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 FRANCESCO NUZZO
<<Sao ko kelle terre…>>
DIVAGAZIONI SUI <<PLACITI CAMPANI>>
1 PRESENTAZIONE
Per concludere le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, abbiamo voluto
ricordare le origini della nostra lingua, che è uno degli elementi creativi della
coscienza nazionale. La scelta rivela inaspettati e affascinanti profili, da tempo posti
in luce dagli studiosi attraverso analisi approfondite, che ovviamente la gente
comune, per la gran parte, ignora. Ne vien fuori che il più antico documento, dove si
attesta, in contrapposizione al latino, il consapevole impiego dell’italiano volgare
(l’aggettivo ha il significato di lingua del popolo), è una sentenza del 960, emessa da
Arechisi, giudice longobardo di Capua, in cui è riportata la frase: Sao ko kelle terre,
per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
Questa formula, con i suoni aspri e gutturali, sembra dare il segno di un processo
impercettibile da cui sboccerà la bella lingua italiana, che gli amanti sussurrano
nell’ora dolcissima della passione e i grandi poeti consacrano in canti immortali.
Eppure, non dobbiamo meravigliarci. In quell’epoca, così ricca di fermenti, per la
prima volta nasceva anche la parola Italienses, per indicare il popolo nuovo in
formazione, che, dopo molti secoli e infiniti sacrifici, avrebbe conquistato la sua
identità e indipendenza.
Marina Agliata Noviello
2 <<Sao ko kelle terre…>>
DIVAGAZIONI SUI <<PLACITI CAMPANI>>
1. I placiti campani e la nascita del volgare. - 2. Dal latino volgare ai dialetti dopo la caduta dell’Impero
romano.- 3. L’invasione longobarda e la formazione del <<popolo nuovo>>. – 4. Il placito capuano. – 5. Le
regole romane del processo. - 5. Le vecchie norme longobarde. – 6. Cenni sul soldo aureo bizantino. – 7. I
placiti di Sessa Aurunca e Teano. - 8. Processi reali o processi apparenti? – 9. La parlata del Principato
capuano e le trasformazioni notarili. 1. Un cospicuo corredo di letteratura orienta l’esegesi filologica, linguistica e
giuridica dei placiti campani1: sono quattro sentenze emesse dai giudici longobardi
delle città di Capua, Sessa Aurunca e Teano, relative a beni del monastero di
Montecassino o di chiese dipendenti, che ne ottennero il riconoscimento di proprietà
nella seconda metà del sec. X. Dopo il ritorno dei monaci nella loro antica sede,
abbandonata in seguito alle incursioni saracene del 4 settembre e 22 ottobre 883,
l’abate fu costretto a rivendicare molti terreni occupati da conti, gastaldi e altri
signori dei paesi vicini, che avevano avuto buon gioco nelle loro usurpazioni e
ruberie per la lontananza dei Benedettini.
1
Tali documenti, che sono denominati anche <<placiti cassinesi>> dal luogo dove gli stessi sono conservati,
cioè l’abbazia di Montecassino, hanno costituito oggetto di molti studi. Mi limito a segnalare, D.M.Iguanez,
I placiti cassinesi del secolo X con periodi in volgare, Badia di Montecassino 1934; A. Monteverdi, Testi
volgari italiani anteriori al Duecento, Roma 1935, pp.10-17; A. Ugolini, Testi antichi italiani, Torino 1942,
pp. 120-131; A. Camilli, Il placito di Arechisi, in Studi di filologia italiana, VII, 1944, pp. 183-188; M.
Bartoli, Sao ko kelle terre…, in Lingua nostra, VI (1944-45), pp. 1-6; W. von Wartburg, Raccolta di testi
antichi italiani, Berna 1946, p. 7; S. Pellegrini, Ancora <<Sao ko kelle terre>>, in Lingua nostra, VIII,
1947, pp. 33-35; G. Vidossi, L’Italia dialettale fino a Dante, in Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e
franco-italiani, a cura di A. Viscardi, B. e T. Nardi, G. Vidossi, F. Arese, Milano-Napoli, 1956, p. LVIII;
R.M.Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto: elementi bizantini, longobardi e romanici nel
placito capuano del 960, in Atti del III congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1959,
pp.533 ss.; A. Mancone, I documenti cassinesi del X secolo con formule in volgare, Roma 1960; G. Folena,
I mille anni del placito di Arechisi, in Veltro, IV, fasc. 3, 1960, pp.49-57; N. Cilento, Il placito di Capua,
Alpignano 1960; P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, in Lingua nostra, XXI, 1960, pp.1-16; A.Schiaffini, I
mille anni della lingua italiana, Milano 1961 (capp. I e III); F.Sabatini, Bilancio del millenario della lingua
italiana, in Cultura neolatina, XXII, 1962, pp. 187-215; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze
1962, pp. 91-94; E. Coseriu, <<que ki contene>>, in Festschrift Walter von Wartburg zum 80, Tubinga
1968, I, pp. 333-342; G. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna 1969, pp.482 ss.; N. Cilento,
Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, pp. 167 ss.; A. Castellani, I più antichi testi italiani,
Bologna 1976, pp. 59-75; C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, Bologna 1998, pp. 159 ss.; L.
Rossi, Dal latino all’italiano, in La lingua nella storia d’Italia, a cura di L. Serianni, Società Dante
Alighieri/Libri Schweiller, Roma-Milano 2001, pp.29 ss.; C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e
della letteratura italiana, in La letteratura italiana, I, Corriere della sera, 2005, pp. 46-47; C. Marazzini, La
storia della lingua italiana attraverso i testi, Bologna 2006, pp. 35-36; S. Morgana, Elementi di linguistica
italiana, a cura di I.Bonomi – A. Masini – S. Morgana –M. Piotti, Roma 2011, pp. 197 ss.
3 Rileggendo quelle <<carte>>, scopriamo frammenti di vita filtrati attraverso
testimonianze in volgare (il termine non ha nulla di spregiativo, ma significa
solamente lingua parlata dal volgo, dal popolo), e cogliamo un momento della nostra
identità, ben lontana allora dall’essere sentimento proprio di una società storica,
caratterizzata dalla comunione di lingua, cultura, costumi, religione fra coloro che la
componevano. L’obiettività dei dati ci permette di constatare alcune singolarità: il
diritto applicato in tali processi era destinato al tramonto2, mentre le dichiarazioni
giurate dei testimoni, nella loro compiutezza espressiva, annunziavano i contorni
aurorali di una lingua che acquistò luminosità meridiana con Dante, Petrarca e
Boccaccio.
I primi tre placiti furono scoperti e pubblicati nel 1734 dall’abate Erasmo Gattola, il
quale s’avvide che le formule di quei documenti avevano qualcosa di diverso da ciò
che aveva letto in atti dello stesso genere: il testo, che era scritto per la gran parte in
latino, palesava le reliquie di una balbuziente e barbarica lingua italiana (balbutientis
Italicae lingua verba…ex quibus rustica…Italicae lingua initia latinitati barbarae
permixta videre est )3. L’ultimo venne scoperto da padre Ambrogio Amelli e fatto
conoscere da Francesco D’Ovidio (1896), che richiamava l’attenzione degli studiosi
sul documento contenente parole in volgare pressoché identiche a quelle riscontrate
negli altri4.
Generalmente si ritiene che il giudicato di Capua del marzo 960 certifichi la nascita
della lingua italiana scritta5, cristallizzata in questa frase : Sao ko kelle terre, per
kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti6.
2
Di lì a poco la scuola bolognese di Irnerio e degli altri glossatori disegnerà, alla luce del Corpus
iuris di Giustiniano, un nuovo sistema giuridico. La legislazione di quell’imperatore viene sentita come
un fatto vivo, un diritto presente e vigente, quasi che il lungo corso dei secoli che distanziava quei giuristi
dall’epoca della compilazione giustinianea non imponesse una distinzione tra passato e presente.
3
E.Gattola (Gattula), Ad Historiam Abba tiae Cassinensis accessiones, t. I, Venezia 1734, p. 70. La scoperta
non ebbe vasta risonanza, e lo stesso L.A.Muratori non accenna ai tre placiti nella sua dissertazione De
origine Linguae Italicae, in Antiquitates Italicae Medii Aevi, II, Milano 1739, coll. 985-1078. I documenti in
epoca successiva cominciarono a essere conosciuti, ma prevalse quasi sempre la curiosità erudita, finché
quelle antiche carte non ebbero il posto di rilievo che alle stesse spetta nella protostoria della nostra lingua.
Il merito, in prevalenza, è da ascrivere a L.Morandi, Origine della lingua italiana, [prima edizione 1883],
Città di Castello, 1900, p. 66; E.Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli ( prima edizione 1889), nuova
edizione a cura di F.Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, pp. 2-4; P. Rajna, Le origini della lingua
italiana, in Gli albori della vita italiana, Milano 1906, p. 243; P. Rajna, I più antichi periodi risolutamente
volgari nel dominio italiano, in Romania, XX (1891), pp. 385-402. Una egregia sintesi sull’argomento si
rinviene in P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., pp. 7 ss. 4
F. D’Ovidio, Di una interessante forma di pronome in un antico testo volgare inedito, in Zeitschrift für
romanische Philologie, XX, 1896, pp. 523-525. Questo placito è denominato anche <<memoratorio>> di
Teano. Nel linguaggio medievale, il memoratorio (da memorare, ricordare) era generalmente un documento
che conservava la memoria di un atto giuridico, a garanzia dei diritti dell’interessato che lo aveva fatto
redigere. 5
La maggior parte degli studiosi esclude che il primo documento di lingua italiana volgare sia l’Indovinello
veronese, databile fra la fine del VIII secolo e l’inizio del IX, scoperto nel 1924 dal paleografo Luigi
4 Siffatta terminologia è in consonanza con la parlata rustica che, a partire da tale
periodo, ha autonoma e sempre più estesa consistenza, considerato che la mappa
geografica dei riscontri include punti nuovi e rappresentativi di altrettante tappe del
nostro percorso linguistico7, anche se vocaboli e isolati stilemi in volgare si trovano
qui e là negli scritti dei dotti, e abbondano soprattutto nei documenti notarili: i notai,
in ragione della loro attività professionale, rendevano chiaro il valore degli atti a
persone analfabete oppure riportavano le informazioni fornite dalle parti medesime,
mostrando la disponibilità << a recepire l’uso vivo, a prezzo di operare una frattura
nella veste linguistica del documento, e ciò è sintomo di un’adesione non puramente
passiva alla nuova realtà linguistica>>8 .
Esistono, inoltre, glossari con lemmi popolari tradotti in latino e greco, a confermare
la coesistenza del pluralismo espressivo, che si faceva strada senza ostacoli9.
Schiaparelli in calce al codice LXXXIX della Biblioteca Palatina di Verona (Orazionale Mozarabico), dove
era giunto dalla Spagna. Eccone il testo:
Se pareba boves/alba pratalia araba
Et albo versorio teneba/ et negro semen seminaba.
[Si spingeva avanti i buoi, arava bianchi parati, teneva un bianco aratro, seminava nera semente].
Mediante il ricorso all’allegoria, l’amanuense, compiaciuto del proprio lavoro, illustra l’atto dello scrivere: i
buoi sono le dita, il prato bianco la pergamena, il versorio (< versorium " parte dell'aratro) la penna d'oca, il
nero seme l'inchiostro o le parole scritte (L. Schiaparelli, Sulla data e provenienza del cod. LXXXIX della
Biblioteca di Verona (l’Orazionale Mozarabico), in Archivio storico italiano, I, 1924, pp. 106-117).
L’Indovinello, nato in ambiente di scolari o di chierici, verosimilmente era stato concepito in latino
medievale, e il testo giunto fino a noi rivela la sua matrice originaria. Lavorando sul canovaccio preesistente,
l’autore scientemente inserisce nella composizione dei volgarismi, anzi dei rusticismi, per articolare il
confronto tra lo scrittore e il contadino, di cui si diverte a imitare la condotta. Il risultato dello scherzo
<<potrebbe quasi essere considerato un tema di letteratura dialettale riflessa>> (A. Castellani, I più antichi
testi italiani, cit., pp. 28 ss.). A sua volta, B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 63, afferma:
<<Insomma il nuovo idioma già si sente, già sta per prorompere: ma non si può ancora asserire con sicurezza
che chi compose e chi vergò l’indovinello – sia che fossero, come mi pare più probabile, due persone
diverse, sia che si tratti di una sola persona – si rendesse conto di scrivere in una lingua diversa dal latinuccio
che usava scrivere>>. Per G. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, cit., p. 527, l’indovinello nacque
<<in un ambiente di scolari (certo chierici) e composto in quel latino semivolgare che doveva essere, nel
Medioevo, il mezzo di comunicazione fra i condiscepoli non troppo sicuri della grammatica e del lessico
latino>>. In ordine alle varie questioni, A. Monteverdi, Sul metro dell’Indovinello veronese, in Studi
medievali, n.s., X, 1937, pp. 204-212; P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 15; A. Roncaglia,
L’indovinello veronese-friulano, i suoi <<latinismi>> e la <<legge Tobler-Mussafia>>, in Omaggio a
G.Folena, Padova 1993, vol. I, p.49-60; C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura
italiana, cit., p. 42. 6
<<So che quelle terre, entro quei confini di cui si parla qui, le possedette trent’anni il monastero di S.
Benedetto>>.
7
8
C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., p. 46. M. Durante, Dal latino all’italiano moderno. Saggio di storia linguistica e culturale, Bologna 1981, p.94.
9
Per esempio, il Glossario di Monza della fine del IX secolo e i primi decenni del X. Sul tema, A.
Castellani, I più antichi testi italiani, cit., pp. 39 ss. e la bibliografia ivi citata. 5 Siffate novità permeavano le relazioni sociali, e molti riferimenti indiretti,
nell’incertezza delle forme e della sintassi, rivelano il faticoso sviluppo del latino che
diventa volgare10. Gli esempi di codesta progressione non mancano davvero.
Nelle Gesta Berengarii, un poema anteriore al 923, si ricorda che, in occasione della
incoronazione del re Berengario I (915), il senato intonava i canti patrio ore (cioè in
latino), mentre il popolo gridava nativa voce (in volgare); nell’Epistola ad
Augienses fratres (965) per i monaci di Reichenau, il grammatico lombardo Gonzone
rammenta l’ usus nostrae linguae quae latinitati vicina est, come a dire vicina al
latino, ma con una sua individualità; in un penitenziale cassinese del sec. X, c’è
l’avvertimento che la confessione dei peccati sia fatta nella lingua della gente comune
(fiat confessio peccatorum rusticis verbis) 11; sulla tomba di papa Gregorio V, morto
nel 999, un epitaffio loda il suo triplice eloquio con il quale egli si rivolgeva al
popolo: usus francisca, vulgari et latina voce 12.
Tuttavia, soltanto nei documenti campani il volgare venne contrapposto al latino in
modo sicuro e voluto, affinché un pubblico più vasto di quello che assisteva ai
processi fosse raggiunto dal messaggio testimoniale13, in cui la formazione delle frasi
è quasi del tutto svincolata dalla declinazione e dalla composizione proprie della
lingua di Roma14. Né deve meravigliare che la parlata popolare, meticolosamente
ricostruita e trascritta, riguardi deposizioni asseverate da giuramento: in un atto
giuridico nulla è più importante che l’esattezza delle parole; ogni traduzione può
mutare qualche piccola cosa e dare adito a contestazioni.
Avendo presenti le vicende di quell’ingarbugliata epoca, si constata che i Longobardi
della Campania, unici tra i dominatori del nostro Mezzogiorno, <<parlavano la
lingua delle popolazioni locali, e difendevano gli estremi confini meridionali della
latinità di fronte alla pressione bizantina e alle scorrerie dei Saraceni. Può essere un
10
Possono essere ricordati alcuni testi e documenti scritti totalmente o parzialmente in volgare: 1)
l’Iscrizione della catacomba di Domitilla, risalente alla metà del sec. IX (<<Non dicere ille secrita abboce>> [Non dire quelle cose segrete a voce (alta)]; 2) la Postilla amiatina del 1087 (<<Ista cartula est de
caput coctu./ Ille adiuvet del illu rebottu/ qui mal consiliu li mise in corpu>>) [“ Questa carta è di Capocotto
e gli dia aiuto contro il Maligno, che un mal consiglio gli mise in corpo]; 3) l’Iscrizione di San Clemente
della fine del sec. XI): (<<Sisinium: “Fili dele pute, tràite”. Gosmarius: “Albertel, trai”. “Falite dereto colo
palo, Carvoncelle”. (San Clemente:) “Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis” [Sisinnio: “Figli di
puttane, tirate”. Gosmario: “Albertello, tira”. “Fatti dietro col palo, Carboncello”. (San Clemente:) “Per la
durezza del vostro cuore avete meritato di trasportare un sasso”]; 4) la Testimonianza di Travale del 6 luglio
1158: (“Guaita, guaita male; non mangia ma mezo pane”) [“Guardia, fa’ la guardia male! Io non mangiai
male mezzo pane”].
11
G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Milano 1974, p. 221, al quale si debbono anche le citazioni che
precedono. 12
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 88.
13
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 162.
14
Sostiene G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, cit., p. 219 che << i testi sono volgari, ma non in un volgare
andato alla deriva, frantumato in modo magari non uniforme, a Cassino Sessa e Teano. Questo volgare ha
subito un processo di adeguamento sia dal punto di vista dello spazio, sia da quello dello spessore sociale>>. 6 caso, ma non è privo di significato che proprio da loro ci siano venute le prime
manifestazioni scritte dell’affermarsi di una nuova coscienza linguistica. D’una
coscienza linguistica, che s’approfondirà col tempo e finirà col diventare, per lunghi
secoli della storia d’Italia, tutt’uno con la coscienza nazionale>>15.
Una domanda, comunque, merita subito di essere soddisfatta: per quale ragione i
testi in lingua volgare, che non si armonizzava del tutto con il latino, anche quello
eroso e macerato in lungo corso di secoli, tardarono così a lungo a rivelare la
tendenza alla regolarizzazione e alla fissazione scritta? 16 La spiegazione è duplice.
Anzitutto, l’allontanamento della parlata dialettale dal latino divenne un fatto
consapevole soltanto dopo la <<rinascenza carolingia>> (inizio sec. IX), che adottò
nel campo della cultura e delle istituzioni il latino degli Irlandesi e dei Britannici.
Costoro, non abbastanza romanizzati, avevano appreso, negli ultimi tempi
dell’Impero, dalle grammatiche e nei banchi di scuola se non un buon latino, un
miglior latino17; esso dalle <<isole>> fu restituito all’Europa occidentale e cristiana, e
si diffuse attraverso documenti civili e religiosi che fecero risaltare la grande
differenza dal volgare, in origine ritenuto indegno della scrittura analogamente a
quanto accadde per tutti i linguaggi romanzi18. In secondo luogo, i Longobardi, un
popolo di civiltà prevalentemente tribale, di cultura minima e di grande valore
militare, stabilì in Italia un dominio durato oltre due secoli a differenza di quello di
altri invasori barbarici, e diede luogo a un ordinamento politico e sociale nel quale le
costumanze e le memorie dei padri continuarono a essere tramandate in forma orale.
