Conferenza CEU, Perugia, 6 maggio 2014 Il destino della libertà. Quale società dopo la crisi economica Discorso introduttivo: Una società matrigna con i giovani di S.E. Card. Gualtiero Bassetti Carissimi, porto il saluto di tutti i miei confratelli Vescovi dell'Umbria a tutto il pubblico presente in sala e anche a quello collegato via internet. Un saluto particolare lo rivolgo ai relatori, a tutte le autorità presenti e a tutti quegli enti e a quelle associazioni che hanno promosso l'evento. Come già è stato detto questa iniziativa vuole essere un momento di riflessione, di dialogo e, speriamo, anche di proposta concreta. Consapevoli, però, che l'unico spirito che guida questa iniziativa è quella del servizio. Un servizio alla Città di Perugia, un servizio all'Umbria, un servizio alla Chiesa e un servizio a tutti gli uomini e alle donne del nostro amato Paese. Che cosa significa essere liberi? Voglio iniziare questa mia breve riflessione partendo dalla risposta che papa Francesco ha dato a questa domanda alcuni mesi fa, in due diverse meditazioni mattutine a Santa Marta. Essere liberi, ha detto il Vescovo di Roma, non significa certamente "fare tutto ciò che si vuole, lasciarsi dominare dalle passioni, passare da un'esperienza all'altra senza discernimento e seguire le mode del tempo". Essere liberi significa, prima di tutto, avere "capacità di scelta". Cioè saper scegliere in piena autonomia assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni di fronte agli altri e, in definitiva, di fronte al mondo. La libertà, dunque, non può essere scissa dalla responsabilità. Allo stesso tempo, però, come ha sottolineato Francesco, la libertà si accorda sempre con la speranza perché “dove non c’è speranza non può esserci libertà”. La speranza, ovviamente, non va confusa con un vago sentimento ottimistico. La speranza per un cristiano è sempre Gesù. Per usare le parole del papa, "la speranza è un dono", un "regalo dello Spirito Santo" che non delude mai. E la speranza se intesa laicamente assume un significato escatologico che non può non mirare al bene comune, al bene della comunità. Mi chiedo, però, se questo duplice binomio tra libertà e responsabilità, e tra libertà e speranza, sia una prassi concreta o, all'opposto, rimanga confinata nel campo delle buone intenzioni, degli ideali e dei valori declamati solo a parole. Parole che troppo spesso cadono nel vuoto e non danno frutto. Mi chiedo, perciò, se la bandiera della libertà si riduca, a volte, ad essere solamente un vessillo agitato al vento senza troppa preoccupazione per quello che accade realmente nella vita degli uomini. Allora, con gli occhi del pastore – cioè, con gli occhi di chi guarda con amore paterno tutte le proprie pecore senza escluderne nessuna – mi pongo, e vi pongo, alcune domande. Siamo proprio sicuri che questa libertà da molti blandita come una verità inscalfibile, come un segno inequivocabile dei tempi moderni, sia una reale condizione di ogni essere umano? Oppure esistono realmente – e sono in gran numero, forse la maggioranza – quelle "vite di scarto" denunciate da Zygmunt Bauman? I milioni di rifugiati e di sfollati che bussano alle nostre porte hanno potuto conoscere realmente quella libertà di cui il mondo occidentale sembra cibarsi quotidianamente oppure vivono solamente una condizione di moderna schiavitù? I cosiddetti "rifiuti" del processo produttivo del "capitalismo tecno-nichilista", secondo la definizione di Magatti, sono veramente così distanti dalle nostre esistenze? Oppure sono vicinissimi a noi, anzi sono parte integrante della nostra vita, ma noi, con il nostro individualismo esasperato, fatichiamo a riconoscerli, a prenderli in considerazione, ad aiutarli e, soprattutto, ad amarli? A queste domande non vorrei rispondere sollevando delle questioni filosofiche ma riportando l'esperienza concreta della recente visita pastorale nella mia diocesi di Perugia. Potrei fare moltissimi esempi, ma in questa particolare occasione, visto anche il coinvolgimento degli studenti delle due Università cittadine, è mia premura evidenziare soltanto una questione che ho visto da vicino e che mi sta particolarmente a cuore: ovvero la questione giovanile. Non ho alcuna particolare inclinazione verso le mode giovaniliste