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Se si potesse catturare il piacere, Elena lo
farebbe con gli occhi. Ventinove anni, di una
bellezza innocente ma sfacciata, non sa
ancora cosa sia la passione. Il suo mondo è
fatto di arte e colori, quelli dell’affresco che
sta restaurando a Venezia, la città magica
dove è nata. Fino a quando incontra
Leonardo, uno chef di fama internazionale,
che irrompe nella sua vita travolgendo ogni
cosa: la storia d’amore appena nata con Filippo, l’idea che ha sempre avuto di sé e,
soprattutto, il suo modo di vivere il sesso.
Perché Leonardo, inquilino inatteso nell’elegante palazzo in cui lei lavora, è arrivato per
schiuderle le porte di un paradiso inesplorato di cui solo lui possiede le chiavi. I segreti
della cucina, della materia grezza che nelle
sue mani si trasforma in estasi per il palato,
non sono gli unici che conosce: Leonardo sa
che il piacere è una conquista per tutti i
sensi, ha una forma, un odore, un sapore. E
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guiderà Elena oltre i suoi limiti, fino al confine più dolce ed estremo dell’ossessione. Ma
a una condizione: non dovrà mai innamorarsi di lui. Elena non ha scelta, può solo accettare il suo patto spietato e lasciarsi sedurre da quell’uomo dal passato oscuro, che
sembra sfuggire al suo desiderio di legarlo a
sé…
Irene Cao è nata a Pordenone nel 1979. Ha
studiato Lettere Classiche a Venezia, dove ha
conseguito anche un dottorato in Storia
Antica. Attualmente vive in un piccolo paese
del Friuli. Con questo romanzo inizia la
prima trilogia erotica italiana, che è già in
corso di traduzione in Spagna, Germania e
Brasile.
Irene Cao
Io ti guardo
Proprietà letteraria riservata
© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-64643-4
Prima edizione digitale 2013 da edizione
maggio 2013
In copertina:
Fotografia © Max Ash - www.maxash.com
Fotografia dell’autrice © Al Bruni
Art Director: Francesca Leoneschi
Graphic Designer: Mauro De Toffol /
theWorldof DOT
www.rizzoli.eu
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Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto
d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale,
non autorizzata.
Io ti guardo
A Manuel, mio fratello
1
Il giallo assorbe la luce del sole, vira
all’arancio per poi sfumare in un rosso acceso. Un taglio, quasi una ferita, lascia intravedere piccoli chicchi di un viola lucente. I
miei occhi sono fermi su questo melograno
da ore. È solo un particolare, certo, ma è
anche la chiave dell’affresco.
Il soggetto è il ratto di Proserpina,
un’istantanea del momento in cui il severo
signore degli inferi, un Plutone avvolto nella
nuvola porpora della sua veste, afferra con
forza i fianchi della dea che sta raccogliendo
un enorme melograno sulle rive di un lago.
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L’affresco non è firmato, per cui l’autore
resta circondato da un alone di mistero. So
soltanto che è vissuto all’inizio del Settecento
e che dev’essere stato un autentico genio,
considerando lo stile del disegno, la grana
del colore e il delicato gioco di ombre e
chiaroscuri. Ha studiato ogni singola pennellata e io sto cercando di non tradire il suo
sforzo di raggiungere la perfezione. A distanza di secoli, il mio compito è interpretare
il suo gesto creativo e riprodurlo nel mio.
Questo è il primo vero restauro a cui sto
lavorando completamente da sola. A
ventinove anni la sento come una grossa responsabilità, ma ne sono anche orgogliosa: è
da quando sono uscita dalla Scuola di Restauro che aspettavo la mia occasione, e adesso che è arrivata farò di tutto per non lasciarmela scappare.
Perciò eccomi qui, da ore su questa scala,
nella mia tuta di tela cerata, bandana rossa a
contenere il caschetto bruno – ma qualche
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ciocca ribelle si ostina a sfuggire e a cadermi
sugli occhi – e sguardo fisso sul muro. Per
fortuna non ci sono specchi in giro, perché
senz’altro avrò il volto segnato dalla
stanchezza e le occhiaie. Ma non importa.
Sono
le
tracce
visibili
della
mia
determinazione.
Mi guardo per un momento da fuori: sono
proprio io, Elena Volpe, da sola nell’androne
immenso di un palazzo antico e da tempo
disabitato, nel cuore di Venezia. Ed è esattamente qui che voglio essere.
Ho passato una settimana intera a pulire il
fondo dell’affresco e oggi per la prima volta
userò il colore. Una settimana è tanto, forse
troppo, ma non ho voluto rischiare. Bisogna
procedere con la massima cautela, perché è
sufficiente un singolo tocco sbagliato per
compromettere tutto il lavoro. Come diceva
un mio professore: «Se pulisci bene, sei a
metà dell’opera».
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Alcune parti dell’affresco sono totalmente
rovinate e in quei punti dovrò rassegnarmi a
fare un nuovo intonaco con lo stucco. Colpa
dell’umidità di Venezia, che penetra ogni
cosa, la pietra, il legno, il mattone. Ma intorno alle zone danneggiate ce ne sono altre
in cui i colori hanno conservato tutta la loro
brillantezza.
Stamattina, salendo sulla scala, mi sono
detta: “Non scenderò finché non avrò trovato
i toni giusti per quel melograno”. Ma forse
sono stata un po’ troppo ottimista… Non so
nemmeno quante ore siano passate, e sono
ancora qui a provinare tutta la scala dei
rossi, degli arancio e dei gialli senza un risultato che mi soddisfi. Ho già buttato via
otto coppette di prova, in cui miscelo le
polveri pigmentate con poca acqua e qualche
goccia di olio per dare consistenza al composto. Sto per cimentarmi con la nona coppetta, quando sento uno squillo. Viene
proprio dalla tasca della tuta. Purtroppo. È
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inutile cercare di ignorarlo. Per poco non
cado a terra, afferro il cellulare e leggo il
nome che lampeggia con insistenza sul
display.
È Gaia, la mia migliore amica.
«Ele, come va? Sono in campo Santa Margherita, vieni a berti una cosa al Rosso? Oggi
c’è più gente del solito, è stupendo, dài!» dice
tutto d’un fiato, senza chiedermi se sta disturbando o darmi modo anche solo di
risponderle.
Eccola, è già in piena fase mondana. Gaia
lavora per i locali più di moda in città e nel
Veneto, organizza eventi e feste vip. Inizia
verso le quattro del pomeriggio e va avanti
ininterrottamente fino a tarda notte. Ma per
lei non si tratta solo di un lavoro, è una vera
e propria vocazione: scommetto che lo
farebbe anche se non la pagassero.
«Scusa… che ore sono?» chiedo, cercando
di arginare la sua valanga di parole.
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«Le sei e mezza. Allora, vieni?»
Il Rosso è un locale dove si ritrova la
gioventù veneziana sfaccendata, quel tipo di
persone che ha bisogno di una come Gaia per
decidere cosa fare delle proprie serate.
Oddio, è già così tardi? Il tempo è volato
senza che me ne rendessi conto.
«Oh, Ele… ci sei? Stai bene? Di’ qualcosa,
cavolo…» Gaia urla e la sua voce mi buca i
timpani. «Ti stai proprio rincoglionendo su
quell’affresco… devi venire qui, immediatamente! È un ordine.»
«Dài, Gaia, tra mezz’ora stacco, promesso»
prendo un lungo respiro, «ma vado a casa. Ti
prego, non arrabbiarti.»
«Ma certo che mi arrabbio, stronza che
non sei altro!» sbotta.
Un classico. È il nostro gioco delle parti:
passano due secondi ed è di nuovo serena e
felice. Meno male che per tutti i miei no Gaia
ha la memoria di un pesce rosso.
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«Vabbè, senti, allora vai pure a casa, ti riposi un po’ e sul tardi andiamo al Molocinque. Ti dico solo che abbiamo due ingressi
per il privé…»
«Grazie del pensiero, ma non ci tengo a infilarmi in quella bolgia» mi affretto a dire
prima che vada avanti. Lo sa che non sopporto la ressa, che sono quasi astemia, e che
per me ballare significa, nella più rosea delle
ipotesi, battere un piede tenendo il tempo –
un tempo tutto mio, a dire il vero. Sono timida, non sono fatta per questo genere di divertimento, mi sento sempre fuori posto. Eppure Gaia non demorde: ci prova ogni volta a
trascinarmi in una delle sue serate. E in
fondo, anche se non lo confesserò mai, gliene
sono grata.
«Hai già finito di lavorare?» le chiedo, nel
tentativo di allontanare il discorso da territori potenzialmente pericolosi.
«Sì, e mi è andata da dio, oggi. Ero con
una manager russa. Siamo state tre ore da
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Bottega Veneta a guardare borse e stivaletti
di pelle, poi alla fine l’ho portata da Balbi e lì
la signorona si è decisa a comprare due vasi
di Murano. Tra l’altro da Alberta Ferretti ho
visto un paio di vestiti della nuova collezione
che sembravano fatti apposta per te. Di un
beige che starebbe un amore con il nocciola
dei tuoi capelli… Un giorno di questi ci andiamo, così te li provi.»
Quando non è impegnata a dire alla gente
dove andare la sera, Gaia spiega alla gente
come spendere i propri soldi: in pratica fa la
personal shopper. È quel genere di donna
che ha le idee chiare su tutto e una grande
capacità di convincere gli altri. Così grande
che c’è chi è disposto a pagare pur di farsi
convincere.
Non io, però: ho sviluppato gli anticorpi in
ventitré anni di amicizia. «Certo che ci andiamo, così finisce che li compri per te, come
sempre.»
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«Prima o poi ci riesco a farti vestire decentemente. Con te la mia sfida è ancora
aperta, mia cara, sappilo!»
È da quando eravamo adolescenti che Gaia
porta avanti questa crociata contro il mio
modo, diciamo un po’ trasandato, di vestire.
Per lei girare in jeans e scarpe basse non rappresenta una comoda alternativa, ma una
scelta esplicita e incomprensibile di mortificarsi. Fosse per Gaia dovrei andare al lavoro
tutti i giorni in minigonna e tacco dodici, e
poco importa che io sia costretta a fare mille
volte su e giù da pericolosissime scale da imbianchino oppure che ci rimanga per ore in
posizioni che non definirei proprio confortevoli. «Ce le avessi io le tue gambe…» mi ripete sempre. E poi mi recita ogni volta il
mantra di Coco Chanel: “Bisogna sempre essere eleganti, ogni giorno, perché il destino
potrebbe aspettarvi all’angolo”. E infatti lei
non mette piede fuori casa se non è perfettamente truccata, pettinata e accessoriata.
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A volte è incredibile quanto siamo agli antipodi io e questa donna. Se non fosse la mia
migliore amica, probabilmente non la
sopporterei.
«Però, Ele» torna alla carica, imperterrita,
«stasera al Molo ci devi venire…»
«Dài, Gaia, non te la prendere, ti ho già
detto che non posso!» Quando s’impunta
sulle cose mi fa venire i nervi.
«Ma ci sarà Bob Sinclar!»
«Chi?» le chiedo, mentre sulla fronte mi
lampeggia la scritta FILE NOT FOUND.
Gaia sbuffa, esasperata: «Il dj francese,
quello famoso. Era in giuria alla Mostra del
Cinema la settimana scorsa…».
«Ah, allora!»
«Comunque» prosegue come se niente
possa scalfirla, «so da fonti sicure che ci
saranno diversi personaggi al privé, tra cui,
apri bene le orecchie…» fa una pausa studiata «… Samuel Belotti!»
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«Oddio, il ciclista padovano?» gemo, esasperata, con un tono di disapprovazione
totale. È uno dei tanti mezzi fidanzati
“famosi” che Gaia ha seminato in qualche
angolo d’Italia e del mondo.
«Proprio lui.»
«Io non capisco cosa ci trovi: è un cretino
arrogante, non so proprio dove tu lo veda
figo.» Anche in fatto di uomini Gaia e io non
abbiamo gli stessi gusti.
«Eh, lo so io dov’è figo…» sghignazza.
«Vabbè…» sorvolo. «E lui ci sta?»
«Gli ho scritto un sms. Non mi ha risposto,
sta con la velina adesso» sospira, «ma non
demordo, perché non è che mi abbia proprio
dato un due di picche… credo stia solo
temporeggiando.»
«Non so come fai a conoscere certa gente,
e forse non voglio nemmeno saperlo.»
«Lavoro, cara mia, solo lavoro» dice, e
posso immaginarmi benissimo il sorrisetto
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malizioso che in questo momento avrà stampato in faccia. «Le pubbliche relazioni, si sa,
richiedono molto impegno…»
«Le parole “lavoro” e “impegno” dette da
te suonano vuote, prive di significato» la
provoco nascondendo un pizzico d’invidia. In
questo vorrei assomigliarle almeno un po’, lo
ammetto. Io sono tutta rigore e senso di responsabilità. Lei leggerezza e sfrontata
incoscienza.
«Tu non mi apprezzi, Ele. Sei la mia
migliore amica e non mi apprezzi!» ride.
«Vabbè, vai al Molo e divertiti. Anzi, attenta a non stancarti troppo, cara!»
«Certo che mi dici sempre di no… ma
tanto io me ne frego e continuo a martellarti,
lo sai. Non mi arrendo, tesoro…»
Certo che lo so. Questo teatrino è il nostro
modo di dirci che ci vogliamo bene.
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«È che adesso sono davvero in un brutto
momento: non posso fare le tre, sennò domattina non mi alzo.»
«Ok, stavolta ti lascio vincere.»
Finalmente…
«Questo weekend, però, promettimi che ci
vediamo!» conclude, arrivando al punto.
«Giuro. Da sabato sono tutta tua.»
Anche la nona coppetta di rosso Tiziano è
da buttare: ho avvicinato una punta di colore
alla buccia del melograno e ancora non ci
siamo. Mi rassegno a ricominciare da capo,
ma un rumore alle mie spalle mi distrae. Qualcuno è entrato dal portone principale e sta
salendo la scalinata di marmo: sono passi
maschili, non c’è dubbio, per un attimo
avevo temuto un’improvvisata di Gaia. Mi affretto a scendere dalla scala, facendo attenzione a non inciampare nelle coppette che ho
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lasciato cadere alla rinfusa sul telo di
protezione.
La porta dell’androne si apre e sulla soglia
compare la figura asciutta di Jacopo Brandolini, il proprietario del palazzo, nonché
mio committente.
«Buonasera» lo saluto con un sorriso di
circostanza.
«Buonasera, Elena» ricambia il mio sorriso, «come procede il lavoro?» Abbassa lo
sguardo sul cimitero di coppette steso ai nostri piedi mentre si annoda all’altezza del
petto le maniche del pullover – certamente
di cachemire – appoggiato sulle spalle.
«Molto bene» mento, e mi meraviglio
della mia disinvoltura, ma non ho voglia di
spiegargli dettagli che comunque non capirebbe. Però devo aggiungere qualcosa per
darmi un tono professionale: «Ho finito la
pulitura proprio ieri e da oggi posso dedicarmi al colore».
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«Ottimo. Confido in lei, è tutto nelle sue
mani» dice spostando lo sguardo dal pavimento a me. Ha gli occhi piccoli e azzurri,
due fessure di ghiaccio. «Come sa, ci tengo
molto a quest’affresco. Voglio che venga
fuori al meglio. Anche se non è firmato, si
vede che è di buona fattura.»
Annuisco. «Chi l’ha dipinto era di sicuro
un grande maestro» mi affretto a dire.
Brandolini sorride rivelando una punta di
soddisfazione. Ha quarant’anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Porta un cognome
antico – è il rampollo di una delle più note
famiglie nobili veneziane – e anche lui dà
l’idea di essere un po’ antico. È magrissimo,
la pelle diafana, il viso scavato e nervoso, i
capelli biondo cenere. E poi si veste da vecchio. O meglio, su di lui i vestiti fanno un effetto strano, un po’ rétro: per esempio, adesso indossa un paio di Levi’s e una camicia a
mezze maniche azzurrina. Ma sembra quasi
ci navighi dentro, esile com’è. E l’insieme ha
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un qualcosa di anziano che non so spiegare
bene. Eppure si dice che il conte con le
donne riscuota un discreto successo. È molto
ricco, non riesco a darmi altre spiegazioni.
«Come si sta trovando qui?» domanda,
guardandosi attorno a verificare che tutto sia
al posto giusto.
«Benissimo!» e mi sciolgo la bandana sulla
nuca, perché mi rendo conto di essere
proprio impresentabile così.
«Per qualsiasi cosa chieda pure a Franco.
Se le serve del materiale può mandare lui a
prenderlo.»
Franco è il custode del palazzo. È un
omino tarchiato e molto simpatico, ma anche
discreto e silenzioso. In dieci giorni di lavoro,
mi è capitato di incrociarlo solo due volte,
nel giardino della corte interna mentre innaffiava l’agapanthus, e davanti al portone
d’ingresso intento a lucidare la maniglia di
ottone. Non entra mai, sta sempre fuori e poi
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intorno alle due del pomeriggio se ne va. È
una presenza rassicurante.
«Me la cavo benissimo da sola, grazie.» Mi
accorgo troppo tardi che la mia risposta
suona un po’ brusca, e mi mordo la lingua.
Brandolini alza le braccia, arreso.
«Comunque» si schiarisce la voce, «sono
passato per comunicarle che da domani ci
sarà un inquilino nel palazzo.»
«Un inquilino?»
No. Questo non è proprio possibile. Non
sono abituata a lavorare con gente che mi
gira intorno creando confusione.
«Si chiama Leonardo Ferrante, è un
famoso chef di origini siciliane» mi spiega
lui, compiaciuto. «Arriverà direttamente da
New York per l’apertura del nostro nuovo
ristorante a San Polo. Come saprà, inauguriamo fra tre settimane.»
Insieme al padre, il conte gestisce altri due
ristoranti a Venezia, uno dietro Piazza San
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Marco e uno, più piccolo, a ridosso del ponte
di Rialto. I Brandolini ne hanno un altro a
Los Angeles, oltre a due club privati, un caffè
e un residence. L’anno scorso hanno aperto
anche ad Abu Dhabi e a Istanbul. Insomma,
non è raro trovare le loro foto sulle riviste
patinate o di gossip che piacciono tanto a
Gaia.
A me di questa mondanità non importa
nulla. Ma, soprattutto, un elemento di disturbo è l’ultima cosa di cui ho bisogno.
«Abbiamo fatto i salti mortali per avere
tutto in tempi rapidi e, come ben sa, la logistica veneziana di certo non aiuta» continua
lui, senza notare il mio disappunto, «ma,
vede, quando si desidera molto una cosa, gli
sforzi non pesano più di tanto.»
Anche le lezioni di vita, adesso. Annuisco
meccanicamente con aria di approvazione.
L’idea di dover lavorare con uno sconosciuto
che gira nel palazzo mi irrita non poco. Come
fa Brandolini a non capire che il mio è un
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lavoro delicato? Che basta un nonnulla per
farmi perdere la concentrazione?
«Vedrà, si troverà benissimo con
Leonardo, è una persona molto piacevole.»
«Non lo metto in dubbio, il punto è che
questo androne…»
Non mi lascia il tempo di finire. «Vede,
non potevo certo farlo vivere in una fredda
stanza d’albergo» continua Brandolini con la
sicurezza di chi non deve chiedere il permesso a nessuno. «Leonardo è uno spirito
libero e qui si sentirà a casa, potrà cucinare
quando vorrà, fare colazione di notte e pranzare di pomeriggio, leggere un libro in
giardino e godersi il Canale dalla terrazza.»
Stavo per fargli notare che l’androne dove
lavoro dà accesso a tutte le altre stanze del
palazzo, non ci sono disimpegni, e che quindi
questo tizio dovrà per forza passare di qua, e
chissà quante volte al giorno. Ma lo sa anche
lui, solo che, evidentemente, ha deciso di
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fregarsene. Dio, sto per avere una crisi di
nervi.
«Quanto dovrà rimanere qui, questo
chef?» chiedo nella speranza di ricevere una
risposta incoraggiante.
«Almeno due mesi.»
«Due mesi?!» gli faccio eco senza più preoccuparmi di nascondere il fastidio.
«Sì, due mesi, ma forse anche di più, almeno fino a quando il ristorante non sarà
completamente avviato.» Il conte si sistema
di nuovo il pullover sulle spalle, poi mi
guarda negli occhi, risoluto. «Mi auguro che
non sia un problema per lei.» Come a dire
“se lo faccia andare bene”.
«Be’, se non c’è altra soluzione…» Che invece è il mio modo per dire: “non mi va bene
per niente ma ci devo stare”.
«D’accordo, allora non mi resta che augurarle buon lavoro» conclude tendendomi la
mano sottile. «Arrivederci, Elena.»
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«Arrivederci, signor conte.»
«Mi chiami Jacopo, la prego.»
Sta cercando di indorare la pillola accorciando le distanze? Gli concedo un sorriso
forzato: «Arrivederci, Jacopo».
Appena Brandolini è fuori, vado a sedermi
sul divano di velluto rosso addossato a una
parete. Sono nervosa, insofferente: ormai ho
perso l’ispirazione. Non voglio sapere niente
del suo ristorante, del suo chef blasonato,
non me ne frega nulla di questa inaugurazione da mille e una notte. Voglio solo lavorare in pace, da sola, in silenzio. È
chiedere troppo? Mi prendo la testa tra le
mani e guardo le coppette piene di tempera
secca che sembrano stare lì a rinfacciarmi il
mio fallimento. Con grande sforzo decido di
ignorarle. Al diavolo anche l’affresco! Sono le
sette e mezza e la mia concentrazione è andata a farsi benedire. Basta. Sono stanca.
Vado a casa.
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Esco in strada e mi lascio avvolgere
dall’aria umida e dolciastra di ottobre.
Adesso comincia a sentirsi il fresco della
sera. Il sole è quasi completamente calato
sulla Laguna e si stanno accendendo i
lampioni.
Percorro le calli a passo veloce, con i pensieri che ancora faticano a liberarsi. Sembra
siano rimasti intrappolati in quell’androne
polveroso e temo che rimarranno lì per un
bel po’, considerata la mia attitudine a rimuginare sulle cose. Me lo rinfacciano spesso,
sia Gaia sia mia madre: dicono che quando
mi gira in testa qualcosa mi assento, sono
distratta, tra le nuvole. È vero, mi perdo
volentieri dietro ai miei pensieri, li assecondo quando mi portano lontano… ma è
solo una piccola evasione dal presente, un
vizio tutto mio al quale non ho intenzione di
rinunciare. Per questo adoro camminare da
sola per la città: lascio che siano i piedi a guidarmi e la mente è finalmente libera, senza
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che nessuno reclami di essere al centro della
mia attenzione.
Una piccola vibrazione con squillo mi riporta improvvisamente alla realtà. Sul display dell’iPhone, un sms da leggere.
Bibi, vieni al cinema?
Stasera al Giorgione danno l’ultimo di
Sorrentino.
Bacio.
Filippo. Ecco qualcuno con cui ho voglia di
passare la serata, anche dopo una giornata
come questa. Ma non credo di avere energie
sufficienti per trascinarmi fino al Giorgione.
Sono davvero esausta e non mi attira l’idea di
rinchiudermi per due ore in una sala. Ho
bisogno di stravaccarmi su un divano.
Rilancio:
E se cenassimo a casa mia e poi ci
vediamo un film?
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Sono sfinita, non credo che mi godrei
Sorrentino…
Replica immediata.
Ok. A dopo da te ;-)
Conosco Filippo dai tempi dell’università.
Ci siamo incontrati al corso di Architettura
degli interni, io ancora matricola, lui già al
terzo anno. Un giorno mi ha proposto di studiare insieme e io ho accettato. Mi sembrava
qualcuno di cui potersi fidare, sentivo, in un
modo ancora misterioso, che tra noi c’era
una qualche affinità. Non avevo una ragione
particolare, semplicemente lo sapevo.
Siamo diventati subito amici. Andavamo
alle mostre insieme, al cinema, a teatro. Oppure passavamo intere serate a chiacchierare. È da allora che Filippo mi chiama “Bibi”.
Mi ripeteva sempre che assomigliavo alla
Bibi di un fumetto giapponese, un personaggio un po’ goffo e con la tendenza a
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rimuginare su tutto, perdendosi in fantasie
contorte e senza senso.
Dopo l’università, non ricordo nemmeno
perché, ci siamo persi un po’ di vista. L’anno
scorso ho saputo tramite Gaia che aveva
cominciato a lavorare per Carlo Zonta, uno
dei più noti architetti italiani, e che si era
trasferito a Roma.
Poi, un mese fa, come fosse passato solo
un giorno da quegli anni che a me ormai
sembrano lontanissimi, si è rifatto vivo con
una mail: “Sono di nuovo a Venezia. Quanto
tempo è che non andiamo al Museo Correr?”.
Un invito che mi ha colto così alla sprovvista
da farmi realizzare tutt’a un tratto quanto
Filippo mi fosse mancato. Ho accettato al
volo.
Era la prima volta che ci rivedevamo dopo
tanto tempo, eppure sembrava che niente
fosse cambiato. Abbiamo passeggiato per le
sale del museo con calma, soffermandoci
davanti alle nostre opere preferite – io mi
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ricordavo ancora le sue e lui le mie – e raccontandoci le nostre vite dal punto in cui le
avevamo lasciate.
Dopo ci siamo incontrati ancora, una volta
a cena e un’altra al cinema. Ci siamo anche
detti che sarebbe stato bello fare una rimpatriata con i compagni d’università, ma poi,
chissà perché, non abbiamo nemmeno
provato a organizzarla.
Manca poco alle nove e il suono del citofono mi fa sgusciare fuori dal bagno, un filo
di trucco sugli occhi e i capelli raccolti in una
coda corta che definire approssimativa
sarebbe senz’altro generoso. Mi obbligo a
non pensare all’espressione che farebbe Gaia
vedendomi conciata così. Apro la porta in
jeans, canotta bianca e infradito, e mentre lo
aspetto mi tuffo in una felpa oversize. È il
mio look casalingo, ma sono certa che Filippo non si scandalizzerà…
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Sale le scale di corsa, con due cartoni di
pizza tra le mani. Quando arriva, lo accoglie
la voce dolce e calda dell’ultimo cd di Norah
Jones.
«Dài, veloce che si freddano!» dice entrando. Butta a terra la sua tracolla, mi sfiora
la guancia con un bacio e si scaraventa come
un missile in cucina.
«Fame?» Lo seguo a ruota e faccio spazio
sul tavolo.
«Sto morendo!»
Ha già aperto un cassetto – indovinando al
volo quello giusto, anche se sono anni che
non mette piede nel mio appartamento – e
ha trovato la rotella per tagliare le pizze. Si
occupa prima della mia.
Lo guardo. Il suo viso ha qualcosa di
aperto e luminoso, quasi rassicurante: forse
anche per questo ai tempi dell’università ci
siamo scelti come amici. Occhi grandi e profondi, dal taglio allungato: sembrerebbe
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asiatico se non fossero verde chiaro e se sulla
testa non avesse quel cespo di capelli biondi
e arruffati.
«Verdure senza peperoni, come piace a te»
mi dice porgendomi la pizza tagliata a
spicchi.
Giusto, si ricorda anche questo. Annuisco
soddisfatta e lui mi fissa con quei suoi occhi
che sono quasi un’anomalia e che catturano
per forza lo sguardo. Stiamo per un secondo
così, come imbambolati, poi Filippo torna a
concentrarsi sulla pizza e io mi metto a cercare i bicchieri, tanto per fare qualcosa.
È un attimo soltanto, ma entrambi ci
siamo accorti che nell’aria c’è una strana
elettricità.
«Stasera sono vegetariano anch’io, così ti
senti meno sola» scherza aprendo il secondo
cartone. Sorride, scoprendo i denti bianchi e
regolari. Un’altra cosa che mi piace di lui.
Come la fossetta sulla guancia destra.
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«Però, Bibi, te lo posso dire che la pizzeria
sotto casa tua fa schifo?»
«Sì, certo» rispondo addentando il primo
morso, «ma tanto continuerò ad andarci lo
stesso… è l’unico modo rapido e indolore che
ho per nutrirmi.»
«Non sarà arrivato il momento che impari
a cucinare?»
Faccio finta di rifletterci su un paio di
secondi prima di rispondere.
«No.»
Prende un’oliva dalla sua pizza e me la tira
addosso.
Finito di mangiare, mentre preparo il mio
infuso alla melissa, Filippo passa in rassegna
i dvd sistemati alla rinfusa sull’ultimo scaffale della libreria.
«E questo?» si mette a ridere. «Da dove
salta fuori?» dice agitando in aria la custodia
di Shall We Dance?.
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«Oddio, deve averlo lasciato qui Gaia,
parecchio tempo fa!» Mi nascondo il viso con
un braccio.
Mi guarda comprensivo: «Non c’è problema, per me… Puoi dirmelo se adesso ti piace questa roba, non devi vergognarti: ammetterlo è il primo passo per uscirne. A un
amico puoi parlarne… posso aiutarti, se
vuoi».
«Scemo.»
Il cinema è una delle passioni che ho
sempre condiviso con Filippo. Spesso ci ritrovavamo a certi cineforum universitari, noi
due da soli in sala a guardare fino ai titoli di
coda film sconosciuti di ignoti registi di una
qualche soporifera e altrettanto dimenticata
avanguardia russa, mentre tutti i nostri compagni ci avevano già abbandonati da un
pezzo per andare a bersi qualcosa in campo.
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Filippo continua a scorrere i titoli dei dvd
e tira fuori Una giornata particolare di Ettore Scola.
«L’avrò già visto almeno quattro volte, ma
mi va ancora. A te?»
«Sarebbe la terza, quindi ci sto.»
Filippo si lancia sul divano. Armeggia con
il telecomando, borbottando qualcosa sulle
nuove tecnologie. È buffo, mi fa sorridere. Lo
raggiungo con due tazzone fumanti tra le
mani. Le metto sul tavolino, lancio in un angolo le infradito, bevo un sorso della tisana
dimenticando che scotta e mi brucio la lingua… poi mi lascio cadere anch’io sul divano,
accanto a lui.
Sullo schermo al plasma cominciano a
scorrere i titoli di testa, mentre sento il
ginocchio di Filippo appoggiarsi al mio. Quel
contatto mi mette inaspettatamente a disagio, è come se mi rendessi conto solo adesso
di quanto siamo vicini. Mi sistemo sul
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divano, allontanandomi di qualche centimetro. Lui non sembra accorgersi di niente,
forse è solo una mia paranoia…
Il film va avanti dolce e amaro come lo ricordavamo. Lo seguiamo in religioso silenzio
sorseggiando la tisana, che nel frattempo ha
raggiunto temperature umane, e a volte
mandiamo indietro per rivedere le scene più
memorabili. Adesso Mastroianni e la Loren
mimano alcuni passi di danza seguendo dei
motivi sul pavimento.
Con la coda dell’occhio vedo che Filippo
mi sta osservando. Ma ho sentito il suo
sguardo addosso da quando abbiamo iniziato
il film. Caldo e avvolgente. Mi giro verso di
lui e lo fisso: «Che c’è?».
Sorride, come còlto in flagrante. «Stavo
pensando che in questi anni non sei cambiata per niente.» Non smette di fissarmi.
All’improvviso mi sento un po’ imbarazzata.
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«E io che speravo di migliorare col
tempo…» cerco di sdrammatizzare.
«Be’, l’unico difetto che avevi l’hai eliminato, per fortuna.»
Gli rivolgo un’occhiata interrogativa.
«Valerio, il tuo ex.»
Gli do un pugno sul braccio fingendo di essere offesa. Con Valerio mi ero messa al penultimo anno di università: Filippo non lo
sopportava e non faceva niente per nasconderlo. “Troppo superficiale e immaturo per
te”, me l’avrà ripetuto mille volte, fino
all’esasperazione.
«Ci ho messo un po’ a capirlo, ma alla fine
avevi ragione tu» ammetto.
«Da quanto tempo vi siete lasciati?»
«Un anno e mezzo.»
«E non c’è nessuno, adesso?»
Dritto all’obiettivo. Non me l’aspettavo.
«No.»
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Chissà perché il silenzio che segue mi sembra opprimente. Vorrei avere una battuta
pronta per smorzare questa tensione palpabile, ma non la trovo. Non so che cosa abbia
in mente Filippo, ma so che io non ci avevo
mai pensato. Almeno fino a ora. Sono troppo
felice di averlo ritrovato come amico e non
ho considerato affatto l’idea che possa esserci dell’altro. Ma a un tratto il mio castello
di certezze sembra sul punto di crollare.
«Questa è la mia scena preferita» dice Filippo voltandosi di nuovo verso lo schermo.
Mastroianni e la Loren sono saliti in terrazza
e stanno ripiegando le lenzuola stese ad asciugare. Forse ha capito il mio imbarazzo e
mi è venuto in soccorso. È da lui una cosa del
genere.
Tiro un piccolo, silenzioso sospiro di sollievo. Cerco di distrarmi, magari sono solo
mie fantasie e lui non si è messo in testa
proprio niente. Mi concentro sul film e a
poco a poco mi rilasso davvero.
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Fuori ha incominciato a piovere ed è come
se le gocce che cadono sul lucernario sfiorassero leggere anche il mio cuore. È una
sensazione piacevole, e io ho una voglia irresistibile di abbandonarmi…
All’improvviso, come se stessi riemergendo da un coma profondissimo, sento una
voce delicata che mi sussurra: «Bibi, io
vado».
Apro gli occhi e vedo Filippo in piedi,
chino sopra di me. I titoli di coda scorrono
sullo schermo. Faccio per alzarmi.
«Ma perché non mi hai svegliata?»
«Shhh, resta lì.» Mi sistema dolcemente
un plaid sulle spalle. «Ti rubo l’ombrello
rotto.»
«Puoi anche prendere quello buono.»
«Non preoccuparti… non vado lontano.»
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Mi accarezza la guancia con una tenerezza
che non gli ho mai visto e mi sfiora la fronte
con un bacio.
«Ciao, Bibi.»
2
Stamattina ho deciso di prendermi una
pausa dall’affresco. Ho una sfilza di
noiosissime
faccende
domestiche
da
sbrigare. Diciamo che non sono esattamente
la massaia perfetta. Dal cesto portabiancheria trabocca una montagna di vestiti appallottolati e mi rassegno a fare un paio di lavatrici. Poi passo in tintoria a ritirare un
vestitino lasciato lì dall’estate e mi avventuro
al supermercato per la spesa a modo mio: in
sostanza, faccio il pieno di cibi pronti e
surgelati, da sempre la mia specialità. Una
volta a casa mi lascio tentare per un attimo
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dall’idea di mettere un po’ di ordine in giro,
ma la voglia mi passa subito: meglio lavorare, piuttosto. Così prendo le chiavi ed esco.
Sulla strada per il palazzo passo da Nobili,
ho bisogno di mezzo etto di polvere blu oltremare, nel caso non basti quella che ho. Il
colore preferisco prenderlo da sola e verificare con i miei occhi che sia quello giusto. Se
mandassi Franco, come suggerisce Brandolini, tornerebbe indietro ogni volta con la
tinta sbagliata.
Alle due del pomeriggio la calle su cui si
apre l’ingresso del palazzo è deserta. Il
vantaggio di lavorare come freelance in un
edificio di cui praticamente io sola ho le
chiavi – ecco, almeno fino a ieri… – è che se
sono indietro sulla tabella di marcia posso
lavorare anche di sabato, quando c’è meno
gente in giro: non ci sono studenti, e i turisti
si concentrano tutti a San Marco e a Rialto,
abbastanza lontano da qui.
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Inserisco la chiave lunga nella serratura
del portone, la ruoto una volta a sinistra e
due volte a destra e sento che gira a vuoto. Il
portone è aperto e l’allarme non è attivo.
Meglio così, perché in un’occasione è scattato per sbaglio e quella è stata l’unica volta
che sono dovuta ricorrere a Franco. Probabilmente c’è proprio lui dentro. Salgo la
scalinata in marmo e sospingo la porta di
servizio, che si apre sul palcoscenico
dell’androne.
Ecco, il momento tanto temuto purtroppo
è arrivato.
Davanti a me si staglia una schiena massiccia, avvolta in una camicia rossa. È lui.
L’inquilino. Non mi aspettavo fosse già qui.
Sta osservando la parete affrescata e sembra
quasi stregato. Immobile. Enorme. Ai suoi
piedi, un borsone da viaggio che ha tutta
l’aria di essere stato sbattuto in più di un
aeroporto da cui spunta il lembo di una giacca di jeans.
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Fingo un leggero colpo di tosse per segnalare la mia presenza, lui si volta e m’investe con uno sguardo così intenso che ho
quasi voglia di arretrare. I suoi occhi sono di
un nero impenetrabile, eppure, dietro le folte
sopracciglia, emanano una luce che, non so
come, mi lascia senza fiato.
«Salve, sono Elena» dico recuperando un
po’ di sicurezza e lanciando un’occhiata
all’affresco. «La restauratrice.»
«Ciao» mi sorride, «Leonardo, piacere.»
Mi stringe la mano e sento la sua pelle ruvida
sulla mia. Deve essere stato il lavoro a
rendere così vissute le sue mani. «Jacopo mi
ha parlato molto di te.»
Occhiaie, labbra carnose, naso pronunciato, barba incolta e a tratti rossiccia, capelli
scuri che non vedono le forbici da un po’:
sembra uscito da un quadro di Goya. Avrà
poco meno di quarant’anni, ma la sua
presenza è solida e necessaria come quella di
un albero secolare.
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«È un dipinto di una sensualità unica»
dice, voltandosi di nuovo verso la parete, e la
sua voce rivela una lieve inflessione sicula.
Ne approfitto per studiarlo nel dettaglio: indossa un paio di pantaloni neri di lino, come
la camicia abbottonata a metà, sotto la quale
s’intuisce una muscolatura possente. Sul
petto abbronzato si intravede un ciuffo di
peli scuri. Ai piedi porta un paio di sneakers
sdrucite in più punti. Sembra racchiudere
un’energia misteriosa e selvaggia, sul punto
di esplodergli sotto i vestiti.
«Tecnicamente si tratta di uno stupro»
preciso. Quando non sono a mio agio e voglio
mantenere le distanze tendo a comportarmi
da maestrina, è più forte di me. Lui mi
guarda e io abbasso gli occhi. Una fiammata
d’imbarazzo mi incendia il viso. «Raffigura
una scena della mitologia classica, il ratto di
Proserpina» aggiungo in tono un po’ meno
arrogante.
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Annuisce, ancora assorto nella contemplazione dell’affresco. «Plutone rapisce
Proserpina e la porta nell’Ade. Prima di riaccompagnarla sulla terra, dove rimarrà per sei
mesi, le fa mangiare nove chicchi di melograno. È un mito legato al tempo e alle
stagioni.»
Uno a zero per il cuoco siciliano che conosce i miti classici: mi ha messa a tacere e me
lo sono meritata.
Leonardo si guarda intorno con aria ammirata e fa un lungo sospiro. Noto che al
lobo destro ha un piccolo orecchino d’argento. «Certo che questo palazzo è davvero
stupendo, è una fortuna essere qui, no?»
Lo è stata fino a oggi, prima del tuo arrivo,
penso, ma non troverei mai il coraggio di
dirlo.
«È tutto a posto, amico mio, possiamo andare» ci interrompe Jacopo. È sbucato
all’improvviso dal corridoio a sinistra
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dell’androne e, appena si accorge della mia
presenza, si affretta a salutarmi: «Salve,
Elena».
«Buongiorno, conte… ehm… Jacopo.» Ho
ancora qualche difficoltà a chiamarlo con il
suo nome.
«Vedo che vi siete già presentati.»
«Sì» dice Leonardo. «Elena è molto gentile, mi stava spiegando il suo lavoro» mente
per me – sono stata tutt’altro che gentile – e
cerca la mia complicità con uno sguardo che
però non ricambio.
Brandolini sorride compiaciuto. «Vieni,
Leo» lo prende per un braccio, «ti mostro le
tue stanze. Ieri Olga è venuta a sistemare
tutto.»
Leonardo afferra il borsone da terra, se lo
mette in spalla e fa per seguire il conte.
Una preoccupazione mi assale al pensiero
della donna delle pulizie. «Jacopo, mi
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scusi…» la voce mi esce più stridula di
quanto vorrei.
«Sì?» Il conte si volta insieme a Leonardo.
«Niente, volevo solo chiederle una
cortesia.» Mi assesto su frequenze più cordiali. «Se può, dica a Olga di non pulire l’androne, la polvere potrebbe compromettere il
restauro.»
«Certo, non si preoccupi» mi rassicura lui.
«Era già stata avvertita.»
Sento di nuovo gli occhi di Leonardo puntati su di me. Cerco di ignorarli ma è impossibile, sembrano calamite.
«Grazie» rispondo e mi volto per sfuggire
al loro magnetismo. I due mi salutano e se ne
vanno.
Tiro un respiro profondo per scrollarmi di
dosso quella strana sensazione di turbamento – ma non serve a molto – e mi metto
subito all’opera: voglio provare il blu che ho
comprato poco fa. Raggiungo il rubinetto
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della cucina e riempio a metà la mia caraffa
con filtro anti-impurità. Il calcare di Venezia
è letale, nuoce gravemente alla resa del
colore. Questo l’ho imparato da sola,
purtroppo sul campo, ed è una scoperta di
cui vado molto orgogliosa.
Sento le voci e i movimenti dei due intrusi
dall’ala destra del palazzo. Mi ci dovrò abituare, e non so ancora come. Spero che questo
Leonardo sia un tipo discreto. Mi auguro che
rimanga tutto il giorno al ristorante e che per
il resto se ne stia buono nella sua stanza.
Non lo voglio tra i piedi, la sua presenza mi
mette a disagio.
M’inginocchio a terra sul telo di protezione
e inizio a miscelare tre coppette con quantità
diverse di pigmento bianco e di blu. Il colore
della veste di Proserpina non è troppo problematico, a differenza del melograno. Alla
terza coppetta mi pare già di esserci vicina. È
una prova, più che altro per assecondare le
mie smanie incontrollate di perfezionismo e
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per testare che il pigmento sia effettivamente
di buona qualità.
«Cara Elena, io vado.» Brandolini ricompare nell’androne poco dopo. È solo. «La lascio in buona compagnia. Vedrà, con Leo si
troverà benissimo.» È la seconda volta che
me lo ripete e non so perché mi pare di cattivo auspicio. Fa scorrere l’indice sulla
maniglia della porta di servizio, come per
sollevare un velo di polvere che non c’è.
«Buon lavoro. Arrivederci.»
«Arrivederci, signor conte… volevo dire,
Jacopo.»
Sono quasi le sei e Leonardo non si è
ancora fatto vedere. Per un po’ ho sentito
della musica classica provenire dal piano di
sopra, ma poi ha smesso. Penso sia rimasto a
dormire tutto il pomeriggio: arrivando da
New York, dovrà smaltire il jet lag. A ogni
modo, se resta nel suo covo e non esce più, a
me fa soltanto piacere.
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Entro in bagno per darmi una sistemata.
Levo la T-shirt da lavoro e i jeans e indosso
un paio di pantaloni puliti e una camicia di
cotone che mi sono portata in una borsa da
palestra. Questa è la mia idea di eleganza,
checché ne dica Gaia.
Stasera vado dai miei, una cena in famiglia
per festeggiare il congedo di mio padre dalla
Marina Militare, in attesa dell’annuncio ufficiale. Dopo quarantacinque anni di onorata
carriera, il tenente Lorenzo Volpe si ritira a
vita privata. Ironia della sorte, sono figlia di
un ex marinaio e so nuotare a malapena.
Colpa di mia madre, forse, che nelle estati al
Lido, appena mi vedeva allontanarmi troppo
dalla riva, si faceva assalire dalla paura che
non tornassi più indietro. Sono sicura di
avere ereditato da lei il mio carattere ansioso
e, devo ammetterlo, un po’ paranoico.
Mentre da mio padre ho preso la testardaggine senza limiti e la dedizione assoluta al
lavoro.
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So già che, quando varcherò la soglia di
casa, mamma mi verrà incontro dicendomi
che sono troppo magra, troppo stanca,
troppo trascurata, nonostante i miei penosi
tentativi di nascondere lo stress a colpi di
fard e rossetto. Papà invece mi osserverà in
silenzio per tutta la sera e, al momento di andare via, mi accompagnerà alla porta, impettito e con le mani dietro la schiena: «Tutto
bene?» mi chiederà prima di lasciarmi uscire. «Se hai bisogno di qualcosa, guarda che
noi siamo qui. Per te.» Io gli dirò di non preoccuparsi e gli darò un bacio sulla guancia,
come al solito, e tornerò a casa serena e in
pace con me stessa, come mi succede solo
quando sto con loro.
È tanto che non li vedo e ho proprio voglia
di farmi coccolare.
Sfrego le labbra davanti allo specchio per
amalgamare meglio il rossetto che ho steso
frettolosamente, risistemo tutto nel borsone
e sono pronta. Prima di uscire do un’occhiata
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furtiva alle scale. Leonardo sembrerebbe
ancora barricato nelle sue stanze, non so se
accennare un “arrivederci”. Forse non è il
caso.
Decido che non lo è.
Esco dal portone di legno massiccio stando
bene attenta a non fare rumore e una volta in
strada mi giro istintivamente a guardare il
palazzo. Al piano nobile la luce è accesa. Mi
fa uno strano effetto pensare che da oggi non
sarò più sola con il mio affresco.
È il tardo pomeriggio di un’uggiosa ma insolitamente calda domenica veneziana. Con
Gaia ci siamo date appuntamento al Muro a
Rialto per l’aperitivo. Poco fa, al telefono, mi
ha seriamente minacciata: «Se non vieni
vestita da donna giuro che ti faccio cacciare
dal buttafuori!». Di solito ignoro i suoi consigli, ma ogni tanto mi piace darle soddisfazione. Ora: di indossare un mostruoso
tacco dodici non se ne parla nemmeno,
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quindi ho optato per un sandalo in raso
verde, tacco otto. E poi miniabito in seta
senza spalline con blazer nero. Un gesto di
grande coraggio, per me: più femminile di
così non riesco nemmeno a immaginarmi
(ecco, forse potevo osare un po’ di più con il
caschetto da collegiale…). So già che me ne
pentirò, comunque, perché a Venezia di sera
ci si muove a piedi tra ponti e sanpietrini, i
taxi costano uno sproposito e i vaporetti funzionano a rilento. Gaia dovrà riconoscermi il
sacrificio.
Al Muro c’è già il pienone, sono tutti stipati tra il bancone e le vetrate affacciate sul
campo. L’idea di infilarmi in quel carnaio
non mi esalta, ma devo farlo, almeno per
dare un senso allo sforzo inumano di aver
sopportato i tacchi fino a qui. Sgomitando riesco ad aprirmi un varco in mezzo alla folla
davanti all’ingresso e, con due falcate da top
model a fine carriera, sono dentro il locale
sana e salva. Il caos regna sovrano – la
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colonna sonora non è proprio delle più delicate – e l’ebbrezza è già ai livelli di guardia
nonostante siano appena le sette. Essendo
praticamente astemia, non riesco mai a integrarmi del tutto nelle situazioni di puro piacere alcolico. Mentre Gaia è capace di scolarsi tre mojito in un’ora senza dare segni di
cedimento.
Eccola, la regina della mondanità! Sta vagando da un tavolo all’altro, sfoderando con
tutti il suo sorriso più ammiccante condito
con saluti mielosi talmente acuti da sconfinare negli ultrasuoni. La coda di cavallo
bionda svetta tra la folla: Gaia è già alta di
suo, ma come al solito esibisce tacchi da
combattimento. Adesso si è fermata al centro
di un gruppetto di gente che conosco. Sollevandomi sulle punte, le faccio un cenno da
lontano. Mi ha intercettata, per fortuna.
Agita le braccia in modo concitato per invitarmi a raggiungerla. Urtando contro una
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decina di persone, m’infilo nella mischia e
sono da lei.
«Finalmente! Dove diavolo eri finita?» Mi
stampa un bacio sulla guancia. Poi, come da
copione, lo sguardo le scivola verso il basso.
«E quel sandalo? Verde stilosissimo… Brava,
Ele, mi piace!»
Esame superato. Almeno per stasera non
dovrò vedermela con i buttafuori.
«Allora, com’è andata con il tuo ciclista
l’altra sera?» le dico all’orecchio, pizzicandole un fianco.
«Non c’era.» Gaia fa una faccina affranta
poco credibile. «Temo abbia altri pensieri in
questo periodo…»
«Ma dài?» dico, fingendo stupore.
«Ah, ma non mi faccio mica inchiodare da
Belotti! No no no, non se ne parla.» In un attimo ritrova la grinta. «Cioè… un posticino
nel mio cuore ce l’ha sempre, ma lasciamo
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che sia lui a decidersi. Se mi vuole, deve
venire a prendermi.»
«Sarà…» Continuo a non capire perché le
interessi tanto quel tizio. I misteri insondabili dell’amore. O degli ormoni, nel caso di
Gaia.
«E comunque ieri sera al Piccolo Mondo
ho beccato Thiago Mendoza. Hai presente, il
modello di Armani? Ci siamo scambiati il
numero.»
«Non perdi tempo, vero?» Non so chi sia
questa new entry, ma è tipico di Gaia reagire
a una delusione lanciandosi in una nuova
conquista.
Scoppia in una risata sonora, poi continua,
rivolgendosi anche al resto del gruppo:
«Ragazzi, ho sete. Un altro spritz per tutti?».
Il gruppo aderisce all’unanimità, Gaia mi
prende sottobraccio e mi trascina di nuovo
nella ressa.
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«Nico, mi fai otto spritz all’Aperol?»
chiede al barista, approdando al bancone e
sbattendo le ciglia gonfie di mascara.
«Subito, amore.»
È tipico dei veneziani, uomini e donne,
chiamarsi “amore” anche se ci si conosce da
meno di un’ora. E Nico, barista aspirante attore, non fa certo eccezione.
«E anche una Coca-Cola per la mia amica»
aggiunge Gaia, anticipando i miei desideri.
Il resto della compagnia intanto si sta avvicinando al bancone e, in men che non si dica,
i bicchieri passano di mano in mano sfiorandosi per un brindisi.
«Andiamo a fumare?» propone qualcuno.
E il branco si muove pacifico verso l’esterno.
Gaia resta con me e si siede sullo sgabello di
fronte al mio. La Coca-Cola si sta facendo
aspettare.
«Ci raggiunge anche Filippo a cena?»
chiede Gaia.
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«Pare di sì.»
«Mi fa piacere rivederlo.»
Quando ho conosciuto Filippo, lei aveva
già lasciato l’università da un pezzo. Gliel’ho
presentato io, ma hanno subito scoperto di
avere altre amicizie in comune: Venezia è abbastanza piccola, si finisce per conoscersi
quasi tutti, soprattutto se si è malati di socialità come Gaia.
A un tratto qualcuno la chiama dall’angolo
dei divanetti. «Scusa, vado a salutare delle
persone» dice saltando giù dallo sgabello.
«Vai, vai» rispondo io. «Fai pure il tuo
dovere!»
Gaia mi strizza l’occhio ed è pronta a una
mini sfilata nei suoi attillatissimi jeggings:
ho scoperto da poco, ovviamente grazie a lei,
che si chiamano così quei jeans aderenti ai
limiti dell’asfissia. Gaia li indossa spesso,
nonostante abbia il polpaccio un po’ grosso –
il suo cruccio più grande. Mi godo lo
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spettacolo dal mio sgabello: movenze da
gatta e canotta in cotone effetto sbiadito che
lascia poco spazio alla fantasia, anche se in
verità è tutto merito del push-up imbottito,
perché Gaia nature avrebbe soltanto una
seconda (ma questo lo sappiamo solo io e gli
uomini con cui è andata a letto).
Nico mi porge finalmente la mia Coca.
«Mi aggiungeresti un po’ di ghiaccio?» gli
chiedo.
«Vuoi anche il limone, amore?»
«Sì, grazie.»
Do il primo sorso dalla cannuccia quando
sento vibrare il telefono. Un sms di Filippo.
Bibi, sono in ritardo.
Arrivo tra mezz’ora.
Bacio
Gli rispondo subito, sperando che si dia
una mossa.
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Ok, ti aspettiamo!
Ho appena risposto, quando una mano mi
sfiora la spalla nuda. Mi volto di scatto e davanti a me appare Leonardo Ferrante,
l’inquilino.
«Ciao, Elena» mi saluta. «È davvero piccola Venezia…» Ha quell’aria sempre sgualcita, camicia fuori dai pantaloni stropicciati,
ma sembra sinceramente contento di
vedermi.
«Salve…» Sono presa alla sprovvista e mi
sistemo meglio sullo sgabello. Non so se
sono altrettanto contenta. Quest’uomo mi
spiazza. Non riesco a prevedere nemmeno i
miei pensieri in sua presenza. E non va bene.
Si siede accanto a me senza essere invitato
e mi punta addosso i suoi occhi neri. «Sei
sola?» Mi sfiora il braccio con una mano e
non so perché la cosa mi turba.
«No, sono con degli amici…» rispondo
agitando la mano in aria per far capire che
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sono sparsi in giro, ma ci sono. C’è qualcosa
in Leonardo che mi scuote, mi arriva dritto
alla pancia come un colpo secco. Vorrei che
se ne andasse. Forse.
Si volta all’improvviso verso un gruppo di
persone che sta prendendo posto a un tavolo.
«Ragazzi, ordinate» dice con autorevolezza,
«vi raggiungo subito.» Poi torna a me: «È
tutta la squadra del ristorante, i miei collaboratori» mi spiega indicandoli.
«Ah, ma se deve andare…» mi precipito a
rispondere.
«Ma no, mi fa piacere averti incontrata.»
Quindi è ufficiale: nonostante io continui a
dargli del lei, lui ha deciso univocamente di
accorciare le distanze.
«Che ne dici di darmi del tu?» continua.
Aggrotto la fronte e mi guardo le mani.
Neanche mi avesse letto nel pensiero.
«Sì, certo…» mormoro.
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Per buona educazione e per scacciare l’imbarazzo m’impongo di fare conversazione:
«Ieri uscendo dal palazzo ho cercato di fare
piano. Spero di non averti svegliato». E
subito mi pento di quello che ho detto. In
fondo, dovrebbe essere lui a preoccuparsi di
non rompere le scatole a me. Perché mi sto
quasi giustificando?
«Tranquilla, quando dormo non sento
nulla.»
Capta lo sguardo del barista, che nel frattempo si è avvicinato. «Per me un Martini
bianco.»
Nico gli riempie il bicchiere e lui tira fuori
il portamonete.
«Pago anche il suo» dice facendo un cenno
verso di me.
«No, non c’è bisogno…» cerco di oppormi
e già ho tuffato il braccio nella borsa. Lui mi
blocca e il mio polso è minuscolo tra le sue
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dita, il suo tocco è lieve ma deciso. Scuote
appena la testa e io mi arrendo all’istante.
«D’accordo… grazie.»
Mentre sorseggia il Martini, fissa il mio
bicchiere. «Come mai niente alcol?»
«Sono astemia» mi giustifico alzando le
spalle.
«Male, molto male» sorride, un po’ obliquo. «Chi beve solo acqua ha qualcosa da
nascondere.»
«Ma io non bevo solo acqua. Questa per
esempio è Coca-Cola.»
Leonardo ride, scoprendo denti bianchi e
feroci. Ho come l’impressione che non rida
per la mia battuta, ma di me. Poi prende un
sorso dal suo calice e mi fissa, di nuovo serio.
«Ti dà molto fastidio la mia presenza al
palazzo.»
«No…» rispondo in automatico, ma subito
mi freno. La sua non è una domanda ed è
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evidente che della mia falsa cortesia non se
ne fa proprio niente. Provo a ricominciare:
«In effetti avrei preferito restare da sola» azzardo con un po’ di coraggio. «Sono così, non
riesco a concentrarmi se ci sono persone intorno. E poi i lavori di restauro andrebbero
fatti in un ambiente il più possibile isolato.»
Mi aspetto che dica qualcosa del tipo
“capisco, cercherò di disturbarti il meno possibile”. E invece no. Resta lì a scrutarmi
come se avesse appena capito qualcosa di
fondamentale che invece a me sfugge.
All’improvviso allunga una mano verso di
me: d’istinto mi ritraggo – quand’è che gli ho
dato il permesso di toccarmi? – ma le sue
dita s’infilano tra i miei capelli, dove le punte
sfiorano il collo.
«Attenta, ti è caduto questo.»
Tiene tra pollice e indice un mio orecchino. Resto a guardarlo un po’ inebetita, poi
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mi affretto a prenderlo e lo riaggancio al
lobo.
«Capita spesso, sono difettosi» mi giustifico evitando il suo sguardo. Il mio viso si
colora di tutte le sfumature di rosso. Ecco,
adesso vorrei proprio che se ne andasse.
Per fortuna uno dei suoi collaboratori lo
chiama. Leonardo gli rivolge un cenno e poi
si volta di nuovo verso di me. «Scusami, raggiungo la mia squadra» mi dice. «Ci vediamo
domani.»
«Certo. A domani.»
Lo guardo unirsi al gruppo seduto al tavolo
e mentre ricontrollo ossessionata l’orecchino
fuggiasco provo a scrollarmi di dosso questa
assurda sensazione d’imbarazzo.
Poco dopo Gaia ricompare. È riuscita a liberarsi dai doveri delle pubbliche relazioni. Si
accomoda di nuovo sullo sgabello e mi punta
addosso uno sguardo quasi poliziesco. Mi
preparo psicologicamente all’interrogatorio.
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«Ele, tesoro…» e qui so già dove vuole andare a parare, «ma chi era quel tipo?»
«Chi?»
«Non fare finta di niente» mi zittisce,
«quello con cui stavi parlando un minuto
fa.»
«È il tizio che Brandolini ha avuto la
cortesia di piazzarmi nel palazzo. Si chiama
Leonardo, fa lo chef.» La mia voce lascia
trapelare un po’ di insofferenza.
«Interessante…» Gaia lo osserva a distanza. «Ma quanti anni ha?»
«E che ne so? Ci ho scambiato solo due
parole.»
«Certo che potevi presentarmelo… è sexy
da morire!»
«Mamma mia, Gaia, sei sempre a caccia!»
Allargo le braccia. «E comunque non capisco
cosa ci trovi, è un rude» dico guardandolo a
mia volta.
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«Di sicuro non è uno di quelli fatti con lo
stampino, quello è un vero maschio, dài retta
a me, Ele…» Gaia si morde il labbro.
Cerco le parole per contraddirla, ma non le
trovo.
«Ragazze!» Una voce familiare mi salva
dalla lezione di anatomia maschile in cui
Gaia sta per lanciarsi.
Filippo si fa largo tra la gente e ci saluta
con due baci sulle guance. «Scusatemi, ho
avuto una grana allo studio. Quel rompicoglioni di Zonta mi fa lavorare anche di
domenica. Lui e i suoi clienti milionari…
Gaia, da quanto tempo è che non ci
vediamo?»
«Circa due anni, Filippo. E per favore
dimmi che non sono invecchiata, anche se
non lo pensi.»
Scoppiamo a ridere tutti e tre. Poi Gaia gli
allunga uno spritz. «Adesso ti bevi questo e
poi si va a cena.»
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«Avete già deciso dove?» Filippo sorseggia
il cocktail senza obiettare.
«Perché non andiamo al ristorante vegetariano al Ghetto?» propongo. Dai loro
sguardi capisco all’istante che la mia idea
non è troppo gradita.
«Ele» fa Gaia, «come dire… tu e le tue fisse
sulla carne avete discretamente rotto.»
«Vabbè, come non detto. Insensibile.»
Metto su una specie di broncio, ma non me
la prendo mai davvero quando è Gaia a fare
commenti sulle mie manie vegetariane.
«Andiamo al Mirai» interviene Filippo, «il
ristorante giapponese a Cannaregio.»
«Sì!» esclama Gaia. «Adoro il sushi, lì lo
fanno da dio.»
«Ok, così almeno posso mangiarmi un po’
di riso e verdure.»
«Allora, tutti d’accordo?» Filippo mi
guarda come a dire “spero di aver trovato un
buon compromesso”.
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Gli sorrido e annuisco. «Dài, andiamo!»
Al Mirai la cena è stata piacevole. Alla fine
abbiamo messo insieme un tavolo da dieci,
dato che al Muro Gaia ha esteso l’invito a un
po’ di gente che ha incontrato. Ovviamente
era una mossa studiata. Sì, perché, finita la
cena, la regina della notte è riuscita a trascinare tutti al Piccolo Mondo, una delle discoteche in cui fa la pr. Tutti, tranne me e
Filippo.
Appena io ho declinato l’invito, Filippo mi
ha proposto di continuare la serata insieme e
adesso stiamo vagando per le calli. C’è
ancora gente in giro, la temperatura è ancora
abbastanza mite da invogliarti a stare fuori. I
bar sono affollati e di tanto in tanto vediamo
qualcuno uscirne barcollando. Anch’io
comincio a barcollare, e non per l’alcol, ma
per colpa dei sandali che mi stanno
torturando.
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«Ti prego, non ce la faccio più, fermiamoci
un attimo.»
Non ho neanche finito di dirlo che già mi
sono lanciata su una panchina vuota e sto
frugando in borsa nella speranza di trovare
un cerotto. Niente. Ci avevo anche pensato a
prenderne un paio prima di uscire, ma poi
l’ho dimenticato. Mi tolgo i sandali e i miei
piedi sono rossi e gonfi, segnati dai solchi
lasciati dai laccetti. Le crudeltà della moda.