Allorché assorbirono la lingua dei vinti, che utilizzarono per fissare in latino le loro
tradizioni, lasciarono che le centrali del sapere si costituissero nelle diocesi e nei
conventi, <<abbastanza validamente sì per conservare documenti e cimeli, ma non al
fine di consolidare coordinare uniformare le nascenti tradizioni dialettali, ancora
frantumate>>19.
2. L’impiego del volgare nella scrittura presuppone un lungo periodo preparatorio,
che ha reso meno traumatico l’affrancamento dal latino in una vasta area da sempre
15
P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 16. 16
G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, cit., p. 218.
17
N. Cilento, Il placito di Capua, cit., p. 74.
18
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 86, precisa che <<le innumerevoli varietà dialettali che
si parlavano nei vari luoghi erano sentite come manifestazioni di carattere inferiore, prive affatto di quella
formalità, di quella regolarità, di quella dignità che erano reputate necessarie per mettere in iscritto qualsiasi
cosa, anche la meno importante […] Il prestigio di cui il latino godeva in Italia, la tenace consuetudine che
faceva di esso l’unica lingua che si potesse scrivere, perché fermata da salde regole e capace di ornato, la sua
diffusione relativamente larga, la sua differenza non grandissima dalla lingua parlata, la rispondenza che esso
presentava, nella fase medievale, alle molteplici esigenze della vita pratica: tutto questo servì a ritardare
l’avvento del volgare>>.
19
7 G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, cit., p. 218.
riservata a quest’ultima lingua20, veicolo unitario di cultura e di civiltà, benché la
stessa, già nel periodo che va da Augusto a Odoacre, avesse subito profonde
alterazioni per effetto di mutamenti lentissimi nel tempo e nello spazio, che incisero
su lessico, pronuncia, forme e strutture sintattiche.
Non ho alcuna intenzione di subire il dissolvente rimprovero rivolto agli
improvvisatori: ne sutor ultra crepidam, e non faccio come il ciabattino che, lasciata
la tomaia, vuol discettare dei massimi sistemi. Attingo perciò agli studi specialistici le
sommarie nozioni che darò, e parto da un’acquisizione teorica indiscutibile: <<ciò
che noi chiamiamo latino volgare è la parlata delle classi medie, quale provenne dal
vecchio latino classico … Essa si distingue dall’espressione ricercatamente accurata
della società colta, dall’accento rozzo del contado, e dal gergo degli infimi quartieri
della città, sebbene paia che di tutte queste cose partecipi>>21. Qualche iscrizione
pompeiana22 o le opere di Petronio e Apuleio che, con suprema finezza e mirabile
artificio, riescono a fondere i termini arcaici con quelli popolari, ci danno la prova
delle variazioni linguistiche, e un prezioso riscontro, per immaginare come si come
si parlasse il latino nel sec. III d.C., possiamo trarlo dal quaderno di anonimo
maestro romano (la compilazione è conosciuta come Appendix Probi, perché
custodita al fondo di un manoscritto dell’opera di Marco Valerio Probo, grammatico
latino del I secolo23), il quale raccoglie per i suoi studenti 227 forme latine corrette e
le corrispondenti locuzioni errate, che ormai si imponevano nell’uso quotidiano.
Il docente, ad esempio, consiglia di usare calida non calda (italiano calda), frigida
non frigda (italiano fredda), auris non oricla (italiano orecchio), vinea non vinia
(italiano vigna), columna non colomna (italiano colonna), speculum non speclum
(italiano specchio), cavea non cavia (italiano gabbia), februarius non febrarius
(italiano febbraio), pauper mulier non paupera mulier (in italiano povera donna).
Egli stesso, però, ha delle incertezze quando suggerisce di dire toleravilis non
tolerabilis, giacché Cicerone Cesare Tacito segnalerebbero che la forma corretta è
quella sconsigliata.
Negli ultimi secoli dell’Impero romano, il latino parlato si disintegra in una
molteplicità di dialetti locali, mentre il latino letterario, che resta fedele alla
tradizione grammaticale classica, viene insegnato nelle scuole dove si formano gli
20
Cfr., F. Bruni, L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Torino 1984, p. 3.
21
C.H. Grandgent, An introduction to Vulgar Latin, Boston 1907, trad. it. N. Maccarone, Milano 1914, p. 4. 22
Ad esempio, un’iscrizione dell’anno 79 d.C. riportata da C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e
della letteratura italiana, cit., p. 35, è composta dai seguenti versetti :
<<Quisquis ama, valia, peria qui nosci amare,
bis tanti peria, quisquis amare vota.
[Chi ama, stia bene; muoia chi non sa amare; e muoia per due volte chi vuol vietare l’amore]. 23
Per brevi osservazioni sull’Appendix Probi e relativi aspetti linguistici, F. Bruni, L’italiano. Elementi di
storia della lingua e della cultura, cit., pp. 144 ss; G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, cit., p.144; C.
Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., 128. 8 abbreviatores e i notarii, estensori delle epistole e degli atti ufficiali. Con le ovvie e
comprensibili ricadute: mentre i dotti, formatisi sulle opere classiche, serbavano la
bellezza formale della lingua usata dai poeti, dagli oratori, dagli scrittori dell’età
aurea, il popolo discorreva in una qualità di latino definita sermo provincialis (lingua
degli abitanti delle province), sermo militaris (gergo militaresco), sermo vulgaris,
plebeius (lingua di persone incolte), sermo rusticus (lingua da illitterati) 24.
Poiché il latino classico e il latino volgare presentavano notevoli differenze di
vocaboli ed espressioni, dipendenti da fattori sociali, etnici e psichici, appare del
tutto naturale che il cittadino avesse scarsa dimestichezza con termini letterari,
sinonimi raffinati, tecnicismi stilistici e retorici impiegati dagli scrittori, e tra due
parole aventi all’incirca lo stesso significato scegliesse quella più familiare, in pari
tempo più espressiva e più efficace25. D’altronde, il latino popolare andava incontro
ai bisogni e alla mentalità di una complessa moltitudine: piccoli commercianti,
artigiani, soldati, semiliberi, schiavi addetti ai lavori più diversi. La lingua di costoro
si caratterizzava per concretezza, specificità, immediatezza comunicativa, corposità
fonetica, riflettendo << la stratificazione etnica di una società nella quale gli
specialisti e i tecnici (il medico, il veterinario, il cuoco) sono per lo più greci; per
questo motivo parole greche entrano nel latino volgare>>26. Quindi la parlata
familiare (sermo cotidianus), e quella degli incolti, non bisogna giudicarla soltanto
per la sua rozzezza, in quanto essa, in realtà, è dotata di maggiore forza espressiva,
potendo ricorrere a metafore e immagini colorite, e in grado di inglobare e fare
proprie le trasformazioni linguistiche.
Ovviamente la lingua varia a seconda di chi la usa, e un illuminante esempio deriva
dal sermo rusticus dei contadini e dal sermo militaris dei soldati, che lasceranno la
propria impronta nel latino popolare abitualmente parlato nei territori conquistati:
nelle province la parola calzolaio (toh, ritorna questo simpatico artigiano!) non sarà
calceolarius (ovvero chi fabbrica i calceoli, eleganti calzature portate nella capitale),
ma caligarius, cioè colui che si occupa di preparare le caligae, pesanti sandali dalla
suola chiodata in dotazione ai legionari. A dispetto della elevata lingua delle opere
letterarie, il cosiddetto sermo provincialis diffuso fuori dell’Italia farà da base alle
future lingue nazionali.
Né bisogna dimenticare la rivoluzione spirituale portata dal Cristianesimo e penetrata
in vasti strati della popolazione: <<la massima parte dei vocaboli che si riferiscono
alla vita dello spirito ricevono nuovi significati o almeno nuove connotazioni; i
24
C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., pp. 34 ss.
25
I. Iordan-M.Manolin Manea, Linguistica romanza, a cura di A.Limentani, trad. di M. Lörinczi Angioni,
Padova 1974, p. 14, precisano che <<la differenza fondamentale tra “latino volgare” e “latino classico” non
si fonda soltanto sull’opposizione parlato/scritto, ma scaturisce anche dalle differenze di grado di cultura dei
parlanti, dalle circostanze diverse in cui si realizza l’uno o l’altro aspetto della lingua: il “latino volgare”
comprendeva la sfera della famiglia, della conversazione corrente, era parlato dai ceti medi; il “latino
classico” era usato nel senato, nella scuola, in politica ecc.>>. 26
M. Dardano-P.Trifone, La lingua italiana, Bologna 1985, pp. 26-27; C. Del Popolo, Primi documenti
della lingua e della letteratura italiana, cit., p. 40. 9 concetti morali o religiosi collegati al pensiero pagano vengono travolti o sconvolti
dalla concezione cristiana e dai nuovi rapporti che essa proclama fra il divino e
l’umano. Si pensi al significato di parole come fides, spes, caritas, virtus, passio,
mundus, saeculum, pius, sacer, peccare, communicare nella lingua del tempo di
Augusto e in quella del tempo di Teodosio>>27.
Gli accadimenti successivi alla caduta dell’Impero romano (476) determineranno
ulteriori cambiamenti e differenziazioni.
I contatti dei conquistatori barbari con i vinti, la vicinanza o lontananza dalle vie di
comunicazione e di commercio, lo scambio continuo e reciproco con parlanti di
diverso ceppo e il prestigio riconosciuto o meno ai vari popoli interlocutori sono
fattori indispensabili per spiegare fino in fondo la nascita delle lingue neolatine,
volgari, o ancora meglio, romanze. Allorché i territori vengono conquistati, <<le
varie popolazioni affermeranno sempre di romanice loqui, ovvero di “parlare alla
maniera di Roma”, prendendo così le distanze dai dominatori di turno, siano essi di
stirpe slava, celtica, o germanica o che comunque parlino barbarice ( “alla maniera
dei barbari”)>>28.
In Italia, una comunione linguistica appare già presente intorno al secolo VIII: è
formata da un complesso di dialetti diversi, tutti derivati dal latino e dotati di certe
caratteristiche che li distinguono dalle altre lingue romanze. La frantumazione
dialettale, assai più accentuata che altrove, si spiega con la parcellizzazione delle
varie comunità, connessa a ragioni amministrative, ai confini ecclesiastici e politici
dei vari territori della penisola, nella quale dalla fondazione dell’Urbe vivevano
distinte stirpi che avevano sovrapposto il latino alle loro lingue originarie: quella
celtica al nord, quella umbro-sannita o italica al centro-sud, quella etrusca in Toscana,
e così via. Un decisivo impulso al frazionamento linguistico derivò pure dalla
divisione dell’Italia, decretata da Diocleziano verso la fine del III secolo: i vicariati di
Roma e di Milano, separati da una linea di confine che va da La Spezia a Rimini,
sono indicativi in tal senso.
3. Differenze marcate, dunque, subentrarono al tempo delle invasioni, quando
l’instaurarsi di una serie di regni barbarici sul suolo italico affievolisce o disperde il
sentimento di appartenenza allo stato imperiale romano e il primato rispetto ai
territori delle province. Non rientra nell’economia di questo scritto soffermarsi su tali
conquiste, che hanno l’aspetto di una colonizzazione militare poiché, in vista
dell’argomento da trattare, interessa la condizione dei territori governati dai
Longobardi.
Al momento del loro ingresso in Italia (568), questi ultimi non erano molto numerosi,
e le stime più accreditate quantificano i combattenti in 15.000 circa. Ancorché i
contatti con altri popoli civili li avessero un po’ dirozzati e convertiti alla religione
cristiana , essi giunsero <<non più come ospiti o aspirando a una qualche investitura
27
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 41. 28
C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., pp. 36-37. 10 di potere da parte dell’Impero, ma come un esercito di conquistatori, liberi di imporre
ai vinti le condizioni che volessero>>29.
Sotto la guida di Alboino, penetrarono nella pianura padana senza incontrare
resistenza, con l’eccezione di Pavia che, caduta dopo un lungo assedio, divenne
capitale di un regno, territorialmente e politicamente incoerente. Alcuni gruppi
distaccati arrivarono in Toscana e in Umbria, spingendosi fino a Benevento: scelta
strategica che contrastava efficacemente un’eventuale controffensiva bizantina, la
quale doveva fare i conti con la minaccia gravante sulle vie di comunicazione e i
centri costieri dell’Italia meridionale.
L’occupazione militare da parte di una classe guerriera privilegiata non riuscì ad
assumere i caratteri di un vero e proprio Stato, anche se i sovrani più illuminati si
sforzarono, assimilando gli elementi della popolazione locale, di creare una maggior
coesione fra i sudditi e cercarono, nella comune fede cattolica, un rafforzamento
interno, contrastato dai pontefici, timorosi di un eccesso di potenza del Regnum
Langobardorum. Tale esito provocò la rottura dell’unità d’Italia e ne ritardò sotto
molti aspetti il progresso civile30, ma gli storici moderni, attenuato il giudizio severo
di un tempo, hanno posto in luce le difficoltà obiettive di fronte alle quali si
arenarono i tentativi dei re longobardi, il cui regno cessò effettivamente di esistere
nel 774, quando re Desiderio e suo figlio Adelchi furono sconfitti da Carlo Magno31.
La vittoria dei Franchi ebbe grande peso sul piano politico: le spedizioni verso
l’Elba e il Danubio diventavano impossibili, se il forte apparato del Regno italico
non fosse stato eliminato, così da precostituire un elemento indispensabile perché una
sola potenza impersonasse a Bisanzio le ragioni dell’Occidente, in una posizione di
equilibrio; la stessa incoronazione, nella notte di Natale dell’anno 800, sarebbe stata
preclusa, fin quando rimaneva a Pavia un re longobardo del tutto indipendente.
Nel rilevare che i sovrani carolingi, ammesso che ne avessero mai avuta l’intenzione
o avvertissero il problema, si rivelarono altrettanto incapaci di unificare l’Italia,
preme indugiare brevemente sui alcuni riflessi prodotti dall’insediarsi dei Longobardi
nei territori della penisola.
Anzitutto, rimase infranta l’omogenea tradizione giuridica. Infatti, l’imperatore
Giustiniano, dopo la sua vittoria sui Goti (555), aveva esteso all’Italia il Codex, che
conteneva tutte le costituzioni imperiali e sostituiva il Codex theodosianus con
grande vantaggio; il Digesto, una collezione di testi della giurisprudenza classica; le
Novellae, cioè le nuove costituzioni imperiali. L’introduzione di siffatta legislazione
fu un evento di incalcolabile portata, ma troppo recente quando la conquista
29
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., p. 47.
30
M. Durante, Dal latino all’italiano moderno, cit., p. 78, sostiene che << tra i secc. VII e VIII l’Italia perde
i connotati essenziali che contraddistinguono una comunità nazionale: si bloccano i contatti a largo raggio e
il nome etnogeografico diventa un ricordo erudito>>. 31
Sulla fine della sovranità longobarda, P. Delogu, Il regno longobardo, in Storia d’Italia, I, diretta da G.
Galasso, Torino 1980, pp. 188 ss.
11 longobarda, più corposa e con intenti molto diversi da quelle precedenti, allentò
maggiormente i legami con Bisanzio per un dimensionamento politico e giuridico
completamente differente dal passato. Al primo impatto, la situazione non subì
modifiche tali da capovolgere lo stato preesistente nelle nostre terre, ma da quel
tempo iniziò l’effettiva penetrazione dei principi germanici negli usi e nella prassi32.
Caposaldo della mutata cornice istituzionale era il principio della personalità del
diritto: cioè i conquistatori e le genti italiche conservavano i rispettivi diritti
nazionali, e in un medesimo luogo troviamo rapporti regolati dal diritto romano e dal
diritto longobardo. Intuibili le complicazioni, << derivanti sia dai conflitti di legge
personale nei rapporti fra persone di diversa origine, sia dalla pluralità delle
consuetudini e leggi barbariche o romano-barbariche, e delle stesse norme del diritto
romano, sia infine dall’affermarsi di norme e usi volgari, divergenti dal diritto
romano, spesso frutto di corruzione o di deformazione di questi diritti, spesso di
incerta e quasi misteriosa origine, reviviscenze di antiche e non mai spente
tradizioni indigene popolari, ovvero nuove forme della vita giuridica, che si
concretarono nella fioritura spontanea delle consuetudines locorum di carattere
territoriale>>33. Le consuetudini dei Longobardi, dopo un periodo di tradizione orale,
vennero codificate da Rotari (643) nella lingua di Roma e con ispirazione al suo
evoluto diritto, non senza temperamenti dovuti a influssi cristiani34.
In secondo luogo, a causa della debole incidenza dei Franchi sui territori meridionali,
le strutture organizzative dei Longobardi, favorite dal loro isolamento, sopravvissero
alla rovina del Regno italico, e le pratiche germaniche prosperarono in armonia con
abitudini e regole di vita delle terre governate, dove produssero frutti duraturi e
condivisi: ad esempio, il processo formativo della scrittura di quel popolo, che nel
nord rimase interrotto per il prevalere della minuscola carolina, giunse alla sua
conclusione nel territorio ducale di Benevento (minuscola beneventana), e da Capua,
nella seconda metà del sec. IX, il monaco Erchemperto, autore dell’Historia
Langobardorum Beneventanorum35, fece sentire la voce e il rimpianto identitario
della sua gente36, di cui egli serbava la fierezza e l’orgoglio.
32
A. Campitelli, Processo civile (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano 1987, p. 82. 33
34
G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, Milano 1952, p. 186. C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., p. 41. L’Editto offre
indicazioni piuttosto complesse, ma consacra formalmente il diritto nazionale longobardo, che aveva subito
scarse modifiche dal diritto romano. Anche alcuni vocaboli per descrivere istituti giuridici mantengono
immutata la dizione dei vincitori: per esempio, scompare dal testo il termine domus, come equivalente di
civile abitazione, sostituito da casa che, nell’antico latino indicava la capanna rustica, costruita con il legno
e la paglia; la presenza della parola germanica sala, per indicare un locale in muratura, prova che la parte
più elevata socialmente, nella metà del secolo VII, apparteneva ancora alla stirpe longobarda. Sul punto , G.
Arnaldi, Lineamenti di storia d’Italia nell’Alto Medioevo, in Storia d’Italia, a cura di N. Valeri, I, Torino
1967, p.20; P. Delogu, Il regno longobardo, cit., pp. 62 ss.