e non voglio ammiccare a questa parte della società per chissà quale gratificazione, ma non posso non sottolineare che i giovani della nostra società – i nostri giovani, i nostri figli – vivono in condizioni sempre più drammatiche. Prima di tutto per la piaga visibile della disoccupazione. In secondo luogo, per la piaga invisibile della solitudine. Incontro quotidianamente giovani ragazzi che vivono un profondo disagio esistenziale, che non hanno un lavoro e che hanno ormai perso la speranza di trovarne uno. Giovani che, il più delle volte, si sentono abbandonati da tutti. Costretti a vivere un'esistenza precaria che uccide la loro dignità, che incrina la loro identità e che li colpisce fin dentro l'anima. Come pastore non posso non ricordare a questi giovani, con tutta la forza che possiedo, che Cristo non li ha abbandonati! Ma li segue uno per uno. Gli sta accanto. E cammina con loro nelle loro sofferenze. La Chiesa, ma non solo la Chiesa, bensì tutti gli uomini e le donne di buona volontà hanno l'imperativo morale di cingersi i fianchi, di rimboccarsi le maniche e di soccorrere tutti coloro che vivono in una condizione di esclusione, che stanno ai margini della società e che non hanno niente. Questa cesura profonda, tra chi è all'interno della cittadella dei diritti e della sicurezza sociale e chi sta al di fuori, reietto ed escluso dal cosiddetto processo produttivo, rappresenta una frattura inaccettabile agli occhi di Dio. Perché una società che non accoglie gli ultimi, che non abbraccia i suoi figli e non si prende cura dei poveri è una società che finisce per negare la paternità di Dio e per autodistruggersi. Una società che non fornisce ai più giovani gli elementi necessari per poter sviluppare la propria personalità è una società che è matrigna con i propri figli e che finisce per negare la libertà fondamentale di ogni essere umano: quella di vivere nel rispetto della dignità umana! Carissimi, non voglio rubarvi altro tempo. Il mio intervento voleva essere solo una modesta sollecitazione all'incontro. Convinto, però, che questa riflessione, questa conferenza, questo dibattito sarà un'occasione importante solo se concepita come un servizio alla comunità. Un servizio, come ha detto Francesco, "che esige di ampliare lo sguardo e allargare il cuore". Buon lavoro. + Gualtiero Card. Bassetti Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Presidente della Ceu Conferenza CEU, Perugia, 6 maggio 2014 Il destino della libertà. Quale società dopo la crisi economica “Sta per iniziare l’era della cooperazione e della condivisione… Sia il capitalismo sia il socialismo perderanno il dominio che una volta esercitavano in modo esclusivo sulla società” di Zygmunt Bauman Professore emerito dell’Università di Leeds È concepibile un mondo diversamente gestito e organizzato rispetto a quello in cui viviamo – un mondo di crescita ostinata dell’individualismo, del consumismo, dello spreco e della diseguaglianza sociale? Questo è il problema, che Jeremy Rifkin affronta senza mezzi termini nella sua opera più recente, dal provocatorio titolo The Zero Marginal Cost Society, con sottotitolo The Internet of Things, The Collaborative Commons, and the Eclipse of Capitalism (Palgrave Macmillans, Aprile 2014). Le risposte fornite da Rifkin – basate su un campione incredibilmente vasto di dati di fatto analizzati a tutto tondo – sono sorprendentemente radicali e costituiscono una formidabile sfida al prevalente (Antonio Gramsci direbbe “egemonico”) credo dei nostri giorni, espresso e abbracciato da tutti gli strati della società, dalla filosofia delle classi dotte al senso comune della massa. Rifkin sostiene che un’alternativa ai modelli capitalistici di mercato, largamente considerati una delle sempiterne caratteristiche della natura umana, non solo è concepibile, ma è già nata e sta guadagnando terreno, avviandosi verosimilmente a diventare dominante non nel giro di qualche secolo, ma di pochi decenni. In sintesi: secondo la tesi di Rifkin, il capitalismo è sul viale del tramonto, gradualmente ma inarrestabilmente e irreversibilmente sostituito da una modalità di convivenza umana apparentemente nuova, ma in realtà ben radicata nella storia pre–capitalistica: quella dei “beni comuni collaborativi”. Essa