УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. Francesco Braschi (Biblioteca Ambrosiana, Milano) LA KOINONIA/COMMUNIO NEGLI SCRITTI DI AMBROGIO DI MILANO: UN DONO DA COSTRUIRE, UNA GRAZIA DONATA Introduzione Il tema della communio‐koinonia è particolarmente significativo negli scritti di Ambrogio di Milano, vescovo e pastore sempre fedele alla retta fede del Concilio di Nicea in un’epoca nella quale le divisioni e le lacerazioni prodotte dalla crisi ariana e dalle ingerenze del potere imperiale nella vita della Chiesa erano particolarmente drammatiche. In tale contesto, l’attività di Ambrogio a difesa dell’ortodossia non fu mai disgiunta dall’attenzione a ricostruire e a mantenere la comunione ecclesiale, nonostante le accuse dei suoi detrattori. Così, ad esempio, benché gli ariani da lui sconfitti al Concilio di Aquileia nel 381 lo accusassero di sbrigativa crudeltà nel giudicare senza misericordia vescovi a loro avviso ricchi di una lunga vita di fede e di pietà, (Palladius Ratiarensis ‐ Schol. ariana in conc. Aquileiense: Palladi fragmenta [SChr 267, 300]): Infine di’, reverendissimo, quale disonore hai visto nello stile di vita, quale errore nelle parole, quale eresia nella professione della fede, riguardo ai quali ti è stato possibile ‐ in base alle scritture ‐ dimostrarli colpevoli, a tal punto che ‐ mentre i concilii sono soliti protrarsi per molti giorni, affinché, grazie alla correzione che viene offerta con una assidua ammonizione, nessuno si allontani ferito da quella riunione spirituale ‐ tu, senza una lunga riflessione, in solo un’ora hai ritenuto che siano da sottoporre a giudizio persone il cui lungo episcopato ‐ irreprensibile, per quanto importa all’umana coscienza ‐ andrebbe ben oltre i tuoi anni licenziosi e inquinati. Infatti uno di costoro, dopo essere stato presbitero per undici anni, in quel momento da trentacinque anni era riconosciuto come vescovo. sappiamo da fonti autorevoli come Teofilo di Alessandria (Lettera a Flaviano di Antiochia, frammento 1, in: Severo di Antiochia, Lettere, libro VI [= CPG 7070], testo pervenutoci solo in traduzione siriaca, qui riportato da SAEMO 24/1, p. 213: “Ambrogio di felice memoria accolse quanti avevano ricevuto l’ordinazione da Aussenzio, suo predecessore a Milano”), che in più occasioni Ambrogio ebbe un atteggiamento di misericordia e accoglienza, preferendo la costruzione della comunione alla rigida applicazione delle norme disciplinari. Questo atteggiamento volto alla costruzione e al mantenimento dell’unità – in tutti i suoi sensi –, Ambrogio lo assunse e mantenne da vescovo, senza mancare di richiamarlo ai suoi interlocutori (fossero essi pure i soldati o i componenti le alte gerarchie dell’amministrazione imperiale e della nobiltà) nemmeno nelle circostanze più complesse e drammatiche, quale ad esempio il momento della successione a Teodosio dei figli Arcadio e Onorio (cf. De obitu Theodosii 6‐8): Un così grande imperatore si è allontanato da noi, ma non si è allontanato del tutto. Ci ha lasciato i suoi figli, nei quali dobbiamo riconoscerlo, lo vediamo e lo abbiamo presente. Non ci faccia impressione la loro età. La fede dei soldati è un'età perfetta per un imperatore; c'è una perfetta età, dove c'è una virtù perfetta. Le due cose sono reciproche, perché anche la fede dell'imperatore è la virtù dei soldati. Ricordate senza dubbio quali trionfi vi abbia procurato la fede di Teodosio. Quando per l'angustia dei luoghi e i bagagli dei portatori 1 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. l'esercito in marcia discendeva un po' troppo lentamente verso il campo di battaglia e sembrava che il nemico avanzasse a cavallo approfittando di quell'indugio nell'attacco, il principe balzò da cavallo e, avanzando da solo davanti all'esercito schierato, esclamò: «Dov'è il Dio di Teodosio?». Parlava così, ormai vicino a Cristo. Chi, infatti, avrebbe potuto pronunciare queste parole, se non chi sapeva di essere unito a Cristo? Con quella domanda fu di sprone a tutti, con il suo esempio li rese pronti a combattere. Era ormai senza dubbio avanti negli anni, ma sempre vigoroso nella fede. La fede di Teodosio fu dunque la vostra vittoria: la vostra fede sia la forza dei suoi figli. Ed è degno di nota che anche nell’esempio appena ricordato, laddove il contesto è quello della commemorazione funebre di un imperatore davanti a tutta la corte, ovvero un gesto che al significato religioso ne univa uno eminentemente politico (e cioè l’esortazione affinché l’esercito rinnovasse la sua fedeltà ai figli di Teodosio), la motivazione ultima dell’unità tra esercito e sovrani sia fondata sul duplice significato – religioso e profano – del termine fides e sulla prossimità/vicinanza di Teodosio a Cristo. Ma prima di giungere al significato cristologico della comunione abbiamo alcuni passi da percorrere: il contributo che vogliamo offrire, infatti, si propone di mettere in luce non tanto tutti i significati “dogmatico‐teologici” del termine communio in Ambrogio, bensì – piuttosto – il significato e il valore della communio all’interno dell’itinerario spirituale ed esistenziale del cristiano, in una prospettiva che fa riferimento al cammino di crescita nella fede proposto dal vescovo milanese ai suoi fedeli. Questa prospettiva – che, come abbiamo anticipato, non ha pretese di esaustività – ci sembra tuttavia plausibile perché poggia su una indicazione di cammino che è Ambrogio stesso a fornire nell’ultima opera a cui si dedicò prima della sua scomparsa, alla quale lavorava anche durante la malattia che lo condurrà alla tomba. Si tratta dell’Explanatio Psalmorum XII, una serie di omelie sui Salmi predicate in diversi anni, ma poi raccolte e rielaborate in prospettiva unitaria con l’intento di indicare una via di perfezione coincidente con l’imitatio Christi. I temi che si incontrano in questa raccolta di omelie sono ben rappresentativi della produzione ambrosiana e ad essa continuamente rimandano; tuttavia, hanno qui il pregio indubitabile dell’organizzazione sistematica dei contenuti e della compendiosità dei testi. Per questo motivo, pur non disdegnando il ricorso anche ad altre opere, sarà principalmente dall’Explanatio Psalmorum XII che attingeremo i testi di cui ci serviremo nel seguito dell’esposizione. 