35
Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, in Monumenta Germaniae historica, Scriptores,
t. III, Hannover 1839, pp. 240 ss. Per notizie sulla vita di questo autore, che ha <<qualcosa di primitivo, di
sano, di vigoroso, un male e un dolore che non sono disfacimento e corruzione>> (G.Falco, Erchemperto, in
12 V’è, poi, da notare che il latino, inteso come lingua quotidiana e strumento di
relazioni comunitarie, pur avendo subito sensibili mutamenti, non venne distrutto
dalla frantumazione politica; anzi, si arricchì di altri elementi che modificarono i
moduli espressivi, nonostante la scuola e i grammatici si opponessero alla ventata di
novità, le quali, invece, rispondevano alle esigenze della generalità e rispecchiavano
una tendenza che aveva dalla sua l’avvenire. In questo contesto, lo stesso progetto
carolingio di ricomporre l’unità culturale, e quindi linguistica di tutte le regioni
assoggettate, non poté proficuamente e interamente essere realizzato, poiché una
lingua nasce spontanea e non si impone: <<il popolo, disperso nelle campagne dei
feudatari e accolto nelle corti, continuò a sentire sempre più incomprensibile il latino,
che proprio per la riforma carolingia, diventava “altra lingua” rispetto a quella parlata
dalle masse ed era ormai soltanto la lingua ufficiale della Chiesa e del Palazzo
imperiale. Il concilio di Tours (813) prese coscienza della diversità della lingua del
popolo, e un canone sinodale raccomandò ai vescovi la predicazione in lingua romana
rustica o tedesca, per far arrivare la parola di Dio anche ai fedeli che, in grande
maggioranza, non comprendevano più il latino (easdem omilias quisque aperte
transferre studeat in rusticam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possent
intelligere quae dicuntur) 37.
Ignoriamo in che misura i Longobardi, a causa dei necessari e intrinseci rapporti con
le genti italiche, decadute dalla potenza ma detentrici di una cultura superiore alla
loro, diventarono bilingui e poi abbandonarono la loro lingua nazionale, e con quale
rapidità il fenomeno si realizzò: è sicuro che nell’Italia meridionale, già nel corso del
sec. X, l’idioma germanico era scomparso, se un passo del Chronicon Salernitanum,
composto nell’anno 978, ricorda la lingua todesca quod olim Longobardi
loquebantur38.
Comunque, in questo travaglio di idee, conquiste, disfacimenti e rinascite, un nuovo
popolo si viene formando in Italia, e i termini longobardo o romano servono ormai a
contrapporre due ceti sociali, non più assolutamente due stirpi diverse, che hanno il
concetto di una propria individualità etnica. Il tempo in cui cominciò a realizzarsi la
fusione (o forse un assorbimento dei vincitori da parte dei vinti più numerosi) e dei
modi –soprattutto – in cui essa ebbe luogo, per la situazione in cui si trovarono
reciprocamente i due popoli conviventi sullo stesso territorio, restano degli
interrogativi appassionanti per il ricercatore e ancora senza risposte 39.
Deve essere chiaro nondimeno che quella tra Longobardi e Romani era unione non
unità, poiché la combinazione materiale difettava ancora del cemento di un’avvertita
Albori d’Europa. Pagine di storia medievale, Roma 1947, pp. 264 ss.), si rinvia alla voce del Dizionario
biografico degli Italiani, XLIII, Roma 1993, pp. 66 ss..
36
G. Arnaldi, Lineamenti di storia d’Italia nell’Alto Medioevo, cit., p. 33. 37
C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., p. 41-42. 38
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, cit., 49. 39
G. Arnaldi, Lineamenti di storia d’Italia nell’Alto Medioevo, cit., p. 17. 13 coscienza nazionale. Forse Liutprando, vescovo di Cremona (961-972)40, il maggiore
e più vivo tra gli scrittori di quel periodo, ipostatizzò in maniera magistrale quella
realtà nei suoi elementi costitutivi e con le sue contraddizioni, quando per la prima
volta chiamò Italienses non esattamente il popolo italiano41, ma i signori feudali che,
a causa delle lotte intestine, facevano strazio del potere pubblico42, e
successivamente rispolverò, sia pure a scopo polemico e difensivo, un odio di razza
sedimentato tra i conquistatori e le popolazioni romane 43. Il vocabolo Italienses
40
Di illustre famiglia longobarda, Liutprando (920 circa-972), studiò lettere presso la scuola palatina di
Pavia, di cui ottenne il diaconato con il favore di re Ugo. Si accattivò poi la simpatia di re Berengario II, dal
quale fu inviato in missione presso la corte bizantina (949-951). Caduto in disgrazia, dovette riparare presso
la corte Ottone I, re di Sassonia, e lì cominciò la stesura della sua opera principale, Antapodosis
(Contraccambio), contenente una violenta requisitoria contro Berengario I e sua moglie Villa. Liutprando fu
creato vescovo nel 961 quando discese in Italia Ottone I, ed ebbe gran parte negli affari del sovrano tedesco e
nelle vicende del conclave di quel periodo. Ritornò a Bisanzio come legato di Ottone II, per chiedere, a
nome del re, la mano della principessa Teofano, figlia dell’imperatore Romano II. Dell’esito negativo della
missione diede conto nella famosa Relatio de legatione constantinopolitana. Scrisse anche il Liber de rebus
gestis Ottonis imperatoris, relativo al periodo 960-964, ma l’opera rimase incompiuta. Per altre notizie, cfr.
Dizionario biografico degli Italiani, LXV, Roma 2005, pp. 298 ss.
41
Liutprando, Antapodosis, I,37, in Monumenta Germaniae historica, Scriptores, t. III, Hannover 1839, p.
242 ss.: << Fideles vero fautoresque Widonis, veriti ne ab eis inlatam Berengarius ulcisceretur iniuriam, et
quia semper Italienses geminis uti dominis volunt, quatinus alterum alterius terrore coherceant, Widonis
regis defuncti filium, nomine Lambertum, elegantem iuvenem, adhuc ephoebum nimisque bellicosum, regem
constituerunt>>.
42
F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano 1953, p. 82.
43
Liutprando, Relatio de legatione constantinopolitana, c.12, in Monumenta Germaniae historica,
Scriptores, t. III, Hannoverae 1839, pp. 347 ss., trovandosi ospite alla tavola di Niceforo Foca, imperatore di
Bisanzio, espresse un’opinione radicalmente antiromana. Infatti, il basileus gli aveva rivolto diverse
domande sulla struttura politica e sulla forza imperiale di Ottone e Adelaide, ma non si disse convinto delle
risposte ottenute da Liutprando, accusando quest’ultimo di mendacio, e criticò severamente l’addestramento
e l’armamento dei soldati di Ottone; anzi dileggiò questi ultimi per il mangiare e bere eccessivo, insinuando
che solo a causa delle abbondanti libagioni essi riuscivano a dominare la loro innata viltà. Il vescovo cercò di
replicare, ma Niceforo Foca, senza dargliene il tempo, aggiunse: <<Vos non Romani, sed Langobardi
estis!>>. La puntualizzazione fu intesa quasi ad contumeliam dall’ospite, che affermò tuttavia di non
sentirsi offeso e, una volta presa la parola, precisò che Romolo, il fratricida, da cui i Romani derivarono il
nome era un porniogenitus, perché nato da una relazione adulterina. Il fondatore di Roma creò un luogo
d’asilo per accogliervi omicidi, servi sfuggiti al loro padrone, debitori e ladri delinquenti, passibili della pena
di morte: e tutti costoro chiamò Romani. Da tale nobile stirpe discendevano quelli che venivano definiti
padroni del mondo (quos vos kosmocratores, id est imperatores, appellatis). E qui, la stilettata: <<Noi
invece, cioè a dire i Longobardi, i Franchi, i Lotaringi, i Bavari, gli Svevi, i Borgognoni, abbiamo una tale
opinione di essi che, quando siamo adirati e dobbiamo dire qualcosa di offensivo a chi ci sta dinnanzi, gli
gridiamo soltanto: “Tu sei un romano!”, intendendo con questo tutto quanto c’è al mondo di più basso, di più
vile, di più avido, di più corrotto , di più falso…>> (p. 350). Liutprando si rifaceva a una tradizione molto
antica, anche se il suo mondo ideale era diverso dalla posizione forte assunta davanti all’imperatore
bizantino. Nel capitolo introduttivo dell’Antapodosis, I 1, cit., p. 275, egli cita Cesare e Pompeo e i
protagonisti delle guerre puniche come condottieri da ricordare; tesse l’elogio funebre dell’imperatore
Lamberto che, se non fosse morto prematuramente << is esset, qui post Romanorum potentiam totum sibi
orbem viriliter subiugaret>> (p. 286); avendo cantato e rimpianto la rovina della sua patria, Pavia, devastata
dagli Ungari, ne esalta la grandezza, mettendola a confronto con quella di Roma: <<Quid alias memorem,
cum insignis ipsa totoque orbe notissima Roma huic inferior esset, si preciosa beatissimorum apostolorum
corpora non haberet>> (p.304). Si veda, in proposito, l’esauriente studio di G.Arnaldi, Liutprando e l’idea
14 allora non destò grande eco, come qualche secolo dopo non sorprese nemmeno
l’aggettivo etnico e geografico italiano, che si affiancò al termine di calco latino,
italico. Tali parole ebbero una fisionomia generica e molto medievale: <<gli
italiani erano tutti coloro che, qualunque ne fosse il parlare o il signore,
comunicavano nella romanità e nel cristianesimo. Come gli Italici erano stati tutti gli
abitanti della penisola italica, quale che ne fosse il sostrato etnico, così una decina di
secoli dopo, gli italiani furono tutti gli abitanti della stessa penisola, dipendessero da
Roma o da Bisanzio, dal papa o dall’Imperatore>>44.
Ma il lessico ampliato ha un suo senso storico, e ci si chiamasse italienses o italiani,
invece di italici, poco rileva, in quanto la diversità e la novità rispetto alla tradizione
antica non devono essere sottovalutate: la riformulazione dei termini <<coincide
cronologicamente con l’avvio al superamento della denominazione di Lombardi che,
per lunga tradizione, aveva prevalso per indicare gli abitanti del regno italico col
nome del popolo nuovo stanziatosi in Italia nel pieno del medioevo barbarico e che
ora, a differenza di quanto accadeva in Francia, cedeva alla rinnovata prevalenza
dell’appellativo derivato dal nome del paese, anche se questo appellativo veniva a sua
volta mutato nella sua forma>>45.
4. E’ giunto il momento di conoscere più da vicino il placito capuano, in ordine di
tempo il primo dei quattro giudicati, e diciamo subito che placito è un vocabolo
polisenso, con ascendenze classiche.
Domitio Ulpiano, celebre giurista dell’età dei Severi, quando lo sviluppo del
principato si protendeva ormai verso l’affermazione del principio monarchico,
affermò che quod principi placuit legis habet vigorem46, rivelando lo sforzo di dare
una base costituzionale al potere normativo imperiale non diversamente individuabile
di Roma nell’Alto Medioevo, in Archivio della Società romana di storia patria, LXXXIX, 1956, pp. 23-34,
dove si rinvengono le citazioni precedenti. 44
P. Aebischer, Italiano, in Ioanni Dominico Serra ex munere laeto inferiae, Napoli 1959, p. 50. Sono
assolutamente da condividere i rilievi di M. Durante, Dal latino all’italiano moderno, cit., p. 82, secondo il
quale << a partire dal sec. XII affiorano gli antroponimi Italia, Etalia, Talia, che si riconducono al modulo
allora assai frequente dell’identità tra nomi geografici e nomi personali. Il derivato italiano nasce a quanto
pare verso la metà del Duecento. La prima testimonianza è in quattro passi del Trésor di Brunetto Latini:
nella traduzione toscana ytalien viene reso una volta italiano, altrimenti d’Italia. Ma rimane frequentissimo
fino al Quattrocento il più antico derivato italico, che non è conforme alla morfologia volgare. Ed è
significativo che Italia e italiano si configurino come esiti dotti, a differenza delle denominazioni degli altri
paesi romanzi mancano: infatti la palatalizzazione della consonante laterale come in figlio e l’aferesi della
vocale iniziale come in desso da idipsum. Il concetto di Italia comincia a diffondersi quando la cultura si
apre a un orizzonte sociale più vasto nell’età comunale, ma rimarrà a lungo una nozione avulsa dalla realtà
politica, culturale e linguistica. La coscienza dell’unità italiana è saldissima in Dante, in Petrarca e in Guido
da Pisa. Ma si tratta di gloriose eccezioni>> 45
G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, cit., p. 53. 46
Ulpiano (D.1,4,1, pr.): << quod principi placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de
imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat>>.
15 nel sistema, mentre i compilatori giustinianei definirono principum placita le
costituzioni dell’imperatore47: questi divenne l’unico magistrato capace di produzione
legislativa, e la legge era quella che egli approvava solennemente48.
Nell’Editto longobardo, il placito indicava l’assemblea del popolo, che emanava
decisioni legislative e giudiziarie: la distinzione formale delle diverse deliberazioni
risiedeva nel fatto che la legge era valida per tutti i casi, mentre il giudizio si limitava
a un affare determinato. Poiché le assemblee legislative erano molto rare, a differenza
delle altre, che si svolgevano con maggiore frequenza, è facile spiegare il motivo
dell’identificazione del placito con il giudicato, che gli storici correntemente
utilizzano come sinonimi.
Nell’uso medievale, a ogni buon conto, placito è la riunione giudiziaria49, non la
sentenza o il documento, che riferisce lo svolgimento della prima e il contenuto della
seconda50.
Vediamo ora cosa accadde a Capua, nell’incipiente primavera del 960.
Il principe Landolfo II, e i suoi figli Paldolfo I e Landolfo III siedono davanti al loro
Palatium per amministrare giustizia. Sono presenti i maggiorenti dell’aristocrazia
militare, che eccelle nella regione: i gastaldi o conti di Teano, di Aquino, di Caiazzo,
di Alife, di Venafro, di Isernia, e con loro tutti gli uomini liberi, chierici e laici. Il
banno pubblico (communio), che gli ufficiali addetti (placitorum communitores)
hanno diffuso con tempestiva diligenza, fa accorrere anche il popolo minuto, il quale
approfitta dei tepori della bella stagione e riempie ogni spazio.
L’evento ha particolare risonanza, poiché è in discussione la proprietà di una vasta
area tra un ricco signore di Aquino, tal Rodelgrimo, figlio di Lapo, e il venerabile
Aligerno, potente abate di Montecassino, che è accompagnato dal chierico e notaio
Pietro, avvocato del monastero.
La liturgia processuale comincia con la comparizione delle parti davanti al iudex
civitatis, di nome Arechisi, che , assistito da altri notabili, definisce le controversie
sottoposte alla sua valutazione51.
47
Iustiniani Inst. 1,2, 6. 48
Secondo i riferimenti di Cassiodoro, Variae, in Monumenta Germaniae historica, t. XII, Berolini 1891,
pp. 234 e 332, talvolta la legge di Dio veniva chiamata placitum Dei. 49
L’attività giurisdizionale, tuttavia, si svolgeva anche nel mallo, e le fonti parlano sia di malli che di placiti,
onde riesce difficile stabilire se i termini fossero usati come sinonimi o rispecchiassero due diversi tipi di
giudizio, due assemblee diversamente composte. Viene sostenuto che mallo ha il primigenio significato di
assemblea, da cui assemblea giudicante e quindi giudizio, mentre placito esprime il concetto di statuizione,
decisione liberamente presa e ormai definitiva. In ogni caso, <<la graduale maggior frequenza nelle fonti
dell’uso del termine placito sul termine mallo, in epoca in cui le assemblee avevano quasi del tutto perso la
funzione legislativa e politica, potrebbe far ritenere che placito avesse specifico il significato di giudizio là
dove mallo stava ad indicare genericamente l’organo e le sue diverse funzioni fra cui anche quella
giurisdizionale>> (P.L. Falaschi, <<Placita>>, in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1968, p. 115, il
quale osserva che talvolta i due termini sono usati promiscuamente specie nelle forme verbali mallare e
placitare, nel senso di citare, ma anche in quello di tenere giudizio). 50
Così, P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 7, n.60. 16 Rodelgrimo produce un’abbreviatura52, cioè una carta nella quale sono
minuziosamente descritte le terre in questione con i precisi confini, vantandone la
proprietà iure hereditatis, per averle ricevute dal proprio genitore, dagli avi e dagli
altri parenti. Si aspetta la soluzione della lite secondo legge. Aligerno e l’avvocato del
monastero, a loro volta, oppongono alla pretesa dell’ avversario un’eccezione
puntuale: il cenobio benedettino ha già posseduto quelle terre per trenta anni, come
può essere dimostrato a mezzo dei testimoni Teodomundo diacono e monaco, Mari
chierico e monaco, Gariberto chierico e notaio.
Il giudice chiede a Rodelgrimo se dispone di scritture a sostegno delle rivendicazioni
o è in grado di provare in altro modo il suo diritto. Avuta risposta negativa, emette la
sentenza e ordina alle parti di impegnarsi con guadia in questi termini: Rodelgrimo
deve presentarsi per ricevere la prova (quatenus ipse… plicaret se cum lege); l’abate
Aligerno, per il suo monastero, è obbligato a fornire la prova con i testimoni che,
tenendo in mano l’abbreviatura esibita da Rodelgrimo, pronunzino, confermandola
con giuramento, la formula che lo stesso Arechisi ha elaborato: Sao ko kelle terre, per
kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
I contendenti, attraverso mediatori o fideiussori, garantiscono gli impegni presi, e si
allontanano.
Nel giorno stabilito di comune accordo - verosimilmente compreso tra il 17 e 31
marzo53 -, ricompaiono davanti al giudice. Rodelgrimo ha con sé gli Evangeli, pronto
a ricevere dall’abate i testimoni e i giuramenti, mentre Aligerno reca i testimoni e i
legittimi sacramentali, preparato a dare all’avversario la prova delle pretese del
cenobio.
Arechisi, come da ordine del principe Landolfo, rivolge le domande rituali ai
testimoni, i quali gli rispondono che sono venuti per conto del monastero e
dichiareranno la verità di quel che sanno. Poi fa separare l’uno dall’altro:
Teodomondo è condotto in una parte, Gariperto in altra parte, mentre rimane davanti
al tribunale il solo Mari.
Quest’ultimo, esortato per il santo timor di Dio a rivelare ciò che sa intorno ai fatti
in questione, tiene in una mano l’abbreviatura che Rodelgrimo ha portato in giudizio,
la tocca con l’altra mano e rende la dichiarazione negli esatti termini fissati dal
giudice. Gli altri fanno la stessa cosa, ripetendo la proposizione testimoniale.
Dopo che tutti hanno reso deposizioni concordi, s’avanza Rodelgrimo con in mano
gli Evangeli, che i testimoni, uno alla volta, toccano, giurando che quanto hanno detto
51
Mentre a Benevento esistevano quattro categorie di giudici – in ordine di importanza, iudex civitatis,
gestaldus et iudex, gastaldus, iudex -, a Capua troviamo soltanto il iudex civitatis, che probabilmente era
equiparato a un conte palatino del Regnum Italiae (C.G.Mor, L’età feudale, II, Milano 1953, p. 132).
