SCAPÈLE MA POC Pochi lo sanno ma scapelo un poco il conza per via del già accennato parentado di mia nonna Maria che faceva Selle di cognome e veniva da quella strana area che sta tra Forcelle Aurine e Gosaldo1 ed è nota come California2 dove, si sa, sono tutti matti perché bevono l’acqua del Mis, tanto che quando chiedono da sugà (da bere), ti domandano un bòsol de Mis3 (un Tegórz, se hai veramente sete)4. Se invece ti dicono frónteme an mastelòt de de §bòrz devi per forza porgerli un bicchiere di vino; se traghéteme la tiliabo de §gòria, passargli la bottiglia della grappa. Conosco fin dalla culla nomi come Titele, Bitti, Coltamai, Lambroi, Curti, Tiser5, per averli sentiti mille volte assieme ai nomi dei Selle, dei Bonfardin, degli Stalliviere, dei Ren e dei Vedana in quanto ‘parenti’ (non so molto di più). Di sicuro ho una trisavola che faceva Brancaleone e so che aveva avuto sette figli tra cui mia nonna materna, Maria. Sopra, da sinistra a destra: La Pierina, figlia di Antonio che è il personaggio anziano della foto (il terzo). Lucia, figlia di Pierina, prima cugina di Nonna Maria ovvero cugina in II grado di mia Mamma: Antonio Brancaleone (1866-1953), Fratello di mia bisnonna materna (la madre di nonna Maria Selle) Giovanni Antonio detto Toni fratello di Lucia Gli unici che ho conosciuto abbastanza bene sono questi ultimi: Fioravante, con la moglie Lucia, i figli Lilia e Rezio e sua madre Amabile Ciet, vissuta sino ad età molto avanzata e che mi ha raccontato tante storie e filastrocche d’un tempo (tutte debitamente registrate). Da sinistra: Lilia e Rezio (figli di Lucia) con la nonna Amabile Ciet (madre di Fiori 1895-1994) e due cugine sulla destra 1 Si dice che quelli di Val California e dintorni (evidentemente primi quelli di Gosaldo gòs alto) abbiano il gozzo per il tipo di acqua che bevono e a forza di mangiare il sale che essi stessi danno alle capre. 2 California era nata a metà Ottocento attorno a una osteria chiamata con questo nome, ispirato all'omonimo stato americano e alla corsa all'oro: la zona, non solo si presentava selvaggia ma le ghiaie del Mis, ricche di minerali e di scarti di miniera davano proprio l'idea dell'imminenza di un tesoro, e così mi pareva ancora attorno al 1950-55, per quanto ricordo. I miei, coi nonni, ci passavano per andare a Tiser a trovare i parenti. La strada del Mis, pur 'carrozzabile' dal '38 era in parte molto stretta e chiusa tra pareti impressionanti. Prima di imboccare la parte finale, o nella fase di ritorno, era tappa obbligatoria fermarsi in Val del Mis, località ‘i miói’, dove viveva la famiglia di 'zio' Fiori. Ricordo la casa colonica col grande cortile davanti e un grande albero con una bellissima altalena che aspettavo felice di poter usare. Probabilmente era tutto di normalissima dimensione ma allora ero molto piccolo. Poi, ai primi degli anni Sessanta, Fiori e famiglia furono sfrattati per i lavori di realizzazione Lago del Mis (62). Nel 66 poi con la mitica alluvione del secolo, la strada per la California rimase interrotta come pure sospesi i miei viaggi dai parenti. 3 La storia dei matti dell’acqua’ è molto comune: in Cadore ci sono i quelli del Cridola (quelli di Lorenzago); nel Feltrino ci sono quelli di Murèr (dove hanno le ‘acque angeliche’; quelli di Davestra; in Primiero a Transacqua e così via. Per curiosità, il latte prodotto dalla móncia (la vacca), è denominato misét (piccolo Mis). 4 Bòsol da bossolo (di bomba) mentre il Tegorzo è un ruscellone affluente della Piave della valle di Alano-Fener. 5 Non a caso il fenomeno rimane impresso nei blasoni popolari: Lambrói, Curti e Tisèr, i conza n bel mestier! / Tiser, careghèr; Titèle, careghèle; Don, caregón! / Quei da Gosalt i é boni a farle; quei da Tisèr a impaiarle; quei da Riva... a bérle! 