou non solo vede cose che gli altri non sanno vedere, ma più precisamente vede in una certa, determinata direzione. In questo episodio, può essere significativa proprio la sua capacità di trasformare, di tradurre il femminile in maschile, l’ornamento privo di un particolare interesse - se non a livello soggettivo - in qualcosa di oggettivo e concreto: denaro. In questo senso, può apparire rilevante anche il riferimento alla capacità di Pasteur di separare i bachi buoni dai cattivi usando uno strumento come il microscopio: uno strumento che fa vedere quello che a occhio non è possibile scorgere. Anche la conoscenza scientifica si inserisce, indubbiamente, in questo quadro fatto di dati e distinzioni precise: tanto precise da arrivare a superare, e abolire, quelle capacità dello sguardo che rappresentano una delle più tipiche espressioni della soggettività umana. Rispetto a quanto si è appena detto, verrebbe da osservare che il protagonista del romanzo sembrerebbe, al contrario, agire sulla base di una sostanziale ignoranza, e dimostrare una totale incapacità di cogliere alcunché di significativo, anche nei luoghi del tutto particolari ove lo portano le sue 82 imprese. Non è tuttavia, neanche lui, privo di capacità di distinguere, o - il che lo abbiamo capito, è lo stesso - privo di fiuto commerciale. Lo dimostra il fatto che, in Giappone, egli è subito capace di comprendere che lo stanno imbrogliando, tanto che decide di scambiare il falso con il falso (falso oro per falsi bachi da seta), insomma di scambiare quello che sembra ma non è con quello che altrettanto sembra ma non è: realizzando così una tipica vittoria contrattuale sul nemico-partner d’affari. In questo episodio, il concetto di equivalenza commerciale si combina con l’opposizione essere/apparire, sottolineando come tutto questo si svolga in una chiave molto pragmatica, ove tutto è “relativo”. Ogni cosa, ci sembra, ha in questa storia un suo valore d’uso, senza che nulla sembri valere come valore di base. Si pensi ad esempio anche al rapporto del protagonista con la moglie, prima degli eventi giapponesi. Non ne sappiamo molto, è vero, ma ce lo rappresentiamo come un rapporto senza grandi emozioni, grandi passioni o grandi significati. L’universo del villaggio francese si caratterizza del resto assai bene in questa luce come un luogo che produce “cose”, ma non produce realmente “senso”. Il sapere oggettivo è descrittivo, classifica, introduce equivalenze, traduce, ma non per questo riempie di significato gli oggetti e le esperienze. L’altro spazio, il Giappone L’introduzione dell’opposizione tra essere ed apparire è collocata non a caso in apertura della storia “giapponese”. Da un lato, osserviamo che il Giappone si configura, giustamente, come tipico universo “estraneo”: un paese misterioso e incomprensibile, dove subito si rischia di venire disastrosamente ingannati, dove nulla è facilmente leggibile, dove estranei e indecifrabili sono non solo la lingua e la scrittura, ma anche i modi e le usanze. Questo è del resto, fuor d’ogni dubbio, il tipico “paese lontano”, collocato alla fine del mondo, estraneo e temibile per definizione, abitato da esseri profondamente diversi da “noi”. Tutto ciò introduce in una luce diversa la tematica della differenza, cui risponderà poi - lo vedremo più avanti - un’attenzione ulteriore portata di conseguenza sul problema, complesso e sottile, della traduzione. Vogliamo però in questa fase sottolineare come questa tematica, che coinvolge in particolare la questione dell’identità - identità delle persone e delle cose - sia tipica del secondo piano narrativo che abbiamo riconosciuto alla base della costruzione generale di una storia, a partire dalla stessa ricerca condotta da Propp sulle fiabe russe (si pensi ad esempio alle funzioni di “Arrivo in incognito”, “Identificazione”, “Smascheramento”...). Che questa tematica dell’identità sia tipica del secondo livello narrativo - la storia “soggettiva” - non ci stupisce dunque affatto. Tuttavia, la collocazione spaziale degli eventi appare, a questo proposito, del tutto anomala. Difatti, nel modello classico, il problema dell’identità non si poneva in quanto tale nello 83 spazio lontano, nell’universo altrui, bensì dopo il ritorno dell’eroe nello spazio sociale e organizzato che gli è “proprio”. Del resto, dove può essere percepita la sua identità in trasformazione, dove si può porre il problema di riconoscerlo, di sanzionarlo in bene o in male sul piano “veridittivo”, se non là dove egli è ed era - conosciuto? Che senso avrebbe, a