Questa doveva essere la condizione di Arechisi, come ritiene R.M.Ruggieri, Tra storia della lingua e storia
del diritto, cit., p. 540, n.13. 52
L’abbreviatura è una specie di promemoria che le parti concordavano tra loro per chiarire reciprocamente
i termini precisi della questione (P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 2, n. 16). 53
Così, P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 5, n. 47. 17 in precedenza risponde a verità. Non rimangono che i sacramentali, i quali devono
giurare insieme con l’abate in favore del monastero54. Rodelgrimo, però, rinuncia al
loro giuramento e formalmente dona gli stessi, e implicitamente anche le terre,
all’abate Aligerno, da cui riceve in dono un mantello a titolo di launegild 55. A
conferma del componimento di tutta la lite si conviene che, qualora Rodelgrimo o i
suoi eredi tentino con qualsiasi pretesto di infrangere o revocare questa loro rinunzia,
dovranno pagare all’abate, ai suoi successori e al monastero una penale di centum
bizantios solidos, fermi restando gli effetti della rinuncia.
Il giudice, avendo constatato il regolare compimento di tutti gli atti fin qui descritti,
pro recondandum im perpetuum ea omnia qualiter superius gesta sunt e per la
sicurezza del monastero, dei suoi abati e rettori, emette a conclusione della
controversia il iudicatum56. Il notaio Adenolfo fu incaricato di redigere il documento,
sottoscritto da Arechisi, da Pietro chierico e notaio e da un altro Pietro notaio57.
5. Il placito esaminato offre un composito disegno58, entro il quale sono richiamati
elementi della civiltà romanica, longobarda e bizantina, epifenomeno della
complessità esistente nell’Italia meridionale59.
Come è noto, i Bizantini, che individuavano quei possedimenti con il nome
Langobardia, senza fissare confini precisi e stabili, consideravano i principati di
Benevento, di Salerno e di Capua come temi sottoposti alla protezione del basileus,
ma i principi longobardi continuavano a proclamare i diritti dei loro predecessori,
poco o punto curandosi della lontana e spesso virtuale sovranità dell’Imperatore
d’Oriente. Non a caso, dal tempo di Landolfo II e Pandolfo Capodiferro, vale a dire
54
Sul punto, sono assolutamente da condividere i rilievi di P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 6
nt. 53: <<Che dovessero giurare insieme con l’abate, non è detto nel nostro documento, ma è proprio
dell’ufficio dei sacramentali o congiuratori; i quali, anche quando giuravano non de credulitate ma de
veritate, cioè non della generica attendibilità ma della specifica rispondenza a verità di quanto aveva detto la
parte, dovevano sempre riferirsi al precedente giuramento di questa>>. Quanto al contenuto del giuramento
dei sacramentali, A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione,
VI, Torino 1887, pp. 119 ss.; G.Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto
italiano, diretta da P. Del Giudice, III, pt. I, Milano 1925, pp. 265-267.
55
E’ l’unico vocabolo autenticamente longobardo del documento, dove è però scritto launegilt, una voce
ugualmente ricorrente. 56
“Giudicato” non nel senso moderno di sentenza definitiva, ma, come detto nel testo, nel senso medievale
di documento dove è riferita la sentenza stessa. Ciò spiega perché accanto a iudicatum le fonti adoperano
anche il sintagma notitia iudicati, con significato equivalente (P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 7,
n. 60.).
57
Gli ultimi due sicuramente sono alcuni dei <<ceteris viris>> che hanno assistito al giudizio. Del ruolo di
costoro nell’ambito del giudizio si dirà nel prosieguo.
58
Il placito capuano, cui sembra partecipare direttamente il principe nell’esercizio del potere giurisdizionale,
appare più ricco di spunti ricostruttivi, ma l’analisi sotto l’aspetto storico e giuridico è estensibile anche agli
altri placiti.
59
In proposito, R.M.Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit, p. 533 ss. 18 dal 943, la data degli atti pubblici redatti a Capua si conforma agli anni del loro
principato, come avviene appunto nei placiti campani. Se documenti beneventani
riportano il nome dell’imperatore di Bisanzio, ciò rispecchia una mera esteriorità,
giacché la città sannita era unita a Capua sotto lo stesso governo60. Infatti, nel gennaio
del 900 il conte Atenolfo aveva conquistato il principato di Benevento, sicché il
Meridione longobardo, nel quale rientravano Terra di lavoro, Sannio e Molise
costiero, formò un’area di integrazione politica, disposta lungo l’asse della via
Appia, che collegava Capua a Benevento61. La modificata situazione, da un lato,
comportò la sopravvivenza di concezioni e istituzioni beneventane, dall’altro lato,
favorì aperture a nord con le terre papali e con il ducato franco di Spoleto, a sud-est
con le province pugliesi bizantine62.
All’interno del principato capuano, vigeva la lex et consuetudo romanorum, che era
una mescolanza di pratiche romane venate largamente di diritto longobardo63, il
richiamo del quale rispecchia più un ossequio verso antichi valori che non l’efficacia
cogente del suo operare. Molti documenti, infatti, mostrano che <<anche dove il
diritto longobardo era più radicato, esso si palesi come sopravvissuto soltanto in
alcuni istituti, ridotti anche questi…ad una pura formalità>>64. La base fondamentale
di quella normativa, però, è giustinianea, e nel iudicatum di Arechisi si coglie con
assoluta nitidezza la prevalenza dei principi romanistici: non potrebbe essere
altrimenti in una controversia che investiva beni immobili, rispetto ai quali la
giurisprudenza e la legislazione di Roma avevano raggiunto traguardi di estrema
perfezione.
A tale proposito, è opportuno precisare che, in seguito allo stanziamento dei
Longobardi in Italia, il loro contatto con il mondo rurale, estraneo alla primitiva
mentalità barbarica, non fu più accidentale e provvisorio: la terra, che diviene,
indirettamente prima e poi direttamente,65 oggetto di razionale sfruttamento colturale
60
R.M.Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 537-538. 61
I figli di Atenolfo, cioè Landolfo I e Atenolfo II, sgominarono i Saraceni che, partendo dalla colonia
alla foce del Garigliano, infestavano molte zone della Campania e commettevano razzie. Verso la metà
del sec. X, rifulse poi la signoria di Pandolfo Capodiferro, <<feudatario e bandito di genio>>: riunì in un
solo principato Benevento, Salerno e Capua, spingendosi fino a Spoleto e alla marca di Camerino, c ricostituì
l’unità della Langobardia minore (N. Cilento, Il placito di Capua, cit., pp. 38-40.). 62
Per questi argomenti, N. Cilento, Le origini della signoria capuana nella Longobardia minore, Roma
1966; P.Delogu, Il principato di Salerno. La prima dinastia, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G.
Galasso e R. Romeo, II/2, Napoli 1989, pp. 239 ss.; H.Taviani Carozzi, La principauté lombarde de Salerne.
IX-XI siècle, Rome 1991, I, pp. 241 ss. 63
C.G.Mor, L’età feudale, cit., p. 430.
64
P.S.Leicht, Territori longobardi e territori romanici, in Atti del I Congresso internazionale di studi
longobardi nella storiografia bizantina, Spoleto 1952, p. 192.
65
All’inizio della dominazione longobarda, fu imposto ai possessori romani il versamento di una tertia,
come riferisce Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II c.32, in Monumenta Germaniae historica,
Scriptores rerum langobardicarum et italicarum, saec. VI-IX, Hannover 1878 ( ristampa anastatica,
19 e non solo di razzia predatoria, denota un fattore di potenza e il vero indice di
ricchezza, per le coltivazioni ivi praticate. I dominatori sono costretti dalla necessità
a trasformare il loro ecosistema, che finisce quasi per coincidere con quello romano
preesistente, assorbendo figure e criteri di disciplina della proprietà e del possesso
già valevoli nei territori italici 66.
Nel placito di Capua, il segno più evidente di codesta evoluzione è desumibile dalla
separazione della fase possessoria da quella petitoria67: la prima destinata a chiarire
e delimitare il ruolo che ciascuno dei contendenti avrà nella seconda, da cui
discenderanno gli effetti definitivi della decisione68. Tale distinzione trapassò dal
diritto romano alla concezione medievale, e le fonti collegano l’azione possessoria
alla turbativa (per esempio, se due persone accampano uguale diritto sul medesimo
fondo) o alla deiectio, allorché il possessore sia stato cacciato con violenza69.
L’iniziativa di Rodelgrimo costituiva appunto una molestia del possesso, e il giudice,
una volta conosciute le ragioni delle parti, emise la sentenza con invito alle stesse a
impegnarsi solennemente: l’attore a sottomettersi alla legge e il convenuto a
dimostrare con testimoni che le terre erano appartenute in passato, e per trenta anni, a
san Benedetto. La fase possessoria finisce qui, e la causa può dirsi sostanzialmente
conclusa, mentre la fase petitoria si articola secondo le modalità già viste nella
descrizione del fatto.
Anche la prescrizione trentennale70, che l’abate Aligerno ha potuto vittoriosamente
invocare, si fondava sulle disposizioni dell’età postclassica, perché i legislatori
Hannover 1987, p. 108): << Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum Langobardis
tributarii efficiuntur>>. 66
G.Diurni, Possesso (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano 1985, pp. 469 ss. 67
Con l’azione possessoria, chi ha il possesso di un bene può agire in giudizio a tutela della sua posizione,
senza l’onere di dimostrare di essere effettivamente titolare del diritto reale corrispondente. Con l’azione
petitoria, il proprietario o il titolare di altro diritto reale (ad esempio, servitù) agisce in giudizio contro il
terzo che mette in discussione tale diritto. 68
R.M.Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 540. 69
Sull’argomento, F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, III,
Città di Castello-Roma 1915, p. 45 ss. 70
In diritto romano, la praescriptio longi temporis era stata mutuata da un istituto del processo greco,
denominato paragrafè, una specie di eccezione opponibile dal convenuto all’attore che avesse svolto
un’azione reale o personale. Il decorso di un lungo periodo di tempo, senza che il secondo avesse esercitato il
diritto in contesa, rendeva inefficace l’azione stessa, se la circostanza corrispondeva a verità (U.E.Paoli,
Studi sul processo attico, Padova 1933, pp. 80 ss.).
Successivamente la disciplina fu specificata nel senso che l’usucapio riguardava l’acquisto dei beni mobili
e si perfezionava con il decorso di tre anni, mentre la praescriptio longi temporis concerneva i beni immobili
che si acquistavano con il possesso di dieci anni inter praesentes (cioè il proprietario e il bene immobile
posseduto dal terzo dovevano essere nella stessa città) e trenta anni inter absentes. I requisiti necessari al
funzionamento del meccanismo acquisitivo sono racchiusi in un esametro di fattura medievale: res habilis
20 longobardi, superando una consuetudine del loro popolo71, recepirono i principi della
praescriptio longi temporis, che Giustiniano enunciò in due costituzioni del 528 e
53172. In particolare, il giudice Arechisi applicò la regola emanata nel 774 da re
Astolfo che, nel contrasto possessorio tra l’appartenente alla stirpe longobarda e i
custodes locorum venerabilium, garantiva la posizione di chi potesse far valere il
possesso trentennale del bene73. Siffatta disciplina sostituì quella introdotta nel 668
da re Grimoaldo, secondo la quale il possessore doveva giurare di non possedere
malo ordine 74, mentre la normativa astolfiana ritenne bastante il possesso in sé per
respingere ogni prova contraria.
In ogni caso, l’effetto giuridico del possesso trentennale, secondo la concezione
giuridica longobarda, non si risolve tanto nell’acquisto di una teorica proprietà, ma
tende allo scopo ben più sostanziale di mettere il possessore al sicuro da ogni
molestia per l’avvenire, tutelando il potere di fatto sulla cosa in maniera assai
efficace75.
titulus fides possessio tempus (E. Besta, I diritti sulle cose nella storia del diritto italiano, Padova 1933,
p.177), la mancanza dei quali, in base a una costituzione di Costantino, databile fra il 326 e il 333, allungava
sensibilmente il tempo per il perfezionarsi dell’acquisto (CTh. 4,11,2; C.7,39, 2.). Si parlava allora di
praescriptio longissimi temporis - inapplicabile, peraltro, alle res vi possessae -, che agli inizi richiedeva
quaranta anni di possesso. Più tardi Teodosio II, nel 424, recependo una prassi consuetudinaria largamente
diffusa nei territori provinciali, sancì con una celebre legge (CTh. 4, 14,1; C.7.39,3) <<la prescrizione
trentennale di tutte le azioni, reali e personali, e quindi la intangibilità definitiva di qualunque situazione
possessoria prolungatasi indisturbata per tale periodo di tempo>> (L.Vacca, Usucapione (dir. rom.), in
Enciclopedia del diritto, XLV, Milano 1992, p.1015).
71
La prescrizione germanica era di un anno e un giorno, ma i popoli barbari, per influsso delle istituzioni
romane e del diritto canonico, accolsero le prescrizioni più lunghe, che soppiantarono quelle brevi. Su
questo istituto presso i Germani, F.C. von Savigny, Storia del diritto romano nel medioevo, trad. Bollati, I,
Torino 1854, p. 410 n. d. ; F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici, cit., pp. 45, 251-259. 72
C.7,39,8; C.7,25,1. 73
Aist. c. 18: << si quis langobardus qualecumque rem possederit, et custodes locorum venerabilium de
ipsis rebus eum molestaverit, et ipse possessionem suam de triginta annis consignaverit, et eius claruerit
possessio, possedeat et inantea. Similiter et venerabilia loca faciant de rebus, que ipsa possideunt, si a
langobardis fuerint pulsati>>, in G. Padelletti, Fontes iuris Italici medii aevi, I, Torino 1877, pp. 303-304.
Sul punto, P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 5 nt. 38. 74
G. Padelletti, Fontes iuris Italici medii aevi, cit., p. 175. Il re Grimoaldo, tra l’altro, si compiacque di
avere introdotto il giuramento dell’avvenuta prescrizione al posto della pugna per il possesso di case o terre
o servi: non perché gli sembrasse inaffidabile la pugna come mezzo probatorio, ma perché si poteva evitare
che il convenuto <<fatigetur>> (E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, in La
giustizia nell’Alto Medioevo, t.I, (Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo), XLII,
Spoleto 1995, p. 632, n. 15). 75
F. Schupfer,
Il diritto privato dei popoli germanici, cit., pp.251-252; P. Fiorelli, Marzo
novecentosessanta, cit., p. 13-13, n. 108. 21 Qualcosa in più bisogna osservare per la prova testimoniale, che ebbe scarsa e
irrisoria importanza nella procedura germanica delle origini, giacché poteva sempre
essere impugnata con un giudizio di Dio76.
Intanto, chi asseriva di avere subito un torto e voleva instaurare un processo, in
compagnia di testimoni, si recava dall’avversario, invitandolo (mannire) a presentarsi
in tribunale entro a una determinata scadenza. Davanti al giudice, l’attore assai
verosimilmente recitava formule rituali, esponeva la sua pretesa, giurava di essere in
buona fede e di attendere il giusto, invocando, sulle sue intenzioni, il iustum
iudicium Dei. Anche il convenuto spiegava le ragioni del contrasto, poiché su di lui
gravava l’onere di liberarsi dall’accusa e di provare la sua innocenza e la sua buona
fede77. Il sistema probatorio, perciò, ribaltava il principio romanistico actore non
probante reus absolvitur, in quanto il convenuto, che negava la pretesa
dell’avversario, doveva purificarsi dall’accusa con il giuramento o con il giudizio di
Dio78. Il giudice stabiliva le prove necessarie, fissando le pene a carico di chi,
obbligato a fornire la prova, si rifiutava o non riusciva: colui che voleva o doveva
provare era obbligato a eseguire, nel rispetto delle forme prescritte, quanto richiesto
dal giudice e solo allora la sua affermazione aveva il crisma della verità 79.
76
C. Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1968, p.
1140. 77
Sul processo germanico e longobardo, si vedano, tra gli altri, A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla
caduta dell’Impero romano alla codificazione, cit., pp. 114 ss.; G.Salvioli, Storia della procedura civile e
criminale, cit., pp. 265 ss.; M.Scovazzi, Processo e procedura nel diritto germanico (Rendiconti Istituto
lombardo di scienze e lettere. Classe lettere, scienze morali e storiche, XCII, 1958, pp. 105 ss.; C.
Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), cit., pp. 1139 ss.; A. Campitelli, Processo civile (dir.
interm.), cit., pp. 79 ss.; E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., pp. 621 ss.; P.
Delogu, La giustizia nell’Italia meridionale longobarda, in La giustizia nell’Alto Medioevo (Settimane di
studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo), XLIV, t. I, Spoleto, 1997, pp. 257 ss.
78
A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, cit., p. 114,
secondo cui il dovere del convenuto o del reo di giustificarsi <<era ad un tempo per lui un vantaggio, e
quindi anche un diritto; sia perché lo sottraeva al pericolo di vedere aggravata la sua condizione per la
persuasione della verità di ciò che asseriva l’attore, la quale persuasione avrebbe potuto ingenerarsi nei suoi
confronti per la prova che quegli avesse dato; sia per la facilità del somministrare la prova che era richiesta a
lui stesso: per la qual cosa i popoli tenevano fortemente a questo costume>>.
79
Il tribunale non faceva apprezzamenti sui motivi addotti, <<ma valutava le prove secondo regole fisse,
vincolanti la convinzione individuale dei giudici, che riguardavano non solo le ragioni probatorie messe
avanti, ma i mezzi stessi: e queste regole stabilivano essere unilaterale l’introduzione della prova,
escludevano le controprove, mettevano in linea le testimonianze, e davano ragione a chi riusciva nella prova
ordinatagli>> (G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, cit., p. 724).
Sono frequenti le situazioni in cui l’organo giudicante si limitava a stabilire i soggetti, l’oggetto e le modalità
della prova, lasciata nella sua ulteriore esplicazione all’attività delle parti e del mediator o fideiussore della
<<vadiazione>>, mediante la quale esse hanno definito i reciproci rapporti processuali: sicché la sentenza
assume l’aspetto di una dichiarazione alternativa o condizionata (G.Cassandro, La tutela dei diritti nell’alto
Medioevo, Bari 1951, p. 120 ss).
22 La superstizione dominava l’intero sistema, in cui si avvertiva il volere di un ente
superiore e imparziale: il designato alla prova invocava l’aiuto di Dio, e la mancata
riuscita era il segnale della volontà divina di non proteggere lo spergiuro80.
