MB165 1979 Scapele l conza, ma poc 120101

SCAPÈLE MA POC
Pochi lo sanno ma scapelo un poco il conza per via
del già accennato parentado di mia nonna Maria che
faceva Selle di cognome e veniva da quella strana
area che sta tra Forcelle Aurine e Gosaldo1 ed è nota
come California2 dove, si sa, sono tutti matti perché
bevono l’acqua del Mis, tanto che quando chiedono
da sugà (da bere), ti domandano un bòsol de Mis3 (un
Tegórz, se hai veramente sete)4. Se invece ti dicono
frónteme an mastelòt de de §bòrz devi per forza
porgerli un bicchiere di vino; se traghéteme la tiliabo
de §gòria, passargli la bottiglia della grappa. Conosco
fin dalla culla nomi come Titele, Bitti, Coltamai,
Lambroi, Curti, Tiser5, per averli sentiti mille volte
assieme ai nomi dei Selle, dei Bonfardin, degli
Stalliviere, dei Ren e dei Vedana in quanto ‘parenti’
(non so molto di più). Di sicuro ho una trisavola che
faceva Brancaleone e so che aveva avuto sette figli tra
cui mia nonna materna, Maria.
Sopra, da sinistra a destra: La Pierina, figlia di Antonio che è il
personaggio anziano della foto (il terzo).
Lucia, figlia di Pierina, prima cugina di Nonna Maria
ovvero cugina in II grado di mia Mamma:
Antonio Brancaleone (1866-1953), Fratello di mia bisnonna
materna (la madre di nonna Maria Selle)
Giovanni Antonio detto Toni fratello di Lucia
Gli unici che ho conosciuto abbastanza
bene sono questi ultimi: Fioravante, con
la moglie Lucia, i figli Lilia e Rezio e sua
madre Amabile Ciet, vissuta sino ad età
molto avanzata e che mi ha raccontato
tante storie e filastrocche d’un tempo
(tutte debitamente registrate).
Da sinistra: Lilia e Rezio (figli di Lucia)
con la nonna Amabile Ciet (madre di Fiori 1895-1994)
e due cugine sulla destra
1
Si dice che quelli di Val California e dintorni (evidentemente primi quelli di Gosaldo gòs alto) abbiano il gozzo per il
tipo di acqua che bevono e a forza di mangiare il sale che essi stessi danno alle capre.
2
California era nata a metà Ottocento attorno a una osteria chiamata con questo nome, ispirato all'omonimo stato
americano e alla corsa all'oro: la zona, non solo si presentava selvaggia ma le ghiaie del Mis, ricche di minerali e di
scarti di miniera davano proprio l'idea dell'imminenza di un tesoro, e così mi pareva ancora attorno al 1950-55, per
quanto ricordo. I miei, coi nonni, ci passavano per andare a Tiser a trovare i parenti. La strada del Mis, pur 'carrozzabile'
dal '38 era in parte molto stretta e chiusa tra pareti impressionanti. Prima di imboccare la parte finale, o nella fase di
ritorno, era tappa obbligatoria fermarsi in Val del Mis, località ‘i miói’, dove viveva la famiglia di 'zio' Fiori. Ricordo la
casa colonica col grande cortile davanti e un grande albero con una bellissima altalena che aspettavo felice di poter
usare. Probabilmente era tutto di normalissima dimensione ma allora ero molto piccolo. Poi, ai primi degli anni
Sessanta, Fiori e famiglia furono sfrattati per i lavori di realizzazione Lago del Mis (62). Nel 66 poi con la mitica
alluvione del secolo, la strada per la California rimase interrotta come pure sospesi i miei viaggi dai parenti.
3
La storia dei matti dell’acqua’ è molto comune: in Cadore ci sono i quelli del Cridola (quelli di Lorenzago); nel
Feltrino ci sono quelli di Murèr (dove hanno le ‘acque angeliche’; quelli di Davestra; in Primiero a Transacqua e così
via. Per curiosità, il latte prodotto dalla móncia (la vacca), è denominato misét (piccolo Mis).
4
Bòsol da bossolo (di bomba) mentre il Tegorzo è un ruscellone affluente della Piave della valle di Alano-Fener.
