2014 numero 4 aprile Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Giammai non mi conforto nè mi voglio allegrare. Le navi sono al porto e vogliono collare. Vassene la più gente in terre d'oltremare. Ed io, oimè lassa dolente! Storia della letteratura Italiana di Francesco De Sanctis 1870: 1° Capitolo I SICILIANI Sotto Federico secondo l'Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano “siciliani”. Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il “volgare”, di tutt'i volgari moderni il più simile al latino. La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com'era usato in tutt'i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia. Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell'amante del crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo “sonetto”, come lo chiama l'innamorata, dovea fare la più grande impressione. Come degg'io fare? Vassene in altra contrata, e nol mi manda a dire: ed io rimango ingannata. Tanti son li sospire che mi fanno gran guerra la notte con la dia; nè in cielo nè in terra non mi pare ch'io sia. Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi con la croce: La croce mi fa dolente, e non mi val Deo pregare. Oimè, croce pellegrina, perchè m'hai così distrutta? Oinzè lassa tapina! ch'io ardo e incendo tutta. Finisce così Però ti prego, Dolcetto, che sai la pena mia, che me ne facci un sonetto e mandilo in Soria: ch'io non posso abentare notte, nè dia: in terra d'oltremare ita è la vita mia. La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti essenziali. Comincia così: 1 L'amante che prega e chiede amore, l'innamorata che lamenta la lontananza dell'amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie dell'amore, sono i temi semplici de' canti popolari, la prima effusione del cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie, come le più semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e raffinati. Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio: Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta popolare, e com'è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti “pur mo' nata”, e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma: Giorno non ho di posa, come nel mare l'onda: core, chè non ti smembri? Esci di pene e dal corpo ti parte: ch'assai val meglio un'ora morir, che ognor penare. Oi lassa innamorata, contar vo' la mia vita, e dire ogni fiata, come l'amor m'invita, ch'io son, senza peccata, d 'assai pene guernita per uno che amo e voglio, e non aggio in mia baglia, siccome avere io soglio; però pato travaglia. Ed or mi mena orgoglio, lo cor mi fende e taglia. Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera: Perzò meglio varria morir in tutto in tutto, ch'usar la vita mia in pena ed in corrutto, come uomo languente. Oi lassa tapinella, come l'amor m'ha prisa! Come lo cor m'infella quello che m'ha conquisa! La sua persona bella tolto m'ha gioco e risa, ed hammi messa in pene ed in tormento forte: mai non credo aver bene, se non m'accorre morte, e spero, là che vene, traggami d'esta sorte. Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi: E par ch'eo viva in noia della gente: ogni uono m' è selvaggio: non paiono li fiori per me, com' già soleano, e gli augei per amori dolci versi faceano — agli albori. Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch'ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore. Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare. Lassa che mi dicia, quando m'avìa in celato: - Di te, o vita mia, mi tegno più pagato, che s'io avessi in balìa lo mondo a signorato. Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. 2 Su segnalazione e collaborazione del nostro amico e corrispondente Siculo-Torinese Renato Cesarò Il 4 marzo scorso abbiamo presentato il libro di Enzo Barnabà “Il Partigiano di Piazza dei Martiri” Quando, nel 1988, Palermo onorò la memoria dell’insigne messinese Giovanni Alfredo Cesareo, con un interessantissimo convegno, ci fu qualcuno che parafrasando una ben nota frase manzoniana, sbottò dicendo: Ma chi era costui? Orbene, tale eclettico personaggio, cui a Palermo è stata intitolata una strada, fra Via Leopardi e Via Nunzio Morello, emerito cattedratico, in qualità di sommo docente di letteratura italiana, presidente della Accademia Reale di scienze e lettere, nonché membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, fu anche impegnato in politica da senatore. Molto ricca e variegata la sua produzione letteraria, sia come autore di poesie, sia da finissimo critico con interessanti e preziosi saggi sulla Scuola Poetica Siciliana sotto gli Svevi, sulle origini del genere poetico lirico in Italia e, ancora con i suoi studi sull’Italia attraverso i Canti di Giacomo Leopardi. E non finisce qui, perché è giusto ricordare ulteriori titoli di opere importanti fra le quali : “Critica militante”, “Saggio sull’arte creativa” e “Colloqui con Dio”. Fu anche autore di opere teatrali di vario genere, infatti si va da “Francesca da Rimini” a “luisa Sanfelice”, da “La Marta” a “La morta” e c’è pure quella titolata “Mafia”. E come se non bastasse, tale vulcanico letterato si dedicò anche alla traduzione di classici dell’antichità greca e romana, per il Teatro Greco di Siracusa, dove- alternando una rappresentazione greca ad una latina- vennero presentate varie opere, fra le quali “ Ifigenia in Tauride”, “Satyricon” “Ippolito”. Visse 76 anni essendo nato nel 1860, in coincidenza con l’unità nazionale e asceso alla patria Celeste, nel 1937. E’ un sempre vivo con l’enorme suo bagaglio di immensa cultura, trasmessa a noi posteri e merita un posto d’onore fra i letterati. (Ediz.Infinito 2013) ovvero Salvatore Cacciatore nome di battaglia “Ciro” barbaramente impiccato dai nazisti il 17 marzo 1945 nella Piazza di Belluno. L’amichevole partecipazione di Matteo Collura che già ne aveva parlato nel suo “L’isola senza ponte” (Longanesi 2007) e alcune testimonianze dei presenti, (molte le assenze e purtroppo nessuno degli amici in rappresentanza dell’ANPI e dell‘ISREC) hanno reso l’atmosfera carica di forte impegno storico, civile e libertario. Molto Pirandelliana