Sul punto, la fonti documentarie tra i secoli VIII e X attestano una fase di transizione
e la confluenza di usi giuridici diversi, riflettendo nella rozza nomenclatura tratti di
quanto è perduto o vivo della tradizione romana81. Il processo viene ancora sentito
come strumento idoneo a realizzare la pacificazione sociale, attraverso la
composizione dei conflitti connessa al risultato di rituali probatori dominati dal
formalismo, e il suo svolgimento è affidato alla volontà del soggetto, che può
scegliere tra l’accordo pacifico o la vendetta dell’offeso82. Tuttavia, i re longobardi,
sensibili all’opera civilizzatrice della Chiesa, sapevano che molte persone giuravano
il falso e si impegnarono a sostituire il giuramento con la prova testimoniale,
commista a vecchie e sentite osservanze83. Soprattutto Liutprando, nonostante
sbandierasse la testimonianza come un passo decisivo verso l’accertamento della
verità, non dovette essere del tutto convinto di lasciar definire la causa sulla scorta
del solo contributo dei testimoni, e studiò uno strano congegno, imperniato sul
tradizionale giuramento del convenuto e di una schiera di sacramentales, che, però,
corroboravano le dichiarazioni dei primi: <<di modo che la sentenza si poteva
fondare indirettamente sulla veritas accertata, ma appariva determinata direttamente
dal solito, vecchio mezzo decisorio>>84. Questa pratica durò nel tempo, e il placito in
esame, da cui risulta che i testi avevano giurato quasi uno ore – dunque, le loro
affermazioni hanno una garanzia logica di verità85 -, offre un indiscutibile riscontro
della disposizione86.
80
C. Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), cit., p.1139.
81
In generale, si può affermare che il theatrum iudiciale era un luogo d’incontro di due gruppi etnici: <<si è
infatti piuttosto concordi nel ritenere che non vi fossero giudici di legge romana e altri di legge longobarda
come se ne troveranno più tardi, nel secolo XI, e che qualunque fosse la natio delle parti esse si dovessero
presentare davanti allo stesso tribunale. Anche le regole della procedura sembrano, almeno a prima vista,
essere uguali per tutti e venir applicate indifferentemente a soggetti dell’una e dell’altra stirpe>> (E.Cortese,
Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., p. 627.).
82
Liut. c. 123.
83
Roth. c. 366; Rachi (prol., a. 746).
84
E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., p. 639. Questo miscuglio di vecchio e
di nuovo, di romanità e germanesimo ha fatto parlare di una testimonianza a potenzialità ridotta, che di
sicuro non aveva la medesima efficacia della testimonianza romana e moderna (F. Sinatti D’Amico, Le
prove giudiziarie nel diritto longobardo. Legislazione e prassi da Rotari ad Astolfo, Milano 1968, pp. 295302). 85
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 161 ritiene che la formula quasi uno ore sia
garanzia della verità delle affermazioni dei testi. Tuttavia, quel parlare << quasi a una voce>> conseguì al
fatto che giudice aveva predisposto in anticipo la formula da pronunciare. 86
Comunque, la trama originaria della procedura, strutturata sulla lotta o gara tra attore e convenuto, rimane
ormai sullo sfondo, e l’iter giudiziale si proietta verso l’accertamento della veritas rei, perseguita con
23 Riguardo al numero dei testimoni, in età medievale si riteneva che unus testis nullus
testis o vox unius vox nullius, massime che hanno radici in un principio della legge
mosaica, codificato nei Vangeli e ribadito nelle Epistole di San Paolo: in ore duorum
vel trium testium stabit omne verbum87. Quella previsione, in diritto romano
classico, non fu mai intesa nella sua assolutezza, e rappresentò piuttosto un criterio
empirico, come riferisce Seneca il Retore: uni (testi) etiam de minore scelere non
creditur88; soltanto durante l’ultimo periodo, la regola venne prevista nelle
costituzioni89.
Pure l’Editto longobardo, assai probabilmente elaborato da chierici o da sapientes,
che conoscevano le Sacre Scritture, stabilì il requisito imprescindibile di due o tre
testimoni per provare qualsiasi pretesa90.
Restano da svolgere poche considerazioni su una figura che, insieme con l’abate
Aligerno, occupa la scena: l’ <<avvocato del monastero>>, il quale ha la
rappresentanza processuale e presta l’assistenza nelle controversie riguardante i beni
monastici. Nihil sub sole novi, potrebbe pensare qualche lettore smaliziato anzi che
no, che sia abituato ai tanti azzeccagarbugli di manzoniana memoria, da sempre
l’ausilio di strumenti tolti dalla pratica romana comune: oltre alla testimonianza, ci si riferisce, in particolare
alla prova documentale (E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., pp. 637-638).
Anche la posizione del giudice <<si presenta come non meramente recettizia di fronte all’attività e alle
iniziative delle parti, e la prova testimoniale, in specie, assume i caratteri contrastanti con la concezione
puramente formale delle prove>> (G. Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p.
273).
87
88
Deut., XVII,6, e XIX, 15; Matth., XVIII, 16; Joh., VIII, 17; II Cor., XIII, 1; Hebr., 10, 28. Sen., Con., 7.1.23. Peraltro il vescovo enciclopedista Isidoro, Etym. 18, 15, 6, aveva affermato l’esigenza
di tres testes in giudizio, spiegando, per la sua parte, come prevalse il principio testis unus nullus testis. Cfr.,
G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, cit., p. 272.
89
Cod., 4, 20, 9: <<Sancimus ut unius testimonium nemo iudicum in quacumque causa facile patiatur
admitti, et nunc manifeste sancimus, ut unius omnino testis responsio non audiatur, etiamsi praeclare curiae
honor praefulgeat>>.
90
A dire il vero, Liut., c.8 (a.717) prima prescrive che << si qualiscumque causa inter conlibertus aut
parentis convenerit aut acta fuerit, et homini boni tres aut quattuor interfuerent, non reprovetur postea ipsa
causa, nisi eorum testimonium ambe partes credant, qui fuerent inter; pro cuius autem causa testis illi
testimonium reddederent, ipse homo causatori suo per sacramentum satisfaciat>>, e successivamente Liut.
c. 15 e c. 79 degli anni 720 e 726 richiede due o tre testimoni. Per più ampie e ulteriori considerazioni,
A.Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, cit., pp. 114 ss.;
G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 417 . Comunque, V.Manzini,
Trattato di diritto processuale italiano, I, Torino 1967, p. 238, n. 6, rileva che nemmeno nel diritto
intermedio ebbe valore assoluto l’affermazione che vox unius vox nullius, tant’è che nei casi meno gravi era
possibile acquisire la prova anche di un solo testimone de visu. Tuttavia quel canone era ancora osservato in
periodo preirneriano e fu ripudiato solo nell’epoca di Bartolo, per il quale fa piena prova dictum unius testis
integri, quando sia accompagnato da indizi. Sul punto, G. Salvioli, Le prove legali secondo la dottrina più
antica, in Rivista giuridica d’Italia, II, 1916, 30.
24 vaganti per le aule di tribunale e i palazzi del potere. Quella sufficienza illuministica,
ipotizzando il normale rapporto tra cliente e avvocato in un giudizio, produce però
affrettate conclusioni, poiché le cose non hanno l’ovvietà implicata dal latinetto.
Nell’organizzazione monastica fino all’anno Mille, l’avvocato del monastero è un
uomo assai potente: oltre alle funzioni sopra indicate, gli sono devoluti poteri di
polizia nel feudo, e ha la suprema direzione della cancelleria abbaziale; come
conseguenza dell’essere il rappresentante processuale, gli spettavano specifici poteri
per le prove dei diritti contestati e sotto di sé aveva un gruppo di uomini qui duellum
et sacramentum valeant facere91.
Per spiegare le ragioni dell’introduzione di codesto ufficio, occorre risalire al primo
concilio di Cartagine dell’anno 348, dove fu stabilito che gli appartenenti al clero non
potevano occuparsi degli affari secolari, e sempre a Cartagine l’undicesimo sinodo,
svoltosi nel 407, deliberò di inviare messi all’imperatore, per ottenere l’istituzione dei
defensores. Il ricordo dell’avvocazia nella legge romana è in una costituzione di
Arcadio, Onorio e Teodosio, con la quale si concede alle chiese di essere
rappresentate in giudizio non per coronatos, sed per advocatos92.
Una riforma completa dell’istituto sarà realizzata in età carolingia, e i capitolari
ordinano ut abbates, episcopi atque abbatissae…advocatus habeant93; la nomina
dell’avvocato del monastero deve essere fatta cum comite et populo per ragioni di
sicurezza e per vanificare ogni tentativo di autonomia94.
6. Passando alla normativa longobarda, un’indagine approfondita, attesa la
molteplicità degli argomenti da affrontare, porterebbe lontano e sarebbe eccessiva
rispetto alle necessità di questo lavoro, sicché conviene seguire un itinerario meno
tortuoso e circoscrivere le notizie all’essenziale. Con un preliminare rilievo: la
commistione di romanità e di forma mentis germanica nella legislazione può dar luogo
91
P. Grossi, Le abbazie benedettine nell’alto Medioevo italiano, Firenze, 1957, pp.150-151 92
P. Grossi, Le abbazie benedettine nell’alto Medioevo italiano, cit., p. 141. 93
Boretius A., Karoli Magni Capitularia – Capitulare Missorum Generale, a. 802, I, n. 33, c. 13, Hannover
1883, p. 93. 94
Sull’avvocato del monastero, Carlo Magno e Ludovico il Pio dettano una disciplina completa, che si attua
parallelamente alla trasformazione delle immunità dei monasteri da economiche e fiscali in giurisdizionali,
nel senso ben noto di vietare ai funzionari regi l’introitus nei territori cenobiali. In Italia la riforma
carolingia, però, restò lettera morta e ricevette scarsa applicazione, tant’è che gli abati benedettini serbarono
intatta la facoltà di scegliere questo loro dipendente, il quale non poteva essere ritenuto un <<delegato>> del
potere regio. Tale facultas eligendi si manifestò con assoluta ampiezza non soltanto nel Meridione dove i
Carolingi non erano mai penetrati e prosperavano i domini costieri di Bisanzio e il ducato longobardo di
Benevento, ma anche in altre parti della penisola. In proposito, E. Besta, Fonti del diritto italiano, Milano,
1950, pp. 67-68; F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano, p. 115; G: Astuti, Lezioni di storia del diritto
italiano, Le Fonti, Padova, 1953, pp. 136-137; P.Grossi, Le abbazie benedettine nell’alto Medioevo italiano,
cit. p.145; C. Schwarzenberg, voce Giurisdizione (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano
1970, p. 206. 25 a spunti contraddittori, per un non so che di ibrido e di ambiguo95, che non deve
assolutamente sorprendere.
Un dato di partenza importante può essere l’assetto della giurisdizione nel principato
di Capua-Benevento durante il secolo X: il giudice, come titolare effettivo del
procedimento, esercita il suo potere al cospetto del principe, che sovrintende alla
sessione giudiziaria, ma non interviene direttamente nel dibattimento, tranne rari casi.
La circostanza << esprime la concezione fondamentale del rapporto tra principe e
giudici, i quali risultano essere istituiti dal principe ed esercitano le loro funzioni come
un ufficio specializzato all’interno del rapporto dei poteri principeschi. Il principe non
si spoglia interamente della giurisdizione e può sempre intervenire nel processo, non
foss’altro sanzionandolo con la propria presenza, ma anche con una capacità
testimoniale eminente e orientando la formazione e il contenuto della sentenza. Nel
capuano la giustizia conserva dunque un rapporto stretto con la persona stessa del
principe, pur venendo amministrata da ufficiali ad essa specialmente dedicati>>96.
Arechisi medesimo, che si appresta ad acquisire le prove testimoniali, precisa di
agire sicut nobis iussut fuit a predicto domno Landolfo glorioso principe, e ciò induce
a pensare non solo che il principe fosse presente, ma addirittura che condizionasse lo
svolgimento del giudizio97. In occasioni del genere, la funzione del giudice si limitava
a ricevere le deposizioni giurate, a sorvegliare la procedura e a formulare la sentenza98,
poiché quella del sacro Palazzo era considerata una giurisdizione di favore, che un
certo numero di monasteri, Montecassino tra questi, avevano il privilegio di godere 99.
I documenti, poi, menzionano di frequente gli astanti al dibattimento ( viri, nobiliores
viri, boni homines)100, ma è difficile dire se facessero parte della corte, concorrendo
attivamente all’istruzione della causa e alla emissione della decisione, oppure fossero
semplici testimoni e garanti dell’azione giudiziaria, benché talora sottoscrivano il
95
Un esame approfondito di questi problemi è svolto da E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e
germanesimo, cit., p. 628 ss., il quale osserva che <<il marchio di fabbrica germanico del processo
longobardo sta nella ratio che lo anima e non trova analogie nel mondo romano, se non forse per qualche
vaga somiglianza con episodi arcaici. La struttura – sia ricordato a grandi linee e in modo un po’
semplificatorio – è tendenzialmente penalistica anche per il giudizio civile, nel senso che la lesione di un
diritto reale o contrattuale sembra nascondere dietro di sé l’offesa, e l’attore svolgerà sempre un po’ la parte
dell’accusatore e il convenuto quella dell’imputato>>. 96
P. Delogu, La giustizia nell’Italia meridionale longobarda, cit., pp. 267 e 270. 97
Gli iudices civitatis del Principato di Capua, <<salvo casi sporadici, non compaiono se non in giudizi
tenuti nel Sacro Palazzo>> (C.G.Mor, L’età feudale, II, cit., p. 132), per cui è ipotizzabile che il principe
fosse presente (P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 6, n.51).
98
G.Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, cit., 77.
99
E.Gattola (Gattula), Historia Abbatiae Cassinensis, t. I., Venezia, 1733, p. 38. Cfr., G.Salvioli, Storia
della procedura civile e criminale, cit., p. 77.
100
Nei tre placiti di Capua, Sessa e Teano viene ricordata la presenza degli astanti, mentre nel memoratorio
si parla solo dei testimoni. 26 giudicato101. In molti altri casi non v’è alcun ricordo degli stessi, poiché <<nessuna
istituzione e nemmeno le giudiziarie avevano norme così assolute e rigorose da
escludere qualsiasi deviazione. Spesso le circostanze, più spesso il potere arbitrario
dei principi alteravano quello che avrebbe dovuto osservarsi, tanto più che l’autorità
dei principi tendeva a crescere in danno del popolo>>102.
Delineata la composizione del tribunale, analizziamo più in dettaglio gli istituti
giuridici, partendo dall’operazione connessa al verbo guadiare103, che denota
l’impegno solenne richiesto dal giudice alle parti di rispettare il rituale, secondo uno
schema di processo costruito a mo’ di lotta e di competizione.
La prestazione della guadia o wadia104 è un momento intermedio del giudizio, che ha
la sua genesi nel più risalente diritto longobardo: il giudice era privo di poteri, organi
101
P. Delogu, La giustizia nell’Italia meridionale longobarda, cit., pp. 262-263, precisa che negli astanti al
giudizio, senza titolo di autorità né qualifica di funzione, <<si devono ravvisare uomini liberi del distretto di
cui non si comprende bene se facessero parte della corte – cioè se concorressero attivamente al dibattimento
ed alla formulazione della sentenza – oppure fossero semplicemente testimoni e garanti dell’azione
giudiziaria. Tali astanti non sono menzionati sempre, come se la loro partecipazione non fosse considerata
indispensabile>>. 102
G.Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, cit., p. 46.
103
Nel placito di Arechisi la formula è la seguente: << ideo nos qui supra iudex iudicabimus et per
nostrum iudicium eos guadiare fecimus>>. Sul termine vadiare (o guadiare): <<sponsionem facere,
pignore certare>>, vedi Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, VI, Parisiis 1846, p.
719. Come la stessa etimologia lascia intendere, la wadiatio richiama la vadiatura romana, con i garanti
che assicuravano la comparizione o il ritorno del convenuto in iure, nonché l’adempimento del
sacramentum, la solenne promessa scambiata dai litiganti, o l’eventuale restituzione della cosa contesa
(G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 196).
104
La wadiatio, che ha un rilievo fondamentale e analogo a quello della stipulatio romana, è forma
negoziale per la costituzione di rapporti obbligatori, idonea a realizzare i più disparati intenti pratici. Il
debitore si impegnava per wadiam all’adempimento di qualsiasi determinata prestazione mediante l’atto
solenne della consegna al creditore di un oggetto: in origine la wadia era probabilmente l’arma personale, la
lancia del debitore, sostituita in epoca storica da un bastone o ramoscello (festuca, fustis, stipula), e poi da
qualunque altra cosa, che rappresentasse pubblicamente l’assunzione del vincolo obbligatorio, la
responsabilità derivante dal contratto, e il correlativo potere attribuito al creditore sulla persona e sul
patrimonio del debitore. Simultaneamente alla consegna della wadia, o nel termine massimo di tre giorni,
<<il debitore era tenuto a wadiam recipere per fideiussorem, cioè a presentare al creditore un mediatoregarante idoneo, tale che meritasse la fiducia del creditore e possedesse almeno beni equivalenti al valore
della prestazione dovuta, e il creditore era dal canto suo tenuto a restituire la wadia al fideiussor>>
(G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 195; A. Campitelli, Contumacia
civile. Prassi e dottrina nell’età intermedia, Napoli 1979, pp. 17. ss; G. Cassandro, La tutela dei diritti
nell’alto Medioevo, cit., pp. 120 ss.). In sostanza, tale contratto faceva sorgere un rapporto tra creditore e
debitore, integrato dalla presenza di un terzo, il mediator o fideiussor, con funzioni di esecutore
stragiudiziale, che solo in un secondo tempo scompare , ammettendosi che il debitore possa direttamente
obbligarsi per wadiam assumendo il vincolo di autogaranzia. Codesto sviluppo della wadiatio, che vedeva la
garanzia diretta del debitore, corrispondeva a una pratica comune nel Medioevo: presso i Franchi esisteva la
fides facta, una forma negoziale in cui non compare più un garante e il debitore si obbliga direttamente nei
confronti del creditore. Un riscontro preciso si trova in un capitolo di Chilperico (Ed. Hilp. c.6), risalente
alla seconda metà del sec. VI., secondo cui il convenuto che si trovi nell’impossibilità di portare nel
processo un terzo garante, possa fidem facere da solo:<< similiter convenit, ut quicumque admallatus
fuerit…et non habuerit…qui pro eo fidem faciat, ut ipse in senextra manu fistucam teneat e dextera manu
auferat>> (G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 202).
27 e mezzi per tutelare direttamente la realizzazione del diritto, e l’obbligo imposto ai
contendenti di scambiarsi wadia e fideiussori aveva lo scopo di garantire gli
impegni reciprocamente assunti per la prosecuzione del processo e per l’esperimento
delle prove o per la conseguente esecuzione105.