1. L’uomo, fatto per la comunione nella giustizia Nel commentare il versetto iniziale del Salmo 35 (che in latino suona: Dixit iniustus, ut delinquat sibi, in italiano: L’ingiusto ha parlato in modo da peccare a suo danno), Ambrogio introduce per la prima volta, nell’illustrazione dell’itinerarium uirtutis da lui proposto ai propri fedeli, un tema di capitale importanza per comprendere in quale modo egli imposti la questione legata alla natura sociale dell’uomo. Traendo infatti dal versetto salmico un insegnamento di carattere più generale, infatti, Ambrogio afferma: ExPs 35,6‐7 (passim) iniustus igitur et aliis inutilis et sibi noxius, iusti autem uita fructuosa aliis et sibi dulcis; dicit enim Salomon: fili, si sapiens eris tibi, sapiens eris et proximis; si autem malus euaseris, solus hauries mala (Pr 9,12). Aduertimus ergo, quia iustitia aliis est potius nata quam sibi; commune commodum, non suum spectat et alienum bonum pro suo ducit emolumento. beata et praeclara iustitia, cuius bonum omnibus proficit; ex uno plerumque proficiscitur atque ad omnes peruenit. iustus Dauid, qui parcebat inimico et 2 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. malebat innocentiam suam quam uitam tueri, ne malo publico uindicaretur atque appetendi principis in malis quoque causis aliis exemplum ederet, cum ipse uindictam de insidiatore sumpsisset. iustus Abel, qui de ouibus suis, quas ei dominus dederat, primitias domino putauerit offerendas, et ideo plus placuit deo, quia moram non fecit, deuotionem probauit. sed hoc impius ferre non potuit iustitiae praeuaricator, radix iniquitatis, et ideo fratrem occidit, quia hostia eius deo magis quam oblatio sua fuerat comprobata. sed ille occisus deo loquebatur in uoce sanguinis sui, hic uiuus a facie domini repellebatur et, cum adhuc a domino poena cessaret, torquebat eum suorum conscientia peccatorum. L'ingiusto quindi è inutile agli altri e nocivo a se stesso, mentre la vita del giusto è fruttifera per gli altri e dolce per se stesso. Dice infatti Salomone: Figlio, se sarai sapiente per te, lo sarai anche per il tuo prossimo. Ma se arriverai al male, sarai il solo a subirlo. Possiamo notare dunque che la natura della giustizia è di aprirsi agli altri più che di rinchiu‐ dersi in sé. Ha di mira il bene comune, non il proprio, e considera proprio guadagno il bene altrui. Beata e magnifica è la giustizia. È un bene che cerca il vantaggio di tutti: il più delle volte parte da uno e raggiunge tutti. Giusto era Davide, che risparmiava il suo nemico e preferiva custodire la sua incolpevolezza piuttosto che la vita. Non voleva vendicarsi a danno degli altri né con la sua vendetta verso il suo persecutore, offrire agli altri un esempio di ribellione nei confronti del sovrano, anche magari per motivi ingiusti. Giusto era Abele, che ritenne di dover offrire al Signore le primizie del gregge, che il Signore gli aveva dato. E tanto più fu gradito a Dio, quanto meno indugiò nel dare prova della propria fedeltà. Ma non lo poté soffrire l'empio trasgressore della giustizia, la radice dell'ingiustizia, e uccise il fratello proprio perché la vittima di quello aveva ottenuto il riconoscimento divino più della sua offerta. Ma Abele ucciso parlava a Dio con la voce del suo sangue e Caino vivo era cacciato dal cospetto del Signore e, quand'anche il Signore ponesse termine alla punizione, lo tormentava il rimorso dei suoi peccati. Sono due gli aspetti di questo brano che ci mostrano in qual modo Ambrogio ponga la questione della comunione: ‐ innanzitutto, notiamo che la questione della socialità dell’essere umano si pone non come una questione astratta e filosofica, ma come il riconoscimento di un dato di fatto che assume un carattere fondativo della stessa vicenda umana, come dimostra il riferimento a Caino e Abele; ‐ in secondo luogo, il riconoscimento della comunione nel bene, dell’esistenza di un bene comune, caratterizza nativamente il sorgere della moralità dell’uomo: al dato di fatto dell’esistenza dell’altro si collega la percezione dell’intreccio delle esistenze come questione fondamentale per la concezione della iustitia, che immediatamente si caratterizza non solo come “virtù regolatrice” di rapporti basati sulla distinzione e la distanza, bensì primariamente come una “cura per il bene dell’altro”. Questi concetti, appena accennati nell’ExPs 35, si trovano con assai maggiore sviluppo e sistematicità in un’altra opera che possiamo annoverare tra le più importanti di Ambrogio, ovvero il de officiis ministrorum. Si tratta di un’opera composita, che riunisce probabilmente omelie o, meglio, istruzioni di Ambrogio al suo clero, e che riprende fin nel titolo, come è noto, un’opera di Cicerone che aveva come fine quello dell’educazione dei pubblici ufficiali deputati a svolgere un ruolo importante a livello civile statale. Sicuramente Ambrogio stesso aveva ampiamente conosciuto e utilizzato questo testo ciceroniano durante la sua formazione giovanile, quando si preparava a compiere tutto il cursus honorum della carriera di funzionario imperiale. Ancora più significativo, allora, è il fatto che dopo aver accettato il munus episcopale, Ambrogio abbia voluto