l’esistenza di Cacciatore e la lettura e rilettura del libro (mi è tanto piaciuto che ho voluto cercare di capire bene il perché) ci conferma le qualità dello scrittore Barnabà, ma anche la sua convinta partecipazione al recupero della verità, che conduce alla libertà responsabile. Una particolare considerazione emersa nell’ambito dell’incontro ha riguardato il concetto di confine, di come cioè pochi metri possano far variare i giudizi storici affrettati e le definizioni antitetiche di Partigiani e Terroristi. E di come, in quei pochi metri, si possa combattere con ideali simili ma storicamente divergenti. Il viaggio, all’apparenza sentimentale, di cui narra il libro va invece, in modo non retorico, alla ricerca delle vere basi della nostra democrazia e dello spirito con cui alcuni eroi come Ciro sono caduti per la realizzazione della libertà del nostro paese, unito da tanti, fra cui questo immaginario ponte, fra la Sicilia e il Veneto Un grazie pertanto particolare a Enzo Barnabà e a Matteo Collura, con la speranza che questo libro venga presentato ancora e più volte a molti dei nostri giovani. 3 Corvo contatta l’avvocato Vincent J Scamporino e si mette al lavoro. Una delle prime persone che i due incontrano, il 22 settembre 1942, è proprio Girolamo Valenti, noto giornalista ed importante esponente dell’antifascismo italoamericano. L’incontro avviene a New York, a casa del dott. Matthew Siragusa, che condivide le idee del valguarnerese. Ecco alcuni stralci del libro che riprende il verbale della riunione, che Corvo e Scamporino consegneranno ai servizi segreti. «Sembra molto probabile che si stabilisca a breve una relazione con il movimento degli esiliati italiani, che è diretto da un gruppo di siciliani di New York. Le loro direttive sono regolarmente inviate agli esponenti socialisti nella Svizzera italiana. Siragusa ci ha assicurato l’appoggio incondizionato delle organizzazioni socialiste italiane in America, Svizzera e Italia. Si è personalmente impegnato a entrare in contatto con uno dei gruppi presenti nella Confederazione elvetica, per convincerlo a intensificare le attività clandestine in Sicilia e a collegarle con quelle dell'Oss. Per le azioni successive, Siragusa attende il nostro beneplacito. Il gruppo socialista italiano di New York ha preso l'impegno di fornirci venti studenti, da utilizzare a nostra discrezione. I socialisti italiani hanno inoltre promesso di mettere a nostra disposizione i contatti con gli antifascisti nella Sicilia occidentale. Il gruppo tornerà a riunirsi domani (23 settembre), sempre a casa di Siragusa. All'incontro parteciperanno Siragusa, Valenti, Sala e il professore Nicotri. Discuteranno come rendersi utili all'Oss”. Corvo e Scamporino tornano a riunirsi con gli esiliati socialisti il 2 ottobre. C'è anche il professore Gaspare Nicotri. Le cose procedono per il verso giusto: “Il Comitato è entusiasta e ci fornirà gli agenti per le note operazioni. Si è quindi deciso di inviare loro i formulari dell'Oss per gli agenti candidati, il prima possibile. Il Comitato ha inoltre stabilito di trasmetterci i suoi contatti in ogni città e paese della Sicilia”. Il primo dicembre 1942 i due agenti inviano un rapporto segreto. Sono reduci da una serie di importanti riunioni a Boston e a Lawrence, nel Massachusetts. «L'obiettivo primario del nostro viaggio a Boston», scrivono, «consisteva nell'arruolare uomini e stabilire contatti». Raccolgono preziose informazioni e a Boston incontrano Joseph Salerno, un personaggio chiave nella rete dei contatti in vista dello sbarco, capo del sindacato unitario Congress of Industrial Organizations (Cio), nonché collaboratore del Il Valguarnerese Girolamo Valenti collaborò con i servizi segreti americani per l’operazione Husky in Sicilia Girolamo Valenti, a sinistra, con un funzionario dei servizi segreti americani L’operazione Husky consistette nel preparare e realizzare lo sbarco in Sicilia che fu effettuato nel luglio del 1943, assestando un colpo decisivo alle forze nazifasciste e favorendo la destituzione di Benito Mussolini. In occasione del 70° anniversario, com’è noto, si è svolta a Valguarnera un’opportuna e bella commemorazione. . Grazie all’omonimo volume pubblicato nel 2013 dall’editore Castelvecchi e dovuto alle penne di Casarrubea e Cereghino che hanno potuto accedere agli archivi dei servizi segreti americani ed inglesi, conosciamo finalmente non pochi dettagli che erano stati per decenni oggetto di ipotesi più o meno attendibili. In questa sede vogliamo limitarci a riferire quanto abbiamo appreso sul nostro compaesano Girolamo Valenti. La biografia dedicatagli da R J Vecoli su “Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico” degli Editori Riuniti che Valguarnera.com ha voluto ripubblicare, parla della collaborazione del valguarnerese (che era emigrato negli USA nel 1911) con l’ Office of Strategic Services (Oss). Grazie ai documenti ritrovati dai due storici summenzionati al National Archives and Records Administration, College Park, Maryland oggi ne sappiamo di più. Un giovane americano di origine siciliana, Biagio Massimo Corvo, viene incaricato dai servizi segreti USA di preparare un progetto in previsione della “penetrazione della Sicilia per mano di una forza composta da elementi italoamericani” con l’obiettivo di spianare la strada all’invasione dell’isola da parte degli eserciti alleati. 