211 Secondo me ‘barba’ Fiori6, caregheta gran maestro e giramondo7, scapelar, indicava, oltre che parlare, anche rapportarsi, presentarsi, la qual cosa si faceva bussando alle porte dei possibili clienti togliendosi, per l’appunto, il copricapo 8. Si chiedeva quindi se avessero careghe da conzar, ovvero sedie da acconciare, da riparare. Il gergo del concia-sedie (ovvero lo scapelament del conza) serviva per le comunicazioni ‘interne tra i conza o coi gabùri, i giovani aiutanti che essi si portavano dietro per fare o meglio disfare loro le ossa usandoli come somari evoluti oltre che come lavoranti apprendisti a basso costo; serviva perché il gnorsi9 (talvolta chiamato confidenzialmente §àepa10) non riuscisse a tirar i avi11 ossia a cogliere il senso delle parole. Il linguaggio, in gran parte di pura invenzione, si divertiva spesso a ripercorrere le sillabe di un motto circa al contrario o anagrammando, aggiungendo, confondendo; a partire dal si e dal no che diventavano isi e ono o dalla numerazione ... all’indietro: nao (uno), òido (doi, due), èitre (trèi, tre), tròca (quattro) dove si va per immagine al cinque ovvero na §grinfa, una mano, e poi per fantasia al sei, meda ele (mezza elle); al sette, an mèc; all’otto, an bertoldo; al nove, an nono: per arrivare a òido §grinfe, due mani per dieci e na èle per dodici ovvero una dozzina, en orbo per venti, en bu§ón per cento; ma cento lire erano anche na nacia e cinquanta, meda nacia. Eh già perché a fare il mestiere ambulante del seggiolaio bisognava imparare di corsa e bene a §batocià timpelo (bussare per chiedere lavoro) e a contare i batòci da méter te la ola, ovvero i soldi da mettere là, nella tasca (per cui ola è la tasca, come batòci sono i proventi dello §batocià nella doppia interpretazione del rumore delle nocche sulla porta e dei soldi in saccoccia; così si forma un dèrego, gergo, come piaceva dirlo a Zanzotto che lo trovava affascinante assai! Pochi sanno che, dopo la metà degli anni Settanta, con l’Andrea ci si frequentava se pur di rado; era incuriosito dal fenomeno Belumat e dal mio uso della poesia in dialetto come vettore di scardino di una memoria popolare troppo presto sepolta. Così era nata tra noi, quasi per gioco e con la complicità di Augusto Murer, una specie di ‘gara’ poetica in dialetto sui vecchi mestieri, sul modello delle tenzoni che avevano esaltato, attorno al Cinquecento, la lingua locale con le note ‘egloghe pastorali’ (di Morel, di Paolo da Castello) considerate primi brillanti esempi del dialetto basso bellunese o alto trevigiano (qui ciascuno tirava dalla propria parte anche, lui potendo contare anche sull’avvallo del GB Pellegrini!). Ecco il doppio esito sul mestiere del seggiolaio. 6 Non era realmente mio zio ma il marito di una prima cugina di mia madre. Pure lo consideravo tale e poi mi piaceva da matti l’uso del termine ‘barba’. 7 Il lavoro del seggiolaio era fatto a domicilio ed è perciò ambulante. Le mete preferite all’estero erano la Francia e l’Austria; in Italia, la Toscana, l’Emilia, Liguria Piemonte e Lombardia (dove però c’era anche qualche concorrenza locale. «I seggiolai agordini viaggiavano a piccoli gruppi ma si ritrovavano periodicamente. La loro ‘compagnia’ più nota fu quella detta di ‘Bologna’, nata nel 1781 come vera e propria continuazione di quel fenomeno delle ‘confraternite’ che fu di importanza religiosa e sociale fondamentale nei secoli precedenti. Fra gli obblighi significativi dei soci, che nel 1866 erano 40, figuravano l'obbligo di suffragio per i confratelli defunti e la cassa comune per l'assistenza in emergenza economica. La ‘compagnia dei seggiolai di Bologna’ si è sciolta solo di recente, esaurendo il suo scopo nel 1950, dopo ben 170 anni di attività ininterrotta» (da Emigrate, libretto per l’omonimo DVD, da me scritto per l’Edizione Belumat del 1996, in occasione del Trentennale della AEB). 