comporre un’opera che riprende e rivisita in chiave profondamente cristiana le tematiche 3 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. ciceroniane: in queste pagine, infatti, il fitto confronto tra la filosofia “laica” di Cicerone e la novità evangelica non è mai scontato nei suoi risultati, poiché se in effetti il vangelo conduce ad un superamento delle logiche precedenti, nel de officiis ambrosiano si coglie un profondo senso di rispetto per il ruolo “pedagogico” svolto dai maestri pre‐cristiani. Al capitolo 28 del libro I del de officiis, infatti, troviamo un ampio passo che inizia proprio affermando la connessione tra la giustizia e la societas generis humani, ma che presenta poi degli sviluppi decisamente interessanti: 130 Iustitia igitur ad societatem generis humani et ad communitatem refertur. Societatis enim ratio diuiditur in partes duas: iustitiam et beneficentiam quam eamdem liberalitatem et benignitatem uocant; iustitia mihi excelsior uidetur, liberalitas gratior; illa censuram tenet, ista bonitatem. 131 Sed primum ipsum quod putant philosophi iustitiae munus apud nos excluditur. Dicunt enim illi eam primam esse iustitiae formam ut nemini quis noceat nisi lacessitus iniuria; quod Euangelii auctoritate uacuatur; uult enim Scriptura ut sit in nobis spiritus filii hominis qui uenit conferre gratiam, non inferre iniuriam. 132 Deinde formam iustitiae putauerunt ut quis communia, id est, publica pro publicis habeat, priuata pro suis. Ne hoc quidem secundum naturam: natura enim omnia omnibus in commune profudit. Sic enim Deus generari iussit omnia ut pastus omnibus communis esset et terra ergo foret omnium quaedam communis possessio. Natura igitur ius commune generauit, usurpatio ius fecit priuatum. Quo in loco aiunt placuisse stoicis quae in terris gignantur, omnia ad usus hominum creari; homines autem hominum causa esse generatos ut ipsi inter se aliis alii prodesse possint. 133 Vnde hoc nisi de Scripturis nostris dicendum adsumpserunt? Moyses enim scripsit quia dixit Deus: "Faciamus hominem ad imaginem nostram et secundum similitudinem et habeat potestatem piscium maris et uolatilium caeli et pecorum omnium repentium super terram (Gn 1,26)". Et Dauid ait: "Omnia subiecisti sub pedes eius, oues et boues, uniuersa insuper et pecora campi, uolucres caeli et pisces maris (Sal 8,8‐9)". Ergo omnia subiecta esse homini de nostris didicerunt et ideo censent propter hominem esse generata. 130. La giustizia si riferisce alla società e comunità del genere umano. La natura del vincolo sociale presenta due aspetti, la giustizia e la beneficenza, che chiamano anche liberalità e generosità. La giustizia mi sembra più elevata, la generosità più gradita; quella fa valere la severità, questa la bontà. 131. Noi però escludiamo proprio quello che i filosofi considerano il primo compito della giustizia. Essi dicono, infatti, che la prima norma della giustizia sia di non nuocere a nessuno se non provocati da un'offesa; orbene questa norma è annullata dall'autorità del Vangelo che esige in noi lo spirito del Figlio dell'uomo, venuto a comunicare la grazia, non a recare offesa. 132. In secondo luogo, ritennero norma di giustizia stimare i beni comuni, cioè pubblici, come pubblici e quelli privati come di proprietà personale. Nemmeno questo è secondo natura perché la natura ha profuso tutti i suoi doni indistintamente per tutti. Dio comandò che tutto fosse prodotto in modo che il cibo fosse comune a tutti e la terra fosse, in un certo senso, proprietà di tutti. La natura, dunque, ha creato il diritto comune, l'uso ha costituito il diritto privato. A questo proposito dicono che gli stoici sostenessero che tutte le cose generate sulla terra sono prodotte per gli usi degli uomini e che gli uomini, a loro volta, sono generati per i loro simili, per potersi cioè aiutare vicendevolmente. 133. Donde, se non dalle Scritture, gli stoici, attinsero queste dottrine per il loro insegnamento? Mosè infatti scrisse che Iddio aveva detto: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza, ed egli abbia potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sugli animali domestici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra (Gn 1,26). E Davide disse: Tu hai posto sotto i suoi piedi pecore e buoi tutti, inoltre gli animali della campagna, gli uccelli del 4 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. cielo e i pesci del mare (Sal 8,8‐9). Essi perciò appresero dai nostri che tutte le cose sono state sottoposte all'uomo, e quindi ritengono che siano state prodotte per l'uomo. Dopo aver affermato che la societas generis humani e la communitas hanno come virtù di riferimento la iustitia, Ambrogio affianca immediatamente a quest’ultima la beneficentia, ripresentando in questo modo il binomio già visto nel commento al Salmo 35. Questo ampliamento riveste un’importanza tutt’altro che secondaria, dal momento che Ambrogio lo opera con lo scopo di ridefinire radicalmente il significato della iustitia, arrivando a correggere lo stesso testo di Cicerone. Costui, infatti, aveva scritto che “il primo compito della giustizia è che nessuno faccia del male a un altro, se non dopo essere stato provocato da un’offesa” (Cic. de officiis I,7,20: sed iustitiae primum munus est ut ne cui quis noceat nisi lacessitus iniuria…, citato quasi letteralmente da Ambrogio de officiis I,28,131), mentre il vescovo dichiara che tale norma è “resa vuota”, annullata dall’autorità del vangelo, “che esige in noi lo spirito del Figlio dell’uomo, venuto a comunicare la grazia, non a recare offesa”. Ma vi è anche un secondo punto in cui Ambrogio opera una ridefinizione della definizione “classica” ciceroniana di giustizia, una definizione (nelle due parti