4 leader sindacale italoamericano Luigi Antonini. […]” Assieme a Girolamo Valenti, Corvo visita poi Chicago, Detroit e molte altre città statunitensi con l’obiettivo di continuare gli arruolamenti. La missione dei due va avanti fino all'aprile del 1943. Contattano anche l’antifascista siciliano Vincenzo Vacirca (collabora ai piani dell’Oss per la guerra psicologica nei mesi che precedono lo sbarco), Giuseppe Lupis (giornalista del mensile «Il Mondo››), il sindacalista Augusto Bellanca, Gaetano Salvemini e decine di altre personalità italiane negli Usa. Tra gli arruolati troviamo Joseph Bonfiglio, Alexander Cagiati, Emilio Q. Daddario, Dick Mazzarini, John Ricca, James Montante, Victor Anfuso, Frank Tarallo, Joe Caputa, Egidio Clemente, Umberto Galleani, Joseph Russo, Sebastian Passanisi, Sam Fraulino, Louis Fiorilla, Sal Principato, Guido Pantaleoni. Vengono addestrati dall’Oss a Washington. Salvatore C. Trovato La fiera del Viaggio nella linguistica Nigrò. Sicilia Un viaggio ideale per la Sicilia attraverso la lingua. L'attenzione costante per i fatti di lingua relativi alle varie parlate della Sicilia, in correlazione con i fatti di cultura, ha dato luogo ai cinquanta «racconti» che costituiscono questo libro. «Racconti», appunto, perché destinati al lettore colto non specialista, al lettore curioso della storia linguistica della Sicilia, sulla quale esiste poco di scientificamente valido destinato a larga diffusione. Campo di osservazione il siciliano nelle sue varietà diatopiche e nella sua stratificazione diacronica. Il lettore è accompagnato in un viaggio ideale per la Sicilia. Viaggio nel tempo e nello spazio: la Sicilia greca e quella latina, la bizantina e l'araba e la normanna, fino alla Sicilia contemporanea, in cui il confronto linguistico avviene tra il siciliano e l'italiano. Nel parlato, come nella scrittura letteraria. Attraverso la lingua, si accede alla Sicilia cristiana e a quella musulmana, alla Sicilia ortodossa e a quella eretica, alla Sicilia contadina e a quella urbana, alla Sicilia tradizionale e a quella moderna. Né manca, in questo viaggio, una sosta tra gli arcipelaghi delle minoranze: i Galloitalici di provenienza settentrionale e gli Albanesi, che della storia linguistica dell'isola a buon diritto fanno parte. Di questo ideale e particolarissimo viaggio, testimone privilegiato è il lessico, deposito attivo di una cultura che a una tradizione sempre aperta al nuovo affida il futuro. Salvatore C. Trovato è ordinario di Linguistica generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania. Si occupa particolarmente di lessicografia e lessicologia dialettali, toponomastica, interlinguistica, minoranze linguistiche. La Sicilia è il suo privilegiato campo di osservazione. Per quel che riguarda la lessicografia ha portato a compimento il grande Vocabolario siciliano (5 volumi pubblicati dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1977-2002) fondato da Giorgio Piccitto e dirige il «Progetto Galloitalici». Nel campo della toponomastica ha pubblicato numerosi contributi, alcuni dei quali raccolti in volume (Saggi di toponomastica nicosiana, Nicosia 1997). Da ricordare anche, tra i suoi saggi, I dialetti Non è da escludere che il ruolo di Valenti nella preparazione della spedizione non si fermi lì (con i familiari ha sempre tenuto il più assoluto riserbo). Il suo impegno durante la guerra, tuttavia, si somma ai mille altri suoi meriti (vedi anche la biografia che Chiara Mazzucchelli gli ha dedicato nel volume “Valguarnera da leggere” e l’articolo dovuto alla penna del sottoscritto: http://www.valguarnera.com/parliamo_di/girolamo_val enti.htm). Per queste ragioni ci sembra opportuno che il suo paese natale lo ricordi dedicandogli una strada come richiesto dalla seguente petizione: http://www.change.org/petitions/cittadini-divalguarnera-petizione-al-sindaco-di-valguarneraper-intitolare-una-strada-del-paese-a-girolamovalenti Enzo Barnabà 5 galloitalici della Sicilia, contenuto nel «Lexicon der Romanistischen Linguistik», Tübingen 1998 e Sicilia [linguistica], nel volume «I dialetti italiani. Storia Struttura Uso», Torino 2002. Liolà Liolà è una commedia di Luigi Pirandello scritta nel 1916, momento molto doloroso per la vita dell' autore. Il figlio detenuto in un campo di prigionieri di guerra, la moglie malata di mente ha sempre più frequenti crisi. Siamo all’ epoca della prima guerra mondiale. L'opera, nonostante queste angosciose condizioni che la vita riserva all’ autore, è molto allegra, quasi spensierata, al punto che lo egli stesso dice: “ E’ così gioconda che non pare opera mia” . La commedia va in scena per la prima al teatro Argentina di Roma il 4 novembre 1916 con la Compagnia di Angelo Musco. E’ scritta in stretto dialetto siciliano, e inizialmente il pubblico, non capendo i dialoghi, fu molto critico. Questo inconveniente convinse l'autore ad inserire nel testo una traduzione in italiano della commedia. La vicenda di Liolà è ispirata ad un episodio del capitolo IV del romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal. Ha per protagonista Neli Schillaci. PROVERBI E MODI DI DIRE SICILIANI I proverbi sono la maniera di pensare dello stomaco, con i proverbi lo stomaco fabbrica delle briglie per l'anima, per poterla governare più facilmente. Maksim Gorkij, La madre, 1906 Aprili ora chianci….ora arridi. Aprili fa li juri e li biddizzi, l’amuri l’havi lu misi di maju. Aranci….aranci….cu avi li guai si li chianci. Arbulu siccu e cavulu jurutu…’nzoccu ci fà fà…tuttu è pirdutu. Arca di Nuè,cu la vidi bedda è: cu la vidi e nun lu dici: setti palati di focu e di pici. Ariu nettu, unn’avi scantu di trona. Arma e cammisa l’avemu divisa. Armamuni e jticci. Armisanti ! n’arricogli unu e magianu tanti. Arraccumannari la pecura a lu lupu. Arristari a’ l’asciuttu. Arrivasti à ura d’astutari li cannili. Arrivasti à latti munciutu e pani sminuzzatu. Arripararisi dunni chiovi. A Santu chi nun suda, nun dumannari grazii. Aspittari e nun viniri, jiri a tavula e nun manciari, jiri a lettu e nun durmiri su tri peni di muriri Assai vali e pocu costa: a malu parlari ‘nnà bbona risposta. Assammara e jetta a lu suli. Assugliatu di li cani. Avi ‘nna facci di brunzu. Avi la testa bbona sulu pì spartiri l’aricchi. Attacca lu sceccu unni voli lu patruni; vegna lu lupu e si lo pozza manciari. A vecchi e vò, scippacci quantu po’. Aviri lu carbuni vagnatu. Aviri un vrazzu longu e unu curtu. A li ricchi, ricchizzi. Riassunto Atto I L'azione è ambientata nella campagna agrigentina, a settembre. Nella prima scena si vedono delle contadine intente a schiacciare mandorle nel podere della zia del protagonista, sorvegliate dal cugino di quest'ultima, il ricco zio Simone Palumbo. Quest'ultimo è in pena perché, nonostante quattro anni di matrimonio in seconde nozze con la giovane Mita, non ha ancora un figlio a cui lasciare la "roba", cioè tutti i suoi