8 L’interpretazione è curiosa ma affatto improbabile. Le altre ipotesi correnti per scabelament (termine tipicamente gosaldino, che a Rivamonte Agordino diventa sca(r)pelament), lo fanno derivare dalla voce dialettale càbola, bugia, a significare ‘parlata di finzione’. Preferisco tuttavia l’ipotesi parentale. 9 Il signore (anagramma di gnorsi), ovvero il cliente. 10 §àepa è verosimilmente l’anagramma di pae§an (paesano, compaesano, compagno) e viene utilizzato comunemente per indicare una persona. 11 Tirar i avi, per tirare via (via è anagramma di avi) cioè privare della possibilità di comprendere. 212 Mia12: I ndea via in tre, in quatro, in sète … i careghete! I maduri, i gaburi co i mu§i duri e le craz piene de i so strumenti e i sentimenti …in cheba. Andavano via in tre, in quatro, in sette … i careghete! I maturi, gli apprendisti coi musi duri e le craz piene dei loro strumenti e i sentimenti …in gabbia. Di Andrea13 Riva riva i careghéta che i è cofà na società segreta. I à n dèrego che sol che lori i sa e na sior Ana che sol che lori i sa. Eco l primo che l passa: l impaja la carega e inte la paja l ghe assa una renga che l gat §grifarà via, cussì quel che vien dopo, bon colega, catarà na carega anca lu da impajar, e così sia. Arrivano arrivano i seggiolai che sono come una società segreta. Hanno un gergo che sanno solo loro e una fame che sanno solo loro. Ecco, il primo che passa: impaglia una seggiola e lascia nella paglia un'aringa che il gatto graffierà via così chi verrà dopo, buon collega, troverà una seggiola anche lui da impagliare, e così sia. Come si vede anche lui era stato colpito dallo scapelament del conza! Per mio conto avevo già dedicato ad avi, mestiere e gergo il testo di una canzone per i Belumat dal titolo ‘Era na olta’14 Partir da l rónc co l cròc, la §àepa che sconzìs, le monce no à paiús... e mi in Lipóna; Montar su l bareghèl e ìa lontan da l bric a §batocià timpèlo fa n zavàtol; La craz che bat el zést, far pèche e far pieruz, pigar le bèrne curte su la lópa e mai oltarla a l drit, le stoze senpre al bas, batòci te la óla da portar Rit: Fa l conza l é dura: la vita na stupinadura, an s-ciap intòrt e che nisun me§ura de branc e §grinfe pronte a tinpelar! Partir dal paese col sacco in spalla, la moglie che piange, le vacche che non hanno fieno, e andare in Francia. Montare in treno, e via lontano dal monte, a cercare lavoro senza tregua; I ferri del lavoro che sbattono sul culo camminare in silenzio dormire poche ore sulla paglia senza mangiare abbastanza la cassa sempre vuota coi soldi stretti in tasca da portare a casa... Rit: Fare il seggiolaio è dura la vita come una intrecciatura di paglia contorta che nossuno misura di mani e braccia sempre intente a lavorare. FIORI, CONZA IN CARERA (FIORI, SEGGIOLAIO IN ITALIA) 12 N AN, liriche in vernacolo, Belumat Ed. Belluno, 1980, p.18, assieme a molte altre dedicate ai mestieri. Mistieròi. Poemetto dialettale veneto, Feltre, Castaldi, 1979. 14 La parte musicale brano dei Belumat, come spesso è accaduto, è stata fatta poi a due mani: di Giorgio la strofa e mio il ritornello. 