Tanto più che la contumacia nella procedura dei Germani, contrariamente a quella
romana, determinava automaticamente la soccombenza dell’obbligato: la mancata
partecipazione al giudizio equivaleva a perdere. In questo settore, ebbe poi influenza
la legislazione di Carlo Magno, il quale prescrisse che occorreva ripetere quattro
volte l’intimazione a comparire, infliggendo una multa per ogni assenza del
convenuto, e alla fine pose il bannum sulla cosa litigiosa lasciando al re la decisione
sul da farsi106. La ricezione di quei principi fece sì che anche nel rito processuale
germanico emergesse l’interesse pubblico all’esercizio della giurisdizione accanto a
quello privato delle parti in causa: la contumacia venne considerata una forma di
disprezzo per l’autorità, che andava punita, ma il giudizio, secondo i principi romani,
poteva proseguire. Nella primitiva e genuina normativa longobarda ciò sarebbe stato
inconcepibile: <<solo la presenza delle parti poteva consentire quella competizione
che era l’essenza stessa del processo>>107 .
Tipicamente germanico è un altro meccanismo che si individua durante lo
svolgimento della fase petitoria, quando Rodelgrimo, essendo state raccolte le
dichiarazioni dei tre testimoni, deve ricevere il giuramento dell’abate e dei
sacramentales, chiamati pure coniuratores, aidi, iuratores. L’intervento di questi
ultimi, nella procedura delle origini, serviva a confermare l’asserzione del convenuto,
in quanto essi giuravano insieme con lui. Potevano non dire alcuna parola, ma
solamente appoggiare la mano destra sull’oggetto su cui doveva essere dato il
giuramento, mentre giurava l’obbligato, che copriva con la sua le destre dei
congiuratori. Era prevista una variante: potevano porre la propria destra nella mano
del convenuto mentre prestava il suo giuramento108. I sacramentali assicuravano la
piena fede meritata da colui con il quale avevano giurato, che ritenevano incapace di
dire il falso: si trattava, dunque, di un giuramento de credulitate 109, probabilmente
da collegare all’istituto della vendetta che i popoli germanici coltivavano per
105
G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p.198. 106
Capitulare legi Ripuarie additum , a. 803, c. 6, in Monumenta Germaniae historica, Capitulare Regum
Francorum I, 118= Capitulare italicum Karoli M. 27. Cfr. E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e
germanesimo, cit., p. 635, n. 20.
107
E.Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., p. 635.
108
A partire dai Carolingi, il giuramento dei sacramentali fu espresso, e dovettero prestarlo uno per volta,
dopo che aveva giurato colui che era obbligato a fornire la prova. 109
A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, cit., p. 119. 28 inveterata consuetudine, ed era conseguenza diretta dell’arcaica solidarietà dei
singoli nuclei familiari110.
Presso i Longobardi si ebbe una svolta: i congiuratori, diversamente dal passato,
erano chiamati a giurare non soltanto de credulitate ma de veritate, cioè non sulla
conoscenza generica ma sulla perfetta rispondenza a verità di quanto detto dal
convenuto, sempre facendo riferimento al precedente giuramento di quest’ultimo 111.
Dopo la conversione al Cristianesimo, giuravano con la mano destra sui Vangeli o
sulle sacre reliquie, e solo per le cause minori di venti soldi toccavano ancora le armi,
come nell’uso primitivo, purché fossero state benedette dal sacerdote112.
Il signore di Aquino non insiste per avere il giuramento dei sacramentali, e ne fa
donazione formale per fustem all’abate, che gli consegna un mantello ( launegild)
quale simbolo e prova dell’avvenuta soluzione della controversia113. Il gesto di
Rodelgrimo non rappresenta un dono nel significato giuridico di traditio o passaggio
di signoria, ma piuttosto un <<condono>>, in quanto rinuncia al giuramento dei
sacramentali portati dal convenuto (il verbo usato nel placito, tuttavia, è proprio
donare: per fustem ipsos predicti domno abati donabit). Insomma, i testimoni si erano
mostrati contrari all’attore, ed egli non aveva più interesse ad andare avanti con il
giuramento confirmatorio dell’abate e dei congiuratori, che avrebbe comunque sancito
la sua soccombenza. La partita era persa, e tanto valeva chiuderla subito con il ritiro
dall’agone giudiziale, come avviene in qualsiasi gara, ma l’abdicazione a un diritto
costituiva comunque per la controparte la gratuita liberazione da un obbligo, che molti
sentivano gravoso per la coscienza, sicché anche il condono del giuramento rendeva
possibile il launegild per remunerare il favore ricevuto114.
Questi avvenimenti diventano più comprensibili considerando che i Longobardi non
concepivano negozi giuridici di mera liberalità115, secondo una consuetudine
riconfermata nell’Editto di Rotari116.
110
C. Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), cit., p. 1140.
111
P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 6, n. 53. Che il giuramento dei sacramentali avesse pure la
funzione di testimoniare la verità è dimostrato da M.Lupoi, Alle radici del mondo giuridico europeo. Saggio
storico-comparativo, Roma 1994, pp. 441 ss. 112
A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, cit., pp. 121122. 113
Per il significato della fustis, vedi nota 90.
114
Du Cange, Glossarium
latinae et infimae latanitatis, IV, Parisiis 1845, p. 45, alla voce launechilde et launegilt spiega:
reciprocum donum, seu pretium quodammodo rei donatae, ντίδωρον.
E. Cortese, Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, cit., p. 641. Il
115
Come osserva G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 231, nel diritto
longobardo, una donazione, quando non fosse stata fatta per gairethinx, con atto solenne, dapprima di fronte
all’assemblea giudiziaria, all’esercito radunato in armi, quindi davanti a semplici testimoni, doveva essere
compiuta per launegild, il quale era un qualsiasi oggetto, per lo più di infimo valore, che il donatario
consegnava al donante, come corrispettivo simbolico del dono, allo scopo di ristabilire la bilateralità nello
spostamento di ricchezza. 29 Il barbaro che procede in schiera armata e vive delle prede di guerra, o il proprietario
terriero che stenta sul proprio podere e ne difende i pochi frutti che possiede, non
ammette
l’idea di un atto gratuito e senza corrispettivo117. Tale carattere della
proprietà e del possesso (denominati spesso con l’unico termine gewere 118) rende
perciò impensabile che il longobardo doni qualcosa: poiché il singolo non vive
isolato, ma in un gruppo organizzato, composto di parenti e di vicini, ogni atto
dispositivo di beni deve essere controllato e approvato dai parentes e dai vicini119.
Con l’adesione ai principi della religione cattolica e la stabilizzazione della proprietà,
i costumi si trasformano, e lo stesso Rotari prevede la donazione universale dei beni
per l’istituzione di erede120, revocabile però in caso di sopravvenienza di figli121.
Invece, rimase sempre estranea alla coscienza collettiva la donazione particolare di
una o più res. Affinché l’atto di liberalità in questi casi fosse valido, il beneficiario
dava simbolicamente al donante un compenso: il launegild, che consisteva in un
oggetto per lo più di scarsa importanza economica (zolla, pietra, lancia, pelliccia, un
guantone e altro) 122, il quale stava al posto del prezzo; il donatario aveva l’obbligo di
consegnarlo in contraccambio del dono, per ristabilire la bilateralità nello spostamento
di ricchezza. Tale controprestazione di valore minimo era necessaria al
perfezionamento della donazione che, in difetto di essa, poteva essere sempre revocata
116
Roth. c. 175.
117
F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici, cit., pp. 224-238; A.Solmi, Storia del diritto, Milano
1930, p. 404; F. Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, cit., p. 187.
118
La Gewere è una figura giuridica di difficile inquadramento per gli innumerevoli significati che il
termine assume nelle fonti sia documentali sia legislative e per le disparate interpretazioni che della stessa
sono state fornite. Essa non indicava un concetto ideale , ma un fatto materiale, la relazione tra la cosa e il
suo detentore (G.Barni, Possesso (diritto intermedio), in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino 1968, p.
330 ss.). In sostanza, <<la Gewere e la proprietà si muovono su due piani completamente separati: la prima
consiste in una situazione di fatto, qualunque essa sia, elevata a titolo e si muove nel mondo dell’esperienza
in quanto si radica e si risolve nella relazione effettiva con la cosa. La seconda si sostanzia in una signoria
assoluta sulla cosa, che il soggetto considera come propria: siffatta signoria comprende naturalmente anche
la relazione fisica con la cosa stessa, ma non si risolve in essa, in quanto ne costituisce soltanto il sostrato
fisico, che consente l’esercizio di tutte le facoltà insite nel dominium >> ( G.Diurni, Possesso (dir. interm.),
cit., p. 473-474). 119
Roth., c. 172: <<si quis res sua alii thingare voluerit non absconse, sed ante liberos homines ipsum
harenthinx faciat…, ut nulla in posterum oriatur intentio>>. Cfr., F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli
germanici, cit., p. 225; M. Bellomo, Donazione (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XIII, Milano 1964,
p. 956. 120
F. Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, cit., p. 129.
121
122
F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici, cit., p. 223; A. Solmi, Storia del diritto, cit., 344. Al posto di launegild, le fonti impiegano anche i vocaboli meritum, widerdonum (contro-dono, da cui
guiderdone).
30 dal donante e dai suoi eredi123; il suo carattere simbolico, tuttavia, serviva a dare veste
onerosa a un contratto in realtà gratuito, trasformandolo in un negozio commutativo124.
Resistette nel tempo codesta pratica, e nella causa tra Rodelgrimo e l’abate Aligerno
la peculiarità sta appunto nel fatto che << la rinuncia ai sacramentales della parte
avversa si svolge nei modi stessi che simboleggiano il passaggio di proprietà ed
equivale quindi ad esso… Dando per scontato il giuramento che avrebbe dovuto
confermare il possesso trentennale delle terre in contestazione e identificandolo con la
definitiva rinuncia alle terre stesse si [volle] conferire un carattere eccezionale e
clamoroso alla sconfitta della parte soccombente>>125.
7. Nessuna traccia della legislazione dell’Imperatore d’Oriente si trova nei principati
di Capua, Benevento e Salerno, e il placito di Arechisi contiene un’unica frase che
richiama il mondo neogreco: quella che pone a carico di Rodelgrimo o dei suoi eredi,
qualora infrangano i patti raggiunti, l’obbligo di versare all’abate o ai suoi successori
una penalità di centum bizantios solidos. E’ il soldo d’oro o nomisma126, una moneta
di valore eccezionale fin dalla metà del secolo VII, che faceva premio in numerosi
mercati anche assai lontani, benché la somma quantificata appaia esigua, se
comparata al valore dei ventimila ettari di terra ceduti dall’aquinate all’abate
Aligerno127. Il primo a usare la voce latina bisanteus per designare tale moneta fu
papa Giovanni VIII (872-882), e molte carte ribadiscono l’importanza del soldo aureo
negli scambi commerciali e nelle altre relazioni sociali128.
La carenza di testimonianze giuridiche bizantine corrisponde all’attenuata incidenza
del potere di Bisanzio in tanta parte dell’Italia meridionale, dove i principi
longobardi, affermando sempre la loro indipendenza effettiva, erano in costante
123
Roth. c. 175; Liut. c. 73: <<de donatione sine launigild aut sine thingatione facta est, minime stare
deveat>>. 124
G.Astuti, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, cit., p. 231. 125
R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 542, n. 18. Anche nel citato placito del
954 per il monastero di San Vincenzo al Volturno <<noluit ipse Paldefrid comes sacramentum tollere, sed
per fustem ei [ all’abate Leone] donavit, et launegild inde secundum legem, ab eo recepit camisum unum, in
omni decisione, et in ea racione, ut si ipse Paldefrid comes, aut eius heredes, de nominata donacione per
qualecumque ingenium dirumpere aut removere quesierit, centum bizanteos solidos pena se, et suos heredes
eidem domno Leoni abbati, et ad posteros eius componere obligavit, et supradicta donacio firma permanere
in perpetuum>> (Rerum Italicarum Scriptores, ediz. Federici, II, p. 67). Remissioni di giuramento con o
senza launegild sono documentate nel Codex diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi-M. Schiani S. De Stephano, Milano-Napoli-Pisa, 1873-1893, I, nr. 115, 116, 180, 181, 201; VIII, n. 1321, 1322. Per altre
indicazioni, P. Delogu, La giustizia nell’Italia meridionale longobarda, cit., p. 294, n. 62. 126
Il peso di un bisanzio era pari a gr. 4,55 d’oro. 127
128
Per questa quantificazione, P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 12.
R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 539, anche per i riferimenti di fonti e
letteratura. 31 antagonismo con le terre dell’Impero. Essi mantennero e imposero, in certo senso, la
loro individualità anche di fronte alle popolazioni greche della Puglia settentrionale,
per cui le influenze bizantine restarono nel puro campo politico, ma non poterono
radicarsi sul piano giuridico129.
Bisanzio, ricca d’insospettata vitalità, aveva i mezzi per legare a sé il Mezzogiorno: a
suo favore, giocavano il fascino della sua superiore civiltà, la penetrazione culturale
attraverso i monasteri bizantini, che secoli X e XI facevano sentire il loro influsso
nelle terre longobarde, i legami matrimoniali con le dinastie indigene, i numerosi
traffici e commerci con i popoli di ogni terra del mondo conosciuto. Nemmeno
Bisanzio, però, <<possedeva forze tali da imporsi su tutta la contrada, dacché,
all’indomani di ogni successo della sua abilissima diplomazia le sfuggivano quegli
stessi potentati che questa credeva di aver legato al carro del basileus. Le aspirazioni
di quest’ultimo, quindi, non potevano andare al di là della conservazione dello status
quo meridionale…>>130 .
I principi di Benevento, Capua e Salerno, comunque, non rimasero indifferenti al
sistema economico bizantino, ma ciò resta ai margini sia degli ordinamenti sociali e
civili veri e propri, sia della vita linguistica nelle sue più immediate e diffuse
manifestazioni131.
8. Arrivati a questo punto, dobbiamo affrontare questioni non secondarie nel discorso
di insieme: per un verso, valutare se il placito di Capua rifletta una vicenda concreta
o costituisca la predisposizione documentale di un processo organizzato ad arte, nel
quale l’affare sottoposto al giudice è costruito per scopi diversi, non necessariamente
contro giustizia e verità132; per altro verso, accertare se le formule pronunciate dai
testimoni corrispondano alla parlata dei luoghi di origine. Per le verifiche è necessaria
la disponibilità di maggiori elementi, che presuppongono almeno la rapida lettura
degli altri placiti, ugualmente finalizzati a giustificare i possessi dell’abbazia di
Montecassino e, quindi, a fornire materiale utile alla discussione.
Cominciamo dal <<iudicatum>> di Sessa. Nel marzo 963, davanti al giudice
Maraldo si presentano Gaido, abate del monastero di San Salvatore in Cucuruzzo,
assistito dal suo avvocato Orso, e tale Gualfrid. E’ in discussione la proprietà di
terreni occupati da quest’ultimo, che sostiene di averli ricevuti in eredità dai propri
genitori. Gaido, però, è in possesso di due rogiti notarili dai quali risulta che tali beni
sono stati in parte venduti e in parte donati al monastero da Pergoaldo. Bisogna
provare che quest’ultimo ne sia il legittimo proprietario. In seguito a un sopralluogo,
tre testimoni, indicati dall’abate, dichiarano con giuramento: << Sao cco kelle terre,
129
C.G.Mor, L’età feudale, II, cit., pp. 430-431. 130
E. Pontieri, Benevento longobarda e il travaglio politico dell’Italia meridionale nell’Alto Medioevo, in
Atti del III congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1959, pp.31-32. 131
R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 539. 132
32 S. Pellegrini, Ancora <<Sao ko kelle terre>>, cit., p. 35. per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le
possette>>133.
Segue, poi, il <<memoratorium>> di Teano del 26 luglio 963. Ricorda una
controversia portata innanzi al giudice Bisanzio da Giovanni, preposito e custode del
monastero femminile di S. Maria in Cingla, contro Leocaro, Abalsamo e Donnello,
che sostenevano di avere diritti di proprietà per successione ereditaria su un
appezzamento situato nel territorio di Teano, in località Tora. La lite fu risolta dal
giudice in favore di Giovanni che, dopo un sopralluogo sull’appezzamento stesso
per la verifica dei confini, difende il diritto di proprietà trentennale della sua chiesa,
affermando di essere in grado di provare le sue affermazioni con testimonianze
giurate, di cui propone la formula in volgare: <<Kella terra, per kelle fini que bobe
mostrai, Sancte Marie e, et trenta anni la posset parte Sancte Marie>>134 . I privati,
a loro volta, si dichiarano sprovvisti di mezzi di prova, ma accettano che il privilegio
e l’onere della prova spettino all’abate Giovanni. Viene nominato fra i contendenti un
mediatore nella persona di certo Falcone.
Poiché il memoratorio concerne esclusivamente la prima fase del giudizio, la formula
di giuramento è ripetuta una sola volta135.
Infine, c’è il iudicatum di Teano svoltosi nell’ottobre del 963. Lo stesso Giovanni
compare davanti al giudice Bisanzio e ad altri notabili, per rivendicare la proprietà di
due terre appartenenti alla chiesa di S. Maria di Cingla, ingiustamente invase e
depredate dai ministeriali del conte Atenolfo. Costui afferma diritti su quelle terre
come parte del dominio pubblico della sua contea, anche se è privo di scritture e di
qualsiasi prova. Giovanni, invece, può dimostrare con tre testimoni il possesso
trentennale da parte della chiesa. La formula di giuramento è la seguente: <<Sao cco
kelle terre, per kelle fine che tebe mostrai, trenta anni le possette parte Sancte
Marie>>136.
Si badi che il giudizio è presieduto dallo stesso conte Atenolfo, il quale adempie
contemporaneamente due funzioni che sono contraddittorie in una concezione di
giustizia imparziale. La posizione sua, comunque, non impedisce che la sentenza gli
sia contraria137.
133
<<So che quelle terre, entro quei confini che ti mostrai, di cui si parla qui, furono di Pergoaldo, e trenta
anni le possedette>. Questa è la lettura di A.Castellani, I più antichi testi italiani, cit., p. 61, che riporta anche
la variante: <<So che quella terra, entro quei confini che ti mostrai, che qui si contengono…>>. 134
<<Quella terra, entro quei confini che vi mostrai, è di santa Maria, e trent’anni la possedette il monastero
di Santa Maria>>.
135
A.Castellani, I più antichi testi italiani, cit., p. 61. 136
<So che quelle terre, entro quei confini che ti mostrai, trent’anni le possedette il monastero di Santa
Maria>>.
137
33 P. Rajna, I più antichi periodi risolutamente volgari nel dominio italiano, cit.,p. 397 n. 1.
9. Per stabilire se hanno carattere reale o fittizio le controversie cui si riferiscono le
notitiae iudicati e il memoratorio, va evidenziato che, a partire dalla fine del secolo
IX, i documenti del Regno d’Italia longobardo-franca talvolta contengono processi
civili che non sono finalizzati a definire una lite, ma a sostituire una situazione certa
a un fatto incerto138: in questo modo si rivestivano di pubblicità e si rendevano
irremovibili, con l’efficacia di cosa giudicata propria della sentenza, vicende che le
parti intendevano accertare, modificare o estinguere mediante l’intervento del
giudice139.