averi. Su di lui e su questa sua ossessione convergono le trame dei giovani Liolà, Tuzza e Mita. Tuzza è la figlia di zia Croce, la proprietaria del podere, mentre Liolà è uno spensierato bracciante. È un grande seduttore, un dongiovanni, tanto che ha reso madri tre ragazze, tenendosi poi i figli ed affidandoli alla madre, zia Ninfa. Mita è un'orfana che zio Simone aveva preso in moglie sperando così di coronare il sogno di un erede: la speranza delusa causa ora il disprezzo per la moglie accusata di una sua presunta sterilità. Tuzza, per far dispetto a Mita, che prima delle nozze aveva una tresca con Liolà, si lascia sedurre da quest'ultimo e ne rimane incinta. Liolà allora si sente in dovere di riparare al torto fatto e chiede la mano a Tuzza, la quale tuttavia rifiuta. Essa, infatti, non vuole un marito che "sarebbe di tutte". Con la complicità della madre, invece, tenta di far riconoscere il figlio dallo zio, vecchio ma ricco. 6 A manu manca, la porta d’ ’u magasè, ’a finestra d’ ’u parmentu e n’autra finestra cu ’a grada. A mmuru, aneddi pi li vèstii. È di sittèmmiru, e si scaccianu li mènnuli. Supra du’ banchi a fòrficia stannu assittati Tuzza, la gnà Gesa, la gnà Càrmina ’a muscardina, Ciuzza, Luzza e Nedda e scaccianu a petra sutta e petra supra. ’U zû Simuni Palummu cci fa la guardia; la zâ Cruci va e veni. ’Nterra, sacchi, gistri, coffi e scorci. Quannu si jsa ’u sipariu, li fimmini, scacciannu, cantanu a coru la «Passioni». Atto II Nel secondo atto lo zio Simone, ormai raggirato da Tuzza che lo ha convinto della sua paternità, con fierezza grida alla moglie che il figlio di Tuzza è suo e che al suo erede lascerà tutte le sue proprietà. Per fuggire dalle ire del marito, Mita si rifugia nella casa di zia Gesa, vicina di casa di Liolà. Quest'ultimo è legato a Mita dal rancore nei confronti di Tuzza: lui perché offeso dal rifiuto delle nozze riparatrici, lei perché con l'inganno Tuzza le sta portando via il marito e i suoi averi. Liolà allora offre alla ragazza le sue risorse di amante prolifico per dare allo zio Simone l'erede tanto voluto; lei dapprima rifiuta ma la sera, gli apre la porta di casa. CORU: E Maria darrè li porti, chi sintìa li currïati: «Nun cci dati accussì forti, su’ carnuzzi dilicati!" ZÂ CRUCI: (vinennu d’ ’a porta d’ ’u magasè cu ’na coffa di mènnuli): Va’ va’, picciotti, ca l’urtimi su’! ’Na juntidda l’unu, e cu la manu di Di’ p’ aguannu ’a scacciatina è finuta. CIUZZA, LUZZA, NEDDA: Ccà a mmia, zâ Cruci! dassi ccà! dassi ccà! ZÂ CRUCI: Lesti lesti, ca faciti a tempu d’acchianari ô paisi a jìrivi a sèntiri ’a santa missa! CIUZZA: Chi missa cchiù, zâ Cruci! Si fici tardu! LUZZA: Avanti ca nni vistemu! GNÀ GESA: Già, pirchì v’aviti a vèstiri pi sintìrivi ’a santa missa! CIUZZA: Ge’, gna comu, vistuti accussì? NEDDA: Iu, si pozzu, cci scappo accussì comu sugnu! ZÂ CRUCI: Jamu, jamu, picciotti,’un pirdemu tempu! CORU: «O Juanni, purtamicci!» «O Maria, ’un po’ caminari!» DON SIMUNI: E finitila cu sta Passioni! Mi stati stunannu di stamatina! Scacciati senza cantari. LUZZA: Tant’anni, scacciannu, s’ha cantatu! Maria, ch’è cardaciusu vossia! E chi è? GNÀ CÀRMINA: ’Ncapu all’arma so’, don Simu’: ’u vidi? nni sta facennu travagliari puro ’a santa duminica! DON SIMUNI: Iu? Ccà, ’a zâ Cruci. ZÂ CRUCI: Ah pi ccu’, pi mmia? Avi tri jorna ca mi dati focu, vecchiu rummuluni, c’aviti a vìnniri ’a ’ntrita! DON SIMUNI: Gnursì, tutta sta bella ’ntrita, cuscina! Cchiù i vuci ca ’i nuci. GNÀ CÀRMINA: E chi senti dici, don Simu’, ca nun nni voli dari mancu a bìviri comu livamu manu? ZÂ CRUCI: Chi? V’avi a dari a bìviri, ca fu di pattu! DON SIMUNI: Ma chi pattu e pattu, cuscina! Chi diciti veru? Pi quattru scorci! ZÂ CRUCI: Su’ chiddi chi su’, e tantu basta. ’A prumissa è debitu. E ora vi fazzu a vìdiri iu comu si fa. Vu’, gnà Gesa, curriti â robba di vostra niputi e vi Atto III Nel terzo atto, che si svolge un mese dopo gli avvenimenti precedenti, nel periodo della vendemmia, zio Simone annuncia pubblicamente che la moglie gli ha dato finalmente un figlio legittimo che si va ad aggiungere a quello illegittimo di Tuzza: in realtà nessuno dei due gli appartiene veramente come padre. A questo punto il vecchio vorrebbe che Liolà prendesse in moglie Tuzza, ma lui rifiuta, perché sposandola avrebbe perso tutta la sua spensieratezza ed affidando quindi anche questo ennesimo figlio alla madre. Tuzza, furibonda, si scaglia addosso a Liolà con un coltello, riuscendo però solo a ferirlo leggermente. Piccolissimo assaggio del I atto in dialetto agrigentino, come fu scritta da Pirandello . Appinnata tra la robba e lu magasè, la stadda e lu parmentu d’ ’a zâ Cruci Azzara. ’Nfunnu, campagna cu ficudinnia, mènnuli, olivi. A manu dritta, sutta l’appinnata, la porta di la robba, ’na jttèna, ’u furnu. 7 faciti dari ’na lancedda di vinu! Bedda china, ah? Curriti! GNÀ GESA: Chi curru! S’ ’un m’ ’u cumanna iddu! DON SIMUNI: Ah chi supra ’u seriu allura ’un ci vuliti cridiri, cuscina, ca sugnu cunzumatu iu aguannu, e chi m’hannu a scippari l’occhi, s’accattu cchiù fruttu all’arbulu l’annu chi veni? CIUZZA: E bonu, zû Simu’! N’atr’annu, Diu pruvidi. LUZZA: C’ ’un si sapi ’i mènnuli comu su’? NEDDA: Leggi aguannu, càrrichi l’annu chi veni. ZÂ CRUCI: Si sapi: un annu sì e un annu no. DON SIMUNI: E l’aulivi? e la vigna? Chi cc’è sulu li mènnuli? Tutti li cimiddi di l’aulivi mmirmicatizzi ca fannu piatà! Ccà, basta nèsciri fora e taliari... GNÀ CÀRMINA: Ma all’urtimata vossia – oh! Chianci? Chi chianci? Si chianci fa rìdiri vossia! Avi ccà ’a parintuzza: vìdua cu ’a niputi orfana; s’ ’a stima cci vinni sgarrata, tuttu bbonu e binidittu. CIUZZA: Ccà a ’u sô sangu si nni vennu: restanu ’nfamiglia. LUZZA: Chi si l’avi a purtari suttaterra? GNÀ CÀRMINA: Pi tutti sti figli chi avi... – uh! m’ ’u fici scappari! Li fimmini, a sta ’mprudenza d’ ’a gnà Càrmina, restanu cugliuti cugliuti. Lu zû Simuni, cu ll’occhi ca jèttanu focu, si ’unchia pi scattari; si teni pi mmiraculu; si la scutta cu ’na gistra ca si trova davanti li pedi sfirrànnucci un gran càuciu e si nni trasi nn’ ’u magasè. ZÂ CRUCI: Santa cristiana, chi facìstivu! GNÀ CÀRMINA: Gna s’ ’u