che stiamo delineando) che avrà poi una grande fortuna, poiché sarà ripresa da Giustiniano nelle Digesta seu Pandectae (Dig. 1.1.10.1, Ulpianus 1 reg.: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere): se infatti nel de officiis di Marco Tullio la frase appena citata continuava affermando che è compito della giustizia “in secondo luogo che si usi dei beni pubblici come pubblici, ma di quelli privati come propri” (Cic. de officiis I,7,20: … deinde ut communibus pro communibus utatur, privatis ut suis, citato ad sensum da Ambrogio de officiis I,28,132), Ambrogio afferma che tale norma non è secundum naturam, giacché la natura stessa ha profuso tutti i suoi doni come realtà a disposizione di tutti (natura enim omnia omnibus in commune profudit), e ciò in conseguenza di una disposizione divina volta a fare della creazione “una sorta di possesso comune” (quaedam communis possessio). Le stesse nozioni di proprietà e di diritto privato, pertanto, sono secondo Ambrogio (ma su questo possiamo ritrovare ampie consonanze in altri Padri della Chiesa come S. Basilio Magno ‐ cf. ad esempio: Omelia su Luca: «Distruggerò i miei granai»: “Dimmi, che cos'hai di tuo? Dove l'hai preso per portarlo in questa vita? Immagina che un tale, andando a teatro, occupasse la platea, e poi volesse tenerne fuori gli altri, pretendendo che debba appartenere a lui solo quello che è a disposizione di tutti. Così appunto fanno i ricchi: di quei beni che sono comuni s'impadroniscono per primi, e perché li hanno occupati prima li considerano propri”) non elementi “naturali”, bensì derivati e causati da una consuetudine (usurpatio) stabilitasi a seguito del peccato originale. La destinazione universale dei beni, peraltro, non è una concezione sostenuta unicamente dai Cristiani: Ambrogio, infatti, non manca di sottolineare (citando quasi alla lettera Cicerone, de officiis I,7,22: Sed quoniam… ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi…) come anche gli Stoici avrebbero ritenuto che “tutte le cose generate sulla terra sono prodotte per gli usi degli uomini” (Ambrogio, de officiis I,28,133: …aiunt placuisse stoicis quae in terris gignantur, omnia ad usus hominum creari); ma subito dopo aggiunge che tale nozione sarebbe giunta alla loro conoscenza per il tramite della Bibbia, dacché la si ritrova nel libro della Genesi e nel libro dei Salmi, che sono anteriori – quanto a composizione – alle opere dei filosofi. Questa affermazione, che a noi può suonare alquanto originale, non fa che riproporre la cosiddetta teoria dei furta graecorum, ovvero un locus communis risalente ai padri Apologisti (che a loro volta lo riprendono dall’apologetica giudeoellenistica: cf. la voce “Furto dei Greci” in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Marietti 1820, Milano‐Genova 2007, coll. 2024‐2026) in base al quale la filosofia e la sapienza greca deriverebbero dalle conoscenze acquisite da Platone durante la sua permanenza in Egitto, allorquando sarebbe venuto a 5 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. conoscenza della sapienza d’Israele che Mosé, secoli prima, aveva rivelato ai sacerdoti egiziani. Ma a noi interessa notare come Ambrogio, al di là delle ipotesi di maggiore antichità (e quindi di maggiore autorevolezza) non abbia alcuna difficoltà a far dialogare i principi di filosofia del diritto propri della cultura greco‐romana con la concezione della Bibbia, che egli ritiene pienamente legittimata a sostenere un tale confronto. Ma questa annotazione di metodo – sulla cui importanza diremo qualcosa in sede di conclusione – non deve impedirci di proseguire nell’analisi del testo ambrosiano, che ci riserva ancora degli aspetti di sicuro interesse. 2. Una communio non solo dei beni, ma che investe tutto l’uomo. La valutazione ambrosiana della consonanza tra la concezione stoica e la dottrina biblica non si limita al tema, appena visto, della comune destinazione dei beni, ma si allarga a comprendere il fine stesso dell’esistenza dell’uomo. La citazione del de officiis ciceroniano fatta da Ambrogio al c. 28 della sua omonima opera, infatti, prosegue aggiungendo che “gli uomini, a loro volta, sono generati per i loro simili, per potersi cioè aiutare vicendevolmente” (cf. Ambrogio, de officiis I,28,133: …aiunt placuisse stoicis quae in terris gignantur, omnia ad usus hominum creari; homines autem hominum causa esse generatos ut ipsi inter se aliis alii prodesse possint), e anche in questo caso il vescovo riscontra la corrispondenza con questa affermazione di quanto si legge in Gn 2,18 (“Non è bene che l’uomo sia solo; facciamogli un aiuto simile a lui”), spingendosi tuttavia più avanti quando afferma: 135 Ergo secundum Dei uoluntatem uel naturae copulam, inuicem nobis esse auxilio debemus, certare officiis, uelut in medio omnes utilitates ponere et, ut uerbo Scripturae utar, adiumentum ferre alter alteri uel studio uel officio uel pecunia uel operibus uel quolibet modo ut inter nos societatis augeatur gratia; nec quisquam ab officio uel periculi terrore reuocetur, sed omnia sua ducat uel aduersa uel prospera… 136 Magnus itaque iustitiae splendor, quae aliis potius nata quam sibi, communitatem et societatem nostram adiuuat; excelsitatem tenet ut suo iudicio omnia subiecta habeat, opem aliis ferat, pecuniam conferat, officia non abnuat, pericula suscipiat aliena. 