Invenzioni del prestatore di lavoro: sintesi dei profili giuridici Articolo 15.07.2014 (Davide Pugliese) Le conoscenze tecnico – specialistiche dei lavoratori subordinati hanno assunto una rinnovata centralità all’interno delle moderne organizzazioni aziendali. Tant’è vero che sempre più spesso la definizione dei ruoli aziendali, delle retribuzioni, e dei percorsi di carriera sono profondamente influenzati dal concretizzarsi delle capacità creative dei prestatori di lavoro, a discapito di rigidi modelli meramente gerarchici. Il Legislatore nazionale conscio della grande importanza dell’apporto inventivo del lavoratore al fruttuoso andamento dell’impresa ha inteso, pertanto, disciplinare dettagliatamente la materia delle invenzioni del lavoratore subordinato tramite gli artt. 62, 63 e 64, D.Lgs. 30/2005 (c.d. “Codice della Proprietà Industriale”) e l’art. 2590 Codice Civile. È ivi palese la volontà di contemperare le esigenze imprenditoriali ed i diritti del prestatore inventore, soggetto debole. Sommario • • • • Diritti morali Le invezioni del lavoratore subordinato Equo premio Premialità: breve analisi comparata Diritti morali Giova preliminarmente riportare che le disposizioni citate non definiscono la nozione di “invenzione”, scongiurando, in tal modo, la eccessiva rigidità di una normativa suscettibile di applicazione in un ambito in costante e veloce evoluzione. Tanto premesso, generalmente si ritiene che l’autore di un’invenzione sia il soggetto che individui la soluzione ad un problema tecnico irrisolto, ovvero qualifichi la stessa in modo innovativo, realizzando semplificazioni o nuovi accorgimenti a processi e strumenti preesistenti. Il “Codice della Proprietà Industriale” (C.p.i.) all’art. 63, D.Lgs. 30/2005 dispone, quale principio generale, che “il diritto al brevetto per invenzione industriale spetta all’autore dell’invenzione (…)”. L’autore, fino a prova contraria da fornire a mezzo della apposita procedura di rivendica, è il soggetto indicato come tale al momento della registrazione del brevetto. Trattasi della c.d. “presunzione relativa di paternità”, che diviene presunzione assoluta a seguito del decorrere del termine previsto per esperire l’azione di rivendica. Il brevetto, come noto, consente al soggetto indicato quale inventore la utilizzazione esclusiva del trovato per un determinato lasso di tempo, con tutto ciò che ne consegue per quanto concerne la titolarità dei diritti patrimoniali e morali. Nel caso in cui, però, l’invenzione venisse realizzata nell’ambito di un rapporto di lavoro, il Legislatore nazionale, a mezzo del combinato disposto degli art. 64, D.Lgs. 30/2005 e art. 2590 c.c., ha statuito una espressa eccezione alla regola generale, che comporta una netta scissione tra il c.d. “profilo morale” e quello “economico”. Ivi, invero, coesistono, in un complesso sistema di bilanciamento, il diritto morale del dipendente ad essere riconosciuto come autore del trovato (art. 2590 c.c.) ed il diritto del datore di lavoro allo sfruttamento economico dello stesso, salvo “equo premio” da corrispondere al prestatore inventore a fronte di determinati requisiti (art. 64, D.Lgs. 30/2005). Il C.p.i. specifica, inoltre, che “si considera fatta durante l’esecuzione del contratto o del rapporto di lavoro o di impiego la invenzione industriale per la quale sia stato chiesto il brevetto entro un anno da quando l’inventore ha lasciato l’azienda (…)”. Il “diritto morale” ad essere riconosciuto quale autore della scoperta, sancito dalla succitata disposizione del Codice Civile e confermato dalla legislazione speciale in materia, è inalienabile. Di conseguenza, all’atto della brevettazione del trovato il prestatore di lavoro interessato deve essere indicato quale autore dello stesso. In caso contrario, il datore incorrerebbe in una violazione dei diritti morali del lavoratore subordinato. Secondo parte della giurisprudenza di merito, il nominativo del soggetto autore dell’invenzione deve essere indicato, altresì, ogni