prima vista, in effetti, attraversare il mondo per andare a parlare di sé con un misterioso e infido giapponese, mai visto prima nella vita? Questa idea, per cui si presenta e si afferma la propria identità in uno spazio estraneo anziché in uno spazio proprio, è certamente un fatto significativo: e tanto più lo è se lo si collega all’osservazione per cui è in quello spazio estraneo, e non nel suo spazio familiare, che il protagonista diventa finalmente, in qualche modo, Soggetto. La logica della trasformazione appare poi ancora più chiara se la si connette con quanto prima si diceva a proposito dell’incapacità a produrre significati evidenziata dal funzionamento dell’universo collettivo nel mondo “qua”. Proprio mentre racconta se stesso e affronta il tema della sua identità, in effetti, Hervé scopre, nel mondo altro, dei significati che diventeranno per lui essenziali. È insomma proprio in questo mondo così difficile da decifrare che le cose possono finalmente acquisire un senso. Nella struttura narrativa tradizionale - qual era appunto quella della fiaba nello spazio altrove ci si recava per compiere l’impresa, per conquistare l’Oggetto di valore: oggetto che però prendeva senso poi qua, nello spazio proprio e familiare. Così, del resto, funziona anche in questo caso la storia “oggettiva”: di qui si parte perché servono le uova di baco, si va là, altrove, si ottengono le uova e quindi si porta qua, nell’universo nostro e familiare, questo bene grazie al quale la nostra comunità potrà prosperare. Ma non è così nella storia “soggettiva”, dove lo spazio altrove viene definito invece come un luogo contenente esso stesso i valori ultimi, anche se esso resta insieme caratterizzato come luogo ugualmente estraneo, e comunque di transizione. Ben diverso sarebbe ovviamente il senso della storia se Hervé, in Giappone, potesse (o volesse) progettare di fermarcisi indefinitamente. In questo spazio estraneo, il personaggio di Baldabiou ha il suo diretto corrispettivo in Hara Kei: un uomo non meno capace di controllare in maniera decisiva la realtà locale, signorotto che decide della vita e della morte dei suoi “sudditi”. Per Hervé in particolare, Hara Kei si presenta quale vero e proprio Antidestinante, giacché è proprio colui che detiene, e nega al protagonista, l’Oggetto di valore, la ragazza. E questo si accorda con il fatto che, tanto Hervé è ubbidiente, ligio alle regole e perfettamente inserito in una dimensione collettiva quando si trova nel suo villaggio francese, altrettanto risulta immerso nell’illegalità, trasferito sul piano del segreto, e alla fine addirittura ribelle, quando si sposta sul terreno giapponese. 84 La storia soggettiva La storia che chiamiamo “soggettiva” ha inizio quando Hara Kei, l’estraneo, l’avversario-partner, vuole saperne di più sul protagonista, vuole conoscere la sua identità. Contrariamente a quanto magari ci si potrebbe attendere, nel contesto di questa vicenda giapponese che ha visto finora soltanto imbrogli e sotterfugi, Hervé non costruisce una propria identità né falsa né parziale, o in qualche modo valida per ciò che può contare ed aver senso là, in questa terra estranea, ma parla sinceramente di sé, tanto sinceramente come presumibilmente non avrebbe mai fatto qua, nel territorio che gli è familiare. Così facendo, supera una implicita prova agli occhi di Hara Kei, rendendosi degno di interesse e di amicizia. Ma mentre così sta facendo, ecco che al tempo stesso, senza saperlo né poterlo prevedere, dà inizio all’altra storia, soggettiva e silenziosa. Con la ragazza, anzi, si apre un tipico gioco di soggettività. I due si comunicano la nascente simpatia attraverso il gioco reciproco di bere dove l’altro ha appena bevuto: la comunicazione avviene insomma per immedesimazione, tramite un meccanismo che consente di essere nel punto dell’altro... Come se questo gesto permettesse forse loro di essere uguali ancor di più, proprio perché non hanno in comune la lingua, la possibilità di parlare per segni, per alterità, ma soltanto dichiarando una totale immedesimazione, identità. È qui dunque che inizia la storia “soggettiva”, ponendo una Mancanza che, di fatto, non sarà mai colmata nei tempi successivi. In chiusura del viaggio seguente di Hervé avverrà quella che è destinata a restare l’unica comunicazione a parole da parte della ragazza misteriosa: il biglietto scritto, che Hervé si farà tradurre una volta tornato in Francia. La frase di lei, “Tornate, o morirò” si presenta essenziale, apparentemente estrema, presumibilmente falsa. E del