«Oddio, come li ho ridotti…» mormoro accarezzandomeli. Ma il caso è disperato.
Filippo afferra il mio piede destro e se lo
appoggia sulle ginocchia, costringendomi a
ruotare tutto il corpo verso di lui.
«Che fai?» domando sorpresa.
«Pronto intervento» risponde lui, cominciando a massaggiare. Il suo tocco è terapeutico, sento il sangue che ricomincia a
fluire. Per un po’ mi abbandono e lascio che
le sue mani si muovano morbide su di me.
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Piano piano, però, al sollievo subentra l’imbarazzo. Sono stesa su una panchina, nel
cuore della notte, con Filippo che mi sta
massaggiando i piedi. È una situazione un
po’ strana… e il suo è un gesto troppo intimo
per noi due. Lo guardo e mi accorgo che
anche lui mi sta fissando. Ma non nel modo
in cui lo farebbe un amico. I nostri volti sono
abbastanza vicini, stiamo per baciarci, sento
che sta per succedere, lo voglio ma un po’ mi
fa paura, trattengo il respiro…
Un cellulare squilla riportandoci bruscamente alla realtà. È il mio.
«Ele, scusa l’ora. Stavi già dormendo?»
È Gaia.
«No, no…»
L’incantesimo è rotto. Mi riapproprio dei
miei piedi e mi affretto a rinfilarli nei sandali. Mentre li chiudo do un’occhiata obliqua
a Filippo: sembra deluso, e forse lo sono
anch’io. Ma non c’è più niente da fare, Gaia
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reclama la mia attenzione, ormai: «Mi senti?
Dove sei?».
«Sì, scusa. Sono ancora per strada…»
«Senti, sono nella merda! Ho litigato con
Frank al Piccolo Mondo… è un pazzo, mi ha
chiamata su negli uffici e ha cominciato a
dire che l’ultima volta gli ho portato la feccia
al locale. Me ne sono andata sbattendo la
porta. Però ho lasciato le chiavi e tutto sulla
sua scrivania.»
«E non puoi tornare a prenderle?»
«No, Ele, non lo voglio nemmeno rivedere
quello stronzo. Ci torno domani, quando la
discoteca è chiusa e lui non c’è. Ma stanotte…
posso dormire da te?»
«Certo, ti aspetto a casa, tra poco.»
«Due minuti e arrivo.»
Due minuti? Quindi era già sicura che le
avrei detto sì.
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Riattacco e mi volto verso Filippo: «Scusa,
ma Gaia sta venendo da me, ha perso le
chiavi di casa».
Lui sorride, ma avverto nei suoi occhi un
velo di rimpianto: «Non c’è problema, Ele, ti
accompagno al vaporetto».
Lo aspettiamo per un quarto d’ora quasi in
silenzio, nell’aria l’imbarazzo per quel bacio
mancato. Ci scambiamo qualche battuta di
circostanza, tanto per sciogliere la tensione.
Quando arriva il vaporetto, mi sembra un
principe azzurro venuto a salvarmi e ci salto
su volentieri, quasi di fretta.
«Bibi… ti fai sentire, vero?» mi chiede Filippo dalla banchina.
«Certo, a presto» gli rispondo agitando la
mano. Poi scivolo via sull’acqua.
Davanti al portone di casa trovo Gaia,
ancora arrabbiata. Mentre saliamo le scale
mi racconta per filo e per segno com’è andata
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con Frank e io mi distraggo almeno un po’
dal pensiero di Filippo. Ogni tanto si scalda
troppo e devo ricordarle di abbassare la voce:
è tardi, nel palazzo stanno tutti dormendo.
Mentre ci strucchiamo in bagno, noto lo
sguardo di Gaia che m’insegue nello
specchio.
«Non è che mi stai nascondendo qualcosa,
tu?» Eccola. Gaia la Grande Inquisitrice.
«E cosa ti dovrei nascondere?» biascico
lavandomi i denti.
«Non so, tu e Filippo non me la raccontate
giusta. Non è che ho interrotto qualcosa?»
«Gaia, siamo solo amici.»
Non ne è per niente convinta. «Mmm…
secondo me gli piaci. Anzi, gli sei sempre
piaciuta.»
Alzo le spalle.
«E a te lui piace?»
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«Non lo so. Non ci ho mai pensato sul
serio.» E sto dicendo la verità. Almeno, fino
a stasera…
Ci mettiamo sotto le coperte nel mio letto
a due piazze e chissà perché la cosa ci rende
improvvisamente allegre. Gaia mi lancia un
cuscino in faccia e subito ci tornano alla
mente alcuni pigiama party che facevamo da
adolescenti. Ridiamo di quelle che eravamo
allora e di come siamo diventate. Spengo
l’abat-jour e ci auguriamo la buona notte.
Ho appena preso sonno quando la voce di
Gaia mi risveglia.
«Ele…»
«Eh?» le rispondo assonnata.
«Ma quel Leonardo… dicevi che abita nel
palazzo in cui lavori, vero?»
«Sì.»
«E dov’è, esattamente?»
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«Te lo spiego domani. Adesso dormi.»
3
«Ele!»
Qualcuno mi sta scuotendo la spalla.
«Dài, Ele, svegliati!» La voce di Gaia mi riporta alla realtà di soprassalto.
«Che c’è?» bofonchio con la voce
impastata.
«Cazzo, mi sono ricordata che devo andare
a prendere Contini all’aeroporto… il regista…
ha appuntamento all’atelier di Nicolao per i
costumi del prossimo film.»
Il profumo del caffè appena fatto m’invade
dolcemente le narici.
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«Ma che ore sono?»
«Sono le sette e un quarto. Spero solo che
il volo da Roma sia in ritardo…»
Mi stropiccio gli occhi per vederci meglio.
Gaia è già vestita e truccata. Non so come
faccia a camminare ancora con gli stivaletti
di ieri sera.
«Devo scappare. Il caffè è pronto nella
moka.» Mi dà un piccolo bacio sulla guancia.
«Grazie per l’ospitalità.»
«Figurati» mugugno girandomi su un
fianco. «È bello essere presi a calci per tutta
la notte.»
Gaia mi scompiglia i capelli ed esce socchiudendo la porta, lasciandomi sola nella
stanza a scrollarmi il sonno di dosso. La
seguo con il pensiero lungo le scale, la immagino già attaccata al BlackBerry a parlare di
vestiti, accessori e lustrini.
Con uno sforzo che mi sembra disumano
mi appoggio alla testiera del letto. Il mio
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corpo scricchiola. Forse dovrei prendere in
considerazione l’idea di andare in palestra
con lei. Gaia non dimostra certo i nostri
ventinove anni, è un’esplosione continua di
energia.
L’immagine di me che zampetto strizzata
in leggings colorati davanti a uno specchio a
ritmo di musica, però, mi spegne ogni
entusiasmo da fitness. Mi toccherà convivere
con le giunture scricchiolanti, me ne farò una
ragione.
Scendo dal letto e mi tuffo dentro l’armadio, dove recupero a caso una gonna e un
maglioncino sportivi prima di sgattaiolare in
bagno.
Il primo chiarore di questa mattina di ottobre mi accoglie fuori dal portone. È una
luce tenue, che scalda senza ferire lo
sguardo. Oggi non prendo il vaporetto, da
San Vio a Ca’ Rezzonico sono dieci minuti e
ho voglia di gustarmeli tutti.
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Mi abituo gradualmente alla luce del
giorno. Gli occhi non mi devono tradire, non
oggi che mi dedicherò anima e corpo a quel
melograno: la mia sfida sarà trovare la sfumatura perfetta.
Cammino senza fretta, a passo lento e rilassato; un po’ perché ho ancora i piedi doloranti da ieri sera e un po’ perché è impossibile non lasciarsi conquistare dalla
calma di Venezia.
Il primo ponte della giornata sta lì a ricordarmi che l’anima di questi posti è l’acqua,
non certo la pietra. E mi piace fermarmi
anche solo un momento a osservare la vita
da quassù. Il rio di San Vio sotto di me è un
canale stretto, bizzarro, una striscia che collega il Canal Grande alle Zattere, tagliando in
due il sestiere. Da qui riesci a vedere le due
facce di Venezia: San Marco da un lato, la Giudecca dall’altro. La Venezia dei turisti e
quella dei veneziani.
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Il campanile della chiesa di Sant’Agnese
batte le nove. Accelero. Sono in ritardo.
Mentre costeggio le Gallerie dell’Accademia,
una donna bionda e sovrappeso mi chiede in
inglese di scattarle una foto con il fidanzato.
Non ne avrei proprio voglia, sono di fretta,
ma le dico sì e così lei mi allunga la fotocamera spiegandomi quale tasto premere. Mi sistemo la borsa sulla spalla e divarico un po’ le
gambe per assestarmi, mentre le loro espressioni si congelano felici nell’inquadratura.
Clic. Messa a fuoco, primo scatto. Clic.
Foto in posa, sorrisi a trentadue denti e uno
scorcio da cartolina, probabilmente quella
che sceglieranno per il loro album. Clic. La
terza foto, inaspettata, quando si smette di
stare in posa. La migliore.
La coppia si scioglie dall’abbraccio e mi
ringrazia svariate volte. Come tanti, sono
venuti a Venezia non solo per visitarla, ma
per provare a vivere la loro favola romantica.
E ne hanno tutto il diritto. Almeno credo…
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Accenno un sorriso e scappo via. Una
brezza leggera mi scompiglia i capelli. Non
punge ancora, ma è un piccolo anticipo
dell’autunno che sta per arrivare.
L’aria sa di cornetti caldi scongelati e di
cappuccino, quel profumo intenso che accompagna i miei passi ogni volta che vado al
lavoro a piedi. Non mi fermo quasi mai a fare
colazione al bar. Di mattina non mangio, ho
lo stomaco chiusissimo e poi, sennò, mi
viene sonno. Oggi faccio una breve sosta alla
tabaccheria del sottoportico per prendere
una confezione di tronchetti alla liquirizia –
mi aiutano a rimanere concentrata e a
evitare cronici cali di pressione.
La calle del palazzo sbuca direttamente nel
Canal Grande. Bisogna fare attenzione a percorrerla, specialmente di notte. È una viuzza
anonima, nascosta, poco illuminata e poco
nobile, infestata in più punti da erbacce che
si arrampicano sui muri. Non si direbbe che
alla fine di questa lingua di ciottoli si
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nasconda l’ingresso di uno degli edifici più
belli di Venezia.
D’altra parte, questa città è un’anomalia
urbanistica. Tutto sembra in rovina, sul
punto di sgretolarsi nell’acqua torbida. Ma
allo stesso tempo tutto è vivo, tutto rapisce
gli occhi con una bellezza che lascia senza
fiato.
Pennelli e tempere sono esattamente dove
li ho lasciati sabato, nello stesso rigoroso ordine. Nessuno li ha toccati e questo mi tranquillizza. Anche l’affresco sta bene, non gli è
successo niente. Sembra scontato, ma sono
infinite le cose che possono succedere a
un’opera in restauro quando viene lasciata
incustodita. Ogni mattina mi assale l’ansia di
trovarci sopra una bella macchia di umidità,
una colonia di formiche o delle impronte
umane.
Dall’appartamento di Leonardo non
provengono segni di vita. Forse è già uscito.
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Indosso la divisa da lavoro e, conciata
come un ghostbuster, sono pronta per
cominciare. Quasi pronta… devo assolutamente rinfrescarmi gli occhi con il collirio.
Per colpa di Gaia che non la smetteva di rigirarsi nel letto – e in verità anche di Filippo
che continuava a ronzarmi in testa – non ho
dormito bene stanotte e ho gli occhi che mi
pesano come due palle di piombo.
Per un momento la scena di Filippo che mi
massaggia i piedi su quella panchina mi attraversa la mente. È stato ieri sera, ma mi
sembra quasi di averla vissuta in sogno, adesso. Il ricordo è sfocato, non riesco a
rivivere le sensazioni che si porta con sé.
Strano.
Estraggo la boccetta azzurra dalla tasca
della salopette, reclino la testa all’indietro e
lascio scendere due gocce nell’occhio destro e
due nel sinistro. All’inizio il liquido brucia,
ma in cinque secondi passa tutto e mi sento
rinascere.
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All’improvviso una risata maliziosa si diffonde nell’androne. Ho gli occhi ancora appannati, ma riesco lo stesso a vedere due
sagome che avanzano verso di me. Si tengono per mano. Leonardo e… sbatto le ciglia
per mettere a fuoco… e una donna bellissima, capelli vaporosi e pelle di porcellana, il
corpo fasciato in un elegante abito corto di
raso rosso che, oltre a esaltare le gambe
toniche e snelle, le lascia tutta la schiena
scoperta. Ha un portamento che farebbe invidia a Audrey Hepburn, lo sguardo soddisfatto e luminoso.
«Buongiorno, Elena» dice Leonardo
quando mi passano accanto. Non è vestito
per uscire, indossa una felpa e le infradito.
Un bizzarro contrasto con l’eleganza di lei.
«Salve» rispondo con studiato distacco.
La diva mi rivolge un cenno di saluto con
la testa e segue Leonardo picchiettando con i
tacchi sul pavimento. Si dirigono verso la
rampa di scale che porta all’uscita, lui le
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lascia scivolare una mano sulla schiena nuda
con un gesto sensuale e insieme protettivo. Il
contrasto tra la sua pelle scura e quella candida di lei è conturbante. Non posso impedirmi di pensarlo. È evidente che hanno
passato la notte insieme, sembra quasi di
sentire l’odore di sesso dietro di loro.
Vorrei ributtarmi nel mio lavoro, ma
vengo distratta di nuovo, questa volta da un
boato fuori che all’improvviso fa vibrare le
pareti. Sembra il motore di una barca. Incuriosita, scosto la tenda di una delle
portefinestre affacciate sul Canal Grande e
mi accorgo che un motoscafo bianco è attraccato al pontile del palazzo. E sopra c’è la
diva: si è appena tolta i tacchi e si è infilata
un giubbotto nero di pelle. Ora si avvicina al
bordo e cerca Leonardo. Lui non si fa
pregare e sporgendosi dal molo le sfiora le
labbra con un bacio, poi leva la corda dal palo di ormeggio e la saluta con la mano. La
diva inforca un paio di occhiali da sole neri,
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aziona la leva sulla plancia e sfreccia via lasciandosi dietro una scia argentea. Sembra la
scena di un film e invece è tutto vero, qui
davanti ai miei occhi.
Sistemo la tenda e torno immediatamente
al lavoro. La cosa non m’interessa, mi ripeto,
e cerco di pensare ad altro.
Leonardo rientra subito dopo. Fingo di essere molto occupata mentre mescolo a caso
alcuni pigmenti sforzandomi di tenere lo
sguardo basso. Mi passa davanti senza dire
una parola e in un secondo scompare nelle
sue stanze fischiettando.
Preparo un po’ di rosso, mi arrampico
sulla scala e sono pronta a dedicarmi al
melograno. Adesso spero di poter lavorare in
pace, ma come al solito i pensieri vanno per
conto loro e io mi ritrovo a rincorrerli. Chissà
se quella era la donna di Leonardo o solo
l’avventura di una notte… Non riesco a togliermi dagli occhi l’immagine di lui che le
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sfiora la schiena nuda, e poi quel bacio così
fuggevole, ma sensuale.
Ora dal bagno mi arriva il rumore dell’acqua corrente. Poi una voce potente ma
stonata gorgheggia una melodia che sa di estate e di mare. Leonardo se la sta prendendo
comoda, sembra non avere troppa fretta di
andare al lavoro stamattina.
Mi volto per cercare un pennello e mi accorgo che è appena uscito dal bagno e sta
venendo verso l’androne. A petto nudo. Ha
un asciugamano blu attorcigliato in vita, i
capelli bagnati, ed è scalzo. Ricorda un guerriero dell’antichità. Mi si avvicina, l’aria
sfrontata, e il pavimento instabile traballa un
poco sotto il suo peso.
«Allora, Elena, come va?»
«Bene, grazie» dico quasi sottovoce, ostentando indifferenza. Cerco di tenere lo
sguardo incollato all’affresco. Mi sento a
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disagio, piccola e in disordine nella mia tuta
informe. Perché non va a vestirsi?
«E i lavori?» Scuote i capelli e una nuvola
di goccioline si libera nell’aria. Lo vedo con
la coda dell’occhio. Fortunatamente è ancora
a distanza di sicurezza dalla parete.
«Insomma…»
«Sai che sembri molto più a tuo agio su
quella scala che sullo sgabello di un bar?»
«Lo prendo come un complimento.»
«Lo è, infatti.»
Non accenna ad andarsene. Mi sento osservata, quasi sotto esame, e la cosa non mi
piace.
«Scusa, ma sono molto occupata…» dico
voltandomi appena verso l’affresco.
«Certo» risponde abbozzando un sorriso
consapevole e sollevando le mani. «Non ti piace avere gente intorno quando lavori. Sei
stata molto chiara ieri sera…»
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«Appunto» farfuglio, mentre lo vedo allontanarsi verso la sua camera da letto. Ma
non so se lo dico o lo penso soltanto.
Appena resto sola, scendo dalla scala: ho
bisogno di liquirizia. La presenza di qualsiasi
altro individuo mi dà fastidio, la sua invece
mi destabilizza.
Faccio un bel respiro e con il mio tronchetto che si scioglie sulla lingua mi decido a
ricominciare. Cazzo, il colore si è completamente seccato. L’avevo fatto troppo denso.
Adesso devo svuotare le coppette, lavarle e
ritarare le quantità delle polveri. Proverò a
usare il pennello a punta piatta, almeno per
la prima stesura, così mi sbrigo più in fretta.
Salgo di nuovo sulla scala, ricontrollo da
vicino la sfumatura dei chicchi e cerco di fissarmela bene in testa. Quindi provo una
nuova miscela di rosso e viola.
Dal corridoio alla mia destra sento avvicinarsi i soliti passi sicuri. Mi volto d’istinto:
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stavolta è vestito. Indossa un paio di jeans
strappati e una camicia di lino bianca –
quest’uomo ha una dipendenza dal lino. Al
collo una sciarpa di seta nera che svolazza a
ogni suo movimento. Non so come faccia a
non avere freddo. È ottobre, ormai…
Si avvicina fino ad appoggiarsi con un
braccio alla scala. Un fremito mi attraversa la
schiena e mi fa perdere leggermente l’equilibrio. Non ho idea di cosa mi stia succedendo, ma non mi piace.
«Io esco a fare acquisti per il ristorante»
dice guardando all’insù. «Vado a Rialto, ti
serve qualcosa?»
«No, grazie, non mi serve niente.»
«Sicura?» piega leggermente la testa di
lato e la luce colpisce il suo orecchino facendolo scintillare. Anche i suoi occhi brillano in un modo strano. Sembrano quasi sorridere. Non ho mai trovato così sexy delle
comuni rughette d’espressione ai lati degli
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occhi. Oddio, lo spirito di Gaia si sta impossessando di me…
«Sì, davvero. Non faccio complimenti.» Mi
riprendo, voltandomi verso il muro per non
restare imbambolata, ancora una volta. L’affresco adesso è la mia unica salvezza. «Ah,
per andare a Rialto ti conviene prendere il
vaporetto, così non rischi di perderti» aggiungo cercando di sembrare disinvolta.
«Ma è così bello perdersi a Venezia!» Alza
le spalle.
«Lo dicevo solo per farti guadagnare
tempo. Immagino avrai mille faccende da
sbrigare.»
«Certo, ma lascio che siano i miei collaboratori a occuparsi delle seccature. A me spetta
la parte divertente del gioco.» Sorride, sicuro
di sé. Dà l’impressione di qualcuno che ha fiducia assoluta nel proprio talento, qualcuno
a cui le cose riescono naturalmente bene,
senza troppo sforzo.
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«In cucina ci sono cornetti e caffè ancora
caldi, se vuoi fare colazione.»
«No, grazie. La mattina non mangio quasi
mai… E poi adesso non posso interrompere il
lavoro.»
«Come mai?» sembra incuriosito.
«Devo restare con l’occhio focalizzato sul
colore, altrimenti lo perdo.»
Leonardo si passa una mano sul mento e
mi fissa. «Il colore di quel melograno?»
«Sì» annuisco, guardando davanti a me.
«Sono giorni che ci sbatto la testa, mi sta facendo impazzire. Ha mille sfumature e tutte
difficilissime da rendere, per non parlare del
chiaroscuro…» Mi ritrovo mio malgrado a
essere loquace, parlare del mio lavoro m’infervora. Leonardo deve essersene reso conto
perché sta sorridendo. Osserva attentamente
il melograno, poi me, come meditando
qualcosa.
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Mi zittisco all’improvviso, non so cosa stia
pensando ma mi dico che non deve importarmi. Mi ha fatto perdere fin troppo tempo.
Sto per salutarlo, quando una voce conosciuta mi blocca le parole in bocca.
«Ele, sei qui?» Rumore inequivocabile di
tacchi sulle scale. «C’è nessuno?»
Leonardo mi guarda interrogativo e io gli
faccio un cenno per comunicargli che è tutto
sotto controllo. Gaia si materializza nell’androne: è passata a casa a cambiarsi, non ha
più gli abiti di ieri sera ma è come sempre
impeccabile. Saluta Leonardo, prima ancora
di me.
«Ciao…»
«Ciao.» Lui ricambia con un piccolo
inchino.
«Sono passata a salutarti» mi dice poi con
un sorriso innocente. Bugiarda. Da quando
lavoro in questo palazzo non è mai venuta a
trovarmi, nemmeno una volta. È qui solo per
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lui, deve aver visto l’indirizzo da qualche
parte a casa. Quando vuole, sfodera insospettabili qualità da investigatrice.
Resto inchiodata alla mia scala, col cavolo
che scendo. Se non altro da quassù posso godermi la scena nella sua interezza: «Ma tu
non avevi un impegno importantissimo stamattina?» le chiedo per puro gusto sadico di
metterla un po’ in difficoltà.
«Già fatto! Ho anche recuperato la borsa al
Piccolo Mondo» si affretta a rispondere e mi
guarda
per
dire
“cosa
aspetti
a
presentarmelo?”.
Mi accorgo che Leonardo la sta esaminando compiaciuto, una mano nella tasca dei
jeans e un dito sulle labbra.
«Lei è Gaia, la mia amica» dico. La mia
presentazione suona stranamente solenne
dall’alto.
«Piacere, Leonardo.» Le stringe la mano
con vigore. Ha un’espressione più sedotta o
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divertita? Non saprei dirlo. Mi rimetto a
mescolare il colore, per dimostrare che non
sono interessata a ciò che avviene un metro e
mezzo sotto di me.
«Piacere…» sento la voce di Gaia e sono
certa che sta sbattendo le ciglia maliziosa.
Anche se non la vedo, è chiaro che sta dando
il meglio di sé.
All’improvviso la sento esclamare: «Che
razza di lavorone stai facendo, Ele! È grandissimo, però stupendo…». La guardo
stupita e sospettosa: non le è mai fregato niente di restauri e affreschi.
«Non è vero?» aggiunge poi rivolta a
Leonardo. Appunto: sta solo cercando un
pretesto per attaccare bottone.
«Elena ha una grande passione per il suo
lavoro, si vede.» La vibrazione calda della
sua voce sale fino a me.
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Gaia intanto si è aperta un varco e svelta ci
s’infila dentro: «E tu, invece, di cosa ti
occupi?».
«Sono uno chef. Adesso sto avviando il
nuovo ristorante dei Brandolini.»
So esattamente quali saranno le prossime
parole di Gaia: “Lo chef… che bello!”.
«Bel lavoro, lo chef.»
Ho sbagliato, ma di poco. Sorrido, tanto
non mi vedono.
Gaia continua con le domande di rito: da
quanto sei a Venezia, quanto ti trattieni,
come ti trovi…
Ridacchia e annuisce solenne ogni volta
che lui dice qualcosa. Conosco a memoria
tutto il suo arsenale di seduzione: occhi languidi, dita che giocherellano con i capelli,
sorriso furbetto, labbra in fuori…
Mi sporgo dalla scala per assistere allo
spettacolo e forse anche per controllare che
effetto fa su Leonardo. Sembra gratificato.
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Anche lui, come tutti, vinto dal fascino di
Gaia. Ma all’improvviso si ricorda di me e
alza lo sguardo. Io mi ritraggo di scatto e faccio quasi cadere una coppetta di colore.
«Forse ti stiamo disturbando, Elena?»
Decido di essere un po’ acida: «Be’, fate un
po’ voi…».
Leonardo si rivolge di nuovo a Gaia:
«Meglio andare, anche perché sono in ritardo. È stato un piacere, comunque».
«Anche per me» replica lei, sciogliendosi
come un cioccolatino al sole.
Leonardo ci saluta, poi si affretta verso
l’uscita. Gaia gli guarda il fondoschiena, io
guardo Gaia e inevitabilmente anche il mio
occhio cade sull’oggetto del suo interesse.
Poi ci fissiamo a vicenda.
«Non male…» Lo abbiamo pensato entrambe, ma è solo lei a dirlo. «Come fai a lavorare con uno così che ti gira intorno?»
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«Come faccio a lavorare con voi due che
flirtate qua sotto, vorrai dire!» replico indignata. «Fai anche la parte di quella che è venuta a trovare me… Sei senza vergogna…»
«Qualcosa mi devo pure inventare, visto
che tu non sei collaborativa. Vuoi scendere
da quella scala, per favore?»
«No.»
Sospira, appoggia un piede sul sostegno
della scala e un braccio su un gradino, guardando ancora nella direzione in cui Leonardo
è andato via.
«Comunque, Elena, quell’uomo lì è qualcosa di pazzesco. Devi ammetterlo, sennò ti
butto giù.»
Adotto la strategia dell’indifferenza. «Passami un po’ quella spugnetta, così almeno ti
rendi utile.»
Gaia esegue, poi si guarda intorno per studiare l’ambiente, dato che fino a ora non ne
ha avuto il tempo.
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«Lui abita di là?» chiede indicando il corridoio che conduce all’ala sinistra.
«Sì.»
«Hai mai visto il suo appartamento?»
«No, perché?»
«Non ci credo… non ti è venuta voglia di
curiosare?»
«No che non mi è venuta…» Un brivido di
terrore mi scuote pensando a cosa sta
architettando.
«A me però sì» e s’incammina senza
aspettarmi.
«Gaia, torna subito qui!» le grido dietro,
ma ovviamente è inutile. Sono costretta a
scendere dalla scala. La rincorro. «Ma che
vuoi fare? Smettila!» La raggiungo e le afferro la manica, ma lei è più forte e motivata
e mi trascina con sé.
«Dài, solo un’occhiata!» insiste, tutta
eccitata.
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Abbiamo già attraversato il corridoio e stiamo salendo le scale che portano al piano superiore, dove c’è la camera da letto di
Leonardo. Non potendo fermarla, sono
costretta a inseguirla per evitare che combini
qualche disastro o, peggio, lasci tracce in
giro.
«Senti, mi metti nei casini, io qui ci lavoro!» provo a buttarla sul patetico, ma mi
dimentico che il tema lavoro non ha molta
presa su di lei.
La porta della camera è aperta. La stanza è
enorme come immaginavo, sembra una suite
di un albergo di lusso. Il letto, al centro, è
ancora sfatto, le lenzuola di seta aggrovigliate pendono da un lato. Ovunque una tappezzeria rossa e dorata, che si riflette infinite
volte negli enormi specchi che occupano le
due pareti ai lati del baldacchino. È un ambiente caldo ed elegante, arredato con un po’ di
civetteria. E non è certo un caso che Brandolini gli abbia dato questa stanza…
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«Che stile!» esclama Gaia.
«Che casino!» le faccio eco io. È tutto in
disordine. A quanto pare, Leonardo non si
preoccupa troppo di mettere a posto. Sulla
poltroncina di velluto rosso una decina di
camicie sono ammonticchiate una sopra l’altra e due paia di pantaloni di lino sono buttati a terra sul tappeto persiano.
«È normale che sia disordinato» fa Gaia
con aria saccente, «è un artista.»
«Veramente, sarebbe un cuoco» la smonto
io, «e comunque questa storia del genio e
sregolatezza è una gran cavolata, o solo una
scusa…»
«Sarà, ma nel suo caso è vera» ribatte decisa. «Dài, si capisce solo a guardarlo che ha
una personalità eccentrica, che è un
creativo.»
«Ma dài? Quindi hai già capito tutto di
lui.»
«Certe cose sono evidenti. Punto.»
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Sopra il comodino svettano una bottiglia
stappata di Moët & Chandon e un vassoio
d’argento su cui sono posati due bicchieri.
Uno dei due con evidenti tracce di rossetto.
Gaia mi lancia un’occhiata eloquente e io
confermo quello che ha già intuito.
«Stamattina c’era una donna con lui ed era
chiaro che avevano passato la notte
insieme.»
Forse ho trovato il modo di disinnescarla,
perciò infierisco: «Tra l’altro lei è bella, ricca
e affascinante. Praticamente inarrivabile.
Anche per te, cara… Perciò adesso
andiamo.»
«Mmm, il gioco si fa interessante…» Gli
occhi di Gaia si accendono di curiosità. Mi sa
che ho ottenuto l’effetto contrario.
«Magari non è la sua compagna. Altrimenti vivrebbero insieme, no?» continua,
aggrappandosi alle sue congetture. «È normale che un uomo così abbia più di
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un’amante.» La prossima volta devo ricordarmi che a scoraggiarla peggioro solo la
situazione.
Invece di uscire dalla stanza, come vorrei
fare io, Gaia si avvicina all’armadio e lo apre.
Per un attimo l’occhio mi cade sul posacenere al centro di un tavolino intarsiato e
mi accorgo che ci sono i resti di una canna.
Non le dico nulla, dato che non vorrei alimentare ulteriormente il suo interesse.
«È un fanatico del lino stropicciato» constata sbucando da un’anta dell’armadio. Poi
si avvicina alla poltroncina sommersa di abiti
e percorre con le dita i vestiti usati di
Leonardo con aria sognante. «È elegante, ha
gusto… e, fidati, è una caratteristica rara in
un uomo.»
«Adesso basta, mi hai scocciato!» sbotto,
rinunciando a portare avanti qualsiasi
strategia psicologica. «Andiamocene, per
favore!»
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Mi avvicino a Gaia per prenderle un braccio, quando le mie narici vengono gradevolmente pizzicate da un profumo intenso, potrebbe essere ambra. Lo percepisco in maniera nitida, subito: è l’odore di Leonardo, di
cui sono impregnati i suoi abiti. Mi sento a
disagio come se lui fosse qui. Tiro Gaia per la
manica.
«Eddài, smettila di rompere… Solo un attimo…» protesta lei cercando di liberarsi.
All’improvviso un rumore all’esterno ci
paralizza. Sentiamo una porta chiudersi con
un cigolio. Oddio, Leonardo è già rientrato.
«Lo vedi?» le ringhio in preda al panico.
Ci precipitiamo fuori, volando giù per le
scale. Una volta sbucate nell’androne – il fiato corto e il cuore a mille – quasi con delusione realizziamo che non è Leonardo, ma il
custode del palazzo.
Mi ricompongo in un attimo e lo saluto,
disinvolta: «Buongiorno, Franco».
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«Buongiorno, signorina. Sono passato a
dare un’occhiata. Va tutto bene?»
«Sì, grazie, nessun problema» la mia voce
zoppica per la corsa di un attimo prima.
«Stavo facendo vedere il palazzo alla mia
amica che è venuta a trovarmi.»
«Salve» dice Gaia, salutandolo anche con
la mano. Franco posa su di noi uno sguardo
benevolo, quello che, ne sono certa, riserva
alle ragazze perbene.
«D’accordo, allora io vado» conclude, avvicinandosi all’uscita. «Se le serve qualcosa…»
«Grazie, Franco, non ho bisogno di nulla.
A domani.»
«Arrivederci.»
Quando la porta si chiude, io e Gaia ci fissiamo negli occhi. Avrei voglia di stritolarla e
invece sento i muscoli del viso cedere sotto la
spinta di una risata. Scoppiamo a ridere
coprendoci la bocca con le mani come
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quando eravamo bambine e ne avevamo appena combinata una delle nostre.
Mi sforzo di tornare seria: «Adesso però
sparisci, chiaro?» le intimo in tono minaccioso. Mi rendo conto che è davvero tardi e
devo assolutamente recuperare tutto il lavoro che non ho fatto.
«Va bene, ti lascio in pace» Gaia fa per andarsene, ma prima di uscire si gira verso di
me: «Però ci siamo divertite. E come sempre
è merito mio…» dice, strizzandomi l’occhio.
«Sparisci» sorrido.
«Ciao, stronza.»
Sono le sei passate e mi rassegno a tornare
a casa, anche se la giornata non è stata
produttiva come avrei voluto. È inutile, non
si può lavorare con un simile viavai di gente!
La mattina l’ho praticamente buttata, solo
nel pomeriggio sono riuscita a ritrovare un
po’ di concentrazione, ma ho messo da parte
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il melograno, almeno per il momento, e ho
fatto una prima stesura della veste di
Proserpina. Quella, almeno, è venuta bene.
Appena apro il portone sulla calle, mi
rendo conto di aver preso troppo alla leggera
l’allarme meteo lanciato ieri sera dal centro
maree. L’acqua sta salendo a una velocità
spaventosa. Dovevo andarmene prima, appena ho sentito la sirena tipo coprifuoco, ma
non ci faccio quasi mai caso e penso sempre
che l’acqua ci mette un bel po’ a salire, e alle
volte non sale nemmeno. Stavolta sono stata
davvero un’idiota. Gli stivali di gomma li ho
lasciati a casa, giustamente – stamattina
c’era il sole! È un classico: li porto con me
solo quando non servono, un po’ come
l’ombrello.
Provo a fare qualche metro camminando
in punta di piedi con le mie ballerine in pelle
scamosciata nell’acqua che già comincia a
scorrere a terra, lenta ma implacabile. È
un’impresa. Raggiungo la fine della calle che
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i piedi sono completamente fradici. Potrei
cercare due sacchi di plastica e coprirmeli,
legando i manici intorno alle caviglie. Ma mi
sa che è già troppo tardi, considerando che in
cinque minuti l’acqua mi sembra salita di almeno trenta centimetri.
Mi metto in salvo su un muretto ancora asciutto per valutare il da farsi… anche se mi
rendo conto che c’è ben poco da valutare. O
procedo verso casa, sapendo che ci arriverò
completamente bagnata e con i vestiti da
buttare, o torno al palazzo con il rischio di
rimanere intrappolata là dentro fino a tarda
notte, quando la marea sarà calata.
Mentre mi sto arrovellando su queste due
opzioni, entrambe poco attraenti, Leonardo
esce dal portone del palazzo fischiettando, gli
stivali da pescatore ai piedi.
«Ciao, Elena, cosa ci fai lì?» domanda, non
appena si accorge di me abbarbicata sul
muretto come un gatto idrofobo.
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«Stavo tentando di tornare a casa…»
rispondo cercando disperatamente di darmi
un contegno. «Ma tu non eri al ristorante?»
«Sì, ma sono rientrato verso le cinque»
dice venendo verso di me e smuovendo metri
cubi d’acqua sotto i suoi passi. «Solo che tu
eri così immersa nel lavoro che non te ne sei
accorta e io non ho voluto disturbarti.»
«Ah.» Mi ha raggiunta. Da quassù sono
alta quasi quanto lui.
«Che vogliamo fare?» Osserva con circospezione il livello dell’acqua. «Ti do un
passaggio fino a casa?»
«E come?»
«Tu aggrappati a me» ordina, battendosi
una spalla, «che al resto ci penso io.»
La proposta suona un po’ indecente. Lo
guardo dubbiosa. Vorrei rispondergli: “Non
preoccuparti, grazie, in qualche modo me la
caverò”, ma nelle mie condizioni non sarei
credibile. Temo che dovrò accettare.
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«Ma sei sicuro? Ti faccio perdere tempo…»
Sto per accettare…
Respinge ogni obiezione con un gesto della
mano e si gira mostrandomi la schiena. Ok,
accetto.
La sua schiena è grande, sembra una
montagna da scalare. Sotto la solita camicia
di lino si intravedono i muscoli. Sollevo un
piede, lo rimetto a terra indecisa. Maledetta
me, quando stamattina mi sono messa gonna
e calze parigine. Mi sento goffa come quando
alle elementari la maestra di ginnastica mi
faceva arrampicare sulla pertica sotto lo
sguardo crudele dei miei compagni di scuola.
Ci riprovo, appoggio prima una mano sulla
sua spalla, poi l’altra e lo stringo, lasciandomi andare con il resto del corpo contro la
sua schiena. Leonardo mi afferra una gamba
e se la allaccia intorno alla vita. E io faccio lo
stesso con l’altra.
«Pronta?» mi chiede.
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«Penso di sì.» Il mio corpo adesso aderisce
completamente al suo. «E tu? Ce la fai?»
Ride. «Sei leggera come una piuma.» Mi
blocca le cosce nude con le mani e, camminando con l’andatura di un titano, oltrepassa
il primo ponte in un baleno. Sento il seno
schiacciato contro i suoi dorsali, mentre gli
circondo il collo con le braccia per non cadere. Ha un profumo buono, lo stesso che ho
sentito oggi sui suoi vestiti. Ma sotto se ne
intuisce un altro, più autentico e selvaggio,
quello della sua pelle. Odore di vento e di
mare.
«Da che parte?» mi chiede, una volta superato il ponte.
Gli indico la strada parlando a un centimetro dal suo orecchio, in un sussurro che
non so perché ma ha qualcosa di malizioso, e
lui riprende a camminare. Prosegue tranquillo, come se tutto fosse perfettamente
normale, mentre io mi domando cosa
diavolo sto facendo a cavalcioni di uno
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sconosciuto. Tutto questo è assurdo, eppure
non mi dispiace. Avverto una sensazione di
calore che per un attimo mi fa desiderare di
non scendere mai, di restare sempre incollata a Leonardo, e all’improvviso realizzo che
il mio sesso preme contro il suo dorso: c’è
solo la stoffa degli slip a separarci, visto che
le calze non arrivano oltre il ginocchio. Sono
sicura che Gaia pagherebbe oro per essere al
mio posto, adesso.
Oddio, sto per scivolare…
«Sicura di essere comoda? Sei davvero leggerissima. Non ti sento quasi…» Mi stringe le
gambe riassestandomi con un piccolo balzo.
«Sì…»
È forte, i suoi muscoli sono in tensione, il
sangue caldo gli pulsa nelle vene. Le sue
mani scivolano sulle mie cosce con una naturalezza che vince ogni mio imbarazzo. Sembra quasi che già conosca il mio corpo, e
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questo mi lascia spaesata, non so cosa
pensare.
In calle della Toletta i netturbini stanno
montando le passerelle di legno e, tra sorrisetti maliziosi e commenti coloriti, mi guardano come fossi una principessa araba sul
dorso di un cammello. Come a dire “le gira
bene a questa…”. Il mio disagio cresce insieme all’acqua, che sgorga senza sosta dai
tombini e invade tutto, infradicia i muri,
sbriciola le assi di legno. Per fortuna
Leonardo non può vedere il rossore che mi
sta accendendo le guance.
Nei negozi stanno togliendo in fretta e
furia la merce dagli scaffali più bassi. I commercianti urlano bestemmie da ogni angolo.
L’acqua alta è tremenda, si prende tutto, non
ha pietà per niente e nessuno. In effetti devo
ammetterlo: a me è girata bene, oggi.
Ecco, ci siamo. Il ponte di legno dell’Accademia si para davanti a noi. Da qui ho altri
cento metri e sono a casa, e fortunatamente
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da questo punto in poi il tragitto è tutto
coperto dalle passerelle.
Pizzico leggermente la spalla di Leonardo.
«Puoi lasciarmi» gli dico, «da qui posso andare da sola.»
Leonardo si ferma. «Sicura? Non mi costa
niente fare qualche metro in più.»
«Va bene così, davvero. Sei già stato
prezioso…» Valuto per un momento l’idea di
offrirgli qualcosa da bere a casa, ma non vorrei generare equivoci. Per oggi le distanze si
sono accorciate abbastanza tra noi. Oltretutto casa mia è abbastanza un disastro e decido di evitarmi altri imbarazzi.
«Fine del viaggio» dice, mollando la presa
sulle mie gambe e sfiorando leggermente le
mie mutandine. Senz’altro non se ne sarà accorto. Anzi, forse me lo sono proprio immaginata… Poi piega le ginocchia e, afferrandomi per le spalle, mi aiuta a scendere.
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Balzo sulla passerella, rassettandomi i
vestiti. «Grazie, mi hai salvata.»
«È stato un piacere.»
Lo guardo negli occhi. Davvero è stato un
piacere? Perché per me credo proprio che lo
sia stato.
«Ciao, allora. Ci vediamo.»
«Ciao, Elena, a domani.» Muove un passo
nell’acqua torbida, poi si volta dicendo: «È
stato bello camminare nell’acqua alta, sai? È
sempre stata un’esperienza che avrei voluto
fare… e non avrei mai immaginato di condividerla con te».
Gli sorrido, mi sorride e mi lascia sola,
mentre Venezia si fa accarezzare dalla
marea.
4
Oggi non ho scuse: devo affrontare il melograno, anche se mi sento uno straccio. Ho
avuto degli incubi tremendi tutta la notte e
quando ho aperto gli occhi mi sono ritrovata
sdraiata di traverso sul letto, il lenzuolo accartocciato e il cuscino a terra. Mi sono tirata
su a fatica, con il cuore che pompava sangue
nelle orecchie, e nemmeno venti gocce rilassanti al tiglio sono servite a qualcosa. Ho
provato a fare stretching per sciogliere i
muscoli indolenziti, ma quando ho realizzato
che le punte dei piedi non mi erano mai sembrate così lontane, ho abbandonato l’idea.
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Viste le condizioni fisiche e l’umore nero,
per andare al lavoro ho deciso di prendere il
vaporetto: di camminare, stamattina,
neanche a parlarne.
Mi appoggio alla scala e guardo il melograno dal basso. Mi esce un sospiro a metà
tra la meraviglia e lo sconforto.
Vorrei dirmi che sono carica, che sono
sicura di farcela, ma non è vero. Ho paura
che il restauro non venga perfetto come pretendo da me stessa, che alla fine dovrò accontentarmi di un risultato approssimativo,
magari di un colore che non è proprio lo
stesso, ma che tenta senza riuscirci di avvicinarsi all’originale. Già lo so: l’anonimo pittore verrà a trovarmi in sogno, la notte, accusandomi di aver rovinato il suo
capolavoro.
Mi passo le mani tra i capelli per scacciare
questi pensieri stupidi e mi metto la
bandana. Devo restare concentrata e finire in
qualche modo questo dannato melograno. Se
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continuo così rischio di perdere anche la visione d’insieme e compromettere tutto il
resto.
Il campanile di San Barnaba ha appena
battuto le undici. Di solito a quest’ora faccio
merenda come a scuola – in realtà sarebbe la
mia tarda colazione – ma adesso non ho per
niente fame. La mattinata è cominciata male
e sembra continuare peggio. Ho perso anche
il collirio, proprio adesso che ne ho bisogno.
“Sei la solita testa per aria” direbbe mia
madre, e avrebbe ragione. Lo cerco sul pavimento dell’androne perché potrebbe essermi
scivolato dalla tasca, ma niente. Maledizione,
e adesso? Vado in farmacia a prenderne uno
nuovo? Certo, perché già sono stata produttiva finora…
Vabbè, al diavolo il collirio. Mi faccio un
leggero massaggio alle palpebre con i polpastrelli e poi salgo sulla scala ripetendo il mio
nuovo mantra – ce la puoi fare, Elena – ed
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ecco che sono di nuovo faccia a faccia con il
melograno. Mi guarda con aria di sfida.
Non ti temo, no, non ti temo affatto.
Ho cominciato a lavorare da quasi un’ora,
con scarsi risultati, quando una voce alle mie
spalle rompe la fragile bolla di concentrazione in cui ero riuscita a chiudermi.
«Ciao, Elena.»
Ferrante, ci mancava solo lui.
«Leonardo…» lo saluto con un cenno distratto sperando che non voglia interagire.
Erano giorni che non lo incrociavo, da
quando mi ha portata a casa sulle spalle. Da
allora, però, me lo sono ritrovato spesso
protagonista – mio malgrado – di certi pensieri segreti e inopportuni, che di solito reprimo puntualmente sul nascere.
Lo spio con la coda dell’occhio: ha in mano
un sacchetto di carta marrone, di quelli che
si usano al mercato.
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Guarda il dipinto grattandosi due volte il
mento, poi si dirige verso il divanetto addossato alla parete e ci lancia sopra il sacchetto, che con un tonfo sordo rimbalza sul
velluto dell’imbottitura. Dandomi le spalle si
leva il giubbotto in pelle e rimane con una Tshirt bianca a maniche corte. La sua
carnagione è scura, riarsa dal sole, i muscoli
delle braccia scolpiti dalla fatica, le vene in
evidenza. È un uomo molto bello. Non c’è
che dire, devo dar ragione a Gaia.
«Puoi scendere un minuto?» mi domanda.
Mi giro verso di lui corrugando le
sopracciglia e scuoto la testa.
«Andiamo…» continua lui in tono deciso.
«Voglio fare un esperimento.»
«Che esperimento?»
«Tu scendi, poi te lo dico.» Un sorriso ambiguo gli scivola dalle labbra.
Non so cosa voglia fare, quello sguardo
non è molto rassicurante, eppure il suo
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invito ha qualcosa d’irresistibile, ne sono incuriosita. Il mio imbarazzo intanto cresce –
ho il viso in fiamme, lo sento – e l’unico
modo per vincerlo è decidermi a eseguire
l’ordine senza fare tante storie. Perciò appoggio coppetta e pennello sull’ultimo ripiano
della scala e a passi lenti scendo un gradino
dopo l’altro.
Ecco, sono davanti a lui, adesso. Leonardo
mi studia, trapassandomi con lo sguardo.
«Bene» fa un profondo sospiro, «ora devi
chiudere gli occhi.»
«Eh?» deglutisco. «Posso sapere che intenzioni hai?»
«È solo una prova» m’incoraggia con voce
suadente. «Ma se funziona, mi ringrazierai.»
Mi accorgo che le mie mani stanno tremando leggermente. Non è normale che
quest’uomo venga qui a interrompere il mio
lavoro e a darmi ordini e io sia incapace di
replicare come vorrei. C’è qualcosa di
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magnetico in lui, qualcosa che non ho la facoltà di controllare e tantomeno di
respingere.
Faccio un lungo respiro. Poi un altro, lasciando andare le braccia lungo i fianchi e, adesso sì, chiudo gli occhi. Mi affido a lui, immagino di non avere altra scelta.
«Devi giurarmi che non li riapri fino a
quando non te lo dico io.»
«Ok» annuisco. «Mi sento un po’
stupida.»
«Fidati, Elena» mi rassicura. La sua voce è
più dolce, ora.
Sento che muove qualche passo. Si sta allontanando da me. Poi, un rumore di carta
stropicciata, srotolata. Presumo che stia
frugando nel sacchetto. Sbircio tra le
palpebre ma Leonardo mi dà le spalle e non
vedo niente, tanto vale richiuderle. Mi
domando se non sia il caso di avere paura, in
fondo quest’uomo è un perfetto estraneo per
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me… no, a pensarci bene non credo di dover
avere paura. In realtà mi viene da sorridere.
«Vedo che ti stai divertendo… bene!
Meglio così» commenta.
Oddio, se ne è accorto. Ora sta venendo
verso di me. Si è fermato a pochi centimetri
dal mio viso – così sembrerebbe – riesco
perfino a sentirne il respiro.
«Adesso non pensare a niente. Ascolta
soltanto» ordina con autorevolezza.
Un rumore secco mi arriva diretto all’orecchio destro. È un suono indecifrabile,
dapprima duro e poi più morbido. Di qualcosa di vivo che si rompe, si spacca a metà
con un crepitio.
«Cos’è?» domando sorpresa.
«Devi indovinare, è questo il gioco.»
Intuisco che sorride, il suo fiato aleggia sul
mio viso. Si fa sempre più vicino.
«Senti l’odore.»
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Avvicina l’oggetto misterioso al mio naso e
inspiro. Un profumo particolarissimo mi
scuote, scendendo fino alla gola. Sa di muschio, di terra… di materia viva.
«È un frutto?» azzardo.
Leonardo non risponde. Mi prende
dolcemente le mani e le gira con i palmi
all’insù. Un brivido caldo mi attraversa la
schiena, perdendosi nella fessura delle
natiche.
«Toccalo» sussurra. Mi posa nelle mani
due semisfere.
Piego leggermente le dita per sentirne
meglio la consistenza. Fuori è liscio e insieme rugoso, mentre dentro riconosco al
tatto un groviglio denso di chicchi rivestiti da
una pellicola leggera che si lacera in più
punti.
Forse ho capito. «È un melograno?»
«Adesso lo scoprirai.» Leonardo mi libera
le mani. «Apri la bocca, assaggia.»
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Esito, non mi piace l’idea di non vedere
cosa sto per mettere in bocca, ma faccio
come mi dice. Alcuni chicchi mi scivolano
freschi sulla lingua. Hanno un sapore acidulo, pizzicano un po’ e sotto i denti sento una
polpa soda e zuccherina dall’anima legnosa.
«Ora apri gli occhi» dice Leonardo.
Schiudo lentamente le palpebre. Lui è di
fronte a me e mi guarda con aria soddisfatta.
«E questo è un melograno vero. I più dolci
vengono dalla Spagna, sai?» dice tenendo il
frutto tra le mani. «Penso che tu abbia
bisogno di ripartire da questo per arrivare a
quello» e indica il melograno sull’affresco.
Lo guardo anch’io, mentre i semi in
poltiglia mi gironzolano ancora in bocca.
Quel dettaglio che prima era solo un reticolo
di forme e colori è all’improvviso qualcosa di
vivo. Ce l’ho in bocca, nelle narici, nella pancia, più che nella testa. E mi sembra di
vederlo davvero per la prima volta, di poter
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svelare il suo mistero. Non so che cosa dire,
sono completamente spiazzata. Cerco aiuto
nello sguardo di Leonardo. Lui mi sorride.
«A volte gli occhi non bastano per vedere
tutto, non trovi?»
Annuisco, ancora incerta. «Credo di aver
capito cosa vuoi dire…»
«Allora ti conviene rimetterti subito al lavoro. Ti lascio tranquilla» e fa per andarsene.
Muove dei passi in direzione del corridoio,
ma all’improvviso torna indietro, come se
avesse dimenticato qualcosa, forse il sacchetto con i melograni o il giubbotto. E invece no. Abbassa un istante lo sguardo, fruga
in una tasca dei jeans e ne estrae il mio
collirio.
«L’ho trovato ieri nella mia stanza» spiega
porgendomelo. «Forse potresti averne
bisogno.»
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Impietrita, prendo in mano la boccetta.
Adesso vorrei soltanto fare un buco nel pavimento, sotterrarmi e non uscire mai più.
«Grazie, l’ho cercato tutta la mattina» dico
disinvolta, tentando invano di mascherare
l’imbarazzo che sento crescermi dentro.
«Non so davvero come ci sia finito, nella tua
stanza» continuo, e intanto le guance mi
stanno andando a fuoco. Di nuovo. Vorrei
trovarmi un valido alibi, ma non sono mai
stata brava a mentire. Quella cretina di
Gaia… E io più cretina di lei ad andarle dietro! Adesso lui starà pensando che sono
un’impicciona, o peggio, una maniaca, perché è ovvio che ai suoi occhi sono io l’autrice
del misfatto.
Leonardo mi rivolge uno sguardo complice, come se potesse leggermi nel pensiero.
Alza le spalle divertito e mi regala un sorriso
amichevole, che vuol dire “stai tranquilla,
non è successo niente”. Poi, senza aggiungere
altro, se ne va, lasciandomi lì impalata al
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centro dell’androne. E io sono indecisa tra
fare finta di niente e correre a nascondermi
dove nessuno può venire a cercarmi.
Esco dal palazzo che è quasi buio, i lampioni si sono già accesi lungo la calle e l’aria
fresca di ottobre mi costringe a sollevare il
bavero dello spolverino. Mi sto sistemando i
capelli da un lato, quando una voce, quasi un
sussurro, mi chiama.
«Psss… Bibi!» È la voce di Filippo.
Se ne sta seduto sulla vera da pozzo al
centro del campiello. Appena incrocio il suo
sguardo scivola giù e atterra sul selciato,
scrollandosi il trench grigio fumo.
«Non voleva più mollarti quell’affresco…»
Mette in tasca il telefono e si avvicina.
«Giornata produttiva» rispondo, ma decido di sorvolare sull’esperimento di
Leonardo. «Come mai da queste parti?»
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«Sono passato a salutarti» dice, sistemandosi sulla spalla la tracolla del notebook.
«Non ti ho chiamata perché so che non
rispondi quando sei al lavoro.»
«Vabbè, magari a te avrei risposto» e gli
do una spallata giocosa.
Ci incamminiamo verso campo San Barnaba. Sono felice che Filippo sia qui. Lui ha la
straordinaria capacità di rilassarmi e mettermi subito a mio agio.
«Devo dirti una cosa» si gratta la nuca
come a cercare le parole. I suoi occhi s’intristiscono in un istante.
«Che cosa?»
«Domani devo ripartire per Roma. E restarci» dice tutto d’un fiato.
«Ah, però…» Non so come reagire alla notizia. Forse per lui è buona e non è il caso di
manifestare quella punta di dispiacere che
sento salirmi in gola. «Non mi avevi detto
niente…»
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«L’ho saputo due ore fa» allarga le braccia,
in segno di resa. «Decisione del capo. Ha
pensato di spedire me alla sede di Roma,
perché secondo lui sono il più qualificato.»
«Suona come una promozione.»
«Così pare, almeno a detta di Zonta.
“Prendilo come un avanzamento di carriera”
mi fa, scagliandomi dei documenti sulla
scrivania con il solito atteggiamento arrogante.» Filippo affonda le mani nelle tasche e
fissa lo sguardo su un punto indefinito
all’orizzonte. «Aumento di stipendio e, ovviamente, soggiorno spesato. Mi sa che è una
proposta di quelle che non si possono rifiutare…» dice imitando la voce di Marlon
Brando nel Padrino. Ma non sembra molto
felice.
«E non sei contento?» gli domando a
bruciapelo.
«Sì, sono contento» risponde lui. «Solo
che è successo tutto all’improvviso, mi ero
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appena risistemato a Venezia e, adesso, via
di nuovo…» Mi guarda e per un momento
spero che aggiunga “e poi non vorrei lasciarti”, ma mi impongo subito di smetterla. È
il suo momento, è la sua carriera, l’obiettivo
per cui ha tanto sudato… Devo essere felice
per lui e mettere da parte l’egoismo.
«Per quanto tempo dovrai stare via?» gli
chiedo
cercando
di
non
risultare
piagnucolosa.
«Non lo so di preciso, ma di sicuro si parla
di mesi… e il primo periodo sarà totalmente
frenetico» fa un respiro profondo, come per
prepararsi a una confessione. «Lo studio ha
ottenuto la partnership per la messa in opera
di un edificio progettato da Renzo Piano.»
«Cavolo, Fil, congratulazioni! E cosa aspettavi a dirmelo?» La notizia non è solo
buona, è addirittura eccezionale. Purtroppo.
Gli scocco un bacio leggero sulla guancia.
«Questa è l’occasione della tua vita.»
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Filippo sorride composto. La sua modestia
è disarmante ed è un lato di lui che mi piace
molto. Lo so che è fiero dei suoi risultati, ma
non è di quelli che se ne vantano. Non si
monterebbe la testa nemmeno se gli
chiedessero di riprogettare l’Empire State
Building.
«Senti, adesso ho una cena con i colleghi
dello studio. L’hanno organizzata per salutarmi prima della partenza.» Dal suo sguardo
capisco che non ne ha molta voglia ma che
deve andarci più che altro per cortesia. Peccato, speravo di passare almeno la serata con
lui. Ma mi conforta intuire che anche per lui
è lo stesso.
«E noi? Non ci staremo salutando così,
vero?» protesto.
«Mi dispiace, Bibi» mi dice con voce contrita, abbassando lo sguardo. «Domani, tra
preparativi e partenza, non credo che avrò
molto tempo.»
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«Cavolo, Fil…» è tutto troppo veloce per
me.
Lui mi solleva il mento e mi sorride
incoraggiante.
«Però ti aspetto. Devi venire a trovarmi a
Roma.»
«Certo che vengo» rispondo con una
smorfia.
«Dammi solo il tempo di sistemarmi e organizziamo un weekend. Ok?»
«Ok.» Ma la cosa non mi consola del tutto.
«Sono contento che sei triste, lo sai?» E mi
sposta dalla fronte una ciocca di capelli. «Per
me è lo stesso. Non sono bravissimo a
mostrarlo. Adesso scappo, però, sennò quelli
mi linciano… o peggio, rischio di trovarli già
ubriachi fradici.»
«Mi mancherai un sacco.»
«Anche tu.»
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Ci abbracciamo forte, quasi se con quella
stretta volessimo imprimere sui nostri corpi
la traccia l’uno dell’altra. Poi ci scambiamo
due baci profondi sulle guance e restiamo a
guardarci per un momento, incerti. Forse
vorremmo entrambi un bacio diverso, ma
subito distogliamo lo sguardo e ci rimettiamo i panni degli amici di vecchia data.
«Vado. Ci sentiamo presto.»
«Buon viaggio, Fil. E buona fortuna.»
Un altro abbraccio veloce e poi ci separiamo incamminandoci verso gli angoli opposti del campo. Ci giriamo ancora una volta
a salutarci con la mano e poi via, per strade
che adesso divergono.
Mentre cammino a passo lento sulla via di
casa, mi assale un’enorme tristezza. Mi sembra una grave ingiustizia che Filippo debba
andarsene proprio ora: ci eravamo appena
ritrovati e stavamo iniziando a capire molte
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cose di noi. Stupidamente, mi accorgo solo
adesso di quanto sia stata importante la sua
presenza negli ultimi due mesi.
Da più di un anno sono sola, nel senso che
non c’è nessun uomo nella mia vita, ma
questa condizione non mi è mai pesata
molto. Mi sono scoperta più autonoma e indipendente di quanto pensassi. Ma poi è arrivato Filippo e l’ho sentito vicino come nessun altro. Per la prima volta dopo tanto
tempo ho avuto seri dubbi sulla mia vocazione da single.
È un attimo e mi appare davanti agli occhi,
crudele, l’immagine di Valerio, l’ultimo
ragazzo che ho avuto, un amore nato nel
periodo spensierato dell’università e finito al
primo impatto con la vita adulta. Ripensandoci mi domando se quello che amavo seriamente fosse lui o solo la sicurezza posticcia
della nostra relazione. Dopo la laurea ho
iniziato a detestare il mio lavoro precario,
ero piena di dubbi sul futuro e sempre
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insoddisfatta, e lui ha rappresentato in
quegli anni uno dei miei pochi punti fermi.
Avevo così tanto bisogno di crederci che non
mi accorgevo di quanto fosse più fragile di
me, non capivo che le nostre due debolezze
non facevano una forza. Lasciarlo è stato
molto doloroso, ma col senno di poi credo di
aver fatto la cosa giusta per entrambi.
Valerio rappresentava soltanto la mia via di
fuga dalla realtà. Il problema è che a volte
questa via di fuga può apparire maledettamente simile all’amore. Ma troncare
con lui, ora ne sono certa, ha segnato il mio
ingresso nel mondo degli adulti. E sono orgogliosa di essere stata io a prendere la
decisione.
Sono arrivata a casa. Basta pensare al passato. È passato, appunto, e adesso sarebbe
sensato cominciare ad aprirsi alle cose nuove
che mi aspettano. Se solo avessi avuto più
tempo da trascorrere con Filippo, forse la
nostra amicizia – anche se in questo
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momento ho delle serie difficoltà a definire
così il nostro rapporto – si sarebbe trasformata in qualcos’altro. Chissà, magari non tutto
è perso, magari ci ritroveremo lo stesso, in
qualche modo. Quello che è certo è che mi
mancheranno le nostre uscite, i nostri dibattiti sui film, le nostre cenette, le nostre risate.
Mi mancherà tutto di lui. È inutile negarlo,
ora.
Dopo cena indosso la mia divisa da casa e
mi butto sul divano a fare zapping. Sto
dormicchiando davanti a un documentario
sugli animali della savana, quando suonano
alla porta. Guardo l’orologio: è quasi
mezzanotte, chi può essere a quest’ora?
Sbircio dallo spioncino un po’ timorosa e mi
ritrovo davanti una testa bionda. E, più giù,
gli occhi verdi di Filippo.
«Ehi, ciao!» gli faccio, aprendo la porta un
po’ spiazzata.
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«Passavo di qua e volevo vedere se eri
ancora sveglia» mi dice lui con un sorrisetto
malizioso.
«Sì, stavo guardando un po’ di tv» gli
rispondo facendomi da parte.
Filippo entra e io lo seguo in sala. Ha uno
strano modo di fare, è teso, impacciato. Gli
indico il divano e mi siedo accanto a lui. È di
un pallore quasi cadaverico, mi sta facendo
preoccupare.
«Qualcosa non va?» domando con
circospezione.
«No, ma mi andava di parlare un po’ con
te prima di…»
«Fil, non è che ci stai ripensando? Non
vuoi più partire?» lo anticipo.
«No, non è questo…»
«E allora cos’è?»
«Sei tu, Elena.»