13 213 Partiva in novembre, appena dopo San martino, per la Toscana; prima a piedi fino alla stazione più vicina; pochissime le cose da portarsi dietro, anche se non era povero: bigonze e timpeline osót, zètcal, en fiz, en cazucio15, en fer da mì§era (barba), una foto co l sófio (fucile) in man, dell’ultimo giro a traghetar selvàdeghi (caccia ai camosci) fatta nel regno dei Monti del sole da esibire come trofeo ai conoscenti. Il tutto in una valigetta di cartone o in un piccolo rusak16, da caricare con càora (la béca)17, barelìna18, sega19 e §mak (manèrol)20, sulla craz21, assieme alla casèla dei fer22. La cassetta conteneva il resto degli strumenti: manerin di emergenza usabile anche come martello23, trapano a man o ‘menaról’24, trivèle25, fus, fu§et e cazapaia, cugni tuti de bos26, le §mòrse o zóc par serar le spartide (la morsa a ceppi27), fórves 28, fer a do man29, al gobo30, meli e meli da ponta31, scarpei e tenaia32 e l’immancabile nèrt o me§uroto. 15 Un paio di braghe, un paio di mutande, calzini , una camicia, un berrettino di lana. Zaino, zainetto, dal tedesco rucksack. 17 L’attrezzo basilare del lavoro, una morsa a cavalletto con bloccaggio a pedale in cui si serravano i singolo pezzi della sedia per poterli lavorare e rifinire al meglio usando i vari fer a doi man. 18 Uno scagno basso che consentiva al conza di lavorare seduto ad una altezza adatta per la più comoda impagliatura. 19 Si tratta della sega a telaio o sega da falegname, costituita da un telaio in legno a forma di H con due montanti ed una traversa, dove nella parte inferiore viene montata la lama, innestata su due caviglie che permettono di variarne anche l'inclinazione, mentre nella parte superiore si trova una corda che tramite la torsione applicata da un apposito tenditore mette in trazione la lama. Il tenditore è costituito da una stecca di legno detta nottola, che da una parte è infilata all'interno della corda, mentre dall'altra fa scontro sulla traversa (Wikipedia). 20 Una accetta di taglio largo (10-15 cm), manico ligneo abbastanza corto, all’incirca sui 40-50 cm, ben bilanciata, per la fessatura e sgrossatura del legname normalmente utilizzato (in cui è necessaria una certa massa d’inerzia). Il termine dialettale dell’accetta è §mak (maschile, onomatopeico) e l’azione è §macar dó; §macàr significa, di conseguenza, battere, ma anche premere, spingere fino al figurato §macàrghela a un, corrispondente al dialettale veneto fracàrghela, ovvero combinarla bella a qualcuno. L’azione di modellare ad ascia si diceva, preferibilmente, temprar dó. 21 Si tratta di un attrezzo di trasporto che usa la struttura dello schienale di una sedia come supporto per realizzare una portantina. Sul ‘sedile’ di questa sedia rovescia si caricano i pesi ovvero la cassetta degli attrezzi, la valigia o il ‘rusak’ per le piccole cose personali, la paglia e la ‘capra’. La craz, detta anche barcela viene indossata grazie a due corregge ad anello che si infilano e si supportano con le spalle, come per le gerle. 22 Cassetta porta attrezzi di legno. 23 Altro §mac, opzionale. 24 Il girabacchino funzionava a manovella (a ‘becco d’anatra’ o ‘collo d’oca’) e aveva l’impugnatura piatta in modo da poterla appoggiare comodamente allo sterno del petto per spingere sull’asse di lavoro. Poi, con una mano si pilotava la direzione della trivella e con l’altra si generava il movimento di trivellatura. 25 Le trivelle erano punte ferrose a spirale da applicare al mandrino del trapano. Ce n’erano di diverse dimensioni in ragione della tipicità dei fori. 26 Si trattava di punte lignee a forma di goccia allungata su un lato e ridotte a spatola dall’altro. Servivano per penetrare, lisciare e posizionare esattamente la paglia; così pure si utilizzava il cazapaia utile all’inserimento basilare del cordoncino erbaceo oltre gli strati o il fu§èr. Ciascun caregheta realizzava i propri ‘fusi’ in legno di bosso per le eccellenti caratteristiche di questo legno a fibra corta e perciò estremamente robusto e compatto ma anche permeabile tanto da essere azionabile con sicurezza anche da mani sudate. 