5
Non a caso il fenomeno rimane impresso nei blasoni popolari: Lambrói, Curti e Tisèr, i conza n bel mestier! / Tiser,
careghèr; Titèle, careghèle; Don, caregón! / Quei da Gosalt i é boni a farle; quei da Tisèr a impaiarle; quei da Riva...
a bérle!
211
Secondo me ‘barba’ Fiori6, caregheta gran maestro e giramondo7, scapelar, indicava, oltre che
parlare, anche rapportarsi, presentarsi, la qual cosa si faceva bussando alle porte dei possibili clienti
togliendosi, per l’appunto, il copricapo 8. Si chiedeva quindi se avessero careghe da conzar, ovvero
sedie da acconciare, da riparare. Il gergo del concia-sedie (ovvero lo scapelament del conza) serviva
per le comunicazioni ‘interne tra i conza o coi gabùri, i giovani aiutanti che essi si portavano dietro
per fare o meglio disfare loro le ossa usandoli come somari evoluti oltre che come lavoranti
apprendisti a basso costo; serviva perché il gnorsi9 (talvolta chiamato confidenzialmente §àepa10)
non riuscisse a tirar i avi11 ossia a cogliere il senso delle parole.
Il linguaggio, in gran parte di pura invenzione, si divertiva spesso a ripercorrere le sillabe di un
motto circa al contrario o anagrammando, aggiungendo, confondendo; a partire dal si e dal no che
diventavano isi e ono o dalla numerazione ... all’indietro: nao (uno), òido (doi, due), èitre (trèi, tre),
tròca (quattro) dove si va per immagine al cinque ovvero na §grinfa, una mano, e poi per fantasia
al sei, meda ele (mezza elle); al sette, an mèc; all’otto, an bertoldo; al nove, an nono: per arrivare a
òido §grinfe, due mani per dieci e na èle per dodici ovvero una dozzina, en orbo per venti, en
bu§ón per cento; ma cento lire erano anche na nacia e cinquanta, meda nacia.
Eh già perché a fare il mestiere ambulante del seggiolaio bisognava imparare di corsa e bene a
§batocià timpelo (bussare per chiedere lavoro) e a contare i batòci da méter te la ola, ovvero i soldi
da mettere là, nella tasca (per cui ola è la tasca, come batòci sono i proventi dello §batocià nella
doppia interpretazione del rumore delle nocche sulla porta e dei soldi in saccoccia; così si forma un
dèrego, gergo, come piaceva dirlo a Zanzotto che lo trovava affascinante assai!
Pochi sanno che, dopo la metà degli anni Settanta, con
l’Andrea ci si frequentava se pur di rado; era incuriosito dal
fenomeno Belumat e dal mio uso della poesia in dialetto
come vettore di scardino di una memoria popolare troppo
presto sepolta. Così era nata tra noi, quasi per gioco e con la
complicità di Augusto Murer, una specie di ‘gara’ poetica in
dialetto sui vecchi mestieri, sul modello delle tenzoni che
avevano esaltato, attorno al Cinquecento, la lingua locale con
le note ‘egloghe pastorali’ (di Morel, di Paolo da Castello)
considerate primi brillanti esempi del dialetto basso bellunese
o alto trevigiano (qui ciascuno tirava dalla propria parte
anche, lui potendo contare anche sull’avvallo del GB
Pellegrini!). Ecco il doppio esito sul mestiere del seggiolaio.
6
Non era realmente mio zio ma il marito di una prima cugina di mia madre. Pure lo consideravo tale e poi mi piaceva
da matti l’uso del termine ‘barba’.
7
Il lavoro del seggiolaio era fatto a domicilio ed è perciò ambulante. Le mete preferite all’estero erano la Francia e
l’Austria; in Italia, la Toscana, l’Emilia, Liguria Piemonte e Lombardia (dove però c’era anche qualche concorrenza
locale. «I seggiolai agordini viaggiavano a piccoli gruppi ma si ritrovavano periodicamente. La loro ‘compagnia’ più
nota fu quella detta di ‘Bologna’, nata nel 1781 come vera e propria continuazione di quel fenomeno delle
‘confraternite’ che fu di importanza religiosa e sociale fondamentale nei secoli precedenti. Fra gli obblighi significativi
dei soci, che nel 1866 erano 40, figuravano l'obbligo di suffragio per i confratelli defunti e la cassa comune per
l'assistenza in emergenza economica. La ‘compagnia dei seggiolai di Bologna’ si è sciolta solo di recente, esaurendo il
suo scopo nel 1950, dopo ben 170 anni di attività ininterrotta» (da Emigrate, libretto per l’omonimo DVD, da me scritto
per l’Edizione Belumat del 1996, in occasione del Trentennale della AEB).