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Sono io. Bene, adesso è tutto chiaro: Filippo ha deciso di dichiararsi e vuole farlo
poche ora prima di trasferirsi in un’altra città. Perfetto: io non sono per niente pronta,
indosso i vestiti peggiori del mio guardaroba
e non ho neanche lavato i denti.
«Non volevo partire senza farti sapere
quanto ci tengo a te» continua.
«Guarda che lo so quanto mi vuoi bene.»
Non trovo niente di meglio da dire, poi cerco
di alleggerire il tono della conversazione con
un sorriso e gli scompiglio i capelli. Spero
quasi che si fermi qui, che non aggiunga
altro.
«No, non lo sai.» Mi blocca la mano e ci
posa dentro un bacio profondo. Il calore
delle sue labbra si propaga attraverso il mio
braccio e arriva dritto al cuore. Poi, senza
dire niente, si avvicina e mi bacia anche sulle
labbra, leggero, incerto, quasi mi chiedesse il
permesso.
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Io non indietreggio, anzi mi faccio più vicina. Ce l’hai il mio permesso, Fil. Le sue labbra allora diventano più audaci e la sua lingua si muove piano a cercare la mia. Le sue
mani, così delicate, mi tengono ferma la testa
e afferrano i miei pensieri, imprigionandoli
tutti nello spazio che ora manca tra noi. Chiudo gli occhi, trattengo il respiro. Ci stiamo
baciando davvero, ora. Filippo si stacca e mi
guarda dritto negli occhi.
«Avrei voluto farlo mille volte, Bibi. Ma
non ero sicuro che lo volessi anche tu.»
«Io non aspettavo altro.»
Ci baciamo ancora e ancora, senza saziarci,
senza il coraggio di dire niente. Poi, delicatamente, Filippo mi fa stendere sul divano e si
sistema accanto a me. Continuando a baciarmi, infila una mano sotto la mia felpa e
mi sfiora un seno con la punta delle dita. Io
rabbrividisco a quel contatto. Mi guarda
come se fossi la cosa più preziosa al mondo,
quasi non credesse ai propri occhi. E anch’io
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stento a credere che, dopo tante esitazioni e
occasioni mancate, adesso siamo qui, stretti
ed emozionati, con una sola notte da passare
insieme per recuperare il tempo perso.
«Ti ho sempre desiderata. Dal primo momento» mi bisbiglia in un orecchio, prima di
tornare a baciarmi con ancora più trasporto.
La sua mano adesso scorre sulla mia pelle e
mi accarezza i seni, soffermandosi per un
istante sul piccolo neo a forma di cuore che
ho proprio sotto quello sinistro. Filippo si
mette a cavalcioni su di me e mi sfila felpa e
maglietta in un solo gesto. Sotto non ho niente e sono un po’ a disagio, distolgo lo
sguardo e cerco l’interruttore della lampada
per fare buio.
Adesso vedo la sua sagoma chinarsi piano
su di me, sento la bocca che trova i capezzoli
già turgidi e li succhia piano, quasi fossero di
zucchero. Mi sento sciogliere sotto di lui. Gli
passo le dita tra i capelli, godendomi
quell’istante di dolcezza pura.
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Cerca la patta dei miei jeans e la apre.
Contraggo i muscoli del ventre mentre la sua
mano si fa strada nei miei slip. Accarezza il
clitoride continuando a baciarmi il seno. È
una sensazione deliziosa, che avevo quasi dimenticato. Si ferma, ma solo per strapparmi
i jeans di dosso, insieme agli slip. Anch’io gli
tolgo la maglietta, intanto Filippo si libera da
solo dei jeans. Adesso siamo nudi, nella semioscurità posso intravedere il suo torace
snello e definito e il suo sesso eretto, puntato
verso di me. Sto per andare a letto con Filippo, mi ripeto silenziosamente, sta succedendo ora, qui, a casa mia, ma ancora faccio fatica a elaborarlo. I pensieri viaggiano
più lenti dei nostri corpi.
Lui intanto ha ripreso a stuzzicare il mio
clitoride, le dita si spingono tra le labbra e
poi salgono su, a riempire il vuoto. Mi ritraggo un po’, colta di sorpresa.
«Va tutto bene?» mi domanda Filippo.
«Sì» lo rassicuro.
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È da quasi un anno che non lo faccio e a
dire il vero sono un po’ agitata. Filippo aspetta che io sia pronta, poi si stende su di me
e, tenendosi il sesso con una mano, mi penetra lentamente, poco alla volta, senza fretta.
Quando è completamente dentro emette un
respiro più profondo e comincia a muoversi
a ritmo regolare. Gli cingo il collo con le
braccia e lo bacio sulla bocca, accompagnandolo con il bacino. Mi lascio cullare dal suo
movimento e mi abbandono. Non ricordavo
che potesse essere così bello. Così pieno.
L’incontro dei nostri sessi sprigiona brividi
di piacere, che diventano via via più intensi.
Fino a quando Filippo spinge con un po’ più
di forza e io mi aggrappo a lui quasi con violenza, emettendo un piccolo gemito. Ed ecco
un orgasmo liquido e dolciastro che si propaga dentro di me con un’onda lunga. Tremo
tra le sue braccia, perdo totalmente il controllo, il senso del tempo e di dove mi trovo.
È sorprendente che Filippo mi stia regalando
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questo. Sono felice. Come non lo ero da
tempo.
Filippo si china a baciarmi e muove ancora
il bacino, cercando il proprio piacere. Anche
lui sta godendo, adesso, posso sentire il suo
sesso pulsare nel mio mentre mi crolla addosso con un grido quasi liberatorio.
Ci baciamo e ci abbracciamo stretti, un po’
stupefatti. Non ci sono parole per noi, in
questo momento. Abbiamo fatto l’amore ed è
stato bello. Nessuno dei due ha voglia di
chiedersi cosa succederà domani, non
adesso.
«Elena» dice Filippo tenendomi il viso tra
le mani. «Voglio dormire con te stanotte.»
«Sì» rispondo sottovoce.
Ci alziamo dal divano tenendoci per mano,
con le gambe ancora un po’ tremanti lo conduco fino al mio letto e ci mettiamo sotto le
coperte. Il sonno ci coglie mentre siamo
ancora abbracciati.
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Apro gli occhi e la stanza è invasa da una
luce azzurrina. Ieri non ho chiuso le persiane
e dalla finestra entra il chiarore dell’alba. Mi
giro verso Filippo, ma lui è già in piedi che si
sta rivestendo. Mi sorride.
«Ritorna a dormire, è ancora presto. Io
devo andare a fare i bagagli.»
Non gli do ascolto e mi metto a sedere contro la spalliera. Ci guardiamo, consapevoli
che adesso dirsi addio sarà ancora più difficile. Filippo viene a sedersi accanto a me e
mi mette a posto i capelli che sono sicuramente tutti arruffati. Oddio, non voglio lasciargli come ultima immagine di me il disastro che sono quando mi alzo dal letto la
mattina!
«Niente facce tristi, Bibi.»
«Non hai paura che abbiamo complicato
tutto, Fil? Forse abbiamo fatto la cosa giusta
al momento sbagliato.»
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«Forse sì, ma non me ne pento. Ti volevo.
E ti voglio ora.»
«E cosa facciamo, adesso?»
«Non dobbiamo prendere una decisione
per forza. Abbiamo tutto il tempo. Bibi, non
illuderti che questo sia un addio…»
«No, certo…» rispondo, anche se non ne
sono per niente sicura. «È che le grandi decisioni mi mettono ansia, lo sai.»
«Lo so, ma noi non abbiamo fretta.
Quando ci ritroveremo riprenderemo da
qui.»
«Quindi stiamo rimandando tutto a tempi
migliori?»
«Sì, almeno finché io sono a Roma e tu a
Venezia.»
«Mi sembra la scelta più saggia, Fil.»
«È l’unico modo per non impazzire, Bibi.»
Ci abbracciamo stretti e ci baciamo per
l’ultima volta, poi lui si alza. Vorrei alzarmi
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anch’io per accompagnarlo ma lui mi blocca.
Mi sistema meglio il copriletto addosso.
«No, rimani qui, al caldo.»
Un ultimo bacio sulla fronte e poi scompare oltre la porta della stanza. Mi sdraio di
nuovo e mi copro fin sopra i capelli. Vorrei
mettermi a dormire e spegnere il cervello,
ma è del tutto inutile, ho già mille pensieri
che mi frullano in testa.
Questa notte passata con Filippo è stata
tenera ed emozionante. Mi domando se potrei davvero innamorarmi di lui. C’è sempre
stata un’intesa speciale tra noi… Ma basterà?
Devo cercare di capirlo, perché non posso
permettermi il lusso di fare un errore e poi
tornare indietro, non con Filippo. Devo restare lucida, scoprire se sto scambiando l’affetto per qualcosa di più profondo. La distanza di certo ci peserà, ma forse è la prova
di cui abbiamo bisogno per capire la vera
natura dei nostri sentimenti.
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Mi giro e rigiro nel letto smaniosa, crogiolandomi a lungo nelle mie inutili analisi –
una notte di sesso e sono già diventata paranoica? – e alla fine mi rassegno ad alzarmi e
vado in cucina per farmi un tè.
Sul tavolo, incastrato sotto la fruttiera, c’è
un foglio bianco. È un disegno, il ritratto di
una donna sbozzato a matita. Sono io. Giro il
foglio e nell’angolo in basso leggo una scritta,
in una grafia regolare e curata.
Come sei bella…
Dormivi così bene, stanotte…
Appena sotto, una firma: Filippo.
Mi lascio cadere sulla sedia, con le braccia
lungo i fianchi. Reclino la testa all’indietro ed
emetto un profondo sospiro. Non vale, Fil.
Come faccio a restare lucida se tu fai così?
5
Filippo è partito da tre giorni. Mi ha telefonato appena arrivato a Roma e l’altro ieri ci
siamo visti su skype.
«Bibi, non ti voglio perdere. Non ora» ha
chiuso la conversazione.
Dobbiamo cercare di sentirci spesso, ci
siamo detti, anche se sappiamo bene che non
basteranno mail e telefonate a non farci avvertire la lontananza.
Da tre notti dormo male. Durante il giorno
riesco a rimanere concentrata sul lavoro, ma
puntualmente, appena mi metto a letto, mi
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assalgono dubbi, pensieri e, a volte, mi sembra di sentire l’odore di Filippo, di quell’unica notte nostra. Come andrà a finire tra noi?
Ci può essere un domani, ho qualche diritto
a sperarlo, dopo mesi di solitudine voluta, o
si è trattato solo di una notte, appunto, in cui
ci siamo lasciati trasportare dall’emozione
della partenza? Cosa proviamo davvero l’uno
per l’altra? Ma soprattutto: cosa sento io?
Come se non bastasse, a non farmi chiudere occhio stanotte si sono messe anche le
due gatte della vicina, la signora Clelia.
Quella vecchia zitella le tiene segregate tutto
l’anno nel suo bilocale da trenta metri
quadri, ma quando le micie vanno in calore è
normale che impazziscano, e allora le lascia
libere in strada. I loro strazianti mugolii hanno messo a dura prova il mio sistema
nervoso e il mio amore per gli animali.
Alle quattro del mattino non ne potevo
più, e con due occhiaie olimpiche mi sono affacciata alla finestra, rassegnata spettatrice
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dello show notturno giù in campo: attorno
alle gatte di Clelia, cinque o sei randagi
stavano ingaggiando una lotta furiosa per
guadagnarsi il diritto all’accoppiamento.
Un groviglio di schiene inarcate, sbuffi,
pelo rizzato, e poi artigli, denti e miagolii
acuti. All’improvviso le gatte si sono abbandonate al loro desiderio, anche se non sono
riuscita bene a intuire chi con chi, in
quell’orgia animale. Stamattina Clelia le
starà cercando isterica per tutto il vicinato…
e tra due settimane le micie si ripresenteranno a casa magre, tutte graffiate, ma felici.
Beate loro!
Un trillo dell’iPhone mi riporta bruscamente alla realtà. Appoggio il pennello sul
telo di protezione e mi affretto a controllare
senza nemmeno levarmi i guanti in lattice:
ho già un’idea di chi possa essere. E infatti è
Filippo, mi ha mandato un mms. Scarico
subito la foto: è un suo primo piano con gli
occhi ancora un po’ gonfi di sonno e un
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sorriso fiducioso con sullo sfondo un edificio
supermoderno, o meglio un cantiere.
Buongiorno, Bibi. Io già operativo. E tu?
Mi manchi.
Riguardo la foto un po’ malinconica.
Anche lui mi manca.
L’idea di andare a trovarlo mi stuzzica
sempre di più e devo ammettere che il pensiero che possa fare nuove conoscenze nella
capitale mi rende piuttosto gelosa. Forse è
arrivato il momento che anch’io mi butti
nella mischia per guadagnarmi la mia avventura erotica.
Strofino sulla manica della tuta il display
del cellulare e rispondo.
Io inchiodata al solito affresco, ma almeno
sta venendo bene…
Mi manchi anche tu. Ti bacio.
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Poi mi scatto una foto con un pezzo di affresco sullo sfondo e la allego al messaggio. A
dispetto delle notti insonni e dei miei turbamenti, il restauro sta procedendo bene. Sarà
che con il tempo mi sento più sicura, sarà
che l’esperimento di Leonardo ha funzionato
(perché ha funzionato, non posso non dargli
questo merito), sarà che a forza di provare le
cose prima o poi riescono… insomma sembra
un miracolo, ma il melograno oggi ha finalmente assunto la sfumatura giusta, quella
che rincorrevo da giorni.
«Stiamo battendo la fiacca qui…» Una
voce familiare mi arriva improvvisamente
alle spalle. Mi volto e trovo Gaia sulla porta,
la borsa firmata che penzola da un braccio e
il passo sicuro sui soliti trampoli.
Non è possibile! Nonostante tutte le raccomandazioni e le minacce è tornata alla carica. Le ho raccontato l’imbarazzante epilogo
della nostra bravata e le ho detto di non farsi
più vedere da queste parti, e invece eccola di
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nuovo qua con la sua solita espressione
sfrontata, di chi non ha nulla da temere.
Impugno il pennello imbrattato di tempera
e glielo punto contro: «Vade retro, Satana»
le intimo. Poi realizzo: «Come cavolo hai
fatto a entrare? Non era chiuso il portone?».
«Ho corrotto il custode sotto.» Gaia mi fa
l’occhiolino. Niente, anche il buon Franco si
è lasciato comprare dalle sue moine.
«Esci immediatamente! Sto lavorando, ho
mille cose da fare e non voglio casini» le dico
tutto d’un fiato, agitando il pennello contro
la sua camicia di seta.
Gaia alza le mani e sfodera quel sorriso
con cui pensa di conquistare il mondo: «Ele,
dài… tante storie per un collirio?».
«Per un collirio?! Sono le cazzate che mi
fai fare…» Rimetto a posto il pennello, ma mi
accorgo subito che ho fatto un errore: ai suoi
occhi deve sembrare una resa. Infatti si avvicina in cerca di complicità.
163/564
«Andiamo… a me non sembra così grave.»
Mi concentro a pulire alcuni strumenti per
recuperare professionale autorevolezza, lei si
china a cercare il mio sguardo. Sembra che la
mia insofferenza la diverta. «Comunque, se
Leonardo non se l’è presa, vuol dire che le
nostre attenzioni sotto sotto gli fanno piacere, no?»
Fingo di riflettere con una mano alla
tempia: «Oppure che ci considera due povere
sfigate su cui non vale la pena infierire».
«Mai sottovalutare il narcisismo di un
uomo» replica Gaia, con aria saputa. «A tutti
piace essere corteggiati…»
«Questa sembra presa dal manuale dello
stalker.»
Leonardo si materializza proprio in quel
momento come una divinità calata dall’alto
in una tragedia greca, solo che indossa jeans
stracciati e giubbino nero in pelle. A Gaia
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s’illuminano gli occhi, a me vanno a fuoco le
guance.
«Buongiorno» ci saluta cordialmente: non
sembra essersi accorto delle nostre reazioni,
entrambe preoccupanti, ognuna a suo modo.
«Buongiorno» rispondiamo in coro.
Leonardo dà un’occhiata all’affresco e mi
sorride complice. «Quello ha tutta l’aria di
un melograno…»
«Già» annuisco. «A forza di provare e riprovare…» dico rimanendo sul vago. Evito
qualsiasi accenno all’“esperimento”, salvandomi preventivamente dalla curiosità di
Gaia. Poi mi metto a raschiare con energia il
colore da una coppetta, sperando di sembrare molto indaffarata.
Leonardo si rivolge a Gaia: «Vieni spesso a
trovare Elena?».
«In realtà passavo di qua…»
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“Viene spesso a trovare te” penso, continuando a infierire sul colore secco nella
coppetta.
Nonostante mi tenga in disparte, la conversazione tra i due decolla senza intoppi.
Leonardo sembra gratificato dalla presenza
di Gaia, sicuramente ha capito di essere il
suo bersaglio. Forse ha ragione lei, il mondo
è pieno di bellocci egocentrici che vogliono
solo essere adorati.
A un tratto, però, si volta verso di me. «Dimenticavo di dirvi una cosa importante» si
passa una mano tra i capelli: «Siete tutte e
due invitate alla serata d’inaugurazione del
ristorante».
Io smetto di grattare, impiego una frazione
di secondo a risintonizzarmi sui loro
discorsi.
«Ah, sì? E quando sarà?» chiede Gaia
trepidante, ostentando il suo tono più
disinvolto.
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«Tra una settimana esatta. Mercoledì
prossimo.»
Certo, ci manca solo questa. Apro la bocca
per dire “Mercoledì prossimo? Peccato,
siamo già impegnate…”, ma Gaia mi precede:
«Grazie,
accettiamo
volentieri!
Vero,
Elena?». Senza nemmeno guardarmi si affretta a estrarre il BlackBerry dalla borsa.
«Guarda, me lo segno subito sul calendario.»
Facendo volare le dita sui tasti aggiorna
l’agenda e poi, colpo da maestra, ne approfitta per chiedergli il numero. «Nel caso
ci fosse qualche contrattempo all’ultimo
minuto…» specifica con un sorrisetto
malizioso.
È talmente uno spettacolo vederla in
azione che resto ipnotizzata e quasi mi dimentico di arrabbiarmi con lei. Gaia è il mio
modello irraggiungibile in fatto di tecniche di
rimorchio. Subito dopo vengono le gatte di
Clelia.
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Leonardo, quasi avesse intuito la mia
perplessità, mi scocca un’occhiata d’incoraggiamento: «Sia chiaro, vi aspetto tutt’e due».
Io annuisco ma non ci credo mica tanto.
Mi fissa serio.
«Ho visto quanto ti appassiona il tuo lavoro, Elena. Ed è così anche per me. Per
questo ci terrei a farti vedere quello che faccio.» Lo dice come se gl’importasse davvero.
Non riesco a non credergli. Sono un po’ sorpresa, quindi cerco di darmi un tono.
«Non so… è che in questo periodo ho tanto
da fare…»
Leonardo torna a rivolgersi a Gaia, anche
se continua a guardare me: «Conto su di te,
Gaia. Trova il modo di trascinartela dietro. A
mercoledì, ragazze». Quindi se ne va, lasciandoci in due stati d’animo diametralmente opposti: entusiasta lei, confusa e
turbata io.
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«Perché gli hai detto di sì?» le ringhio contro, ritrovando tutte le buone ragioni per
avercela con lei.
«Perché non c’era motivo di dire no.»
Semplice e lineare, come solo lei sa essere.
Incrocio le braccia sul petto.
«Io non vengo, sappilo. Non mi faccio invitare a cena dopo la figura di merda dell’altro giorno.»
«Ancora con questa storia?» sbuffa Gaia.
«Dài, Ele, secondo me Leonardo se n’è già
scordato. Passiamo una bella serata,
mangiamo bene, magari conosciamo gente
interessante…»
«Nemmeno se mi preghi in aramaico.»
«Guarda che se non vieni tu non vado neppure io.»
«Morirò dal dispiacere!»
«E mi fai perdere un’occasione così?
Bell’amica che sei! Io per te lo farei…»
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«Non cominciare col ricatto morale.»
Gaia lancia un’occhiata al suo orologio con
il quadrante tempestato di Swarovski.
«Senti, adesso devo andare. Tu intanto riflettici, poi ne riparliamo.»
Non capisco per quale misteriosa interferenza il mio “decisamente no” arrivi alle sue
orecchie come un “probabilmente sì”.
«Ok, basta che ti togli dalle scatole» la liquido senza più ribattere. Per quanto mi riguarda, la conversazione finisce qui.
«Hai davvero detto ok? Ho sentito bene?
Sì, hai detto ok!» Gaia mi punta contro l’indice laccato di rosso.
«No, volevo dire…»
Non mi dà modo di replicare.
«Ormai l’hai detto. Me lo devi e basta. Ti
chiamo!» Mi soffia un bacio con la mano e
corre via quasi volando con i suoi tacchetti
zebrati sul pavimento antico.
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È ufficiale: la odio.
6
«Il rosso ti dona di più» dice Gaia, spingendomi davanti allo specchio del soggiorno.
«Guardati, sei stupenda!»
Mi alzo sulle punte e faccio mezzo giro su
me stessa, ma la mia immagine riflessa mi fa
storcere il naso. Non sono convinta. Questa
sera ci sarà la tanto attesa – almeno da Gaia
– inaugurazione del ristorante di Brandolini:
è per questo che sto girando per casa mezza
nuda alla disperata ricerca di qualcosa di decente da mettermi. Gaia mi sta appresso da
due ore, è sfiancante. Nel timore che ci
ripensassi all’ultimo momento, è piombata
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da me già vestita, truccata e pettinata di tutto
punto, trascinandosi dietro un trolley e due
maxibag piene di abiti e accessori. E ora vorrebbe impormi il look che lei ha scelto per
me.
«È troppo corto, Gaia» protesto, puntando
le dita sulle mie cosce. «Mi sembra di non
avere niente addosso… e poi questo rosso è
un pugno nell’occhio.»
Gaia scuote la testa e alza gli occhi al cielo:
«Sei senza speranza. Tu di moda non capisci
proprio niente…».
«Dài, fammi riprovare il Gucci nero» le
dico, preparandomi all’ennesimo scontro
frontale con lo specchio.
Gaia si muove felina sui sandali turchese,
rigorosamente in tinta con il minidress di raso che indossa, e va a prendere il mio vestito
nell’altra stanza. «Tieni» sbuffa, lanciandomi
l’abito addosso. «Fa’ come vuoi. Se ci tieni a
passare inosservata…»
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Mentre lei è in bagno a ritoccarsi il trucco,
mi sfilo il vestito rosso e, allontanandomi
dallo specchio per evitare un incontro ravvicinato con il mio corpo pallido e poco tonico,
mi rimetto velocemente il nero. Un’occhiata
da lontano a figura intera, una da vicino a
mezzo busto, un giro completo sul posto. È
lui, ci siamo. Mi convince di più, anche se
credo che nulla potrebbe mai starmi davvero
alla perfezione.
«Però è un po’ troppo scollato!» protesto a
voce alta per farmi sentire da Gaia, riaggiustandomi il corpetto sul seno.
«Assolutamente no» ribatte lei, facendo
capolino dalla soglia del bagno. «Ti sta benissimo. Il Prada rosso era meglio, ma anche
questo Gucci non scherza…»
Appoggio le mani sui fianchi e tiro in dentro la pancia. La mia dieta a base di pizza e
surgelati non è proprio il massimo per la linea, devo ammetterlo. «Sarei curiosa di
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sapere dove li hai recuperati. Questi vestiti
costeranno una follia.»
«Semplice, li ho noleggiati su un sito» ammicca lei.
Lancio un’ultima occhiata allo specchio assassino e cerco di autoconvincermi: con
questo vestito sto bene, sono carina… dài, almeno presentabile.
«E il reggiseno? Ce ne vorrebbe uno senza
spalline.» Guardo Gaia sperando che trovi la
soluzione.
«Ma per chi mi hai presa, per una dilettante?» Gaia estrae da una delle due maxibag
un push-up a fascia in pizzo nero e me lo
sventola davanti agli occhi.
Lo indosso e come per magia il mio seno
acquista una taglia. Mi guardo dubbiosa: non
sarà un po’ volgare il pizzo in vista?
«Tieni.» Gaia mi sistema sul collo una
sciarpina di seta bianca. «Ma non ti coprire
proprio tutta, solo un po’.»
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Sorrido. Se capisce le sue clienti come
capisce me, è la personal shopper più diabolica del mondo.
«E adesso passiamo alle scarpe» continua
frugando in una delle borse. I piedi cominciano a farmi male al solo pensiero.
«Paciotti in raso nero, tacco dodici» sentenzia Gaia mostrandomi un paio di trappole
a forma di sandali. «E non si discute.»
«Sì, vabbè…» una risata isterica mi esce di
bocca, «poi mi serve un deambulatore per
camminare.»
«Su, Ele, per una sera non muori!»
Tiro un lungo sospiro. «D’accordo, però
me li metto un secondo prima di uscire. Se
posso evitare un po’ di martirio…»
«Fai come vuoi, ma così non avrai tempo
per abituartici… peggio per te!» E intanto estrae dal trolley uno spaventoso armamentario da make-up artist.
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«Adesso, cara mia, trucco e parrucco» dice
con un sorriso trionfante.
La guardo sospettosa.
«Vacci piano, però…» le ordino. Di solito
non mi trucco molto, forse perché non ho
mai imparato veramente come si fa e le
poche volte in cui mi cimento ho sempre
l’impressione di fare danni. Eppure le regole
base sono le stesse del restauro: prima si pulisce bene, poi si prepara il fondo, quindi si
stende il colore e alla fine si lucida. Solo che
farlo su una parete è un conto, sul mio viso è
tutta un’altra storia.
Gaia inizia a passarmi il correttore sotto gli
occhi, poi prende il fondotinta a lunga tenuta
e lo picchietta con una piccola spugna in lattice. Di lei mi fido. Ne sa abbastanza in materia per realizzare un buon lavoro.
Mi studia il viso, prendendomi il mento tra
le dita.
«Hai un piegaciglia?» domanda.
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«Secondo te?»
«Non ti ho mica chiesto se hai un vibratore, eh!»
«Qui sei tu l’esperta…»
«E infatti ce li ho tutti e due» rivendica
con orgoglio. «Come li vuoi i capelli?» continua, mentre mi spolvera gli zigomi di fard.
«Riga di lato e via.» Non ci tengo a farmi
torturare con mollette e forcine, anche perché poi è mal di testa assicurato.
«Mmm… però provo a farti qualche onda
per ammorbidire il caschetto. Stasera dovrai
sembrare una vera diva.»
Non ho più scampo.
Dopo due ore e mezza di preparativi,
siamo finalmente pronte. Gaia è già scesa in
campo a fumarsi una sigaretta. Infilo un
trench leggero, recupero uno scialle di seta,
la pochette argento e incastro i sandali sotto
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il braccio. Spengo le luci, chiudo a chiave la
porta e scendo le scale scalza.
Appena mi vede sbucare dal portone, Gaia
spegne il mozzicone sotto il plateau. Allaccio
le trappole ai piedi e andiamo. Che dio mi
assista!
Sono le nove e mezza di sera e in campo
San Polo, all’ingresso del ristorante, c’è già la
fila. Il party è blindato, nel senso che solo chi
ha ricevuto l’invito può entrare. Per Gaia
questo è un buon segno, significa che dentro
c’è solo gente selezionata. Io non lo so, non
sono esperta di mondanità: la mia unica
speranza per questa serata è di non inciampare e franare rovinosamente addosso a
qualcuno.
Arrivate davanti all’arco dell’ingresso,
mostriamo gli inviti al buttafuori in doppiopetto nero. Sembra un agente dei servizi segreti, capelli rasati e auricolare nell’orecchio.
Dà un’occhiata distratta agli inviti e subito
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dopo scosta la cordicella rossa che chiude il
passaggio.
«Prego» dice, lasciandoci entrare.
«Grazie» rispondiamo in coro. Gaia mi
strizza l’occhio, già eccitata: è nel suo elemento, lei.
Superato il primo varco, percorriamo il
tappeto rosso steso nella corte interna illuminata da fiaccole e lumi. Il flash di un fotografo quasi mi acceca. Prego solo di non essere entrata nello scatto, perché proprio in
quel momento mi stavo sistemando goffamente la chioma da diva. Maledico Gaia per
avermi fatto le onde e soprattutto per averle
riempite di lacca. Le dita ci restano incastrate dentro senza scampo.
Due modelle fasciate in impeccabili tubini
neri spuntano i nostri nomi dalla lista degli
ospiti e ci augurano di trascorrere una buona
serata.
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All’interno l’ambiente è caldo e suggestivo,
arredamento da casa patrizia veneziana con
dettagli arabeggianti. Il ristorante è disposto
su due piani, quello inferiore è circondato di
vetrate che si aprono su un giardino interno.
La musica di sottofondo è morbida, accoglie
senza essere invadente.
Una schiera di camerieri si aggira tra la
gente reggendo vassoi colmi di calici di
champagne. Ne prendo uno per bagnarmi
appena le labbra e dopo pochi istanti lo
metto in mano a Gaia, che si è già scolata il
suo.
Sbuchiamo in giardino, dove restiamo letteralmente incantate: è una festa per gli occhi, questo posto, gli ospiti si muovono tra
fiaccole e lanterne di carta sospese a
mezz’aria, che rendono l’atmosfera davvero
magica. Studio le persone intorno ai tavoli,
notando un’esplosione di chiffon, seta, pizzo
e taffetà. Solo i continui flash dei fotografi
provano a rompere l’incantesimo. C’è anche
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una piccola troupe televisiva: la giornalista,
microfono alla mano e cameraman al seguito, si aggira tra la gente per raccogliere
qualche commento entusiasta sulla serata.
Viene anche da me, specificando che lo speciale andrà in onda su una nota emittente tv,
ma io le faccio capire che non è il caso. Solo
al pensiero stavo già diventando paonazza.
Gaia è su di giri. Saluta persone a me ignote, sfoderando a destra e a manca sorrisi
ammiccanti.
«Scusa, ma li conosci?» le domando.
«Un po’» risponde. «Alcuni solo di vista,
ma è sempre bene farsi notare.»
Scuote la testa rassegnata e mi rivolge uno
sguardo come a dire “devo proprio insegnarti
tutto”.
In effetti, da lei avrei da imparare,
ammesso che io voglia davvero allargare i
miei orizzonti sociali. Mi guardo un po’ in
giro e studio la situazione. Ma in fondo cosa
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c’entro io con questa gente? Dire che mi sento un pesce fuor d’acqua forse è solo un eufemismo. Due uomini poco distanti ricambiano il mio sguardo con un sorriso. Cos’avranno da ridere? Forse sono molto spettinata, o
ho del dentifricio sulle labbra… mi nascondo
dietro un cameriere facendo finta di non
vederli. All’improvviso mi ricordo di avere
addosso davvero poca stoffa e mi sistemo lo
scialle di seta sulle spalle. Gaia intanto è
sparita.
Rientro all’interno per cercarla e intravedo
Jacopo Brandolini da lontano: finalmente un
volto familiare. Non sono mai stata tanto felice di vederlo. Sta conversando animatamente con un gruppetto di persone, ma mi
ha riconosciuta e ci salutiamo con un cenno
della mano.
Sto per raggiungerlo, quando un boato di
applausi si leva dal pubblico. Le persone che
erano ancora in giardino si affrettano a rientrare e tutti si voltano verso una pedana al
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centro della sala, dove un uomo elegante in
smoking annuncia la performance: «Signore
e signori, ho l’onore di presentarvi un uomo
che ha fatto della cucina un’arte, uno
spettacolo per gli occhi come per il palato: lo
chef Leonardo Ferrante».
Le luci si abbassano, l’atmosfera si surriscalda nell’attesa. Le note di un violino
riempiono l’aria mentre dei fari azzurrognoli
si accendono su un soppalco dove compare
una bellissima violinista in abito rosso. Con
le splendide mani affusolate, fasciate in
guantini di pizzo nero, impugna un violino
elettrico in vetro trasparente che s’illumina
di luce blu al tocco dell’archetto. Riconosco
quell’abito e anche la donna. Forse è solo
una mia fantasia, ma mi sembra la stessa che
ho visto uscire dal palazzo qualche tempo fa
insieme a Leonardo. La diva del motoscafo.
È lei, ne sono sicura.
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«Ele, hai visto?» Gaia ricompare come per
magia al mio fianco. «La tipa che suona è
famosa.»
«Ah, sì?»
«È Arina Novikov, la violinista russa. Ha
fatto un concerto all’Arena di Verona sabato
scorso.»
«Be’, è lei la tipa che ha passato la notte
con Leonardo» le dico pregustandomi la sua
sorpresa.
«Eh?»
«La donna del motoscafo.»
«Davvero?»
«Sì sì, sono sicura.»
«Cavolo!» Gaia sembra divertita, il fatto di
dover competere con questa specie di dea
non la preoccupa affatto, anzi la eccita. Lei è
fatta per le sfide.
Ora la violinista sta attaccando l’inconfondibile tema dell’Inverno dalle Quattro
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stagioni di Vivaldi ed è semplicemente struggente. Al contrario di Gaia io non riesco a
guardarla senza pensare che è cento volte più
bella e più talentuosa di me.
Ma ora gli occhi di tutti si rivolgono al
centro della sala, rapiti da una nuova apparizione. Leonardo guadagna la sua postazione
mentre scrosciano gli applausi. Indossa una
giacca nera con collo alla coreana, ornata da
bordure e bottoni bianchi. Arrotolata sulla
fronte, una fascia di seta bianca contiene i
suoi capelli fluenti, facendolo sembrare un
guerriero orientale. È davvero una presenza
magnetica.
Un faro giallo lo illumina da dietro e due
fontane di fuoco si accendono ai lati della
scena. Sul crescendo di Vivaldi la performance ha inizio. Gaia mi fa segno di avvicinarci per avere una visuale migliore e, sgomitando tra la folla, riusciamo ad avanzare di
qualche metro. Ora siamo proprio sotto di
lui.
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Leonardo impugna il coltello e inizia a
tagliare a fette sottilissime un trancio di
pesce spada, ancorandolo sul ripiano di
marmo con una mano. Mi è familiare quella
sicurezza nella presa e il ricordo vola subito a
quando mi ha tenuta aggrappata alla sua
schiena affondandomi le dita nelle cosce.
Mentre il ritmo della musica aumenta,
Leonardo cosparge le fette con quelli che da
dove ci troviamo hanno tutta l’aria di essere
semi di papavero. Scendono impalpabili
dalle sue dita sicure e si depositano sulla
carne rosa del pesce, punteggiandola di
minuscole gocce nere. Poi Leonardo
sminuzza un peperone rosso fino a farne
polvere iridescente e con la precisione e la
velocità di una macchina taglia alla julienne
finocchio, zucchine e sedano.
Resto quasi senza fiato: è un maestro. Mi
giro un attimo verso Gaia, cercando la sua
complicità, e mi accorgo che anche lei è
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stregata, gli occhi fissi su di lui, la bocca socchiusa in un’espressione di stupore.
Leonardo adagia le fette di spada in tanti
bauletti di pasta brisée, decorandoli con l’impasto di verdure e briciole di buccia
d’arancia. È estremamente concentrato,
sicuro dei propri gesti, la mascella contratta,
le vene in evidenza sulle tempie. Plasma e
trasforma la materia con mani d’artista, la
sua è a tutti gli effetti un’arte, le sue creazioni
sono piccoli capolavori da ammirare e, non
ho dubbi, da gustare. Leonardo seduce con il
cibo e ne è consapevole, lo usa per ammaliare i sensi e la mente. Per un istante incontro
i suoi occhi scuri e ho l’impressione che mi
rivolga un impercettibile sorriso. Non so se è
solo la mia immaginazione, ma un brivido di
piacere mi solletica la nuca.
La musica è ora sul crescendo finale.
Leonardo adagia su un tagliere degli scampi
battuti a crudo, poi alcuni filetti sottili di ricciola. Lavora la polpa del pesce come se
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avesse un fluido tra le mani, fino a formare
tanti piccoli cuori divisi a metà. Infine cosparge le rotondità con fiori di zagara, pepe e
semi di sesamo. Tutto viene poi disposto
scenograficamente su tre eleganti piatti da
portata, mentre sull’ultima nota di violino
Leonardo rivolge un sorriso appena abbozzato al pubblico. Parte subito l’applauso,
potente e prolungato. Leonardo ci ha conquistati. Tutti.
Finita la performance, la gente si disperde
nel giardino, dove la cena viene servita sui
tavoli da buffet. Insieme a Gaia seguo la
massa, avventurandomi alla ricerca di qualche prelibatezza tra finger food dalle forme e
colori più vari. Davanti ai nostri occhi un trionfo di stravaganti, geniali pietanze in miniatura, destinate a essere prese con due dita e
gustate in un solo boccone. Penso al tempo
che ci è voluto a prepararle e a quanto velocemente verranno consumate. In fondo è
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solo questo che le differenzia da un’opera
d’arte: sono il frutto di una mente creativa e
del lavoro sapiente delle mani, ma non sono
fatte per durare.
«Leonardo è stato magnifico» commenta
Gaia, addentando un filetto di salmone in
mantello di cozze.
«Incredibile… Hai fatto bene a trascinarmi
qui» rispondo, «non avrei mai immaginato
uno spettacolo così.»
Passo in rassegna gli assaggi, ma mi rendo
conto che, per quanto deliziosi a vedersi,
sono un affronto al mio credo vegetariano.
Cicale di mare ripiene di salmone marinato,
ostriche su gelatina di spumante con salsa
allo zenzero, crostini di pane con foie gras e
petto di piccione. Belli, stupendi, forse
buoni, ma non per me. Mi limito ad assaggiare le uniche due proposte vegetariane:
una cialda di parmigiano con radicchio e
castagne, e poi le coste di sedano verde con
robiola, pere e noci. Comunque, come mi
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succede quando non sono troppo a mio agio,
non ho molta fame. E poi la performance di
Leonardo mi ha lasciata, non so perché, con
lo stomaco stretto.
Gaia mi prende per un braccio e mi chiede:
«È quello laggiù Brandolini?».
Lo individuo accanto a due bionde che si
spendono in sorrisetti licenziosi e occhiate
feline. «Sì, è lui. Sempre accerchiato da
donne, il conte.»
«Però… non è male» commenta Gaia.
La guardo per controllare se è seria. Lo è.
«Ha qualcosa di particolare, si vede che ha
classe. Un altro che mi avresti dovuto
presentare… ma se aspetto te…»
Lo osservo cercando di capire cosa ci possa
vedere in lui, ma mi rendo conto che non
sono obiettiva: Brandolini è il mio datore di
lavoro e, rigida come sono io in queste cose,
non riesco a considerarlo sotto altri punti di
vista. All’improvviso alle sue spalle compare
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Leonardo. Si è tolto la fascia di seta dalla
fronte e al posto della divisa da chef indossa
una delle sue camicie di lino stropicciato, bianca. Jacopo gli stringe la mano e gli dà
un’amichevole
pacca
sulla
spalla,
complimentandosi.
«Ci ha viste?» domanda Gaia, piazzandosi
davanti a me e dandogli la schiena.
Lo sbircio da sopra la sua spalla mentre
parla con il conte e il suo harem.
«Non mi pare.»
«Che dici, andiamo a salutarli?»
«Aspettiamo che si liberi, magari.»
Gaia beve impaziente dal calice. «Mica
vogliamo farci rovinare la piazza da quelle
due…»
«Aspetta, le hanno salutate, stanno venendo verso di noi» bisbiglio.
Leonardo avanza nella nostra direzione,
precedendo Brandolini. Saluta prima Gaia –
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lei si volta fingendo sorpresa, è ufficialmente
il mio mito – poi viene da me e mi bacia sulle
guance. È la prima volta che succede, registro il ruvido della sua barba rossiccia e il
tocco fuggevole delle dita su un fianco.
«Complimenti, è stata un’inaugurazione
spettacolare» dico al conte stringendogli la
mano.
«Tutto merito del grande chef.» Brandolini fa un sorriso soddisfatto indicando
Leonardo, poi punta lo sguardo su Gaia,
squadrandola dalla testa ai piedi.
Leonardo interviene tempestivo: «Lei è
Gaia, la nostra pr» e mi toglie così
dall’impiccio di una nuova presentazione.
«Piacere, Jacopo» il conte le dà la mano e
abbozza una specie d’inchino.
«Piacere» ammicca Gaia.
«Quindi ti occupi di eventi…» dice Brandolini, palesando un vivo interesse. Non
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capisco perché a Gaia dia subito del tu e a me
continui a dare del lei.
«Sì, io e la mia socia abbiamo un’agenzia.
È cominciata un po’ per gioco ma poi è diventato un vero e proprio lavoro.» Gaia domina la scena sicura.
«Sono certo che lei potrebbe esserti di
grande aiuto, Jacopo» interviene Leonardo.
«Perché non le racconti dei tuoi progetti per
promuovere il locale?»
Il conte coglie la palla al balzo e si mette a
parlare fitto con Gaia, che sembra piuttosto
gratificata dalle sue attenzioni, anche se continua a lanciare occhiate in direzione di
Leonardo. Lui intanto mi si avvicina e mi
avvolge con lo sguardo. «Sei molto bella
stasera» dice con voce morbida.
«Grazie» mi limito a rispondere, cercando
di capire se è sincero o se è pura cavalleria.
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«Anche se» si accarezza il mento, «devo
dire che la tuta da lavoro ti dona
altrettanto.»
«Oddio, non direi proprio…»
«Credimi. Non sono esattamente il tipo di
uomo dal complimento facile.»
Gli credo, una spolveratina all’ego non fa
mai male. Per un momento dimentico
perfino i piedi doloranti e cerco di darmi un
tono raddrizzando la schiena e aprendo le
spalle.
La conversazione tra Gaia e Jacopo intanto
si è fatta sempre più vivace, i due ridono e si
scambiano sguardi d’intesa. Sembra si conoscano da una vita. A un tratto, però, un
cameriere si avvicina a Brandolini e gli sussurra qualcosa all’orecchio, lui si volta
prontamente verso Leonardo e lo afferra per
un braccio. «Leo, dobbiamo andare. Ci aspettano i Zanin per discutere dei vini.»
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Ecco, il mio momento di gloria è già finito.
Mi sgonfio come un palloncino bucato.
«Ragazze, sono mortificato» si scusa il
conte, «ma il dovere chiama. Però ci vediamo
sicuramente più tardi» e un’occhiata eloquente si posa sulla scollatura di Gaia.
Dopo che se ne sono andati, Gaia mi tempesta di domande su Leonardo. Vuole sapere
per filo e per segno cosa ci siamo detti.
«Ci stava provando con te?» mi domanda
alla fine. Ecco dove voleva arrivare.
«Non dire scemenze.»
«Ele, ti mangiava con gli occhi!»
«Figurati!»
«Tranquilla, non ci resto mica male…
Primo, non sono una tipa gelosa, secondo,
posso sempre consolarmi con il conte» e mi
fa l’occhiolino.
«Come sei magnanima.»
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«Per un’amica questo e altro» sorride,
sorniona. «Comunque Jacopo è davvero un
bel tipo, mi piace.»
Se lo dice lei…
Ma davvero Leonardo potrebbe essere interessato a me? Se l’ha notato anche Gaia,
forse… No, probabilmente l’ha detto solo per
incoraggiarmi.
«Ele, hai il rossetto un po’ sbavato.»
«Vado in bagno a rimetterlo, mi
accompagni?»
«No, ti aspetto seduta qui» si accomoda su
una poltroncina sotto il gazebo. «Mi gira un
po’ la testa, mi sa che ho esagerato con lo
champagne.»
«Sicura che non ti serve aiuto?»
«Sicura, vai» e mi spedisce via con uno
spintone.
«Ok, però tu non ti muovere.»
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«Tranquilla, non ne avrei la forza» sorride
lasciando scivolare le braccia lungo i
poggioli.
Quando torno dal bagno, ovviamente Gaia
è sparita. La cerco tra la folla, in giardino, in
mezzo ai tavoli, poi dentro, persino al piano
superiore, ma niente… sembra essersi volatilizzata. Alla fine torno in giardino e mi
rassegno ad aspettare. Prima o poi dovrà
passare di qua, mi dico. Dopo qualche
minuto, mi siedo, estraggo l’iPhone dalla
pochette e le invio un sms minatorio. Poi
provo a chiamarla, ma il suo telefono è
spento. Chissà dove si sarà cacciata! E con
chi, soprattutto…
Mentre continuo a cercarla con lo sguardo,
Leonardo all’improvviso si materializza. Si
siede accanto a me e mi guarda con occhio
indagatore.
«Allora, ti è piaciuta la serata?»
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«Sì, moltissimo.» Mi tiro giù il vestito cercando di convincerlo a fare il proprio dovere:
coprirmi.
«Hai mangiato?»
«Be’, qualcosa…»
«Qualcosa?» Fa una faccia scandalizzata.
«Mmm… è che sono vegetariana. Da
anni.»
«Ah.» Sorride. Cosa ci sarà di così divertente nel fatto che sono vegetariana?
Cerco di deviare il discorso. «Mi è piaciuto
lo spettacolo, sai? Le tue creazioni sembrano
opere d’arte. Così belle che quasi dispiace
mangiarle.»
Lui piega la testa di lato. «E chi l’ha detto
che una cosa bella non può essere
mangiata?» butta lì guardandomi con occhi
strani, che nascondono qualcosa: «Più una
cosa è bella e più mi viene voglia di
mangiarla…».
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Perché ho l’impressione che si riferisca a
me? All’improvviso mi prende una mano e si
alza.
«Vieni, voglio farti assaggiare qualcosa di
speciale» dice mentre mi trascina qualche
metro più in là, vicino a un tavolo su cui sono
appoggiate diverse varietà di rum e
cioccolato.
«Queste le ho appena fatte.» Leonardo afferra da un vassoio una pralina di cioccolato
finemente incisa con motivi floreali, sembra
un piccolo gioiello. La avvicina alla mia
bocca.
«Avanti» mi esorta, con uno sguardo che
uccide.
Apro la bocca, sento il cioccolato spezzarsi
sotto i denti e liberare una dolce crema dalle
note agrumate. Trattengo con la lingua quel
gusto meraviglioso, che sprigiona una voluttà così intensa da risuonare in ogni parte del
corpo.
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«È buonissimo.» Guardo Leonardo completamente disarmata. Credo che sul viso mi
sia rimasta un’espressione da stordimento
postorgasmo e mi auguro che non sia troppo
evidente.
«Ci ho messo qualcosa che ormai dovresti
conoscere bene» mi confida lui con un sorriso malizioso. Spalanco gli occhi per la sorpresa, credo di capire che cosa intenda.
«Eh, già… succo di melograno. Mescolato
a estratto di arancia e fiori di zagara» e mi
passa il pollice sul labbro superiore, probabilmente per togliere un residuo di cioccolato.
Oddio, mi sa che ha ragione Gaia, ci sta
provando. All’improvviso mi ricordo di lei e
per smorzare la tensione frugo nella pochette
alla ricerca del cellulare. Cerco di chiamarla,
ma ha ancora il telefono spento.
Leonardo mi guarda accondiscendente.
«Se stai cercando Gaia, l’ho vista andare via
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con Jacopo» mi avverte. «E non credo che
tornerà» aggiunge divertito.
«Quindi mi ha lasciata qui da sola?»
«Non sei da sola, sei con me» mi corregge
corrugando le sopracciglia. Se voleva tranquillizzarmi non c’è riuscito. Una parte di me
è lusingata dal suo interesse, ma l’altra, terrorizzata, vorrebbe fuggire all’istante.
«Comunque, si è fatto davvero tardi»
osservo con un sorrisetto nervoso, «è meglio
che vada.»
«Ti accompagno per un pezzo.»
«Non serve, avrai sicuramente da fare.»
«Possono sopravvivere anche senza di
me» liquida la questione con un gesto della
mano. «E poi ho proprio voglia di fare una
passeggiata.» Ha negli occhi la soddisfazione
di un predatore che stringe tra i denti la sua
vittima.
Non ho scampo.
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Percorriamo un lungo tratto di strada in
silenzio, inoltrandoci per calli che conosco a
memoria, in cui mi muovo con la sicurezza di
un gatto nonostante il buio. I piedi mi fanno
male, ma cerco di non darlo a vedere imponendomi un’andatura dignitosa.
La strada è deserta e dai canali risale un
vapore denso che invade le narici e si insinua
sotto pelle fino alle ossa. Poi, a un tratto,
come se qualcuno avesse finito di costruirla
in quell’attimo, ci troviamo di fronte alla basilica dei Frari.
«Lì dentro è conservato il dipinto di Tiziano che mi piace di più» dico, giusto per
riempire un silenzio che mi mette a disagio,
indicando la chiesa con un cenno del mento.
«Ogni tanto mi rifugio qui a guardarlo… non
so perché ma sono convinta che mi possa
ispirare.»
«Dài, entriamo, sono curioso» propone
lui.
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«Figurati, non si può. È chiusa di notte.»
«Non penso sia un problema.» Nella sua
voce non c’è ombra di esitazione.
In un secondo Leonardo individua una
porta secondaria che conduce alla sagrestia
e, senza troppo sforzo, la apre. S’intrufola
dentro prendendomi per mano e trascinandomi dietro di sé. Perché non riesco a dirgli
mai di no? Ho paura, potrebbe scattare l’allarme o potremmo essere visti da qualcuno.
Insomma, è una cosa proibita. Sono
elettrizzata e insieme molto spaventata.
Dalla sagrestia sbuchiamo nella navata laterale e raggiungiamo l’altare centrale, dove è
posizionata la pala dell’Assunta. Dentro è
completamente buio, ma l’illuminazione
sopra la tela è rimasta accesa, insieme a una
telecamera di sicurezza – almeno così mi
sembra. Perfetto! Verrò arrestata per violazione di spazi consacrati.
204/564
«Ecco, il dipinto è questo» gli dico cercando di non pensarci.
«È enorme. Non me lo aspettavo così
grande.»
«Sì, è alto quasi sette metri.»
«È potente, c’è molto rosso» commenta
Leonardo con sguardo ammirato.
«Tiziano all’epoca aveva fatto un azzardo»
annuisco. «Nessuno aveva mai vestito di
rosso Maria che sale in cielo.»
«È il motivo per cui ti piace così tanto?»
«Non solo… è la tensione verticale che lo
attraversa tutto, dal basso verso l’alto» gli
spiego mimando l’andamento del quadro con
le mani. «Vedi quell’apostolo di spalle, che
tende le braccia verso la Madonna? Sembra
che la stia scagliando in aria e che dia il via al
suo moto ascensionale verso il cielo.»
«Quindi è questo che ci vedi.»
«Sì.»
205/564
Siamo spalla contro spalla e il contatto con
lui mi provoca uno sciame di brividi. Incontro i suoi occhi per un istante, ma mi volto
subito verso la pala e continuo a parlare.
«C’è un dettaglio interessante. Se noti, il
volto della Vergine non è del tutto illuminato
e ciò significa che non è ancora ascesa
all’Empireo: l’ombra è un richiamo al mondo
terreno, a cui la Madonna rimarrà legata
finché non avrà completato la sua salita.»
Leonardo annuisce e continua a osservare
il dipinto in silenzio. Forse gli interessa davvero quello che sto dicendo… Mi piacerebbe
sapere cosa gli sta passando per la testa –
perché è evidente che qualcosa sta pensando
– ma non oso chiedere.
«Adesso però andiamo» lo imploro,
«prima che arrivi qualcuno ad arrestarci.»
Una volta fuori, riprendiamo a camminare. Sono io a dettare il passo e la direzione,
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Leonardo mi scorta fiducioso e paziente
come se non avesse nient’altro da fare.
All’improvviso mi rendo conto che è rimasto
un po’ indietro; mi volto e lo vedo appoggiato
al parapetto di un ponte. Sta guardando una
gondola, piena di luci colorate. Lo raggiungo.
Mi accorgo solo adesso che non stava guardando la gondola: i suoi occhi sono attratti
dall’acqua.
«Chissà cosa c’è là sotto, ci hai mai
pensato?» mi chiede.
Guardo in basso anch’io e mi rendo conto
che in effetti non me lo ero mai domandato.
«Questa città è talmente impegnata a stare
a galla che uno non si preoccupa mai di cosa
ci sia, nel suo cuore profondo» rifletto a voce
alta.
Tace per qualche istante che mi sembra
lunghissimo, poi si gira verso di me e mi
domanda, in un sussurro: «Non ti piacerebbe scoprire cosa si nasconde al fondo
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di ogni cosa?». Adesso mi sta fissando con i
suoi occhi scuri, penetranti. Una luce ferina
gli attraversa lo sguardo, ma è solo un attimo
e poi, con un sorriso gentile, si stacca dalla
balaustra e si rimette a camminare.
Lo seguo un po’ turbata. La vicinanza di
quest’uomo, il modo in cui mi parla e mi
tocca, il suo profumo inebriante, tutto di lui
mi mette una strana agitazione addosso.
Siamo quasi arrivati a casa e già mi preparo
al momento in cui dovremo salutarci.
Proverà a baciarmi? L’immagine di Filippo
mi rimbalza come una pallina di gomma
nella testa, ma subito scompare, è come se
non riuscissi a trattenerla.
Poi mi dico che sto correndo troppo con la
fantasia. Forse Leonardo sta con quella, la
diva del motoscafo, forse stasera aveva solamente voglia di farsi una camminata e non
ha nessuna intenzione di baciarmi. Ma a essere sincera con me stessa, questa seconda
ipotesi mi lascia un po’ delusa.
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«La violinista è la tua fidanzata?» mi
sfugge di punto in bianco. Quasi non mi
rendo conto di averlo detto a voce alta.
Leonardo mi guarda e fa un mezzo sorriso.
«No, Elena… non sono uno da fidanzate.»
«Ah, capisco.» In realtà non capisco un bel
niente. Cosa significa che non è “uno da fidanzate”? Che vuole stare solo? Che non è
fatto per la vita di coppia? Per un attimo
m’illudo che mi dia qualche indizio per decifrare questa frase un po’ criptica, ma rimane in silenzio. E io mi guardo bene dal rivolgergli altre domande. Ho osato fin troppo.
Finalmente siamo sotto il portone di casa.
«Grazie, sono arrivata.»
«Di niente. Accompagnarti a casa sta diventando una piacevole abitudine» dice con
voce calda e musicale.
«Allora, ciao» mi avvicino di un passo.
Leonardo mi posa una mano sul viso intrecciandosi una mia ciocca di capelli intorno
209/564
a un dito. Sento il respiro spezzarsi. Sta
puntando i suoi occhi nei miei e con un po’ di
coraggio sostengo il suo sguardo. Poi la mia
attenzione precipita sulle sue labbra. Ho
voglia di sentirle sulle mie.
Ma lui abbassa le palpebre, sorride in quel
suo modo obliquo e lascia scivolare la mano
sulla mia spalla.
«Ciao, Elena, è stata davvero una bella
serata.»
Mi sfiora la fronte con un bacio leggero e
arretra di qualche passo, poi si volta e si allontana affondando le mani nelle tasche
della giacca. Resto a guardarlo stordita,
neanche avessi preso uno schiaffo.
Salgo le scale di corsa. Mi precipito in
casa, mi strappo il vestito di dosso e lo scaravento sul pavimento. Mi infilo una maglietta
a caso e senza nemmeno struccarmi mi rifugio a letto.
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La mia mente inizia a girare a vuoto e i
miei occhi contemplano il soffitto. Che stupida sono stata a pensare che uno come
Leonardo potesse interessarsi a una come
me. Sei una povera illusa, Elena! Eppure non
riesco a togliermi dalla testa certi suoi
sguardi, quel dito sulla bocca e quella mano
che affonda tra i capelli… Basta, Elena,
dormi. Altrimenti domani non ti alzi e l’affresco non lo finisci più.
Afferro l’iPod sul comodino e mi infilo le
cuffiette. È venuto il momento della musica
tibetana. A mali estremi… Di solito mi fa
piombare nel sonno più profondo.
’Notte, Elena. E smettila di pensare.
7
Stanotte ho dormito profondamente, come
non mi succedeva da tempo. Sarà stata la
nenia tibetana o la stanchezza accumulata
nei giorni scorsi, fatto sta che sono piombata
in uno stato di semicoma e mi sono risvegliata stamattina come se avessi viaggiato nel
tempo.
Appena ho aperto gli occhi, però, i pensieri
si sono ripresentati puntualissimi all’appello,
esattamente dal punto in cui avevano smesso
di tormentarmi ieri sera: Leonardo mi è precipitato addosso con tutto il suo carico di seduzione e inafferrabilità. Con grande
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autocontrollo mi sono imposta di liberarmi
di lui e di recuperare un minimo di lucidità.
Ora, mentre sono al lavoro, riguardando i
fatti a mente serena – si fa per dire – mi
rendo conto che ieri sera mi sono lasciata
suggestionare e trasportare come al solito
dalle mie fantasie: Leonardo mi ha solo trattata in modo molto galante. Che poi mi abbia
sedotta, anche senza volerlo, è tutta un’altra
storia. Una storia che devo togliermi subito
dalla testa. Quando passerà di qui, lo saluterò come tutte le mattine, come se quella
passeggiata notturna non ci fosse mai stata e
io non avessi provato nessuna delle emozioni
che purtroppo non riesco a impedirmi di
rivivere. Anche ora. Dovrò fare uno sforzo
immenso – sono o non sono una campionessa di autocontrollo? – ma Leonardo non se
ne accorgerà nemmeno perché lui, al contrario di me, non ci sta di certo pensando.
E adesso, Elena, concentrati sul tuo lavoro.
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Poso a terra gli attrezzi e guadagno il
centro dell’androne, a circa due metri di distanza dall’affresco. Ogni tanto devo fermarmi
a controllare da lontano la resa dei colori,
per capire se sto andando nella direzione
giusta. Punto lo sguardo sullo sfondo, poi lo
focalizzo sul melograno che, visto da qui,
sembra quasi tridimensionale. È venuto
bene, sono fiera di me.
Faccio due piccoli passi indietro e urto
contro qualcosa. Non faccio in tempo a girarmi che due mani potenti mi cingono da dietro. Leonardo! Un inconfondibile profumo
d’ambra mi riempie le narici mentre il mio
corpo aderisce al suo, imprigionato in una
dolce morsa.
Senza dire una parola, mi affonda il naso
tra i capelli e annusa il mio odore, poi si
china in avanti e mi deposita un bacio profondo sul collo. Il contatto ruvido della sua
barba mi solletica il viso e uno sciame di
brividi caldi si propaga sulla mia pelle, il
214/564
ventre s’infiamma per l’inatteso ed eccitante
tocco delle sue labbra. Sono stordita: non
avevo nemmeno il coraggio di sperarlo e invece lui mi vuole. Eccolo qui, è venuto a
prendermi.
Mi scioglie la bandana sulla nuca,
scagliandola a terra con un gesto violento.
Poi mi afferra con forza i capelli e sussurra
all’orecchio il mio nome.
«Elena…» La sua voce è intensa.
Mi sento avvampare e non ho la forza per
dire nulla. Sento che tutte le mie fantasie più
inconfessabili stanno per prendere corpo.
Ma lo voglio davvero?
«Abbiamo un problema…» Le sue labbra
premono sul mio orecchio.
Lo voglio…
Mi accarezza la guancia, sfiorandomi con
le dita fino al mento, poi lascia scivolare la
mano sulla zip della mia tuta, aprendola fino
all’altezza dei seni.
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Il mio respiro accelera, insieme al battito
del cuore.
«Un problema serio…» continua con voce
sempre più calda e sensuale. «Io ti voglio.»
Mi gira di scatto, come fossi una bambola
incapace di opporre resistenza. Silenziosa lo
assecondo, ma non appena incrocio i suoi occhi abbasso lo sguardo. Mi afferra il mento
con due dita, sollevandolo verso di sé. Poi mi
prende il viso, stretto tra le mani, e affonda
la lingua nella mia bocca. Sta baciando me.
Ora. Non è possibile.
Nessuno mi ha mai conquistata così. La
forza, la violenza di questo bacio mi fanno
girare la testa. Sto per perdere il controllo, lo
sento.
Senza abbandonare le mie labbra, con un
rapido gesto fa scendere tutta la zip e mi libera dalla salopette, che atterra tra tempere,
spugne e pennelli. Ho solo un secondo per
realizzarlo, ma è già troppo tardi, e poi mi
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ritrovo anch’io stesa su quel pavimento
sporco di polvere e intonaco, in mezzo agli
attrezzi da lavoro gettati alla rinfusa. Sembra
un sogno, ma è tutto reale: il freddo delle piastrelle, il calore del mio corpo e del suo, e
non c’è altro che io desideri in questo
momento.
Prima che possa rendermene conto,
Leonardo è a cavalcioni su di me. Mi afferra
entrambe le mani con una delle sue e mi
blocca i polsi sopra la testa con le dita, come
a impedirmi ogni tentativo di fuga. Nel farlo
urta alcune coppette di tempera e un fiotto di
colore si rovescia a terra. Rosso porpora sul
pavimento, sulle sue mani, sul mio braccio
pallido. Lo sento scorrere sotto di me, lungo
un fianco. Faccio per alzarmi, non sopporto
questa sensazione di sporco addosso, ma lui
mi spinge giù con uno strattone.
«Cosa vorresti fare, Elena?» mi sussurra.
«Mi piace da morire questo colore» e mentre
lo dice, con le dita macchiate di tempera, mi
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accarezza tutta, dalla testa al ventre, lasciando tracce sanguigne sulla mia faccia e
sulla maglietta bianca.