27 Si tratta di uno tavoletta (tòc da serar) di spessore 5-10 cm con un incastro in cui si posizionavano appaiate e affiancatele gambe delle sedie bloccandole in quella posizione con l’inserzione di cunei (sempre di legno). In questo modo si potevano eseguire i fori verificando direttamente la congruità. Il lavoro si faceva con morsa a terra. 28 La forbice serviva a cimare i fronzoli di paglia sotto il telaio. Qualcuno si portava dietro anche la ginbarda (specie di pialla) e la màza per forzare i pioli nei fori sulle gambe della sedia, anche se l’attrezzo principe era lo §mac. 29 Consistevano in una lama affilata larga circa 25-30 cm, imperniata su sue manici di bosso fissati in modo ortogonale al filo di taglio. Il caregheta, fissato il piolo sulla càora (la béca), sagomava il legno tirando il tagliente verso di se, potendo piallare superfici piane o spigoli. 30 Anche il ‘gobbo’ era un ferro da usare a due mani ma la sua lama era sagomata presentando due o tre semicerchi adatti a finire pioli a forma rotonda o tondeggiante, di diverso diametro. 31 Coltelli (meli da mela, anagramma di lame); quello ‘da punta’ serviva come punteruolo per indicare il centro dei fori e poter puntare le trivelle, e anche per la finitura delle varie asole ricavate dalla lavorazione con fori e scalpello. 32 Non si sa mai per altri usi di pinza. Non era strumento molto usato. 16 214 Questo strumento era una specie di gamba di sedia ma più sottile tutto intarsiato di segni e croci, lucido di esperienza; era un regolo per tutte le possibili misure dei vari tipi di seggiola33. Si chiamava nèrt, nello stesso modo con cui si individuavano padrone e padrona in assoluto (el nèrt e la nerta). Sempre all’esterno, in alto per non rovinarlo, poca lopa 34(poca paglia di pronto uso, il resto si sarebbe trovata sul posto); poi via co l bareghel (il treno) fino a Firenze, spesso nel vagone merci a causa dell’ingombrante corredo. Di li andava a Poggibonsi dove c’era un amico contadino che da tanti anni dava la prima ospitalità con un bel fienile a disposizione dove pigar berne segure (dormire notti sicure); produceva poi un ottimo Chianti del Gallo e olio buono di cui avrebbe fatto provvista, per quanto possibile, sulla via del ritorno a metà maggio, magari un paio di damigiane di nero e una piccola scorta di nettare d’olive. COL DEL VIN Adesso che aveva cambiato aria, l avéa an busk danugio e no na tabina35; era a approdato a Col del vin, stava sicuro meglio e non gli mancavano certo stiz pa l mazarol36. Te l bregal cik e crùcol37 almeno una volta alla settimana, mis de ciurlo e ducet38 ogni di; tapi, bét galeno te la era e scrò§ol al drit39; eitre monce, nao barce in stala40, òido biese e na budi§òla te l stalòt; ed era più facile girar a traghetar la spolverosa en te l tegalbo41 perché Bes era vicina e cusì i ndea tuti a kirik col rabul danugio a farse calumar coi lùster42. Faceva il contadino come prima ma ora si sentiva ricco, con un prato grande e il fieno che bastava per le vacche, con la vigna, il campo per patate e granturco e un pezzo di bosco, altro che grebani e basta! E no l é caròbole, no43! 33 Fino al caregón, sedia più alta, seggiolone con braccioli, adatto a sedersi di fronte al larin appoggiano i piedi sulla pietra del focolare (ad uso e ambito dagli adulti). 34 Anche palùc, palùs. 35 Aveva una bella casa e non più un casolare. 36 Legna per il fuoco. 37 Sulla tavola, carne e pane. 38 Caffè con lo zucchero. 39 Galline, pulcini e gallo in cortile e uova abbondanti. 