CARLORUBBIA - La Repubblica

LADOMENICA
DOMENICA 23 MARZO 2014
NUMERO 472
DISEGNO DI TULLIO PERICOLI
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
In letteratura
e nella società
c’era una volta
l’infanzia perduta
PIERDOMENICO BACCALARIO
e SIMONETTA FIORI
Il libro
De Cataldo:
raccontare
Sandro Pertini
al proprio figlio
MICHELE SERRA
Straparlando
Ennio Morricone
“Così la musica
mi ha salvato
da fame e guerra”
ANTONIO GNOLI
Trent’anni fa
vinceva il Nobel
e ora che si appresta
a compiere gli ottanta
ci racconta “una vita
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
sotto il segno
della curiosità”
CARLO RUBBIA
Vadoavivere su Marte
N
L’attualità
Agente Kasper
“Io che ho visto
le supernotes”
CARLO BONINI
L’incontro
Cher a ruota libera
“Ma non parlatemi
di uomini”
GIUSEPPE VIDETTI
DARIO CRESTO-DINA
GINEVRA
ella sua bella faccia giuliana dalla non lontanissima
somiglianza con quella dell’attore americano John
Wayne, ciò che più colpisce sono gli occhi di bambino messi su un uomo antico alto quasi un metro e
novanta e spalancati sulla meraviglia. «Sa, mi sembra impossibile
che io abbia ottant’anni. Ho vissuto a cavallo di due secoli, conosciuto una quantità innumerevole di persone e tra queste menti geniali come Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman, Wolfgang
Pauli. Ho imparato che la vita è un recipiente, devi considerarlo
sempre mezzo pieno. Sono nato in un tempo di tragedia in cui non
potevi non essere ottimista. I miei mi raccomandavano: credi in te,
guarda sempre avanti. Penso di averli ascoltati, guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità, nel bambino che rom-
pe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la
saggezza, ha trasformato l’uomo. Se da vecchi si ha la fortuna di possedere una mente che funziona ancora, bene, una parte di essa occupatela nel tentativo di accudire il vostro spirito infantile. Mi crede se le dico che Einstein non ha fatto più nulla di veramente significativo dopo i trent’anni?».
Carlo Rubbia festeggerà i suoi ottant’anni tra una settimana. «Sono cresciuto a Gorizia in un mondo molto diverso da quello di oggi.
Mi ricordo di un’umanità che si reggeva su un sistema lineare: si poteva soltanto andare avanti o indietro, una sopravvivenza quasi primordiale. Ma allora, forse, era più facile trovare se stessi». È in giacca e cravatta, camicia azzurra, scarpe da ginnastica o, meglio, mi
sembra di capire da mezza montagna e calzini scozzesi, le mani
grandi cercano un paio di volte in una tasca un fazzoletto di stoffa di
quelli che le madri di una certa generazione allungavano ogni mattina ai figli, come un’ultima carezza sulla porta di casa: «Mia madre,
Beatrice, era maestra elementare, di discendenza e cultura austroungarica. Il suo cognome, Lietzen, venne italianizzato in Liceni».
(segue nelle pagine successive)
Teatro
Una pura formalità
Glauco Mauri
porta in scena
il film di Tornatore
RODOLFO DI GIAMMARCO
La serie
La poesia
del mondo
Con Di Giacomo
nella “Tavernella”
WALTER SITI
la Repubblica
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LA DOMENICA
La copertina
Carlo Rubbia
“Gli alieni forse esistono. Io stesso, talvolta, in Senato,
mi sento uno di loro”. Alla vigilia del suo ottantesimo compleanno
lo scienziato si racconta tra sogni di bambino, poche certezze e parecchi dubbi:
“C’è qualcosa sopra di noi, un ordine delle cose: chi vuole può chiamarlo Dio”
Sì, cerco ancora lo stupore
‘‘
LE IMMAGINI/1
Da ragazzo
in montagna;
Il tesserino
studentesco
del 1953
con il diploma
di maturità scientifica
conseguito a Udine;
con i colleghi del Cern
a Ginevra nel 1978
DARIO CRESTO-DINA
(segue dalla copertina)
io padre,
Silvio,
era ingegnere
elettronico, si
occupava di telefoni a Trieste. Gorizia
era una frontiera, un luogo bellissimo
pieno di colori e lingue e dialetti, un
luogo complicato e aperto. Il mondo
entrava in casa da una radio che mio
padre aveva attaccato a un palo della
luce. Inseguendo le voci che uscivano
da questa grande radio ricevente costruita con vecchie valvole a vuoto ho
cominciato a prendere le misure di un
altro mondo e dei miei desideri. Il primo viaggio è stato una fuga. Da Gorizia
a Venezia durante la guerra, la sola città
in cui ancora oggi mi sento pienamente felice, anche se sta evaporando come la nebbia perché purtroppo è una
città offesa dalla modernità per la sua
stessa natura».