8
L’interpretazione è curiosa ma affatto improbabile. Le altre ipotesi correnti per scabelament (termine tipicamente
gosaldino, che a Rivamonte Agordino diventa sca(r)pelament), lo fanno derivare dalla voce dialettale càbola, bugia, a
significare ‘parlata di finzione’. Preferisco tuttavia l’ipotesi parentale.
9
Il signore (anagramma di gnorsi), ovvero il cliente.
10
§àepa è verosimilmente l’anagramma di pae§an (paesano, compaesano, compagno) e viene utilizzato comunemente
per indicare una persona.
11
Tirar i avi, per tirare via (via è anagramma di avi) cioè privare della possibilità di comprendere.
212
Mia12:
I ndea via in tre, in quatro, in sète …
i careghete!
I maduri, i gaburi
co i mu§i duri
e le craz piene de i so strumenti
e i sentimenti …in cheba.
Andavano via in tre, in quatro, in sette …
i careghete!
I maturi, gli apprendisti
coi musi duri
e le craz piene dei loro strumenti
e i sentimenti …in gabbia.
Di Andrea13
Riva riva i careghéta
che i è cofà na società segreta.
I à n dèrego che sol che lori i sa
e na sior Ana che sol che lori i sa.
Eco l primo che l passa:
l impaja la carega e inte la paja l ghe assa
una renga che l gat §grifarà via,
cussì quel che vien dopo, bon colega,
catarà na carega
anca lu da impajar, e così sia.
Arrivano arrivano i seggiolai
che sono come una società segreta.
Hanno un gergo che sanno solo loro
e una fame che sanno solo loro.
Ecco, il primo che passa:
impaglia una seggiola e lascia nella paglia
un'aringa che il gatto graffierà via
così chi verrà dopo, buon collega,
troverà una seggiola
anche lui da impagliare, e così sia.
Come si vede anche lui era stato colpito dallo scapelament del conza!
Per mio conto avevo già dedicato ad avi, mestiere e gergo il testo di una canzone per i Belumat dal
titolo ‘Era na olta’14
Partir da l rónc co l cròc,
la §àepa che sconzìs,
le monce no à paiús...
e mi in Lipóna;
Montar su l bareghèl
e ìa lontan da l bric
a §batocià timpèlo
fa n zavàtol;
La craz che bat el zést,
far pèche e far pieruz,
pigar le bèrne curte su la lópa
e mai oltarla a l drit,
le stoze senpre al bas,
batòci te la óla
da portar
Rit:
Fa l conza l é dura:
la vita na stupinadura,
an s-ciap intòrt e che nisun me§ura
de branc e §grinfe pronte a tinpelar!
Partir dal paese col sacco in spalla,
la moglie che piange,
le vacche che non hanno fieno,
e andare in Francia.
Montare in treno,
e via lontano dal monte,
a cercare lavoro
senza tregua;
I ferri del lavoro che sbattono sul culo
camminare in silenzio
dormire poche ore sulla paglia
senza mangiare abbastanza
la cassa sempre vuota
coi soldi stretti in tasca
da portare a casa...
Rit:
Fare il seggiolaio è dura
la vita come una intrecciatura
di paglia contorta che nossuno misura
di mani e braccia sempre intente a lavorare.
FIORI, CONZA IN CARERA (FIORI, SEGGIOLAIO IN ITALIA)
12
N AN, liriche in vernacolo, Belumat Ed. Belluno, 1980, p.18, assieme a molte altre dedicate ai mestieri.
Mistieròi. Poemetto dialettale veneto, Feltre, Castaldi, 1979.