Sono in suo potere e una paura e un desiderio folli mi martellano il cuore. Mentre mi
bacia, ho una visione lucida di tutto: di me,
di lui, di questo palazzo vuoto, e di quello che
stiamo per fare.
Esitante, stacco le mie labbra dalle sue.
«Potrebbe entrare qualcuno…» mormoro
con un filo di voce.
«Shhh. Non pensare a niente.» Leonardo
mi trapassa con lo sguardo e mi chiude la
bocca con un dito. È convinto dei suoi gesti.
La sua sicurezza mi eccita.
Mi strappa via i jeans e la T-shirt. I suoi
occhi mi stanno addosso, avidi. La sua lingua
è di nuovo dentro la mia bocca, sfacciata. Ho
voglia di lui e incomincio a spogliarlo, con
una disinvoltura che non so spiegarmi, che
non è mia: gli sbottono piano la camicia e gli
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slaccio la cintura in cuoio. Sotto è completamente nudo, non porta i boxer. Nudo ed eccitato, pronto a entrare dentro di me.
Si china fra le mie gambe, allargandole appena con le mani. Le bacia, insaziabile, e con
la lingua sale lentamente lungo l’interno
delle cosce, fino ad afferrarmi con i denti gli
slip di pizzo nero che, guidati dalle sue mani,
finiscono a terra vorticando.
Meno male che stamattina non ho messo
le mie solite mutandine di cotone da
palestra…
La sua lingua è sempre più vicina, scivola
dentro di me e io sono già bagnata, mi apro
piano al tocco delle sue mani.
«Sai di buono, come immaginavo. Lasciati
mangiare…» Con la lingua fruga, esplora, e
io non riesco a trattenere alcuni gemiti di
puro piacere.
«Brava, Elena, così…» La sua voce è gonfia
di desiderio.
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Gli sollevo la testa tirandolo piano per i
capelli, mentre lui finisce di spogliarsi, liberandosi dei pantaloni che in un istante sono
accanto alla mia tuta. Allargo ancora le
cosce, lasciandogli premere il suo sesso duro
e liscio contro le mie labbra turgide.
Non so più chi sono. Ho paura e allo stesso
tempo non vorrei mai che Leonardo
smettesse di fare quello che sta facendo. Ha
la fronte corrugata, i muscoli tesi, un’energia
prepotente da liberare tutta dentro di me. Mi
penetra con una sola spinta violenta. Resta
immobile, abbassa gli occhi e incontra i miei,
offuscati di desiderio, narcotizzati.
«Elena…» mi sussurra, mordendomi un
orecchio. «Ti sento. È quello che vuoi anche
tu.»
Chiudo gli occhi e sospiro: «Sì, lo voglio».
La mia voce è rotta dall’eccitazione.
Comincia a muoversi piano dentro di me,
quasi avesse paura di rompermi, con una
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lentezza che mi devasta. Poi una spinta più
energica, più profonda, che mi riempie.
Stringo i denti e gemo. Leonardo accelera,
ma solo un po’, e il mio respiro si fa corto, il
mio petto si alza e si abbassa convulsamente,
mentre le mie gambe si stringono a lui in uno
spasmo. Aumenta ancora il ritmo del bacino,
continuando a baciarmi il collo. Mi sta
mangiando.
«Godi, Elena.» E questa volta suona come
un ordine. Ma non ce n’è bisogno…
Sento il suo peso su di me, con le mani mi
tiene i polsi bloccati. Mi ha fatto sua prigioniera, una prigioniera che non ha nessuna
intenzione di fuggire.
Mi manca il fiato, il sangue scorre impazzito nelle vene e affluisce tutto tra le
gambe. Un piacere insidioso e inarrestabile
ha preso vita nel mio ventre, poi esplode fulmineo diffondendosi ovunque. Per un lungo
momento ogni molecola del mio corpo si
trasforma in puro orgasmo. Un grido mi esce
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spontaneo e incontrollato e a mala pena riesco a soffocarlo. Perché ora quel grido sono
io. Anche se continuo a non riconoscermi.
Sono sconvolta, stupita di me: non pensavo
di poter godere così tanto.
Leonardo viene a sua volta, con un gemito
quasi animale vicino al mio orecchio, sul
volto ha un mezzo sorriso. È ancora più
bello, così. Ed è per me che sta godendo.
Restiamo abbandonati uno dentro l’altra
per un tempo che non riesco a quantificare.
Occhi contro occhi. Bocca contro bocca. Pelle
contro pelle. Ci respiriamo. È un suono vivo,
sanguigno. Un suono che in me libera fiumi
di emozione.
«Non ti muovere» mi ordina poi,
sottovoce.
Si stacca da me, si distende al mio fianco e
mi bacia, prima sul petto, poi sulla fronte,
poi sulla bocca. Quindi mi passa il braccio
sotto la testa. Nudi, rimaniamo stretti per un
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po’, incuranti del pavimento freddo, della
polvere, delle tempere sparse a terra. Ho la
guancia appoggiata sul suo petto. Mentre
respira, il mio viso si alza e si abbassa sul suo
torace.
Un senso di totale appagamento e insieme
di smarrimento si contendono il mio cuore,
la mia mente. Faccio fatica a ritrovarmi.
Dove sono, chi sono? Di chi sono? L’Elena di
solo un’ora fa adesso mi sembra lontanissima, irreale.
A un tratto sento un soffio leggero sul
collo.
«No, ti prego» mugugno, «così mi fai
venire i brividi, ho freddo» e mi chiudo su
me stessa come un riccio.
Leonardo ride, mi abbraccia da dietro,
avvolgendomi tutta e riparandomi con il suo
calore. «Vogliamo salire in camera mia?»
Sì.
No.
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Non so nemmeno io cosa voglio adesso.
Sono troppo scombussolata per formulare
qualsiasi ragionamento. Poi mi viene in
mente l’ultima volta che ho fatto del sesso:
con Filippo. E quasi mi sembra che le due esperienze non abbiano nulla in comune. O
forse sono io che ho perso completamente la
lucidità e ho bisogno di restare sola per
metabolizzare quello che è successo.
«Meglio se torno a casa» mi precipito a
dire. Mi sollevo a fatica, la testa gira un po’,
ma riesco lo stesso a mettermi in piedi.
Recupero la T-shirt impiastricciata e la infilo
senza reggiseno, trovo gli slip incastrati tra
una coppetta vuota e un flacone di solvente e
metto anche quelli.
Leonardo si alza dopo di me. In piedi,
nudo, è ancora più imponente. Ha le spalle
larghe e i fianchi stretti, le natiche sode, i
muscoli delle gambe lunghi e possenti. E gli
occhi neri che ridono: le rughette d’espressione ai lati addolciscono il suo sguardo
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virile, che trasuda ancora voglia. Resto ad
ammirarlo, rapita da quella fisicità così prorompente e, mentre indossa i pantaloni, noto
un tatuaggio tra le sue scapole. È un simbolo
strano, una specie di carattere gotico che non
riesco bene a decifrare. Ha la forma di
un’ancora, ma potrebbero benissimo essere
delle lettere intrecciate tra loro, legate da
una corda. Sa di mare e ha un aspetto quasi
antico. E come tutto quello che riguarda
Leonardo, ha un che di tragico e segreto.
Sono quasi tentata di chiedergli che significato abbia, ma quando lui si volta verso di me,
non ne ho il coraggio.
Si avvicina infilandosi la camicia che lascia
aperta sul petto e mi sfiora un braccio. «Ehi,
va tutto bene?»
«Sì» dico, un po’ imbarazzata. Il pensiero
vola alla nostra passeggiata dopo l’inaugurazione, lui che per tutta la sera non mi
stacca gli occhi di dosso, mi accompagna fino
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a casa, e poi mi lascia così, con il sapore amaro della delusione in bocca.
«Perché non hai provato a baciarmi, ieri
sera?» gli domando.
«Perché era quello che ti aspettavi» replica
afferrandomi i fianchi e premendo il mio
corpo contro il suo. «Certe cose te le godi di
più quando sei impreparato.»
Ha ragione lui. Ieri sera ero sovraccarica di
ansie e aspettative e forse non mi sarei lasciata andare fino in fondo. Dunque Leonardo
intuisce perfettamente i miei stati d’animo e
si diverte a manipolare i miei desideri. Non
so come questo mi faccia sentire, di certo
non è rassicurante.
Avverto il bisogno di allontanarmi per un
po’ e di mettermi al riparo dal suo sguardo
così penetrante. Mi libero con dolcezza da
quell’abbraccio.
«Già… Io adesso… vado.»
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Finisco di raccogliere i miei vestiti e, dopo
essermi sistemata alla meglio, mi affretto a
uscire, portandomi dietro un rebus insolubile di domande senza risposta.
Ho passato la giornata in uno stato quasi
di trance. Per tutto il tempo mi sono mossa
dentro casa come un automa, cercando di
impegnarmi in cose pratiche ma con il pensiero che correva continuamente a Leonardo.
Di tanto in tanto le emozioni provate con lui
poche ore prima prendevano di nuovo corpo,
formando piccole spirali dentro la pancia. E
stringendomi lo stomaco senza pietà.
Sono le nove di sera, adesso. Ho appena finito di mangiare quei quattro chicchi di riso
basmati che mi sono preparata con meticoloso zelo, nel vano tentativo di distrarmi. Accendo l’iPhone, che avevo lasciato spento di
proposito. Volevo stare da sola a riordinare i
pensieri, senza nessuna interferenza esterna.
Il display s’illumina, vibra una volta, poi
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un’altra e un’altra ancora, lampeggiando a
intermittenza. Tre sms, tutti di Filippo.
Bibi, come va?
Perché non rispondi? Non
preoccupare…
Ci sentiamo su skype stasera?
farmi
Sento una specie di fuoco sul viso e una
fitta potente allo stomaco. Quel po’ di riso
che ho mangiato diventa improvvisamente
piombo. Sono stata tra le nuvole fino a ora ed
ecco che i messaggi di Filippo mi riportano
alla realtà. “Scusa, ma non ho potuto risponderti perché ero impegnata a fare l’amore
con un altro”: se fossi onesta fino in fondo è
quello che dovrei scrivergli. Ma evidentemente – e non posso fare a meno di stupirmi
di questo – non lo sono.
Con un po’ di apprensione mi siedo sul divano e accendo il notebook. Filippo è in linea, mi ha già inviato un messaggio su skype.
Non amo molto le videochiamate, ma è
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l’unico mezzo che abbiamo per vederci e,
dopo quello che è successo oggi, non so
proprio che effetto mi farà vederlo con
questo filtro.
Faccio un bel respiro profondo, clicco sul
tastino verde e faccio partire la chiamata. Lui
risponde immediatamente e me lo vedo comparire davanti, un mezzo busto che non gli
rende giustizia: il suo viso è diverso, più
scavato, la barba di qualche giorno. Ha
un’aria sfatta.
«Bibi, dov’eri finita, oggi?» esordisce un
po’ preoccupato. «Hai letto i miei
messaggi?»
La sua voce e il suo volto familiari mi
riscaldano immediatamente il cuore. La
presenza di Filippo, seppur virtuale, ha il
potere di rassicurarmi, mi riporta alla concretezza della mia vita, a certezze che non
possono tradirmi.
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«Sì, scusa, mi si era completamente scaricato il cellulare e non avevo con me il caricabatteria. Poi sono tornata a casa tardi.»
«Sempre incollata al tuo affresco?»
«Eh, già…» deglutisco, soffocando in gola
l’imbarazzo. Non sono brava a mentire.
«Mi avevi promesso che non ci saresti
morta sopra» mi rimprovera. «Però sono felice che ci stai dando dentro, così potrai
finire prima del previsto.»
«Speriamo.» Stiro le labbra in un sorriso
poco convinto. Adesso, alla sensazione di
sicurezza si mescola un po’ di disagio. E
senso di colpa. Lui mi vede, nonostante la
barriera della lontananza, perciò mi sforzo di
scacciarli via entrambi. In fondo non ho
tradito nessuno e non ho fatto niente di
male, mi dico.
«E tu, hai lasciato crescere la barba? Stai
bene, così!» Effettivamente qualche pelo sul
viso gli dona, sembra più vissuto, più sexy
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anche. Perché Filippo è sexy, non devo
dimenticarmelo.
«Non ci crederai, ma certe mattine non ho
neppure il tempo per farmela.» Si passa una
mano sulla guancia. «Sono incasinatissimo
con il lavoro!»
«Renzo Piano ti ha messo sotto?» Sorrido
alle sue espressioni buffe.
«Guarda, lascia stare… L’ho intravisto una
sola volta, durante un sopralluogo al
cantiere, e poi non ci ha più degnati della sua
presenza.»
C’è un momento di silenzio, in cui mi
domando che senso abbia questa conversazione. Sto parlando con Filippo come se niente fosse, come se tra noi tutto fosse rimasto uguale e invece da stamattina qualcosa in me è profondamente cambiato. Rilancio con una domanda qualsiasi, cercando
di non pensarci.
«Allora, come si sta a Roma?»
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«Si sta bene, Bibi, ma manchi tu. Per il
resto, sembra sempre primavera.»
«Che invidia…»
«Sai che hai gli occhi scintillanti stasera?»
se ne esce tutto a un tratto. «Sembri più bella
del solito.»
Oddio, ho la faccia di una che ha appena
fatto sesso. Cerco di contenere il rossore che
sento salirmi sul viso.
«Grazie…»
«Lo sai, Bibi? Continuo a pensare alla
notte che abbiamo passato insieme…» Ha
abbassato un po’ la voce, ora. «Ho una voglia
pazzesca di dormire abbracciato a te.»
Mi mordo un labbro.
«Be’, anche tu mi manchi.» E forse, se
fossi rimasto qui, l’amore l’avrei fatto ancora
con te e non con Leonardo. Amore… sesso,
diciamo. O forse no… chi può saperlo?
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«Vero che ci stai pensando a quel weekend
a Roma?»
«Sì…» mento, sperando che non se ne accorga. «È che devo ancora organizzarmi.»
«Va bene.» Leggo la delusione nei suoi occhi. «Ma non ragionarci troppo…» si
raccomanda.
Cerco
disperatamente
di
cambiare
discorso.
«Stasera che fai?»
«Mi toccherà finire un disegno di lavoro»
sbuffa. «E magari, visto che sono ispirato,
poi ne faccio un altro di te. Di come ti ricordo
quella notte…»
«Ehi, così mi monto la testa, però…» Sorrido, ma sono un fascio di nervi. «Dài, ti lascio lavorare.»
«Ok. Ma non facciamo passare un’altra
settimana senza sentirci. Poi mi manchi e
faccio brutti pensieri…»
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«Ok.»
«Bibi…» mi guarda negli occhi, come se mi
avesse davvero di fronte «… ti voglio bene.»
Poi stampa un bacio sulla webcam.
Lascio andare un lungo sospiro.
«Anch’io.»
Ora non riesco più a sostenere il suo
sguardo.
La notte è fatta per le preoccupazioni, i
tormenti, le inquietudini. Ma al mattino,
sotto l’acqua calda della doccia, vedo le cose
più chiaramente. Partorisco sempre le mie
idee migliori in quei dieci minuti, mentre mi
godo il getto bollente che lava via tutti i pensieri. Così, mentre mi insapono i capelli,
nelle narici l’odore sensuale dello shampoo
all’olio di mandorla, riduco tutto alla scelta
più semplice: oggi non andrò al lavoro.
Non ho alcuna intenzione di ritrovarmi di
fronte Leonardo. Non saprei cosa dirgli e,
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soprattutto, cosa aspettarmi da lui. Peraltro
non ci siamo mai scambiati il numero di cellulare – fortunata coincidenza! – quindi non
potrà cercarmi e a me non verrà la
tentazione di inviargli un messaggio. In qualche modo questo mi fa sentire al sicuro. Ieri
è stato bellissimo, impetuoso, non voglio
negarlo, sarei ipocrita. Ma è successo tutto
così in fretta e inaspettatamente che ancora
non riesco a crederci. Fare sesso con lui mi
ha precipitata in un baratro di sensazioni
nuove e travolgenti e non riesco ancora a
venirne fuori. In più, la telefonata con Filippo ha contribuito ad aumentare la mia
confusione.
Ecco perché stamattina me ne sto a casa e
faccio finta di prendermela comoda. Farò le
pulizie – ce n’è sempre bisogno, e quindi non
è neanche una scusa – e poi andrò al supermercato a fare la spesa, considerato che il
frigo è di nuovo vuoto. Così magari mi distraggo un po’.
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All’improvviso suona il citofono. Credo di
sapere chi sia. Solo lei tiene premuto il pulsante per dieci secondi netti e ininterrotti.
Alzo il ricevitore, preparandomi al peggio.
«Gaia?»
«Ma quanto ci metti a rispondere?» Mi
fora i timpani con una voce stridula. «Posso
salire o c’è un uomo nudo nel tuo letto? Oddio, non che questo sia un problema per
me…»
«Sali. La porta è aperta.»
E adesso che faccio? Le racconto tutto o
no?
Mi sto ancora arrovellando quando vedo
Gaia venirmi incontro con la sua inconfondibile falcata felina.
«Come mai ancora a casa? Sono passata a
cercarti al palazzo…»
«Oggi non vado al lavoro.»
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«Ehi, ma stai male?» mi domanda studiandomi la faccia.
Decido di lasciarglielo credere, perché mi
rendo conto che spiegarle la verità sarebbe
davvero faticoso. E adesso non ho le energie.
Più che una bugia è un’omissione, mi dico, e
questo mette a tacere la mia coscienza. Almeno un po’.
«Sarà che deve arrivarmi il ciclo… Ho un
po’ di mal di testa» rispondo, e per rendermi
più credibile mi butto sul divano, coprendomi le gambe con il plaid di patchwork decorato a margherite e cuori. Me l’ha regalato
mia madre lo scorso Natale, dopo averci
speso due mesi e mezzo di ago e filo (e qualche diottria) per realizzarlo. È diventata la
coperta delle giornate malinconiche e
sonnolente.
«Stamattina mi sono svegliata già con
l’emicrania.» Abbozzo un’espressione sofferta e Gaia si accovaccia ai piedi del divano.
237/564
«Povera la mia amichetta…» Mi accarezza
la guancia quasi con compatimento.
Forse sto esagerando con questa sceneggiata, mi sto facendo prendere la mano. Aggiusto il tiro: «Però già sto meglio».
«Hai preso qualcosa?»
«Ma no, non serve. Tra un po’ starò bene,
è sempre così.»
«Te l’ho detto un miliardo di volte: tu devi
staccare ogni tanto» scuote la testa con aria
severa, «quell’affresco ti farà diventare
matta.»
Forse non solo l’affresco…
«Comunque io ero passata per darti delle
news da urlo.» Gaia assume improvvisamente un’aria maliziosa e si siede accanto a
me spostandomi le gambe.
«No…» Ho già capito tutto. «Jacopo
Brandolini!»
238/564
Annuisce, tutta soddisfatta. «È successo la
sera dell’inaugurazione» dice sprizzando felicità. «A proposito, scusa se sono sparita in
quel modo. Ma tanto tu mi conosci…»
All’improvviso mi ricordo che mi ha piantata nel bel mezzo della serata e metto su
una faccina arrabbiata. «Infatti, volevo
proprio dirtelo: stronza.»
«Lo so, lo so, ma era per una buona
causa…» Gaia alza le mani come a difendersi.
«E forse Leonardo ci sarà anche rimasto
male, ma in qualche modo è stato lui a farci
ritrovare…»
«Cioè?»
«A un certo punto viene da me e mi fa:
“C’è il buffet dei dolci, non vai ad assaggiarli?”. Gli spiego che sto aspettando te, ma lui
insiste, dice che alcuni vanno assolutamente
mangiati caldi.»
Gaia sta conquistando tutta la mia
attenzione.
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«Alla fine mi decido a dargli retta» continua, «vado al buffet, e lì chi mi trovo? Jacopo in persona, sembrava quasi che mi
stesse aspettando. Ci mettiamo a parlare e
poi ho perso la cognizione del tempo…»
E così Leonardo aveva architettato tutto e
ha spinto Gaia nelle braccia di Jacopo per restare da solo con me! L’entusiasmo di questa
scoperta mi provoca un brividino involontario di compiacimento.
«Insomma: questo Brandolini, com’è?» le
domando, riportando subito l’interesse su di
lei.
«È simpatico, brillante, terribilmente
galante. Mi sembra così diverso da altri
uomini che ho frequentato… mi piace.»
Mio dio, Gaia ha già gli occhi a cuore.
«Ma l’avete fatto?» azzardo.
«Be’…» Abbassa un secondo lo sguardo,
poi lo rialza e un sorriso trionfante le
240/564
illumina il viso. «… sì, ovvio che l’abbiamo
fatto! Per chi mi hai presa?»
Le sferro un leggero pugno sulla spalla,
ridendo.
«Mi ha invitata a casa sua. Abita in un
palazzo che è una meraviglia, dietro Rialto,
con gli affreschi e i soffitti a cassettoni. Mi
sembrava di essere in una favola, giuro, una
cosa tipo Cenerentola al ballo. Ero anche un
po’ in soggezione, e lo sai che non mi capita
quasi mai…»
La ascolto, incantata dal suo modo di condire i racconti. Almeno sta riuscendo a distrarmi da altri pensieri. «E quindi?»
«E quindi mi ha conquistata, non potevo
dirgli di no» sospira, «anzi, mi correggo, non
volevo dirgli di no.»
«Ma come si è comportato?»
«Direi strabene…» Dalla sua faccia capisco
che Brandolini deve saperci fare. «Non la
solita scopata e via. È stato molto dolce,
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premuroso, si preoccupava che stessi
bene…» dice con sguardo sognante.
Per un momento ripenso alle carezze di
Leonardo e di nuovo una piccola scossa mi
attraversa la pancia.
«Che dici, gli stai dando una seconda possibilità? Vi rivedrete?»
«Chiaro, Ele! Mi ha già invitata a cena
domani…» È come se la felicità le svolazzasse
tutt’intorno e sono sinceramente contenta
per lei.
«Allora, se ne valeva così tanto la pena, ti
perdono per avermi dato buca» le dico in
tono solenne.
«Vabbè, ma basta parlare di me… E tu
cos’hai fatto dopo? Non è che mi stai nascondendo qualcosa?»
«Niente, ho preso e sono tornata a casa.»
Ma perché sto mentendo alla mia migliore
amica? Forse glielo dovrei dire? Da un lato
vorrei tanto, ma ho ancora bisogno di
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rimettere in ordine le idee e ho paura che a
parlarne con qualcuno, anche con Gaia – che
è come una sorella per me – farei ancora più
caos. Mi mordo le labbra come per impedirmi di pronunciare il nome di Leonardo.
In compenso decido di confessare un’altra
piccola verità.
«Senti, devo dirti una cosa.»
Gaia si raddrizza di colpo. Sembra che
all’improvviso le siano spuntate le antenne.
«Sentiamo, sono tutta orecchie.»
«Riguarda Filippo.»
Gaia mi scruta e ha già intuito quello che
sto per dire.
«Be’… l’abbiamo fatto.»
«Alleluja!» esclama, battendo le mani.
«Aspetta però, non correre. È successo
tutto così in fretta, la sera prima che lui partisse. Non ci siamo fatti promesse e non si sa
come andrà a finire…»
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Si mette a saltellare sul divano. «Che t’importa di come andrà a finire! L’importante è
che sia cominciata.» Poi si zittisce e mi
guarda perplessa. «Ma non sei contenta?»
«Sì, però voglio andarci piano. Con Fil potrebbe essere qualcosa di veramente importante, non ho voglia di rovinare la nostra
amicizia per niente…» Faccio un respiro profondo. «E comunque, finché lui è a Roma
non è il caso di iniziare una storia, su questo
siamo d’accordo tutti e due.»
«Troppe paranoie, Ele, come tuo solito. Si
vede che siete fatti l’uno per l’altra, io l’ho
sempre detto.»
Abbozzo un sorriso. So che Filippo potrebbe essere la persona giusta, quella con
cui costruire un rapporto solido e profondo.
Basterebbe solo che io lo volessi. E forse lo
volevo, prima che Leonardo arrivasse a
scombussolare tutti i miei piani e i miei desideri. Adesso come adesso, non lo so più
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cosa voglio. Ma tutto questo Gaia non può
neanche lontanamente immaginarlo.
«Nel frattempo vi state sentendo?»
«Sì, ci siamo parlati proprio ieri su skype.»
«E comunque dài, Ele, Roma non è mica
oltreoceano. Io per Belotti mi sono lanciata
nelle Fiandre» dice tutta convinta. Gaia si è
spesa in viaggi assurdi per quel ciclista che,
francamente, non so ancora quale collocazione abbia nella sua vita. «Secondo me
dovresti andare a trovarlo e fargli una sorpresa» continua a pungolarmi.
«Ci penserò.»
«E invece no. Non devi stare tanto a rifletterci» mi bussa leggera sulla testa. «E spegnila questa, qualche volta! È per quello che ti
fa male.»
Sorrido. A essere sincera, se prima ce
l’avevo per finta, adesso il mal di testa mi è
venuto davvero. Sono così confusa che vorrei
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solo mettermi a dormire e non pensare più a
niente.
Gaia si alza dal divano e si mette la borsa a
tracolla, segno che è pronta a uscire. Sono
quasi sollevata.
«Vado. Se hai bisogno di qualcosa,
chiamami.»
«Non preoccuparti, sto bene.»
«Sì, certo… Lo diresti anche se ti trovassi
agonizzante sul pavimento.»
Ti prego, non parlare di pavimenti: non riesco a non pensare a Leonardo, a quel rosso
ovunque, per terra, sul mio corpo…
«Ciao, e chiamami per raccontarmi la cena
con Jacopo.»
«Certo, ti tengo aggiornata.» E mi lascio
stritolare da uno dei suoi uraganici abbracci.
Dopo che Gaia se n’è andata, vado a fare
quattro passi in direzione del museo Peggy
Guggenheim. Sono quasi le due del
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pomeriggio e a quest’ora non c’è molta gente
in giro. I turisti stanno affollando i ristoranti
e i veneziani di Dorsoduro sono impegnati
nell’immancabile appuntamento con la pennichella. Ho voglia di farmi accarezzare dal
sole tiepido di ottobre che oggi ha una splendida luce giallo-rosa. Cammino a passo veloce fino a Punta della Dogana e, tornando
indietro, faccio una sosta a campiello Barbaro, uno dei luoghi della città che amo di
più. È una piazzetta poco conosciuta, lontana
dai soliti circuiti. Quando i pensieri mi girano a vuoto nella testa, a volte vengo qui, e
succede sempre qualcosa di magico, chissà
perché.
Mi siedo sull’ultimo gradino del ponte di
pietra, dove il sole ha depositato tutto il suo
calore, e appoggio la schiena al muretto di
mattoni da cui spunta qualche filo d’erba. Da
qui sembra tutto più dolce, i raggi vestono i
due alberi spogli di tante piccole stelle lucenti. Al centro del campiello c’è un’aiuola
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piena di rose: è incredibile, fioriscono
sempre, anche d’inverno.
È inutile tentare di negarlo o, peggio
ancora, di reprimerlo: cuore e pensieri sono
un groviglio inestricabile, in questo momento. Non so letteralmente dove sbattere la
testa.
Più che pensieri, in realtà, sono immagini
di Leonardo, fotogrammi sfocati che mi attraversano la memoria: i suoi occhi misteriosi e quelle sue rughette d’espressione ai lati,
le mani forti, il corpo nudo e prepotente
sopra il mio. Poi quel suo tatuaggio. E all’improvviso, sono colta da uno strano presentimento: sento che con Leonardo potrei farmi
del male, che il prezzo da pagare per partecipare a questo gioco sia la mia dannazione.
E Filippo? Che ruolo ha in tutto questo?
Anche per lui provo qualcosa di forte, ma
profondamente diverso: l’intesa tra noi ha un
sapore familiare, conosciuto, è un legame
soprattutto intellettuale e affettivo. Il sesso
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con lui è stato tenero e delicato, come può
esserlo tra due persone che si conoscono da
tempo e si vogliono bene.
Con Leonardo, invece, è stato una specie di
scontro carnale, dettato solo dal desiderio
dei nostri corpi, qualcosa che non mi era mai
successo prima. E forse è per questo che non
riesco a smettere di pensarci.
Distolgo lo sguardo dalle rose e mi soffermo sull’acqua del canale che scorre lenta
sotto di me. Ha un colore poco incoraggiante, è torbida, ma mi fa meno impressione
del solito. All’improvviso, anche l’idea di
rivedere Leonardo mi incute meno timore.
La verità è che, nonostante tutto, io lo
voglio ancora. E tra mille dubbi è questa
l’unica certezza.
8
Oggi è il gran giorno. Rivedrò Leonardo e
gli parlerò, gli spiegherò chi sono e cosa
voglio da lui. Non è mai successo che fossi io
a prendere l’iniziativa con un uomo, non so
neanche come si fa, non sono brava come
Gaia a farmi avanti e a dichiarare i miei desideri. Però stavolta devo provarci, stavolta è
diverso. Ho come l’impressione che avere
Leonardo richiederà più coraggio del solito
da parte mia.
Esco dalla doccia e mi fermo davanti allo
specchio. Con una mano elimino un po’ di
vapore ed eccomi qua. Sono sempre io. Il
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viso rotondo, gli occhi scuri un po’ arrossati
dall’acqua, il caschetto bruno che gocciola
sulle spalle. Eppure qualcosa è cambiato. Da
ieri un nuovo desiderio si è fatto spazio nel
mio mondo, una sorta d’inquilino molesto
che sta dando fastidio ai vecchi condomini.
Cercherò di fingere che sia una mattina
come le altre, mi comporterò come sempre.
Devo convincermi che sto semplicemente andando al lavoro, anche se so benissimo che in
realtà sto andando da lui.
Mi scrollo di dosso tutti i pensieri e finisco
di prepararmi per uscire. Mi asciugo i capelli,
indosso dei jeans morbidi e un maglioncino
di lana sottile, mi butto il trench sulle spalle
e prendo il vaporetto fino a Ca’ Rezzonico,
compro “la Repubblica” all’edicola del sottoportico, raggiungo il palazzo e salgo le scale.
Ogni tappa della mia routine è un passo
verso Leonardo.
Ma quando arrivo al palazzo, lui non c’è.
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Provo a chiamarlo: nessuna risposta. Per
un po’ mi metto ad aspettarlo nell’androne,
speranzosa di vederlo sbucare all’improvviso
dal bagno con l’asciugamano attorcigliato
alla vita, ma niente. Allora mi rassegno a
chiedere a Franco in giardino e lui mi
risponde di non averlo visto. Evidentemente
stamattina è uscito presto. È la prima e sola
ipotesi che riesco a formulare.
Così eccomi qui in campo San Polo davanti
al ristorante di Brandolini, indecisa se entrare. Il cuore dice sì, la testa dice no, in lotta
con quell’unico pensiero che mi tormenta da
ore: voglio rivederlo.
La porta è aperta, è come se mi chiamasse
a sé, basterebbe oltrepassarla. E infatti è
quello che faccio.
«Sbrigatevi a portare dentro quelle sei casse, le voglio qui tra un minuto… E un po’ di
attenzione, cazzo! Sono bottiglie di Sassicaia
che costano come la macchina che sognate e
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che non avrete mai! Questa è l’ultima volta
che facciamo un ordine alla vostra cantina…»
La voce di Leonardo. E il tono non è certo
incoraggiante. Non capisco bene da dove arrivi: all’interno del ristorante, data l’ora, non
c’è ancora nessuno se non qualche cameriere. Uno di loro mi ha notata e già mi viene
incontro con un’espressione di cortese rifiuto, “siamo chiusi, torni più tardi” si prepara
a dirmi, ma io lo anticipo.
«Buongiorno, cercavo Leonardo.» L’occhiata che mi rivolge, per quanto mascherata da
una professionalissima discrezione, lascia
trapelare una certa curiosità. Voglio solo
vederlo e… parlargli, ripeto a me stessa. Venendo fin qui mi sono preparata un bel discorsetto, che ho stampato in testa.
«Mi pare sia là fuori» risponde il cameriere, indicando un giardino interno.
«Grazie» mormoro, e mi lancio verso la
portafinestra che immette nel giardino.
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Leonardo non si accorge subito della mia
presenza. È solo, evidentemente i poveri fattorini hanno finito in fretta il loro compito e
si sono volatilizzati. Sta parlando al cellulare
con qualcuno e, a giudicare dalla faccia corrucciata, non dev’essere una telefonata molto
piacevole. All’improvviso riattacca, ma gli
rimane per qualche istante sul viso un’espressione grave e pensosa, lo sguardo a terra
fisso su un punto indefinito. È la prima volta
che lo vedo così accigliato e non saprei dire
che cosa possa turbarlo tanto. Nemmeno
oserei chiederglielo, dato che non appena mi
vede il suo volto torna a essere sorridente
come sempre. Mi saluta con naturalezza,
come se fosse normale trovarmi qui.
«Come mai sei sparita?» mi chiede, avvicinandosi di qualche passo. «Ti avrei
chiamata, se solo avessi avuto il tuo
numero…»
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«Già, non ce lo siamo mai scambiati» dico
guardandomi i piedi. Fatico un po’ a sostenere il magnetismo dei suoi occhi.
«Be’, facciamolo adesso.» Ha ancora il cellulare in mano. Tutt’a un tratto ho l’impressione di non ricordare il mio numero. Poi,
con uno sforzo sovrumano, lo richiamo alla
mente e glielo dico come se dovessi fare lo
spelling di una parola complicata.
Leonardo lo memorizza e mi fa uno
squillo. Fortuna che ho disattivato la suoneria con il verso dell’anatra.
«Non hai risposto alla mia domanda» continua, studiandomi. «Come mai non sei venuta al lavoro ieri?»
Ecco un ottimo gancio per cominciare il
mio sermone. Mi passo una mano tra i
capelli e mi schiarisco la voce. Sono pronta.
«Avevo bisogno di stare un po’ da sola. Sai,
quello che è successo l’altro giorno mi ha un
po’ scombinata» dico tutto d’un fiato.
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Leonardo non sembra affatto impressionato.
Un sorrisetto strano aleggia sulle sue labbra
e una sorta di divertimento perverso accende
i suoi occhi. «Per questo volevo parlarti…»
ma subito m’interrompo.
Il cameriere di prima ci passa accanto,
Leonardo gli fa un cenno e lui annuisce. Sta
lavorando e forse io gli sto rubando del
tempo.
«Se sei impegnato, possiamo trovarci in
un altro momento» metto le mani avanti.
Lui si guarda intorno per un attimo. «Ne
ho ancora per una mezz’ora, qui. Devo sistemare alcune questioni.» Poi fa cadere lo
sguardo sul cellulare e resta per qualche
secondo immobile, come inseguendo
un’idea. «Ti va di aspettarmi alla chiesa dei
Frari? Ti raggiungo lì verso le undici.»
«Va bene» rispondo, anche se la sua proposta mi lascia abbastanza di stucco. Nessuno mi ha mai dato appuntamento davanti
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a una chiesa, tantomeno ai Frari. «Perché
proprio lì?» azzardo a chiedergli.
«Be’, perché è un bel posto.»
Sono seduta da un quarto d’ora su uno
scomodo banco di legno in terza fila, nella
sontuosa navata centrale della basilica dei
Frari. Nell’aria, un profumo d’incenso
mescolato al fumo dei ceri votivi. Fuori aveva
cominciato a tirare vento forte, così ho deciso di entrare. Spero che nessuno mi noti:
me ne sto qui composta e raccolta, ogni tanto
guardo verso il portone d’ingresso. Il pensiero che Leonardo debba arrivare a momenti mi gonfia lo stomaco di ansia ed eccitazione. Non vedendomi fuori, capirà da sé
che sono dentro, in ogni caso adesso ho il
suo numero e posso sempre chiamarlo.
Mi guardo intorno e mi sento come un’imbucata a una festa. Tra i banchi c’è qualcuno
che
prega
mentre
alcuni
visitatori
gironzolano silenziosi e discreti, la maggior
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parte si ferma a guardare la magnifica pala
dell’Assunta di Tiziano. Con la luce del sole è
ancor più bella. I raggi filtrano dalle vetrate
disegnando incredibili riflessi sul dipinto e i
colori sembrano più vivi che mai.
«E così aver fatto sesso con me ti avrebbe
scombussolata…» sento sussurrarmi all’orecchio. Leonardo è arrivato e si è seduto al mio
fianco. Io mi volto di scatto, con il sangue
che ricomincia subito a pulsare. Mi fissa, aspettando che vada avanti dal punto in cui mi
sono interrotta.
«Sì, è così» ammetto. Poi prendo un
respiro profondo. «Forse perché è stato del
tutto inaspettato. Di solito non sono una che
si lascia andare così facilmente, ma tu…»
esito. Il mio discorso non mi viene in soccorso, tutt’a un tratto mi sembra privo di
senso, superato. «Ecco, vedi, non so bene
come dirtelo…»
«Hai già qualcuno, è questo che stai cercando di dirmi, giusto?» È diretto, schietto,
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mi obbliga a buttare fuori le cose come stanno, senza fronzoli e giri di parole.
«No, non è proprio questo» scuoto la testa.
«Fino all’altro ieri pensavo di volere qualcun
altro… ma adesso non ne sono più così
sicura.»
L’immagine di Filippo mi si materializza
davanti e in questo momento mi sembra
come il mio bel discorsetto: una cosa che appartiene al passato. Me ne rendo conto e ho
una specie di fitta al cuore.
«Allora, cosa c’è, Elena?» m’incalza.
«C’è che mi è piaciuto molto. Forse troppo.
Ho provato a convincermi che sia stato solo
un cedimento, un colpo di testa, uno dei pochi che io abbia fatto, e che noi due non
c’entriamo niente l’una con l’altro. Insomma,
mi piacerebbe credere che è solo il caso di
finirla qui. Ma continuo a pensarti e… voglio
che succeda ancora.»
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Ecco, l’ho detto, anche se non è da me,
anche se non sono parole da pronunciare sul
banco di una chiesa! Mi sento andare letteralmente in fiamme.
Leonardo non ha nessuna reazione, almeno in apparenza, e questo non fa che
aumentare il mio imbarazzo. Per qualche
lunghissimo istante i suoi occhi vagano sulla
pala dell’Assunta. Io sono in apnea, aspetto
che parli come un imputato in attesa della
sentenza definitiva.
Poi, senza dire niente, mi prende per mano
e mi porta proprio sotto il dipinto. Ci sono
altre persone accanto a noi, Leonardo si
mette alle mie spalle e mi parla piano in un
orecchio.
«Sai perché ti ho chiesto di vederci qui,
Elena?»
Scuoto la testa, completamente smarrita.
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«Perché questo dipinto mi è entrato dentro, dopo che me ne hai parlato tu. Ci ho
pensato molto da quella notte.»
Alzo lo sguardo sulla pala.
«Credo di sapere perché ti piace così tanto:
tu vorresti essere come quella Madonna»
continua Leonardo, sfiorandomi i capelli con
il suo respiro leggero.
«Vorresti stare lassù nel tuo mondo,
lontana da qualsiasi cosa che possa farti
male. In fondo credi di essere destinata a
questo.»
Guardo la figura della Madonna, così distante, serena, invulnerabile. Mi rendo conto
che ha ragione, anch’io vorrei sentirmi così.
Leonardo incombe su di me, sento il suo
calore addosso ed è una sensazione stranamente eccitante, qui, in questo posto sacro,
tra questa gente che quasi non si accorge di
noi. Continua a parlarmi all’orecchio come
un demone.
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«Adesso guarda l’apostolo. Quella notte mi
hai detto che sta invocando la Vergine e che
sembra darle lo slancio verso il cielo.»
«Infatti, è così.» Bene, almeno le nozioni
di storia dell’arte non mi hanno abbandonata
insieme a tutte le altre certezze.
«E se ti sbagliassi?» Mi stringe con forza le
spalle. «A me piace pensare che la stia richiamando, invece, che voglia trattenerla
sulla terra, riportarla alla sua natura
carnale…»
Non ci avevo mai pensato. Osservo il dipinto da una prospettiva completamente ribaltata, ora, e mi rendo conto che, per quanto
surreale, anche questa può essere un’interpretazione. Ma non riesco ancora a capire
dove Leonardo voglia arrivare. Gli ho appena
detto che desidero fare di nuovo l’amore con
lui – non so con quale coraggio – e lui mi
risponde proponendomi una nuova esegesi
dell’Assunta. Sono davvero confusa e temo
che le ginocchia non reggeranno per molto.
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«Perché mi dici tutto questo?» gli chiedo
con un filo di voce. Non resisto più.
Mi prende per i fianchi e mi gira verso di
sé, impadronendosi del mio sguardo. «Perché io voglio essere quello che ti riporta sulla
terra, Elena.»
È talmente vicino che i nostri volti si sfiorano. Mi guardo intorno, sperando che nessuno si accorga di noi. Ma lui non si cura degli altri e continua a soffiarmi addosso parole
infuocate.
«Anch’io ti voglio, di nuovo, altre mille
volte. Ma a modo mio. Voglio vedere cosa
nascondi dietro questa tua maschera così
eterea, così cerebrale… voglio conoscere la
vera Elena. Voglio sconvolgerle la vita.»
Deglutisco. Sconvolgermi la vita. A
guardarlo ora si direbbe che ne è perfettamente capace e mi corre un brividino
lungo la schiena.
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«Quando ti ho incontrata la prima volta,
tutta concentrata su quell’affresco, la tua
timidezza, la tua aria innocente mi hanno
stregato. È stato un richiamo irresistibile. E
non posso farci niente, non avrò pace finché
non te le avrò strappate di dosso.»
All’improvviso sento un fuoco accendersi
nel petto. È come se mi avesse iniettato un liquido incendiario.
«Ma tu devi lasciarmi fare. Devi permettere che sia io a guidarti… voglio insegnarti tutti i modi in cui si può provare piacere…» La sua voce, adesso, è un ibrido seducente tra un gemito e un sussurro.
Sono ammutolita, non credo di aver capito
davvero cosa mi sta proponendo. Posso soltanto intuirlo, e ha tutta l’aria di un accordo,
un patto maledetto che mi cambierà profondamente l’esistenza e non sono così sicura di
voler accettare. Ma sono tentata, con ogni
fibra del mio corpo, come si può esserlo solo
da qualcosa d’ignoto e pericoloso.
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Leonardo intuisce il mio smarrimento e,
afferrandomi per una mano, mi trascina
fuori dalla chiesa attraverso l’uscita laterale.
Sbuchiamo in una calle nascosta e chiusa. Mi
spinge contro il muro scrostato della sagrestia e mi solleva il mento.
«Hai capito cosa sto dicendo, Elena?»
«Non ne sono sicura…» mormoro.
«Se è l’amore romantico che stai cercando
non sono io la persona giusta. Se stai
pensando a una scappatella da una routine
noiosa, be’, sei fuori strada, Elena. Quello
che ti sto proponendo è un viaggio, un’esperienza che ti cambierà per sempre.»
Ansimo, cerco di liberarmi dalla sua presa,
anche se allontanarmi da lui è l’ultima cosa
che vorrei al mondo.
«Mi occuperò di te, ti insegnerò che il tuo
corpo non è fatto per inibizioni e tabù, e ti
mostrerò come usare i tuoi sensi, tutti, per
un solo fine: godere. Ma tu dovrai affidarti
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completamente a me ed essere pronta a fare
quello che ti chiederò.»
Qui si ferma, punta i suoi occhi dentro i
miei.
«Tutto. Anche se ti sembrerà assurdo o
sbagliato.»
Il suo tono non è autoritario, no. È
suadente, dannatamente irresistibile. Se mi
stesse proponendo di ballare o di bere un
bicchiere di vino, credo che lo farebbe allo
stesso identico modo.
«Ho bisogno di pensarci» lo imploro.
«Io… non so cosa rispondere… ora…»
«E invece devi scegliere qui. Adesso.» È irremovibile. «Perché è la prima prova che
devi superare. Prendere o lasciare.»
Trattengo il respiro, chiudo gli occhi e mi
preparo come se dovessi tuffarmi da una
scogliera. Un salto nel vuoto, ecco cosa sto
facendo, io che non so nemmeno nuotare, io
che ho sempre preso le mie decisioni con la
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massima cautela, che non sono mai stata un
tipo da colpi di testa. Sto facendo la cosa più
insensata della mia vita e forse, proprio per
questo, la più giusta.
«Va bene» dico con il cuore in gola.
«Va bene?» ripete lui.
«Sì. Sono pronta.» Apro finalmente gli
occhi.
Sono ripiombata qui, tra le sue braccia, e
sono ancora viva, per il momento. Leonardo
mi sorride e mi bacia con avidità, infilandomi tutta la lingua nella bocca ancora impastata di emozione. Si stacca un momento e
mi guarda negli occhi, quasi per assicurarsi
che io ci sia davvero, poi riprende a baciarmi,
ancora più famelico, mordendomi le labbra.
La sua mano s’insinua lasciva dentro i miei
jeans e arriva sicura là dove non dovrebbe,
scatenando un vortice di piacere.
«Voglio che oggi, mentre sei al lavoro, mi
pensi intensamente e che fai da sola quello
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che ti sto facendo io, fino a venire» mi sussurra continuando ad accarezzarmi.
«No, ti prego…» protesto. «Io non credo
sia una buona idea… mi imbarazza troppo,
non riuscirò mai a…»
Leonardo tronca il discorso, coprendomi la
bocca con una mano e infilzandomi con uno
sguardo assassino. «È proprio per questo che
devi farlo. Sono io che decido, tu devi fidarti
senza discutere. Ricordi cos’hai appena
accettato?»
La mia volontà è improvvisamente
annullata.
«Va bene. Ci provo.»
«Brava, Elena. Così mi piaci…»
Continua a frugare tra le mie gambe e con
l’altra mano mi tormenta un capezzolo. Distolgo lo sguardo pieno di voglia, sono già
bagnata ed eccitata, ma non credo che farlo
da sola mi darà lo stesso piacere. Non sono
abituata a toccarmi.
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La mia voglia aumenta, vorrei che andasse
fino in fondo, ma all’improvviso Leonardo si
stacca da me, lasciandomi frastornata e inappagata. Il sorrisetto sadico sulle sue labbra
mi dice che l’ha fatto di proposito.
«Devo andare, ci vediamo stasera al mio
rientro.» Si appoggia con entrambe le mani
al muro e avvicina il volto al mio. «Ricordati,
Elena: da questo momento tu sei mia.» Mi
posa un altro bacio sulla bocca e fa per
andarsene.
«Leonardo…» Lo blocco afferrandolo per
un braccio. «Dimmi solo perché. Perché fai
tutto questo.»
Piega la testa di lato, un sorriso candido e
diabolico gl’increspa le labbra. «Perché ne ho
voglia. E perché mi piaci da morire.»
Registra il mio sconcerto e sospira, come a
cercare altre parole.
«Ascoltami bene, Elena: tutto quello che
faccio o che scelgo di non fare è puro
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edonismo. Non ho altre spinte o motivazioni
a parte questa. Non credo nella forza delle
idee né tantomeno nella morale. Ho vissuto
abbastanza per sapere che il dolore ti arriva
comunque, senza che tu te lo sia procurato.
Quindi, dato che non lo puoi evitare e che la
felicità assoluta non esiste, quello che resta è
il piacere. E io lo ricerco con un’ostinazione
che devi ancora conoscere.»
Sono senza parole. Adesso nei suoi lineamenti vedo la durezza di chi ha lottato e una
sofferenza nascosta e indelebile, come il
tatuaggio che ha sulla schiena. Ma vedo
anche fame di vita e il coraggio di chi non si è
mai arreso in quello sguardo fiero e in quel
sorriso che sembra sfidare il mondo intero.
Sei un mistero, Leonardo, un enigma che
adesso non ho alcuna possibilità di risolvere.
Ma ci sto comunque. E da oggi sono tua.
Durante tutta la giornata non riesco a
pensare ad altro. Mi stacco dall’affresco più
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volte e mi rifugio in bagno per provare a fare
quello che Leonardo mi ha ordinato, ma è
una tragedia. Mi sento sporca. Anzi, mi sento
proprio in colpa, anche se non so bene con
chi.
Evitando di guardarmi allo specchio, abbasso la cerniera della salopette finché riesco
a intravedere quella dei jeans. È la terza volta
che ci provo. Chiudo gli occhi e penso a
Leonardo, ai suoi baci pieni, al suo corpo
nudo sopra il mio, poi infilo timidamente
una mano dentro gli slip lasciandola
scivolare sul monte di Venere. Le mie labbra
sono secche e mute, rifiutano drasticamente
quel contatto. Non rispondono ad alcun
tocco, quasi a voler respingere la mia mano
così insicura. Riapro gli occhi e sospirando
mi siedo sul bordo della vasca, lasciandomi
cadere le braccia sulle ginocchia. Mi rendo
conto di non avere molta confidenza con il
mio corpo, sono piena di blocchi e inibizioni.
Forse perché non ho mai provato davvero a
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darmi piacere da sola, ho sempre lasciato
fare agli altri, ai pochi uomini con cui sono
stata… e sinceramente ora, dopo essere stata
con Leonardo, non so se quello fosse veramente il massimo a cui si potesse aspirare.
Cerco di nuovo la concentrazione, ma non
appena tento di allungare la mano, un trillo
del cellulare m’interrompe brutalmente.
Sbircio nella tasca esterna della salopette e
vedo comparire sul display il nome di Filippo. Incredibile. Perché mi fai questo
squillo proprio ora, Fil? Mi stai controllando
a distanza? È già tutto abbastanza complicato così… All’improvviso mi sento ridicola.
Basta, ci rinuncio. Non sono come
Leonardo mi vede, ecco tutto. O forse liberare la mia sensualità non è un obiettivo che
posso raggiungere da sola.
Mi sono tolta la tuta da lavoro e sto per
tornarmene a casa, frustrata. La prima tappa
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del mio viaggio erotico si è rivelata un
fallimento.
Da vigliacca, vorrei dileguarmi prima che
Leonardo rientri, ma il lavaggio degli attrezzi
si rivela più difficoltoso del solito. Così lui arriva prima che io riesca ad andarmene e mi
ritrovo avvolta dal suo abbraccio. Non posso
dire di non averlo sperato almeno un po’…
«Ciao, Elena. Hai niente da dirmi?» mi
chiede in un sussurro.
Vorrei mentirgli, dirgli che è andata benissimo e che ho il fuoco in ogni parte del corpo,
ma non ce la faccio. E poi credo che la mia
faccia parli da sé.
«Ci ho provato.»
«Ci hai provato.» Mi scruta, serio.
«Però…» faccio un respiro, temendo la sua
reazione, «non è andata proprio benissimo.»
«Vieni, saliamo in camera mia.» Non sembra arrabbiato. Forse se l’aspettava e questo
mi ferisce ancora di più. Titubante, mi lascio
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prendere la mano e lo seguo. Non so che
cos’abbia in mente, ma mi sento al sicuro
quando mi stringe in quel modo.
Conosco questa stanza. C’è più o meno lo
stesso caos del giorno in cui mi ci sono intrufolata con Gaia. Il letto è sfatto. Mancano
lo champagne e le canne, ma si respira la
stessa aria voluttuosa, e poi quel profumo intenso di ambra che ha impregnato le pareti e
le lenzuola.
Leonardo mi spinge sul letto. Lui rimane
in piedi, davanti a me.
«Spogliati» ordina. «Voglio vedere quello
che sai fare.»
Mi siedo sul bordo del letto, ancorando le
mani alle lenzuola. Un rivolo di sudore
freddo mi scende lungo la schiena. Lo specchio di fronte a me è una presenza inquietante e il pensiero che la violinista sexy
dal corpo perfetto è stata qui mi fa sentire
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male all’istante, ancora prima di provare a
fare qualsiasi cosa.
«Avanti, Elena» m’incoraggia Leonardo
prendendomi la testa tra le mani. «Spogliati.
Non stai facendo niente di male.»
Spogliarmi davanti a un uomo non è mai
stato semplice e naturale per me. Mi fa sentire a disagio, mi ha sempre causato
quell’imbarazzo che mi portava a spegnere la
luce già durante i preliminari. Esporre la mia
pelle agli occhi di un altro, insomma, la trovo
un’impresa ad alto tasso ansiogeno.
Lentamente mi alzo in piedi e sono davanti
a lui. Con le mani che tremano mi tolgo la Tshirt e rimango in reggiseno, ma dallo
sguardo severo di Leonardo intuisco che
devo levarmi anche quello. Lo sgancio da dietro e lui mi aiuta a sfilarlo dalle braccia.
«Impazzisco per il tuo seno, è così… morbido e pieno.» Lo accarezza, delicato. Poi mi
bacia un punto dietro la nuca talmente
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sensibile che al tocco della sua lingua mi si
piegano le ginocchia. «Adesso devi fare da
sola, però.»
Lascio scivolare la mia mano tra l’incavo
dei seni e inizio ad accarezzarne uno, stringendolo con le dita intorno al capezzolo.
«Così, Elena… Ora dedica un po’ di attenzione anche all’altro» mi ordina, baciandomi
di nuovo il collo.
Cerco di rilassarmi e faccio quello che mi
chiede. È come se i suoi gesti e le sue parole
m’incoraggiassero ad avere più fiducia nel
mio corpo.
«Brava…» Ha gli occhi lucidi di desiderio.
Mi afferra un braccio e lo accosta al mio
ventre. «Adesso scendi lenta con la mano.
Mettila dentro.»
Mi sento ancora più nuda e vulnerabile di
quando ero sotto di lui. C’è qualcosa di fortemente erotico e proibito in tutto questo.
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L’ansia mi sta stringendo lo stomaco, ma so
che non posso fermarmi ora, non voglio.
Con la mano mi faccio spazio tra i jeans e
inizio a muovere le dita avanti e indietro,
come se pizzicassi le corde di una chitarra.
Sono certa che gli piaccia stare a guardarmi.
Io, invece, mi sento inerme, totalmente in
balìa di quegli occhi che sembra vogliano
divorarmi.
«Tu sai come darti piacere meglio di chiunque altro» mi rassicura. «Impara a
conoscerti…»
Si avventa su di me e mi solletica con la
mano attraverso i jeans. Riesco a sentirlo.
Appoggia i polpastrelli sul lato esterno delle
grandi labbra e spinge all’insù in modo da
avermi tutta tra le dita. È un massaggio profondo, che mi accende di passione.
Leonardo si leva la camicia e mi strappa
via i pantaloni e le mutandine. Poi si siede
sul bordo del letto e mi trascina a sé,
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facendomi appoggiare la schiena al suo petto
nudo. Si piega in avanti inondandomi il collo
di brividi, al contatto con le sue labbra morbide. Il suo respiro arriva sui miei capezzoli,
che reagiscono subito. L’immagine del mio
corpo nudo si riflette nello specchio e mi aggredisce brutale e violenta come uno schiaffo. Non riesco a sostenerne la vista e giro la
testa di lato. Leonardo mi afferra il mento e
mi fa voltare di nuovo verso la mia immagine
doppia.
«Guarda quanto sei bella, Elena. Devi amare il tuo corpo, devi esserne orgogliosa, perché ti dà piacere. E lo dà a me.»
Ci provo, ma è difficile. La vista della mia
carne nuda, del mio sesso esposto, della mia
posa lasciva non mi riempie di orgoglio, ma
di vergogna. Leonardo mi prende una mano
e la appoggia sopra il mio sesso umido e
caldo.
«Continua a toccarti» mi sussurra all’orecchio. «Non fermarti.»
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Eseguo a occhi chiusi, almeno così vinco
l’imbarazzo. Lentamente sento le labbra inumidirsi, mentre Leonardo appoggia le mani,
che adesso sono cosparse di olio, sui miei
seni. Un delizioso profumo di rosa accarezza
la mia pelle. Le sue dita si muovono leggere
sul mio corpo fino a far scorrere tra indice e
medio la punta dei miei capezzoli turgidi. Li
stringono, ora, mentre le sue mani premono
sui miei seni, e sembra quasi vogliano dare
forma a un impasto che chiede di essere
modellato. C’è solo Leonardo, solo con lui riesco a provare questo piacere indescrivibile.
«Sulla punta delle dita. È lì che devi essere
ora. Con tutta te stessa.» Mi afferra il polso e
me lo appoggia appena sopra il monte di
Venere.
La mia mano esplora, spinta dal desiderio
di conoscere, ma procede ancora insicura.
«Adesso prova con le mie dita… se ti dà
più piacere…» mi sussurra, scostando una
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mano dal mio seno. «Ma voglio che sia tu a
farlo. Ancora per un po’.»
Afferro con delicatezza la sua mano e lascio scivolare dentro di me le sue dita, premendo su e giù lungo il clitoride.
Poi a un tratto Leonardo si libera dalle mie
mani. Inizia con una carezza lieve e morbida
che sfiora appena l’interno delle cosce, e non
si spinge più in là finché non allargo le
gambe completamente e il mio bacino
comincia a inarcarsi. Allora fa scivolare le
dita tra le labbra esterne solleticandole con
un piccolo movimento circolare e una leggera pressione. Chiude un labbro fra pollice e
indice, stringendolo delicatamente alla base,
poi percorre con i polpastrelli il mio sesso,
dal basso verso l’alto, descrivendo la curva di
una parentesi e ripete lo stesso nell’altro
verso. Un’onda di piacere si propaga attraverso tutto il mio corpo.
Quando comincio a muovermi al tocco
delle sue dita, mi accarezza il clitoride con
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una pressione leggerissima, poi scende
ancora finché le mie labbra non lo invitano a
entrare.
«Adesso apri gli occhi, Elena» mi mormora all’orecchio. «Voglio che mi guardi.»
Sollevo le palpebre come un sipario e l’immagine del mio corpo, imprigionato nel suo,
mi si ripresenta davanti. I nostri sguardi s’incrociano nello specchio mentre Leonardo inserisce dolcemente il dito medio dentro di
me e lo usa per disegnare tanti piccoli cerchi,
allargando delicatamente la mia carne.
Vinta, mi lascio andare. È il segnale inequivocabile – come se ce ne fosse stato bisogno
– che può spingersi oltre. A quel punto
muove il dito più a fondo: è tutto dentro di
me. Si ferma e gioca ancora un po’. Adesso
ne voglio di più e lui lo capisce all’istante. Aspetta che l’apertura si rilassi, e poi aggiunge
un altro dito, regalandomi una divina
sensazione di pienezza. Nello specchio il mio
viso è trasfigurato dal piacere e tutti i miei
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muscoli sono tesi in uno spasmo, come se
una corrente di energia li attraversasse
dall’interno. Non mi riconosco, quasi: è la
prima volta che mi guardo godere. Leonardo
mi sorride dallo specchio, come se intuisse i
miei pensieri. Quando comincio ad ansimare, flette le dita a L spingendo sulla base
del clitoride, con un movimento che mi sta
dicendo senza parole “vieni qui”. Anche i
suoi occhi lo dicono. Adesso entrambi stiamo
assistendo allo spettacolo di me che mi lascio
venire.
«Sì, Leonardo…» gemo. La testa gira, i
sensi cedono, completamente persi nel tormento erotico. «Più forte!» lo imploro.
Mi aggrappo alle sue spalle dietro di me,
mentre lui aumenta il ritmo delle dita dentro, e mi schiaffeggia delicatamente il monte
di Venere con l’altra mano.
«Ti piace così?»
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«Sì, mi piace…» mugugno. Sono un coagulo di desiderio. «Ancora, ti prego… non
fermarti.» Ora sono io a chiederlo a lui.
Lui continua il suo torbido gioco. È un tormento che mi devasta, mi porta allo sfinimento. E lui ne è perfettamente padrone. Il
mio corpo si dimena, sussulta senza più
freni. Sono al culmine dell’eccitazione e
gemo senza più inibizioni. Ancora e ancora.
E poi un urlo roco, che mi fa crollare sotto le
sue dita e inarcare violentemente la schiena
contro il suo petto, mentre uno sciame di
minuscole schegge si sparpaglia dentro di
me.
Leonardo mi abbraccia stringendomi forte
e mi riempie di piccoli baci sul collo.
«Brava» mi mormora contro la bocca.
«Questo significa godere.»
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Sono riversa sul letto, sazia e spossata. Lui
mi guarda compiaciuto e io mi copro con il
lenzuolo. Sorride.
«Ti dà così tanto fastidio essere
guardata?»
«Già…» annuisco debolmente.
So che non ha senso perché fino a un momento prima ero completamente nuda tra le
sue braccia. Eppure adesso sento il bisogno
di proteggere la mia intimità, di metterla al
riparo sotto questo lenzuolo.
«Allora questo sarà il prossimo tabù da cui
liberarti. Perché a me invece piace molto
guardarti.» La sua voce è dolce. È sdraiato
accanto a me, la camicia aperta sul petto, la
testa appoggiata nella piega del gomito.
Un’idea sfuggente attraversa i miei pensieri. Ho appena imboccato una strada folle.
Folle ma terribilmente eccitante. Mi seduce
con il gusto del proibito e un po’ mi
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spaventa. Non so dove mi porterà, per ora so
solo che voglio percorrerla fino in fondo.
Guardo Leonardo, la sua espressione è
mutevole, ogni volta diversa. Non so come,
ma i suoi lineamenti non mi risultano mai familiari, è come se li scoprissi sempre da una
prospettiva
nuova.