precede, ricorda Rifkin, le istituzioni moderne/capitalistiche ed è di fatto “la forma più antica al mondo di attività istituzionalizzata autogestita” (p. 16). Per spiegare nel modo più breve la differenza tra il punto di partenza e il punto di arrivo della trasformazione in atto: “Mentre il mercato capitalistico è basato sull’interesse personale e incentivato dal guadagno materiale, i beni comuni sociali sono fondati su interessi collaborativi e incentivati da un profondo desiderio di connettersi con altri e di condividere. Se il primo promuove diritti di proprietà, rischio del compratore, ricerca di autonomia, i secondi incoraggiano innovazione gratuita, trasparenza, voglia di comunità” (p. 18). Per capitalismo, che considera in declino, Rifkin intende “una esclusiva e peculiare forma d’impresa in cui la forza lavoro è privata della proprietà degli strumenti che usa per creare i prodotti, e gli investitori che sono proprietari delle imprese sono privati del potere di controllare e dirigere le proprie aziende” (p. 43). Dal canto loro i “beni comuni collaborativi”, insiste Rifkin, non sono un’utopia, ma una realtà dietro l’angolo; una realtà che dista dall’attuale non lo spazio di una rivoluzione, una guerra mondiale o un’altra catastrofe, ma solo il lasso di tempo, che si sta riducendo a vista d’occhio, necessario perché maturino forme di condivisione e modi di comunicazione che sono già impiantati, germogliano e fioriscono, procurano energia e risolvono problemi logistici. Una volta giunti a piena maturità, i beni comuni collaborativi “romperanno il monopolio delle gigantesche imprese a integrazione verticale operanti nei mercati capitalistici, rendendo possibile la produzione paritaria in reti continentali e globali a espansione orizzontale a costo marginale prossimo allo zero” (p. 23). Rifkin sostiene, dall’inizio alla fine del suo studio, che nello stesso identico modo in cui il motore a vapore consentì / indusse / richiese la prima rivoluzione industriale, e come il motore a scoppio, insieme alla rete telefonica, mise in moto la seconda, l’attuale “internet degli oggetti” emergente a livello globale, integrando la rete della comunicazione con quelle dell’energia e della logistica (o della mobilità), fornirà l’infrastruttura per la terza rivoluzione industriale. L’autore inoltre sottolinea (p. 74) che, benché l’idea di tale integrazione e il termine “internet degli oggetti” fossero coniati già nel 1995, rimasero latenti un certo numero di anni a causa dell’alto costo dei sensori e attuatori di impianto necessari per il monitoraggio e il controllo da remoto, e la limitata capacità di internet, che consentiva solo 4,5 miliardi di indirizzi univoci. Con i chip RFID oggi disponibili a costo irrisorio, e il nuovo protocollo internet che consente 340 miliardi di miliardi di miliardi di indirizzi, tali vincoli sono stati spazzati via – e la parola è sul punto di farsi carne… Con costi marginali di comunicazione e di energia tendenti a zero (la comunicazione internet è già praticamente gratis, visto che non paghiamo il sole, il vento o le onde marine per l’energia che forniscono e che sfruttiamo), e con la rapida crescita della stampa 3D universalmente disponibile che bypassa i mercati commerciali, si restringe a vista d’occhio il terreno per una economia guidata dall’avidità di guadagno materiale. La vicenda storica di tale economia sta arrivando al capolinea. Sta per iniziare l’era della cooperazione e della condivisione. “Nell’era che si approssima, sia il capitalismo sia il socialismo perderanno il dominio che una volta esercitavano in modo esclusivo sulla società, in quanto una nuova generazione si identifica sempre di più con il collaborativismo” (p. 19). A molti, forse alla maggior parte di noi, tale previsione può suonare come pura e oziosa fantasticheria, tal quale una visione dei giganti del tessile di Manchester, per non parlare di ciò che la Ford o le fabbriche stile General Motors hanno fatto ai creatori delle piccolissime imprese. Occorre tuttavia trarre da questi e innumerevoli altri simili esempi storici un monito alla prudenza, a guardarsi dal liquidare troppo alla leggera le previsioni di Rifkin. Scorrendo, molti anni fa, le pagine ottocentesche del Manchester