14
La parte musicale brano dei Belumat, come spesso è accaduto, è stata fatta poi a due mani: di Giorgio la strofa e mio
il ritornello.
13
213
Partiva in novembre, appena dopo San martino, per la Toscana; prima a piedi fino alla stazione più
vicina; pochissime le cose da portarsi dietro, anche se non era povero: bigonze e timpeline osót,
zètcal, en fiz, en cazucio15, en fer da mì§era (barba), una foto co l sófio (fucile) in man, dell’ultimo
giro a traghetar selvàdeghi (caccia ai camosci) fatta nel regno dei Monti del sole da esibire come
trofeo ai conoscenti. Il tutto in una valigetta di cartone o in un piccolo rusak16, da caricare con
càora (la béca)17, barelìna18, sega19 e §mak (manèrol)20, sulla
craz21, assieme alla casèla dei fer22. La cassetta conteneva il
resto degli strumenti: manerin di emergenza usabile anche come
martello23, trapano a man o ‘menaról’24, trivèle25, fus, fu§et e
cazapaia, cugni tuti de bos26, le §mòrse o zóc par serar le
spartide (la morsa a ceppi27), fórves 28, fer a do man29, al
gobo30, meli e meli da ponta31, scarpei e tenaia32 e
l’immancabile nèrt o me§uroto.
15
Un paio di braghe, un paio di mutande, calzini , una camicia, un berrettino di lana.
Zaino, zainetto, dal tedesco rucksack.
17
L’attrezzo basilare del lavoro, una morsa a cavalletto con bloccaggio a pedale in cui si serravano i singolo pezzi della
sedia per poterli lavorare e rifinire al meglio usando i vari fer a doi man.
18
Uno scagno basso che consentiva al conza di lavorare seduto ad una altezza adatta per la più comoda impagliatura.
19
Si tratta della sega a telaio o sega da falegname, costituita da un telaio in legno a forma di H con due montanti ed una
traversa, dove nella parte inferiore viene montata la lama, innestata su due caviglie che permettono di variarne anche
l'inclinazione, mentre nella parte superiore si trova una corda che tramite la torsione applicata da un apposito tenditore
mette in trazione la lama. Il tenditore è costituito da una stecca di legno detta nottola, che da una parte è infilata
all'interno della corda, mentre dall'altra fa scontro sulla traversa (Wikipedia).
20
Una accetta di taglio largo (10-15 cm), manico ligneo abbastanza corto, all’incirca sui 40-50 cm, ben bilanciata, per
la fessatura e sgrossatura del legname normalmente utilizzato (in cui è necessaria una certa massa d’inerzia). Il termine
dialettale dell’accetta è §mak (maschile, onomatopeico) e l’azione è §macar dó; §macàr significa, di conseguenza,
battere, ma anche premere, spingere fino al figurato §macàrghela a un, corrispondente al dialettale veneto fracàrghela,
ovvero combinarla bella a qualcuno. L’azione di modellare ad ascia si diceva, preferibilmente, temprar dó.
21
Si tratta di un attrezzo di trasporto che usa la struttura dello schienale di una sedia come supporto per realizzare una
portantina. Sul ‘sedile’ di questa sedia rovescia si caricano i pesi ovvero la cassetta degli attrezzi, la valigia o il ‘rusak’
per le piccole cose personali, la paglia e la ‘capra’. La craz, detta anche barcela viene indossata grazie a due corregge
ad anello che si infilano e si supportano con le spalle, come per le gerle.
22
Cassetta porta attrezzi di legno.
23
Altro §mac, opzionale.
24
Il girabacchino funzionava a manovella (a ‘becco d’anatra’ o ‘collo d’oca’) e aveva l’impugnatura piatta in modo da
poterla appoggiare comodamente allo sterno del petto per spingere sull’asse di lavoro. Poi, con una mano si pilotava la
direzione della trivella e con l’altra si generava il movimento di trivellatura.
25
Le trivelle erano punte ferrose a spirale da applicare al mandrino del trapano. Ce n’erano di diverse dimensioni in
ragione della tipicità dei fori.