Chi
è
davvero
quest’uomo? Cosa l’ha portato da me? Ho
come l’impressione che non saprò mai
rispondere a queste domande. Ma sono
divorata da una curiosità che non mi dà
pace. E sto perdendo anche il controllo di
quello che dico. Bene.
«Hai avuto molte donne nella tua vita?»
gli chiedo senza giri di parole. Mi ha già
detto di non essere uno da fidanzate e il
modo in cui conosce e fa vibrare il mio corpo
rivela una grande esperienza.
Lui non sembra affatto sorpreso dalla mia
domanda. «Ne ho avute molte, sì.» Fa un
sospiro profondo e si distende sulla schiena,
con le mani dietro la nuca. «Ma i sentimenti
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non sono esattamente il mio forte, te l’ho
detto.» All’improvviso mi sembra si sia rabbuiato. Poi si volta di scatto verso di me e mi
guarda serio.
«Non sei l’unica, Elena, se è questo che
vuoi sapere. Non aspettarti che io ti sia
fedele.»
Vorrei nascondermi sotto il lenzuolo. Mi
sento stupida e infantile.
Lui deve rendersene conto perché mi
guarda un po’ disorientato: «Credevo fosse
chiaro…».
«Certo, è chiaro» mi affretto a dire con un
sorriso. In realtà mi sento di aver subìto un
torto, ma con uno sforzo sovrumano me la
faccio passare. “Da me non avrai l’amore romantico”: me l’ha detto chiaro e tondo, devo
solo mettermelo bene in testa.
«Comunque ora sarà il caso che vada» aggiungo sollevandomi dal letto e portandomi
dietro il lenzuolo.
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Mi rivesto rapida e Leonardo mi accompagna alla porta. All’improvviso mi sento insopportabilmente soggiogata da lui, quasi
schiacciata dalla forza che emana. Si ferma
sulla soglia e mi sistema una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
«Tutto bene?» mi chiede premuroso.
«Sì» rispondo, anche se, in tutta sincerità,
non ne sono sicura.
«A domani, allora?»
Non faccio in tempo a dirgli di sì che la sua
bocca si incolla vorace alla mia. Mi prende
con forza il viso tra le mani e il suo bacio diventa più intenso. Poi mi allontana e mi
guarda come se volesse studiarmi.
«Ho in mente qualcosa di speciale per te»
mi sussurra, misterioso. «Vieni presto.»
«Certo…» rispondo stordita.
Non vedo l’ora che sia domani.
9
Intorno a me, solo buio e silenzio.
Mi ha lasciata qui nuda, legata a una poltroncina, un fazzoletto di seta nera a coprirmi gli occhi. Mi sento piccola al centro di
questa stanza enorme, il salone delle feste, il
più grande del palazzo.
Stamattina, mentre venivo da Leonardo,
non sapevo davvero cosa aspettarmi, ho
pensato a mille scenari diversi, consapevole
che comunque lui sarebbe riuscito a
stupirmi.
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E ci è riuscito. Come sempre.
Mi ha aperto la porta ed è comparso sulla
soglia con quell’espressione sicura che non
lascia scampo. Non ha chiesto nulla, mi ha
solo attirata a sé e mi ha baciata, poi mi ha
presa per mano, guidandomi attraverso scale
e corridoi fino a questo salone. Si è fermato
al centro e ha cominciato a spogliarmi. Il
cuore mi martellava nel petto, pensavo
stessimo per fare l’amore, lo desideravo con
tutta me stessa. Avrei voluto che mi abbracciasse e che annullasse con il proprio corpo
la mia nudità, che mi rendeva impacciata e
nervosa.
«Girati» mi ha detto invece. E io ho
obbedito. Mi ha bendata prima che potessi
dire qualunque cosa, annodandomi dietro la
nuca un fazzoletto nero che aveva nella tasca
dei pantaloni. «Oggi non hai bisogno della
vista, Elena. T’insegnerò a vedere in un altro
modo.»
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Mi ha fatta sedere, mi ha legato i polsi ai
braccioli non so bene con cosa – potrebbero
essere le nappe delle splendide tende di
broccato di questa sala – e lo stesso ha fatto
con le caviglie, ancorandole ai piedi della
sedia.
«Che intenzioni hai?» gli ho chiesto con la
voce rotta.
«Shhh… questo non è il momento delle
domande» mi ha risposto in un sussurro. Mi
ha coperta con un lenzuolo ruvido, di quelli
che si usano per nascondere le tele degli
artisti, quasi fossi una sua creazione, lasciando esposti il viso e il seno. Mi ha accarezzato una guancia e poi ho sentito i suoi
passi allontanarsi.
Sono qui da più di un’ora. Almeno, credo
sia passata un’ora, dato che ho sentito una
volta le campane di San Barnaba.
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All’inizio è stato solo smarrimento, e pensieri fuori controllo. Ero nel panico, disorientata, mi sembrava di subire una tortura
senza senso. Mi sono maledetta per essermi
messa in questa situazione e per aver accettato quel patto infernale. Volevo solo liberarmi e scappare.
Poi ho capito.
L’odore di questa stanza mi è penetrato
lentamente nelle narici, sottile e insistente:
legno antico, polvere, umidità. Il velluto
dell’imbottitura ha cominciato a solleticarmi
la schiena, mentre una brezza leggera è entrata da una delle finestre – un brivido sottile ha percorso tutto il mio corpo
rendendomi i capezzoli appuntiti e duri. E
anche dal silenzio, lentamente, sono emersi i
suoni: le voci del Canal Grande, il brontolio
lontano dei vaporetti, una goccia caduta non
so dove, il mio respiro divenuto quasi
assordante.
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Leonardo mi ha bendata perché la mia
vista è vorace. Consuma tutto, non lascia
scampo agli altri sensi. Il mio sguardo è sottoposto ogni giorno a infiniti stimoli: il mio
lavoro, le mie passioni, la città in cui vivo.
Sono ventinove anni che mi drogo della
bellezza di Venezia, che mi nutro di marmi,
stucchi, tempere e pietre. Il mondo lo leggo
solo attraverso gli occhi. E adesso sono
coperti di nero, addormentati, narcotizzati.
Mi bastava questa sola via per conoscere le
cose. Ero felice e sicura. Prima d’incontrare
lui.
Un raggio di sole filtra attraverso le imposte e regala un po’ di tepore alla mano
destra, intorpidita. Non lo vedo, ma sto
provando a sentirlo. Ci sto provando, a osservare il mondo senza occhi. Oltre gli occhi.
Dove c’è la vera Elena, quella che Leonardo
vuole.
Adesso le caviglie cominciano a farmi male
e anche i polsi. Il sangue fatica a raggiungere
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le estremità. Una lacrima sottile mi scivola
da sotto la benda fino alle labbra – è calda e
salata – quando avverto un lieve fruscìo. Percepisco una presenza nella stanza.
«Leonardo? Sei tu?» mi agito sulla
poltroncina.
Sento i suoi passi avvicinarsi. Da quanto
tempo è qui? Da quanto mi sta osservando?
Adesso è in piedi di fronte a me, riesco ad avvertirlo, mi arriva il calore del suo corpo e
quell’inconfondibile profumo d’ambra.
«Leonardo, liberami… ti prego…»
Non mi risponde. Solleva un lembo del
lenzuolo e lo fa scivolare via con lentezza esasperante. Adesso sono nuda, completamente esposta, impotente. Per un tempo che
mi sembra infinito avverto i suoi occhi che
esplorano ogni parte di me. È un tocco indelicato, pungente, che provoca piccole scosse
sotto pelle. Mi ferisce e mi eccita allo stesso
tempo.
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All’improvviso, la sua voce è vicinissima al
mio orecchio. «Ti sto guardando, Elena.
Ovunque.»
Vorrei dirgli che mi piace essere guardata
così, che non lo sapevo e l’ho scoperto ora,
ma devo inghiottire un grumo di saliva e non
riesco a parlare.
Deve essersi inginocchiato davanti a me, le
sue mani sulle mie cosce. Poi labbra calde e
umide si posano sulle mie. Scendono lente
sul collo, sento la sua barba contro la mia
guancia, sul mio seno, contro il mio
ombelico. Barba che sfiora, solletica, punge e
tormenta. Il suo orecchino striscia contro la
mia spalla. E poi di nuovo le sue labbra sono
sopra le mie, la lingua preme arrogante
aprendosi un varco tra i denti e irrompe
nella mia bocca.
Un’onda sfacciata mi scuote il ventre e poi
scende, liquida e insidiosa. Vorrei sentire il
resto del suo corpo, cingergli le spalle con le
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mani, ma posso solo aprirle e chiuderle,
impaziente.
«Rilassati, Elena.» Leonardo mi soffia sul
viso. «Solo io posso usare le mani, oggi.»
Deve avere lo sguardo torbido, ardente di
desiderio, lo so, anche se non posso vederlo.
Quel sorriso enigmatico, crudele, gli aleggia
sul volto.
Percorre con le dita i tratti del mio viso,
fino al mento. Mi afferra i capelli, liberandone alcuni dalla benda. La sua lingua dentro il mio orecchio. Sangue che ribolle nelle
vene.
«Anche se non mi vedi» la sua voce è velluto, risuona intorno a me, dentro di me,
«puoi sentirmi, lo so.» Leonardo si rifugia
nell’incavo del collo e mi annusa, si beve il
mio odore. «Devi solo fidarti dei tuoi sensi…
Elena…»
Poi qualcosa di fresco, di vivo mi sfiora,
scende languidamente dal collo alla gola,
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fino al seno, soffermandosi sui capezzoli. È
qualcosa d’inatteso, bagnato, e sono le sue
mani a guidarla. Me la fa scorrere lungo le
cosce, tra le gambe, e poi di nuovo su, fino a
posarla sulla mia bocca.
«Leccala» intima con voce diabolica,
«piano…»
Socchiudo le labbra e faccio quello che mi
dice. Non ho mai assaggiato un’arancia in
questo modo. Ha il gusto acre del peccato, il
suo sapore si mescola al mio.
Adesso Leonardo sta rubandone il succo
dalle mie labbra, seguendone la scia fin sotto
il mio ombelico. Sento le sue mani fare resistenza contro le mie gambe, che istintivamente
vorrebbero
chiudersi.
Vorrei
muovermi, sottrarmi a questa dolce tortura,
ma non posso.
Le sue dita sono dentro di me. Separa con
il medio le piccole labbra e con l’indice e l’anulare le piccole dalle grandi. Sprofonda il
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medio nel mio nido, poi me lo porta alla
bocca e me lo fa succhiare. Il mio sesso bagnato della voglia di lui.
Mi scioglie una caviglia. Ancoro il polpaccio al suo fianco e mi apro, per fare spazio a
ciò che verrà. Ma Leonardo inaspettatamente si ritrae.
Sento una goccia di liquido freddo atterrare sul mio ginocchio e da lì scivolare fino al
piede. Poi la stessa goccia densa sulla bocca,
spalmata dalle dita di Leonardo. Sa di alcol e
liquirizia.
«Lo sai che non bevo…» mormoro a fatica.
«Non credo ne morirai» mi sussurra, la
voce rotta dal piacere.
Me ne dà ancora, direttamente dalla bottiglia. È un sapore forte, violento, al quale
non sono abituata. Mi sottraggo con una
smorfia, un po’ di liquido cola sul mento e
sul collo. Leonardo ride e mi provoca raccogliendolo con le labbra.
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«Elena…» sibila quasi al mio orecchio,
«non sei un angelo puro e senza vizi… pensa
solo a godere, adesso.» Mentre parla infila di
nuovo la mano tra le mie gambe facendomi
sussultare. Prende un sorso a sua volta, mi
avvicina a sé premendo dietro la nuca e me
lo passa in bocca. Il liquore scende assassino
in gola. È buono, dolce e amaro insieme.
Fuori rinfresca, dentro è fuoco.
«Ti piace, vero? Lo so…»
Mi penetra con la lingua e la muove intorno alla mia. Poi mi afferra la testa e la abbassa. Uno sciame di puntini bianchi ronza
nel nero dei miei occhi. Tutto gira, mi sento
stordita.
«Leccami.» Il suo ordine è dolce, gravido
di promesse.
Sono in bilico tra la paura di sempre e il
desiderio di adesso. Lo sfioro con la lingua
come si sfiora il pericolo. Assaporo la sua
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voglia prepotente. È duro, la pelle tesa.
Cresce pulsando.
Pochi istanti soltanto e poi, appoggiandomi una mano sulla fronte, mi allontana il
viso dal suo sesso impaziente e, con un gesto
deciso, mi libera l’altra caviglia.
Le sue dita scorrono rapide lungo le mie
gambe, premendo e massaggiando, come per
riportarle in vita. Le mie braccia precipitano
senza preavviso lungo i braccioli della poltroncina, Leonardo ha sciolto tutti i nodi.
Sono libera. Libera di toccarlo. Libera di fare
ciò che desidero. Sollevo una mano verso la
benda, ma lui mi blocca.
«No. Questa rimane.» È un ordine. Stringe
il nodo per assicurarlo bene alla nuca.
«Ti prego» lo imploro.
«No, Elena… non ti conviene» mi sussurra, stampandomi le labbra calde e umide
sugli occhi coperti.
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Poi, catturandomi i fianchi, mi solleva e mi
prende in braccio. Mi spinge contro la
parete, stringendomi più forte. Sento i suoi
palmi affondare nelle mie natiche. Il suo
sesso scivola nel mio e si fa spazio con spinte
esperte, senza fretta.
Sento il suo respiro nel mio orecchio. «Tu
non ti conosci ancora. Ma ci arriverai, senza
accorgertene.» La sua voce vibra di
desiderio.
Il mio respiro si sintonizza con il suo. E
ora il piacere brucia come fuoco nei nostri
corpi sudati.
Infine mi adagia a terra, sul telo che prima
mi copriva, e si sdraia sopra di me, sprofondandomi dentro. Mi lascio penetrare, stavolta più a fondo. Gemiti, sempre più affannosi. Sospiri. Graffi. Strette. E poi, di nuovo,
respiri corti, vertigini. Tutto cede, si
frantuma sotto i colpi della sua carne, del suo
desiderio. Leonardo mi cerca il piacere dentro le viscere, lo trova. L’orgasmo si accende
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improvviso e io contraggo i muscoli come a
trattenerlo, ma esplode violento e implacabile, invade tutto, dalla punta dei piedi
fino alle ossa del cranio. Mi aggrappo con le
unghie alla sua schiena mentre ci precipito
dentro. Mi sento gemere. Ho perso totalmente il controllo, non sono più io, non sono
più la Elena che conoscevo. Sono l’impotente
spettatrice di me stessa.
Leonardo scivola fuori dal mio corpo bagnando di sé il mio seno, poi crolla accanto a
me ansimando.
Burro. È così che mi sento adesso. Un abbandono viscido e sensuale mi tiene incollata
al pavimento. Non voglio muovermi,
comunque. Piccoli brividi mi corrono ancora
lungo la schiena.
Una mano dolce mi accarezza il viso e mi
libera gli occhi dalla seta nera. Sbatto debolmente le palpebre nella luce fioca del pomeriggio. Non riesco a vedere bene,
all’inizio, ma poco a poco la pupilla si
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riabitua e si dilata. Questa stanza mi sembra
diversa da quella di sempre, come se emergessi ora da un sogno e non fossi mai stata
qui. Le vetrate sul Canale, i lampadari di
Murano, il velluto delle sedie, le statue dei
due Mori agli angoli del caminetto. Niente è
come prima. L’odore della polvere si mescola
a quello del sesso.
Il mio sguardo incontra quello di
Leonardo, che mi sorride come qualcuno che
ti stava cercando e finalmente ti ha trovato.
«Eccoti» dice piano, rassicurante, pulendomi il seno con un lembo di tessuto. «Sei
ancora più bella, adesso.»
Non ho la forza di parlare. Gli sorrido passandogli una mano tra i capelli, mentre lui si
abbassa per riempirmi l’ombelico con un bacio delicato.
«È stato così terribile per una volta non
guardare e lasciarsi guardare?» mi chiede,
appoggiandomi la bocca sulla spalla.
302/564
«È stato bellissimo» sussurro con un filo
di voce. Ho paura di rompere quell’incanto.
«Tutto questo bisogno di controllo è pura
illusione, Elena. È quando ti abbandoni a te
stessa che diventi ciò che sei veramente.» Mi
accarezza la fronte e mi sistema una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. «E quello di oggi è
stato solo un piccolo assaggio…» Mi sorride,
poi mi dà una leggera pacca sulla spalla.
«Adesso girati, voglio massaggiarti la
schiena.»
Obbedisco, ancora indolenzita. Lui mi avvinghia i fianchi con le ginocchia e lascia
libere le mani di viaggiare senza direzione
sulla mia pelle nuda. Sento i muscoli riprendere vigore.
Non so che ore sono, non ho più contato i
rintocchi delle campane. So solo che tra un
po’ dovrò andarmene. So che, mentre camminerò per queste calli troppo strette e affollate, sentirò ancora il profumo di Leonardo.
Non mi lascerà, m’inseguirà violento fino al
303/564
portone di casa, mentre salirò le scale leggera, sospinta dai pensieri. Quell’odore mi
farà compagnia per il resto della giornata e
niente potrà lavarlo via.
«Dove sei, Elena?» mi pizzica le spalle,
come se volesse destarmi dal vortice di pensieri in cui sono sprofondata.
«Sono qui. Ma tra poco vado.»
Tra poco vado, ma per un po’ rimango.
Perché adesso sto bene dove sono, in questo
quadrato di luce che allaga il pavimento, il
mio corpo nudo, il suo, e niente altro.
10
Non vedo Leonardo da giorni. All’improvviso è scomparso, non un messaggio, non
una chiamata e io mi trascino in giro con
questo strano senso di amputazione addosso.
Non è passato molto tempo dal giorno del
nostro patto – se così si può definire – eppure è già diventato indispensabile. Sto
vivendo una dipendenza che non ho mai
sperimentato, aspetto il nostro prossimo incontro come se non ci vedessimo da mesi:
sono sua e vorrei esserlo ancora di più. Nessuno mi aveva mai presa in modo così
viscerale.
305/564
Al palazzo non si è visto. Ho sbirciato in
camera sua (mi comporto come una paranoica, e non è da me) e c’era il solito disordine, le solite lenzuola stropicciate, le
solite camicie sparse sul tappeto. Ho provato
a chiamarlo al cellulare, ma sono stata freddata dalla voce anonima della segreteria, che
mi consigliava di provare più tardi.
Ed è quello che ho fatto, senza però
ricevere mai risposta. Leonardo sembra
sparito nel nulla e il suo silenzio mi riempie
di domande. Ma ce n’è una che più delle altre
non mi dà pace: e se si fosse già stancato di
me? Ho formulato le ipotesi più assurde.
Ogni tanto me lo immagino riverso su un
letto d’ospedale con una flebo al braccio, ma
il minuto dopo lo penso in una lussuosa
stanza d’albergo che gode tra le braccia di
un’altra. Magari mi ha scaricata per starsene
con la violinista statuaria: è più che plausibile, in fondo.
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Il lavoro non aiuta a distrarmi: la mano
non è ferma, gli occhi non mettono a fuoco e
la mente inventa mille congetture. Mi chiedo
se tornerò mai a essere felice come ero stata
lì, a contatto con la sua pelle nuda. Ma sopra
ogni cosa mi chiedo se in questi giorni abbia
mai pensato a me come io penso a lui. Come
a un’ossessione.
Sto tornando in vaporetto dall’isola di San
Servolo. Per non morire di pensieri sono andata a vedere la retrospettiva di un noto
fotoreporter svedese. Non so se sia stata una
grande idea. Le immagini dei paesaggi iraniani rapivano gli occhi, ma mentre ero lì e mi
aggiravo sola tra le stanze affollate di gente
non ho potuto fare a meno di pensare a Filippo. Di solito ci andavo con lui alle mostre
ed era straordinario condividere sempre le
opinioni su tutto e capirsi al volo con uno
sguardo. A volte lui aveva il coraggio di
starsene intere ore appoggiato a un muro,
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moleskine e stilografica alla mano, a ricopiare didascalie, schizzare bozzetti, scrivere appunti. Allora io sbottavo e, dopo avergli requisito il suo amato taccuino, lo strattonavo
fuori. Ridevamo come matti.
Però, se Filippo fosse qui, sarebbe tutto
più complicato, adesso.
Una leggera nebbia si adagia sulle acque
della Laguna, mentre il giorno sta affondando silenzioso all’orizzonte. Mi godo il
tramonto dal vaporetto e ho l’impressione di
spostarmi nel cielo insieme al sole. A
quest’ora, nell’aria di Venezia si diffonde
sempre una strana nostalgia.
Scendo alla fermata di San Zaccaria, urtando contro la gente accorsa sul pontile. Intorno agli imbarcaderi dei vaporetti di solito
le persone e i loro pensieri sembrano particolarmente vicini e convergenti. Siamo tutti
marinai, anche se ci stiamo solo spostando
da un quartiere all’altro della stessa città.
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Ho deciso che passerò a salutare i miei,
così magari ne approfitto anche per consumare l’unica cena della settimana degna di
tale nome. Dopo giorni d’inappetenza inizio
a sentire lo stimolo della fame, ma non sono
ancora dell’umore giusto per affrontare il supermercato. Se andassi a fare la spesa, adesso, rischierei di riempire un intero carrello
di biscotti al cioccolato, pentendomene solo
dopo averli pagati e averne ingurgitato un
pacco strada facendo.
Cammino a passo veloce sotto i portici del
Florian, al riparo dalla folla, lasciando Piazza
San Marco ai turisti e alle loro fotografie.
Sfidando il vento freddo che taglia la faccia,
arrivo in campo Santa Maria del Giglio e
suono al citofono di casa Volpe. Mi risponde
mia madre, e dalla voce sembra al settimo
cielo. Non si aspettava la mia visita.
Salgo le scale e mi lascio avvolgere dal profumo dello strudel di mele appena sfornato.
Mia mamma è una cuoca eccezionale. Se non
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ci fosse stata lei a nutrirmi, è probabile che
in tutti questi anni di stretta fede vegetariana
sarei morta di fame.
Mi levo il giubbotto e spizzicando un angolo di strudel affondo nel divano. Accendo
lo stereo, perché giusto questo mi è consentito: niente tv prima delle nove di sera è
sempre stata una regola ferrea in casa Volpe.
Ecco perché sono cresciuta senza cartoni animati e a suon di compilation di Mina e
Battisti.
Mia madre mette a riposo l’impasto degli
gnocchi alla zucca – altra sua specialità – e
dalla cucina mi raggiunge in soggiorno e
inizia a bombardarmi di domande sull’inaugurazione del ristorante di Brandolini. Non la
vedo da allora ed ero sicura che mi avrebbe
fatto il terzo grado sull’evento del mese.
Glielo racconto a grandi linee, ovviamente
senza menzionare Leonardo, e lei sembra insaziabile. Vuole sapere tutto su chi c’era e chi
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non c’era e pretende ogni dettaglio sugli ospiti presenti.
«Ho letto sul giornale che c’era un cuoco
famoso…» m’incalza, in attesa di una risposta che la soddisfi.
«Ma sì, mamma, è il tipo che sta nel
palazzo dove restauro l’affresco.» Rimango
sul vago, ma sento già le guance andarmi a
fuoco. Se sapesse cosa fa la sua bambina con
quel “cuoco famoso”… Mi sistemo la sciarpa.
Non me la sono tolta per nascondere un
segno inequivocabile che Leonardo mi ha
lasciato sul collo.
«E quindi com’è?» continua con quel suo
tono inquisitorio.
«L’ho incrociato solo poche volte» abbasso
lo sguardo sul tappeto, «ma a quanto pare
cucina bene.»
«E cosa c’era da mangiare?»
«Molti assaggi di finger food, roba ultrasofisticata… ma niente di paragonabile con
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quello che mi cucini tu, mamma» la
rassicuro con un sorrisetto ruffiano.
Gongolando si dà dei colpetti ai capelli che
da vent’anni tinge con la stessa tonalità di
castano ramato. Ogni volta che qualcuno le
fa un complimento sulla sua cucina, mia
madre va in estasi.
«Ma non ti togli la sciarpa?»
Eccola, lo sapevo. Non le sfugge niente. «È
che ho un po’ di torcicollo e mi tiene caldo»
dico fingendo un’espressione sofferta.
«Tesoro, devi coprirti di più con questa
umidità!»
«Forse è colpa dell’affresco. Sono stata
troppo in quella posizione scomoda sulla
scala.» Aiuto, non riesco a reggere la scusa
del torcicollo, al pensiero di me avvinghiata a
Leonardo.
«Chiaro, se hai sforzato i muscoli, poi è un
attimo ritrovarsi con una bella contrattura»
dice lei tutta convinta.
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Ti prego, mamma, non continuare. Tu non
lo sai – e non lo vuoi sapere – quali muscoli
ha sforzato la tua bambina. Cerco di cambiare argomento. «Dov’è papà?»
«È andato al negozio di ferramenta.»
«Per cosa?»
«Chissà» scuote la testa, rassegnata, «da
quando è in pensione si dedica al bricolage.»
«Bene. Allora gli dirò di costruirmi una
nuova libreria, visto che sulla mia non c’è più
un angolino libero.»
«Faresti di sicuro la sua felicità. Sembra
che si diverta parecchio a trafficare con il suo
trapano nuovo.»
È in questo preciso istante che sento squillare il telefonino nella borsa. Guardo
l’iPhone su cui lampeggia un numero che
inizia con 041, il prefisso di Venezia. Chi potrebbe chiamarmi da un fisso che non ho
memorizzato in rubrica? Oddio, sarà lo
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studio dentistico che vuole ricordarmi
dell’appuntamento di domani.
«Pronto?» rispondo con tono distratto.
«Ciao, sono io.» Una voce potente arriva
dall’altra parte. La sua voce.
Lancio uno sguardo rassicurante a mia
madre– come a dire “va tutto bene, una
chiamata di lavoro” – e sguscio nella mia
vecchia camera. Il cuore mi pulsa nelle
tempie.
«Leonardo…»
Mi appoggio al termosifone e guardo fuori
dalla finestra. Per un attimo ho l’impressione
che il tempo si congeli e che l’acqua del
canale sottostante smetta di scorrere. Appoggio la fronte al vetro: «Ma dov’eri finito? Ho
provato a chiamarti un sacco di volte».
«Lo so» dice lui.
«Ho pensato che non volessi vedermi più»
aggiungo con voce incerta.
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«Ma no, Elena, non correre… Sono stato in
Sicilia» continua lui con tono pacifico. «Era
una questione urgente e sono dovuto partire
senza preavviso. Tutto qua.»
«Almeno una chiamata potevi farla» insisto con una punta di rabbia.
Lui prende un respiro.
«Non ti aspettare chiamate da me, Elena.
Non ti aspettare una routine da fidanzati.
Devo muovermi liberamente, per questo non
voglio legami.»
È così, dunque, molto più semplice di
come avevo immaginato. Poteva inventarsi
qualsiasi scusa e invece me lo dice brutalmente: non si è fatto sentire perché non ha
voluto. E io devo starci, prendere o lasciare.
«Sono al ristorante» continua. «Sono rientrato da un’ora e sei la prima persona che
chiamo.»
«Per dirmi cosa?» gli chiedo secca, l’orgoglio ferito.
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«Vieni qui. Ti aspetto a mezzanotte, dopo
la chiusura.»
«Perché?» Prendo il telefono con l’altra
mano e mi pulisco il palmo sudato sui pantaloni. Mi sto agitando.
«Perché ho voglia di vederti.» Ho l’impressione che stia sorridendo della mia ritrosia.
«Vieni vestita da sera e molto affamata.
Ceniamo insieme.»
Dà già per scontato che gli dirò di sì. Come
sempre. Vorrei avere la forza di dirgli di no,
invece, tanto per darmi un tono e per vendicarmi di essere stata abbandonata in quel
modo. Ma è inutile prendersi in giro: ho
troppa voglia di vederlo anch’io.
«D’accordo. Ci vediamo dopo.» E al
diavolo l’orgoglio.
«A più tardi.»
La chiamata s’interrompe. Stringo così
forte il telefono che le dita mi fanno male.
Sono felice che si sia rifatto vivo, non
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aspettavo altro, ma mi sento sempre più
insicura, in balìa dei suoi disegni oscuri.
Chissà che cosa aveva da fare di così urgente
in Sicilia per eclissarsi in quel modo? Non so
perché, ma all’improvviso vorrei piangere.
Non so niente di Leonardo, del suo passato o
di quello che fa quando non è con me. Nonostante io conosca ogni centimetro del suo
corpo, il suo mondo interiore rimane un mistero per me.
Mi ci vuole un po’ a riprendermi e, prima
di tornare in sala, vado in bagno a controllare lo stato del mio viso. Il fuoco che ho dentro è salito tutto sulla fronte e un’onda umida
si è insinuata morbidamente tra le mie
gambe. Il solo fatto di pensarlo mi provoca
una reazione fisica. Ho voglia di lui, da
morire.
Mentre rientro in soggiorno, trovo mia
madre china sul ripiano di marmo della cucina a rollare gli gnocchi con la forchetta:
un’abilità che ogni volta mi lascia sgomenta.
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«Chi era al telefono?» domanda, continuando a tagliare pezzi d’impasto.
Ci penso solo un istante e sono già pronta
a mentire. «Era Gaia.»
«Come sta? È tanto che non la vedo…»
Mi preparo già a un altro interrogatorio.
Ho un improvviso flashback del liceo, di
quando tornavo a casa esausta dopo una
giornata di scuola, e lei mi chiedeva dei voti
che avevano preso i miei compagni, o di che
cosa avevamo discusso durante la lezione di
italiano. Se non ero particolarmente in vena,
ci pensava lei a riempire i silenzi, parlando
degli acciacchi delle sue amiche, di com’era
stato antipatico l’impiegato delle Poste o del
fatto che aveva incontrato la mia maestra di
terza elementare dal fruttivendolo. Non è
cambiata molto da allora.
«Gaia sta bene, è sempre molto impegnata.» Mi avvicino all’appendiabiti e prendo
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il giubbotto. «Scusa, mamma, ma non posso
fermarmi a cena.»
«Ma come? Scappi così?» Aggrotta la
fronte in segno di disapprovazione e mi
guarda di traverso. «Avevo preparato anche
la macedonia, perché lo so che la frutta tu
non la mangi mai.» Poi mi lancia un’occhiata
circospetta. «Elena, sei così pallida… Sicura
di stare bene?»
Pallida? A me sembrava di andare a fuoco
poco fa. Merda. Che abbia capito qualcosa?
Al liceo non volevo mai dirle quali ragazzi mi
piacevano, altrimenti mi avrebbe tartassata
di domande. E anche adesso non dirò nulla,
la mia bocca rimane sigillata su certi argomenti. Ho quasi trent’anni e vorrei ancora
che i miei genitori mi stimassero, che
avessero un’immagine pulita di me. E mia
madre, una donna che trova la chiave della
propria vita nella ricetta dello strudel e nei
centrini ricamati, non capirebbe mai una
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relazione come quella tra me e Leonardo.
Non la capisco nemmeno io, a dir la verità.
«Sì, sto bene, mamma. Sarà questo torcicollo a farmi sembrare un cencio.»
Mia madre si guarda in grembo e si liscia
la gonna. C’è rimasta male. Prima alimento
le sue speranze e poi le dico che non posso
fermarmi a cena. Essere figlia unica è un lavoro a tempo pieno, non ci sono fratelli e
sorelle che mi diano il cambio quando mi
tiro fuori dai giochi.
«Dài, non te la prendere…» Mi avvicino e
le stampo un bacio sulla guancia. «Gaia ha
insistito, lo sai com’è fatta. Mi deve parlare
di una cosa importante.»
«Cosa c’è di così importante?»
Ci sta riprovando. Forse ha intuito che c’è
dell’altro oltre a Gaia e vuole vedere se cedo.
«Non lo so, mamma, ma sembrava una cosa
urgente… Scappo.»
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«Va bene, fa’ la brava.» Alla fine si
rassegna, ma prima che me ne vada mi mette
tra le mani un contenitore pieno di gnocchi
alla zucca. «Mettili in frigo, durano anche
domani. E mangiali!»
Avrei potuto restare a cena dai miei e andare da Leonardo più tardi, ma non mi piaceva l’idea di passare senza soluzione di
continuità dal focolare domestico alle grinfie
del mio pigmalione. Sarebbe stato troppo
traumatico. Di rimanere da sola a casa non
se ne parla neanche, mi logorerei nell’attesa.
Così ho chiamato Gaia e le ho chiesto di cenare insieme. Lei ha accettato al volo. L’ultima
volta che ci siamo sentite la sua storia con
Jacopo andava a gonfie vele, ma immagino
che ci siano aggiornamenti degni di nota, e
lei è ansiosa di raccontarmeli.
Indosso biancheria intima nera, comprata
qualche giorno fa in una merceria del centro.
Calze autoreggenti e un vestito di pizzo,
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anche lui nero, che avevo nell’armadio e non
mettevo mai. Me l’ha regalato Gaia, non mi
ricordo in quale occasione, ma l’ho sempre
considerato troppo corto e scollacciato.
Stasera, però, mi sto vestendo perché
Leonardo possa spogliarmi più tardi e questo
pensiero mi spinge a osare.
Con Gaia c’incontriamo alle Oche, una
pizzeria alle Zattere. All’ingresso c’è un bel
po’ di coda, quindi propongo di andare al ristorantino qualche metro più avanti. Non
voglio arrivare tardi all’appuntamento con
Leonardo, ma Gaia insiste, muore dalla
voglia di pizza e mi promette che se la
situazione non si sblocca in tempi rapidi farà
una scenata. Questo sì che mi rassicura. La
studio un po’: stasera è più raggiante del
solito, ha i lineamenti distesi e i capelli in
piega perfetta. Ai lobi le pendono due vistosi
orecchini di perle e oro bianco.
«Ho qualcosa in faccia?» mi domanda,
dandosi dei colpetti sulle guance.
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«Stavo solo guardando i tuoi orecchini.
Molto belli…»
«Vero? Me li ha regalati Jacopo» dice con
un sorriso a trentasei denti.
«Brandolini non sbaglia un colpo, eh…»
Sorride, non vedeva l’ora che toccassi il
tema.
«Mi ha portata in un resort sulle colline
toscane e abbiamo passato un weekend magnifico. Ho conosciuto un sacco di gente del
suo giro, pensavo fossero degli snob e invece…» Va avanti a raccontare per un po’,
riempiendo così la noia dell’attesa. Infine mi
domanda com’è andato il mio fine settimana.
«Benissimo» rispondo. «Ho lavorato. Ci
ho dato dentro con l’affresco.»
«E Leonardo l’hai più incontrato?» mi
domanda distrattamente, mentre ci conducono a un tavolo al piano superiore. «Io
non lo vedo dalla sera dell’inaugurazione.
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Dovremmo tornarci una volta al suo
ristorante!»
Il cuore mi salta un battito nel petto. «Si
potrebbe fare, certo.» Cerco di rimanere sul
vago, ma per poco non inciampo sulle scale.
Raggiungiamo il tavolo e quando mi tolgo
il soprabito la sorpresa si disegna sul volto di
Gaia.
«Finalmente ti vedo con quel vestito!» Mi
osserva compiaciuta sotto le luci, facendomi
girare su me stessa. «E anche con il trucco
stai bene. Brava, ogni tanto mi ascolti: quella
stronzata dell’acqua e sapone è morta con le
femministe negli anni Settanta.»
«Io ti do sempre ascolto» ribatto,
sorridendo.
«Come no…» e inzuppa una costa di
sedano nel pinzimonio. «Anche la collana è
bella. Un po’ vistosa, ma ci sta tutta.» Peccato che non sappia cosa si nasconde sotto.
Comunque, avere l’approvazione di Gaia
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rafforza le mie speranze di piacere a
Leonardo.
Il cameriere arriva al nostro tavolo a prendere le ordinazioni. Lei chiede una pizza rucola e bresaola, io un’insalata. Leonardo mi
ha detto di arrivare affamata, non voglio rovinarmi l’appetito.
Gaia mi guarda stupita. «Non prendi altro? Mi fai sfondare di carboidrati da sola?»
Tento di rabbonirla: «Te l’ho detto, ho
praticamente cenato dai miei. Lo conosci lo
strudel di mia madre…».
«Ah, lo strudel della Betta… Vabbè, per
stasera ti perdono.»
Parla a me, ma sta guardando il cameriere,
che è ancora in piedi accanto a noi e che, non
posso darle torto, è proprio un bel ragazzo.
Lui sorride e lei ricambia, civettuola.
«Mi raccomando, la pizza… che sia ben
cotta.» Si sposta i capelli da un lato.
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Il cameriere ammicca e poi se ne va. Gaia
non perde lo spettacolo del suo fondoschiena
fasciato nei pantaloni aderenti.
«Guarda che è troppo giovane per te» le
dico, infischiandomene che lui sia ancora a
portata d’orecchio.
«Che cosa?» risponde lei con aria innocente. «Oh, dài, non stavo flirtando. Ma solo
perché è gay, sia chiaro.»
Scoppiamo a ridere. Nonostante Brandolini,
Gaia
resta
un’incorreggibile
mangiatrice di uomini. Sono io a essere diversa: le ho sempre raccontato le mie storie,
ma di Leonardo non ce la faccio a parlarle.
Dovrei spiegarle che la nostra non è proprio
una relazione, che tra noi c’è una specie di
patto, un gioco perverso, in cui lui ha tutto
da guadagnare e io una cosa sola da perdere:
me stessa. No, credo che Gaia non approverebbe, anzi, si preoccuperebbe per me e
mi consiglierebbe di lasciar stare. Ma io non
voglio lasciar stare, non ancora.
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«Senti, raccontami di Filippo…» se ne esce
a un tratto, picchiettandosi gli angoli della
bocca con il tovagliolo. «Quando l’hai sentito
l’ultima volta?»
«Un bel po’ di giorni fa, via skype. È
presissimo dal lavoro.»
«Mamma mia, fareste una bella coppia
solo per questo voi due. Siete due workaholic!» Agita le braccia in aria. Poi si protende
in avanti e mi fa, tutta seria: «Ele, te l’ho già
detto, tu dovresti osare un po’ di più con
lui».
«Non lo so…» dico, gli occhi fissi sulla
tovaglia. Filippo in questo momento mi sembra così lontano.
Gaia fa una smorfia. «Ma perché sei così
controllata? Rilassati e ascolta le tue
emozioni, per una volta…»
«Te l’ho detto, è la distanza che mi
spaventa…» oltre al fatto che faccio sesso con
un altro.
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«E allora vai a trovarlo! Oppure potresti
farci qualcosa via skype, per esempio…» continua in tono sempre più malizioso.
«Ma smettila, ti pare che Filippo sia il
tipo…»
«Ommioddio, Ele, svegliati! È un uomo
anche lui… non sarà molto diverso dagli
altri.»
«Piantala, ora!» Mi nascondo dietro al
tovagliolo. E, puntuale, ecco che ho davanti
agli occhi l’immagine di me riflessa nello
specchio mentre mi do piacere tra le braccia
di Leonardo.
Per fortuna arrivano le nostre ordinazioni.
Azzanno il primo boccone d’insalata e so già
che farò uno sforzo immenso per finirla
tutta. Ho lo stomaco chiuso e questa roba mi
sembra irrimediabilmente insipida. Ora ho
in mente solo l’odore e il sapore di Leonardo,
qualcosa che sa di ambra, di mare e di terre
lontane. Mi domando cosa mi aspetti dopo,
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al nostro appuntamento, ma scaccio il
pensiero.
Per distrarmi, cerco di far parlare Gaia.
«Insomma, allora Jacopo ti piace proprio.
Ma, fammi capire: il ciclista che posto ha
nella tua classifica del desiderio?»
Inaspettatamente, Gaia cambia espressione. Non pensavo di toccare un tasto
dolente.
«Belotti purtroppo non l’ho ancora dimenticato.» Sospira. «So che è in ritiro con
la squadra, adesso, ma prima o poi mi richiama, vedrai.»
Sono sorpresa, non pensavo che i suoi sentimenti per quel tipo fossero così tenaci. «E
poi cosa faresti, liquideresti di punto in bianco Brandolini?» le chiedo.
«Non lo so, forse per stare con lui lo
farei.» Adocchia il cameriere e chiede il conto facendo uno scarabocchio in aria. «Ma per
ora mi tengo stretta Jacopo.»
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«E fai bene» commento. Tra il conte e il
ciclista io faccio il tifo per il conte.
«Andiamo a berci una cosa allo Skyline?»
propone recuperando d’un colpo la consueta
spensieratezza.
Sfoggio la battuta che mi ero preparata in
anticipo: «Non posso, domani mi alzo presto
per lavorare» dico con la voce impastata di
finto sonno e sfodero uno sbadiglio a regola
d’arte.
«Ci avrei scommesso le mie Manolo
Blahnik che mi avresti detto di no.»
Bene, la mia interpretazione è stata
convincente.
«Però promettimi che appena arrivi a casa
accendi il computer e cerchi Filippo su
skype.»
«Ok… se è sveglio.»
Ci salutiamo all’angolo del ponte. Abbraccio Gaia e la ringrazio per la serata. Faccio
qualche passo in direzione di casa mia, ma
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non appena ci siamo separate svolto alla
seconda calle a destra e mi metto a correre.
Verso una tentazione a cui ormai non so più
resistere.
Costeggiando il Canal Grande arrivo in
campo San Polo. Dei palazzi che vi si affacciano solo pochi sono ancora illuminati, la
maggior parte è ormai sprofondata nella
penombra. L’oscurità è resa ancora più
densa dalla tipica nebbiolina preinvernale
che smussa gli spigoli e sbiadisce i colori. Ho
freddo, le mani ghiacciate, ma dentro di me
sento un vortice caldo. Mi sono levata la collana e anche la sciarpa che ora non hanno
più ragione di rimanere sul mio collo. Ora
voglio appartenergli con ogni centimetro di
pelle.
Il ristorante è chiuso. Chiamo Leonardo al
cellulare. Non risponde, ma in un attimo
vedo la sua ombra sulle vetrate dell’ingresso.
Apre la porta, ed eccolo comparire sulla
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soglia con la solita aria stropicciata, l’aria di
chi ha poca fiducia nel mondo e molta in se
stesso. Mi tira dentro afferrandomi per la
vita e mi stampa sulla bocca un bacio
profondo.
«Benvenuta.»
Mi aggrappo alla sua schiena come a una
roccia sicura. Mi ha tormentata, se n’è andato senza lasciare tracce, ma adesso eccolo
qui, tra le mie braccia, e ho già scordato
tutto.
Guidandomi attraverso i tavoli della sala
con passo sicuro mi conduce nel suo regno.
La cucina. È un posto che incute un po’ di
timore, così asettico e ordinato, immerso
nella semioscurità: chissà che inferno va in
scena qui mentre gli ospiti sono comodamente seduti in sala ad aspettare le loro ordinazioni. Sembrerebbe quasi un laboratorio
se non fosse per un angolo del bancone apparecchiato per due e illuminato da un fascio
di luce arancione. Più in là, sullo stesso
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bancone, alcuni vassoi nascosti sotto coperchi d’argento. Posate, piatti e bicchieri sono
essenziali e lucidi come strumenti di precisione. Effettivamente sembra il set di un esperimento, più che di una cena.
«Questo è il tuo posto.» Leonardo mi sfila
il soprabito e mi fa sedere su uno degli sgabelli, poi siede a sua volta.
«Non mi era mai capitato di mangiare
nella cucina di un ristorante. Anzi, penso
proprio di non esserci mai entrata» dico,
guardandomi intorno incuriosita.
«Dovresti vederla di giorno, piena di persone, di rumori, di movimento. Ma io la
preferisco di notte, quando è vuota e
silenziosa.»
Lascia scorrere lo sguardo sul mio vestito.
«Sei molto elegante» osserva, appagato. Poi
si sofferma sul collo. «E quel segno?»
«Me l’hai fatto tu…» e istintivamente mi
copro con una mano. Leonardo me la sposta
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e, allungandosi verso di me, ci posa sopra le
labbra calde e morbide.
«Sei anche affamata?» chiede poi, porgendomi un aperitivo a base di fragole e
champagne.
«Abbastanza» rispondo, mentre i nostri
bicchieri si toccano tintinnando. In realtà ho
una morsa allo stomaco. Vorrei lui, non il
cibo. Mi bagno appena le labbra e poi poso il
flûte sul bancone.
«Quello devi berlo tutto» mi rimprovera
sornione e minaccioso insieme.
«Non posso. Mi gira la testa già al secondo
sorso, lo so.»
«Bene. Mi toccherà riportarti a casa in
spalla un’altra volta.»
Sorride, ma dal suo sguardo capisco che
non posso rifiutare. Mi faccio scivolare un
sorso di aperitivo sotto la lingua e, non appena scende giù, lo stomaco mi si accartoccia
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come una foglia secca. Brucia, ma devo
riconoscere che è buono.
«Non è proprio solo un sacrificio, vero?»
mi chiede, bevendo a sua volta.
Annuisco e continuo a sorseggiare lo
champagne. Leonardo prende un cubetto di
ghiaccio dal cestello e me lo strofina sul
collo, poi traccia una scia fino alla curva del
seno e ci passa sopra con la lingua. Il mio
corpo è immediatamente percorso da un
brivido, i capezzoli s’inturgidiscono, reclamano una lingua, dei denti che li tormentino. Ma non è ancora il momento, la
mia voglia deve attendere. Lui ha qualcos’altro in mente.
«Stasera, Elena, sarà il palato a guidare il
tuo piacere» mi sussurra. «Voglio che dimentichi i tuoi gusti e le tue abitudini e che
provi tutto, anche cibi che non ti piacciono, o
che non ti sono piaciuti fino a ora.» Mentre
parla, solleva il coperchio d’argento da un piatto colmo di ostriche marinate. Ecco cos’ha
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in mente: vuole distruggere i miei tabù a tavola. Ma non ci riuscirà.
«Ti prego, no» lo imploro con gli occhi
socchiusi. Non so se posso farcela. A un certo
punto della mia vita, quando ero ancora adolescente, ho cominciato a percepire tutto ciò
che era vivo come qualcosa di non commestibile. Insomma, da allora per me mangiare la
carne di qualsiasi animale è come avere la
morte nello stomaco. Sarò un po’ melodrammatica, me ne rendo conto, ma è così.
«Le ostriche le ho già assaggiate. E ti assicuro: mi fanno vomitare» dico nella speranza di impietosirlo.
Scuote la testa, impassibile. «Le esperienze passate non contano, adesso. Lascia che
siano solo i tuoi sensi a giudicare. Qui e ora.»
Con decisione afferra un’ostrica e me la accosta alle labbra. Esitante strappo il mollusco con i denti e sento la carne molle
sciogliersi tra la lingua e il palato. Sembra
ancora viva. E non sa di morte, come temevo,
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ma di mare, un gusto sfacciatamente femmineo e intrigante. Mando giù un po’ stupita
e scopro solo adesso un retrogusto di arancia
candita.
«L’accostamento con i canditi è un mio segreto.» Leonardo mi guarda come se fosse
consapevole di ogni mia sensazione mentre
ne mangia una a sua volta.
«Hai visto? Sei sopravvissuta… forza,
prendine un’altra.»
Esitante, scelgo un’altra conchiglia e stavolta stacco il mollusco con la lingua, come
se stessi dando un bacio lascivo. Mi sento
risucchiata dal suo sguardo magnetico ma la
cosa non mi inibisce, anzi, mi eccita. Senza
smettere di guardarmi, afferra una bottiglia
di Valpolicella già aperta e ne versa in due
calici alti. «Ora assaggia questo.»
Bevo il vino denso e scuro. È forte, aromatico, scalda il cuore e poi sale a portare
scompiglio nella testa. Leonardo si alza a
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prendere altri due piatti, mentre io scivolo in
una piacevole ebbrezza. Osservo il suo corpo
imponente muoversi con sorprendente agilità e un sorriso senza senso mi affiora sulle
labbra. Quando lui si volta, tento di dissimulare appoggiando il mento su una mano.
«Sei già brilla… ma mi piaci anche così. E
non provare a nasconderlo» mi rimprovera
tornando verso di me con l’aria di chi ha
colto un bambino con le mani nella marmellata. Posa i piatti sul bancone e mi studia:
«Sei bellissima con le guance rosse e gli occhi lucidi».
D’istinto mi specchio nel riflesso del vassoio che copre il piatto e mi accorgo che ha
ragione: il mio colorito ha acquistato sfumature rossastre soprattutto sugli zigomi e il
mio sguardo ha una luce strana, un po’ liquida. Ma la cosa mi diverte. Sto ancora analizzando la mia immagine, quando
Leonardo solleva il vassoio e scopre il piatto.
Una tartare di carne rossa si mostra in tutta
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la sua sfacciata mostruosità: inorridisco. Mi
ritraggo d’istinto, cercando di reprimere una
smorfia di disgusto mentre l’odore del
sangue, misto alle spezie, invade le mie narici. Guardo Leonardo smarrita e lui annuisce,
inflessibile.
«Sì, Elena. Devi mangiarla. Cruda.»
Bevo un altro sorso di vino, per farmi coraggio. Magari serve a prepararmi ai sapori
forti, penso. Ma non ce la faccio, è troppo per
me. Deglutisco saliva.
«Non provare a immaginare che gusto ha»
mi suggerisce Leonardo, «scoprilo e basta.»
Poi infilza la forchetta nella sua tartare e ne
assaggia un pezzo, intinge due dita nella
salsa allo zenzero e me la spalma sulle labbra. Mi pulisce passandoci sopra la lingua,
che in un attimo si fa strada nella mia bocca
umida di voglia. Insieme al suo sapore sento,
sottile ma insistente, quello della carne mista
allo zenzero.
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Prende una forchettata dal mio piatto e me
la porta alla bocca. Oppongo una misera resistenza ed ecco quel sapore violento e sanguigno sul palato. Quasi per riflesso condizionato mastico e mando giù, ma lo stomaco
si ribella, si contorce in uno spasmo. Svelta,
cancello tutto con un sorso di vino.
Leonardo studia ogni mia reazione.
«Avanti, Elena. Riprova. Se qualcosa non
ti piace al primo assaggio non è detto che
non possa piacerti al secondo. Non c’è niente
di innato o istintivo nel piacere: bisogna arrivarci piano, conquistarlo.»
Abbasso lo sguardo sul piatto, stringendo i
pugni. Poi, per un atto di pura volontà, afferro la forchetta e prendo un altro boccone.
Stavolta assaporo la carne più a lungo, respirando con calma. Non so se sia buona o no,
ma sa di proibito, ha il gusto ambiguo delle
regole infrante. A poco a poco mi faccio coraggio, ne prendo ancora. E ancora. Non riesco a crederci: sto mangiando carne, dopo
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anni, dopo averne scordato persino l’odore,
ed è un gesto animale, feroce, primitivo. Lo
faccio perché Leonardo me lo chiede e perché è così che anch’io mi sento, sotto il suo
sguardo famelico: carne, preda, istinto. E
devo ammetterlo, mi piace. Questo nostro
mangiare uno di fronte all’altra e guardarci e
bere vino è già fare l’amore. È come se ci nutrissimo l’uno dell’altra.
Abbiamo finito la tartare e Leonardo sta
già condendo con olio e peperoncino un’insalata di finocchi, arance e olive nere. Poi la
gira con le mani. Mi bracca con gli occhi e io
non scappo, aspetto che venga a prendermi,
senza fretta. Mi sento audace e indifesa allo
stesso tempo, in uno stato di abbandono e
onnipotenza. È lui o il vino? Non lo so più, e
non m’importa. Ho perso il controllo e non
voglio ritrovarlo, qualsiasi cosa abbia in
mente, voglio che la faccia.
Mi mette un po’ d’insalata nel piatto e
mentre l’assaggio si fa più vicino. Il fuoco del
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peperoncino mi scende in gola, mischiandosi
all’acre dell’arancia, all’amaro dell’oliva e al
fresco del finocchio.
«Preparati, Elena, perché la prossima cosa
che mangerò» Leonardo mi soffia sul viso
«sei tu.»
La sua mano scivola sotto la gonna, supera
il bordo delle calze autoreggenti, fino a raggiungere gli slip. S’insinua lasciva sotto l’elastico e mi penetra senza riguardo.
La forchetta mi cade di mano e resto senza
fiato. Tra le mie gambe il peperoncino rimasto sulle sue dita irrita, accende come un
fuoco. Cerco di sottrarmi, completamente
spiazzata, ma Leonardo mi blocca.
«Non scappare, è inutile» mi intima.
Quindi mi sfila le mutandine e le fa cadere a
terra, mi divarica le gambe allontanando le
ginocchia con le mani e si accovaccia davanti
a me. La sua bocca si unisce al mio sesso in
un bacio famelico. Succhia, assapora, lecca.
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Adesso il pungente della sua barba ispida e
rossiccia diventa tutt’uno con quello del peperoncino, e io mi afferro con le mani al bordo
del bancone, sopraffatta da questo dolce tormento. Leonardo riemerge a un tratto per
guardarmi, quasi volesse ammirare l’effetto
che ha su di me.
«Non ti fermare, per favore…» lo supplico.
Voglio che continui a divorarmi in quel modo
sublime.
Le sue labbra umide e rosse si piegano un
istante in un sorriso perverso, poi tornano a
posarsi sul mio clitoride, mentre gli occhi
restano incollati ai miei e la lingua ricomincia a farsi spazio e ad accarezzare. La sua
bocca sul mio sesso, le sue mani sulle mie
cosce, il suo sguardo nel mio. È un paradiso
di lussuria che non avrei mai pensato di conoscere. Porto due dita alla bocca e comincio a
succhiarle, mugolando e dimenandomi senza
più freni. L’incendio divampa sempre più potente, arrivo all’apice del piacere reclinando
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la testa all’indietro e lanciando un urlo profondo, poi crollo sul bancone, tra piatti e
posate.
Leonardo si rimette in piedi, passandosi la
lingua sulle labbra. Lo vedo mentre riemergo
dal mio orgasmo con gli occhi ancora annebbiati. Trovo la cosa sensuale e divertente
insieme. Poi i nostri sguardi s’incrociano, ci
sorridiamo e ci mettiamo a ridere. Se è stato
il vino a regalarmi questa sensazione di
pienezza e felicità, rimpiango tutti questi
anni di stupida astinenza… Ma non credo sia
solo questo. Adesso che Leonardo mi abbraccia e mi bacia, lo so con certezza.
«Sei bella. E quando ridi lo sei ancora di
più» mi sussurra.
Le viscere mi si aggrovigliano all’istante e
prima che possa controllarmi mi ritrovo a
desiderare che mi tenga così per sempre.
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Dopo un po’ mi scosta da sé e mi prende il
viso tra le mani. «La cena non è ancora finita. Manca il dessert. Te la senti?»
«Sì.» Avrei risposto così qualunque cosa
mi avesse chiesto.
Estrae dal frigorifero una bottiglia, e
quando la posa sul bancone leggo il nome
sull’etichetta: Picolit.
«Questo è un vino che amo molto» mi dice
mentre lo apre. «Viene da un vitigno raro.
Per un difetto congenito solo pochi acini arrivano a maturazione. A vederli, i grappoli
sono scarni, sembrano malati, non diresti
mai che ci si possa tirar fuori qualcosa di
buono. E invece senti qua» conclude versandomene un po’. Ne prendo un sorso e quello
che sento è una struggente dolcezza.
«È squisito» commento.
«Questo vino è la prova che anche
nell’errore e nel difetto può nascondersi
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qualcosa di sublime. Basta avere la pazienza
di scoprirlo.»
Mi posa un bacio sulla bocca con le labbra
morbide, poi dalla tasca dei pantaloni estrae
il suo fazzoletto di seta. Per un momento
penso che voglia bendarmi di nuovo, ma lui
si affretta a rassicurarmi.
«Non preoccuparti, non è per gli occhi,
stavolta.» Mentre mi parla con quella sua
voce irresistibile, mi gira per legarmi i polsi
dietro la schiena. Poi beve un sorso di vino e
mi accosta il bicchiere alle labbra. Bevo come
se fosse ormai la cosa più naturale del
mondo.
Dal freezer tira fuori un vassoio. Dopo
averlo innaffiato di Picolit, me lo mette davanti. Un cilindro di sorbetto al cioccolato
fondente in tutta la sua peccaminosa
bellezza.
«Coraggio. Assaggialo.» Un sorriso beffardo si disegna sul suo viso.
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Mi chino in avanti e inizio a leccarlo,
prima piano, poi con voracità crescente.
Sento il cioccolato sciogliersi sotto il calore
della lingua. Leonardo mi abbraccia da dietro e mi accompagna in questa danza lenta.
Sento il suo sesso duro contro le natiche, il
petto muscoloso preme contro la mia schiena, mentre la lingua mi scivola leggera sul
collo.
Avverto il peso e l’assenza improvvisa di
ogni pensiero. Il Picolit ha ravvivato la mia
ebbrezza e Leonardo ha riacceso il desiderio.
All’improvviso si stacca da me. Vedo con la
coda dell’occhio che si toglie la camicia e i
pantaloni, poi mi solleva il vestito con calma.
Sotto sono già nuda e bagnata e quando mi
penetra mi spalanco per accoglierlo. È inebriante sentirlo dentro di me, è come accogliere l’universo intero. Il suo sesso vorace
si nutre del mio. Mi sembra di essere già lì lì
per esplodere e non vedo l’ora, ma allo stesso
tempo desidero che duri per sempre. Esce ed
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entra in me seguendo le note di una musica
veloce e i miei fianchi hanno voglia di
muoversi e accompagnare il suo movimento.
Presto mi perdo in un nuovo orgasmo, in un
deliquio di saliva, sudore e gemiti.
Leonardo non mi dà quasi il tempo di riprendermi, mi slega le mani e mi fa voltare.
«Adesso tocca a te, Elena» dice, mettendomi una mano sul suo sesso eretto e appoggiandosi al bancone.
Con un po’ di esitazione comincio ad accarezzarlo, prima piano, poi sempre più
forte. M’inginocchio davanti a lui e mi bagno
labbra e lingua con un po’ più di saliva. Il suo
sesso mi sta chiamando a sé. Lo afferro alla
base, tendendo la pelle con il pollice e l’indice, mentre con la mano libera gli accarezzo
l’interno delle cosce e i testicoli. Lo lecco due
volte, lasciando scendere la mia saliva lungo
la linea del fuoco, poi inizio a succhiarlo.
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Leonardo mi tiene dolcemente la testa e
comincia a scivolare piano avanti e indietro
nella mia bocca, assecondando il mio oscillare. Sta crescendo in me, solleticando il mio
piacere liquido. Mentre salgo verso l’alto,
faccio qualche piccola torsione con la testa,
poi mi concentro sulla sommità, posando la
punta della lingua sotto il bordo inferiore del
glande e premendo dolcemente sul frenulo.
«Sì, Elena, così» geme. «Mi piace quello
che stai facendo.»
Lo guardo. Ha gli occhi e la bocca socchiusi. Sta godendo. Anche a me piace sapere di
poter prendere quest’uomo grande e possente e ridurlo a un grumo di piacere. Mi fa
sentire potente.
Continuo così fino a quando Leonardo libera un gemito più forte e io sento che sta
venendo. Lascio che lo faccia nella mia bocca
e accolgo il suo getto caldo mentre il sesso
pulsa ancora tra le mie labbra. Quando ha finito, mi stacco dolcemente, lui mi prende per
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le spalle e mi fa alzare, mi stringe per la vita
e mi guarda. Ho ancora il suo sperma in
bocca. Non l’ho mai fatto, ma stavolta mi
domando come sarebbe ingoiarlo. Perciò
smetto di immaginarlo e lo faccio, semplicemente. È dolciastro e viscido, ma ha anche
un gusto conturbante, come ogni parte di
Leonardo. Adesso lo so.
Non sono io. O forse sì, questa sono io, e
devo imparare a scoprirmi, a fare i conti con
questa Elena che sembra abbia dormito per
ventinove anni dentro di me. Lui mi sorride
quasi stupito, poi posa la fronte sulla mia.
«Ora conosci anche il mio sapore, Elena» e
mi riempie la bocca con un bacio.
Appoggio la testa al suo petto e ascolto il
cuore battere. È un suono calmo, regolare,
potrei stare a sentirlo per ore.
Mentre ci stiamo rivestendo, ripenso ai
giorni passati senza Leonardo, alla freddezza
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di quel distacco, e poi alla profonda intesa
che c’è adesso tra noi, alla naturalezza con
cui ci siamo ritrovati. Vivo sempre una sorta
di spaesamento con lui: gli ho affidato la mia
vita più intima e segreta, eppure continuo a
non conoscerlo.
È come se avesse una doppia anima, un
lato solare ed edonista, quello che ama
mostrare, e un lato misterioso, un’ombra
nera che tiene gelosamente nascosta, ma che
gli resta inevitabilmente incollata addosso e
che solo chi non lo conosce bene può non
vedere.
Mi giro a guardarlo e l’occhio mi cade su
quello strano tatuaggio che ha tra le scapole.
Mi avvicino e lo sfioro con le dita, so che lì è
custodito il suo segreto. «Quando te lo sei
fatto?» azzardo.
Il suo volto si rabbuia all’istante e diventa
di pietra. «Non voglio parlare di questo»
risponde, seccato e cupo.
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«Ma così non fai che aumentare la mia
voglia di sapere» gli faccio notare.
«Lo so. Ma purtroppo quella dovrà restare
insoddisfatta» e si rimette svelto la camicia.
Poi d’un tratto mi fissa, come se ritenesse necessaria una precisazione. «Ci sono cose che
voglio tenere per me, Elena. Non c’è bisogno
che sappiamo tutto l’uno dell’altra.»