qualvolta la stessa venga descritta dal punto di vista tecnico – scientifico. La dottrina maggioritaria specifica che tale onere non sarebbe previsto in ipotesi di diffusione del trovato a fini commerciali o pubblicitari (es. brochure). Da quanto sin qui riportato, è facilmente evincibile la tenue tutela dei diritti morali del dipendente. L’azienda, invero, potrebbe decidere di non brevettare il trovato, optando per la tutela garantita ai segreti industriali ex art. 98 del “Codice della Proprietà Industriale”, ovvero di omettere il nome dello scopritore, costringendo quest’ultimo ad intraprendere la via della tutela giudiziaria. Il lavoratore subordinato, però, non è privo di ulteriori mezzi di garanzia. Il sistema legislativo oggetto di analisi, invero, prevede un ulteriore istituto volto a contemperare i diritti delle parti, denominato “equo premio”. Le invezioni del lavoratore subordinato Prima di affrontare l’istituto dell’equo premio, giova esaminare ulteriormente il dettato dell’art. 64, D.Lgs 30/2005. La disposizione citata individua e disciplina tre differenti categorie di invenzioni: “invenzione di servizio” (comma I), “invenzione di azienda” (comma II) ed “invenzione occasionale” (comma III). Si ha invenzione di servizio ove l’attività inventiva venga compiuta in adempimento di un contratto, o di un rapporto, di lavoro che preveda la stessa quale oggetto, ed a tale scopo statuisca una specifica retribuzione. In questo caso i diritti derivanti dal trovato appartengono al datore di lavoro, salvo il diritto spettante al dipendente di esserne riconosciuto autore. Trattasi, invece, di “invenzione di azienda” ove, fermo restando quanto sopra in merito all’esistenza di un rapporto di lavoro, il contratto stipulato tra le parti non disponga un compenso a fronte dell’eventuale attività creativa. Nell’anzidetta ipotesi, il datore ha diritto all’utilizzazione esclusiva dell’invenzione, ma all’inventore, fatti salvi i cc. dd. diritti morali, spetta un equo premio da determinare in considerazione di alcuni fattori elencati dall’art. 64 C.p.i. La c.d. “invenzione occasionale”, infine, si realizza qualora il trovato non abbia nulla a che fare con le mansioni svolte dal lavoratore, ma rientri nel campo di attività dell’impresa. Solo in questo caso, al prestatore di lavoro spetteranno tutti i diritti, morali e patrimoniali, derivanti dalla scoperta, residuando in capo al datore di lavoro un diritto di opzione per lo sfruttamento industriale della stessa. Nonostante il testo delle disposizioni sia adeguatamente dettagliato, all’atto pratico il discrimine tra “invenzione di azienda” ed “invenzione di servizio” è risultato alquanto vago ed ambiguo. Tant’è vero che spesso i Giudici di merito e della Suprema Corte di Cassazione hanno dovuto ulteriormente precisare alcuni aspetti della norma, al fine di far fronte alle problematiche ingenerate dalle peculiarità dei singoli comparti industriali. Allo stato, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il discrimen risieda nella mancata previsione all’interno del contratto di lavoro di una specifica retribuzione quale compenso dell’attività inventiva. A tal fine non rileva che l’oggetto del contratto sia costituito anche dall’attività creativa, ove non sia stato contestualmente pattuito un compenso causalmente connesso alla stessa. Dal punto di vista probatorio, incombe sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che l’azienda ha versato ai lavoratori un corrispettivo in denaro per l’attività inventiva. Si rileva che la mera corresponsione di una somma superiore alla media dei lavoratori della categoria, o di cc. dd. “super minimi” non assolve il detto onere (Cass. Civ. 1285/2006). In virtù delle riportare precisazioni giurisprudenziali, la c.d. invenzione di azienda è caratterizzata da due elementi: realizzazione della stessa nell’esecuzione delle obbligazioni derivanti da un contratto di lavoro ed assenza di qualsivoglia retribuzione quale corrispettivo causalmente connesso. Per