135. Secondo la volontà di Dio e il vincolo di natura dobbiamo esserci di reciproco aiuto, servirci a gara, mettere i nostri beni a disposizione di tutti e, per usare le parole della Sacra Scrittura, aiutarci a vicenda o con l'impegno personale o con i buoni uffici o con il denaro o con le opere o con qualsiasi mezzo, affinché cresca fra noi l'armonia del rapporto sociale. E nessuno sia distolto dal suo dovere, nemmeno dal timore di un pericolo, ma sia convinto che tutte le cose, sia buone che cattive, lo riguardano direttamente… 136. Grande pertanto è lo splendore della giustizia che, destinata agli altri piuttosto che a se stessa, sostiene la nostra comunità sociale ed è posta così in alto da avere ogni cosa soggetta al suo giudizio: soccorrere gli altri, offrire denaro, non rifiutare assistenza, affrontare i pericoli altrui. Fondamento ultimo della societas, dunque, per Ambrogio sono “uoluntas Dei uel naturae copulam”: da questa espressione composita possiamo riconoscere quanto unitaria sia la concezione della realtà che il vescovo milanese afferma, nella quale la socialità umana corrisponde alla natura dell’uomo quando essa si svolge conformemente al volere di Dio. Ciò significa che la comunanza tra gli uomini va ben oltre il semplice rispetto reciproco (che può assumere anche la forma della incomunicabilità distante e fredda) e nemmeno si esaurisce nella definizione dei rapporti economici, ancorché concepiti in termini di condivisione: per essere “naturale” e 6 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. coincidente con la volontà del Creatore, la convivenza tra gli esseri umani deve assumere la figura della gratia societatis, ovvero svilupparsi come una qualità essenziale e strutturante della persona, come un’assunzione di moralità che vede il pieno coinvolgimento di ogni individuo nella realtà e dunque un atteggiamento di totale responsabilità e di completa solidarietà con il suo tempo e i suoi simili. Questo atteggiamento sta alla base della communitas e della societas, e costituisce lo splendor iustitiae, così come Ambrogio lo ridefinisce, superando definitivamente la concezione ciceroniana, decisamente più limitata. A questa concezione virtuosa della giustizia – spiega più avanti Ambrogio: cf. de officiis I,28,137‐ 138 – si oppongono l’avarizia, che vede l’altro come qualcuno a cui strappare i beni e non con cui condividerli, e la brama di potenza (potentiae cupiditas), che sostituisce la responsabilità e la solidarietà con la volontà di dominio. Al contrario, afferma Ambrogio, la vera iustitia vale anche nei confronti dei nemici e la sua pratica si estende anche al tempo della guerra nel rifiuto di venire meno alla lealtà e alla parola data. Ma tutto questo non dipende ultimamente solo da uno sforzo moralistico da parte dell’uomo: la possibilità di praticare una simile giustizia, infatti, viene solo nel riconoscimento di Colui che ne è garanzia e fondamento, ovvero Cristo. Scrive infatti Ambrogio: 142 "Fundamentum" ergo "est iustitiae fides"; iustorum enim corda meditantur fidem; et qui se iustus accusat, iustitiam supra fidem collocat; nam tunc iustitia eius apparet si uera fateatur. Denique et Dominus per Isaiam: "Ecce, inquit, mitto lapidem in fundamentum Sion" (Is 28,16) id est Christum in fundamenta Ecclesiae. Fides enim omnium Christus; Ecclesia autem quaedam forma iustitiae est: commune ius omnium, in commune orat, in commune operatur, in commune temptatur; denique qui seipsum sibi abnegat, ipse iustus, ipse dignus est Christo. Ideo et Paulus fundamentum posuit Christum ut supra eum opera iustitiae locaremus quia fides fundamentum est: in operibus autem aut malis iniquitas aut bonis iustitia est. 142. Il fondamento della giustizia è la lealtà; il cuore del giusto medita pensieri di lealtà, e il giusto che si accusa fonda la giustizia sulla lealtà, perché la sua giustizia si manifesta quando confessa la verità. Anche il Signore per bocca d'Isaia dice: Ecco io colloco una pietra quale fondamento per Sion (Is 28,16), cioè Cristo quale fondamento della Chiesa. Cristo infatti è la fede di tutti; la Chiesa è, per così dire, la norma della giustizia, il diritto comune di tutti: insieme prega, insieme agisce, insieme è messa alla prova. Così chi rinnega se stesso, questi è degno di Cristo. Anche Paolo pose Cristo quale fondamento, affinché su lui fondassimo le opere di giustizia, poiché la fede è fondamento; nelle opere, se cattive, sta l'iniquità; se buone, la giustizia. Giocando infatti (e volutamente) sul doppio significato del termine fides, che in senso pre‐ cristiano significa “fedeltà”, “lealtà”, e in senso cristiano significa “fede”, Ambrogio riconduce la possibilità della giustizia e della fedeltà non a un principio astratto, bensì alla figura di Cristo, colto sia nel suo vissuto terreno di individuo pienamente fedele ai suoi fratelli uomini, sia nella sua qualità teologica di accadimento pieno e definitivo della fedeltà di Dio all’uomo e di autore della fede, così come essa viene vissuta nella Chiesa, definita esplicitamente quale forma iustitiae e luogo in cui si vive la pienezza della communio. Poche pagine più avanti, la ragione di questa definizione e la condizione di possibilità della Chiesa come luogo pienamente corrispondente al desiderio umano di giustizia e di comunione viene enunciata da Ambrogio con una serie di affermazioni che ribadiscono e rafforzano il riferimento a Cristo (de officiis 1,33,170): 7 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. 170. Augetur beniuolentia coetu ecclesiae, fidei consortio, initiandi societate, percipiendae gratiae necessitudine, mysteriorum communione. Haec enim appellationes necessitudinum, reuerentiam filiorum, auctoritatem et pietatem patrum, germanitatem fratrum sibi uindicant. Multum igitur ad cumulandam spectat beniuolentiam necessitudo gratiae. 