26
Si trattava di punte lignee a forma di goccia allungata su un lato e ridotte a spatola dall’altro. Servivano per penetrare,
lisciare e posizionare esattamente la paglia; così pure si utilizzava il cazapaia utile all’inserimento basilare del
cordoncino erbaceo oltre gli strati o il fu§èr. Ciascun caregheta realizzava i propri ‘fusi’ in legno di bosso per le
eccellenti caratteristiche di questo legno a fibra corta e perciò estremamente robusto e compatto ma anche permeabile
tanto da essere azionabile con sicurezza anche da mani sudate.
27
Si tratta di uno tavoletta (tòc da serar) di spessore 5-10 cm con un incastro in cui si posizionavano appaiate e
affiancatele gambe delle sedie bloccandole in quella posizione con l’inserzione di cunei (sempre di legno). In questo
modo si potevano eseguire i fori verificando direttamente la congruità. Il lavoro si faceva con morsa a terra.
28
La forbice serviva a cimare i fronzoli di paglia sotto il telaio. Qualcuno si portava dietro anche la ginbarda (specie di
pialla) e la màza per forzare i pioli nei fori sulle gambe della sedia, anche se l’attrezzo principe era lo §mac.
29
Consistevano in una lama affilata larga circa 25-30 cm, imperniata su sue manici di bosso fissati in modo ortogonale
al filo di taglio. Il caregheta, fissato il piolo sulla càora (la béca), sagomava il legno tirando il tagliente verso di se,
potendo piallare superfici piane o spigoli.
30
Anche il ‘gobbo’ era un ferro da usare a due mani ma la sua lama era sagomata presentando due o tre semicerchi
adatti a finire pioli a forma rotonda o tondeggiante, di diverso diametro.
31
Coltelli (meli da mela, anagramma di lame); quello ‘da punta’ serviva come punteruolo per indicare il centro dei fori e
poter puntare le trivelle, e anche per la finitura delle varie asole ricavate dalla lavorazione con fori e scalpello.
32
Non si sa mai per altri usi di pinza. Non era strumento molto usato.
16
214
Questo strumento era una specie di gamba di sedia ma più sottile tutto intarsiato di segni e croci,
lucido di esperienza; era un regolo per tutte le possibili misure dei vari tipi di seggiola33.
Si chiamava nèrt, nello stesso modo con cui si individuavano padrone e padrona in assoluto (el nèrt
e la nerta). Sempre all’esterno, in alto per non rovinarlo, poca lopa 34(poca paglia di pronto uso, il
resto si sarebbe trovata sul posto); poi via co l bareghel (il treno) fino a Firenze, spesso nel vagone
merci a causa dell’ingombrante corredo. Di li andava a Poggibonsi dove c’era un amico contadino
che da tanti anni dava la
prima ospitalità con un bel
fienile a disposizione dove
pigar berne segure (dormire
notti sicure); produceva poi
un ottimo Chianti del Gallo e
olio buono di cui avrebbe
fatto provvista, per quanto
possibile, sulla via del ritorno
a metà maggio, magari un
paio di damigiane di nero e
una piccola scorta di nettare
d’olive.
COL DEL VIN
Adesso che aveva cambiato
aria, l avéa an busk danugio
e no na tabina35; era a
approdato a Col del vin, stava sicuro meglio e non gli
mancavano certo stiz pa l mazarol36. Te l bregal cik e
crùcol37 almeno una volta alla settimana, mis de ciurlo e
ducet38 ogni di; tapi, bét galeno te la era e scrò§ol al
drit39; eitre monce, nao barce in stala40, òido biese e na
budi§òla te l stalòt; ed era più facile girar a traghetar la
spolverosa en te l tegalbo41 perché Bes era vicina e cusì i
ndea tuti a kirik col rabul danugio a farse calumar coi
lùster42. Faceva il contadino come prima ma ora si sentiva
ricco, con un prato grande e il fieno che bastava per le
vacche, con la vigna, il campo per patate e granturco e un
pezzo di bosco, altro che grebani e basta! E no l é caròbole,
no43!
33
Fino al caregón, sedia più alta, seggiolone con braccioli, adatto a sedersi di fronte al larin appoggiano i piedi sulla
pietra del focolare (ad uso e ambito dagli adulti).
34
Anche palùc, palùs.