Il sistema era un portato del tempo, quasi un prodotto spontaneo che ebbe
comprensibile espansione, in quanto soddisfaceva bisogni concreti, non sempre
diretti a frodare la legge.
Per definire sinteticamente il fenomeno, si è parlato di <<processi apparenti>>, che
alcuni ritengono paradigma qualificativo di un falso problema: un procedimento che
termina con una sentenza esiste sempre e la sua apparenza significa solo che manca
un <<carattere conflittuale>>, ma quel procedimento, a prescindere da eventuali
transazioni che lo precedano, ha una sua compiuta autonomia, un andamento del tutto
adeguato alla natura del giudizio instaurato140.
Nel catalogo delle <<cause preparate>>, l’esempio più noto è il giudizio civile per
ostensio chartae: il titolare di un diritto reale risultante da una charta, esibiva la
stessa in tribunale e mediante un fittizio contraddittorio con l’alienante, autore del
documento, il quale riconosceva la validità del diritto dell’ostensor, otteneva una
notitia iudicati. In essa era trascritta integralmente la charta e dichiarata la sua
veridicità, con il conseguente riconoscimento pro securitate del diritto documentato.
Ha natura fittizia pure il processo senza lite, nel quale l’attore e il convenuto, in
perfetto accordo tra loro, recitano una breve parte davanti al tribunale con il solo
obiettivo di far prendere atto ai giudici della dichiarazione del convenuto in favore di
un diritto dell’attore. La dichiarazione ovviamente è stata concordata in
precedenza141.
138
C. Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), cit., p. 1142. 139
P.L. Falaschi, Placita, cit. p. 116. Sui processi apparenti, J. Ficker, Forschungen zür Reichs und
Rechtsgeschichte Italiens, I, Innsbruck 1868, p. 37 ss; G.Mengozzi, Ricerche sull’attività della scuola di
Pavia nell’alto Medio Evo, Pavia 1924, pp. 43-275; P.S. Leicht, Il diritto privato preirneriano, Bologna
1933, p. 22, nt.3; C. Manaresi, Della non esistenza di processi apparenti nel territorio del Regno, in Rivista
di storia del diritto italiano, XXIII (1950), pp. 179-217, XXIV (1951), pp. 7-45; G. Astuti, I contratti
obbligatori nella storia del diritto italiano, Milano 1952, pp. 274-275; F. Calasso, Il negozio giuridico,
Milano 1967, App. pp. 347-382; C. Schwarzenberg, Processo civile (storia del diritto), in Nss. dig. it., XIII,
Utet, Torino, 1968, pp. 1141ss.; A. Padoa Schioppa, Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, (Atti
dell’ XI Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo, 1), Spoleto 1989, p. 499; Giovanna Nicolaj,
Formulari e nuovo formalismo nei processi del <<Regnum Italiae>>, in La giustizia nell’Alto Medioevo
(secoli IX-XI), (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo), XLIV, Spoleto 1997, pp.
347-379.
140
A. Padoa Schioppa, Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, cit., p. 499 ; Giovanna Nicolaj,
Formulari e nuovo formalismo nei processi del <<Regnum Italiae>>, cit., pp. 353 ss.
34 Benché la diversità di territorio ed essenziali differenze giuridiche inducano a negare
qualsiasi collegamento dei placiti campani con il processo per ostensio chartae, resta
da chiedersi se gli stessi riportino giudizi finti.
La tesi favorevole alla simulazione è sostenuta da quanti affermano che quei
documenti giudiziari, così simili tra loro per contenuto e forma, sono stati redatti in
località non distanti l’una dall’altra e in tempi assai vicini: una strana coincidenza di
procedure che soltanto per ipotesi implausibile farebbe pensare a <<una specie di
offensiva generale laica contro Montecassino>>142; tutti i testimoni ripetono in
volgare le formule, mentre in due placiti del 936 e 954 svoltisi nei territori del
Principato di Capua per definire cause del monastero di San Vincenzo al Volturno, le
dichiarazioni testimoniali vengono rese in latino143; i processi si concludono sempre
con la vittoria dei monasteri benedettini, che nelle diverse occasioni si presentano
adeguatamente forniti di prove e testi a proprio favore, mentre gli avversari scendono
in lizza <<sprovvisti di qualsiasi arma>> e dimostrano una supinità e una remissività
sconcertanti.
Da queste premesse, la deduzione consequenziale che le cause non scaturiscano da un
reale contrasto: <<sono invece cause montate allo scopo di ottenere una precisa
dichiarazione giudiziaria e nelle quali i pretesi avversari dei monasteri agiscono come
uomini di paglia dei medesimi. In altri termini: i monasteri, che avranno avuto
qualche motivo di ritenere il loro possesso sulle terre in questione non
sufficientemente assicurato contro eventuali sorprese, si sono preoccupati di
giungere, attraverso una causa concordata, a una dichiarazione solenne di tribunale
che eliminasse pel futuro le difficoltà. Niente offensiva laica contro Montecassino,
quindi; al contrario un’abile azione assicurativa dei monasteri, secondo una prassi che
deve esser già stata messa in opera nelle cause precedenti del 936 e del 954, dove lo
svolgimento si presenta analogo; soltanto col tempo e con l’uso la prassi s’è venuta
perfezionando: di qui la maggiore meticolosità e cautela sopra esposte, e di qui
l’esatta registrazione in volgare delle formule testimoniali. Cause preparate, dunque
(con che non si vuole insinuare, si badi bene, che sian state preparate contro giustizia
e verità)>>144.
141
P.S.Leicht, Il diritto privato preirneriano, cit., p. 22, n. 3. 142
S. Pellegrini, Ancora <<Sao ko kelle terre>>, cit., p. 33. 143
Le decisioni sono citate da S. Pellegrini, Ancora <<Sao ko kelle terre>>, cit., p. 33, ma G. Folena, I
mille anni del placito di Arechisi, cit., pp. 54-55, ne aggiunge un’altra del 976. Si trovano tutte contenute
nel Chronicon Volturnense , compilato nel sec. XI dal monaco Giovanni, e risolvono controversie a favore
del monastero di San Vincenzo al Volturno. Tali placiti furono pubblicati da L.A.Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores; I, seconda parte, cit., pp. 419 ss., e nuovamente pubblicati da V. Federici, Chronicon
volturnense del monaco Giovanni, Roma 1925-1940, nella collezione Fonti per la storia d’Italia pubblicate
dall’Istituto Storico italiano, II, pp. 44 ss. 144
S. Pellegrini, Ancora <<Sao ko kelle terre>>, cit., pp. 34-35. 35 La motivata conclusione è stata condivisa da filologi e storici145, ma la tesi
dell’effettività delle controversie viene sostenuta con argomentazioni altrettanto
valide146.
La prima delle quali si collega alla precaria condizione della proprietà abbaziale,
illegalmente occupata dai signori vicini, dopo che i monaci avevano lasciato la sede
cassinese per sfuggire agli assalti saraceni verso la fine del secolo IX: a oriente la
faceva da padrone il conte di Teano, a occidente dominava il gastaldo di Aquino,
Atenolfo II della casa di Gaeta, soprannominato Megalu dal nome dell’ava, che s’era
spinto fin quasi ai piedi della rupe dove sorgeva l’abbazia, occupando la Flumetica,
cioè la zona compresa tra i fiumi Rapido e Liri147.
Una volta assunta la massima carica monastica, Aligerno (949), <<neapolitanorum
nobilium genere ortus>148, volle ripristinare i diritti della badia sulla base di titoli
giuridici (concessiones, praecepta), ma le richieste al gastaldo di Aquino perché
restituisse il maltolto ebbero una risposta violenta: costui sferrò un attacco contro il
cenobio, diroccò le mura e abbatté le torri di uno degli ingressi principali, fece
prigioniero l’abate e lo sottopose a trattamenti umilianti, gettandogli addosso una
pelle di orso e aizzandogli contro la muta dei suoi cani149.
Dovettero intervenire con forze massicce Landolfo principe di Capua e Gisulfo
principe di Salerno, che piegarono l’aggressore, liberando il venerabile Aligerno e le
terre invase. Correva l’anno 953, ma la partita con gli altri usurpatori di terreni non
si chiuse, e Leone Marsicano, nel suo elegante latino, accenna alle contese con
145
E.Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, nuova edizione a cura di F.Arese, Città di Castello,
1955, p.2; G. Vidossi, L’Italia dialettale fino a Dante, in Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e
franco-italiani, a cura di A. Viscardi, B. e T. Nardi, G. Vidossi, F. Arese, Milano-Napoli, 1956, p. LVIII; R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., pp. 535-536, con qualche riserva. In
precedenza, M. Bartoli, Sao ko kelle terre…, cit., p. 5, aveva parlato di testimoni non subornati o
illegalmente imbeccati, ma <<legalmente preparati, secundum leges et consuetudines>>. Tra gli storici, N.
Cilento, Il placito di Capua, Alpignano 1960, pp. 65, secondo cui gli eccessi di premura nella redazione dei
placiti possono aver ispirato non solo queste liti preparate e concordate in anticipo, ma anche le numerose
falsificazioni successive operate in ambiente cassinese da <<un monaco di triste fama, Pietro Diacono, il
quale nel suo “registrum” fabbricò i più assurdi documenti, per accrescere la gloria e la potenza temporale
del suo monastero>>.
146
L. Fabiani, La terra di S. Benedetto, I, Montecassino, 1950, p. 52; C.G. Mor, L’età feudale, I, Milano,
1952, p. 271; P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., pp. 11-13; A.Castellani, I più antichi testi italiani,
cit., pp. 62-64.Non si esprime, invece, C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura
italiana, cit., p.46. 147
C.G.Mor, L’età feudale, II, p. 270; N. Cilento, Italia meridionale longobarda, cit., p. 177.. 148
Leonis Marsicani [et Petri Diaconi], Chronica Monasterii Casinensis, ed. W. Wattenbach, in Monumenta
Germaniae historica, Scriptores, t. VII, Hannover 1846, p. 628 ss. 149
Leonis Marsicani [et Petri Diaconi], Chronica Monasterii Casinensis, cit., p. 629, descrive in questo
modo i fatti :<<Ibi vero in publico civium spectaculo ursino illum tergore vestiens, canes ei undique sicuti
revera urso ad circumlatrandum immisit et plurimis iniuriis virum honorabilem vir nequissimus
dehonestavit>>.
36 uomini di Arpino, di Pontecorvo e di Teano, sempre costretti a soccombere in
giudizio150.
L’abate non doveva essere affatto tranquillo, se pensò addirittura di rivolgersi a
Mariano antipato patritio et stratigo Calabriae et Langobardiae, ottenendo nel
dicembre 956 un sigillum, che lo autorizzava a girare nei territori meridionali
sottoposti all’autorità bizantina per la ricerca dei beni di spettanza cenobiale, e
nessun giudice doveva contrastarlo in quell’opera151.
Perciò, l’offensiva laica contro il monastero, attestata anche in altre sentenze152, e non
solo in quelle con formule in volgare, effettivamente ci fu, raggiungendo un’asprezza
tale da degenerare in una specie di guerra civile, come si evince da quanto detto.
Circa il giudizio del 960, la circostanza che Rodelgrimo, presentatosi a rivendicare la
proprietà di un’ampia estensione di terreni, fosse privo di documenti e di testimoni, a
fronte del ferratissimo apparato probatorio dell’abate, a prima vista lascia
indubbiamente perplessi, ma non si deve pretendere << di trovare nei placiti la
minuta registrazione di quelle tante discussioni e schermaglie che ci saran pur state
ma saranno rimaste senza esito; e non dimentichiamo, in tutti i modi, che le cause
spallate son cosa d’ogni tempo e d’ogni paese>>153. Osservazioni di questo genere
sono estensibili ai placiti di Sessa e Teano.
Piuttosto i monaci cassinesi non avevano bisogno di procurarsi una sentenza che
affermasse i diritti su <<kelle terre>>, già riconosciuti nei diplomi rilasciati
all’abbazia dai principi di Capua e Benevento e dai re d’Italia Ugo e Lotario154,
tanto più che il iudicatum di Arechisi non frenò le turbative e il 16 gennaio 963
150
Leonis Marsicani [et Petri Diaconi], Chronica Monasterii Casinensis, cit., p. 630: <<Non tamen super
omnia haec quiescere valebant veritatis adversarii, quotiens quaelibet occurrebat occasio; sed nunc quidam
de Aquino, nunc quidam de Pontecurvo nec non et de Teano, de finibus huius monasterii nobiscum
contendere nitebantur. Verum quotiescumque cum nostris in placito se coniunxerunt, totiens summis
rationibus victi, quod fallaciter contendebant, refutare veraciter cogebantur. Unde etiam contigit, ut
hiusmodi occasione plurima apud nos talium conflictorum seu renuntiorum monimina habeantur>>. 151
Leonis Marsicani [et Petri Diaconi], Chronica Monasterii Casinensis,cit., p, 630. Le disposizioni
contenute nel sigillum di Mariano, che autorizza l’abate a cercare i beni, sono riportate in nota dall’editore:
<<Liceat te ambulare in tota thenia Langobardiae et perquirere omnem hereditatem praedicti monasterii, et
nullam contrarietatem patiaris a quolubet iudice de ipsa thenia>>. 152
L.Fabiani, La terra di San Benedetto, cit., pp. 48-57. 153
154
P. Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 12. I diplomi dei principi longobardi sono del 928 e del 943 e si trovano in E.Gattola (Gattula), Ad
Historiam Abbatiae Cassinensis, t.I, pp.45-46, 52-53; A. Galli, I diplomi dei principi longobardi di
Benevento, Capua e di Salerno nella tradizione cassinese, in Bullettino dell’Istituto storico italiano, LII,
1937, pp.6-7, mentre quelli dei re d’Italia sono del 943, riportati nella raccolta I diplomi di Ugo e di
Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L.Schiaparelli, Roma 1924, pp.196-200.
37 l’abate Aligerno ebbe un’altra conferma delle terre di Aquino dai principi Paldolfo I e
Landolfo III155.
Alle obiezioni già esposte è stato aggiunto che due <<memoratoria>> del 977 e 978,
dimostrano che il cenobio benedettino, in lite con il vescovo di Lucera, si trova
nell’impossibilità di offrire prove e deve accettare le testimonianze a favore della
controparte156. I giudicati campani, dunque, non consacrano nessuna anomalia, ma i
fatti emersi trovano rispondenze nella esperienza processuale, per cui le cause sono
vere e non simulate.
Esposte le diverse opinioni sul problema, ciascuno è abilitato a trarre le conclusioni.
10. Rimane da valutare il rapporto tra la lingua viva dei luoghi e l’uso che ne
facevano giudici e notai negli atti ufficiali.
Tutte le ricordate formule testimoniali, che paiono ormai <<evocare una trasposizione
magica di concetti usuali e quotidiani>>157, sono simili a quelle riportate in latino
nelle menzionate notitiae iudicati concernenti il monastero di San Vincenzo al
Volturno158, pur se le parole dei testimoni verosimilmente erano state espresse in
volgare159. Il monaco estensore del Chronicon Volturnense, avendo trascritto le copie
degli atti nel secolo XI, in epoca di maggior cultura rispetto a quella in cui i giudizi
155
Per queste osservazioni, P. Fiorelli,
bibliografia. Marzo novecentosessanta, cit., p.13, n.109 , con richiami di
156
F.Sabatini, Bilancio del millenario della lingua italiana, cit., pp. 200, 204-205; A.Castellani, I più antichi
testi italiani, cit., pp. 63-64. 157
P.Fiorelli, Marzo novecentosessanta, cit., p. 10.
158
Nel 703, tre nobili beneventani, con la protezione del loro principe, lasciarono le ricchezze e fondarono
il monastero benedettino di San Vincenzo, alla sorgente del Volturno. Il suo grande patrimonio fu costituito
con donazioni dei re franchi, come quello di Montecassino ricevette donazioni dei signori longobardi. Agli
inizi del secolo IX, ci fu una nobile gara tra l’abate cassinese Gisulfo della stirpe dei principi di Benevento e
l’abate volturnense Giosuè, che era di stirpe regale carolingia e cognato di Ludovico il Pio, nell’ampliare le
loro badie e costruire splendide chiese. Numerose donazioni effettuarono anche i privati pro mercede et
remedio salutis animarum, ma queste sostanziali dismissioni di proprietà, in parte, erano causate dalle
difficoltà dei tempi, che spingevano i piccoli proprietari a mettersi sotto la tutela di grandi complessi
monastici (N. Cilento, Italia meridionale longobarda, cit., pp. 174-175).
159
Sono le deposizioni contenute nei tre placiti ricordati alla nota 142 . Il primo (placito capuano del giudice
Ausenzio) è del 936, quando Maione agisce contro l’abate Rambaldo, rivendicando alcune terre. Tuttavia,
non ha scritture né testimoni, mentre l’abate può provare il possesso trentennale con testimoni, che sono tutti
i religiosi del monastero. Ecco la formula giurata: <<Scio quia ille terre per illos fines et mensuras quas
vobis monstravimus per triginta annos possedit pars sancti Vincencii>>. Il secondo (placito capuano del
giudice Arechisi, a noi già noto) è del 954, allorché Leone, abate di San Vincenzo, rivendica alcune terre
contro il conte Paldefrido, che dichiara di non essere in grado di provare il proprio diritto né con scritture né
con testimoni. Anche in questo caso, i monaci giurano il possesso trentennale del monastero: <<Scio quia
ille terre per illos fines et mensuras quas Paldefrit comiti monstravimus per triginta annos possedit pars
sancti Vincencii>>. Il terzo del 976 si svolse a Sessa Aurunca sotto la direzione del giudice Maraldo, lo
stesso che nel 963 aveva emesso il iudicatum in favore di Montecassino. Il testo della formula è il seguente:
<<Scio ipsa terra [ille terre in bocca ai testi] et monte, per ille finis que vobis demonstravi, triginta annos
possedit parte Sancti Martini >>. Vedi A. Castellani, I più antichi testi italiani, cit., p. 64. 38 si svolsero, rese non solo più grammaticale il latino di tali documenti, ma non
avvertì nemmeno l’esigenza di mantenere il volgare, riproducendo le formule nella
lingua solitamente usata per gli atti di natura giudiziale160. Egli, in sostanza, operò ex
post una traduzione che avveniva già nel corso dell’istruzione dibattimentale, con il
risultato di disattendere, nel caso in questione, il testo originale dei documenti da
copiare.