170. La benevolenza è accresciuta dal ritrovarsi insieme nella Chiesa, dalla comunanza di fede, dal ricevere gli stessi Sacramenti dell'iniziazione, dal vincolo prodotto in tutti dall'infusione della grazia, dalla comune partecipazione ai misteri. Tutto ciò, viene a creare quei legami di parentela chiamati rispetto dei figli, autorità e amore dei padri, affetto tra fratelli. Molto contribuisce dunque ad accrescere la benevolenza il comune vincolo della grazia. La communio mysteriorum, ovvero la comune partecipazione all’Eucaristia, diviene il punto di partenza di una rinnovata possibilità di relazioni persino all’interno della famiglia, mostrando così come anche il senso dei legami cosiddetti “naturali” si trovi nella corrispondenza all’ordine della volontà divina, in base al quale ancora una volta si conferma la caratteristica di Cristo quale fundamentum di ogni relazione che voglia attingere alla pienezza dell’umanità e praticare un bene che non sia solo frutto di un volontaristico e temporaneo consenso tra individui. Possiamo quindi cogliere, al termine della nostra analisi di questi capitoli del de officiis ministrorum di Ambrogio, tutta l’ampiezza del percorso che il vescovo di Milano propone. Egli, entrando in dialogo con i fondamenti della cultura giuridica e dell’ordinamento sociale romano, propone una visione della comunione‐corresponsabilità tra gli uomini che si mostra da un lato pienamente capace di confronto con la ragione perseguita dalla stessa filosofia del diritto ciceroniana, ma nello stesso tempo “pretende” di essere necessariamente ricondotta non a principi immutabili e astratti, bensì alla considerazione di una vicenda personale, quella di Cristo, nella quale si rivela la pienezza di ciò a cui anela la percezione innata della comunanza di natura tra gli uomini. In questa visione teonomica della comunione si sostanzia la possibilità per gli individui di riconoscersi capaci di quella beniuolentia che non è semplicemente frutto di uno sforzo volontaristico sempre precario, ma che costituisce l’unica risposta oggettiva e realistica alla domanda sul perché della natura sociale dell’uomo, poiché si radica nella vita divinoumana di Cristo, e quindi nella volontà del Creatore. 3. La Chiesa congregata e peccatoribus: luogo di una communio che genera soggetti adulti e fecondi La proclamazione della Chiesa come luogo oggettivo e caratteristico per la pratica di una communio pienamente umana e corrispondente alla natura del soggetto non è, nel pensiero di Ambrogio, una semplice affermazione né indulge a posizioni trionfalistiche o irenistiche. Se infatti dal de officiis ministrorum ritorniamo ai commenti salmici da cui abbiamo preso le mosse per la nostra indagine, possiamo riconoscere nel pensiero del vescovo milanese sulla Chiesa alcuni tratti che chiaramente rivelano l’importanza della sua indefessa e diuturna pratica pastorale, ma che nello stesso tempo ci permettono di cogliere tutta la ricchezza del suo pensiero, saldamente ancorato alla realtà complessa (e a volte contraddittoria) del cammino della Chiesa. In particolare è il commento al Salmo 47 che più si occupa di questo tema, proponendo un insegnamento che riguarda la modalità di crescita nella fede all’interno della compagine ecclesiale. Vediamone un passo (ExPs 47,5‐7 passim): 8 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. 5. Mons Sion, latera aquilonis, ciuitas regis magni. deus in gradibus eius dinoscitur, cum suscipiet eam (Sal 47,3‐4). cur sit exultatio uniuersae terrae, euidenter expressit, quoniam dominus Iesus ecclesiam sibi ex peccatoribus congregauit. itaque qui erant ante latera aquilonis, id est socii et inhaerentes diabolo… facti sunt itaque mons Sion per gratiam Christi et baptismatis sacramentum… et quia Graecus montes dixit, hoc est rh, uide quomodo seruuli Christi montes sint, montes in circuitu eius (Sal 124,2), in quibus est ecclesia domini quae est ciuitas regis magni… Vide ne id quoque uideatur expressum, quia congregatio plebis dei, quae erat aquiloni coniuncta per culpam, ecclesia Christi est facta per gratiam… et quia reliquiae Iudaeorum per electionem gratiae saluae factae sunt (cf. Rm 11,5), in ipsis deus cognoscitur, in Petro Paulo Iohanne Iacobo, qui graues et excelsi uiri uelut fundamenta et culmina sunt ecclesiae… Monte di Sion, “fianchi” del vento del nord, città del grande re. Si coglie la presenza di Dio nelle sue balze, quando egli se ne farà carico (Sal 47,3‐4). È espresso qui con piena evidenza il motivo dell'esultanza di tutta la terra: il Signore Gesù si è chiamato a raccolta una chiesa tra i peccatori. E così, quelli che prima erano “fianchi” del vento del nord, cioè alleati e solidali del diavolo… sono diventati fedeli di Cristo. Sono essi quelli di cui si parla così: Gli uomini che ripongono la loro fede nel Signore, sono come il monte di Sion (Sal 124,1). Sono stati trasformati nel monte di Sion per opera della grazia di Cristo e del sacramento del battesimo… E, dato che il testo greco ha parlato di monti, al plurale, osserva come i servi di Cristo siano questi monti, monti che stanno intorno, su cui è posta la chiesa del Signore, che è la città del grande re… Fa' attenzione però che non risulti lì indicato anche il fatto che la raccolta del popolo di Dio, che era prima unito solidalmente al vento del nord a causa della colpa, si è trasformata in chiesa di Cristo tramite la grazia... E siccome il resto di Israele è stato salvato tramite l'elezione della grazia, in esso si può riconoscere la presenza di Dio: in Pietro, in Paolo, in Giovanni, in Giacomo, uomini solidi ed eminentissimi, che sono come il fondamento e il vertice della chiesa. Due sono i punti salienti di questo passo: ‐ in primo luogo Ambrogio dichiara che la ragione di esultanza di tutta la terra è il fatto che “il Signore Gesù si è chiamato a raccolta una chiesa tra i peccatori” (dominus Iesus ecclesiam sibi ex peccatoribus congregauit): viene così affermata sia l’origine cristologica della