35
Aveva una bella casa e non più un casolare.
36
Legna per il fuoco.
37
Sulla tavola, carne e pane.
38
Caffè con lo zucchero.
39
Galline, pulcini e gallo in cortile e uova abbondanti.
40
Tre vacche e un bue in stalla.
41
Andare a prendere la farina in bottega.
42
Così andavano tutti a messa, col loro bel cappello a farsi vedere e ammirare con gli occhi.
43
E non sono bugie, no!
215
SCAPELAR
Nei primi giorni i gaburi facevano esperienza nei dintorni: gli ultimi
anni però Fiori viaggiava solo, magari co na becàna in prést44, e
faceva solo sedie complete par pararghe su l pit45. I garzoni non
erano più quelli di una volta; ora c’era troppo da §mocolar, da tirar
cèpe, che i te fea ogni menuto gnér kiz pa n timpèlo stampà mal, che
te dovea farghe da viligón parché i stéa là a menar legne a l
capelan!46
Finite le comande locali, si cominciavano a girare gli altri paesi,
verso Siena; erano in molti ad aspettare i careghéte, come ogni anno,
e per fortuna ‘la giréa al drit’47. In Lipona (Francia) invece la girea
al gori, era stata più dura!
LA CRAZ (LA SEGGIOLA)
C’erano sedie vecchie da impagliare e anche
nuove da fare. In questo caso il legno si reperiva
in zona e si sgrezzava con l’accetta
suddividendolo nei pezzi utili con capacità
straordinaria di sprecare pochissimo e andare
vicini alla struttura finale, anche nelle forme
necessariamente curve.
Prima si sceglievano i legni: pi che tut fràsen,
ma anca morèr, zarie§èr o càsia48, specie pa i
legni curti. Si segavano nelle lunghezze giuste,
si squartavano e si realizzavano i pezzi base;
quindi si sbozzavano (temprar dó) i supporti
posteriori (canuce da iodre, ossia le gambe posteriori leggermente arcuate) e quindi le canùce de
antèvia (le gambe davanti); si abbinavano quindi i supporti anteriori posteriori bloccandoli coi
cugni nel zóc (la morsa a terra) e rapidamente forandoli nei punti in cui inserire i spèc o scalin, i
pioli di collegamento inferiori e il supporto (la stofa?) anteriore. Il tutto si diceva ispegar le prime
davanti o ispegar la spartìda davanti . Si preparava quindi la spartida da iodre, quella con lo
schienale. Le stecche superiori, concave e piatte si chiamavano stofe e stofin; il pezzo estremo e più
alto veniva spesso arricchito con qualche ‘grazia.
Una volta completate le spartide, si segnavano col nèrt per sponzigarle de le seconde ovvero
raccordarle coi pioli e i supporti sui fianchi. I fori per le stofe si faceva colla medesima punta che
apriva buchi tondi da utilizzare singolarmente o da raccordare fino a trasformarli in asole perfette.
I fori degli scalin (dei pioli) avevano poi una propria particolare inclinazione in modo che gli
incastri portassero i legni leggermente in tensione irrobustendo il manufatto senza la necessità di
utilizzare null’altro. Sulla sedia ogni caregheta rispettabile accettava solamente 4 chiodini strategici
con funzioni di sicurezza. Con quattro §macade ben assestate e si poteva quindi trarla in pié e
vedere se per caso l andéa in zinque (cercava il quinto appoggio, cioè, imperfetta, traballava). Infine
si poteva fare la prova di robustezza, caricando con forza una gamba per volta senza che si dovesse
avvertire alcun cedimento nella struttura.
44
Magari con una bicicletta presa in prestito.
Per alzare il prezzo, ossia per ottenere un prezzo più alto, una resa maggiore.
46
Da ‘smoccolare’ bestemmiare, già che ti facevano arrabbiare ogni minuto per un mestiere fatto male ; che gli dovevi
fare da guardia perché restavano a far nulla (letteralmente ‘ a portare legna al cappellano’ per dire ‘a masturbarsi’).
47
Va bene, gira dritto.
48
Frassino, gelso, ciliegio, acacia.