onere di completezza, giova riportare anche una risalente tesi minoritaria che individua il discrimine tra le invenzioni di cui al comma I ed al comma II dell’art. 64 C.p.i. nell’oggetto del contratto. Secondo tale teoria, si avrebbe invenzione di servizio ove il contratto di lavoro fosse finalizzato ad attività volte esclusivamente ad un risultato inventivo (es. ricerca e sviluppo). L’invenzione di azienda, invece, si realizzerebbe all’interno di un rapporto non esplicitamente finalizzato a tal risultato. A prescindere dalla difficoltà di individuare in sede pratica un siffatto elemento discretivo, la tesi maggioritaria, adottata in giurisprudenza, sembra meglio attagliarsi al testo della norma oggetto di analisi, valorizzando il contenuto dell’accordo tra le parti. Per evitare eventuali elusioni delle disposizioni, i Giudici di merito e di legittimità, in numerose decisioni, hanno statuito che il corrispettivo ex art. 64, comma I, C.p.i. deve essere specificatamene e causalmente connesso all’invenzione, e non meramente simbolico. In caso contrario, invero, l’azienda potrebbe andar esente dal pagamento del premio versando in favore del dipendente una somma irrisoria e non correlata al valore dell’attività creativa, ovvero qualificando unilateralmente ex post parte della retribuzione quale compenso dell’attività creativa. Alla luce di quanto sin’ora evidenziato, allo stato il datore di lavoro può discrezionalmente decidere di corrispondere ex ante ai dipendenti interessati una somma quale corrispettivo delle attività inventive, accettando il rischio che nelle more del contratto non si realizzi alcuna invenzione, ovvero, versare al prestatore di lavoro inventore un “equo premio”, ove ne sussistano i requisiti. Come vedremo, in quest’ultima ipotesi l’azienda potrebbe sostenere un esborso considerevolmente maggiore rispetto a quanto preventivabile nel caso in cui adotti la prima opzione. Equo premio Premesso quanto innanzi, è ora possibile analizzare l’istituto perequativo denominato “equo premio”. Trattasi di uno strumento giuridico atto principalmente alla tutela degli interessi economici del dipendente inventore ed al bilanciamento del rapporto in essere. Antecedentemente alla novella legislativa introdotta dal D.Lgs. 131/2010, gli operatori del diritto si sono a lungo interrogati sul ruolo del rilascio del brevetto quale requisito per il riconoscimento dell’equo premio. La giurisprudenza maggioritaria, partendo da una interpretazione restrittiva dei limiti alla corresponsione del premio, sosteneva che il rilascio del brevetto non ne fosse condicio sine qua non (Cass. Civ. 10851/1997). In caso contrario, invero, l’azienda avrebbe potuto eludere con semplicità il comma II dell’art. 64 C.p.i., sfruttando il trovato in regime di segretezza e rinunciando alla brevettazione dello stesso. Il D.Lgs. 131/2010 ha modificato il vecchio art. 64, adeguandolo a quanto sostenuto dalla giurisprudenza e chiarendo il dubbio interpretativo. Ad oggi, invero, il diritto all’equo premio sorge contestualmente allo sfruttamento dell’invenzione da parte dell’azienda, a prescindere dalle modalità di utilizzo: a seguito di rilascio del brevetto o in regime di segretezza ex art. 98 C.p.i. Nonostante il recente intervento del Legislatore, dubbi persistono in merito alla riconoscibilità di un compenso al lavoratore autore di una scoperta non brevettabile ex art. 2585 c.c., ma che apporti comunque maggiore utilità all’azienda. Negare in tali ipotesi al dipendente qualsivoglia compenso non sembra la soluzione corretta, ed ingenererebbe una ingiustificata lacuna nella complessiva tutela dello stesso. Tant’è vero che l’art. 4, L. 190/1985 assegna alla contrattazione collettiva di categoria la competenza a regolamentare la materia, avallando la tesi di coloro i quali sostengono anche in questa ipotesi la tutelabilità degli interessi del prestatore. Per quanto riguarda, infine, la quantificazione della somma di denaro che funge da equo premio, l’art. 64, comma