scippa di ’mmucca a la genti! CIUZZA (cu aria di ’nnuccintedda): E chi è vrigogna p’un omu ’un aviri figli, zâ Cruci? ZÂ CRUCI: Pipa tu! Ca li picciotti nni sti discursi ’un si cci hannu a ’mmiscari! LUZZA: E chi cc’è? NEDDA: È signu ca Diu nun cci nn’ha vulutu dari! LUZZA: E pirchì iddu allura s’ ’a piglia cu sô muglieri? ZÂ CRUCI: ’Nsumma, ’a vuliti finiri vuàtri? Jti a scacciari! CIUZZA: Livamu, zâ Cruci. ZÂ CRUCI: E facitivi arrassu! ZÂ CRUCI: Haju la testa tanta, soru mia! D’ ’a matina sin ’a sira jttatu ccà, sempri cu stu catùniu! GNÀ CÀRMINA: ’Nnomu dò Patri... e c’ ’u voli di vossia ’u figliu? GNÀ GESA: Gna comu! Chiancennu, ’u voli. ZÂ CRUCI: Chianci... semu giusti... chianci p’ ’a robba... tanta bedda robba, c’â sô’ morti... ’Un si nni po’ dari paci! GNÀ CÀRMINA: E ’u lassassi chiànciri vossia, zâ Cruci! C’ ’un è megliu accussì pi vàutri? Anzi avi a prigari ô Signuruzzu.. . ZÂ CRUCI: Uh, gnà Càrmina, semu di parenti cchiù di quantu capiddi haju ’ntesta. GNÀ CÀRMINA: E chi cci fa? sempri quarchi cusuzza cci avi a tràsiri a vossia, picca o assa’, secunnu ’u gradu d’ ’a parintela. Mi nni doli ’u cori, gnà Gesa, pi vostra niputi; ma s’ ’un cci su’ figli – taliati – si po’ asciucari ’u mussu, accussì! GNÀ GESA: E si lu carricassi ’ncoddu lu grannissimu diavulu, a iddu e a tutta la sò robba, gnà Càrmina! Chi cridi? Nun nni po’ cchiù, nun nni po’ cchiù, dda povira armuzza ’nnuccenti di me’ niputi, sempri disgraziata di quannu nasci, sangu miu, urfanedda di patri e di matri, ca mi l’haju crisciutu iu, ’u sapi Diu comu! Di chistu iddu s’apprufitta, ch’è sula, ca ’un avi autru c’a mmia! Vulissi vìdiri s’avissi ’u patri. Li tri picciotti si tiranu ’nfunnu, attornu a Tuzza, ca ’un ha dittu una parola e si nn ’ha statu tutta ’ngrugnata; cercanu di smòvirla a parlari, ma Tuzza, cu ’na spinciuta di spaddi l’alluntana; iddi allura, ora una, ora l’autra, adasciu adasciu, s’avvicinanu ad ascutari zôccu dicinu ’ntra iddi ’a zâ Cruci, la gnà Càrmina e la gnà Gesa, e po’ lu vannu a rifiriri all’autri du’ ca nn’arrìdinu, facennu signi di nun fàrisi sèntiri. (traduzione per i non udenti a richiesta) 8 signore con la fisarmonica esegue i brani classici della tradizione siciliana e italiana. Siamo in Italia, la musica non può mancare e alle prime note di “Volare” anche i più composti tra i visitatori stranieri si lasciano andare a battere le mani al ritmo della musica. “Volando” accompagnata dalla musica, arrivo all’inizio del percorso di visita. Noto, con estrema soddisfazione, che è stato fatto un ottimo lavoro di sistemazione e di restauro. Le coperture rispettano l’idea di quelle originali e riparano dal caldo, che qui, in estate, potrebbe essere un problema. Una passerella sopraelevata consente ai visitatori di godere appieno la bellezza dei colori e delle scene rappresentate nei mosaici. Le prime colonne con gli straordinari capitelli, s’intravedono in mezzo al verde. Poi le terme e il primo mosaico che mostra, con dovizia di particolari, quanto i romani avessero cura del loro corpo. E poi, “dentro casa”… C’è tanta gente. Tutti in fila, affacciati alla ringhiera della lunghissima passerella, tutti con lo sguardo in giù, verso quelle figure che sembrano ancora danzare e combattere e raccontare le storie degli dei e delle scene di caccia. Tutti in silenzio a seguire i sussurri delle guide che ne spiegano lo svolgersi. La bellezza della classica disposizione delle stanze, degli ambienti termali, della palestra, dell’ingresso monumentale, degli appartamenti, dell’incredibile lungo corridoio e della grande basilica ornata di marmi preziosi è adeguata alla grande bellezza dei mosaici. Geometrie preziose e figure di scene quotidiane raccontano, con immutato splendore, lo svolgersi della vita in quei tempi lontani, di un signore di altissimo rango e della sua famiglia. I mosaici sono fotogrammi di un’epoca della storia, costruiti con piccole tessere colorate. Ho avuto la sensazione di sfogliare un libro illustrato che racconta delle preziose vesti, delle collane e dei bracciali sopra il gomito della ricca signora, delle passioni e delle attività del proprietario. Anche il teatro è descritto in quel Polifemo con tre occhi: due dell’attore più l’occhio dipinto sulla fronte per rendere il personaggio inequivocabile. Poi le gare sportive con doni di palme e corone di fiori alle ragazze. Le ragazze in bikini Nel cuore della Sicilia c’è un posto che per bellezza e arte non ha nulla da invidiare ai più importanti complessi artistici del mondo. La grande e magnifica Villa Romana del Casale. Costruita poco prima della fine dell’impero romano, la grande villa è ritornata a godere del bollente sole di Sicilia a metà del secolo scorso, quando alcuni archeologi decisero di saperne di più su dei ruderi di epoca romana che affioravano dal terreno. Posso solo immaginare lo stupore e la grande soddisfazione di chi, chino sulla polvere e sulla terra che aveva ricoperto la villa forse durante un’alluvione, con delicatezza restituiva al mondo e all’arte così tanta bellezza: quei ruderi nascondevano come una perla preziosa in un’ostrica, qualcosa di assolutamente straordinario. Stupendo esempio di architettura romana, la villa ha la pavimentazione più sorprendente che si possa immaginare. Mosaici di raffinata bellezza adornano quasi tutte le stanze, ciascuna con riferimenti mitologici e di vita vissuta. E tutto questo per centinaia di metri quadri. Studiosi di storia e archeologi non hanno ancora individuato il nome del signore ricchissimo e molto potente che tra il III e il V secolo d. C. decise di farsi costruire una sontuosa dimora a pochi chilometri dall’attuale Piazza Armerina (Enna), ma la storia esige certezze e il lavoro degli specialisti procede tra i testi antichi e i tesori del nostro passato. Poco tempo fa sono tornata a visitare la villa per vedere con i miei occhi come i lavori di restauro e sistemazione delle coperture degli itinerari di visita, fossero stati completati. Dopo aver pagato il mio bravo biglietto, mi avvio seguendo le indicazioni. Tra la folla di stranieri che si ristorano al bar con un arancino o una fetta di pizza appena