Tra noi può esserci sesso, nient’altro, è
questo che mi sta dicendo. Mi cucio la bocca,
non voglio fargli capire che faccio fatica ad
accettare questa condizione.
La cucina è diventata improvvisamente
gelida.
«Dài, ti accompagno a casa» mi dice tornando a essere gentile. Ma si capisce che ha
fretta di andarsene.
Senza perdere tempo m’infilo il soprabito
e lo precedo verso l’uscita a passi svelti.
Prima che possa aprire la porta, però, mi afferra per un braccio e mi tira a sé. «Senti,
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Elena… mi dispiace se sono stato brusco.»
Mi stringe così forte che quasi mi fa male. Interdetta, sollevo lo sguardo sul suo volto e ci
trovo un’espressione sofferta che non gli
avevo mai visto prima. «Ma tu devi farmi
una promessa.»
«Quale?»
«Che non t’innamorerai mai di me.»
Perché mi stai dicendo questo, adesso? La
domanda la faccio in silenzio, più a me stessa
che a lui, mentre me ne sto lì a fissarlo con
gli occhi sbarrati.
«Lo dico per te…» continua Leonardo, affondando le dita nelle mie braccia. «Perché
io non m’innamorerò di te. E se un giorno mi
accorgerò che sei troppo coinvolta, sarà tutto
finito. Ti giuro che non avrò ripensamenti.»
Deglutisco per cercare di sciogliere il nodo
che ho in gola. Mi calo nel ruolo di donna
forte ed emancipata. Ho anch’io il mio
orgoglio.
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«Va bene, eri stato chiaro fin dall’inizio»
dico, sperando di risultare tranquilla e
sicura.
«Allora, prometti» mi strattona, senza allentare la presa.
«Sì, te lo prometto.»
Finalmente mi lascia e insieme usciamo
all’aria aperta. Mi massaggio le braccia e lo
seguo silenziosa, lungo la calle. Certo che
non m’innamorerò, mi dico, mentre una rabbia impotente mi contorce le viscere. Non so
niente di lui, è sfuggente, lunatico, perfino
brutale. E io sono una donna indipendente,
perfettamente in grado di portare avanti una
relazione sessuale senza complicare tutto con
i sentimenti. Andrà avanti ancora per un po’
e poi ognuno per la sua strada, come ci
eravamo detti fin dall’inizio.
Non m’innamorerò di lui.
Non m’innamorerò di lui.
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Me lo ripeto ancora e ancora, fino a
quando le parole non perdono significato e la
mia non rimane che una vuota preghiera.
11
Sto tornando a casa dal cinema. Al Giorgione davano il terzo film di una rassegna
dedicata a Tornatore e ci sono andata, da
sola. Soltanto Filippo sarebbe riuscito a sorbirsi le due ore e mezza di Baarìa insieme a
me, ma lui non è qui e io lo sento sempre più
lontano. I nostri rendez-vous su skype si
sono un po’ diradati negli ultimi tempi,
soprattutto per colpa mia. La sua lontananza
fisica si riflette anche nei miei pensieri, e
ogni tanto ho come l’impressione di aver
cominciato a dimenticare il suo volto, di non
ricordare più nemmeno la sua voce.
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Nella mia mente c’è un pensiero dominante, adesso: Leonardo. Tutto mi riporta a
lui, è con me qualsiasi cosa io faccia. Non riesco a liberarmene. Mentre ero in sala e mi
lasciavo rapire da quei paesaggi bruciati dal
sole, da quei volti scavati dal vento, non ho
potuto non pensare alla Sicilia. Alla sua
terra. Chissà che facce hanno i suoi genitori, i
suoi amici, qual è il paese in cui è nato e cresciuto. Perché sto sognando di andarci, un
giorno? Magari insieme a lui?
Basta. Sto viaggiando con la fantasia e non
va bene. Non posso lasciarmi sedurre
dall’idea
dell’innamoramento.
Devo
mantenere il controllo della situazione,
razionalizzare, separare cuore, mente e
corpo. È passato più di un mese da quando
l’abbiamo fatto la prima volta e non so come
andrà a finire, forse molto male per me. Ma
non ho intenzione di rinunciare a lui, voglio
viverla fino in fondo quest’avventura.
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Sono le dieci di sera, fuori fa freddo, le luci
natalizie che illuminano i palazzi si riflettono
nei canali. Mancano quindici giorni a Natale
e non mi sembra vero, il tempo è letteralmente volato.
Sento un fischiettio nella calle, poi una
voce maschile – «A n’vedi!» – seguita da un
chiacchiericcio malizioso. Due ragazzi con un
marcato accento romano mi passano accanto
e, dopo avermi sfacciatamente spogliata con
gli occhi, mi sorridono compiaciuti e si
mettono a parlottare tra loro, dileguandosi
alle mie spalle. Mi è capitato anche l’altro
giorno con un tizio che passava per strada e
si è voltato incrociando i miei occhi. La cosa
mi ha sorpresa, non ci sono abituata. Prima
di Leonardo non mi succedeva così spesso,
forse perché ero io a evitarlo inconsciamente,
tenendo in qualche modo le persone a distanza. Non sono più la stessa, ho addosso
un’energia nuova, sensuale. E devono essersene accorti anche gli altri, perché mi pare
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che mi guardino in modo diverso. Io stessa
mi guardo allo specchio quasi compiacendomi dell’immagine che riflette – non
sono più quella di prima, ma mi piaccio.
Questo è certo. Il mio corpo nudo non è più
una visione da evitare, ma qualcosa di intimo
e familiare, un paesaggio che abito senza più
inibizioni. E non ho più paura di metterlo in
mostra o di usarlo per provocare: lingerie in
pizzo nero, scarpe con il tacco, un trucco leggero o i vestiti scollati non sono più un tabù
per me. È stato Leonardo a farmi riscoprire
una femminilità a cui prima non facevo caso.
Volendo a tutti i costi essere donna per lui, lo
sono diventata anche per me stessa e per gli
altri.
Prima di ritornare a casa, faccio una piccola deviazione, allungando il percorso di
qualche centinaio di metri. A passi lenti mi
avvicino al retro del palazzo di Brandolini,
solo per avere la sensazione di essere più vicina a lui. Da qui riesco a vedere le stanze di
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Leonardo al piano superiore. C’è luce dentro.
Ho la tentazione di suonare il citofono, ma so
che così verrei meno al nostro patto. Aspetto
sempre che sia lui a chiamarmi, che sia lui a
farmi la proposta indecente, e in certi momenti queste attese mi pesano da morire
perché io avrei voglia di vederlo sempre. Alzo
lo sguardo verso quelle finestre, in
contemplazione.
Dài, Leonardo, affacciati e dimmi che mi
vuoi. Sono qui per te.
A un tratto vedo passare dietro i vetri
un’ombra nera, ma non è la sua. È la sagoma
di una donna, lo capisco dalla curva del seno
e dalla chioma lunga e fluente. Una donna
nuda… la violinista! Sono sicura che è lei. Il
cuore salta un battito e il sangue smette di
circolare nelle vene. Non sto sognando, sta
accadendo tutto sotto i miei occhi.
Con un nodo in gola e le gambe che tremano percorro la calle che sbuca sul Canal
Grande, quasi prefigurandomi la sorpresa
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con cui dovrò fare i conti. E infatti è proprio
come immaginavo: sul pontile davanti al
palazzo è attraccato il motoscafo bianco.
Quel motoscafo.
Mi sento come se avessi preso uno schiaffo
in piena faccia. Stringo i pugni con tutta la
forza che ho, affondando le unghie nei palmi.
Vorrei piangere, ma le lacrime non
scendono, strozzate nel grumo di rabbia che
mi cova dentro. Non sei l’unica, Elena. Non
aspettarti che io ti sia fedele. Le parole di
Leonardo mi risuonano nella testa come un
mantra. Insopportabili. Lui mi aveva avvertita, è stato chiaro da subito. Ma sono lo
stesso fuori di me e il fatto di essere stata
preparata non attutisce il colpo. Un pugno è
un pugno e fa male anche se lo hai visto
arrivare.
Avrei voglia di cospargerle il motoscafo di
benzina, a quella stronza, e poi buttarci
sopra un cerino acceso, come nei film. Oppure di attaccarmi al campanello per
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interrompere il loro idillio e ricoprirli d’insulti entrambi. Invece me ne vado, raccolgo i
pezzi e batto in ritirata, ferita e impotente.
Sono passati lunghi giorni e notti ancora
più lunghe da quella sera. Leonardo è scomparso di nuovo e io evito di andare al lavoro
negli orari in cui lui è al palazzo. Non so più
cosa pensare. Forse non dovrei proprio
pensare. I desideri incontrollati di vendetta
o, peggio, di rivendicazione a lungo andare
hanno lasciato spazio a una profonda
tristezza. Nonostante tutto Leonardo mi
manca e la sua assenza mi ferisce più di ogni
altra cosa. Non voglio credere di averlo perso
per sempre, non posso accettare che quella
donna me l’abbia portato via. Ogni notte mi
addormento pensando a lui, sapendo già che
i suoi occhi neri infesteranno i miei sogni. Lo
odio, ma dimenticarlo è impossibile.
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Poi, una mattina, quando ormai non ci
spero più, ricompare all’improvviso. È quasi
mezzogiorno e sto facendo una rifinitura
sull’affresco. L’iPhone nella tasca della mia
tuta squilla una volta. Un nuovo sms.
Alle 17 ai Mendicoli.
Ti voglio in gonna e autoreggenti.
È Leonardo, dannatamente sicuro di sé,
come sempre. Le mani mi tremano un po’
mentre digito la risposta.
Aspettami. Ci sarò.
Cos’altro avrei potuto rispondergli? Che
sono stufa di lui e non voglio più vederlo?
Non è vero, dunque mentire a me stessa non
servirà a niente.
Così, su due piedi, decido che gli lascerò
condurre il gioco, del resto non ho molta
scelta. Non farò scenate, non avanzerò inutili
pretese, ma ho bisogno di guardarlo negli occhi per capire se qualcosa è cambiato nel
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patto che c’era tra noi. E, soprattutto, se sono
davvero in grado di accettarne le condizioni.
Manca poco alle cinque e il buio è quasi
calato del tutto. Non so perché Leonardo abbia voluto darmi appuntamento proprio a
San Nicolò dei Mendicoli, uno degli angoli
più dimenticati della città. Siamo in pochi a
conoscerlo, ma io l’ho sempre trovato molto
suggestivo, uno di quei luoghi che ti restano
impressi per la loro estraneità dal resto del
mondo. Quando frequentavo l’Istituto di Architettura ero costretta a passare di lì per
raggiungere la sede delle lezioni. Ogni tanto,
all’inizio dell’estate, per ripararmi dalla
calura insopportabile mi rifugiavo in chiesa e
me ne stavo seduta al fresco a leggere un
libro, lasciandomi cullare dalla musica sacra
che arrivava ininterrottamente dal pulpito
dietro l’altare. Da quel che mi risulta, questa
è l’unica chiesa di Venezia dove un disco registrato gira ventiquattr’ore su ventiquattro,
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saturando l’aria di note celestiali. Ma ancora
mi sfugge il motivo per cui Leonardo abbia
scelto il campo dei Mendicoli, anche se forse
un motivo preciso non c’è. Spero solo che sia
puntuale, perché vestita in questo modo non
resisterò a lungo: le autoreggenti non sono
certo le calze ideali per questo clima, ormai
invernale. Nonostante mi sia bardata con il
cappotto da zarina lungo fino ai piedi, mi
sento nuda e il freddo umido mi risale sulle
gambe, inondandomi la schiena di brividi.
Leonardo è in orario. Non sono neanche le
cinque e lui è già lì. Ha lo sguardo perso
nell’orizzonte, il corpo coperto da un lungo
pastrano stile Keanu Reeves in Matrix. Appena mi vede, si precipita verso di me e mi
saluta con un abbraccio e un bacio
impetuoso.
«Sei sempre più bella… mi sembra di incontrare ogni volta una donna diversa» dice,
radiografandomi dalla testa ai piedi.
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Lo scruto. I suoi occhi scuri sono sempre
gli stessi, emanano quella luce calda che
scioglie il ghiaccio intorno al cuore. Essere di
nuovo tra le sue braccia è come tornare a
casa.
«Perché ci vediamo qui?» domando, distogliendo lo sguardo verso il campanile della
chiesa, che ora batte le cinque.
«Perché mi piace. Questo posto l’ho
scoperto per caso qualche giorno fa, andando
al pontile di Santa Marta per ricevere un carico di merce.» Si guarda intorno, scaldandomi il viso con entrambe le mani. «È bello,
sembra un po’ fuori dal mondo.»
«È vero.» Abbiamo gli stessi pensieri.
Devo iniziare a preoccuparmi? Poso le mie
mani sulle sue e per un istante dimentico
quella donna nuda alla finestra della sua
camera, i pensieri tristi degli ultimi giorni e
gli incubi che hanno popolato le ultime notti.
Quando mi bacia so soltanto una cosa: che
mi vuole ancora. E anch’io lo voglio.
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Restiamo fermi all’angolo a baciarci un
po’, prima di entrare nell’enoteca qualche
metro più avanti. Non ho voglia di vino, ma
Leonardo ha insistito perché entrassimo. La
sua mano si posa sulla mia schiena e scende
rapida sul sedere mentre mi spinge verso il
bancone. Il locale è quasi deserto, così gli occhi curiosi del gestore sono tutti per noi
mentre ci sediamo sugli sgabelli. Anche se
dentro di me muoio ancora di gelosia, godo
delle effusioni di Leonardo, delle sue dita tra
i miei capelli, delle sue gambe allacciate alle
mie. Guardiamo la carta dei vini e poi scegliamo un Pinot grigio. Leonardo paga, con i
calici in mano sgusciamo all’esterno e
usiamo il muretto che costeggia il canale
come tavolo d’appoggio, alla maniera dei
veneziani.
Sono abbastanza rilassata, adesso, ma
basta uno sguardo troppo insistente di
Leonardo su una ragazza che ci passa davanti
perché un rigurgito di gelosia torni ad
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avvelenarmi il sangue. Ero partita con l’idea
di non fare scenate ed ero convinta che avrei
mantenuto fede al mio proposito, ma è davvero dura. Bevo un sorso di vino e riappoggio
il calice sul muretto guardando verso l’altra
sponda. Il mio volto è serissimo, lui se n’è
accorto.
«Che c’è?» domanda, scuotendo la testa.
«L’ho vista, sai…» E il nodo di rabbia che
avevo dentro si scioglie all’istante,
riversando fiele nello stomaco.
Leonardo cade dalle nuvole. «Chi hai
visto?»
«Smettila, dài. Non c’è bisogno di bugie
inutili tra noi, no?» Mi volto verso di lui con
occhi fiammeggianti. «La tua amante, ho
visto. Nella tua stanza, un po’ di sere fa.»
Faccio un sospiro e indietreggio di qualche
passo.
Leonardo strabuzza gli occhi, poi sul suo
viso ricompare subito un’espressione calma e
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rilassata. «E così ti sei messa a spiarmi»
sghignazza. «Attenta a cosa potresti scoprire,
Elena» e mi accarezza il naso con l’indice.
Afferro la sua mano e l’allontano da me
bruscamente. «Almeno dimmi chi è, cosa
significa per te…»
«Si chiama Arina» precisa.
«… Arina o come diavolo si chiama!» L’immagine di quella donna mi si para davanti e
mi sento irrimediabilmente piccola e perdente. La sicurezza che credevo di aver conquistato negli ultimi tempi svanisce in un
secondo. «Hai continuato a vederla per tutto
questo tempo?» gli domando.
«Certo che ho continuato a vederla, è una
mia amica. Ma siamo andati a letto solo un
paio di volte» dice in tono provocatorio, con
una pacatezza che mi dà sui nervi.
La facilità con cui ottengo risposta mi
spiazza. Leonardo non ha niente da
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nascondere perché non mi deve niente, è
questo il punto.
Gli occhi mi diventano lucidi e bruciano
per le lacrime di rabbia che trattengo con
una determinazione d’acciaio. Lui mi attira a
sé afferrandomi per un fianco, e mi tiene il
viso con una mano. «Elena, non fare così.
Vuoi sapere cos’è quella donna per me? È
un’avventura, un viaggio, come ogni altra…»
«E io? Sono anch’io uguale alle altre?»
«No, non lo sei.» Mi guarda dritto negli
occhi. «Perché ogni viaggio è diverso,
ognuno bello a suo modo.»
«Ma non ti basto.» Dritta al punto.
«Perché ragioni così? Non capisco perché
arrivi a trarre queste conclusioni… Se tu
avessi altri amanti, io sarei felice per te, non
avrei niente da ridire.» Sembra quasi alterato dalla mia rigidità. «La gelosia è una gabbia che ti dà solo l’illusione di possedere l’altro. Ma i desideri non li puoi imprigionare»
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sentenzia mentre mi fa prigioniera del suo
abbraccio.
Vorrei divincolarmi e tempestarlo di
pugni. Odio lui e la sua libertà e allo stesso
tempo lo invidio. Vorrei essere capace
anch’io della sua apertura mentale, ma è difficile liberarsi dagli schemi che ormai si sono
appropriati del tuo modo di pensare, dai
modelli interiorizzati. D’altra parte, se adesso si mettesse a farmi grandiose promesse
di fedeltà non gli crederei mai fino in fondo.
Devo guardare in faccia la realtà: Leonardo
non sarà mai solo mio, non potrò mai chiuderlo in un recinto. Posso solo sperare che
nel suo girovagare continui a tornare da me.
Camminiamo in direzione di campo
Sant’Angelo. Io resto silenziosa e un po’
scostante, Leonardo mi cinge un fianco e aspetta che il broncio mi passi. A un tratto sollevo lo sguardo e scorgo una figura familiare
a qualche metro di distanza. È Jacopo
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Brandolini e sta venendo nella nostra
direzione. Mi sciolgo rapida dalla presa di
Leonardo, proprio mentre il conte si accorge
di noi. Oddio, ci domanderà che ci facciamo
qui e non abbiamo nemmeno il tempo per
inventarci una storia!
«Ciao, Jacopo!» lo saluta Leonardo, tranquillo come sempre.
«Oh, buonasera.» Il saluto è rivolto a entrambi. Vedo gli occhi di Brandolini
descrivere una curva fino al mio viso. «Come
mai da queste parti?» Sposta il borsello di
cuoio da una spalla all’altra e ci rivolge un
sorriso sorpreso.
Io rido nervosamente. «E lei?» domando.
È un disperato tentativo di strappare due
secondi. Sono terribilmente tesa, un disastro
assoluto.
«Vado dall’unico sarto decente che è rimasto in città. Mi fa le camicie su misura.»
Effettivamente, ora che ci penso ha tutte le
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camicie con le iniziali JB ricamate sul
polsino.
Cavoli, non riesco a smettere di muovere la
gamba destra. Sono troppo agitata. Calmati,
Elena. Non vi ha visti mentre eravate abbracciati. Respira.
«Stavo tornando da Santa Marta, ero andato a controllare l’arrivo di un carico» dice
Leonardo. È perfettamente padrone della
situazione. «E ho incontrato Elena davanti
alla chiesa…»
«La chiesa di San Nicolò dei Mendicoli…»
intervengo con slancio. «Il prete sta cercando un restauratore per un lavoro.» E tu ti
presenti in minigonna, autoreggenti e stivali
col tacco? Ragiona, Elena. Mi chiudo per
bene il cappotto. «Sa, penso che per Natale
avrò finito, al palazzo…»
«Già, l’affresco è riuscito davvero bene, ha
fatto un ottimo lavoro, Elena» ribatte Brandolini, apparentemente soddisfatto.
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«Grazie.» Sto per aggiungere qualcosa per
congedarmi, ma lui è più veloce.
«Vi offro qualcosa da bere?» domanda, indicando un bar alle nostre spalle.
Io balbetto e mugugno qualcosa d’incomprensibile. Poi sposto lo sguardo su
Leonardo, implorando aiuto.
«Grazie, ma devo proprio scappare al ristorante» si divincola con infallibile destrezza.
«Magari un’altra volta.»
Mi faccio coraggio e mi tolgo d’impaccio
anch’io.
«Io mi fermerei volentieri, ma devo ancora
finire lo shopping natalizio, purtroppo.» È la
prima scusa che mi salta in testa. Leonardo
sta facendo di me una terribile bugiarda.
«D’accordo, allora ci vediamo al palazzo» e
ci congeda, stringendoci la mano. Ancora
non capisco come faccia a portarsi a letto
Gaia e a mantenere questa formalità con me
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che, come immagino presuma benissimo, so
tutto di loro.
«Arrivederci» lo salutiamo.
Rimaniamo a guardarlo finché non lo
vediamo entrare nella sartoria sull’altro lato
della fondamenta. Tiro un sospiro di sollievo.
«Che coincidenza…» commenta Leonardo.
«Venezia è piccola» aggiungo io restando
sulle mie. «Ormai te ne sarai accorto.»
Ma lui mi attira di nuovo a sé e mi scocca
un bacio sulla guancia. Aver condiviso quella
piccola recita ci ha inevitabilmente resi complici e ora si sente autorizzato ad annullare la
distanza che avevo messo tra noi. Io mi giro
subito indietro per controllare che Brandolini non sia ancora nei paraggi e lui ride
della mia prudenza.
«È andato via, stai tranquilla… E
comunque non ci sarebbe niente di male se
ci vedesse.»
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«No, infatti. Ma io non ci tengo affatto a
passare per una delle tue amanti» dico aggrappandomi al mio malumore e riprendendo a camminare. Con la coda dell’occhio
lo vedo scrollare le testa e venirmi dietro con
un’espressione tra il rassegnato e il divertito.
Un po’ ci speravo.
Camminiamo fianco a fianco ancora per
un po’ e ci ritroviamo in calle dell’Avogaria.
C’è un cartello su un muro: SCUOLA DI
TANGO.
Una volta ci sono stata insieme a Filippo,
quando eravamo nella fase musicale Carlos
Gardel. Una serata disastrosa. Dopo esserci
massacrati i piedi di pestoni, entrambi
avevamo capito di non essere affatto portati
per il tango.
Leonardo mi supera e si mette a camminare all’indietro in modo buffo, davanti a me.
Che strano, in qualche modo anche questo è
un tango. «Per quanto devi tenermi il muso,
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ancora?» mi domanda cercando il mio
sguardo.
«Non lo so» rispondo imbronciata.
«Sei una bambina, lo sai?» si ferma di
colpo e io vado a sbattere contro il suo petto.
Mi chiude tra le sue braccia forti. Sono in
trappola.
«Dammi un bacio e facciamo la pace» mi
ordina ridendo.
Un po’ scappa da ridere anche a me, ma mi
trattengo. «No.» In realtà muoio dalla voglia
di baciarlo.
«Allora, me lo prendo da solo.»
Mi bacia premendo la lingua contro i miei
denti, che restano chiusi per protesta. Senza
scoraggiarsi mi spinge contro il muro, s’insinua sotto il maglione e mi accarezza il seno.
«Lasciami» dico senza troppa convinzione.
«No.»
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Le sue dita scorrono sulla mia pelle nuda e
io vibro come uno strumento sensibile al suo
tocco. Con la lingua lambisce il mio collo e
sale su, disegnando spirali concentriche nelle
mie orecchie. Mi sto sciogliendo in un lento,
piacevole tormento e mi dimentico di tutto il
resto. Finalmente mi arrendo e apro la bocca
per lasciar entrare la sua lingua, con una
mano gli accarezzo la nuca, mentre l’altra
scivola sul suo sesso. Ha voglia di me, lo sento dentro la stoffa dei pantaloni.
«Andiamo a casa» gli sussurro in un
orecchio.
Invece lui mi prende per mano e mi trascina fino a un portico che si apre su un lato
della calle, quasi una piccola galleria che immette in una corte chiusa, sprofondata nel silenzio. Si muove con sicurezza, come se conoscesse questi posti. Nel portico c’è un vecchio portone incassato nel muro. Leonardo
mi spinge contro il legno e, afferrandomi per
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le natiche, preme il mio bacino contro il suo
facendomi sentire la sua eccitazione.
«Cosa vuoi fare?» gli domando temendo la
risposta.
«Quello che vuoi fare anche tu» risponde
mordendomi il collo.
«Qui?»
«Perché no.»
All’improvviso il mio cellulare squilla. Riesco a muovermi quanto basta per tirarlo
fuori dalla tasca del cappotto e controllare
chi sia, promettendomi di non rispondere
comunque. Oddio, è Brandolini. Guardo
Leonardo senza sapere che fare.
«Rispondi» mi suggerisce lui con
nonchalance.
Eseguo un po’ preoccupata. «Pronto?»
dico, cercando di sembrare naturale.
«Elena, salve.» Il conte ha la solita voce
pacata. Nel frattempo Leonardo infila una
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mano sotto la mia gonna. «Prima dimenticavo di dirle che, se ha bisogno di una
referenza con don Marco per il lavoro ai
Mendicoli, posso intercedere. Lo conosco
bene.»
Non sono sicura di aver capito tutta la
frase. Mi vuole raccomandare al prete? La
mano di Leonardo accarezza leggera i miei
slip, mentre l’altra stringe forte il mio seno
sinistro. Trattengo un gemito. «Ah, grazie.»
La mia voce è rotta dal desiderio.
«Lo faccio con piacere. Ormai mi fido di
lei.»
«È molto gentile, ma preferirei aspettare.
Non sono ancora sicura di quel lavoro…
Scusi, ma non la sento bene…» Fingo che
non ci sia campo. In realtà lo sento benissimo, ma ora la mano di Leonardo ha oltrepassato il pizzo degli slip e si sta facendo
strada nel mio sesso umido. «Adesso devo
proprio salutarla.»
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«D’accordo, Elena» conclude Brandolini.
«Ci vediamo nei prossimi giorni.»
«Certo. Arrivederci.»
«Sei
andata
benissimo»
grugnisce
Leonardo, cercando le mie labbra e continuando a spingere le dita dentro di me.
Spengo il cellulare e lo lascio scivolare
nella tasca del cappotto mentre lui fa scorrere la lingua tra i miei seni, in mezzo alla
scollatura della camicetta, poi sposta una
coppa del bustino nero e mi succhia un
capezzolo.
«Dài, ti prego. Può vederci chiunque…»
provo a oppormi.
«Lo so» mi zittisce, «è proprio per questo
che siamo qui.»
E così capisco che era tutto premeditato,
uno dei suoi esperimenti: mi ha portata in
questo posto per sottopormi a un’altra delle
sue prove, per sfidare il mio senso del
pudore.
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La situazione ormai è completamente fuori
dal mio controllo. Leonardo mi solleva un
po’ la gonna, già corta di suo, e mi strappa
via gli slip, lacerandone il bordo con le mani.
Adesso sono nuda dalla vita in giù. Ho una
paura folle che qualcuno possa scoprirci, ma
l’idea allo stesso tempo mi eccita. Leonardo
si slaccia i pantaloni e lascia uscire il suo
sesso gonfio e duro. Mi spinge nell’angolo tra
il portone e lo stipite di marmo e mi solleva
una gamba. Con le mani mi afferra il sedere e
in un attimo è dentro di me. Siamo entrambi
coperti dal suo ampio pastrano, Leonardo
resta immobile qualche istante, come per
farmi assaporare la sua voglia, poi comincia
a muoversi avanti e indietro, lentamente.
Sto morendo di piacere. È un’agonia che
vorrei non finisse mai, qualcosa che si apre
piano dentro di me e risale lungo la schiena
fin nella testa. Gemo, incapace di trattenere
l’esplosione del mio godimento.
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Leonardo continua a baciarmi la bocca e il
collo, anche se sono mezza nuda nell’aria gelida, il suo corpo contro il mio sprigiona un
calore immenso.
A un tratto sentiamo delle voci avvicinarsi,
ci blocchiamo di colpo, Leonardo mi spinge
ancora di più contro il muro, rimanendo
dentro di me. Respiriamo piano, i nostri volti
sono vicinissimi e il mio cuore batte all’impazzata contro il suo petto. Due uomini passano nella calle e superano il portico senza
accorgersi di noi. Guardo Leonardo terrorizzata, mentre lui sorride sfrontato. Non
appena avvertiamo i passi allontanarsi, mi
solleva l’altra gamba prendendomi praticamente in braccio e riprende a muoversi con
ancora più vigore.
«Cosa stiamo facendo, Elena?» Mi provoca. «Se ci vedessero, una brava ragazza
come te…» mi sussurra diabolico.
È tutto così folle, perverso, eccitante. Non
capisco più niente, so solo che sto godendo.
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E poi adesso, del resto, non m’importa più
niente. Gli stringo le gambe intorno alla vita
e gli afferro una ciocca di capelli ribelli, gemendo nel suo orecchio.
«Maledetto.»
Mi penetra con una spinta più violenta.
Gemo, più forte di prima.
Un nuovo, dolce tormento cresce dentro di
me, con scosse profonde che mi fanno sussultare. Sento l’orgasmo avvicinarsi, scomposto e sfrenato. Senza riuscire a controllarmi, emetto un urlo rauco e potente che
subito Leonardo blocca con la sua mano
forte. Continuo a urlare nel suo palmo, incurante di tutto, mentre la vista si annebbia e
una lacrima calda mi cola dall’angolo di un
occhio. Leonardo viene subito dopo, esala un
gemito cavernoso, sprofondando dentro di
me e affondandomi la testa sul collo.
Mi tiene ancora un po’ così, a cavalcioni su
di lui, mi bacia dolcemente gli occhi chiusi,
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senza muoversi, indugiando qualche istante.
I nostri respiri affannosi adesso si mischiano
ai suoni della città, che man mano riemergono: il motore di un vaporetto in
lontananza, una finestra che sbatte da qualche parte, il vociare delle persone nel campo
vicino. Quando mi desto da questo sonno estatico, Leonardo scivola piano fuori da me,
sostenendomi mentre poso a terra un piede
dopo l’altro. Un alone caldo si è sparso intorno a noi e sale verso l’alto, svanendo
nell’aria umida dell’inverno.
«Adesso sì, possiamo andare a casa» commenta, sorridendo.
Sorrido a mia volta e scuoto la testa,
rassegnata, divertita, stupita.
Ci rivestiamo in fretta. Lui deve andare al
ristorante e io me ne tornerò a casa. Mi abbasso la gonna e noto i miei slip a terra,
strappati. Li guardo incerta e non mi azzardo
a raccoglierli.
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Leonardo lo fa per me e se li mette in
tasca, prendendomi per mano mi conduce
fuori dalla corte.
«Stai meglio senza» mi dice strizzandomi
l’occhio. Poi si esibisce in un bacio che si
conclude con un morso.
Non ho la forza per rispondergli.
Quest’uomo mi disarma ogni volta. Devo
rassegnarmi a fare la strada così, senza niente sotto, tranne l’odore del sesso.
Va bene, Leonardo. Di nuovo, hai vinto tu.
12
Sono sveglia da un paio d’ore. Me la sono
presa comoda con la colazione, cosa che non
faccio quasi mai: mi sono preparata un buon
caffè, ho tagliato un po’ di frutta di stagione e
spalmato di Nutella un paio di fette biscottate. Posso dirmi soddisfatta.
Ora sono seduta davanti al mio MacBook e
ho un disperato bisogno che qualcuno mi
dica cosa fare. Guardo fuori dalla finestra.
Gli alberi di campo San Vio sono addobbati
con fiocchi rossi e di notte risplendono di lucine gialle, mentre sull’ingresso della pizzeria
campeggia una stella cometa luminosa e un
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po’ kitsch con la scritta AUGURI. Il tempo è
volato e mancano solo cinque giorni a
Natale. Anch’io ho tirato fuori le solite decorazioni e ho sistemato il mio albero ecologico, ma quest’anno c’è una novità: ho dipinto
le palline di vetro dell’Ikea con i versi
d’amore di alcuni poeti famosi. È un albero
di Natale romantico, una piccola concessione
al mio cuore imbavagliato.
Torno a guardare il computer. Un’unica
immensa ragione mi spinge ad accenderlo,
ora: Filippo. Non ho più risposto alla sua ultima mail. Non ce l’ho fatta. Peccato che
dopo lui mi abbia riscritto diverse volte,
domandandomi con sempre più insistenza
che fine avessi fatto, invitandomi di nuovo a
Roma. Sento di averlo tradito. Anche se non
è il mio fidanzato e abbiamo deciso di
comune accordo di non stare insieme, i sensi
di colpa mi strozzano lo stesso la gola
quando penso a lui.
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Ho deciso. Ora gli scrivo. La pagina bianca
si spalanca davanti a me e io lascio i pensieri
liberi di andare dove vogliono mentre le dita
li seguono docili.
Da: Elena Volpe
A: Filippo De Nardi
Oggetto: Con il cuore
Mio caro Fil,
eccomi a scriverti di nuovo dopo un lungo
silenzio.
Non è stato un periodo facile per me. Potrei accampare delle scuse, ma sarebbe
inutile mentirti: la verità è che dovevo trovare il coraggio di parlarti con tutta la sincerità che meriti. Fil, ho conosciuto un
uomo del quale non posso più fare a
meno. Non so spiegarlo a me stessa né
tantomeno agli altri, ma voglio provarci.
Non stiamo insieme, tra noi c’è un legame
brutalmente carnale. Lui mi ha presa e mi
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ha sconvolto la vita, si è messo in testa di
farmi superare i miei blocchi e i miei limiti, quasi per sfida o per gioco, e io gliel’ho
permesso. È successo che ho imparato a
godere come non avevo mai fatto, che i
miei sensi si sono risvegliati e adesso lo
reclamano disperatamente. Mi ha liberata,
in qualche modo, ma ora non riesco più a
tornare quella di prima. È una sorta di ossessione, penso a lui in ogni momento
della giornata e a ogni incontro il mio desiderio di rivederlo diventa più forte.
Non pretendo che tu mi capisca, mi rendo
conto che tutto ciò possa sembrare
assurdo.
Mi dispiace tantissimo, ma credo che per
ciò che siamo, o per ciò che abbiamo immaginato di essere, vedersi a Roma
sarebbe qualcosa di più che una semplice
vacanza, sarebbe l’inizio di un rapporto
che avrei voluto, ma che ora non riesco
390/564
più a immaginare. Non posso, Fil. Non
posso davvero.
Mi odierai, lo so, e non vorrai mai più
rivedermi. Mi sta bene, me lo merito, e
non farò niente per oppormi. Adesso ho
solo bisogno di vivere questa cosa fino in
fondo, ovunque mi porterà.
Perdonami se dopo questa lettera sparirò
di nuovo nel silenzio.
Bibi
Ho scritto di getto, quasi in uno stato di
trance, ed ecco i miei pensieri nudi, messi
quasi contro la mia volontà nero su bianco.
Ho scritto più per me che per lui, ora mi è
chiaro.
Rileggo la mail ancora due volte e faccio
un giro per il soggiorno, come per prenderne
le distanze. Mi risiedo e il mio dito indugia
sulla tastiera. Il tasto INVIO non mi ha mai
fatto così paura. Se davvero leggesse questa
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lettera, Filippo resterebbe ferito, ma almeno
saprebbe la verità. All’improvviso un avviso
di skype mi segnala che è on line. Dopo qualche secondo mi scrive un messaggio:
Bibi, ci sei? Possiamo sentirci?
Mi sento sporca, come se fossi stata sorpresa a rubare. Rispondo di sì e accetto la
sua videochiamata.
Non è a casa, da quel che vedo. Mi sta
chiamando da un luogo di Roma che riconosco all’istante.
«Buongiorno, Bibi! Vieni a prenderti un tè
da Babington’s?» è la prima cosa che mi dice
con quel sorriso che arriva dritto al cuore. I
suoi occhi verdi luccicano al sole. Con che
coraggio posso ferire questo principe
azzurro?
«Magari, Fil!» Mi assesto sulla sedia, un
po’ a disagio. «Ma sei in piazza di Spagna?»
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«Sì, seduto sulla scalinata.» Rotea il monitor e la vista panoramica su Trinità dei
Monti si staglia davanti ai miei occhi in tutto
il suo splendore. Sembra di stare in un film
di cui lui è il regista. «Vedi?»
«Che spettacolo! È sempre stupenda…»
L’ultima volta ci sono stata proprio insieme a
lui, in una gita di studio al terzo anno di
università.
«Allora, quando ti decidi a venire?»
Eccoci. Sapevo che me l’avrebbe chiesto,
ma non so cosa rispondergli.
«Prima o poi…» dico, nascondendo il tormento dietro un sorriso.
«Hai finito con l’affresco?»
«Sì, oggi è l’ultimo giorno» sospiro.
«E allora vieni per Natale, no?»
«Ma tu non torni?» ribatto, ed è un misero
modo per eludere ancora la domanda e prendere tempo.
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«Il 27 lavoro, purtroppo» sbuffa, sollevando le spalle. «Dài, Bibi, vieni. Mi manchi, non mi trascurare…»
Oddio, non riesco a sostenere il suo
sguardo. Anche tu mi manchi, Fil, ma non
allo stesso modo. Troppe cose sono cambiate
da quando sei andato via.
«Fil, non posso a Natale.» Ho un nodo in
gola adesso, ma riesco ancora a controllarlo.
«È che la Vigilia ho il cenone di famiglia…»
cerco di convincerlo con un’espressione sofferta. «I miei ci tengono, lo sai come sono.
Già li vedo poco…»
«Ho capito… Natale con i tuoi…» dice con
un sorriso rassegnato. «Sono io l’unico figlio
stronzo che boicotta le riunioni di famiglia.»
«Tu non sei stronzo.»
«Dici?»
«Sì.» L’unica stronza qui sono io.
Sorride sornione, poi si volta all’improvviso, come se avesse visto qualcosa o
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qualcuno. «Devo lasciarti, adesso. Sta arrivando l’assistente di Renzo Piano per discutere del progetto» e mi soffia un bacio con
la mano.
«Ok, buon lavoro, allora.»
«Grazie, anche a te.» Mi guarda dritto
negli occhi, come se volesse leggerci qualcosa. O forse è solo la coscienza sporca che
mi rende paranoica. «Ci risentiamo per gli
auguri di Natale… e comunque non mollo la
presa: spero di vederti presto» conclude.
«Anche io.» Ricambio il bacio, mentre
vedo il suo viso scomparire.
Chiudo skype e sullo schermo del
MacBook si materializza di nuovo la lettera,
come una nuvola minacciosa in un cielo
limpido. Adesso mi sembra una completa
follia averla scritta. Cosa mi è saltato in
mente? Non posso escludere Filippo dalla
mia vita. Per lo meno, non così, non con una
fredda mail. Non se lo merita.
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Il cursore si sposta sul tasto ELIMINA.
Clicco senza pietà e senza dubbi. Sì, la voglio
eliminare questa mail. E voglio eliminare i
sensi di colpa, le insicurezze e gli obblighi
morali troppo pesanti che finiscono per schiacciarmi. Sarò ipocrita ed egoista, ma ho
bisogno di sapere che Filippo c’è, ho bisogno
di credere, in un angolino della mente, che
noi due abbiamo ancora qualcosa da darci.
Se un addio dovrà esserci ci sarà, ma non
ora. Non in questo modo.
Mi tornano in mente le parole di
Leonardo, quando mi ha detto che i desideri
non possono essere chiusi in gabbia. Fuori
dalla gabbia, ora me ne rendo conto, c’è il
caos emozionale, ma ormai ci sono e tornare
indietro è impossibile.
Nel primo pomeriggio mi preparo per uscire; mi lavo i capelli e mi vesto con cura,
come per un’occasione importante: e questa,
in effetti, lo è. Ho finito il restauro
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dell’affresco e ora sto andando a riconsegnare le chiavi del palazzo. A giudicare dal
lauto compenso accreditato sul mio conto
corrente – superiore a quanto pattuito –
Brandolini dev’essere rimasto più che soddisfatto del lavoro. Vorrà dire che per il
primo anno da quando mi sono laureata potrò finalmente fare i regali di Natale senza
l’ansia del portafoglio… È una bella
soddisfazione.
Varco il portone d’ingresso e salgo in fretta
le scale per raggiungere l’androne. Eccolo,
l’affresco mi accoglie con il suo gioco di
colori finalmente vivi e brillanti. Sfodero un
sorriso silenzioso e mi avvicino di qualche
passo per osservarlo meglio. Mi abbandono
alla fantasia che l’anonimo pittore mi compaia davanti e mi offra qualche chicco di
melograno in segno di ringraziamento.
Quanti giorni di prove e frustrazioni mi è
costato quel particolare! Probabilmente,
senza l’aiuto di Leonardo, non sarei mai
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riuscita a trovare la sfumatura giusta. È grazie a lui che i miei occhi hanno vissuto un
cambiamento e hanno imparato a guardare
non solo quel melograno ma tutto il mondo
in modo diverso. Questo affresco ha accompagnato gli ultimi mesi della mia vita, la mia
trasformazione e mi fa un certo effetto, ora,
staccarmene. La prossima volta che tornerò
in questo palazzo – se ci tornerò – non sarà
più per lui, ma per Leonardo.
Mi basta richiamarlo un istante alla mente
ed ecco che, come in un incantesimo dannato, si materializza nell’androne, facendomi
saltare il cuore in petto. È sempre così
quando ci incontriamo.
«Ciao» gli dico, «stavo giusto pensando a
te.»
«Ah, sì? E cosa pensavi?» si avvicina, lo
sguardo sull’affresco.
«Che senza questo restauro non ci
saremmo mai conosciuti.» Mi volto di poco e
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incontro i suoi occhi scuri. Le rughette ai lati
mi dicono che sta sorridendo.
Avrei voglia di baciarlo, ma aspetto come
sempre che sia lui a fare la prima mossa.
«Sei stata brava, Elena. È davvero molto
bello.»
«Dovremmo festeggiare.» Non resisto e mi
giro. Sto per avvicinare la mia bocca alla sua,
ma non appena sollevo i piedi sulle punte lui
si stacca, lasciandomi di sasso.
«Festeggeremo al mio ritorno» dice in
tono composto e risoluto.
«Al tuo ritorno?» Sgrano gli occhi. Dentro
di me devo ancora digerire il rifiuto. «Stai
partendo?»
«Stasera, per la Sicilia.»
«Per quanto tempo?»
«Non lo so, lo deciderò quando sarò lì.»
Ha lo sguardo annebbiato, quasi cupo. Improvvisamente lo sento freddo e distante.
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«E il ristorante?» azzardo.
«Ho lasciato un sostituto.» Alza le spalle.
«I miei collaboratori sono autonomi, ormai.»
La notizia mi travolge. Mi ero già fatta
mille idee – forse sarebbe più corretto parlare di fantasie – su queste vacanze di
Natale, ho detto di no a Filippo anche perché
speravo di passare tutto il tempo con
Leonardo. E invece…
«Ma devi proprio?» domando, cercando di
mascherare la mia disperazione.
«Lo voglio» risponde, lo sguardo determinato. «Almeno una volta all’anno, ovunque
io sia nel mondo, torno in Sicilia.»
«Hai delle persone care, lì?»
«Ho il mio passato.»
Gli farei altre domande, ma mi mordo la
lingua. Leonardo non sopporta intrusioni
nella sua vita privata e il legame con la sua
terra, proprio per questo, rientra in una sfera
assolutamente intima e inviolabile.
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«Cerca di divertirti anche senza di me.» Mi
prende il mento con una mano e si sforza di
sorridere, come per sfuggire alla piega che ha
preso il discorso.
Vorrei dirgli di non andare o di portarmi
con sé, non sopporto l’idea di separarmi da
lui per così tanto tempo.
«Almeno mi telefonerai?» è tutto quello
che ho il coraggio di chiedere.
Scuote la testa. «No, Elena. Preferisco che
non ci sentiamo finché sono via.»
«Perché?» Lo afferro per un braccio. So
che non dovrei insistere, ma mi serve una
spiegazione.
«Perché ho bisogno di staccare, di stare
solo. Perché la mia vita non è solo quella che
faccio qui e non voglio mischiare le cose.» Il
suo sguardo non ammette repliche. «Ti
chiamo io appena torno.» Mi fa un’ultima
carezza e si dirige verso le scale, senza voltarsi indietro.
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Sono stordita. Se n’è andato, senza scuse e
giustificazioni. Mi ha lasciata qui con l’ennesimo magone da inghiottire e le braccia inermi lungo i fianchi.
Basta. Devo fuggire immediatamente.
Cerco il custode in giardino e gli consegno il
mazzo di chiavi.
«Arrivederci, Franco, e buone feste» lo saluto in fretta, senza perdermi in troppi
convenevoli.
«Anche a lei, signorina, buon Natale.»
Franco fa mezzo inchino come è sua abitudine. «Stia bene.»
Alzo la testa, un’ultima occhiata verso
quelle finestre, e poi via, mi precipito nella
calle a passi veloci.
Addio, affresco. Addio, Leonardo.
È il giorno della Vigilia e mi è costato uno
sforzo sovrumano sopravvivere a questi
giorni di euforia festaiola dopo essere stata
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scaricata in quel modo. Il pellegrinaggio di
rito da un negozio all’altro a comprare regali
d’indubbia inutilità e vedere tutta quella
gente felice e indaffarata mi ha fatto cadere
in uno stato di profonda malinconia: io che
di solito amo il Natale, adesso lo odio con
tutta me stessa.
Ma sono riuscita comunque a sopravvivere
a questi quattro giorni. Anche se so che il
peggio deve ancora arrivare. Sono le otto di
sera e tra meno di un’ora sarò a casa dei miei
per il tradizionale cenone con i parenti. Se
supero anche questo posso considerarmi
quasi salva.
Alle nove e un quarto, dopo aver perso un
vaporetto e consumato mezzo tacco degli
stivali nuovi per essermela fatta tutta a piedi,
mi ritrovo davanti alla porta di casa Volpe.
Suono il campanello con un po’ di difficoltà,
oberata di pacchetti.
Mi apre mia madre, avvolta in un tailleur
rosso
ciliegia,
l’espressione
un
po’
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preoccupata. «Elena! Ti avevamo quasi data
per dispersa! Aspettavamo solo te.» In sottofondo sento già il vociare dei parenti sulle
note di Mariah Carey che gorgheggia le solite
canzoni di Natale.
«Scusa, mamma, ho perso il battello.»
In un solo gesto riesce a baciarmi, togliermi il cappotto, buttarlo sull’appendiabiti,
sistemarmi i capelli e farmi sentire in colpa.
«Tesoro, non sarà un po’ troppo corta quella
gonna?» domanda, lanciando uno sguardo
perplesso al mio vestito di pizzo, lo stesso
che avevo indossato per la cena con
Leonardo nella cucina del suo ristorante.
«Non mi pare» rispondo con nonchalance.
«Ti lamenti sempre perché non metto mai le
gonne… ecco, stasera ti ho accontentata.»
Entro in sala da pranzo e per un attimo
sono sfiorata dall’idea di fuggire: davanti a
me è schierato, intorno al tavolo delle feste,
un plotone in assetto da guerra di parenti
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che scalpitano, brandendo in aria le posate,
come se non mangiassero da una settimana.
Scaccio il pensiero con un movimento della
testa. È tutto sotto controllo, Elena, ce la
puoi fare.
Non manca nessuno: la nonna, le zie, i cugini, mia madre è riuscita a corrompere
persino zio Bruno, lui che è sempre in giro
per il mondo con i suoi amici gay. Faccio un
saluto generale, raccogliendo sorrisini a
destra e sinistra, e guadagno in fretta il mio
posto. Ovviamente mi hanno piazzata di
fianco a mia cugina Donatella, che è quasi
mia coetanea. Ma lontanissima per tutto il
resto. A venticinque anni ha sposato Umberto, il clone veneziano di Flavio Briatore, e
l’anno dopo aveva già sfornato la piccola Angelica, che adesso di anni ne ha sette e sembra una Barbie in miniatura. Siede alla mia
sinistra e mi saluta con la mano.
«Ciao, zia!»
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Le faccio una carezza sulla testolina e le
sorrido stringendo gli occhi, falsissima.
«Elena, sei splendida» dice Donatella,
dandomi due baci e inondandomi del suo
nauseante profumo all’iris giallo.
«Grazie, anche tu sei in gran forma.»
«No, non dirlo nemmeno. Ho messo su
cinque chili.» Fa un’espressione disperata e
scostando la gonna mi mostra un pezzo di
coscia. «Guarda, tutti qui.»
Ecco, ha cominciato. Tutti gli anni la
stessa solfa, ma quest’anno davvero non
sono in vena di sorbirmi i suoi discorsi insulsi. Devo salvarmi, prima di arrivare a disquisire sull’ultimo ritrovato in campo di
creme anticellulite.
«Cosa ti ha portato Babbo Natale?»
domando a sua figlia, cercando di cambiare
discorso.
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«Il cellulare nuovo» risponde, mostrandomi orgogliosa un iPhone di ultima
generazione.
«Bello…» Cosa se ne faccia, alla sua età,
francamente lo ignoro.
«Posso vedere il tuo, zia?» E smetti di
chiamarmi zia, ti conosco a malapena,
bambina.
Tiro fuori dalla borsa il mio iPhone. Lei fa
un’espressione sorpresa prendendolo tra le
zampe.
«Ma questo è il quattro! Non lo sai che adesso è uscito il cinque?» domanda
scandalizzata.
Brutta impertinente viziata e odiosa. Per
un momento ridivento bambina e mi prende
una voglia incontrollata di tirarle i capelli.
Esibisco un altro sorriso di plastica e decido di ignorarla, rivolgendo la mia attenzione all’antipasto appena uscito dalla cucina. Ovviamente, secondo la tradizione di
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casa Volpe, la Vigilia è di magro, perciò tutto
sarà a base di pesce. Baccalà mantecato,
capesante gratinate e crostini di salmone.
Mia madre gongola tra i complimenti del
parentado.
Per non farmi patire la fame, come al
solito in queste occasioni, ha preparato solo
per me un menu vegetariano. Ovviamente lei
è ignara della mia recente conversione alla
carne e, per evitare domande e non vanificare le sue premure, decido di sorvolare.
«Grazie mamma, sei un tesoro» le dico
sgranocchiando qualche grissino e prendo
una piccola porzione del risotto al radicchio
rosso che ha cucinato con tanto amore per la
sua bambina.
Osservo i miei parenti uno a uno. Mi sembra di avere a che fare con un gruppo di estranei: non ho voglia di stare qui, voglio tornare alla mia vita, almeno a quello che è
stata negli ultimi due mesi. Ogni giorno che
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passa senza Leonardo mi sembra un giorno
sprecato. Mi verso un bel calice di Prosecco,
magari mi mette un po’ d’allegria.
Mia madre mi guarda come se all’improvviso mi fossero spuntate le squame. «Elena,
cosa fai?» domanda, inorridita.
«Perché? È proibito, adesso?» Le rivolgo
uno sguardo innocente e mi riempio il
bicchiere.
«Ma da quand’è che bevi vino?» Non
molla la presa e questa sua insistenza mi irrita. Non tollera che qualcosa sfugga al suo
controllo e alla sua approvazione.
«Da adesso, se non ti spiace» rispondo
seccata.
«Se devo essere sincera un po’ sì…»
«Non rompere, mamma» la zittisco bruscamente. Mia madre mi guarda incredula e
anche mio padre. Un silenzio pesante cade
sulla tavola. La nonna, che è un po’ sorda,
domanda a uno dei miei cugini che cosa
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succede, mentre la zia si sistema il tovagliolo
sulle ginocchia tossicchiando. Mi guardo intorno leggermente pentita. Ho esagerato, di
solito non rispondo così, sono sempre carina
e accondiscendente in casa. Adesso capisco
che non sono loro gli estranei, sono io a essere cambiata.
Per fortuna zio Bruno mi viene in aiuto.
«Dài, Betta, il vino fa buon sangue» dice,
mollandole un pizzicotto sul braccio. «E poi
alle feste bisogna brindare!» Alza il calice e
fa cin contro il mio, strizzandomi l’occhio.
«Hai ragione, alla nostra!» continua mio
padre, sollevando a sua volta il bicchiere.
Dall’occhiata che mi rivolge capisco che mi
ha perdonata.
La cena continua senza altri intoppi fino al
panettone, seguito dallo scambio degli auguri e dei regali. Ricevo un cuscino di patchwork fatto da mamma – dovrebbe fare
pendant con la coperta che mi ha regalato lo
scorso anno – un berretto di lana, due paia
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di calzettoni fatti a mano, una sciarpa di cachemire. Evidentemente, ho l’aria di una
persona freddolosa. Ma per il gelo che sento
adesso non serve la lana.
Appena ne ho l’occasione, do un bacio di
riconciliazione a mia madre, saluto i parenti
e me ne scappo a casa. Felice di aver sbrigato
la pratica e di restare sola.
È quasi l’una. I campanili di Venezia annunciano festosi la fine della messa di
Natale, mentre i pochi gondolieri ancora al
lavoro si affrettano a staccare dall’ultimo
giro di barca. Cammino velocemente cercando di concentrarmi sulla nuvoletta di vapore creata dal mio respiro. Non voglio
pensare. Ma prima di aprire il portone di
casa, alzo gli occhi al cielo e guardo le stelle.
Chissà se anche Leonardo le sta guardando.
Il giorno di Natale, nel tardo pomeriggio,
vado a trovare Gaia, che abita in un piccolo
loft vicino ai Giardini della Biennale. Ogni
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tanto, sotto la finestra della sua camera
spunta qualche strana installazione, come
l’ultima opera di un artista brasiliano, una
fila di totem in plastica bianca che la notte
s’illuminano di lucine fluorescenti. Più che
totem sembrano buffi pupazzi di neve e,
anche se non credo proprio fosse nelle intenzioni dell’artista, fanno molto Natale. A Gaia
come regalo ho comprato un cofanetto ricoperto di glitter con all’interno un mascara
volumizzante di Lancôme e un piegaciglia di
Shu Uemura. Lei va matta per queste cose e
sono sicura che apprezzerà.
Appena apre la porta, mi stritola in uno
dei suoi energici abbracci, facendomi quasi
sbattere contro la gigantografia di Marilyn
Monroe appesa al muro.
«Buon Natale!» mi augura tutta felice e mi
precede verso il salotto ciabattando. Solo a
casa sua non porta i tacchi.
«Anche a te, Gaia!» rispondo togliendomi
il cappotto.
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«Vieni, mettiamoci comode sul divano» mi
dice e spegne la tv.
Ogni volta che mi siedo sul suo
costosissimo divano in pelle bianca non
posso fare a meno di pensare alle cose barbare che ci fa con i suoi amanti.
«Non è che per caso sei guarita dalla tua
malattia e ti va un Bellini?» domanda.
«Ok.»
«Brava, così si fa!» Mi guarda, positivamente stupita dalla mia scelta alcolica.
Scompare nella zona cucina e, quando
ritorna con il vassoio e i calici, noto che porta
un brillante all’anulare.
«E quello?» le domando subito.
«Me l’ha regalato Jacopo» dice, avvicinandolo al mio viso.
«Un anello di fidanzamento?» Sgrano gli
occhi.
«Be’, un anello.»
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«Gaia, non fare la finta tonta» la
rimprovero.
«Ok, lo ammetto. Jacopo vuole fare le cose
seriamente.»
«Ma tu no» concludo il suo pensiero.
«È un po’ troppo presto, non credi?» mi
guarda in cerca d’approvazione. Sembra in
difficoltà. Non è innamorata davvero – mi
sarebbe sembrato un miracolo, visti i pochissimi precedenti – glielo leggo in faccia.
«Ma allora perché hai accettato un regalo
così importante?»
«Cosa dovevo fare, scusa?» si giustifica.
«Darglielo indietro? A Natale?»
«Non lo so, Gaia, ma forse è il caso che ne
parliate.»
«Guarda che io a Jacopo ci tengo» dice
sorseggiando l’aperitivo.
«Sarà. Ma forse tieni di più a qualcun altro
che non si fa mai vedere…»
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Ho colto nel segno. «Leggi» mi dice allungandomi il BlackBerry. È l’ultimo sms di
Belotti.
Buon Natale, piccola. Prima o poi vengo a
prenderti.
Gli occhi di Gaia sono a forma di cuore,
adesso. In un altro momento l’avrei messa in
guardia, avrei recitato la solita parte dell’amica seria e un po’ bacchettona che ti riporta
alla realtà e ti dice cosa è giusto fare. Ma ora
la capisco come mai prima d’ora e non me la
sento di rimproverarla.
«Ma verrà davvero a prenderti?» chiedo.
«Chi lo sa» risponde lei, con la faccia speranzosa. Non ha sensi di colpa nei confronti
del povero conte, non le importa che possa
soffrire a causa sua. A lei interessa solo essere felice. Insieme a Belotti, possibilmente.
Forse per la legge dell’attrazione, a quel
punto arriva uno squillo anche sul mio
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iPhone. In cuor mio, coltivo un’unica speranza. Dio, fa’ che sia Leonardo.
«Chi è? Chi è?» squittisce Gaia, curiosa.
Leggo il messaggio e cerco di nascondere
la delusione. «Ah, è Filippo. Mi fa gli auguri
di Natale.»
«E lo dici così?» Forse non l’ho nascosta
abbastanza bene.
«Perché, come dovrei dirlo?»
«Con un po’ più di entusiasmo, Ele!» Mi
scrolla affettuosamente le spalle. «Che succede? Non sei più convinta di lui?»
«Ma no, figurati» mi precipito a dire. «Un
po’ mi manca…»
Lei mi guarda perplessa. «Solo un po’?
Guarda che Fil è un tipo in gamba. Secondo
me è l’uomo giusto per te.»
Oddio, Gaia, non complicarmi la vita
anche tu! Ho una tale confusione nella
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testa… Filippo è l’uomo giusto, ma non è lui
che desidero in questo momento.
«Si vedrà…» mi limito a dire.
«Rispondigli subito» mi ordina, «io intanto vado a prenderti il regalo.»
Digito una risposta un po’ fredda e formale, ma me ne accorgo solo dopo che l’ho inviata. Quando sollevo lo sguardo, Gaia è di
nuovo in salotto con un sorriso trionfante.
«Voilà!» Mi consegna il pacchetto e io faccio altrettanto con il suo.
Ovviamente Gaia strappa via la carta in un
nanosecondo. A giudicare dalla sua faccia ho
fatto centro, il regalo le è piaciuto. Io, invece,
sono sempre stata una di quelle che ci mette
una vita ad aprire i pacchetti: procedo con
calma, mi piace assaporare la sorpresa.
Scuotendo
leggermente
l’involucro,
ipotizzo che possa trattarsi di un olio per il
corpo, o un profumo, il rumore sembra
quello di una bottiglia di vetro.
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«È inutile che tenti di indovinare, non ci
arriveresti mai…» dice Gaia tutta eccitata.
Finalmente apro la scatola e divento
paonazza.
«Un vibratore?! Di cristallo?!»
«Finto cristallo, a essere precisi.»
Lo prendo in mano e non so se essere arrabbiata, divertita, scandalizzata, disperata.
Alla fine, mi metto a ridere, non c’è altro da
fare. Gaia ride con me, ha ottenuto l’effetto
desiderato.
Ecco, siamo in una scena di Sex & the City.
«Visto che non ce l’hai e che non l’avresti
mai comprato, l’ho fatto io per te.» Aziona
l’interruttore con fare esperto, ammiccando.
«Dicono che sia fantastico in azione…»
«Be’, è sicuramente molto chic.» Scuoto la
testa, guardando l’oggetto riflettere la luce
sulla parete. «Ma non ti offendi se non lo
uso, vero?»
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«Mai dire mai. Comunque è sempre bene
averne uno…» risponde lei convinta.
«Be’, almeno non è il solito paio di calze»
dico con studiata aplomb.
Ridiamo ancora e nel mio cuore penso che
solo con Gaia si può passare un pomeriggio
di Natale così.
Non appena ritorno a casa, però, mi assale
di nuovo la tristezza e quella sensazione
d’impotenza che arriva quando non puoi
avere quello che vorresti. Per quanto tenti di
scacciarlo, Leonardo domina implacabile i
miei pensieri. Perché è stato così duro? Perché continua a essere sempre così evasivo, a
circondarsi di ombre e misteri? Per un momento sono sul punto di chiamarlo o di
scrivergli un messaggio, ma poi per sfuggire
alla tentazione spengo il telefono.
Appoggio la borsa con il regalo di Gaia
sulla scrivania. Estraggo il vibratore dalla
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scatola e mi affretto a nasconderlo in bagno.
Cosa me ne faccio di questo affare?
Ho voglia di Leonardo. Ed è un desiderio
che nient’altro può saziare.
13
L’ultima cosa che mi sento fisicamente ed
emotivamente in grado di affrontare adesso è
una seduta di restauro completo di me stessa
in vista del veglione di Capodanno all’hotel
Hilton. Sono stati Gaia e Brandolini a invitarmi, e ogni mio tentativo di declinare la
proposta si è rivelato inutile. Dovrei essere
grata alla mia amica e al suo “fidanzato”, ma
con l’umore che ho l’idea di fare da terzo incomodo per tutta la serata mi butta a terra.
Sono sola, senza Leonardo, e lo sarò anche
circondata da una folla festante. Mi sento
scontrosa e ostile, forse perché sono anche
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un po’ meteoropatica e adesso uno spaventoso cielo plumbeo mi sta minacciando dalla
finestra.
Stasera avrei preferito di gran lunga rimanere a casa in pigiama a guardare un film
avvolta nella mia coperta di patchwork, rischiando il diabete con un’indigestione di
After Eight.