resto neanche Hervé la prende sul serio: ancora legato alla logica degli interessi collettivi, affida a Baldabiou la decisione se compiere o no il suo prossimo viaggio in Giappone. È in questo viaggio l’episodio della sostituzione. La ragazza della storia “soggettiva” offre ad Hervé, al posto di se stessa, un’altra ragazza, perché passi con lui una notte d’amore. Lui, nel buio, non la vede neppure. Come se questa valesse per l’altra: “Nel buio, era un nulla amarla e non amare lei”. Le persone stesse cessano di avere un’identità oggettiva: conta ciò che sentiamo, ciò che pensiamo, o immaginiamo. E a questa donna ne corrisponde in certo modo un’altra: la moglie Hélène che, alla fine, nel desiderio di essere quell’altra, si mette al posto dell’amata giapponese, costruendo la sua identità sulla base di un gesto d’immaginazione. Tanto la storia “oggettiva” - secondo quanto abbiamo visto prima - è una vicenda fondata sulle equivalenze, per cui due entità differenti possono essere tradotte l’una nell’altra, tanto il suo corrispettivo “soggettivo” è puntato invece sull’identità totale, sull’aderire, peraltro impossibile, di un soggetto 85 sull’altro. Ma il problema delle equivalenze segniche e della traduzione hanno, nel romanzo, un posto senza dubbio importante. I segni come cenere Se il romanzo evidenzia i problemi legati alle differenze delle convenzioni linguistiche e di scrittura, i riferimenti alle equivalenze segniche vanno al di là del mero fatto linguistico. Nella prima parte, abbiamo visto come la possibilità di corrispondenza funzionale venga percepita come una sorta di identità semiotica: la sciarpa di seta, ad esempio, equivale al denaro. Ma nella seconda parte sono le persone a valere come segni (fino al caso estremo del ragazzino ucciso perché “era un messaggio d’amore”, cap. 48): indice in effetti chiaro del passaggio dalla logica degli oggetti a quella dei soggetti. Il testo contiene, addirittura, una propria definizione del “segno”. Nel capitolo 55, quando Hervé si trova tra le mani la lettera che crede scritta dalla ragazza giapponese, ma che in realtà è stata concepita da sua moglie, si dice degli ideogrammi che la compongono: “Segni, e cioè cenere di una voce bruciata”. Che i segni siano rappresentanti di “qualcosa che non c’è”, è concetto non solo noto ma addirittura costitutivo in semiotica. Ma l’espressione “cenere di una voce bruciata” suggerisce, in più, una distanza connotata in senso negativo, l’idea di un’esperienza sostitutiva che non è mai l’esperienza vera, che apre la possibilità della finzione, o comunque di un gioco intersoggettivo in cui la verità non è mai propriamente tangibile. I segni, d’altro canto, aprono la possibilità della traduzione. E la traduzione è attività non a caso affidata a Madame Blanche, tenutaria di una casa di appuntamenti, vale a dire imprenditrice impegnata in un’impresa commerciale classificata non tra le più nobili, ma ad ogni buon conto - come si può constatare da molti indizi - ben inserita nel tessuto sociale di una Francia mercantile e fedele a segni di carattere monetario. È in questo ambiente, e da parte di questo personaggio, che avvengono le traduzioni: cioè, che si trovano gli equivalenti, che si annullano le distanze, mettendo in contatto Oriente con Occidente. La stessa Madame Blanche, del resto, giapponese trapiantata in Francia, può ben rappresentare ciò che possa avvenire quando un soggetto proveniente dal mondo “altro” viene integrato in questo universo familiare e sociale, mercantile e traduttore. Ed è dunque grazie a questa possibilità di “traduzione” che un soggetto può costituirsi in luogo di un altro, fingendosi un altro nei confronti di sé prima che dei suoi destinatari. La lettera che Hélène fa tradurre a Madame Blanche non rappresenta di fatto un inganno, svolto sul piano del sapere: poiché ciò che le importa non è il dire ma il fare, la possibilità di vivere e far vivere comunque un’esperienza d’amore, ed esserne la protagonista. Così Hélène, che delle attenzioni e disaffezioni del marito era sempre stata l’Oggetto, si trasforma alla fine in Soggetto. Grazie a un sistema di segni che, non prevedendo più per sua natura il contato diretto col reale, permette, anche alle persone, di “tradursi”. 