45
216
Si partiva allora a stopinar, ad impagliare. Bisognava bagnare leggermente la paglia palustre per
renderla più morbida, elastica, meno pericolosa; i bordi delle sottili foglie erano come lame
affilatissime e necessitavano di esemplare perizia per raccoglierle, torcerle e continuamente
giuntarle, quasi fossero un filato, per formare il cordino con cui tessere la seduta, molto somigliante
ad una ragnatela, ricavata a spicchi rinforzati, con quattro settori triangolari, e che andava ad
infittirsi partendo dai bordi per chiudersi al centro sul doppio strato del supporto. Questa era
l’impagliatura nostrana tipica e più robusta. A seconda del soldo si potevano però scegliere diversi
tipi di paglia e di trama. A volte il cordino si faceva con le brattee di mais (foiòle) che si potevano
perfino colorare al naturale proprio come si faceva per le pasquali uova di gallina (rossiccio
marrone con le scorze di cipolla, di ogni altro colore con le aniline); si realizzava quindi una trama
robusta, a doppio strato, collegando i due pioli laterali; si sollevavano poi parte dei cordoni inferiori
sopra la trama superiore bloccandoli con dei bastoncini. Si
procedeva quindi col cordone dell’ordito magari in altro materiale
e colore per risultati finali stupendi. Per seggiole più raffinate si
usava la paglia di Vienna, impagliando a monofilo sedie altrui,
autore certo Thonet, che erano entrate in gran moda in età
vittoriana, dalla metà dell’Ottocento. Sull’impagliatura gira ancora
un aneddoto secondo il quale, negli anni di carestia, i
conzacareghe strofinavano le paglie, con lische d'acciuga o renga
per indurre el toga (il gatto di casa) a graffiarle rapidamente.
Parole, forse, solo fantasie, che riportano alla mente un passato
comunque difficile. Fiori mi raccontava che nei suoi migliori
momenti e lavorando 16 ore al giorno (fora che l tenp par bàterlo
odo e ndar a trarla49) riusciva a scolpire, montare e impagliare ben
quattro sedie finite. Tenuto conto della complessità
dell’esecuzione erano davvero delle macchine umane.
Sul mangiare c’era da divertirsi e no se patia sardina50; la Mabile,
ronca51 madre del Fiori, la fea n calàba cusì bon che la tirea le beate al drit52. A le olte la ne
scaltrìa na tapi te la calabria53, co cik de gnicro e n struz de §mauz 54, gustamente insaporendola con
§burgo e spizigós e qualche erba dell’orto tanto da formare un tòcio squisito, dove pociar
(intingere) qualche ala de taf (fetta di polenta), i nonantanof molegadi co minola tosco e chel del
tiri55 per finire poi co n tok de s-cek danugio (con un pezzo di buon formaggio). Danugi, ossia belli
e buoni, potevano essere poi i §ap, le mele che stavano sulla fruttiera, come pure le tette della
Luciana, che arrivava da Tiser con i saluti di Toni, della Marietta e di tutti i parenti
A la balina ghe pia§ea inveze stupinà a l drit, beregà e girà a pestà orz e a chirich la ghe mandea
so ronca a s-ciocà i rosegòt56. La scalifea stàifel e, co la pincéa i sant, la caluméa pa imbaginarte;
co la rivea a te spizà, dó a fride e ti a stampà muci!57
Caluma §aepa che la tira al drit (guarda caro mio come ci va bene!)!
49
Pisciare e cacare.
Non si pativa fame.
51
I termini ronc, ronca, hanno diverse interpretazioni; se riferite a persone, sono il vecchio e la vecchia, i generatori, i
saggi; se riferito al territorio è il proprio podere, la terra familiare.
52
faceva un baccalà così buono che tirava le budella al piacere
53
Letteralmente ‘cuoceva una gallina nella pignatta’.
54
Con lardo e un poco di burro.
55
I fagioli bagnati con olio toscano e aglio
56
Alla ragazza piaceva invece vestirsi bene, cantare e andare a ballare; in chiesa mandava la sua vecchia a dir su rosari!
57
Fumava forte e quando giocava a carte ti spiava per imbrogliarti; quando arrivava a vincere bleffando (rubarti), giù a
ridere e tu a stare muto!
50
217