E invece eccomi qui a lottare davanti allo
specchio. Lisciarmi i capelli, depilarmi tutta,
passarmi la crema rassodante sul seno e sulle
cosce, indossare lingerie rossa, colorarmi le
guance di fard, stendere sulle palpebre
dell’ombretto iridescente e sulla bocca del
rossetto a lunga tenuta. Tutto questo per chi?
Aveva un senso farlo per Leonardo, per essere attraente ai suoi occhi, ma adesso mi
sembra totalmente inutile. Chissà cosa starà
facendo e con chi sarà ora! Sono in astinenza
da lui e comincio a volerne sempre di più,
con l’avidità di una tossica. Peccato che
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nessun pusher possa procurarmi la mia
droga in questo momento.
Il citofono suona. Devono essere Gaia e Jacopo, arrivati puntualissimi per prelevarmi e
trascinarmi a forza al loro Capodanno
festoso.
«Scendo subito» dico svogliata al
ricevitore.
«Ok, sbrigati» risponde Gaia, già su di giri.
Do un ultimo sguardo allo specchio sistemandomi una ciocca ribelle – è davvero
ora di ridare una forma a questo ex caschetto
– e mi precipito sulle scale stando attenta a
non inciampare nel mio cappotto.
Apro la porta e trovo Gaia e Jacopo mano
nella mano. «Non sarà il caso di prendere un
ombrello?» domando. Poi alzo lo sguardo e
nel buio dietro di loro noto un’ombra
familiare.
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«Macché ombrello, si vedono le stelle.» La
sua voce è inconfondibile e mi arriva come
una carezza inaspettata.
Gaia mi strizza l’occhio e Brandolini si
scosta per farmi passare.
Filippo è qui, davanti a me, bardato nel
suo Burberry verde. Non riesco a crederci,
per un attimo ho l’impressione di sognare.
«Fil! Che ci fai qui?»
«Sono tornato» fa lui, sfoderando uno dei
suoi splendidi sorrisi.
Sentimenti contrastanti si contendono il
mio cuore creando una confusione eccitante
e inaspettata. Poi su tutti prevale un’immensa tenerezza e ho improvvisamente
voglia di abbracciarlo. Invece me ne sto impalata con le braccia penzoloni. Che si fa in
questi casi? Ci si bacia? Quello di qualche
mese fa era stato un addio appassionato, ma
nel frattempo è successo di tutto e io non so
se… Per fortuna è Filippo a rompere gli
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indugi, si avvicina e mi sfiora appena le labbra con un bacio leggero, subito notato da
Gaia. Adesso sì, lo abbraccio con la disperazione di una naufraga. Gli sono grata per
essere qui e a Gaia per questa bellissima sorpresa. Sono sicura che c’è il suo zampino dietro tutto questo.
Lungo la strada Gaia e Jacopo ci precedono, tenendosi a qualche metro di distanza.
Filippo mi offre il braccio e io mi ci aggrappo, godendomi il calore del suo corpo.
«Sono felice che sei qui» dico.
«Anch’io.»
«Ma quando sei arrivato?»
«Praticamente due ore fa.»
Lo guardo meglio, sotto la luce fioca di un
lampione. Il suo viso senza barba è un po’
scavato, porta i segni delle notti passate a lavorare, ma i suoi occhi risplendono più di
sempre.
«Pensavo che avessi da fare a Roma.»
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«Sì, ma un paio di giorni sono riuscito a
prendermeli.» Poi mi sorride. «Avevo troppa
voglia di vederti.»
Anch’io avevo voglia di rivederlo, ma l’ho
realizzato solo adesso. Fino a questo momento ero troppo impegnata a pensare ad
altro.
«Solo due giorni?» gli domando.
«Purtroppo sì. Il 2 devo essere di nuovo al
lavoro. Sono degli schiavisti. E io mi lascio
schiavizzare.»
Rallenta il passo e stacca per un istante il
braccio dal mio, guardandomi negli occhi.
«Sei davvero contenta di vedermi? Dalla faccia che hai fatto prima non si direbbe
tanto…»
È così sensibile da notare ogni sfumatura
nei miei stati d’animo. L’avevo scordato.
«Certo che sono contenta» gli dico stirando le labbra in un sorriso. «È che non me
l’aspettavo…»
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Un freddo improvviso mi prende alla schiena. Non è la brezza invernale, no. È che non
sto dicendo tutta la verità. Sono felice di
vederti, Fil, ma mentre eri via mi sono ammalata di qualcun altro e non so se tu ora
puoi guarirmi.
Riprendiamo a camminare, io sempre
stretta al suo braccio. Mi riprometto silenziosamente di dimenticare Leonardo almeno
per qualche ora e di vivere questo momento
con serenità. Adesso sono felice di non aver
mai inviato a Filippo quella mail. Se l’avessi
fatto, tutto questo non sarebbe mai capitato.
E se sta capitando, significa che il destino, almeno per stasera, è dalla nostra parte.
Saliamo tutti e quattro su un motoscafo
alle Zattere e in due minuti abbiamo attraversato il canale della Giudecca e siamo davanti all’ingresso dell’Hilton. È strano vedere
la città da qui, è come averne una prospettiva
capovolta. Scivoliamo sulla passerella di
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velluto rosso e, grazie alla complicità di
Brandolini, oltrepassiamo l’ingresso blindato, con tanto di buttafuori spocchiosi. Non
ero mai stata in questo posto. È un albergo
lussuosissimo, al di sopra di ogni aspettativa,
il personale è estremamente elegante, dai
modi formali ai limiti dello stucchevole.
Dopo una sosta al guardaroba e un primo
giro di cocktail, raggiungiamo il nostro tavolo, accodandoci ad alcune persone del giro
di Brandolini. La sala è grande e finemente
decorata. Ci sono almeno cinquanta tavoli,
gli ospiti sono euforici, ma nel modo in cui lo
è la gente molto sofisticata: si comportano
come se ci fosse una videocamera di sorveglianza costantemente accesa.
«Gaia si è messa a frequentare l’alta società» osserva Filippo accostandosi al mio
orecchio. Anche lui, come me, non è abituato
a tanto sfarzo.
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«No, è l’alta società che si è messa a frequentare Gaia…» rispondo io. Ci sorridiamo,
complici.
La cena prosegue senza intoppi, piacevole,
e scopro che gli amici del conte sono meno
spocchiosi di quel che potessi pensare. Gaia
aveva ragione. Obbligo me stessa a dispensare qualche sorriso e a non pensare troppo,
ripetendomi che in fondo è solo una serata. Il
fatto che accanto a me ora ci sia Filippo mi fa
sentire in qualche modo al sicuro, e più passano i minuti più mi sembra di ritrovare con
lui l’intesa di sempre. A un certo punto mi
accorgo che lo sguardo gli è caduto sulla mia
scollatura. Ora che ci penso non mi ha mai
vista in abito da sera, questa è la prima occasione elegante a cui partecipiamo insieme.
La cosa mi diverte e, invece di coprirmi come
avrei fatto di solito, sostengo il suo sguardo.
«Ti piace il mio vestito?» gli chiedo.
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Lui si riscuote, leggermente imbarazzato.
«Stai benissimo… ma non è solo il vestito.
Sei diversa, Bibi, come sbocciata.»
«Brindiamo ai cambiamenti positivi, allora» gli dico sollevando il mio bicchiere di
vino e toccando il suo.
Filippo non mi ha neanche mai vista bere.
E infatti è stupito: «Bevi anche, adesso?».
«Eh già, la nostra Elena è una piccola alcolizzata… Era ora!» interviene Gaia, unendosi al nostro brindisi.
Filippo sorride un po’ confuso. «Pensavo
che fossi astemia» mi guarda incuriosito.
«Non hai brindato nemmeno alla tua
laurea.»
«Lo pensavo anch’io» alzo le spalle prendendo un sorso pieno, «ma forse mi
sbagliavo.» Come mi sbagliavo su tante altre
cose.
«Ok, allora alle novità» e anche lui manda
giù il suo vino.
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Mentre beviamo allegramente addentando
tartine e vol-au-vent, fingo di interessarmi
alle frivole conversazioni che mi ronzano intorno e continuo a sorridere. L’alcol comincia a fare il suo effetto, mi sento leggera e rilassata, proprio quello che volevo. A un certo
punto, però, urto per sbaglio una bottiglia di
vino, rovesciandola sul vestito della ragazza
seduta di fronte a me. Un cameriere accorre
a riparare il disastro mentre i miei commensali, per fortuna, non badano troppo al
mio imbarazzo e prendono l’accaduto come
pretesto per un altro brindisi. La ragazza non
è molto divertita, però, e mi fulmina con
un’occhiataccia.
«Stai bene, Bibi? Non è che hai un po’ esagerato?» mi sussurra Filippo premuroso.
«Un pochino…» rispondo, premendomi
una tempia con una mano. Temo di essere
brilla, forse il vino lo reggo molto meno di
quel che pensavo. «Sono un disastro, eh?»
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«Uno splendido disastro» mi strizza l’occhio. «E poi quella aveva pure la faccia da
stronza.»
Che bello averlo qui, penso tra i fumi
dell’alcol. Che bello essere coccolata e apprezzata anche quando combino casini. Solo
Filippo sa farmi sentire così.
Nel frattempo Gaia si è alzata e ha raggiunto il centro della sala insieme ad altra
gente della nostra tavolata. Il dj ha appena
messo un motivetto dance che so piacerle
tanto, di David Guetta o qualcosa del genere.
La mia amica si muove con grazia maliziosa,
perfettamente padrona del proprio corpo,
risplende di luce sulla pista da ballo, avvolta
nel miniabito in chiffon paillettato, i capelli
le si arricciano un poco per il sudore, le
guance sono rosee, perlate. Mi viene voglia di
ballare, io che di solito non lo faccio mai, e
mi alzo per raggiungere il gruppetto. Trascino con me Filippo, nonostante le sue
proteste.
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«Senza discutere!» gli dico imperativa, tirandolo per una manica.
Mi viene in mente la famosa serata alla
scuola di tango, che si era risolta in un
pestaggio collettivo di piedi, e so che anche
lui sta pensando a questo, mentre muove sul
posto qualche passo ingessato, sorridendomi
di continuo. Scoppio a ridere forte, non sono
davvero più in grado di controllare nulla. Filippo mi chiede cos’ho, ma io non riesco a
rispondere. È un’ilarità improvvisa, immotivata, esasperata. Anche Gaia se ne rende
conto e, divertita, si avvicina e mi prende per
i polsi.
«Sei già ubriaca, Ele?»
«Spero di sì» le rispondo asciugandomi le
lacrime. Ma ora non so più se sono lacrime
di felicità o di disperazione.
Qualche minuto prima della mezzanotte
saliamo tutti sul terrazzo per assistere ai
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fuochi d’artificio. Mi sono sempre piaciuti i
fuochi e non solo guardarli, anche farli.
Ricordo quando, da bambina, alla fine
dell’anno spendevo tutti i risparmi del mio
porcellino rosa per comprare girandole e petardini, e poi insieme a papà ci divertivamo
come matti a farli esplodere nel cielo. Le mie
amiche dicevano che non era una cosa da
femmine, ma mio padre sembrava non curarsene e io ero felicissima di condividere
quel momento con lui.
Il nero della notte ora si è schiarito un po’
e s’intravede qualche stella. La visuale che si
ha da quassù è a dir poco spettacolare, sembra di essere dei puntini sospesi tra acqua,
terra e cielo. È arrivato il fatidico momento
del conto alla rovescia. Gaia e Jacopo si
mettono davanti, a ridosso delle guglie,
mentre io e Filippo rimaniamo indietro, in
un angolo più appartato.
«Cinque.»
Filippo mi cinge forte la vita.
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«Quattro.»
Mi accosto di più al suo corpo.
«Tre.»
Mi guarda.
«Due.»
Sollevo il mento.
«Uno.»
La sua bocca è a pochi centimetri dal mio
viso.
«Buon anno!» Lo diciamo insieme, guardandoci negli occhi, e lasciamo le nostre bocche libere di cercarsi e trovarsi. È il primo
vero bacio di questa sera e c’è dentro tutta la
tenerezza che avevo dimenticato. Filippo
stappa la bottiglia di Moët & Chandon che
tiene in mano e ne beviamo qualche sorso a
canna, mentre i fuochi d’artificio illuminano
di colori la città e il canale ai nostri piedi.
Ammiriamo lo spettacolo in silenzio per diversi minuti.
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«È il momento di esprimere un desiderio»
mi sussurra a un tratto Filippo.
«Ok.» Chiudo gli occhi per concentrarmi.
Per quanto sia bello questo istante con lui,
per quanto mi sforzi di cercarne uno diverso,
ho un solo desiderio in mente: Leonardo.
Quando riapro gli occhi, vorrei piangere.
«Fatto?» mi domanda Filippo.
Annuisco e sfuggo subito al suo sguardo.
Gli strappo la bottiglia di mano e mando giù
un altro sorso.
«E tu? Hai espresso il tuo?» gli chiedo cercando di sorridere.
«Non c’è bisogno. Il mio desiderio è già
qui» mi dice stringendomi e baciandomi
ancora.
Mi sento morire. Sono l’essere più
meschino che possa esistere. Mi aggrappo a
quel bacio con tutta me stessa, lo carico della
stessa forza con cui vorrei chiedergli
perdono.
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Filippo mi tira a sé, tenendomi contro il
suo petto. Restiamo così non so per quanto
tempo, mi sembra di aver fatto un lungo
viaggio da cui sono già tornata indietro. Ora
che i fuochi sono finiti, gran parte delle persone è tornata di sotto e solo alcuni si attardano ancora sul terrazzo. Sento il calore di Filippo mescolarsi al mio, sotto i vestiti i nostri
corpi sono vicinissimi e il sangue mi bolle
nelle vene. Sarà che sono su di giri per il
vino, ma all’improvviso ho una voglia matta
di fare l’amore con lui. Non so se è per desiderio o rabbia, per gioia o disperazione, so
solo che stanotte voglio dimenticarmi tutto
ed essere sua ancora una volta. Alle conseguenze penserò domani.
Così gli afferro il volto tra le mani e inizio a
baciarlo con brama, affondandogli tutta la
lingua nella bocca e appoggiandogli una
mano tra le gambe.
Filippo, però, mi allontana da sé e mi
guarda sconcertato.
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«Cosa c’è? Non ti va?» gli chiedo.
«Sì che mi va…» risponde lui, guardandosi
intorno.
«E allora?» gli sussurro, spingendolo in un
angolo più buio del terrazzo.
«Bibi, ci guardano.» Gli piace, lo so, ma è
troppo imbarazzato.
«E tu lasciali guardare.» Gli afferro una
mano e me la appoggio sul seno.
«Ma cosa ti prende, stasera?» dice, gli occhi verdi accesi da una luce che non ho mai
visto.
«Mi prende che ho voglia» dico in tono di
sfida, e mi scosto una spallina del vestito,
lasciando intravedere un seno.
«Ma che fai? Copriti.» È sgomento, contrariato, e mi ricopre in fretta.
«Perché sei così rigido?» Io invece sono
stizzita e frustrata. Leonardo non mi avrebbe
fermata. Leonardo non mi avrebbe detto
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queste cose. Leonardo mi avrebbe presa qui,
contro questo muro. Leonardo, Leonardo,
non riesco a pensare che a lui, dannazione!
“Perché non fai qualcosa per farmelo dimenticare?” vorrei urlargli addosso.
«Sei completamente ubriaca» mi dice,
scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte.
È molto più sexy quando è arrabbiato… la
sua mascella è più squadrata.
Adesso è quasi per ripicca che lo voglio, il
suo rifiuto mi eccita, sento il bisogno di scandalizzarlo, di sbattergli in faccia la nuova
Elena, non più sua, ma di un altro. Gli slaccio
la cintura, con gesti impazienti.
«Avanti, Fil! Mi vuoi o no?»
Mi blocca all’istante stringendomi il polso.
«Smettila, Elena. Stai esagerando» sibila.
Non mi chiama mai Elena. Sembra stravolto.
«E allora esageriamo!» gli faccio eco,
spazientita. «Non puoi lasciarti andare per
una volta?»
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«Smettila, ho detto.»
«Cos’è, devi pensarci su? Vogliamo prenderci del tempo anche per questo?» Adesso
sono arrabbiata e incattivita e non riesco a
fermare le parole che mi escono dalla bocca
come veleno. «Dov’è la passione, Fil, non c’è
mai una cazzo di decisione che non sia ragionata, non c’è mai un po’ di sana follia tra
noi? È sempre tutto così scontato!»
L’ho detto, l’ho urlato, e già me ne pento.
Filippo mi guarda incredulo.
«Io mi sono fatto sei ore di viaggio per
vederti» mi dice pallido, a denti stretti. «Ma
pensavo fossimo qualcosa di più di una
scopata sulla terrazza di un albergo.»
Mi prendo il viso tra le mani. Adesso mi
vergogno da morire.
Arretra di qualche passo, gli occhi spenti.
Non vuole più il contatto con il mio corpo.
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«Non so cosa ti sia successo in questi mesi,
Elena, ma io non ti riconosco. E quello che
ho visto stasera… non mi piace.»
Fa per andarsene, ma lo trattengo per un
braccio. «Scusami, non volevo…»
Lui si divincola. «Sì che volevi.» Mi guarda
gelido, i pugni serrati. «Hai detto quello che
pensavi, è fin troppo chiaro. Ti auguro buon
anno.» Poi si precipita verso le scale che conducono all’uscita.
Non posso più fermarlo e non ci provo
nemmeno. Sono senza forze, mi accascio
contro il muro, la testa mi gira e i conati salgono dallo stomaco, ma fortunatamente riesco a controllarli. Faccio dei respiri profondi e con calma mi rialzo, trascinandomi a
passi incerti all’interno, fino al nostro tavolo.
Me ne vado anch’io, a questo punto è inutile
rimanere. Recupero la mia borsa e saluto in
fretta Gaia e Brandolini, senza fornire spiegazioni. Per fortuna Gaia è più sbronza di
me, non si è accorta della sparizione di
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Filippo né delle mie condizioni disastrose.
Mi ripete ancora «Buon anno» e, dopo
avermi pizzicato il sedere, mi lascia andare.
Eccomi qui. Sola, nel mio appartamento
da single, alle tre di mattina del primo gennaio, con la prospettiva di vomitare da un
momento all’altro e un cerchio alla testa che
non mi dà tregua. Bell’inizio d’anno. Senza
Leonardo. E, adesso, anche senza Filippo.
Cos’ho fatto per meritarmi tutto questo? Mi
sento stanca, consumata: ho già fatto la mia
scelta ma il destino si diverte a prendermi a
schiaffi. Voglio quello che non posso avere.
Reggendomi a stento sulle gambe barcollo
verso la cucina, cerco qualcosa che possa assorbire l’alcol che mi gira nello stomaco.
Trovo un po’ di pane e me lo caccio in bocca
senza domandarmi da quanto tempo sia lì.
Poi entro in bagno e apro il rubinetto della
vasca, versandoci dentro qualche goccia di
olio essenziale. Me ne scappa un po’ troppo
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ma non ci faccio caso. Mentre aspetto che si
riempia, torno in salotto e il mio sguardo è
attratto dall’albero di Natale con le luci
ancora accese. Mi siedo sul pavimento e
resto a guardarlo. Su una pallina leggo uno
dei versi che io stessa ci ho scritto sopra:
Odio e amo. Mi chiedi come sia
possibile.
Non lo so, ma sento che è così e mi
tormento.
Catullo
Sto per piangere. Mi si allenta il nodo alla
gola. Sono una stupida sentimentale con gli
occhi rossi, una bambina che ha giocato a
fare la donna e ha combinato solo guai.
Mi libero del mio abito sgualcito e di
quella stupida lingerie sexy in pizzo rosso, li
lascio cadere sul pavimento mentre torno in
bagno. Poi m’immergo lentamente nella
vasca piena, mettendo sotto anche la testa e
sciogliendo nell’acqua le lacrime.
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Eccola, la nuova Elena. Sola, confusa e
colpevole. Vittima e carnefice di se stessa.
14
Le vacanze sono finite, finalmente, e io mi
sono lasciata alle spalle il vecchio anno con
riconoscenza ma senza rimpianti. Nonostante abbia iniziato quello nuovo in maniera
catastrofica, devo guardare avanti. Ho
evitato il solito elenco dei buoni propositi,
ma mi sono ripromessa che questo sarà l’anno delle scelte coraggiose.
Innanzitutto voglio ricominciare alla
grande con il lavoro. Ho fatto qualche colloquio, ma sembra che a Venezia per il momento non si muova nulla di interessante.
Allora ho contattato la professoressa
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Borraccini, direttrice dell’Istituto di Restauro
con cui ancora collaboro, e lei mi ha proposto un progetto a Padova: partecipare ai
restauri della Cappella degli Scrovegni, insieme a una squadra sotto la sua supervisione. Un lavoro prestigioso, da curriculum,
ma si tratterebbe di fare tutti i giorni avanti e
indietro con il treno, perciò valuterò meglio
dopo aver fatto il colloquio.
Poi mi sono iscritta in palestra, non so con
quale coraggio, a dire il vero. Il martedì ho
pilates, il lunedì e il giovedì seguo il corso di
zumba. Ovviamente riesco meglio nel pilates,
forse perché non c’è molto da fare oltre a
qualche stiramento sul posto. Certo, non
sono il massimo dell’elasticità, ma almeno
adesso riesco a toccarmi le punte dei piedi
con le dita. Sulla zumba, invece, stenderei un
velo pietoso. È stata Gaia a convincermi e
maledico il giorno che le ho detto sì. L’istruttrice è una pazza, poi in sala non riesco a non
guardarmi allo specchio e a sentirmi ridicola
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in mezzo a quest’orda di donne scatenate che
sculettano e si dimenano a un ritmo frenetico, mentre io resto indietro di almeno mezza
sequenza sul tempo. Ogni volta finisco la
lezione rantolando, ma devo riconoscere che
alla fine mi sento leggera, stanca nel senso
migliore del termine e quasi divertita dalla
mia stessa goffaggine.
Sul fronte sentimentale, invece, la
situazione è davvero in stallo.
Dopo quella tremenda notte di Capodanno, Filippo non mi ha più cercata. Gaia continua a chiedermi con insistenza i motivi del
nostro distacco e io ho sempre sorvolato, facendo la vaga. Le ho detto che abbiamo deciso di non sentirci per un po’ senza raccontarle il mio exploit, senza dirle che sono stata
io a portarlo alla rottura. Sono stata davvero
imperdonabile con Filippo, credo di avergli
detto quelle cose solo perché inconsciamente
volevo allontanarlo da me, indurlo a detestarmi. Ci sono riuscita, alla fine, e sapere che
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tra noi è finita ancora prima di cominciare
mi lascia l’amaro in bocca. Mi resta però il
dubbio assillante di aver perso un’occasione
per essere felice, ma non posso farci niente
se il mio cuore va in un’altra direzione,
adesso.
E si ritorna sempre a Leonardo. Non so
più come trattenere il desiderio folle che ho
di chiamarlo, ma resistere è l’unico modo per
riaverlo. Il tempo che mi separa da lui a volte
mi sembra insopportabile, ma sono fiduciosa: ormai le feste sono finite da un pezzo e
so che a breve sarà di nuovo qui. Di nuovo
insieme. Io e lui, anche se non so bene in che
misura. Ma, in fondo, di certe cose è meglio
non conoscere la misura esatta.
Sono appena tornata dalla palestra e mi
sembra di volare: tutte le tossine che avevo
in corpo se ne sono andate dopo un allenamento che ha fatto stramazzare al suolo
perfino Gaia. Stasera posso strafogarmi
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senza sentirmi troppo in colpa. Mi sto preparando dei tramezzini con rucola e bresaola
– ebbene sì, ormai non è più un problema –
brie e noci, gorgonzola e carciofini, due per
tipo. Li sto gonfiando all’inverosimile, come
fanno alla Toletta, il bar di Venezia che serve
i tramezzini più buoni del mondo.
Mancano pochi minuti alle otto, quando il
citofono di casa suona. Chi sarà? Non aspetto
nessuno. Lascio sul piatto il coltello sporco di
brie e leccandomi le dita vado alla porta a
rispondere.
«Sì?» domando.
«Leonardo.» Una voce ferma e potente. La
sua.
Oddio, sto per sentirmi male. D’istinto mi
guardo allo specchio alla parete. Sono un disastro: jeans stracciati, ciabattine di lana merinos e felpa Adidas scucita che uso per stare
in casa. La stessa dal liceo. E meno male che
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non ho addosso il pigiama in pile con gli orsetti polari.
«Leonardo?!» chiedo per essere sicura di
non stare sognando.
«Sì. Ti va di aprirmi?»
Aspetta un attimo che mi cambio. Anzi, un
paio d’ore. Così mi restauro.
«Sali.» Premo l’interruttore e nel frattempo corro in bagno a passarmi sulle
guance un filo di cipria compatta. Ho dei
capelli che Gaia non esiterebbe a definire inguardabili. Ma non c’è tempo. Li raccolgo in
una coda improvvisata.
Sta salendo le scale.
Non pensavo sarebbe arrivato così, senza
nemmeno una telefonata di preavviso. Non
sono preparata. Ho il cuore che scoppia e le
gambe che tremano, ma devo dimostrarmi
sicura, a mio agio, non voglio fargli capire
quanto mi è mancato, anche se forse lui già
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lo immagina ed è perfettamente inutile
nasconderglielo.
Gli apro la porta cercando di rivolgergli
un’espressione di moderato stupore. «Che
sorpresa…»
«Quella che aspettavi» risponde lui vanificando tutti i miei sforzi. È così sexy, la barba di qualche giorno, i capelli spettinati e la
carnagione leggermente più scura del solito.
«Vieni» gli dico, invitandolo dentro con un
cenno del capo e trattenendo a stento la
voglia di saltargli al collo.
Avanza di pochi passi verso il soggiorno,
abbandona a terra la sua sacca verde militare
e mi sfiora la guancia con un bacio distratto,
guardandosi intorno.
«Come sei stata senza di me?»
«Bene.»
«Bugiarda.»
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Mi attira a sé e mi bacia ancora e ancora.
Si sposta sul collo e poi, prendendomi con
forza il viso tra le mani, mi spinge contro il
ripiano della cucina e affonda la lingua nella
mia bocca. Perché non si lascia afferrare,
Leonardo, perché non vuole essere mio?
Quanto mi sono mancate queste labbra voraci, queste braccia forti, questo corpo profumato d’ambra e di vita… Ma perché non
posso disporne ogni volta che mi pare?
Non mi trattengo e rispondo con lo stesso
desiderio.
«Mangi così?» mi chiede a un tratto, staccandosi dal mio abbraccio dopo aver visto sul
tavolo un tagliere con sopra una fetta di pane
spalmata di brie.
«Sì. Adoro i tramezzini fatti alla
veneziana.»
Leonardo scuote la testa con un sorrisetto
sprezzante. Sarà anche un cuoco di classe ma
nessuno può sminuire i miei tramezzini.
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«Fidati, sono buonissimi…» insisto,
convinta.
Leonardo si mette a ridere, come se avessi
appena detto un’assurdità. «Sentiamo se
sono davvero buonissimi» sibila, imitando la
mia voce. E addenta un tramezzino brie e
noci, assaporandolo lentamente.
Mi sento sotto giudizio, una qualunque
concorrente di MasterChef che sta per essere
buttata fuori dalla trasmissione, con l’unica
differenza che Leonardo oltre che severo
come i giudici del programma è anche tremendamente sexy e per questo inibisce
ancora di più.
Mi guarda con occhi che non promettono
nulla di buono. Poi sospira e mi attira a sé,
prendendomi per la vita. «Brava» commenta, leccandosi le labbra, «quasi quasi ti
prendo come assistente.»
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«Grazie, ma ho già un lavoro. Più o
meno…» rispondo. Lui mi dà una
sculacciata.
«Comunque, se hai fame ce ne sono altri…» dico indicando il tagliere.
«Ok» risponde. Si leva il giubbotto di pelle
e ci spostiamo sul divano. Si muove perfettamente a suo agio, invece a me fa un effetto un po’ strano averlo qui, in casa mia. È
la prima volta. Deve essersi ricordato la via
dal giorno dell’acqua alta…
Agguanta un tramezzino rucola e bresaola,
mentre io stacco un angolo di quello gorgonzola e carciofini. Mastico svogliatamente,
all’improvviso mi è passata la fame. Ho
voglia di lui.
«Non ti va più?» mi domanda.
«Certo che mi va» mento senza riserve.
Poi, all’improvviso, ho un’idea. «Vado a
prendere qualcosa da bere? Ho una bottiglia
di Dom Pérignon di là…»
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«E da quando tieni dell’alcol in frigo? Ti
tratti
bene,
signorina…»
commenta,
annuendo.
Mi alzo dal divano e con la scusa di raggiungere la cucina, sgattaiolo velocemente in
bagno e mi abbasso gli slip per controllare la
situazione. Tiro un sospiro di sollievo. Ho il
seno gonfissimo, devono arrivarmi, ma
sarebbe un peccato se fosse proprio stasera…
Mi sistemo la coda davanti allo specchio, o
almeno ci provo, poi recupero lo champagne
e torno in soggiorno.
«Eccomi.» Appoggio il Dom Pérignon sul
tavolino e cerco due calici. Leonardo mi
segue con lo sguardo mentre stappa la
bottiglia.
«Tutto bene?» chiede, mentre gli porgo i
bicchieri.
«Sì» rispondo sedendomi di nuovo sul divano. Si vede così tanto che non sto più nella
pelle? Il corso accelerato di dissimulazione
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che mi sono autoimposta nelle ultime settimane non deve aver dato grandi risultati: è impossibile nascondere le emozioni che lui mi
provoca.
«A cosa brindiamo?» domando.
«A noi» risponde guardandomi negli occhi
e facendo tintinnare il suo bicchiere contro il
mio. Poi si alza ed estrae un pacchetto bianco
dalla sacca.
«Questo è per te, direttamente dalla Sicilia» dice.
Un regalo. Questa proprio non me
l’aspettavo.
«Grazie» mormoro un po’ imbarazzata.
«Ma io non ho niente per te…»
«Avanti, aprilo» taglia corto Leonardo.
Scarto l’involucro con meticolosa cura.
Sembra avvolgere qualcosa di morbido.
«Com’è andato il viaggio?» gli domando,
intanto.
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«Molto bene» risponde lui, telegrafico. Ha
lo sguardo perso nel vuoto, non vorrei
sbagliarmi ma sembra quasi malinconico.
Qualcosa di grande deve legarlo alla sua
terra. Qualcosa che a me non è dato sapere.
Libero il secondo strato di carta e un
lembo di tessuto liscio spunta sotto le mie
dita. Lo stendo appoggiandolo al torace,
come si farebbe per srotolare un poster. Abbasso gli occhi per ammirarlo. È un meraviglioso mantello in seta nera con un cappuccio rifinito in raso.
«Si chiama armuscinu» mi spiega
Leonardo, prima che possa fargli qualsiasi
domanda. «È fatto a mano. Un tempo le
donne siciliane lo indossavano per uscire di
casa ma ora non si trova tanto facilmente.»
«È davvero bellissimo» commento, stringendolo al petto. Dev’essere una cosa rara.
Mi perdo tra i fermo immagine dei film di
Tornatore: non sono mai stata in Sicilia e
sono la mia unica fonte.
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«Si poteva portare in due modi.»
Leonardo me lo appoggia sulle spalle. «Con il
cappuccio giù, quando si andava a sbrigare
affari. Oppure con il cappuccio in testa» e mi
copre il capo, «quando si andava in chiesa e
a trovare persone importanti.»
Sorrido. Con questo pastrano addosso mi
sento una matrioska. Altro che Monica Bellucci in Malèna!
Leonardo mi sistema come uno stilista che
prepara la sua modella, poi mi ammira,
anche lui divertito. «Assabinidica, donna
Elena. Ti sta molto bene.»
Non so cosa rispondere e faccio un piccolo
inchino. Lui si avvicina e ne afferra un
lembo. «Ma stai ancora meglio senza niente
addosso…»
Mi sfila il mantello, poi la felpa, poi la
maglietta di cotone. Soffia delicatamente sui
miei seni nudi e subito i capezzoli s’inturgidiscono. Si siede sul divano e facendomi
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voltare mi accoglie nello spazio tra le sue
gambe. Mi lascio massaggiare dalle sue mani
esperte, sento le sue dita salire morbidamente intorno al collo e poi scendere fino ai
fianchi disegnando tanti piccoli cerchi lungo
la colonna vertebrale. Poi mi tocca leggero i
seni. Il mio corpo è tutto percorso da
un’ondata di brividi.
«Hai un profumo così buono. Così dolce.»
Il suo naso mi sfiora l’incavo del collo, insieme alla sua lingua rovente. Il sangue mi si
riscalda all’istante nelle vene. Lo voglio da
impazzire.
«Mi sei mancata, Elena» continua a sussurrarmi piano.
Mi bacia la nuca e si avvicina fino a imprimersi tutto, con il petto, le guance, la
bocca contro la mia schiena. Riposa qualche
istante su di me. Poi mi giro, non so resistere
al richiamo della sua bocca. Gli tolgo il
maglione sfilandolo dalla testa, mi metto a
cavalcioni su di lui e continuo a baciarlo
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finché non mi rovescia sotto di sé. Con le
mani mi afferra le cosce e in un attimo la sua
bocca è di nuovo su di me. Morde vorace il
mio sesso attraverso i jeans, mentre le mie
dita s’intrecciano ai suoi capelli. Gemo, e il
piacere si espande inarrestabile.
All’improvviso mi solleva e mi rovescia su
una spalla come un sacco. Sono a testa in
giù, aggancio le mani alle tasche dei suoi
jeans per tenermi. Ma mi sento sicura tra le
sue braccia forti.
«Dove mi porti?» chiedo ridendo.
Imbocca il corridoio con sicurezza, come
se conoscesse casa mia da sempre.
«Voglio vedere la tua stanza.»
Infila la porta semiaperta e mi scaraventa
sul letto. «Carina. Mi piace» commenta,
guardandosi intorno e tormentandomi un
capezzolo.
Ho il cuore a mille e il desiderio mi sfreccia nelle viscere. Mi strappa di dosso i jeans e
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gli slip, poi lecca lentamente, dalla parte
bassa del mio sesso fino in cima, aprendosi
la strada verso il clitoride. Sono bollente. Mi
vuole con un ardore che non ho mai conosciuto in nessun altro, è questo che mi dicono
le sue labbra esperte, instancabili.
«Sai di buono, Elena. Di pane caldo. E,
dentro, di sale.» La sua lingua si spinge più a
fondo, sembra insaziabile.
E io mi sento scomparire nel nulla, come
se di me percepissi soltanto il mio sesso
scosso da convulsioni e fremiti di piacere.
All’improvviso si solleva, gli occhi carichi
di desiderio, i muscoli del petto in tensione.
Velocemente si libera dei vestiti e si butta
sopra di me, immobilizzandomi i polsi con le
mani. Mi penetra con una spinta vogliosa e
impaziente e inizia a muoversi a un ritmo
serrato, ansimando.
Come una molecola nel mezzo di una trasformazione alchemica, faccio un salto in
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un’altra dimensione. I nostri due corpi uniti
sprigionano un’energia così intensa da disorientarmi. Sembra che la nostra separazione
abbia aumentato il desiderio, tanto da farci
vivere qualcosa di travolgente, sconcertante,
violento.
Adesso Leonardo mi gira. Lo assecondo,
aggrappandomi alla testiera del letto. Gemo
senza sosta e mi muovo per andargli incontro, sentendo le sue mani sui fianchi e il suo
sesso nel mio. Ha preso un ritmo sfiancante,
ma riesco a sostenerlo.
«Sei mia, Elena» mi dice accarezzandomi
le natiche. E spinge ancora, quanto basta per
farmi partire.
Non riesco a smettere di urlare, mentre la
testiera urta contro il muro. Sto precipitando
nel vortice del mio orgasmo, sento fremere
ogni muscolo, il sangue arriva ai denti e la
testa gira. Leonardo mi segue, tenendomi
stretta, finché crolliamo insieme sulle lenzuola, e lui m’imprigiona tra le sue braccia.
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Rimango per un po’ rannicchiata contro il
suo petto, e ammiro tutto il suo corpo, respirandone il profumo inebriante. Mi sento
totalmente persa in lui e per lui.
«Clelia ci avrà sentiti…» mormoro.
«Chi è Clelia?»
«La mia vicina.» Ho fatto più rumore delle
sue gatte in calore, penso sorridendo.
«Non so cosa ne dica Clelia, ma è bello
sentirti godere» mi passa un dito sul naso,
guardandomi con occhi compiaciuti.
Non fare così, che mi viene voglia di coccolarti… non posso cedere troppo alla
tenerezza. Lascio scivolare le dita tra i peli
del suo petto.
«Che ne dici di un bagno caldo?» gli
chiedo, seguendo un’idea improvvisa.
«Perché no…»
Faccio per muovermi, ma lui mi blocca.
«Stai qui, vado io a riempire la vasca.» Si
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alza e i miei occhi accarezzano il suo corpo
statuario. Mi piace che prenda l’iniziativa. Mi
piace che sia qui. Mi piace tutto di lui.
Tranne il fatto che non potrà mai essere mio.
Sono ancora in uno stato di dolce torpore
quando Leonardo torna in camera con
un’aria maliziosa e divertita: «E questo?».
Oddio, il vibratore! L’ha scovato nell’armadietto dei bagnoschiuma. Nooo! Vorrei
nascondermi sotto le lenzuola per la
vergogna.
«È stata Gaia a regalarmelo. A Natale» mi
giustifico.
Leonardo scuote la testa ridendo. «E l’hai
già usato?» Si avvicina al letto. Quell’oggetto
freddo tra le sue mani ha qualcosa di tremendamente erotico.
«In realtà, no.»
«Perché, no?»
«Non lo so, credo che non mi piacerebbe.»
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«Credi?» e il suo sguardo è eloquente,
mentre sale sul letto accanto a me.
Devo ancora riprendermi dall’orgasmo di
prima. Quest’uomo mi farà morire! Mi accarezza in mezzo alle gambe scivolando su e
giù con le dita come se dovesse accendere e
spegnere un interruttore. Il mio nido si spalanca di nuovo, non ancora sazio, e tutt’a un
tratto mi sento riempire da qualcosa che ha
la consistenza del vetro. Liscio e gelido,
scorre veloce, fino a farmi emettere un
gemito.
Leonardo spinge più a fondo. Lo muove
dentro e fuori, poi lo fa vibrare. È una
sensazione nuova, prepotente, eccitante
come tutto quello che faccio con lui. Apro gli
occhi e lo guardo. Luccica sotto il riflesso
dell’abat-jour. La vista di quell’oggetto inanimato dentro il mio corpo vivo è straniante
ma, non so perché, mi piace.
Leonardo lo fa scivolare fuori da me e me
lo posa in una mano. «Continua tu, Elena»
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mi dice, prendendosi il sesso tra le mani.
«Voglio guardarti mentre lo fai.» I suoi occhi
sono nuovamente carichi di desiderio.
Eseguo, come ipnotizzata, non trovo la
forza di oppormi. Il cristallo mi regala un piacere lascivo, amplificato dallo sguardo di
Leonardo su di me. Non capisco più niente,
sono inerme: la testa mi gira, le mani non
hanno forza. Resta a guardarmi per un po’,
poi mi libera dal giocattolo, mi prende per le
cosce e mi penetra spingendo con decisione.
Io gemo, più forte di prima.
«E questo, ti piace di più, vero?» mi
sussurra.
Un gemito eloquente esce dalle mie labbra.
Si sfila da me e tenendomi in braccio mi
conduce in bagno. L’acqua ha quasi raggiunto il bordo della vasca. Si china a chiudere
il rubinetto e getta dentro una sfera effervescente al patchouli, che si scioglie in tante
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piccole bolle profumate. Bravo, Leonardo. Tu
sai sempre quello che mi piace.
Faccio un sospiro profondo e m’immergo
per prima, scivolando sotto la schiuma. Lui
mi divora con uno sguardo carnale e si sistema di fronte a me, facendo fuoriuscire un
po’ d’acqua. La mia vasca è piccola, agevola il
contatto, le nostre gambe s’intrecciano.
I suoi occhi si accendono di voglia mentre
si avvicina al mio viso per baciarmi. Mi prende il volto con entrambe le mani e si impadronisce della mia bocca. «Vieni qui»
grugnisce, facendomi mettere a cavalcioni su
di sé. Accarezza il piccolo neo sotto il mio
seno e mi sorride: «Ogni volta che ti penso,
penso anche a questo».
Adesso lo sento. Entra di nuovo nel mio
incendio bagnato. Mi siedo piano su di lui e,
quando dà l’affondo per riempirmi tutta, inarco la schiena emettendo un gemito. Poi gli
afferro la testa e la stringo al petto, offrendogli i miei capezzoli duri. Voglio sentire la
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sua bocca su di me e voglio che sappia
quanto forte è il mio desiderio di lui.
Ci muoviamo all’unisono nello spazio ristretto della vasca, la pelle bagnata e scivolosa, gli occhi umidi di piacere, le bocche
avide di passione. E l’acqua sciaborda intorno a noi.
Un nuovo orgasmo si propaga dentro di
me, mi divora anima e corpo. Sono sopraffatta dalle mie sensazioni e sento che anche
lui sta perdendo il controllo. Veniamo insieme, baciandoci sulla bocca.
Sono sua. E lui è mio, almeno per questa
notte.
Il bagno è pieno di vapore, adesso. L’acqua
piano piano inizia a tornare trasparente,
dopo che la schiuma si è dispersa. Restiamo
sotto ancora un po’, io distesa a pancia in su,
incastrata tra le sue gambe come in una morbida culla.
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«Sei cambiata, Elena, lo sai?» mi dice,
giocando con i miei capelli.
«Cosa vuoi dire?»
«Fai l’amore in modo diverso. Sei più libera, più sensuale.»
«Sei stato tu a cambiarmi.»
«Forse. In parte. Io ho solo tirato fuori
quello che già avevi dentro.»
È un complimento inaspettato, che mi
riempie d’orgoglio e di tenerezza. Non
sapendo bene che fare mi rifugio nel sarcasmo: «Quindi sarò promossa a giugno,
prof?».
Per tutta risposta mi spinge sotto premendomi la testa con una mano. Riemergo con
un urlo e mi avvento su di lui mordendogli
un braccio. Ridiamo.
Poi mi fa sollevare un poco e mi passa la
spugna sulla schiena massaggiandomi. Sa essere terribilmente dolce quando vuole. Chiudo gli occhi e mi rilasso, accarezzata dalle
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sue mani e dal suono delle gocce che cadono
lente nell’acqua.
«Rimani a dormire?» La parole mi escono
di bocca spontaneamente, senza che possa
frenarle. Temo di aver commesso un grave
errore. Non sono domande da fare a uno
come lui.
«Sì.»
Sgrano gli occhi. Non mi aspettavo questa
risposta. Di solito gli amanti non si fermano
a dormire. Mi giro a guardarlo per verificare
che sia serio.
«Non ho problemi, se tu non ne hai.» Appunto. Quello che vale di solito, per
Leonardo non vale.
Lo bacio con trasporto, come forse non
l’ho mai baciato fino a ora, come se fosse il
mio uomo e io la sua donna e non ci fosse un
patto maledetto a unirci e a dividerci.
Non devo innamorarmi, lo so. Ma non
voglio nemmeno sprecare quest’attimo di
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felicità, caricandolo di pensieri inutili. Voglio
viverlo. Adesso.
Ci mettiamo a letto profumati e riscaldati
dal lungo bagno. Leonardo è qui, nel mio
letto, ed è qui per me. Lo abbraccio sotto le
coperte, felice di sapere che domani mattina
ci sarà ancora.
Non ci addormentiamo subito, per un po’
ci rigiriamo nel letto, cercandoci con baci insaziabili, tenendoci strettissimi, come se dei
nostri corpi volessimo afferrare tutto, anche i
respiri. Poi scivolo senza soluzione di continuità da questo stato di dormiveglia a un
sonno profondo.
Alle sei e quarantacinque, il trillo fastidioso del telefono mi strappa al meritato riposo. Apro gli occhi e l’afferro mentre riprendo coscienza: cazzo, il colloquio con la
Borraccini! Devo essere a Padova tra due ore.
Ho chiesto io a mia madre di chiamarmi, per
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essere sicura di svegliarmi davvero, come
ogni volta che devo alzarmi prestissimo.
Rispondo sottovoce cercando di non farmi
sentire da Leonardo. «Ciao, mamma» mormoro con la voce impastata di sonno. In
punta di piedi mi trascino in soggiorno.
«Ma perché parli così piano?» sibila mia
madre.
«Forse non prende bene.» Dimentico che
sto parlando al fisso e non al cellulare, ma
per fortuna lei certi dettagli non li coglie.
«Allora, sei sveglia? A che ora hai il
treno?»
Non lo so, mamma. Non so nemmeno in
che mondo sono adesso. «Alle otto»
rispondo tirando a indovinare.
«Ce la fai?»
«Sì. Sono in perfetto orario.» O almeno
spero.
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«Mi raccomando. Sii te stessa e dai il
massimo, come sempre… In bocca al lupo,
tesoro!»
«Crepi. Ciao.»
Rientro in stanza, i piedi nudi sul pavimento freddo e i brividi del mattino che affiorano come spilli sulla pelle ancora calda. Mi
infilo il golf di lana oversize.
Leonardo apre un attimo gli occhi e li
richiude subito dopo, infastidito dal raggio di
sole che filtra dalla finestra. «Ma è suonato
un telefono? Che ora è?» domanda, riemergendo dal sonno. È tutto stropicciato, ma è
bello anche così. Io invece devo essere un
mostro con i capelli ingarbugliati e le borse
sotto gli occhi.
«È presto, ma devo andare. Ho un appuntamento di lavoro. Tu dormi, tranquillo.»
Non ho finito di dirlo che mi prende una fitta
allo stomaco e realizzo che ho già vissuto una
situazione simile qualche mese fa, con
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Filippo. Solo che adesso le parti sono
invertite.
Scaccio subito via quel pensiero molesto e,
mentre Leonardo sonnecchia ancora, apro
un’anta dell’armadio. Scelgo in fretta la mia
mise e con i vestiti in mano sguscio in bagno.
Camicia bianca Hermès ben aderente, pantaloni neri a sigaretta, cardigan grigio antracite, stivaletti neri tacco tre. Mi copro appena
le occhiaie con il correttore, mi metto un po’
di fard e un po’ di gloss e poi raccolgo due
ciocche di capelli dietro la nuca: il perfetto
look da brava ragazza. Complimenti, Elena.
Anche se ormai non ti ricordi nemmeno più
che cos’è una brava ragazza…
Torno in camera per prendere la borsa e il
cappotto, e mi accorgo che Leonardo mi sta
fissando dal letto con le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi spalancati.
«Non so a che ora torno» gli spiego avvicinandomi, «ma puoi fermarti quanto vuoi.»
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«Tra un attimo vado anch’io» biascica lui,
la voce un po’ ruvida. Poi mi afferra una
mano e mi costringe a sedermi sul letto.
«Dài un colpetto quando chiudi la porta,
così scatta la serratura» continuo.
«Sei sempre così bella di prima mattina?»
dice senza nemmeno ascoltarmi e attirandomi sulle sue labbra.
Ci lascio sopra un po’ di gloss e a un tratto
Leonardo è buffo: non l’avevo mai visto sotto
questa luce. «Ciao» gli sussurro all’orecchio
e scappo via, attenta a non inciampare o
sbattere contro qualcosa come mio solito.
«Ciao» mi fa eco lui. «Buona giornata.»
Rientro da Padova intorno all’una e mezza.
Non so ancora se accetterò l’incarico che mi
hanno proposto, ma sono felice e ho voglia di
sorridere al mondo. Se ne sono accorti tutti,
persino quell’arpia della Borraccini, che stamattina vedendomi arrivare mi ha rivolto un
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saluto caloroso: «Buongiorno, Elena. La
trovo davvero molto bene». Evidentemente,
fare l’amore con Leonardo regala quest’effetto, molto meglio di una crema levigante o
di qualsiasi vitamina.
Percorro a passo spedito la strada di casa,
sono piena di speranze, nella testa mi scorre
un bel film romantico che ha lui come protagonista. Salgo la rampa delle scale due a
due, evito accuratamente lo sguardo di Clelia
incrociandola sul pianerottolo, apro piano la
porta e mi guardo intorno. Non c’è traccia di
Leonardo.
Entro in camera. Mi piacerebbe trovarlo
disteso sul letto ad aspettarmi, esattamente
come l’ho lasciato stamattina. Ho ancora
voglia di lui, della sua pelle, del suo odore,
della sua forza. Non è neanche qui, ma è rimasto il suo profumo nella stanza. Il letto rifatto con cura e sopra il mantello di seta
disteso ad arte. Sul cuscino, un foglio di carta
piegato in due.
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Apro il biglietto e leggo.
Se il buon giorno non si vede dal mattino, ma dalla notte precedente, questa
sarà una splendida giornata.
A presto,
Leo
Mi tuffo sul letto e mi appoggio il foglio sul
cuore. Guardo il soffitto, sorrido e penso che
è vero: questa è già una splendida giornata.
15
Da giorni Venezia è travolta dalla follia del
Carnevale. Le botteghe degli artigiani e le
sartorie sono in gran fermento e la città è
tappezzata di bancarelle che vendono
maschere, cappelli e parrucche di ogni forma
e colore. Orde di turisti sono arrivate qui da
tutto il mondo. Quando circola questa mole
di gente, muoversi tra le calli e spostarsi in
vaporetto diventa incredibilmente lento e
difficile. Bisogna armarsi di pazienza e
rassegnarsi all’idea che, qualsiasi sia la tua
destinazione, farai tardi anche partendo con
largo anticipo.
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È Martedì Grasso e sto andando da
Leonardo. Negli ultimi tempi sono tornata
spesso da lui al palazzo e ogni volta mi piace
ritrovare l’affresco ad accogliermi come un
volto familiare. Ormai c’è una sorta di
routine, tra noi, una serie di piccole abitudini
che ci uniscono senza per questo legarci. I
suoi messaggi, ad esempio, che arrivano di
tanto in tanto a scandire i nostri incontri,
come un richiamo al piacere. «Vieni da me
verso le cinque» mi ha detto ieri. «Vestiti elegante e porta il mantello. Andiamo a una
festa privata.»
L’ultima volta che mi sono mascherata
avevo dodici anni, indossavo un abito da Pierrot, avevo la faccia ricoperta di cerone e
l’insicurezza di una bambina che non è più
bambina, ma neanche donna. Mi vergognavo
un po’, infagottata in quegli abiti che non
erano miei, e mi ricordo che ero riuscita a divertirmi davvero solo quando mi ero dimenticata di averli addosso.
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Per questa serata, invece, ho messo un
lungo vestito di seta blu e mi sono buttata
sulle spalle l’armuscinu di Leonardo. Non
vedo l’ora di immergermi con lui in quest’atmosfera carnevalesca così inebriante e carica
di promesse. Si dice che alle feste che si tengono in alcuni palazzi privati durante il
Carnevale di Venezia succeda di tutto. Io non
ci sono mai stata e, se da un lato ho un po’ di
timore, il fatto di essere con lui mi fa sentire
sicura.
Saluto l’affresco e salgo in camera da
Leonardo. Sta finendo di prepararsi e rimango a guardarlo appoggiata allo stipite della
porta. Si è messo uno smoking nero lucido,
elegantissimo, e sopra un mantello di seta
verde scuro, molto simile al mio. Questa
mise dà un tocco particolare alla sua bellezza
tenebrosa.
Mi viene incontro e mi saluta con un bacio.
«Sei perfetta» mi dice ammirandomi, «ma
manca ancora qualcosa.» Quindi estrae
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dall’armadio una meravigliosa maschera stile
Colombina e me l’appoggia sul viso.
«È stupenda» commento, specchiandomi.
Copre gli occhi e buona parte delle guance,
lasciando fuori soltanto la bocca.
«L’ho presa da Nicolao. Apposta per te.»
Non oso pensare quanto valga. È
un’autentica
maschera
veneziana
in
cartapesta, fatta a mano, rivestita di un
prezioso velluto bianco decorato con ricami e
arabeschi. Su un lato, all’altezza della tempia
sinistra, sono attaccate una rosa di seta bianca e una morbida piuma argentata.
Leonardo me la allaccia dietro la nuca e indossa a sua volta una maschera. La sua è
tutta bianca e senza ornamenti, stile Baùta
settecentesca. Gli copre tutto il volto e si allarga in direzione della bocca.
Adesso non siamo più noi e dietro le
nostre nuove facce siamo pronti per uscire
nel mondo.
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La serata è grigia e umida, ed è probabile
che piova, ma non ci serve il sole. Dentro di
me regna una tenace allegria e non m’importa neanche se mi s’increspano i capelli.
Gettandoci nella folla attraversiamo la città
in festa, perdendoci in un tripudio di musiche, colori, piume, veli, sonagli e
schiamazzi. Gli studenti dell’Accademia di
Belle Arti improvvisano postazioni mobili di
trucco artistico e si divertono a trasformare i
visi della gente con pennellate variopinte e
cascate di polveri iridescenti. Ovunque è caos
ed euforia esplosiva.
Io e Leonardo facciamo una sosta a un
chiosco per una frittella alla zucca. Le frittelle veneziane hanno un sapore divino, quel
dolce che non stanca mai e dalla bocca
scivola dritto al cuore. Camminiamo senza
meta, lasciandoci trasportare dalla corrente
gioiosa o semplicemente seguendo l’ispirazione del momento.
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Arrivati in Piazza San Marco, ci imbattiamo nella sfilata delle Marie. Come ogni
anno, nelle settimane che precedono il
Carnevale, in città si è tenuta una sorta di
selezione tra le bellezze locali per scegliere le
dodici Marie che esibiranno poi le proprie
grazie nel corteo del Martedì Grasso. Tra
poche ore ci sarà la proclamazione ufficiale
della vincitrice, la “Maria dell’anno”, alla
quale verrà assegnato un lauto premio in
denaro. C’è un’acerrima lotta tra le veneziane
per accaparrarsi un posto nella selezione.
Fino all’anno scorso anche Gaia gareggiava:
grazie alle sue nutritissime conoscenze, ha
sempre trovato un modo per rientrare nella
rosa delle dodici finaliste, ma non ha mai
vinto, forse perché il presidente di giuria
preferisce le more. Uno smacco terribile,
anche quando ha dovuto smettere perché
aveva superato il limite di età. Fortunatamente la mia goffaggine mal si concilia anche
solo con l’idea di un concorso di bellezza e il
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mio carattere insicuro mi tiene alla larga da
ogni forma di competizione.
Costeggiando il ponte dei Sospiri, imbocchiamo una calle nascosta e in pochi passi
siamo davanti all’ingresso di palazzo
Soranzo.
«La festa è qui?» domando, sistemandomi
la maschera sugli occhi.
«Sì» risponde Leonardo, con un sorriso
satanico.
Un maggiordomo un po’ sui generis,
vestito da Medico della Peste, la maschera
con un lungo naso simile al becco di una
cicogna, ci apre il portone e ci invita dentro,
cospargendoci di coriandoli di carta argentata. Sembra di entrare in un’altra dimensione, perfino i coriandoli sono diversi
da quelli là fuori.
Attraversiamo il giardino passando sotto il
pergolato. L’edera a foglie larghe si è
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impadronita del muro, colorandosi di sfumature gialle e rosse. Qualche maschera
staziona ai bordi del cortile, altre giocano a
nascondersi tra le statue tappezzate di muschio, ridono e si rincorrono intorno alla
fontana con i putti. Tutto è magia, incanto,
seduzione.
Da qui entriamo nel palazzo e siamo subito
avvolti in un’atmosfera di folle lussuria. Che
tra queste mura, però, pare la condizione più
naturale del mondo. C’è una bolgia di gente e
un frastuono di voci e suoni. Quasi tutti indossano la maschera e sembrano su di giri.
Uomini che baciano uomini mascherati da
donne, ragazze che espongono seno e natiche
senza pudore, persone che ballano sui tavoli
e sui divani di velluto, amanti che si appartano in angoli oscuri, bocche che si scolano
bottiglie di vino, lingue che si cercano, mani
che esplorano. È Carnevale: non esistono
freni, non esistono limiti e l’unica cosa lecita
è trasgredire. Chissà se io sarò all’altezza! Mi
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sembra quasi di essere un’intrusa, anche se –
lo ammetto – questo clima di totale disinibizione mi ha un po’ sedotta.
Incantati, superiamo alcune stanze, finché
arriviamo nel salone centrale. Un soppalco
illuminato da luci psichedeliche ospita la
consolle del dj. Lo riconosco. È Tommaso Vianello, in arte Tommy Vee. Facevamo la
strada insieme quando andavo al liceo – io
ero al primo anno, lui al quarto – e mi piaceva da morire, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Lo saluto con un cenno
della mano, lui ricambia strizzandomi l’occhio, ma dubito mi abbia riconosciuta sotto
la maschera, adesso che ci penso. Ora sta girando il suo pezzo forte, il Rondò Veneziano
in versione remix. È musica per Gaia, ma
nemmeno a me dispiace, è irresistibile, ha un
ritmo che t’insegue e non ti lascia stare
fermo. La gente si agita, i movimenti sono
sempre più convulsi.
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Al centro della sala un gruppetto di
ragazze in abiti succinti si scatena in una
danza sensuale, catturando l’attenzione degli
ospiti. Attorno a loro si crea presto un cerchio e tutti diventiamo spettatori del loro numero improvvisato. Leonardo mi cinge la
vita da dietro e, levandosi la maschera, appoggia il viso al mio, facendomi muovere tra
le sue braccia a ritmo di musica. Non riesco a
togliere gli occhi di dosso alle ragazze, sono
affascinata: forse la loro è una vera e propria
coreografia. Una in particolare spicca sulle
altre, non posso fare a meno di notarla. È un
incantevole ibrido tra un angelo e un’ancella,
una moderna Salomè dal corpo sfacciatamente perfetto. Indossa un vestito cortissimo
e semitrasparente di veli bianchi, i capelli
biondi raccolti sulla nuca, tra le ciocche una
catenina di strass che si chiude con una goccia sulla fronte. Volteggia leggera, alzando
con eleganza i piedi sulle punte. Tutto in lei è
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morbido e libero, ogni movimento incanta e
conquista.
A un tratto si leva la maschera, esibendo
due occhi verdi da capogiro, esaltati dal
trucco vistoso. Gli sguardi di tutti sono puntati su di lei e la rincorrono. Le altre ragazze si
dispongono a semicerchio, lasciandole il
centro della scena. Salomè è fiera, si fa guidare dal suo corpo senza paura, insegue la
musica sfidandola. Quando passa davanti a
noi, incrocia il mio sguardo e strizza l’occhio
a Leonardo. Mi volto e vedo che lui le sta sorridendo. Non sono gelosa. È così bella che
anche a me viene voglia di sorriderle.
«La conosci?» gli domando.
«Si chiama Claudia» dice in tono neutro,
privo di malizia. «L’ho vista al ristorante
qualche volta.»
Vorrei indagare meglio sui loro trascorsi,
ma Leonardo non mi lascia il tempo di parlare e richiama la mia attenzione su di lei.
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Claudia adesso ha raggiunto il Moro all’angolo del salone e, come se fosse un uomo in
carne e ossa, ha iniziato a sedurlo con virtuosi movimenti di bacino. Poi si aggrappa al
collo della statua e, dandosi lo slancio sulle
punte, si siede elegantemente sulla sua
spalla, come una regina sul trono. La musica
si ferma e dal pubblico si leva un forte applauso seguito da un gran vociare. Salomè
scende dalle spalle del Moro, fa due piroette
e regala un inchino agli astanti, mentre un
Arlecchino le sfiora il viso con una rosa
rossa. Superba, afferra il gambo tra i denti e
si allontana sorridendo.
Mio dio, quella donna ha un fascino irresistibile, anche su di me. Non oso immaginare
i pensieri degli uomini. Sono come rapita,
non riesco a staccarle gli occhi di dosso… e
lei, ora, si muove leggera proprio verso di
noi, sorridendo a Leonardo.
«Benvenuto, Leo» gli dice con un sorriso
ammaliante, sfiorandogli una guancia con le
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labbra. Ha ancora il respiro un po’ affannato
e piccole gocce di sudore le luccicano sulla
pelle. Poi si volta verso di me. «Benvenuta
anche tu… chi sei?» Si è accorta che esisto, la
dea.
«Piacere, Elena» le rispondo stringendole
la mano.
«Spero la serata sia di vostro gradimento…» Mi sta studiando. Ha una strana
luce negli occhi.
«Certo» faccio io, un po’ disorientata.
«Vederti danzare, prima… eri splendida…
cioè, sei splendida.»
«Grazie.» È abituata ai complimenti, lei.
Mi solleva la maschera e mi osserva incuriosita. «Quando è una donna come te a dirlo, fa
ancora più piacere.» E le sue parole creano
in me uno strano rimescolamento che non so
decifrare.
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«Abbiamo gli stessi gusti, Leo. E non solo
sul cibo» continua, con uno sguardo
ammiccante.
Non credo di aver afferrato bene il concetto, ma vedo Leonardo sorriderle. Lui sembra aver capito tutto, invece. «Elena e io abbiamo qualcosa da fumare. Ti puoi unire a
noi se ti va.»
Elena e io? Fumare? Non ne sapevo
proprio niente e gli rivolgo un’occhiata
stupita che però lui ignora.