86 Conclusioni Riassumiamo, dunque, i risultati di questi schematici appunti di lettura del romanzo di Baricco. Il romanzo, abbiamo visto, è costruito intrecciando due storie, che sono quelle classiche della più consueta strutturazione del racconto. Da un lato, la prima storia - quella “oggettiva” - rappresenta una società noiosa e regolare, mercificante e fondata su criteri di convenienza economica, ove le persone neppure sembrano esistere come Soggetti, incapaci di costruirsi programmi d’azione, di desiderare davvero, o di sognare. Per molti giovani lettori, oggi e non soltanto oggi, può trattarsi di un’intuitiva allegorizzazione del vivere sociale che conoscono, e che li delude. Dall’altro lato c’è la storia d’amore, “soggettiva”, emozionante a suo modo ma non fatta di cose che realmente succedono: fatta piuttosto del materiale più tipico dell’universo soggettivo, vale a dire di sensazioni, immaginazioni, speranze, e illusioni. Un’analisi dei meccanismi tipici delle storie che intuitivamente definiamo “romantiche” dimostrerebbe, credo, abbastanza facilmente, che si tratta di racconti costruiti su strutture zoppe, non funzionanti se non addirittura autocontraddittorie. È la storia dell’amore che da se stesso si rende impossibile, o che magari per essere vissuto deve essere al contempo negato, che ad esempio ci commuove e ci appare “tanto romantica”. Se pur certo meno banale, la struttura della nostra storia mostra evidente questo carattere. Ma ciò che rende la costruzione meno elementare è che non si tratta semplicemente della messa in opera del meccanismo tipico dell’amore impossibile (Hervé in effetti non potrà mai realizzare la sua storia con la ragazza conosciuta in Giappone). Ciò che viene esplorato e rielaborato è, più in profondo, il tema del rapporto tra le due storie. Nel modello tradizionale, la storia “oggettiva” si presenta di per sé come obiettivo primario, e si trasforma in un secondo momento in vicenda quasi strumentale rispetto alla crescita della dimensione “soggettiva”. In altri termini, il piano soggettivo si costruisce sopra a quello oggettivo, si nutre dei contenuti di quest’ultimo, ne rappresenta uno sviluppo e un prolungamento. Che il soggettivo si elabori come traduzione dell’oggettivo può essere visto nella sua forma più evidente in particolari come ad esempio quella che Propp chiama funzione della Marchiatura. Tale funzione corrisponde infatti, quando l’evento si svolge, a un azione pienamente inserita nel tessuto “oggettivo”, e solo in seguito, nel contesto dell’altra storia, dimostrerà di valere invece come segno d’identità. Ma l’idea che il piano soggettivo si elabori come traduzione dell’oggettivo può essere giudicata, sotto un punto di vista più generale, un elemento rilevante per la costruzione di un sistema di pensiero. Non può essere questo il luogo per indagare come un sistema di pensiero possa fondarsi su modelli narrativi, e per cercare di definire con precisione a quale sistema di pensiero, nello specifico, tale configurazione potrebbe far riferimento. Di certo, comunque, non è quella che i lettori di Baricco possono condividere. 87 Per loro, tra piano oggettivo e piano soggettivo non c’è prolungamento ma opposizione: un’opposizione fondata su una insuperabile eterogeneità di organizzazione logica. Vivere il secondo è in qualche modo negare il primo (esattamente come per il protagonista di Seta: inseguire la ragazza cercata è un ritardo che inevitabilmente fa schiudere le uova di baco prima che queste possano arrivare a destinazione). Una traduzione di un piano nell’altro è allora decisamente impossibile. Le storie d’amore, del resto, le storie che esaltano la soggettività, si svolgono - il romanzo lo mostra - dove non c’è il linguaggio. Il linguaggio quello degli scrittori, per esempio - fa parte dell’universo cinerino dei segni. E lo scrittore stesso, come la moglie di Hervé, gioca sulle immedesimazioni, sul ricreare impossibili prospettive soggettive. Ma gli resta la possibilità dedurremmo dal romanzo di Baricco - di ragionare sulle strutture consuete delle storie, introducendovi degli scollamenti, dei punti di distacco, che riproducono la sensibilità dei suoi lettori. Perché qui, evidentemente, l’autore tocca strutture che sono importanti in un certo tipo di sensibilità e di cultura diffusa, specialmente tra i più giovani. E il lettore non a caso ripete, nella parte finale del romanzo, l’esperienza stessa del protagonista: dovendo constatare che ciò che ha letto non era realmente ciò che aveva letto, che le identità, le storie, da dentro, possono essere altre dai loro dati oggettivi. Una piccola, lieve esperienza: direbbe Hervé, come un’increspatura formata dal vento sulla superficie dell’acqua. E questo, forse, è in tale prospettiva il compito dello scrittore. 88
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