Il Nobel per la Fisica segna un altro
anniversario tondo: trent’anni, era il
1984. Gli viene assegnato, assieme all’olandese Simon van der Meer, per
aver scoperto le particelle responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni denominati W+, W- e Z, con un
esperimento che doveva verificare la
teoria elettrodebole di Abdus Salam e
Steven Weinberg. Non approfondiamo l’argomento, il professore intuisce che comprenderei nulla o poco. La
notizia del premio lo colse su un taxi
da Milano a Malpensa, doveva prendere un aereo per Trieste e a mezzogiorno la radio dell’auto — ancora una
volta la radio — diede con un flash la
«M
notizia che un italiano aveva
vinto il Nobel per la fisica.
Ma chi è questo Rubbia, domandò il tassista. E lui disse:
sono io. Con un tono allegro,
privo di sorpresa perché sapeva di essere nel novero dei
candidati e perché, come
confessò con umiltà qualche
tempo dopo in un’intervista,
«era semplicemente uno dei
tanti eventi della vita che agli
occhi degli altri ti trasforma
in James Bond, mentre tu rimani lo stesso perché non ti
dà l’immortalità». Gli domando se continua a pensarla nello stesso modo anche ora, dopo aver attraversato un così
lungo tratto di vita. Mi dice con
un sorriso serafico e disarmante: «Una cosa conosciuta non
mi interessa più».
Professore, come si diventa
scienziati?
«Da piccolo il regime fascista
mi fece vestire da balilla, mio padre era partigiano, mia madre
profondamente antifascista. Mi
hanno educato alla libertà e alla
conoscenza. Ho sempre prediletto il domani rispetto all’oggi e mi è sempre piaciuta
l’invenzione. Per un’invenzione ancora non diffusa avrei potuto morire. La
penicillina, scoperta nel 1929, non fu
disponibile se non dopo la guerra. Fortunatamente riuscii ugualmente a
guarire dalla broncopolmonite. Nell’immediato dopoguerra la voglia di
progredire era una spinta fortissima,
una carica di energia che non si è mai
più rinnovata con la stessa forza. La conoscenza è basata sull’incertezza, sui
Lo sguardo
Mi interessa il domani
Una cosa conosciuta
non mi interessa più
‘‘
Il genio
Ci facciamo poche domande
c’è ancora tutto da scoprire
Il genio passa per pazzo
la Repubblica
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LE TAPPE
1934
1957
1971
1984
1989
1999
2013
Carlo Rubbia
nasce a Gorizia,
il 31 marzo,
da Beatrice,
maestra elementare,
e Silvio
(ingegnere
elettronico)
si laurea
alla Normale di Pisa,
con una tesi
sui raggi cosmici
Alla selezione
era arrivato
undicesimo su dieci,
poi viene ripescato
insegna Fisica
a Harvard
fino al 1988
È anche professore
di complementi
di fisica superiore
all’Università
di Pavia
riceve il Nobel
per la fisica
(con l’olandese
Simon van der Meer)
per la scoperta
delle particelle
elementari
W+, W- e Z
è direttore del Cern
dove era entrato
nel 1960. Fino al ’94
è anche presidente
del Laboratorio
di Luce
di Sincrotrone
(Trieste)
è presidente Enea
fino al 2005
In Spagna collabora
con il Ciemat,
centro di ricerca
su energia,
ambiente
e tecnologia
il 30 agosto
viene nominato
da Napolitano
senatore a vita
insieme
a Claudio Abbado,
Renzo Piano
e Elena Cattaneo
‘‘
Il Nobel
Agli occhi degli altri
ti trasforma in James Bond
Ma non ti rende immortale
LE IMMAGINI/2
Dall’alto: con il professor
Paolo Budinich e il Nobel
Abdus Salam; la consegna
del premio a Stoccolma nel1984;
senatore a vita con Renzo Piano
e Elena Cattaneo dal presidente
Napolitano nell’agosto 2013
traguardi che appaiono impossibili,
sulle piccole cose che scorgiamo lontanissime, indefinite e spaventose ma
che ci attraggono come un magnete.
Solo gli intrepidi e gli avventurieri le vedranno da vicino. Il mondo è stato cambiato dall’eccezione, non dalla media».