sfornata, un 9 E ancora il bacio sensuale raffigurato in una delle camere da letto, la stanza dei bambini e tutte le altre stanze, che lo strano potere della bellezza e dell’arte rende “parlanti” oggi, a dispetto dei secoli passati, delle alluvioni e dei terremoti. Il corridoio, quasi un viale per dimensioni, è l’apoteosi del mosaico. Animali esotici, navi, sistemi di cattura delle fiere e tanto altro sono raccontati in un’esplosione di colori con i milioni di tessere colorate. Ho pensato che bisognerebbe inchinarsi davanti a tanta bellezza e lo sporgersi da quella ringhiera, per ammirare le scene “dipinte” con la pietra, forse rende naturale il gesto a tutti i visitatori. Anche ciò che rimane degli intonaci racconta del fasto e del colore della ricca dimora. Ho provato a chiudere gli occhi per immaginarla nel suo pieno splendore, affollata di ospiti e di servitù, con i grandi tendoni che fungevano da porte e custodivano la privacy dei suoi abitanti, con il suono di tube e cetre e le voci che parlano latino… fantastico! Verso la fine del percorso, tra le ultime stanze, ecco quella che lascia senza fiato. da nascondere. I fianchi generosi e una piccola cicatrice non erano un problema. Sicure della loro bellezza, si potevano concedere il piacere di giocare a palla, o lanciare il disco, per poi essere cinte dalla corona di rose, che esalta una femminilità che non ha bisogno di emanciparsi. I bikini non ostacolano i movimenti delle ragazze, e loro scoprono il corpo fin dove si può. Ma stranamente, una delle due ragazze del lato sinistro del mosaico è coperta fino ai piedi da un leggero velo, lasciando intravedere tutto! Sottile gioco di seduzione? I secoli e l’alluvione si sono portati via per sempre la prima delle ragazze. Ne possiamo ammirare soltanto le gambe. Peccato! Lo voglio interpretare come un monito. Capolavori del genere e tutto il grande e splendido patrimonio artistico dell’Italia vanno custoditi e protetti, per essere consegnati alle generazioni future nel miglior stato possibile, senza parti mancanti! Noto che tutti i visitatori, italiani, stranieri e naturalmente gli immancabili giapponesi e coreani, rallentano il passo. Tutti incantati da quella scena di sport e da quei sensuali bikini che parlano un linguaggio universale. Il linguaggio misterioso dell’arte e della bellezza che sorpassa il tempo e le mode. Lascio a malincuore la stanza e anche gli altri visitatori non mancano di girarsi per dare un ultimo sguardo all’incanto di quelle ragazze. La grande basilica, segno dell’enorme ricchezza e potenza del suo proprietario, con i suoi preziosi marmi, con le sue colonne e la grandiosità delle sue proporzioni, mi fa venire voglia di ricominciare il giro daccapo. Ma… si sa! Il tempo è tiranno. E quando scorre felicemente, sembra diventare più breve.Guardo l’orologio. No, non posso rifare il giro. Ho giusto il tempo di ripassare da Piazza Armerina, la bianca e nobile cittadina nel cuore della Sicilia, ricca di storia e di tradizioni. Mi avvio verso l’uscita, la musica al bar continua con “ciuri ciuri” e sembra darmi l’arrivederci. Brunella Li Rosi Qui domina il bianco sullo sfondo del mosaico, forse per non togliere nulla alla bellezza delle dieci figure femminili rappresentate. Otto di queste sono raffigurate nei giochi e nello sport e ognuna di loro indossa un bikini. In questa stanza, ho la sensazione che l’artista abbia di proposito voluto evitare l’uso dei colori forti per non distrarre l’occhio dalla bellezza dell’atteggiamento e dalla regalità dei corpi torniti, che hanno davvero dello straordinario. Qualsiasi elemento o colore di troppo avrebbe disturbato la rappresentazione del movimento sportivo, della grazia e della bellezza di cui quelle donne sono l’emblema. Attrezzi ginnici, bikini, sguardo che scruta sicuro e lontano. Si stavano divertendo e non avevano nulla Pubblicato su Storie 10 Suoni di luce Poesie di primavera Io non ti do il mio amore Ti scorgo incedere con passo regale Dalla fessura della porta socchiusa. E s'inchioda al tuo viso Lo sguardo mio. E d'incanto i miei pensieri S'involano sulla spiaggia d'inverno, Con la deserta sabbia sferzata Dal gelido maestrale, Dolce Pelagia che vieni dal mare. E gli austeri, mutevoli fronti Di ostili cumulo-nembi A presidiare declivi l'orizzonte. I gabbiani scomparsi Sul placido pelago Proiettano i loro contorni spettrali Sulle schiume maestose Fruscianti in lontananza E nelle membra mie S'avverte il tumulto D'un'emozione inedita, Dai contorni indistinti, Perché si disperde Nei più remoti anfratti dell'Universo, E mentre armonici suoni di luce S'insinuano, flettendosi sinuosi, Nella mia logora mente, Tu, mio unico, incomparabile bene, Novella Aracne dal dolce sorriso, Cospargi di frammenti di rugiada La tua geometrica trappola di seta... Io non ti do il mio amore come fanno le altre ragazze, in uno scrigno freddo d'argento e perle, né ricco di gemme rosse e turchesi, chiuso, senza chiave; né in un nodo, e nemmeno in un anello lavorato alla moda, con la scritta “semper fidelis”, dove si nasconde un'insidia che ottenebra il cervello. L'Amore a mano aperta, questo solo, senza diademi, chiaro, inoffensivo: come se ti portassi in un cappello primule smosse, o mele nella gonna, e ti chiamassi al modo dei bambini: “Guarda che cos'ho qui! - Tutto per te”. Edna St. Vincent Millay (su segnalazione dell’amico Angelo Guarnieri) Ricardo Reis – Ode Per essere grande, sii intero: non esagerare E non escludere niente di te. Sii tutto in ogni cosa. Metti tanto quanto sei Nel minimo che fai. Come la luna in ogni lago tutta Risplende, perché in alto vive. Fernando Pessoa Pierluigi Camboa Nessun uomo è un'isola, intero per se stesso; Dall'uovo di Pasqua Ogni uomo è un pezzo del continente, parte della Terra intera; e se una sola zolla vien portata via dall'onda del mare, qualcosa all'Europa viene a mancare, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o la casa di un uomo, di un amico o la tua stessa casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io son parte vivente del genere umano. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te. è uscito un pulcino di gesso arancione col becco turchino. Ha detto: "Vado, mi metto in viaggio e porto a tutti un grande messaggio". E volteggiando di qua e di là attraversando paesi e città ha scritto sui muri, nel cielo e per terra: "Viva la pace, abbasso la guerra". John Donne Gianni Rodari 11 che fa da sfondo alla dottrina ed ai rituali di tutte le religioni del mondo; il credere in una realtà essenziale nascosta dietro le apparenze, fornisce una naturale razionalità all'arte astratta di entrambi i due Artisti. Nell'anno 2003 a Montecarlo, nella zona del porto antico, sponsorizzato dai Cantieri Riva,l'artista ha ricevuto per l'occasione encomio non solo dalla Stampa ma anche da la critica transalpina. Dice di sé stesso l'artista: "La fortuna dell’artista è data non tanto dai critici, ma dal pubblico, che ha deciso di seguirlo nel suo cammino. E sempre quello stesso pubblico, che può fare di lui ciò che vuole, portarlo alla fortuna come alla disgrazia. L’umiltà sta sempre alla base del suo successo. Dobbiamo però qui dirci, che prima di essere fermamente convinti di poter riprodurre un’opera apparentemente infantile, o qualsivoglia bècera, o marginale che si provi a farla! Ci si renderà conto che non è poi così facile.” DARIO BOSANO Altre esposizioni importanti sono state a Racconigi (CN) presso il circolo culturale "IL QUADRATO MAGICO", a Savona presso Villa Cambiaso. Degna di nota é stata l'unica collettiva alla quale ha partecipato; svoltasi a Santa Teresa di Gallura. Un suo quadro é stato esposto persino nella sede della Guardia Costiera di Savona. Un omaggio all'amico Comandante della Marina Militare Felicio Angrisano. In occasione della vittoria del campionato mondiale di calcio nel 2006 ricevette dal Sindaco di Albissola Marina il prestigioso incarico di eseguire una scultura che verrà sistemata sul territorio comunale. Dario Bosano debutta a Savona e in Liguria con le sue prime espressioni fatte con la creta. In seguito inizia un lungo percorso con la pittura prevalentemente astrattistica chiamata CROMATISMO. A Savona presso Villa Cambiaso durante una collettiva viene a conoscenza della poetessa e scrittrice savonese Franca Maria Ferraris , la quale elogiando il lavoro da lui svolto così lo definisce. "Dario Bosano si esprime in una duplice produzione artistica, quella di ceramista e quella di pittore. Un denominatore comune di entrambe le produzioni é la visione di una società contemporanea dove l'uomo é strappato a sé stesso e condotto verso stili di vita che non gli appartengono e che mai saranno in grado di appagarlo. Nella sua pittura abbiamo la visione di questo intriso di ostacoli e difficoltà, dove l'inquietudine interiore scuote l'artista per condurlo alla realizzazione di un'arte ricca di suggestioni in cui anche e soprattutto il CROMATISMO racconta ciò che sente e tocca i più diversi timbri del colore, resi in movimenti precisi. Le tinte divengono le leve stesse della passione e danno alle tele slanci ed aperture eccitanti. Osservando le opere di Bosano, lo spettatore è particolarmente disorientato dal modo in cui usa la linea: tanto come elemento indipendente, quanto come limite per il colore." Aggiunge ancora Franca Maria Ferraris: un altro legame che vedo tra lui e Kandinsky è la relazione con la Teosofia, intesa come la verità fondamentale Stiamo organizzando la mostra delle opere di Bosano presso la Sala Mostre della Provincia di Savona; maggiori informazioni al prossimo numero. 12 21 marzo 2014 PILLOLE DI CINEMA GIORNATA NAZIONALE ANTIMAFIA Qualche tempo fa, durante un’intervista concessa a una rete televisiva francese, Jean-Luc Godard ebbe a dire che la differenza fra il cinema e la televisione è semplicissima: al cinema – osservava il maestro della nouvelle vague – i personaggi proiettati sullo schermo sono molto più grandi di noi, mentre quando appaiono su qualunque teleschermo domestico gli stessi personaggi sono inevitabilmente più piccoli di noi. Come dire: sullo schermo del cinema il volto dell’uomo diventa “più grande della vita”, assume dimensioni e proporzioni inconsuete, si fa mondo e paesaggio, mentre sul monitor di qualsiasi Tv – anche su un flat screen al plasma o ai cristalli liquidi – quello stesso volto rimpicciolisce e raggrinzisce, viene in qualche modo addomesticato, perde ogni possibilità di sorprenderci e si mimetizza tra le tante, insignificanti apparizioni del quotidiano. Se il Novecento ha scoperto il volto dell’uomo, se lo sguardo collettivo è scivolato dolcemente su quello che Roland Barthes definiva il “viso di neve” di Greta Garbo o sulla “faccia infarinata” di Charlot, se si è perso tra le ciglia di Marylin (almeno prima che Andy Wahrol facesse del suo volto l’analogo di una lattina di minestra Campbell) o negli occhi liquidi ed acquosi di James Dean, il merito è tutto del grande schermo. E di quel dispositivo della visione che ci ha consentito di vedere il volto in primo piano come mai nessuno aveva potuto vederlo prima che il cinema fosse inventato: non a teatro (dove il volto è condannato ad essere il supporto di una maschera o è impedito a farsi elemento di significazione dalla distanza percettiva che lo separa e lo allontana dal pubblico), non in un’immagine fotografica o in un ritratto pittorico (dove il volto appare inevitabilmente paralizzato in un’immobilità statuaria che gli conferisce la solennità della posa), ma neppure – e tanto meno – nell’esperienza percettiva della vita. E’ bene ribadirlo con forza: il primo piano non fa parte delle nostre naturali modalità di percezione visiva del mondo. Prima del cinema il nostro sguardo era condannato a una visione continua e senza stacchi e poteva anche provare ad avvicinarsi a un volto, ma con l’effetto inevitabile di alterare le proporzioni, di distorcerle, di deformarle. Con il cinema cambia tutto: perché il cinema – come scrisse già negli anni Quaranta il teorico ungherese Béla Balàzs – strappa il “velo della consuetudine” e diventa, grazie al montaggio, lo spartito visivo della vita. Savona, ancora una volta, si è mobilitata al fianco di Libera. La manifestazione cittadina ha preso il via alle 9 da piazza Eroe dei due Mondi (Prolungamento), per concludersi, dopo un corteo per le vie cittadine (Corso Italia, Via Mentana, Piazza Saffi, Via Boselli, Piazza Mameli, Via Paleocapa, Corso Italia), in piazza Sisto IV con la lettura alle 10.30 dei nomi delle 900 e più vittime delle mafie. Oltre mille gli studenti e i giovani che hanno attivamente partecipato al tema scelto da Libera per quest’anno: “Radici di Memoria, frutti d’impegno”. Arrivati in piazza con veri e propri frutti, da loro realizzati con materiale a libera scelta,che rappresentano la memoria per una vittima o un impegno da prendere. Sui frutti erano scritti un nome, una frase, per rappresentare ciò che si ritiene importante. La piazza si è riempita così di frutti colorati di vita e di impegno con il quale ciascuno ripartirà per continuare il percorso. “Savona anche in quest’occasione ha offerto alla città e al territorio un momento di riflessione su un tema delicato come quello della lotta alle mafie – come dichiarato dall’assessore alla Cultura e Politiche Giovanili Elisa Di Padova – ma anche una preziosa occasione di condivisione di ideali e valori come quelli ispirati alla legalità.” Un corteo colorato, gioioso, composto in gran parte da giovani è il modo più efficace per dire no alle mafie e alla criminalità. I frutti dell’impegno sono le azioni quotidiane, i piccoli gesti che ciascuno di noi è chiamato a fare. A noi piace ricordare questo impegno così : 13 L’invenzione del primo piano è insomma, a tutti gli effetti, un artificio: uno strappo, una rottura, secondo alcuni addirittura uno stupro alla fisiologia della visione. E tuttavia quello “stupro” – così totalmente macchinico, ma anche così totalmente e teneramente umano – contiene in nuce l’epifania del mondo. Per lo meno, del mondo (e dei mondi…) che si esprimono attraverso il volto. Ancora Godard: “L’origine del primo piano è nelle immagini dei re sulle monete”. In un lapidario passaggio delle sue Histoire(s) du cinéma, Godard ci ricorda che l’invenzione del primo piano risale all’economia (e alla numismatica) prima che all’estetica o alla fisiognomica. C’è sempre qualcosa di impudico nell’offrire il proprio volto a un primo piano: c’è la presunzione che esso abbia in sé qualcosa che merita di essere guardato, amato, venerato, forse perfino eletto (si pensi all’uso dei primi piani nella cartellonistica elettorale…). Eppure. Eppure, il cinema ci ha fatto scoprire volti di re e di potenti, ma anche di losers e barboni. Quello del cinema è un primo piano democratico: è al servizio di tutti, e disegna una cartografia che non è quasi mai legata al feticismo del potere. Fin dalle origini, anzi, lo sguardo del cinema ha disegnato sullo schermo tavolozze di volti diversi: volti-ombra, volti-notte, volti-luce. E poi visi d’acqua, visi di terra, visi di cielo. Paesaggi, appunto: che contengono al proprio interno e svelano allo sguardo una vera e propria mimica dei sentimenti e una fisiognomica delle passioni. Vedendo un volto isolato, scrive Béla Balàzs, ci troviamo all’improvviso soli, a quattr’occhi con quel volto. E possiamo instaurare con lui una relazione caratterizzata da un’intimità, una vicinanza e una complicità in precedenza impensabili… Gianni Canova RICETTA PASQUALE Il "tegame pasquale di Aragona" è un elaborato primo piatto pasquale di tale città isolana compresa nella provincia di Agrigento. Gli ingredienti richiesti sono: 800 gr di rigatoni, 16 uova battute, 600 gr di tuma a fettine, 150 gr di pecorino stagionato grattuggiato, un pizzico di cannella pestata, brodo di pollo, una bustina di zafferano sciolto nel brodo, 8 fette di pane raffermo, prezzemolo abbondante, sugna, sale, pepe. Sono facoltative le polpettine cotte al ragù. I rigatoni vanno lessati in acqua salata, scolati al dente e sistemati in un tegame di terracotta umettato con lo strutto ed il cui fondo è ricoperto da 4 fette di pane raffermo. Su queste ultime vanno alternati strati di rigatoni e fettine di tuma e l'amalgama ottenuta unendo le uova battute, il prezzemolo trito, sale, pepe, il formaggio grattugiato, un pizzico di cannella e la bustina di zafferano sciolta in una tazza di brodo caldo. L'ultimo strato della pietanza è costituito dalle restanti fette di pane. Il tegame va riempito con il brodo caldo ed il tutto va cotto al forno. Il piatto richiede una cottura molto lunga a causa dell'ingente quantitativo di liquidi e per le abbondanti uova. La pietanza può esser arricchita anche dalle polpettine cotte al ragù e da fettine di uova sode. Va sfornata quando si presenta asciutta, ma non secca, e quando è ben compatta. ( per gentile concessione www.giannicanova.it) Donatella Finocchiaro Catania (quindi telefonatemi per tempo) 16-11-1970 14 Cavalleria Rusticana Cavalleria rusticana è stata pubblicata da Verga in Vita dei campi del 1880, raccolta di novelle che descrivono la vita contadina siciliana. La storia in sé viene raccontata quasi interamente attraverso il dialogo dei suoi personaggi: Lola, Turiddu (amante di Lola), Alfio (marito di Lola), Santa (amante respinta da Turiddu) e Nunzia (la madre di Turiddu). Sotto la spinta dell'attrice Eleonora Duse, Verga ha adattato la storia per il teatro, raddoppiando la sua lunghezza ed elaborando la trama. Santa diventò Santuzza e le affidò un carattere molto più centrale di quanto lo era nel racconto. Scena Settima :Santuzza e Turiddu. Duetto TURIDDU (irato) Ah! lo vedi, che hai tu detto?... SANTUZZA L'hai voluto, e ben ti sta. TURIDDU (le s'avventa) Ah! perdio! SANTUZZA Squarciami il petto! TURIDDU (s'avvia) No! SANTUZZA (trattenendolo) Turiddu, ascolta! Insieme TURIDDU Va' SANTUZZA No, no, Turiddu, rimani ancora. Abbandonarmi dunque tu vuoi? TURIDDU Perché seguirmi, perché spiarmi sul limitare fin della chiesa? SANTUZZA La tua Santuzza piange e t'implora; come cacciarla così tu puoi? TURIDDU Va', ti ripeto va' non tediarmi, pentirsi è vano dopo l'offesa! SANTUZZA (minacciosa) Bada! TURIDDU Dell'ira tua non mi curo! (la getta a terra e fugge in chiesa) SANTUZZA (nel colmo dell'ira) A te la mala Pasqua, spergiuro! Per tutti noi invece Buona Pasqua Santuzzo 15
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