40 Tre vacche e un bue in stalla. 41 Andare a prendere la farina in bottega. 42 Così andavano tutti a messa, col loro bel cappello a farsi vedere e ammirare con gli occhi. 43 E non sono bugie, no! 215 SCAPELAR Nei primi giorni i gaburi facevano esperienza nei dintorni: gli ultimi anni però Fiori viaggiava solo, magari co na becàna in prést44, e faceva solo sedie complete par pararghe su l pit45. I garzoni non erano più quelli di una volta; ora c’era troppo da §mocolar, da tirar cèpe, che i te fea ogni menuto gnér kiz pa n timpèlo stampà mal, che te dovea farghe da viligón parché i stéa là a menar legne a l capelan!46 Finite le comande locali, si cominciavano a girare gli altri paesi, verso Siena; erano in molti ad aspettare i careghéte, come ogni anno, e per fortuna ‘la giréa al drit’47. In Lipona (Francia) invece la girea al gori, era stata più dura! LA CRAZ (LA SEGGIOLA) C’erano sedie vecchie da impagliare e anche nuove da fare. In questo caso il legno si reperiva in zona e si sgrezzava con l’accetta suddividendolo nei pezzi utili con capacità straordinaria di sprecare pochissimo e andare vicini alla struttura finale, anche nelle forme necessariamente curve. Prima si sceglievano i legni: pi che tut fràsen, ma anca morèr, zarie§èr o càsia48, specie pa i legni curti. Si segavano nelle lunghezze giuste, si squartavano e si realizzavano i pezzi base; quindi si sbozzavano (temprar dó) i supporti posteriori (canuce da iodre, ossia le gambe posteriori leggermente arcuate) e quindi le canùce de antèvia (le gambe davanti); si abbinavano quindi i supporti anteriori posteriori bloccandoli coi cugni nel zóc (la morsa a terra) e rapidamente forandoli nei punti in cui inserire i spèc o scalin, i pioli di collegamento inferiori e il supporto (la stofa?) anteriore. Il tutto si diceva ispegar le prime davanti o ispegar la spartìda davanti . Si preparava quindi la spartida da iodre, quella con lo schienale. Le stecche superiori, concave e piatte si chiamavano stofe e stofin; il pezzo estremo e più alto veniva spesso arricchito con qualche ‘grazia. Una volta completate le spartide, si segnavano col nèrt per sponzigarle de le seconde ovvero raccordarle coi pioli e i supporti sui fianchi. I fori per le stofe si faceva colla medesima punta che apriva buchi tondi da utilizzare singolarmente o da raccordare fino a trasformarli in asole perfette. I fori degli scalin (dei pioli) avevano poi una propria particolare inclinazione in modo che gli incastri portassero i legni leggermente in tensione irrobustendo il manufatto senza la necessità di utilizzare null’altro. Sulla sedia ogni caregheta rispettabile accettava solamente 4 chiodini strategici con funzioni di sicurezza. Con quattro §macade ben assestate e si poteva quindi trarla in pié e vedere se per caso l andéa in zinque (cercava il quinto appoggio, cioè, imperfetta, traballava). Infine si poteva fare la prova di robustezza, caricando con forza una gamba per volta senza che si dovesse avvertire alcun cedimento nella struttura. 44 Magari con una bicicletta presa in prestito. Per alzare il prezzo, ossia per ottenere un prezzo più alto, una resa maggiore. 46 Da ‘smoccolare’ bestemmiare, già che ti facevano arrabbiare ogni minuto per un mestiere fatto male ; che gli dovevi fare da guardia perché restavano a far nulla (letteralmente ‘ a portare legna al cappellano’ per dire ‘a masturbarsi’). 47 Va bene, gira dritto. 48 Frassino, gelso, ciliegio, acacia. 