«Adesso devo ancora fare una cosa»
risponde Claudia, che sembra tentata, «ma vi
cerco dopo. Non sparite…» E, regalandoci un
ultimo malizioso sorriso, si rituffa nella folla.
Guardo Leonardo, in cerca di spiegazioni.
«È una delle tue amanti?» gli domando a
bruciapelo. Solleva un sopracciglio, lo
sguardo divertito.
«No, almeno fino a stasera…»
«Che intenzioni hai?» mi allarmo.
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«Soddisfare le tue fantasie, come sempre»
risponde, l’aria docile di una tigre in gabbia.
«Ho visto come la guardavi, prima.»
«E come la guardavo?»
«Come guardi me.»
Divento paonazza. «Perché è bellissima,
no? Ma immagino l’avrai notato anche tu, o
sbaglio?» dico, come a giustificarmi.
«Hai mai baciato una donna?» I suoi occhi
sono aghi sottili che m’infilzano.
«Veramente, no.»
«E non hai mai avuto voglia?» Mi sta
sfidando.
«No…»
«… Almeno fino a stasera» conclude la mia
risposta.
«Adesso basta» gli dico puntandogli un
dito contro, «smettila subito.»
Lui ride forte, incurante delle mie minacce, mi afferra la mano e mi porta verso il
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bar, dove ordina due coppe di champagne. Io
bevo rimuginando su quella donna che, devo
ammetterlo, mi ha provocato un certo scombussolamento. Poi guardo Leonardo e mi
domando se abbia davvero intenzione di
spingermi tra le sue braccia. No, non gli lascerei mai fare una cosa del genere, mi dico.
Eppure quest’euforia intorno è contagiosa, ti
lascia pensare che almeno per stanotte tutto
possa succedere.
Leonardo e io vaghiamo per un po’ nei meandri del palazzo, poi ci addentriamo in un
salottino semibuio. Alcune persone chiaramente alticce si stanno accalorando per qualche argomento che non riesco a intuire. Le
loro voci si rincorrono con la musica che pervade tutto e non si accorgono di noi, che ci
sediamo sul divano alle loro spalle. Ci
togliamo le maschere, dalla tasca di
Leonardo spunta una canna già pronta, che
lui accende. Una spirale di fumo dall’odore
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un po’ aspro mi solletica le narici. Sa di fieno
bruciato. Leonardo dà un tiro e poi me la
passa. Io lo guardo incerta, non ho mai fumato neanche una sigaretta, figuriamoci una
canna…
«Avanti» m’incoraggia. «Un tiro piccolo,
poi prendi aria nei polmoni e soffi fuori.»
Ok, ci provo. Ovviamente il primo tentativo è un disastro: il fumo m’inciampa in gola
e mi arriva ai polmoni come una coltellata.
Tossisco fino a farmi uscire gli occhi sotto lo
sguardo divertito di Leonardo. Riprovo, e il
secondo tentativo va già meglio. Al terzo
sono ormai una professionista. Chiudo gli
occhi e infilo la canna tra le labbra, aspirando piano. Trattengo il fumo per due
secondi, assaporandone il gusto proibito, poi
lo lascio andare, e una nuvola densa svapora
davanti al mio viso. Quest’odore mi piace, la
testa mi gira e i muscoli si arrendono. Mi assesto meglio sullo schienale e mi abbandono
a una dolce sensazione di torpore. Poi passo
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la canna a Leonardo. Incastrandola tra medio e anulare, chiude le mani a pugno e aspira forte. Improvvisamente il mondo intorno a me è distante, mi sento la testa leggera e credo che un sorrisetto di beatitudine
si sia stampato sulle mie labbra. Perdo il
contatto con la realtà. E mi piace. A un tratto
mi volto e Claudia è accanto a me.
«Ciao» le dico un po’ sorpresa.
«Ciao» risponde morbida, prendendo la
canna che Leonardo le sta passando sotto il
mio naso. Osservo le labbra di Claudia posarsi intorno al filtro e poi aprirsi un po’ per far
uscire una sottile scia di fumo. Sono carnose,
vorrei sfiorarle.
«A giudicare dall’effetto che ha su di te
dev’essere buona quest’erba.» Mi sposta una
ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Be’, è la prima volta che fumo… non saprei, però mi piace parecchio» le rispondo,
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mentre sento ogni resistenza e ogni imbarazzo scivolarmi via dal corpo.
Claudia guarda Leonardo divertita. «È
carina la tua amica.» Poi ci fissa entrambi.
«Siete così belli tutti e due che davvero non
saprei chi scegliere.»
«Ma tu non devi scegliere…» le risponde
lui, semplicemente. Prima che il senso di
questa risposta diventi chiaro anche per me,
sento delle labbra posarsi sul mio collo. E
non sono di Leonardo. Però sono altrettanto
morbide e sensuali e nemmeno per un
istante ho l’istinto di staccarmi. Sento che sta
per accadere qualcosa, sto per essere travolta
da un’onda e non ho alcuna intenzione di
fermarla. Mi volto verso Claudia e incrocio il
suo sguardo languido. Aspira una boccata di
fumo e poi me lo soffia in bocca, posando le
labbra sulle mie. Il fumo arriva fino in fondo,
disperdendosi da qualche parte dentro di
me. Quello che resta è la sua bocca piccola e
carnosa e la sua lingua che si muove contro
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la mia. È buono questo bacio, mi dà
sensazioni diverse da ogni altro, e mentre
Leonardo mi abbraccia da dietro sento che
anche questo è un suo regalo. Ed è naturale,
come tutto quello che ho fatto con lui, ma
che non avevo mai nemmeno sognato di fare.
Claudia si stacca da me e adesso cerca
Leonardo. Si scambiano un bacio vorace
proprio sotto i miei occhi, ma non so perché
la cosa non mi rende gelosa. Sono sedotta
dalla loro eccitazione e tutto quello che aveva
un senso prima – parole, pensieri, princìpi –
sembra non averne più, ora.
«Che ne dite di andare in un posto più
tranquillo?» propone lei a un tratto. Senza
aspettare la risposta si alza dal divano e
prende la mia mano. Io cerco subito lo
sguardo di Leonardo e lui mi prende l’altra.
Ci sorridiamo, perfettamente complici, e
seguiamo Claudia. Sono padrona di me
stessa, ora: so cosa sta per accadere.
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Saliamo al piano superiore e ci ritroviamo
in un corridoio lungo, illuminato da poca
luce, su cui si affacciano diverse porte.
Claudia sa bene dove andare e ne apre una
lasciandoci entrare.
La stanza è avvolta dalla penombra, i contorni delle cose si confondono come le
emozioni che ora si agitano dentro di me. Al
centro c’è un letto a baldacchino e, in un angolo, un grande cero nero a forma di piramide sta bruciando su un candelabro, diffondendo nell’aria un aroma d’incenso.
Claudia si volta verso di noi. È stupenda,
sembra una di quelle statue di marmo della
Grecia classica. Sfiorandomi appena il collo
mi avvicina a Leonardo e c’invita a baciarci.
Intanto mi accarezza una spalla scendendo
lenta fino al mio seno. La sua mano è leggera
sulla mia pelle. È diversa, calda, delicata. Mi
stacco da Leonardo e la guardo. I suoi occhi
verdi mi rapiscono, mi attraggono come
magneti. Una fiamma si è accesa
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inaspettatamente e sta sciogliendo tutti i
miei freni inibitori. La mia bocca, senza che
possa controllarla, si posa timida su quella di
Claudia. Le nostre labbra si mescolano,
umide, le nostre lingue s’intrecciano, mentre
le mani forti di Leonardo scorrono sui nostri
corpi roventi, abbracciandoli.
Sto baciando una donna.
Una sconosciuta.
E il mio uomo la sta toccando, qui, insieme
a me.
Non c’è più traccia della Elena di un
tempo, non ora.
A un tratto Claudia si stacca. Tenendomi la
mano, bacia Leonardo, poi torna da me. Le
loro salive si confondono nella mia bocca assetata di desiderio. Leonardo intanto le sta
accarezzando i seni e con le mani già slaccia i
bottoni che le chiudono il vestito sul davanti.
Il corpo di Claudia è liscio, sottile, prezioso:
si scopre lentamente, concedendosi ai nostri
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sguardi. Lui spoglia lei e un attimo dopo lei
spoglia me. Poi Claudia e io spogliamo lui.
Adesso siamo completamente nudi tutti e
tre. La visione di questi due corpi così diversi, così vicini a me, così vivi, mi provoca una
fitta di eccitazione. Dal salone di sotto le
grida e la musica ci arrivano attutiti, gli unici
rumori sono i nostri respiri. Ci distendiamo
sul letto, scostandone i drappi damascati, tre
amanti, tre desideri che s’incontrano. Solo
per godere.
Claudia mi viene incontro e m’invita a osare: mi sta chiedendo con il linguaggio del
corpo di abbandonarmi, di essere sua. Le sue
gambe, calde e dominanti, si schiudono davanti a me, la sua carne è contro la mia. È
bagnata. Mi lecca i seni, strofinando il suo
sesso contro il mio, mentre Leonardo si distende accanto a me e mi bacia. Poi ci scambiamo le posizioni e adesso sono io sopra di
lei, che non resisto alla voglia di assaporare il
suo seno. Intanto le mani di Leonardo si
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fanno spazio ed entrano morbide in me. Il
suo sguardo a metà tra il severo e il malizioso
domanda se sarò in grado di godere. Se saprò
giocare. Adesso le sue dita lasciano il posto a
quelle di Claudia, che accarezzano esperte e
quasi conosciute, mentre lui mi afferra una
mano e la porta tra le gambe di lei. È una fessura calda e scivolosa, invitante. Esitando,
infilo le mie dita nel suo sesso bagnato e lo
esploro. I miei muscoli si sciolgono, la mia
mente si libera e finalmente la possiedo e mi
lascio possedere.
È la mia prima volta. È la mia notte. Ma è
Leonardo a guidare i nostri gesti, a dosare il
nostro piacere. Prima che possiamo arrivare
all’apice, ansanti e sudate, ci separa baciandoci a turno i seni. Poi spinge Claudia a baciare il mio, mentre lui la penetra da dietro.
Sento le labbra di lei stringersi intorno al
mio capezzolo sempre più forte, mano a
mano che il piacere aumenta. Viene su di me,
affondando la faccia tra i miei seni e io la
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stringo forte, godendo del suo orgasmo,
mentre i miei occhi incontrano quelli di
Leonardo, lascivi e dominanti.
Claudia si solleva dal mio petto, ancora più
bella con le guance rosse e gli occhi brillanti,
e si lascia cadere sul letto, appagata, cercando ancora le nostre mani.
«Adesso tocca a voi» dice, guardandoci entrambi. Mi posa dolcemente due cuscini
sotto la testa, poi mi lega alla testiera in ferro
battuto, stracciando due lembi del suo
vestito. Leonardo la lascia fare, compiaciuto.
Arriva delicata, mi seduce, mi vuole. Quel
suo modo di osservarmi mi fa sentire una
dea, mentre scivola silenziosa con la testa tra
le mie gambe. E il mio ventre si prepara a un
lacerante, catastrofico piacere. Non c’è più
nessuna Elena, ci sono solo i miei sensi, la
sua lingua, le sue mani e quelle di Leonardo.
Sono un corpo in ricezione, sono pelle che
parla e ascolta.
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È a questo punto che invito con gli occhi
Leonardo a farsi leccare a sua volta, il sesso
lucido e gonfio di piacere. Ora lui è su di me,
dentro la mia bocca.
Claudia rimane ancora qualche istante con
la lingua dentro di me, poi lascia che sia
Leonardo a riempirmi, il suo sesso in tensione, la sua spinta conosciuta. I nostri corpi
affamati si mischiano, si cercano e si possiedono, incitati dallo sguardo lussurioso di
Claudia. È lei adesso a baciarmi e a far scorrere le mani sul mio petto, fino al mio sesso,
dove Leonardo spinge ancora. Ci accarezza
entrambi, godendo di noi e per noi, e il suo
piacere amplifica a dismisura il nostro.
L’orgasmo viene subito e straripa come un
fiume in piena, schizza fuori dai miei occhi,
colora le mie labbra, incendia la mia gola. È
nuovo ossigeno per i miei polmoni, nuova
linfa per le mie vene, nuova emozione. E
Leonardo è con me, anche lui estasiato,
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anche lui arreso al groviglio di corpi che adesso siamo.
Ci distendiamo sul letto e ci abbracciamo
ancora, complici, esausti.
Quando usciamo da quel palazzo sono disorientata, mi sembra di aver perso i punti di
riferimento e ci metto un po’ a riconoscere il
mondo all’esterno. Salutiamo Claudia, la
nostra compagna di viaggio per una notte, e
non c’è imbarazzo, solo una piacevole
sensazione di quiete dopo la tempesta. Io e
Leonardo ci incamminiamo verso casa. L’alba non è lontana. La sua luce debole inizia a
rischiarare appena il cielo sopra di noi. La
notte, invece, continua ad avvolgere la terra.
Ci addentriamo a passi lenti in uno scenario postbellico, le strade sono invase dai
residui della festa: montagne di rifiuti, bottiglie, cartacce e corpi malfermi. Il mondo è
stato capovolto stanotte e adesso fatica a rimettersi in piedi. Nello stesso momento ci
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voltiamo, ci guardiamo e ci ritroviamo l’uno
nell’altra. Non abbiamo più le maschere, le
abbiamo dimenticate là. Sorrido. Alla vita,
alla notte che sta morendo, alla follia che sta
svanendo, a tutte le maschere di cui mi sono
spogliata, al corpo di donna che ho assaporato. Sorrido a Leonardo, grata. Senza di lui
questo non sarebbe mai successo.
16
Alle nove e mezza di mattina Piazzale
Roma è una babele di gente, macchine, autobus e motorini in partenza o in arrivo: la linea di confine tra la Venezia dei canali e la
provincia dalle strade asfaltate. Sono qui
perché Leonardo ha deciso di portarmi sulle
colline trevigiane e dovrebbe passare a prendermi con un’auto a noleggio. Non so bene
dove andremo, so soltanto che deve incontrare un produttore di vini. «Un impegno di
lavoro, ma mi farebbe piacere se mi accompagnassi» mi ha detto una notte mentre
eravamo a letto. Ovviamente la cosa mi ha
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resa entusiasta, ma ho tentato per quanto
potevo di non darglielo a vedere. Da quando
ci conosciamo, non siamo mai andati fuori
città e non abbiamo mai passato un’intera
giornata insieme.
Sono da qualche minuto nell’area di sosta
e continuo a guardarmi intorno per tentare
di capire da dove sbucherà, ma c’è una tale
confusione che non riesco a vedere oltre un
raggio di due metri. A un tratto un veloce
colpo di clacson mi fa voltare. Eccolo. È lui, a
bordo di una BMW X6 bianca, tirata a lucido. Accosta, azionando le quattro frecce.
Senza scendere dalla macchina, si allunga
per aprirmi la portiera dall’interno e mi fa
salire.
«Sei pronta?» Mi scocca un morbido bacio
sulla bocca e ingrana la prima.
«Sì.» Aggancio la cintura, appoggiandomi
al sedile di pelle.
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Leonardo inforca i Ray-Ban neri e spinge
l’acceleratore al massimo imboccando il
Ponte della Libertà, che collega Venezia alla
terraferma. Il sole pallido di febbraio luccica
sulla Laguna e alcuni stormi di gabbiani
punteggiano il cielo di bianco.
Noto che il contachilometri sta già sfiorando i cento. «Guarda che poi ti arriva la
multa…» Lo dico solo per indurlo ad andare
più piano, in realtà: la velocità mi ha sempre
creato un po’ d’ansia.
Leonardo si mette a ridere e mi accarezza
la coscia per tranquillizzarmi. Poi scorre le
dita sul cruscotto e accende la radio. «Mettiamo un po’ di musica, così ti rilassi.» È disinvolto e sicuro di sé alla guida. Come in
tutto il resto.
Parte Starlight dei Muse. Per un po’ rimaniamo in silenzio ad ascoltare il brano. Poi,
al ritornello, Leonardo comincia a muovere
la testa a ritmo e ci canticchia sopra
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tamburellando con le dita sul volante come
se fosse una batteria.
«Sei intonato…» commento, ironica.
Mi spia con la coda dell’occhio. «Mi stai
prendendo in giro?»
«Sì.»
«Guarda che ti lascio alla prima piazzola di
sosta, ti abbandono come un cagnolino…»
mi minaccia mentre s’immette sull’autostrada per Treviso, e mi scompiglia i capelli.
«Dove stiamo andando, di preciso?»
chiedo ripettinandomi con le mani.
«A Valdobbiadene, nella terra del Prosecco. I Zanin sono importanti fornitori del
ristorante e hanno una cantina favolosa.» Si
sposta con un dito un ciuffo ribelle che gli
stava coprendo la vista.
I Zanin. Ricordo questo cognome. C’erano
anche loro la sera dell’inaugurazione,
quando Leonardo era poco più che una
fantasia nella mia mente. Da allora è
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accaduto l’inverosimile e quasi non mi sembra vero di essere qui, ora, in auto insieme a
lui.
«Devi fare acquisti per il ristorante?»
domando guardando il paesaggio scorrere
dal finestrino.
«Sì. Vorremmo proporre ai nostri ospiti
qualcosa di speciale, un Cartizze di qualità
superiore.»
«Pensavo che di questo si occupassero i
tuoi collaboratori» commento, ripensando a
una sua frase di qualche mese fa.
«Oggi no. Me ne occupo io» risponde con
voce sicura. «Avevo voglia di fare un giro
fuori città con te.»
Non ci sono prove da superare, non ci
sono sfide, oggi. Solo io e lui, e una giornata
intera da trascorrere insieme. È una
promessa di normalità in una relazione
tutt’altro che normale, un’eccezione alla nostra routine fatta di amplessi e incontri fugaci,
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e la cosa mi riempie di gioia. Leonardo mi sta
regalando l’illusione di essere una coppia
vera.
Imposta l’indirizzo preciso sul navigatore.
«Tra un quarto d’ora dovremmo esserci.»
Lo guardo e mi sento completamente
persa. Non ho ansie, né desideri, né aspettative. Questo momento mi sembra perfetto.
«Leo?»
«Sì…» Rotea il viso verso di me, sorpreso.
È la prima volta che lo chiamo così.
«Sono felice.» Vorrei dire molto di più, ma
non ne ho il coraggio.
Mi guarda un po’ incerto, l’ho colto di sorpresa. «Sono felice che tu sia felice» dice con
un sorriso lieve, e sorridono anche le
rughette di espressione ai lati dei suoi splendidi occhi scuri. Poi torna subito a concentrarsi sulla guida. Basta, non devo andare
oltre, l’ho capito.
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La visita dai Zanin è piacevole e ci prende
tutta la mattinata. Il proprietario, un uomo
sulla sessantina composto ed elegante come
un lord inglese, ci fa visitare la tenuta con le
vigne e i frutteti. Quindi, spiegandoci i metodi di lavorazione delle uve, c’introduce in
cantina. Mentre lui e Leonardo disquisiscono
di tartrati, presa di spuma, lieviti e perlage –
discorsi di cui intuisco solo lontanamente il
senso – io passeggio lungo le file di botti, che
mi sembrano enormi ventri in fermentazione. Infine Zanin ci mostra orgoglioso i muri di bottiglie in cui il Prosecco
riposa prima di essere consumato e ci concede una degustazione di vini pregiati accompagnata da qualche assaggio di pane e
salumi locali.
Più tardi, mentre io socializzo con i cani di
casa, un pointer femmina e i suoi due cuccioli, Leonardo conclude la sua trattativa. Poi
salutiamo Zanin e andiamo via.
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Ci rimettiamo in macchina e percorriamo
di nuovo quella magnifica strada panoramica
attraverso le colline. Nonostante sia ancora
febbraio, la temperatura del primo pomeriggio è mite e invita a stare all’aria aperta.
«Che ne dici di fare quattro passi?» mi
domanda Leonardo. Speravo che me lo
chiedesse.
Lasciamo la macchina su un piccolo
spiazzo e procediamo a piedi, imboccando
una stradina di sassi fiancheggiata da filari di
viti. Abitare a Venezia ti fa dimenticare che
esiste una terra ferma, solida, spaziosa, e che
ci sono vere strade su cui camminare oltre ai
ponti sui canali. Il profilo della collina è
dolce, scende morbido verso valle incontrando una fila d’immensi cipressi. È un
paesaggio incantevole, riempie il cuore di
pace e pensieri distesi. Io e Leonardo lo attraversiamo in silenzio, mano nella mano.
Respiriamo a pieni polmoni, inalando odore
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di erba e terra umida. All’improvviso un
tocco gelido mi centra una guancia.
«Sta piovendo.» Alzo lo sguardo verso il
cielo, che all’orizzonte si è fatto nero. «Ho
sentito una goccia…»
Leonardo solleva una mano con il palmo
rivolto all’insù.
«Eccone un’altra.» Mi tocco la testa per essere sicura di non sognare. «Possibile che le
senta solo io?»
«Adesso l’ho sentita anch’io» dice lui, chiudendo la mano su una goccia d’acqua.
Nel giro di pochi minuti il cielo si rannuvola completamente e comincia a piovere a
dirotto. Sembra un anticipo di primavera,
uno di quegli acquazzoni che ti sorprendono
a marzo.
«Che facciamo, adesso?» chiedo, delusa.
Mi dispiace che la nostra passeggiata finisca
così. Mi dispiace perché so che è un’occasione rara, forse addirittura unica…
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Leonardo mi copre la testa con il suo giubbotto di pelle. «Siamo troppo distanti per
tornare alla macchina.» Si guarda intorno
per cercare una soluzione. «Vieni. Facciamo
una corsa fino a lì» mi dice indicando una
costruzione in lontananza, un casale rosso,
isolato dal resto del mondo, in mezzo alla
valle. Tenendoci per mano corriamo per un
centinaio di metri sotto la pioggia battente.
Acqua ovunque, sembra che ci stiamo
muovendo in un mondo liquido. Non ci voleva, ma questo temporale inatteso ha tutto il
sapore di un’avventura.
Raggiungiamo il porticato esterno del casale e ci mettiamo al riparo. Ho il fiatone e
sono fradicia. La camicia di Leonardo aderisce trasparente ai suoi pettorali, tutta inzuppata d’acqua, i capelli e la barba rossiccia
gocciolano. Lo guardo e vorrei ridere, ma un
freddo improvviso mi arpiona la schiena
scuotendomi tutta e facendomi stringere le
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braccia al petto. Leonardo mi abbraccia e mi
scalda con il suo corpo.
«Questo posto sembra abitato» osserva,
notando luce in casa. «Proviamo a suonare?»
«Non so… dici che è il caso?»
Intanto un signore anziano, alto e magro, è
sbucato da una sorta di fienile accanto al
caseggiato e viene correndo verso di noi reggendo un cesto ricolmo di radicchio rosso.
Dev’essere il padrone di casa. Prima che
possa allarmarsi, Leonardo lo saluta con un
cenno della mano.
«Salve. Deve scusarci, ma abbiamo approfittato del suo portico per ripararci…»
«Ma cosa fate lì sotto? Venite dentro, per
favore» ribatte immediatamente l’uomo con
un tono che non ammette repliche e noi,
dopo un rapido sguardo d’intesa, lo assecondiamo. «Entrate al caldo, altrimenti vi
prendete un accidenti» ci invita, aprendoci la
porta del casale.
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All’interno l’ambiente è grazioso e accogliente, arredato con mobili dallo stile povero
ed essenziale, che sembrano venire da un altro tempo. Si respira un odore buono, di essenze aromatiche e legno, tipico delle case di
campagna, e ci sono piante ornamentali e
fiori freschi in più angoli.
Il nostro ospite senza nome ci conduce in
cucina, dove una donna sulla settantina è impegnata ai fornelli.
«Adele, abbiamo ospiti» dice ad alta voce
posando il cesto sul tavolo. La donna si volta
e ci accoglie con uno sguardo curioso.
«Buonasera.»
«Si sono presi una lavata tremenda e si
erano riparati sotto al portico, poveretti»
continua lui, indicando i nostri vestiti
grondanti.
Adele ci fa accomodare davanti al grande
caminetto, dove arde un fuoco vivo. «Venite,
sedetevi qui, al caldo.» La sua voce è
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delicata, come le mani chiare e rugose. Mani
che hanno lavorato una vita.
«Grazie» rispondiamo all’unisono.
Sono colpita da tanta gentilezza. Non so se
io accetterei così facilmente in casa un
passante. Ma soprattutto sono rapita dall’atmosfera serena e rassicurante che si respira
qui.
«Vado a vedere se trovo qualche vestito asciutto di sopra» dice Adele, e a passi lenti si
dirige verso la scala.
«Non si preoccupi, signora…» Tento di
fermarla. «Siete stati fin troppo gentili!»
«Sì, Adele, vai» la incita il marito, «non
possono certo restare così bagnati!»
La donna sparisce al piano di sopra e
l’uomo si siede accanto a noi, si scalda le
mani davanti alla fiamma e ci chiede i nostri
nomi.
«Io sono Sebastiano» si presenta poi, «ma
qui tutti mi chiamano Tane.»
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Si fa raccontare da dove veniamo e come
siamo finiti da queste parti. Sembra sinceramente contento di averci qui, ci osserva con
gli occhi sinceri di chi nella vita ha imparato
ad ascoltare.
Poco dopo Adele ritorna con due grucce a
cui sono appesi vestiti puliti, semplici e un
po’ datati. «Tenete, erano dei miei figli. È il
meglio che sono riuscita a trovare» dice, porgendoceli. «Se volete appendere i vostri vicino al fuoco… così si asciugheranno più in
fretta.»
La conosco da neanche mezz’ora, ma avrei
già voglia di abbracciarla.
«Se avete bisogno del bagno, è lì dietro»
spiega, indicando una porta sul corridoio.
«Grazie mille, Adele, facciamo in un attimo» risponde Leonardo e prendendomi per
mano mi conduce fuori dalla stanza.
Ci cambiamo in fretta. Indosso un paio di
jeans che mi stanno larghi e una vecchia
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felpa a righe colorate Benetton, mentre
Leonardo s’infila un maglione di lana e pantaloni di velluto a costine. Mi rivolge uno
sguardo affettuoso e mi stampa un tenero
bacio sulla fronte, assicurandosi che stia
bene. Prima di uscire, ci fermiamo per un
momento davanti allo specchio, uno accanto
all’altra, sorridendo della nostra nuova
versione.
Poi torniamo in cucina e sistemiamo i nostri vestiti su due sedie, davanti al caminetto.
Adele ci offre un bicchiere di vin brulé e una
fetta di torta di mele.
«E lei non ne prende?» domanda
Leonardo a Sebastiano.
Lui scuote la testa. «Ho il diabete. La tiranna, qui, mi tiene a stecchetto.» E con la
mano cerca sua moglie, che gliela imprigiona
tra le sue ridendo. C’è una dolcezza infinita
nel modo in cui si guardano, un amore saldo,
incondizionato, che entrambi sembrano aver
accettato come un destino. Leonardo e io ci
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scambiamo un sorriso fuggevole. Forse stiamo pensando la stessa cosa, che Adele e Sebastiano sono uno spettacolo raro e che suscitano una tenerezza immensa mentre si tengono la mano. Ma non so se anche lui sta
provando invidia per loro, se come me si sta
chiedendo cosa riserverà il futuro a noi due.
«Da quanto tempo siete sposati?»
domando.
«Cinquantadue
anni»
rispondono
all’unisono.
«E lei, invece, quando ha intenzione di
farsi sposare dal suo fidanzato?» mi chiede a
bruciapelo Adele. «Mi perdoni, signorina,
ma ho visto che non ha la fede al dito… non
vorrà mica farselo scappare?» mi rimprovera
bonariamente.
Sto per rispondere che no, che è fuori
strada, che noi in realtà non siamo neanche
una coppia ma, prima che possa organizzare
una riposta, Sebastiano mi precede. «Fatti
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un po’ i fatti tuoi, tesoro, non li imbarazzare… si vede da lontano quanto sono
innamorati.»
Ho un tuffo al cuore. È solo una frase,
detta con estrema ingenuità, ma ha l’effetto
devastante di una bomba. Agli occhi di
questo estraneo è evidente ciò che noi non
abbiamo mai voluto vedere e le sue parole
rendono irrimediabilmente reale quello che
noi abbiamo sempre ritenuto impossibile.
Non oso voltarmi verso Leonardo, ma lo sento alzarsi di scatto e allontanarsi dal camino,
quasi a fuggire. Si avvicina a un mobile su cui
sono esposte alcune fotografie e si mette a
guardarle dandoci le spalle.
«Sono i vostri figli?» chiede, prendendo
una cornice tra le mani e cambiando discorso
con una disinvoltura che ai miei occhi,
questa volta, non riesce bene a simulare.
Adele lo raggiunge per dargli spiegazioni:
«Questo è Marco, il più grande, lavora in
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Germania. E lei è Francesca, che vive a
Padova con suo marito».
«Ormai qui in collina non c’è più nulla per
i giovani» commenta Sebastiano rivolto a
me, con una vena di rassegnazione. Sono
ancora turbata e non mi viene in mente niente da dire per alimentare la conversazione.
Adele intanto continua a parlare dei suoi
figli mostrando altre foto: «Guardi, qui erano
piccoli, andavano ancora alle elementari…».
Sollevo lo sguardo nella sua direzione e inaspettatamente incrocio gli occhi di Leonardo.
Tiene in mano la cornice, ma sta guardando
me. E dentro i suoi occhi vedo qualcosa che
non avevo mai visto prima, un desiderio
folle, un bisogno disperato, una tenerezza infinita. Amore. Per un brevissimo istante ne
sono sicura.
Ma è solo un istante, e presto quello
sguardo mi sfugge andando a rifugiarsi altrove. Dopo, non sono più sicura di niente. E
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il mio cuore sa con certezza che non gli basta
più quello che già ha.
Ormai sono le cinque del pomeriggio e finalmente ha smesso di piovere. I vestiti si
sono asciugati e nonostante i nostri ospiti ci
abbiano invitati a trattenerci ancora, decidiamo di ripartire. Ci rimettiamo gli abiti e
li salutiamo con affetto.
«Mi raccomando, se tornate da queste
parti, venite a trovarci» dice Sebastiano,
stringendoci la mano.
«Chissà…» replica Leonardo. Ma con la
testa è già lontano.
Uscire da quel casale è come tornare da
un’altra epoca, fuori si è fatto buio e il
mondo è diverso da come lo avevamo lasciato. Ombre e freddo sono calati su tutto e
anche su Leonardo. I suoi occhi sono spenti e
il suo volto ha una fissità che mi intimorisce,
adesso. Mi prende per mano e mi riporta alla
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macchina senza dire una sola parola. Ho
paura a chiedere cosa stia pensando, non oso
turbare questo silenzio così pesante.
Per un istante ho la percezione chiara e
netta che stia per succedere qualcosa di
spaventoso. Ma scaccio il pensiero scuotendo
leggermente la testa.
Ci rimettiamo in auto e per tutto il tragitto
Leonardo resta distante, taciturno, come se
stesse rimuginando su qualcosa. Di tanto in
tanto incrocia il mio sguardo e cerca di
rassicurarmi con una carezza, ma anche il
suo tocco è freddo, lo sento sulla pelle. Ho la
strana sensazione che quest’uomo abbia
bisogno di essere salvato da se stesso.
«Insomma, si può sapere che hai? Cos’è
quella faccia appesa?» sbotto mentre stiamo
già camminando verso casa, dopo che abbiamo restituito l’auto a noleggio.
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Lui emette un respiro profondo e si blocca
di colpo, costringendomi a fare altrettanto.
Siamo a due passi da dove vivo, nello stesso
punto in cui ci siamo fermati mesi fa, dopo
che mi aveva portata sulle spalle per colpa –
o per merito? – dell’acqua alta.
«Questa è l’ultima volta che ci vediamo,
Elena.» Me lo dice guardandomi dritto negli
occhi. Ed è un’affermazione semplice, che
non ammette repliche.
Sento il sangue diventare ghiaccio nelle
vene e poi andare in frantumi. «Perché? Non
capisco…» balbetto, confusa.
«Non ha più senso rimandare questo momento. Me ne sono reso conto ormai da un
po’, ma come uno stupido ho sempre voluto
aspettare, illudendomi che… Avevamo un
patto e credo si sia concluso, ora.»
«Cosa?» Sono completamente spiazzata,
un rantolo amaro mi esce dal petto. «Perché
mi parli del patto, adesso?»
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«Perché quello che ci eravamo detti
all’inizio di tutto vale ancora, per me. Ti ho
guidata fino a qui, e adesso il nostro viaggio è
finito.» È irremovibile. Non ho alcuna speranza di fargli cambiare idea.
«Ma allora perché non può restare tutto
com’è?» insisto. «Non possiamo continuare
a vederci come abbiamo sempre fatto?»
Leonardo scuote la testa. «Ci siamo dati
tutto quello che potevamo, Elena, ed è stato
bello. Ma è il momento di lasciarsi, prima
che il piacere si trasformi in abitudine o in
bisogno.» Mentre lo dice una ruga profonda
si disegna sulla sua fronte. Sembra quasi in
lotta con se stesso.
Non può essere vero, non può essere che
dopo una giornata come questa, la più bella
che abbiamo passato insieme, Leonardo decida di lasciarmi. Ma forse è proprio questo il
motivo, forse sono le emozioni vissute oggi
ad averlo spaventato.
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«Cosa c’è? Hai paura che io m’innamori di
te? O magari il contrario?» gli urlo addosso,
rabbiosa. Ho perso il controllo. L’ho detto
più per provocazione che per convinzione,
ma spero di aver colpito in un punto vitale.
Leonardo resta spiazzato, forse non si aspettava tanto coraggio da parte mia.
Si difende dietro un sorriso sarcastico.
«Come posso avere paura di un’idea che non
ho mai nemmeno preso in considerazione?»
Più che le sue parole sono la sua improvvisa freddezza, il suo distacco, a farmi male.
«Elena, tra noi c’è stato sesso, c’è stata
complicità e leggerezza. Ma mai amore…»
«T’invidio, sai?» lo interrompo, caustica.
«Vorrei avere anch’io tutte queste certezze,
vorrei sapere esattamente cosa è amore e
cosa non lo è, proprio come te.» E poi vorrei
restare salda e riuscire a non piangere, ma
devo avere già gli occhi lucidi, perché
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Leonardo non riesce più a guardarmi in
faccia.
«Ti prego, non complicare le cose.» Deglutisce attirandomi a sé. Mi stringe forte come
se potesse proteggermi dal dolore che lui
stesso mi sta infliggendo. Il calore del suo
corpo è di una familiarità struggente, non
posso sopportare l’idea di separarmene.
«Se restassi con te, ti farei ancora più
male. E, credimi, è l’ultima cosa che voglio»
mi sussurra piano. Poi mi allontana da sé e
mi asciuga una lacrima su una guancia.
«All’inizio, quando ti ho conosciuta, ero convinto che fossi una sfida per me, un gioco.
Pensavo che fossi solo una ragazzina da
scandalizzare, da provocare, e invece ho
scoperto molto di più. Ti ho visto trasformarti, sbocciare sotto i miei occhi. Sei una
donna splendida, Elena, sei libera e forte,
non hai bisogno di me.»
«Ma io ti voglio ancora» dico con la consapevolezza lancinante di averlo già perso.
529/564
Leonardo chiude gli occhi per un istante.
Vedo una miriade di emozioni attraversargli
il volto. Quando li riapre, ha lo sguardo assente, perso nel vuoto. «Perdonami, Elena,
devo andarmene» dice quasi con urgenza.
Un bacio sulla fronte e poi quella parola che
non avrei mai voluto sentire: «Addio».
Si scioglie dal nostro abbraccio portandosi
via una parte di me. Resto lì, come amputata,
le braccia dolorosamente vuote, gli occhi che
si riempiono di pianto. Tutto quello che riesco a vedere, tra le lacrime, è la sua schiena
che si allontana. La prima cosa che ho visto
di Leonardo, l’ultima cosa che mi resta di lui.
17
Oggi ho pianto per due ore di fila. Lacrime
piene, dolorose, che non ho nemmeno
provato a combattere. È un’altra giornata di
strazio che va ad aggiungersi a quelle che
l’hanno preceduta. Da quattro giorni sono
barricata in casa, con un nodo insolubile che
mi opprime il petto e mi dà un senso di nausea soffocante. Non faccio altro che pensare a
lui. Ogni tanto mi ricordo di mangiare, ma
riesco a mandare giù solo qualche boccone, il
necessario per non morire di fame. Ho lo
stomaco chiuso, il corpo è debole, la testa un
macigno, il cuore un groviglio di rabbia. Odio
531/564
Leonardo per avermi abbandonata in quel
modo. Odio me stessa per essermi cullata
nell’illusione che potesse finire diversamente. Si può essere più stupidi? Non è
servito a niente ripetermi più e più volte di
non innamorarmi, alla fine sono cascata
nella trappola dei sentimenti. E cos’altro potevo aspettarmi da me? Di essere davvero diventata un’altra, più forte, autonoma, coraggiosa? Non sono riuscita a essere la donna
emancipata che credevo. È stato tutto solo
una splendida illusione. E ora sto male, un
male che toglie le forze e carica l’anima di
tormento.
Non rispondo al telefono. Gaia mi ha cercata diverse volte in questi giorni, ma io non
le ho mai risposto. Non rispondo nemmeno a
mia madre, che a questo punto starà per
chiamare Chi l’ha visto?. Voglio stare sola,
crogiolarmi nella mia solitudine e nella mia
tristezza. In certi momenti sono così affranta
che fatico a muovermi e mi sembra
532/564
un’impresa anche solo trascinarmi dal letto
al divano, in altri sono così arrabbiata che
vorrei rompere tutto quello che mi capita a
tiro. Poco fa ho ridotto in briciole una confezione di biscotti, picchiandola con i pugni.
Poi ho buttato tutto dalla finestra. Non
pensavo che l’abbandono di Leonardo
avrebbe potuto ridurmi così e non oso immaginare quanto tempo mi ci vorrà ancora per
risollevarmi.
Mi guardo intorno. Nel mio appartamento
non c’è mai stato tanto caos: il pavimento
pieno di polvere e briciole, i piatti da lavare, i
vestiti gettati alla rinfusa sul letto sfatto.
Quel letto profuma ancora di lui, di noi. Le
lenzuola conservano un vago profilo dei nostri corpi. Voglio stare di nuovo lì, per sentirmi più vicina a Leonardo.
Mi tolgo le ciabatte di lana e m’infilo sotto
le coperte, ho addosso il pigiama di pile con
gli orsetti polari. E sono le tre del pomeriggio. Striscio fino al fondo del materasso,
533/564
agganciando i piedi al bordo e lascio che i
miei sensi si riempiano di lui. Vedo il suo viso, inalo il suo odore, sento le sue mani e la
sua bocca su di me. È straziante. Non riesco
a farne a meno, ma allo stesso tempo vorrei
che i ricordi sparissero tutti insieme in un
solo istante.
Fuori soffia un vento di scirocco spaventoso. Stride sui vetri delle finestre e s’incunea
tra gli scuri con suoni inquietanti. Un’angoscia violenta mi assale. Riaffiorano le paure di
un tempo, quelle difficili da gestire, la paura
di non essere all’altezza, di non essere abbastanza, di non essere amata.
La paura di restare sola.
Tra le sue braccia era tutto meraviglioso.
Ero felice, ho riso tanto, e ora riesco solo a
piangere.
In un attimo d’irrazionalità mi vengono in
mente quei pensieri che la maggior parte
delle persone non ammette di avere, tipo
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inghiottire una dozzina di pastiglie e buttarle
giù con la vodka, o gettarsi dal dodicesimo
piano di un palazzo. Ma a Venezia ci sono
palazzi così alti? Non mi pare…
Che stupida sono, ma meno male che in
tutta questa sofferenza c’è ancora posto per
un sorriso.
Sarebbe tanto sbagliato inviargli un messaggio per dirgli che mi manca e chiedergli di
tornare?
Sì, è sbagliato, lo so. Ma, in fondo, non ho
più niente da perdere… Afferro l’iPhone sul
comodino e inizio a digitare il suo nome sulla
tastiera, con le dita che tremano e il cuore
che palpita. All’improvviso, prima ancora di
aver composto una riga di sms, il telefono si
blocca e il display diventa tutto nero. Per un
attimo entro nel panico totale, lo spengo e lo
riaccendo, già temendo di aver perso tutti i
dati, e mi calmo solo quando vedo ricomparire lentamente le icone sullo sfondo.
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Questo è un segnale, ne sono certa. L’universo mi sta mandando un messaggio e,
senza troppa originalità, lo fa attraverso il
mio iPhone: non devo più contattare
Leonardo, devo dimenticarlo! È uno stronzo,
un egocentrico, un egoista, un codardo. Mettitelo bene in testa, Elena. Vuoi farti ancora
del male? No, non voglio.
Con immane coraggio cancello il suo numero dalla rubrica. Adesso mi sento uno
schifo, ma questo era l’unico modo per non
cadere di nuovo in tentazione. D’ora in avanti Leonardo uscirà definitivamente dalla
mia esistenza. Ho toccato il fondo, ma io
sono una di quelle che devono farsi male
prima di darsi una svegliata e capire. Ecco a
cosa serve tutto questo dolore, a farmi aprire
gli occhi sulla verità. Leonardo è stato un
errore, un danno, un pericolo che non avrei
dovuto correre, un salto nel vuoto che si è
concluso in uno schianto.
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E ora è veramente arrivato il momento di
dire basta.
Penso a tutte le persone che in questo momento staranno soffrendo per amore, a
Venezia e nel mondo intero, e mi sembra di
essere meno sola. Mi ripeto che me la caverò,
che non sarà difficile come può sembrare.
Non piango più e mi concentro sulla respirazione, come ho imparato a pilates. Inspiro, espiro. Lentamente.
Che cosa farò, adesso?
Mentre formulo una quantità insopportabile di pensieri sconnessi, sento il campanello suonare. È Gaia, non può essere che lei,
la riconosco dal tocco insistente. Non ho nessuna intenzione di alzarmi da questo letto
per andare ad aprire. Non voglio che mi veda
in queste condizioni, non sopporterei le sue
domande.
Me ne sto immobile e zitta. Il campanello
ha smesso di suonare, adesso. Magari Gaia
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pensa che in casa non ci sia nessuno e si è
rassegnata. Ma lei non è proprio il tipo e infatti dopo qualche secondo ricomincia a
suonare, ancora più insistente. Poi un nuovo
silenzio.
«Elena!» Sento la sua voce risuonarmi
nella testa come in una stanza vuota. «Elena,
apri, mi stai facendo preoccupare!»
Mi trascino per inerzia davanti all’ingresso
e resto in silenzio.
«Lo so che ci sei! Se non mi apri, chiamo i
pompieri e la faccio sfondare questa cazzo di
porta!» grida battendo i pugni come volesse
davvero buttarla giù.
Alla fine le apro e la lascio entrare.
Quando mi vede sgrana gli occhi. «Si può
sapere cosa ti succede?» chiede. Senza aspettare risposta mi stritola in un abbraccio e
mi dà un bacio sulla guancia.
Il calore di quell’abbraccio mi spalanca il
cuore. Mi ci sciolgo dentro e mi abbandono.
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Come ho potuto pensare di fare a meno di
lei? Gaia è l’unica persona a cui posso affidare quello che resta di me.
E allora le racconto tutto. Con coraggio,
onestà e senza pudore. Tutta l’amara verità
su Leonardo scivola fuori dalle mie labbra,
goccia dopo goccia la riverso su di lei. Il
primo amplesso al palazzo, il patto diabolico,
le prove, il sesso, la mia resistenza, la mia
perdizione. Lei ascolta in silenzio, seduta di
fronte a me sul divano, facendo più volte no
con la testa, gli occhi grandi incollati ai miei.
Alla fine del racconto Gaia è scioccata e
commossa, una lacrima sta per scenderle
sulla guancia. Ecco, sono riuscita a toglierle
la parola, cosa rara per lei. Non dice niente,
ma mi stringe forte in un abbraccio che vuol
dire tutto e io in quell’abbraccio mi ci immergo come in una piscina calda dove si
tocca sempre e non si affonda mai. Sento addosso la consistenza dell’affetto vero. Nei pochi attimi in cui Gaia mi stringe, guancia
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contro guancia, m’infonde una quiete che
quasi fatico ad accettare. Adesso, davvero,
non sono più sola.
«Perché non me l’hai detto prima?» chiede
incredula, spostandomi dalla fronte una
ciocca di capelli.
«Perché avevo paura che mi giudicassi
male.»
«Io?!» esclama. «Ele, quando mai potrei
giudicarti male?»
Abbasso lo sguardo e poi lo rialzo. «Mi
vergognavo.» Adesso in realtà mi vergogno
di averle mentito, ma i suoi occhi verdi sono
carichi di perdono.
«Ehi…» sussurra, scrollandomi le spalle.
«Lo sai che per te ci sono sempre, qualunque
cosa succeda.»
«Lo so…» Ed è bello sentirselo dire.
«E adesso? Che cosa vuoi fare con
Leonardo?» domanda, con una discrezione
che non le ho mai conosciuto.
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«Dimenticarlo, buttarmi tutto alle spalle.
Soffro come un cane, ma sento anche tanta
rabbia.»
Gaia mi prende le mani tra le sue e questo
m’incoraggia a parlare.
«È che sono più arrabbiata con me stessa.
Sono stata io a innamorarmi come una stupida!» m’infervoro. «Lui mi aveva avvertita
più volte. Pensavo di reggere il gioco, e invece… Mio dio, che nervoso!» Le parole mi si
strozzano in gola.
Gaia scuote la testa. «Se me ne avessi parlato prima, forse ti avrei aiutata. Ti sei tenuta
tutto dentro… e io che non mi sono accorta
di niente!» Rimprovera quasi se stessa, la
mia amica. Che io ho tenuto deliberatamente
all’oscuro di ogni cosa.
«È colpa mia… Ho sbagliato tutto quello
che potevo sbagliare, Leonardo mi ha fatto
mentire alle persone a cui tengo di più. È tremendo, lo so. Mi spiace.»
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«No! Togliti di bocca la parola colpa» dice
con un tono quasi adirato. «Tu non hai nessuna colpa. È finita male, ma non serve a
nulla il rimorso, ora.»
«Oddio, Gaia…» Affondo il mento sul
petto, disperata. Chiudo un istante gli occhi e
quando li riapro lascio sgorgare nuove
lacrime.
«Ehi, basta piangere. Tu non hai sbagliato,
hai solo seguito il tuo cuore.» Gaia si allunga
verso di me e mi tira le guance fino a disegnarmi un sorriso. «Dimmi almeno che un po’
ti sei divertita…» mi provoca poi in tono
complice.
Mi scappa un sorriso vero, mentre mi asciugo le lacrime.
«Ma tu come stai?» le chiedo riemergendo
dalla fossa dei miei pensieri. «Abbiamo parlato solo di me…»
Gaia fa un lungo sospiro. «Ci sono novità.
Ti avevo cercata anche per questo.»
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«Belle o brutte?»
«Non lo so nemmeno io.» Si stringe nelle
spalle.
«Cioè?»
«Ho troncato con Jacopo.» Il suo viso si
rabbuia all’istante.
«No!» Sono sinceramente dispiaciuta. Ci
tenevo alla loro storia. «Cos’è successo?»
«Mi ha chiesto di andare a vivere insieme»
spiega, la voce piana e senza espressione.
«Ma di fronte a un impegno così grande ho
capito che non potevo mentire a lui e
neanche a me stessa.» In lei, di solito così
impulsiva e frivola, sembra affiorare ora
un’equilibrata presa di coscienza.
«C’entra Belotti?» le domando, sicura che
sia così.
«Ele, ho provato a dimenticarmi di lui, ma
non ci sono riuscita.» Gli occhi le brillano
mentre lo dice. «Jacopo è stato perfetto con
me, mi ha riempita di attenzioni e regali,
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però non è bastato. Continuo a pensare a
quello stronzo.»
«Ma vi siete visti?»
«L’ho solo sentito al telefono» risponde,
quasi con rassegnazione. «Si sta allenando
duramente. Questo è un anno importantissimo per lui, deve risollevarsi dalle cadute
dei mesi scorsi.»
«E quindi?»
«E quindi non importa.» Una vena di
tristezza le solca il viso. «Anche se lui è
lontano, anche se probabilmente lo vedrò
solo a stagione finita… lo aspetterò, cos’altro
posso fare?»
Annuisco per offrirle tutta la mia vicinanza
e comprensione.
«Forse ho fatto una cavolata di cui mi
pentirò amaramente» sospira Gaia. «Jacopo
c’è rimasto proprio male. È davvero innamorato, sai?»
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«Lo so. Io facevo il tifo per lui. Ci tenevo
tanto ad avere un’amica contessa…» cerco di
alleggerire. Un sorriso le spunta sulle labbra,
ma sta bene attenta a ricacciarlo da dove
arriva.
«E invece hai solo un’amica stupida.»
«Be’, almeno siamo in due.»
Dopo che Gaia se n’è andata, l’ammasso di
pensieri in cui ero immersa a poco a poco si
scioglie, è come se il macigno che mi pesava
sullo stomaco fosse improvvisamente rotolato fuori dal mio corpo, lasciandomi un
senso di liberazione e leggerezza. Parlare con
lei mi ha fatto bene, averle raccontato tutta la
verità mi ha aiutata a vedere le cose da una
diversa prospettiva, con maggiore distacco.
Sono stata felice, non lo sono più, ma
posso esserlo ancora. Devo relativizzare il
mio dolore, considerare Leonardo come un
episodio della mia vita, bellissimo ma
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irripetibile. Il futuro mi aspetta, basterebbe
solo capire in che direzione andare. Potrei
buttarmi a capofitto nel lavoro, per esempio,
decidermi ad accettare quell’impiego a
Padova, sempre se non sono fuori tempo
massimo. Voglio essere forte, razionale, ho
quasi trent’anni e voglio gestire la mia vita,
concentrarmi sulle cose a cui tengo, trovare il
mio posto nel mondo. L’Elena che gioiva tra
le braccia di Leonardo, che aspettava fiduciosa ogni suo gesto e ogni sua parola, che
era pronta a fare qualsiasi cosa lui le
chiedesse non esiste più. Quella donna non
ero io. Ero la donna che voleva lui. Adesso
devo tornare a essere me stessa, me senza
Leonardo, un’Elena che appartiene solo a
Elena.
Sospiro. Più facile a dirsi che a farsi. Ma
devo cominciare dalle piccole cose: vado in
camera a rifare il letto. Metto le lenzuola
pulite e butto quelle sporche nel cestello
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della lavatrice per liberarmi del suo profumo
e della sua immagine. Poi apro le finestre e
lascio uscire l’aria stantia di questa stanza.
C’è bisogno di un’ondata di vento che spazzi
via i ricordi. Mentre compio questi gesti, un
pensiero mi sfiora. È possibile che le
emozioni provate con Leonardo non fossero
amore, ma avessero più a che fare con il fascino del proibito, con il gusto di infrangere le
regole? L’idea mi disturba. Molto. Ma se
fosse così?
Basta, non voglio pensarci.
Anche se ridurre la nostra storia a un desiderio nascosto per la trasgressione forse mi
aiuterebbe a ridimensionare tutto…
Mi sposto in soggiorno e afferro dalla libreria un bellissimo volume illustrato su
Michelangelo e la Cappella Sistina. Di solito
guardare le opere d’arte dei grandi maestri
mi aiuta a rilassarmi. Mi distendo sul divano,
appoggiando la testa su un cuscino, e inizio a
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sfogliare il libro, soffermandomi su alcuni
dettagli che catturano la mia attenzione.
Quando arrivo intorno alla metà, un foglio
scivola fuori dal volume cadendomi sul
petto. Lo guardo: è il ritratto che Filippo mi
aveva fatto la notte prima di partire. L’avevo
messo tra quelle pagine perché non si
sciupasse, me n’ero quasi dimenticata, e adesso ho un tuffo al cuore nel ritrovarlo.
Come sei bella… Dormivi così bene,
stanotte…
All’improvviso ho un’immensa nostalgia di
lui. Fil, perché non ho capito subito che eri tu
quello da cui lasciarsi amare? Eri tu a farmi
sentire veramente al sicuro, eri tu ad accettarmi per quella che ero, con tutti i miei
limiti e i miei difetti, senza pretendere di
cambiarmi. E io non ho fatto nulla per proteggere quel sentimento puro e sincero che ci
univa, non ho saputo averne cura, l’ho maltrattato correndo dietro a stupide illusioni.
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Solo adesso mi rendo conto di quello che ho
perso.
Una lacrima mi scende piano dagli occhi,
poi un’altra, poi un’altra ancora. Mi lascio
andare a un pianto liberatorio, che non è di
rabbia né di dolore, è il pianto che si riserva
alle persone davvero importanti, quelle a cui
siamo legati da qualcosa che va oltre il cuore,
il corpo, la mente. Queste lacrime lavano via
tutte le emozioni provate negli ultimi mesi e
quando sono finite mi lasciano spossata. Ma
ora in me c’è una nuova determinazione, una
nuova forza. Sono pronta a rinascere e la
prima cosa da fare è chiedere perdono a chi è
stato vittima dei miei errori.
18
Osservo il paesaggio attraverso il finestrino, la testa appoggiata al sedile, le mani
abbandonate sulle ginocchia. Le colline toscane mi hanno sempre messo addosso un
senso di pace profonda: viste da un treno in
corsa sembra quasi che si muovano, inseguendomi con i loro profili di terra rossa.
Rimango immobile, metto a tacere i pensieri
e mi concentro su ciò che accade intorno a
me. Rumore di rotaie, voci che si sovrappongono, squilli di cellulare, porte che si aprono
e chiudono. Gallerie, buio, poi sole, poi di
nuovo buio, poi di nuovo sole.
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Ricomincio da qui, da questo treno che
corre verso Roma. Tra meno di due ore sarò
nella capitale, da Filippo. È una mossa azzardata, un’impresa che non è da me, ma ci
ho pensato e ripensato, e alla fine ho capito
che era la cosa migliore, quella più giusta da
fare: non mi porto niente dietro, solo la
voglia di chiedere perdono senza la pretesa
di ottenerlo. Forse Filippo non sarà felice di
rivedermi, forse non potremo mai superare
lo scoglio del nostro ultimo litigio e ritrovarci
nel punto in cui ci eravamo lasciati. Ma vorrei almeno parlargli, dirgli che mi dispiace e
che ho capito di aver sbagliato. Avrei potuto
scrivergli o telefonargli, ma ho pensato che
questo viaggio, se non altro, sarà una sorta di
piccolo percorso di espiazione. Ho prenotato
una stanza in un piccolo albergo vicino a San
Giovanni. Al peggio, sarà solo una breve
vacanza.
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Arrivo a Termini intorno alle tre del pomeriggio. Ad accogliermi c’è un sole caldo
che m’inonda il viso di luce, perciò tolgo
subito il giubbotto. L’aria di Roma è tiepida,
scalda il cuore di novità. Trascinando il mio
piccolo trolley, esco dalla stazione e salgo sul
primo taxi libero.
«Viale della Musica» dico gentilmente al
tassista.
Voglio andare al cantiere. L’ultima volta
che ci siamo sentiti è stato Filippo a darmi le
coordinate del posto. Mi sembra sia passato
un secolo da quella telefonata e non sono affatto sicura di trovarlo. Ma voglio tentare, è
l’unico riferimento che mi ha dato durante le
nostre videochiamate.
Il taxi attraversa la città piena di traffico e
rumori e infine l’Eur si schiude davanti a noi
con la sua severa imponenza.
Scendo dall’auto e percorro qualche metro
a piedi, senza sapere bene dove andare. In
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lontananza vedo un’immensa costruzione di
vetro e cemento circondata da gru e impalcature e mi dirigo in quella direzione. Quando
sono proprio sotto sollevo lo sguardo. L’edificio non è finito, e chissà quanto tempo ci
vorrà ancora, ma già si può coglierne l’armonia e quella bellezza ricercata che punta
dritta al futuro.
A passi incerti mi addentro nel cantiere,
tenendo l’iPhone in una mano e trascinando
il trolley con l’altra. Mi guardo intorno un po’
timorosa, qualche operaio mi osserva incuriosito, ma nessuno mi ferma. Sono animata
da un’unica immensa speranza. Ritrovarlo.
Ed eccolo lì, lo riconosco da lontano, è girato di spalle e indossa l’elmetto di protezione. Sono sicura che è lui. Solo Filippo ha
quel modo buffo di gesticolare. Sta parlando
con alcuni operai, l’indice puntato su un lato
della costruzione, e sembra sicuro dei suoi
movimenti e delle sue parole. Il mio cuore
accelera i battiti e si surriscalda. Ma non
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devo avere paura: ora so cosa c’è alla fine e
all’inizio di un viaggio. C’è vita, c’è amore, c’è
solo un attimo, e la meravigliosa certezza di
non sapere.
Quando gli operai se ne sono andati, lo
chiamo al cellulare. Filippo fruga nella tasca
del Burberry alla ricerca del suo iPhone. Lo
vedo esitare per un po’. Scuote la testa, alza
le sopracciglia, abbozza una strana smorfia.
Sarà sorpreso? Adesso sì, ho un po’ paura.
Sembra quasi non voglia rispondere, come se
con me avesse davvero chiuso.
Per un istante prego che mi risponda e in
quell’attimo la sua voce mi filtra nell’orecchio come un vento tiepido.
«Pronto?»
«Girati» gli dico, solamente.
Quando lo fa, i nostri sguardi s’incrociano.
Spalanca gli occhi e inchioda i piedi a terra,
paralizzato, poi si toglie il casco, lo abbandona sopra un assemblaggio di cemento e mi
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viene incontro lentamente. Ho un nodo in
gola, sento le ginocchia deboli, ma mi preparo ad affrontarlo.
Si arresta a mezzo metro da me, lo sguardo
duro, impenetrabile. «E tu che ci fai qui?»
«Sono venuta a chiederti scusa» gli dico,
in un soffio. «Ho sbagliato, Fil, volevo solo
dirtelo.»
«Tu sei matta…» È incredulo.
«Sì, ma ero ancora più matta quando ti ho
detto quelle cose e poi ti ho lasciato andare.
Lo so che non si può rimediare, adesso che
ho rovinato tutto, ma chiederti scusa è il
minimo che potessi fare. E lo desidero con
tutto il mio cuore. Che è anche un po’ tuo…»
Mentre parlo senza prendere fiato il suo
sguardo si ammorbidisce e le sue labbra si
piegano nel suo splendido sorriso.
«Vieni qui, Bibi» dice all’improvviso, attirandomi a sé.
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Dio, quanto mi è mancato questo abbraccio e questo calore buono! Mi rilasso finalmente contro di lui, sentendomi salva per la
prima volta dopo tanto tempo. Ora il passato
mi sembra solo un’illusione da dimenticare e
il futuro una scatola piena di promesse.
Lo guardo. Mi guarda. Poi appoggia la
guancia contro la mia. Sento il suo cuore
battere veloce contro il mio. Sento le sue
mani. Sento le sue labbra muoversi piano e
scivolare leggere sulla mia bocca. Filippo mi
vuole ancora, e anch’io lo voglio.
Tutto il resto non conta.
Grazie
a Celestina, mia madre.
a Carlo, mio padre.
a Manuel, mio fratello.
a Caterina, Michele, Stefano, fari di giorno
e di notte.
a Silvia, guida preziosa.
a tutta la Rizzoli, dal piano terra all’ultimo.
a Laura e Al, presenze importanti.
a tutti gli amici, incondizionatamente.
a Diana e Annamaria, zie nel cuore e
nell’anima.
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a Filippo P. e al treno del ritorno.
alle ore sedici e dieci del quattordici
settembre duemiladodici.
a Venezia.
al destino.
LEI NON HA MAI AMATO DAVVERO.
LUI HA CONOSCIUTO SOLO
IL LATO OSCURO DELL’AMORE.
IL LORO SARÀ UN VIAGGIO
TRAVOLGENTE
ALLA SCOPERTA DEL PIACERE.
La storia di Elena e Leonardo
continua con
IO TI SENTO
Irene Cao
volume II
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Finita la storia con Leonardo, Elena si è
trasferita a Roma per stare con Filippo e
iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Lavora a un importante restauro nella chiesa di
San Luigi dei Francesi e sembra aver ritrovato la serenità. Ma il destino le fa incontrare
di nuovo l’uomo che ha sconvolto per sempre
il suo mondo. Leonardo la vuole ancora,
come e più di prima. Il loro, però, è un amore
impossibile, su cui incombe un segreto inconfessabile che li costringerà a separarsi di
nuovo…
LEI NON HA MAI AMATO DAVVERO.
LUI HA CONOSCIUTO SOLO
IL LATO OSCURO DELL’AMORE.
IL LORO SARÀ UN VIAGGIO
TRAVOLGENTE
ALLA SCOPERTA DEL PIACERE.
Il capitolo conclusivo della
trilogia
IO TI VOGLIO
Irene Cao
volume III
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Elena ha perso tutto. La sua vita, ora, è una
discesa agli inferi che culmina quando una
sera, ubriaca all’uscita da un locale, viene investita da un’auto. Si risveglia in ospedale, e
Leonardo è lì. Ha deciso di curare con la passione il suo dolore. Ma il passato è un demone che Leonardo non è ancora riuscito a
sconfiggere…
Indice
Cover
Abstract
Irene Cao
Frontespizio
Copyright
Dedica
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
563/564
14
15
16
17
18
Grazie
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