II, C.p.i. individua alcuni fattori potenzialmente in grado di incidere su detto calcolo: importanza dell’invenzione; mansioni svolte dal dipendente inventore; contributo ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro; retribuzione percepita dal dipendente. In altre parole, il contesto in cui è stata concepita e realizzata l’idea incide sul calcolo dell’indennizzo in oggetto. Ciò nonostante, all’atto pratico le modalità di calcolo sono risultate alquanto complesse, ingenerando il rischio di una c.d. tutela a macchia di leopardo. I Consulenti Tecnici, invero, spesso hanno utilizzato formule matematiche differenti raggiungendo risultati considerevolmente discordi. Al fine di risolvere le criticità emerse, la giurisprudenza maggioritaria ha intrapreso la strada del trapianto normativo, adottando la c.d. “formula tedesca” con i dovuti adattamenti. Così facendo, i Giudici di merito hanno ritenuto il calcolo del premio, basato sui parametri previsti dalla normativa speciale tedesca, conforme alla normativa in oggetto, salvo personalizzazioni ed adattamenti da valutare caso per caso. Nonostante i numerosi dubbi interpretativi rilevati dagli operatori del diritto, i Giudici di legittimità hanno validato la suddetta operazione ermeneutica statuendo che: “la formula tedesca (…) è costituita da parametri che, se rigorosamente applicati, danno per risultato il prezzo dell’invenzione in conformità al diritto tedesco, e ben può essere applicata, con le limitazioni adottate nella specie (prudenza e moderazione), in conformità del nostro ordinamento, per il quale si deve tener conto, nella determinazione dell’equo premio, non del prezzo ma dell’importanza dell’invenzione.” (Cass. Civ. 2646/1990). Premialità: breve analisi comparata In conclusione del presente elaborato, è utile riportare sinteticamente le disposizioni in materia di invenzioni del dipendente di alcuni ordinamenti europei ed extraeuropei. Questo breve excursus è utile per comprendere come il contesto socio – economico possa influenzare la legislazione vigente. Le norme applicate nei mercati emergenti, inverno, predispongono un sistema maggiormente premiante in favore del dipendente inventore, al fine di incoraggiare e sostenere le attività di ricerca. Il Patent Act inglese, mutuando la disciplina nordamericana, nel caso in cui il lavoratore non sia stato assunto allo scopo di inventare, prevede la titolarità di tutti i diritti in capo all’inventore, anche qualora il trovato possa apportare vantaggi all’organizzazione aziendale. La normativa statunitense, invece, affianca all’ipotesi di cui sopra, quella del lavoratore assunto al precipuo fine di porre in essere attività inventive. In tal caso tutti i diritti appartengo al datore di lavoro. Di particolare interesse è la legislazione cinese, in quanto applicata ad aziende operanti in un mercato “liquido” ed in veloce sviluppo. Ivi è sempre prevista la ricompensa del lavoratore. Qualora, però, il premio non sia previsto contrattualmente l’inventore ha diritto ad un indennizzo suddiviso in due tranche, di cui la prima sarà calcolata sulla base del valore dell’invenzione, e la seconda valutando i profitti guadagnati, o presumibilmente guadagnabili, dall’azienda in virtù della titolarità dei diritti di sfruttamento. In Giappone, infine, in linea generale il datore di lavoro ha diritto solo ad una licenza gratuita sul trovato, sfruttabile solo nei limiti dell’oggetto sociale o degli scopi aziendali. Qualora, il dipendente dovesse decidere di concedere alla controparte una licenza esclusiva, avrà diritto ad un equo compenso. Il premio straordinario, parametrato al valore commerciale dell’invenzione ed al grado di autonomia delle attività creative, può raggiungere livelli considerevoli, come dimostrano recenti casi giurisprudenziali (“Caso LED”). (Altalex, 15 luglio 2014. Articolo di Davide Pugliese) / invezioni / prestatore di lavoro / Davide Pugliese / ( da www.altalex.it )
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