45 216 Si partiva allora a stopinar, ad impagliare. Bisognava bagnare leggermente la paglia palustre per renderla più morbida, elastica, meno pericolosa; i bordi delle sottili foglie erano come lame affilatissime e necessitavano di esemplare perizia per raccoglierle, torcerle e continuamente giuntarle, quasi fossero un filato, per formare il cordino con cui tessere la seduta, molto somigliante ad una ragnatela, ricavata a spicchi rinforzati, con quattro settori triangolari, e che andava ad infittirsi partendo dai bordi per chiudersi al centro sul doppio strato del supporto. Questa era l’impagliatura nostrana tipica e più robusta. A seconda del soldo si potevano però scegliere diversi tipi di paglia e di trama. A volte il cordino si faceva con le brattee di mais (foiòle) che si potevano perfino colorare al naturale proprio come si faceva per le pasquali uova di gallina (rossiccio marrone con le scorze di cipolla, di ogni altro colore con le aniline); si realizzava quindi una trama robusta, a doppio strato, collegando i due pioli laterali; si sollevavano poi parte dei cordoni inferiori sopra la trama superiore bloccandoli con dei bastoncini. Si procedeva quindi col cordone dell’ordito magari in altro materiale e colore per risultati finali stupendi. Per seggiole più raffinate si usava la paglia di Vienna, impagliando a monofilo sedie altrui, autore certo Thonet, che erano entrate in gran moda in età vittoriana, dalla metà dell’Ottocento. Sull’impagliatura gira ancora un aneddoto secondo il quale, negli anni di carestia, i conzacareghe strofinavano le paglie, con lische d'acciuga o renga per indurre el toga (il gatto di casa) a graffiarle rapidamente. Parole, forse, solo fantasie, che riportano alla mente un passato comunque difficile. Fiori mi raccontava che nei suoi migliori momenti e lavorando 16 ore al giorno (fora che l tenp par bàterlo odo e ndar a trarla49) riusciva a scolpire, montare e impagliare ben quattro sedie finite. Tenuto conto della complessità dell’esecuzione erano davvero delle macchine umane. Sul mangiare c’era da divertirsi e no se patia sardina50; la Mabile, ronca51 madre del Fiori, la fea n calàba cusì bon che la tirea le beate al drit52. A le olte la ne scaltrìa na tapi te la calabria53, co cik de gnicro e n struz de §mauz 54, gustamente insaporendola con §burgo e spizigós e qualche erba dell’orto tanto da formare un tòcio squisito, dove pociar (intingere) qualche ala de taf (fetta di polenta), i nonantanof molegadi co minola tosco e chel del tiri55 per finire poi co n tok de s-cek danugio (con un pezzo di buon formaggio). Danugi, ossia belli e buoni, potevano essere poi i §ap, le mele che stavano sulla fruttiera, come pure le tette della Luciana, che arrivava da Tiser con i saluti di Toni, della Marietta e di tutti i parenti A la balina ghe pia§ea inveze stupinà a l drit, beregà e girà a pestà orz e a chirich la ghe mandea so ronca a s-ciocà i rosegòt56. La scalifea stàifel e, co la pincéa i sant, la caluméa pa imbaginarte; co la rivea a te spizà, dó a fride e ti a stampà muci!57 Caluma §aepa che la tira al drit (guarda caro mio come ci va bene!)! 49 Pisciare e cacare. Non si pativa fame. 51 I termini ronc, ronca, hanno diverse interpretazioni; se riferite a persone, sono il vecchio e la vecchia, i generatori, i saggi; se riferito al territorio è il proprio podere, la terra familiare. 52 faceva un baccalà così buono che tirava le budella al piacere 53 Letteralmente ‘cuoceva una gallina nella pignatta’. 54 Con lardo e un poco di burro. 55 I fagioli bagnati con olio toscano e aglio 56 Alla ragazza piaceva invece vestirsi bene, cantare e andare a ballare; in chiesa mandava la sua vecchia a dir su rosari! 57 Fumava forte e quando giocava a carte ti spiava per imbrogliarti; quando arrivava a vincere bleffando (rubarti), giù a ridere e tu a stare muto! 50 217
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