Chiesa, sia la sua coincidenza innanzitutto con un popolo di “peccatori graziati”, togliendo alla radice ogni velleità trionfalistica e indicando che la communio‐congregatio è nativamente frutto dell’amore di Cristo (il pronome contenuto nell’espressione “sibi congregauit” mostra tutta la pregnanza affettiva di questo dativo etico); ‐ in secondo luogo, viene affermato inequivocabilmente che la Chiesa è opera della Grazia (ecclesia Christi est facta per gratiam) che agisce attraverso i Sacramenti, e che la presenza di Dio in essa si riconosce proprio mediante la trasformazione in fundamenta et culmina ecclesiae di quanti – gli apostoli in primis – erano precedentemente “alleati e solidali del diavolo” (socii et inhaerentes diabolo): non vi è dunque una “societas hominum” che si possa definire “neutra” o “indifferente”: l’unica alternativa che si pone nella realtà è quella che sussiste tra una socialità fondata sull’opera della Grazia e sul riconoscimento della presenza di Cristo, e una “consorteria” segnata dal riferimento all’autore di ogni divisione. Ma anche all’interno della Chiesa, prosegue Ambrogio, non mancano le fatiche e le difficoltà del cammino, poiché la crescita della gratia societatis nei singoli è tutt’altro che automatica e 9 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. scontata: anche questa difficoltà, tuttavia, non è senza significato e senza valore, come ci testimonia questo passo (ExPs 47,10‐11 passim): Conferentes deinde, quanto certamine perueniretur ad finem, quantae contritiones iustorum, quantae sollicitudines, qualis aduersarius, quanta diuturno labore contentio, quantae amaritudines propositi seuerioris [praepositi erroris], quae uincula continentiae, quae conscientiae uerbera, non mediocriter conturbabantur, ne quis tantis uel laboribus uitae austerioris cederet uel doloribus. sunt enim ibi dolores acerbi et graues, id est in ecclesia, in illa ciuitate regis magni sunt dolores sicut parturientis (cf. Sal 47,7b; Ger 22,23), donec formetur Christus in nobis. neque enim sine dolore Paulus erat, cum uideret in Galatis insipientibus doctrinae suae tardiorem profectum, ideoque dicebat: filioli mei, quos iterum parturio, donec formetur Christus in uobis (Gal 4,19)… magnus ergo labor, ut aliquis sibi Christum adquirat, ne sine gubernatore quasi nauis in saeculi istius salo fluctuet. denique apostoli tristes erant, cum se Christus ad patrem rediturum esse memoraret, quod absente rectore destitui se putarent. gaudium Christus est, ipse est et puer, quem parturit qui in utero suae mentis accepit spiritum salutis. qui pepererit et enutrierit exultat, qui parturit quatitur atque compungitur. Bonum est ut et parias et enutrias eum… sic enim Christus est natus ex Maria, ut agnoscas eum, sicut bos agnouit possessorem suum (cf. Is 1,3), et scias quia ipse te creauit et maiores tuos ipse possedit. non eum quasi paruulum nutrias, sed quasi uerum atque perfectum deum ex uero et perfecto deo noueris adorandum… ideo eum Maria non parturiuit, sed peperit, quia et dominum et salutare sciebat ex se esse generandum… ibi ergo dolores sicut parturientis. dolor est ut parturias, dolor est ut enutrias quem in principio debes habere perfectum. Passavano poi in rassegna e valutavano la durata della lotta necessaria per raggiungere il traguardo, l'asprezza dei continui tormenti dei giusti, l'affollarsi delle preoccupazioni, la forza dell'avversario, le fatiche di una continua tensione, le grandi amarezze per i peccati commessi, le strette catene della continenza, le frustate del rimorso. Di fronte a tali prospettive, non piccolo era il loro turbamento, nel timore che qualcuno cedesse sotto il peso di tante fatiche, imposte da una vita così impegnativa, o di tanti dolori. Ché anche lì, cioè nella Chiesa, ci sono dolori acuti e duri; anche nella città del grande re ci sono dolori simili a quelli di una partoriente, fino a che non sia plasmato in noi Cristo. Non era esente dal dolore Paolo, quando vedeva che nella stoltezza dei Galati si faceva strada lentamente la sua dottrina, e perciò diceva: Piccoli figli miei, che io di nuovo partorisco fino a che Cristo non sia plasmato in voi (Gal 4,19)... Ci vuole dunque grande fatica per guadagnare Cristo, per non restare senza nocchiero in balia delle onde, come una nave nell'oceano di questo mondo. Così gli apostoli erano tristi, quando Cristo ricordava loro di essere sul punto di tornare al Padre, perché pensavano di essere diseredati nell'assenza della loro guida. Cristo è la gioia, è lui il bambino partorito da chi accoglie nel grembo della propria anima lo spirito di salvezza. Chi ha partorito ed allattato, può esultare. Chi sta partorendo invece, è nell'agitazione e nella sofferenza. È bene che tu lo partorisca e lo allatti... Cristo infatti è nato da Maria in modo da farsi riconoscere da te, come il bue ha riconosciuto il suo proprietario; e in modo che tu sappia che lui è il tuo creatore e il padrone dei tuoi antenati. Allora non nutrirlo come un neonato, ma riconoscilo e adoralo come Dio vero e perfetto da Dio vero e perfetto… Maria non lo partorisce, ma l'ha già generato, proprio perché ella era consapevole di dover generare il Signore e il Salvatore… Qui c'è il dolore come di chi partorisce. Il dolore è prima e in vista del 10 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. parto, il dolore è prima e in vista dell'allattamento. Del parto e dell'allattamento di uno che dovresti avere fin dall'inizio già sviluppato. Il passo si apre menzionando la preoccupazione di quanti svolgono nella Chiesa un ministero nei confronti di coloro che sono ancora agli esordi del cammino di fede. La difficoltà è infatti quella di non soccombere alle tentazioni e alle