Sta dicendo che siamo troppi in copia conforme e così tremebondi o prudenti da non riuscire a pensare che il
progresso di domani non sia altro che
l’assurdo di oggi?
«Dal giorno in cui siamo scesi dall’albero sono vissuti sulla Terra appena
settanta miliardi di uomini e nel corso
della mia breve esistenza la popolazione si è moltiplicata per tre. Oggi siamo
sette miliardi, in un solo spaziotempo rappresentiamo il dieci per
cento dell’intera umanità transitata sul nostro pianeta. Sette miliardi di persone connesse ventiquattro
ore su venti-
quattro, un affollamento che contribuisce al conformismo e che limita l’affermarsi della differenza, dove il genio
rischia di passare per un pazzo e consumarsi inutilmente come tale. Ma non
era una pazzia l’uomo che vola di Leonardo o la conquista della Luna preconizzata da Von Braun?».
Ci facciamo poche domande?
«Non ce ne facciamo abbastanza.
Avremmo bisogno di rincorrere le idee
impossibili, come dicono gli americani. La scienza è un’avventura piena di
dubbi, di fallimenti e di momenti di
emozioni straordinarie. Molte volte
ciò che propone non funziona, dovremmo continuare a chiederci: perché non così? perché non così? Romperci la testa in laboratorio. E, invece,
il fallimento non è ammesso. Siamo
conservativi, ostinati nel pensare che
quello che ha funzionato nel passato
continuerà a funzionare nel futuro.
Ma il più delle volte è un errore. Ci resta quasi tutto da capire, è la cosa che
ci differenzia dalle altre specie. A me
piace guardare. Un quadro, un libro,
un film, un ingranaggio, non c’è separazione tra il lavoro e il divertimento. Si
concentri per qualche minuto sulla
cosa più semplice che conosce,
scoprirà quanto poco sa di essa».
Rita Levi Montalcini confessò di avere deliberatamente
rinunciato agli affetti. La mia
sola missione, diceva, è stata
la ricerca. La scienza è un
mestiere solitario?
«Ho una famiglia, figli e nipoti, un’esistenza normale.
Posso dire che la scienza ha
illuminato la mia vita. È solitaria l’idea, ma spesso ad essa
ci si arriva collegando la propria intuizione al contributo di
molti di coloro che ci hanno preceduti
su quel cammino. Fu così anche per Galileo Galilei. Alla sua realizzazione poi
concorrono molte persone, al Cern ho
guidato esperimenti con oltre cento ricercatori. La ricerca è sempre un lavoro
di squadra».
Come fisico si è mai sentito straniero in Italia?
«Sono sempre vissuto da italiano all’estero, non ho mai avvertito il bisogno
di crearmi un’altra esistenza. Nella cerimonia del Nobel il mio inno è stato
quello di Mameli come per Marconi e
Fermi. Tutti gli altri fisici italiani premiati a Stoccolma avevano dovuto rinunciare alla loro cittadinanza naturale. Incontro scienziati italiani di primo
livello come ruolo e funzioni ovunque
vado: negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, in Australia e in Cile. In Italia è difficile fare ricerca applicata. Mancano
strutture e un sistema di carriera semplificato. Quando sono sbarcato all’Università di Pavia i diciassette anni di insegnamento ad Harvard non sono stati
presi in considerazione. E mancano
soldi, i finanziamenti pubblici sono inferiori all’uno per cento del Pil mentre
negli altri grandi paesi europei si sono
da tempo attestati al tre come concordato dalle intese comunitarie. È questo,
dopo quello del deficit, l’altro nostro
grande Problema 3%, quello nascosto».
Sulla soglia degli ottant’anni che cosa va ancora cercando?
«Ciò che ha cercato ogni civiltà, l’inizio della vita. Ha visto, vero? Riceviamo
segnali dal Big Bang, ma il novantacinque per cento della massa dell’universo
originata nei primi tre minuti della
creazione ci è completamente sconosciuto. La grande avventura è arrivare a
qualche milionesimo di secondo dall’origine del cosmo. Le immagini più
antiche dell’universo che risalgono a
trecentomila anni dopo il Big Bang ci
hanno rivelato una sua struttura molto
uniforme. In laboratorio creiamo delle
goccioline di quell’universo per replicare il Little Bang con l’obiettivo di produrre dei protoni uguali a quelli di tredici milioni di anni fa. Ci sono leggi fisiche che pre-esistono alla materia e alla
sua evoluzione, un sistema straordinariamente ordinato e privo di qualsiasi
forma di caos».