Guardian, un quotidiano pubblicato nel cuore della rivoluzione industriale in atto, rimasi meravigliato nel constatare come, al di là della pletora di notizie riguardanti le nuove fabbriche che spuntavano come funghi dopo la pioggia in tutto il tessuto cittadino, non ci fosse praticamente alcun segno di consapevolezza che tutte quelle informazioni sparse stessero componendo niente meno che il quadro di una rivoluzione economica, sociale e culturale. La sigla riassuntiva di “rivoluzione industriale” fu impressa su tutto ciò solamente a posteriori… Di fatto, Rifkin ci provoca a esaminare attentamente il panorama globale attuale nella sua totalità, anziché osservarne sugli schermi o tra le pagine di giornale i diffusi, dispersi, caleidoscopici e variegati frammenti. E a riconoscere da ciò, a differenza dei nostri antenati ottocenteschi, la foresta dietro gli alberi, anziché attendere i benefici effetti del senno di poi per integrare le visioni parziali in un insieme dotato di senso. Rifkin suggerisce che i “beni comuni contemporanei” sono già visibili. Sono caratterizzati da “miliardi di persone impegnate negli aspetti altamente sociali dell’esistenza”. Sono “fatti di milioni di organizzazioni autogestite, funzionanti in base a criteri altamente democratici, tra cui figurano istituzioni caritative, organizzazioni religiose, gruppi artistici e culturali, fondazioni educative, club sportivi dilettantistici, cooperative di produttori e consumatori, cooperative di credito, organizzazioni per la cura della salute, gruppi di avvocati, associazioni di condominio, e un elenco pressoché illimitato di altre istituzioni ufficiali e informali che generano il capitale sociale della società”. Il capitale sociale esiste ed è in crescita, in attesa di essere raccolto, assemblato, messo all’opera… Rifkin ha ragione quando ci sollecita a strappare il velo tessuto dalla società consumistica mercantile scoprendo le reali alternative, sempre più tangibili: la possibilità di una società basata sulla collaborazione anziché sulla competizione. In realtà, come notava nel suo Diario di un anno difficile (Vintage Books 2008, tr. it. Maria Baiocchi, Einaudi 2008) J. M. Coetzee, uno dei massimi filosofi tra i romanzieri contemporanei, e uno dei più completi narratori tra i filosofi, “perché la vita debba essere paragonata a una corsa e perché le economie nazionali debbano competere l’una contro l’altra piuttosto che dedicarsi, insieme, a un’amichevole e salutare corsetta è una domanda che non viene neppure sollevata”. E aggiunge: “Ma di certo il mercato non l’ha fatto Dio – Dio o lo Spirito della Storia. E se lo abbiamo fatto noi, esseri umani, non dovrebbe essere possibile disfarlo e rifarlo in forma più accettabile? Perché mai il mondo dovrebbe essere un’arena in cui si scontrano i gladiatori – mors tua vita mea – piuttosto che, per esempio, un industrioso alveare o un termitaio cui tutti collaborano?”. Semplici parole, semplici domande, non meno gravi e convincenti per l’assenza di elaborate argomentazioni condite di gergo accademico, più preoccupate di conformarsi alla logica del mercato e segnare un punto a proprio favore, che di fare appello al buon senso e pungolare la ragione umana a uscire dal proprio dormiveglia e passare all’azione. Già, perché? Tuttavia, un conto è il richiamo – giusto – a resistere alla tentazione di trascurare o respingere i segni promettenti, che comunque si affacciano, di scenari sociali (ogni maggioranza non può che iniziare da un’esile minoranza, e anche la quercia più fronduta ha origine da una ghianda), un altro conto è l’improbabile suggerimento che la questione sia ormai risolta e che l’esito della trasformazione in corso sia prestabilito… Tutto ciò suona come una nuova versione di “determinismo tecnologico”. Un’ascia si può usare con pari facilità per tagliare il legno o la testa di qualcuno: e mentre la tecnologia determina la serie di opzioni aperte agli esseri umani, non determina quale di queste opzioni alla fine sarà scelta e quale scartata. Quella dello sviluppo tecnoloigco non è una strada a senso unico, e meno ancora è disegnata e predisposta in anticipo sulla sua costruzione. Rifkin presenta i beni comuni collaborativi come l’unico scenario, la cui implementazione