Poiché non esistono dubbi sulla cosciente separazione del latino dal volgare nei
placiti di Capua, Sessa e Teano, la spiegazione può essere una sola: i testimoni, tutti
chierici e notai, erano assolutamente in grado di rendere la dichiarazione nella dizione
latina, e il giudice, privilegiando la scelta di due lingue diverse, il latino notarile e il
dialetto parlato, intese far conoscere il tenore delle proposizioni giurate anche a
coloro che ignoravano la lingua di Roma. La verbalizzazione differenziata, tra l’altro,
era un fatto inconsueto per quei tempi161, atteso che il dialogo all’interno del
processo si svolgeva in volgare 162, non certamente in latino, il quale però era
160
G. Folena, I mille anni del placito di Arechisi, cit., pp. 54. 161
Osserva C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p.161, che <<questa procedura può forse
apparire strana a noi moderni, ma in realtà era quanto di più naturale si potesse allora immaginare […] Se è
lecito un paragone che calza solo in parte, potremmo immaginare un processo di oggi in cui un testimone
incolto parli un dialetto rustico, essendo incapace di usare l’italiano. Ebbene, in questo caso potrebbe
accadere che la verbalizzazione scritta fosse fatta traducendo quel dialetto in italiano medio, con un processo
di filtraggio analogo a quello che comunemente accadeva nel Medioevo nel rapporto tra il volgare e il
latino, essendo quest’ultimo l’unica lingua di cultura, anche se poi in quel latino affioravano vari elementi
volgari, tracce del complesso processo di adattamento linguistico del testo, nel suo passaggio dall’oralità alla
formalizzazione della scrittura giuridica>>. Nel caso dei placiti campani , << però le cose andarono
diversamente. Per motivi che non sono chiari, la verbalizzazione, fatta, come sempre, in latino, arrivò in
quella occasione ad includere vere e proprie formule testimoniali volgari: non scritte in un latino che assume
andamento volgare, ma in volgare autonomo, in una lingua nuova che contrasta con il testo latino del
documento >>. 162
L’ opinione che le testimonianze di norma venissero rese in volgare fu manifestata, per la prima volta, da
P. Rajna, I più antichi periodi risolutamente volgari nel dominio italiano, cit., p. 401, e condivisa da A.
Sepulcri, Intorno a due antichissimi documenti di lingua italiana, in Studi medievali, III, Torino 19081911, p. 123, n.3. Gli studi successivi si sono adeguati a tale conclusione, ed è interessante evidenziare la tesi
di G. Folena, I mille anni del placito di Arechisi, cit., pp. 54-55, che, mediante il confronto tra i quattro
placiti originali da noi esaminati e i tre in copia attinenti al monastero di San Vincenzo al Volturno
predisposti interamente in latino, concentra in particolare l’analisi su quello del 976, presieduto da Maraldo,
giudice di Sessa Aurunca. Egli reputa difficile pensare che quest’ultimo, che diresse il processo del 963
svoltosi in città, <<avesse abbandonata l’innovazione del volgare, certo dettata da uno scrupolo giuridico, e
fosse tornato al latino>>, e opina che la copia, linguisticamente, non sia fedele all’originale. Precisa, poi, che
il monaco estensore del Chronicon Volturnense <<come ha reso assai più grammaticale il latino dei
documenti secondo il costume di un’epoca più colta, così […] non avrà visto forse la ragione del volgare e
avrà riprodotto la formula in latino. Il dubbio si proietta anche sulle copie dei documenti anteriori del 936 e
del 954. Sarebbe comunque singolare che dei sette documenti a noi noti di questo tipo, tutti legati certo
direttamente fra loro da una pratica comune, i quattro in originale riportino sempre le formule in volgare, i
tre in copia riferiscano le formule in latino>>. E’ verosimile credere che, a Capua, già nel 936 le formule di
giuramento si scrivessero in volgare (A.Castellani, I più antichi testi italiani, cit., p.65). La tendenza trova
conferma anche in altre zone della Campania (I. Baldelli, Un giuramento del 928, in Lingua nostra, XXV,
1964, pp.65-66, che illustra un documento di Cava dei Tirreni), ma solo nei nostri placiti se ne ha la
registrazione, e lo scrupolo formale della loro redazione vuole proporre <<uno specchio più fedele della
realtà>> (P. Rajna, I più antichi periodi risolutamente volgari nel dominio italiano, cit., pp. 400-401).
39 impiegato per redigere gli atti notarili e processuali, essendo l’unica lingua della
cultura e della scrittura: il notaio incaricato di verbalizzare l’attività delle parti
riproduceva in latino le frasi dalle medesime proferite163; né ciò deve sorprendere,
poiché un simile adeguamento durò molto a lungo, fino al Cinquecento e al
Seicento164. Peraltro, <<i notai erano la categoria sociale che aveva più
frequentemente occasione di usare la scrittura, e proprio per le loro funzioni erano
quotidianamente impegnati in un lavoro di transcodificazione dalla lingua giudiziaria
alla formalizzazione giuridica del latino. Non è strano, quindi, che proprio gli
appartenenti a questa categoria fossero tra i primi a lasciare spazio, più o meno
volontariamente, alla nuova lingua viva, al volgare, che, del resto, per distrazione o
ignoranza, finiva per affiorare non di rado anche nel loro modesto latino, un latino
che sovente non è altro che un volgare superficialmente travestito>>165.
Insomma, tutto conferma che la decisione di mantenere la lingua rustica ( come
sappiamo, nei placiti in esame i giudici stessi dettano il testo delle dichiarazioni
giurate), caratterizzata dal forte peso della formularità del latino notarile e della sua
tradizione grafica166, <<non va spiegata tanto con il desiderio di essere fedeli al
parlato dei testimoni, quanto come un modo per rivolgersi a un pubblico diverso, più
vasto e probabilmente estraneo a quella causa: come dire che era interesse del
monastero di Montecassino divulgare il più possibile il risultato del processo, per
evitare nuove contestazioni dello stesso genere>>167 .
Il modulo prescelto aveva un precedente famoso nei Giuramenti di Strasburgo (842),
pronunciati da Carlo II il Calvo e Ludovico II il Germanico, allorché stipularono
l’alleanza contro il fratello Lotario168: entrambi impiegano le lingue dei due popoli
che governano – il francese e il tedesco -, in modo da farsi capire dai rispettivi
eserciti, e ciascuno ripete il giuramento nella lingua dell’altro per un vincolo che li
lega nel tempo169.
163
B. Terracini, Analisi del concetto di lingua letteraria, in Cultura Neolatina, 1956, p. 14, afferma che in
Italia, nel periodo delle origini, <<prende corpo autonomo una lingua di giuristi e di notai>>.
164
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 232. 165
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 163. 166
S. Morgana, Elementi di linguistica italiana, cit., p. 197. 167
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 161.
168
I Giuramenti di Strasburgo , conosciuti anche come Sacramenta Argentariae, sono riportati da un
testimone diretto, Nitardo, Historiae, III, 5, in Monumenta Germaniae historica, II, a cura di G.H. Pertz,
Hannoverae 1829, pp. 665-666. Trattasi del primo documento romanzo, contenente <<non latino aureo, non
latino volgare, ma semplicemente volgare: la lingua che il volgo parlava, che era nata dal latino, diventava
anche una lingua scritta>> (C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura italiana, cit., p.
43) 169
Ecco le parti iniziali delle formule di giuramento, recitate dai protagonisti. Ludovico dichiara: <<Pro
Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d'ist di in avant, in quant Deus savir et podir
me dunat, si salvarai eo cist me on fradre Karlo… >> [ Per l’amor di Dio e per il popolo cristiano e per la
40 A questo punto, sorge un quesito ovvio: nei placiti residuano elementi della parlata
longobarda170, come riflesso dell’intensità colonizzatrice di quel popolo nelle nostre
terre?171
No, la lingua dei Longobardi a quell’epoca non esisteva più172, avendo quel popolo
assorbito cadenze e codici comunicativi propri dei luoghi conquistati173, dove il
vecchio latino, nel confuso intreccio di tardo latino, di latino ecclesiastico e di latino
nostra comune salvezza, di qui in avanti, in quanto Dio mi concede sapere e potere, così aiuterò io questo
mio fratello Carlo…] e, a sua volta, Carlo dice: << In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser
bedhero gehaltnissi, fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got gewizci indi mahd furgibit, so haldih
thesan minan bruodher… >> [La formula è identica, ma Carlo apporta una lieve variazione, ripetendo solo
<<mio fratello>>, senza aggiungere Ludovico].
170
Nei documenti in esame, gli unici termini di diretta derivazione germanica sono guadiare e
launegilt, il quale, a differenza del primo, non ha avuto alcun seguito negli idiomi romanzi. Cfr.,
R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 543. 171
W.v.Wartburg, Les origine des peuples romans, Parigi 1941, p. 175, sostiene che in Italia i Longobardi
<<hanno dato al latino parlato presso di loro un’impronta particolare>> e << nonostante il loro scacco
politico essi hanno conferito all’idioma romanzo ove fioriva il loro popolo e la loro cultura, alcune tendenze
fondamentali comuni, la cui azione è stata nel complesso proporzionale in modo sorprendente all’intensità
colonizzatrice dei Longobardi. In questo paese latino essi hanno creato un’area linguistica propria, quella
dell’italiano>>. La tesi non è stata condivisa da E. Gamillscheg, Immigrazioni germaniche in Italia, Lipsia
1937, pp. 9-10; C. Merlo, L’Italia linguistica odierna e le invasioni barbariche, in Rendiconti della Reale
Accademia d’Italia, cl. di Scienze morali, sez.VII, vol. III, fasc. 6, 1941, pp. 63-73; B. Migliorini, Tra il
latino e l’italiano, Firenze 1953, pp. 11-14 (corso universitario); R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e
storia del diritto, cit., pp. 143-144. 172
Nel precedente capo 3 di questo lavoro, è stato riportato un passo del Chronicon Salernitanum che
accenna a una <<lingua todesca>> già parlata dai Longobardi, della quale non esistono nel 978 né
documentazioni dirette né letteratura, ma restano soltanto testimonianze lessicali, che sono ancora
presenti nella lingua italiana d’oggi. Ne traggo alcune da B. Migliorini, Storia della lingua italiana,
cit., pp. 78-79, riferibili all’attività militare (strale, spalto, spiedo, che non è più un’arma, ma un
arnese di cucina), alla vita quotidiana ( balco o palco, banca o panca, scaffa da cui scaffale,
gruccia, spranga, greppia, trappola, palla), al corpo umano (guancia, schiena, nocca, milza, anca,
stinco, e parecchie altre parole sono diffuse nei dialetti: magone, uffo <<anca>>, zinna, zizza), alle
forme del suolo (melma, zana), all’agricoltura (sterzo dell’aratro, bica, grumereccio), ai boschi e
all’utilizzazione della legna (stecco, sprocco, spaccare), e così via. Tuttavia, <<il fatto che sul piano
linguistico la eredità longobarda sia stata unilaterale, e in fondo non molto rilevante, non deve avere per
risultato di minimizzare il valore invece grandioso che la esperienza longobarda ha avuto nella storia d’Italia.
Davvero in Italia si distinguono ancora oggi due anime: quella i cui antenati hanno conosciuto la dura
esperienza longobarda, così ricca di fermenti reazioni e spinte ad agire e costruire; quella che, non avendola
sperimentata, è rimasta nell’immobilismo spirituale e economico del latifondo romano e bizantino. Proprio
per questa sua varietà e mobilità, la tradizione longobarda si è assestata linguisticamente ancora una volta in
modo difforme dalla politica. Essa dà la imagine di una massa che avanza, ma in cui ciascuno degli elementi
costitutivi ha una diversa molla per arrivare più o meno lontano>> (G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, cit., p.
210). 173
Sulla incidenza della lingua dei Longobardi, E.Sestan, L’Italia dell’alto Medioevo, I Longobardi, in
Storia della società italiana, coordinata da I. Barbadoro, V, Milano 1984, p. 112, afferma che essi <<hanno
lasciato un popolo nuovo, nuovo dal punto di vista linguistico. Entrati in Italia con il loro linguaggio
germanico, dopo due secoli e mezzo lo hanno perduto. Hanno assunto il linguaggio della popolazione dei
41 volgare, rimase immune dalla restaurazione culturale di Alcuino e dei suoi monaci174,
e non interruppe mai fino il suo naturale svolgimento fino al sec. X, come
evidenziano le cronache monastiche, gli scritti agiografici, i diplomi dei principi e gli
atti notarili che continuamente lasciano affiorare qui e là espressioni romanze e
vernacolari, prese dal linguaggio vivo e dall’uso comune. Il latino di questi testi, pur
semplificato, corrotto, imbarbarito, imbastardito, risente di un’ ordinaria evoluzione
che si sforza ancora di obbedire alle leggi interne della sua struttura : <<siamo,
infatti, nell’età romanza; in quell’età in cui, nella storia dell’umana condizione, si
assiste a decomposizioni e natività ugualmente difficili, in cui le vecchie radici
imputridiscono e spuntano a fatica i germogli nuovi, in cui quel che è annunziato si
indugia o apparisce inatteso e intempestivo>>175.
Le testimonianze placitarie dell’area capuana riflettono appunto codesta mutazione,
ma fanno trasparire con nettezza i contrassegni della lingua della gente176, sottoposta
a un filtraggio attraverso le abitudini della grafia latina177. E lo stile notarile e
vinti>>. Per più ampie indicazioni, F. Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda sull’Italia
mediana e meridionale, Firenze 1963.
174
L’Italia meridionale , rimasta estranea alla riforma carolingia, che spezzò il corso naturale del latino
medievale e introdusse il latino di scuola, ingessato e immobile nelle sue strutture, ad uso esclusivo dei dotti,
<<si dimostra conservatrice di una tradizione linguistica nettamente differenziata dal resto della comunità
dell’Impero romano-cristiano>> (N. Cilento, Il placito di Capua, cit., p. 75). 175
N. Cilento, Il placito di Capua, , cit., pp. 72-73.
176
S. Morgana, Elementi di linguistica italiana, cit., p. 197. La pronuncia della formula <<Sao ko kelle
terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parti sancti Benedicti>> è stata ricostruita da P.
Fiorelli, Marzo novecentosesssanta, cit., p. 5, n.45, in questi termini: << [sao kko kkelle terre/ pe kkelle
fini ke kki kkondène/ trend’anni le possεtte parte sandi βeneδitti]>>. Questa trascrizione fonetica è seguita
da A. Castellani, I più antichi testi italiani, cit., p. 66. Per G. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine,
cit., p. 529, nelle formule di giuramento dei placiti <<si rivelano i caratteri dialettali delle regioni in cui
furono pronunciate >>. 177
C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 162. Della stessa opinione sono A.Castellani, I
più antichi testi italiani, cit., p. 69; C. Del Popolo, Primi documenti della lingua e della letteratura
italiana,cit., p. 46; S. Morgana, Elementi di linguistica italiana, cit., p. 197, la quale , nel segnalare il forte
peso della formularità del latino notarile e della sua tradizione grafica, precisa che << tuttavia la scripta
notarile lascia trasparire il parlato nel costrutto marcato Kelle terre… le possette parte sancti Benedicti>>.
Un insigne linguista, M. Bartoli, Sao ko kelle terre…, cit., p. 5, confrontando quelle espressioni con le loro
versioni in napoletano moderno, sia rustico che civile, ha ritenuto che le stesse non rispecchierebbero il
linguaggio del popolo, ma quello dei giureconsulti e degli ecclesiastici dell’epoca. Oltre a elementi locali, il
volgare dei documenti, infatti, contiene anche elementi interregionali da distinguersi in latinismi e
italianismi. Sarebbero latinismi << non soltanto sancti Benedicti e Pergoaldi, ma anche parte, invece di la
parte; e fini, per confini; e pure il nesso nt di contene, che era divenuto nd, in Campania, probabilmente fino
dall’età romana>>; italianismi, invece, sarebbero sao, la, le,ki, in luogo di saccio, a, e, ka e pe (sicuro solo
sao, <<meno sicuri…la, le, ki, e per, perché i primi tre possono essere anche arcaismi, e per può essere
latinismo e anche arcaismo>>. In particolare, il verbo sao è una forma interregionale di importazione,
<<giunta in Campania prima della metà del secolo X, probabilmente assieme a qualche elemento longobardo
e franco, proveniente dal Beneventano e dalla Tuscia>> (p.4). Tale forma, a prima vista, può sembrare
arcaica e dialettale, ma comparata con la norme espressive dei luoghi, si rivela per un interregionalismo che
costituisce <<il primo segno dell’unità linguistica della nostra Nazione>> (p.6).
42 cancelleresco, che si distaccava dalla pratica quotidiana178, pur cagionando una
consistente perdita di spontaneità nel passaggio dalle deposizioni orali alla
verbalizzazione scritta 179, non creava un diaframma molto ampio, altrimenti sarebbe
stata vanificata la stessa funzione per la quale si ricorreva al volgare. In sostanza,
aggiustamenti e correzioni sì, ma non a scapito della chiarezza delle parole, che tutti i
presenti dovevano percepire e intendere, appunto perché corrispondevano al dialetto
delle città dove si svolsero i giudizi, che era stato ripulito e reso in qualche modo
<<illustre>>, innalzato cioè a una maggiore raffinatezza rispetto all’uso di tutti i
giorni.
I placiti campani, dal punto di vista idiomatico, sono un <<un monumento di civiltà.
E’ una coraggiosa civiltà in cammino, che tra le lotte, le rivalità, i soprusi riedifica le
basi della convivenza civile, e che attraverso la rigida univocità delle formule
giuridiche cerca e trova nel linguaggio un duttile strumento che avvicini l’uomo di
cultura al popolo e che significhi pure mutua comprensione, umana solidarietà nel
rispetto della giustizia, anche al di fuori degli angusti confini di “quei ch’un muro ed
una fossa serra”>>180.
Questo potente verso della Divina Commedia181 è collegabile idealmente alla
burocratica formula di Arechisi, dove i suoni aspri e gutturali esprimono la
fermentazione impercettibile da cui sboccerà la nostra bella lingua, che le labbra
degli amanti sussurrano nell’ora della passione e i grandi poeti consacrano in canti
immortali182.
178
Confrontando le formule dei quattro placiti, C. Marazzini, La lingua italiana-Profilo storico, cit., p. 163,
rileva che esse si apparentano in maniera notevole, <<tanto da confermare l’impressione di una sorta di
codificazione giuridica o formalizzazione della lingua parlata>>. 179
S. Morgana, Elementi di linguistica italiana, cit., p. 197. C. Marazzini, La storia della lingua italiana
attraverso i testi, cit., p. 35, evidenzia che <<il volgare viene utilizzato nelle formule in cui compare il
discorso diretto>>.
180
R.M. Ruggieri, Tra storia della lingua e storia del diritto, cit., p. 550.
181
Purg., VI, 84. 182
A conclusione di questo studio, sento di ringraziare il prof. Claudio Vela, ordinario di Filologia italiana
nell’Università di Pavia (sede di Cremona), per i preziosi suggerimenti relativi alla organizzazione del testo
e alla bibliografia.
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