fatiche, compendiate nel rischio di rimanere in balia di una visione del mondo priva di un “nocchiero”, ovvero di chi possa saldamente “tenere la rotta” nell’”oceano di questo mondo”. La difficoltà risiede dunque nel mantenimento di una concezione della realtà dalla quale sia assente il principio dell’Incarnazione: l’unico “nocchiero” possibile per la barca della vita, infatti, è Cristo. Cristo, tuttavia, si “guadagna” (per usare l’espressione di Ambrogio) come presenza sicura per la propria vita, unicamente “partorendolo”, ovvero generandolo per altri, e non solo partorendolo, bensì “allattandolo” e facendolo crescere fino al completo sviluppo. Dietro questo linguaggio segnato dalla metafora della generazione, senza dubbio un poco inconsueto per noi, si nasconde un insegnamento ben preciso: Ambrogio, infatti, sta affermando che la maturità nella fede si ottiene solo accogliendo in tutta la sua portata la logica dell’Incarnazione. Ma questo avviene solo nel momento in cui si è disposti a riconoscere Cristo come unico fondamento della realtà comune e della propria storia personale (ut agnoscas eum… et scias quia ipse te creauit et maiores tuos ipse possedit), e dunque quando si rinuncia a immaginare l’esistenza di un altro “ordine” per l’esistente (sia pure solo nella dimensione sociale e politica), diverso da quello fondato su Cristo. La “verifica” dell’avvenuto “svezzamento” di Cristo nella propria vita di fede, secondo Ambrogio, è rappresentato da due fattori: la gioia e la fecondità apostolica, ovvero la missionarietà realizzata, sull’esempio di Paolo. Nulla di meno. Conclusioni Molto vi sarebbe ancora da dire, e siamo perfettamente consapevoli che la presentazione offerta costituisce solo un assaggio molto rapsodico della ricchezza dottrinale di Ambrogio. Tuttavia, siamo fiduciosamente certi che qualcosa di tale ricchezza sia emerso dai passi citati e commentati. Riteniamo per questo utile concludere con alcune osservazioni di carattere riassuntivo e che esprimono il tentativo di un giudizio capace di suggerire l’attualità della dottrina di Ambrogio. 1. Abbiamo potuto riconoscere come per Ambrogio la nozione di communio propria dei Cristiani ‐ che peraltro si pone con l’ambizione di ridefinire i concetti stessi di iustitia e di societas ‐ non possa mai essere solo orizzontale. La societas humani generis, lungi dall’essere una realtà puramente sociologica, trova la sua ragione e il suo significato solo quando si apre a riconoscere in Cristo la propria origine e il proprio fundamentum. 2. La communio dei cristiani, che si esprime nella ecclesia sibi congregata ex peccatoribus da parte di Cristo, ha come scopo la fecondità di ogni credente. Tale fecondità si concretizza in primis nel riaccadere di una possibilità di incontro, di stima per la propria persona, di cura per il proprio destino e di novità di relazione offerta a ogni uomo che sperimenta la fatica del vivere. 3. La visione cristocentrica della communio non toglie il fatto che la novità di relazione sia una possibilità da offrire a chiunque anche nell’ambito civile: se pure non condividiamo più la teoria dei furta graecorum, possiamo però riconoscere il valore della concezione che tale teoria esprime, di cui sono pienamente consapevoli Ambrogio e gli altri Padri della Chiesa. Nel nostro caso, il contenuto della “pretesa cristiana” sta nell’affermazione che la nozione cristiana di communio, societas, communitas è più umana e più naturale di quella pagana, che ne è semplicemente una riduzione incompleta. Pertanto la visione cristiana ha non solo piena dignità di essere proposta 11 УСПЕНСЬКІ ЧИТАННЯ, Київ, вересень 2014 р. nell’ambito civile, ma diviene una sfida alla ragione laica, provocata nel riconoscimento di una maggiore pertinenza alla totalità dell’uomo di una visione che non limiti la costruzione della società alla regolamentazione dei reciproci spazi di estraneità tra gli uomini. Ancora più significativo è che una simile posizione sia affermata con tale chiarezza da un Padre della Chiesa – Ambrogio – che aveva nella sua storia una completa formazione giuridico‐amministrativa e un’esperienza non episodica della gestione della cosa pubblica, e che quindi era indubitabilmente competente a giudicare e documentare con sicura dottrina la fondatezza della sua posizione e della novità cristiana davanti al complesso della “macchina amministrativa” del potere imperiale. 4. Pur nel mutare delle condizioni storiche e delle concezioni filosofiche e politiche, non possiamo non notare con rammarico che la ricchezza della nozione cristiana di communio si sia progressivamente inaridita proprio quando l’impero bizantino aveva acquisito lo status di societas christiana (cf. la riduzione ulpianea del concetto di giustizia, recepita poi da Giustiniano nei Digesta). Da questo punto di vista, è decisamente utile, anzi necessaria, per noi oggi una rivisitazione della storia del pensiero teologico‐politico, per riconoscere quali siano – al di là di molte incrostazioni e riduzioni che la storia ha portato con sé – le caratteristiche più originali prodotte da una ragione illuminata dall’accoglienza del fatto cristiano. Da un simile recupero‐ riconoscimento può venire un grande aiuto allo svolgimento del compito che ancora oggi ci è posto davanti: la continua generazione del Verbo nel riaccadere di umanità trasformate e di possibilità nuove di indirizzo della societas generis humani, offerte innanzitutto con l’esempio di una vita buona e apprezzabile per tutti, e non collegate alla ricerca di “sponde” da parte del potere secolare che – come abbiamo visto – già hanno mostrato di saper “ridurre” pesantemente la nouitas cristiana. 12
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