è assicurata con certezza grazie alla logica della tecnologia. Cosa gli umani possano fare è forse una domanda che può e deve essere rivolta alla tecnologia. Cosa gli umani faranno, però, è una domanda che andrebbe piuttosto rivolta alla politica, alla sociologia, alla psicologia – e la risposta ultima probabilmente non si potrà dare se non a posteriori… Ugualmente discutibile è la decisione di attribuire alla tecnologia informatica lo status di “infrastruttura” in grado di determinare il carattere di “bene comune collaborativo” della società futura. L’accesso universale, facile e comodo agli eventi di tutto il mondo in tempo reale, abbinato alla possibilità ugualmente aperta, facile e indisturbata di esporsi a un pubblico universale è stata già salutata da numerosi osservatori come un autentico punto di svolta nella breve quanto densa e tempestosa storia della moderna democrazia. Contrariamente alle aspettative, praticamente diffuse a livello mondiale, che internet possa rappresentare un grande passo avanti nella storia della democrazia, coinvolgendo ciascuno di noi nella costruzione del mondo che condividiamo e sostituendo l’ereditaria “piramide del potere” con una politica “laterale”, si accumulano prove che internet possa anche servire a perpetuare e rafforzare conflitti e antagonismi, impedendo di fatto che un efficace negoziato a più voci conduca a un possibile armistizio e accordo, con integrazione e collaborazione a reciproco vantaggio. Paradossalmente, il pericolo scaturisce dall’inclinazione di numerosi internauti a fare del mondo virtuale una zona esente da conflitto, non però negoziando le questioni conflittuali e risolvendole con reciproca soddisfazione, ma rimuovendo dalla propria sfera visiva e mentale i conflitti che attanagliano il mondo non virtuale… Numerose ricerche hanno dimostrato che gli utenti assidui di internet possono trascorrere e di fatto trascorrono gran parte (forse la maggior parte) del proprio tempo, o addirittura l’intera vita in rete, incontrandosi esclusivamente con persone che la pensano come loro. La rete crea una versione raffinata di “zona ad accesso limitato”: a differenza del suo equivalente nel mondo non virtuale, qui non viene addebitato agli occupanti un affitto esorbitante e non servono guardie armate né sofisticati sistemi di controllo a circuito chiuso; basta un semplice tasto “Canc”. Il fascino di queste zone ad accesso limitato – virtuali e non – è che si vive in compagnia di persone rigidamente preselezionate, “gente come te”, persone che la pensano allo stesso modo, liberi dall’intrusione di estranei la cui presenza richiederebbe l’ardua negoziazione di una modalità di convivenza e sfiderebbe la certezza che la nostra modalità di vita sia l’unica corretta, condivisa da chiunque rientri nel nostro campo visivo e raggio d’azione. Gli altri sono riflessi di noi e noi di loro, per cui, vivendo all’interno di queste zone, non corriamo il rischio di litigare col vicino, di discutere o scontrarci su argomenti politici, ideologici o quant’altro. Una zona davvero comoda, acusticamente isolata dal frastuono della variegata folla che imperversa nelle strade cittadine e nei luoghi di lavoro… L’inconveniente è che in un tale ambiente virtuale, artificialmente quanto abilmente disinfettato, difficilmente si potrà sviluppare un sistema immunitario contro le tossine delle controversie endemiche all’universo non virtuale, o apprendere l’arte di privarle del loro potenziale distruttivo e in definitiva omicida. E nella misura in cui non si è riusciti a imparare quest’arte, le divisioni e le discordie apportate da stranieri nelle strade cittadine appaiono ancora più minacciose, e magari insanabili. Le divisioni nate in rete sono dotate della capacità di autoalimentarsi e autoesasperarsi… Più di una via si diparte dal luogo dove siamo stati posti dai disegni della storia: e non senza la nostra collaborazione, appassionata benché non sempre meditata, fin troppo spesso entusiasta. Sta a noi ora aprire la strada a una convivenza umana del tipo tratteggiato da Jeremy Rifkin. Non verrà da sé. Si richiede la nostra ponderata e accorta collaborazione. Zygmunt Bauman (Traduzione di Isabella Farinelli)
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