Quanto c’è di divino nella vita, Dio
ha davvero detto all’uomo: governa
la Terra?
«È una riflessione molto vasta che affronto con una certa umiltà. Esiste la fede e esiste la religione. Io ho una grandissima fede ma non sono tecnicamente un credente. C’è qualcosa che sta sopra di noi, è un ordine delle cose. Chi
vuole è libero di pensare che si tratti di
Dio. Non c’è molto altro da dire».
Crede esistano altre forme di vita simili alla nostra nelle galassie dell’universo, insomma gli extraterrestri?
«La risposta è forse sì, ma saranno
certamente differenti. Anche l’umanità
oggi sarebbe diversa se sessantacinque
milioni di anni fa un asteroide dal diametro di dieci chilometri non fosse precipitato sulla penisola dello Yucatán
che separa il Mar dei Caraibi dal Golfo
del Messico provocando una glaciazione che ha eliminato dalla faccia della
Terra ogni essere vivente dalle dimensioni superiori ai tre centimetri. La storia è sempre stata cruenta, immagino lo
sia stata anche su altri pianeti».
Dopo la morte torneremo a essere
nulla, esattamente ciò che eravamo
prima di nascere?
«Non so rispondere ma il difetto non
mi preoccupa. Né mi preoccupa la
mia, di morte. Le cose sono e conti-
nueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo
saputo offrire, l’amore che abbiamo
meritato. Vado avanti come se niente
fosse, imparerò quello che ancora riuscirò ad imparare. Come si dice? The
show must go on, ballerò fino al giorno
prima di sparire».
Coltiva ancora una follia intellettuale?
«Un rimpianto preventivo. È un
enorme peccato che non si vada su
Marte con i piedi e la bandiera. La Luna
è un sasso, nulla. Marte invece ha tutto:
il Nord, il Sud, l’equatore... Senza un
motore a propulsione nucleare però
non ce la possiamo fare. Il problema
non è andare, ma tornare da Marte sulla Terra. E centrarla la Terra... È una lunga storia: bisognerebbe aspettare lassù
un anno e mezzo prima di trovare la finestra giusta per la traiettoria Homan di
rientro. Eppoi, dimenticavo, ci sarebbe
Europa, il quarto satellite di Giove, uno
dei pianeti galileiani. Dove ci sono acqua, ghiaccio e ancora acqua sotto i
ghiacci, un’altra Antartide. Ah, mi creda, sarebbe un posto fantastico da visitare... se solo ne avessimo il tempo».
Carlo Rubbia è stato nominato senatore a vita il 30 agosto 2013. Dice che l’esperienza nei palazzi politici romani è
interessante, anche se la vive come «un
alieno che viene dal passato più che dal
futuro». Qualche giorno dopo il laticlavio è morta a Ginevra sua moglie, Marisa Romè, madre di Laura, medico, e André, ingegnere. Aveva settantotto anni.
Non sempre si può rendere grazie anche ai giorni bui. Mentre mi racconta
fugacemente e timidamente di lei — di
loro due — i suoi occhi di bambino si
smarriscono per il tempo che occorre a
pronunciarne il nome.
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la Repubblica
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LA DOMENICA
L’attualità
L’intelligence Usa stampa banconote “fantasma”
per pagare operazioni clandestine. Dove?
In Corea del Nord. Un agente supersegreto, nome in codice
Follow the money
Kasper, fuggito da un lager cambogiano, giura che è tutto vero
E ora detta le sue memorie in un libro che farà discutere
La
Fabbrica
dollari
dei
Lo 007 italiano e la faccia sporca dell’America
CARLO BONINI
P
ROMA
er tredici mesi, dal marzo 2008 all’aprile 2009, un cittadino italiano ha attraversato l’inferno della prigionia in
Cambogia. In una caserma, quindi in un ospedale lager, infine nel campo di concentramento di Prey Sar, alle porte di Phnom Penh. Chi lo aveva spinto in quell’abisso — «uomini dell’intelligence americana» che lo consegnano ai servizi
cambogiani con «un’accusa farlocca» di riciclaggio, racconta lui —
aveva deciso che non dovesse uscirne vivo e che il «segreto» che
aveva scoperto se ne andasse con lui. Un segreto — spiega oggi —
chiamato «Supernotes», banconote da 100 dollari «vere ma false»,
stampate con macchine e clichet «autorizzati» niente di meno che
in Corea del Nord, con cui l’intelligence americana paga clandestinamente ciò che l’opinione pubblica non può e non deve conoscere. Regimi canaglia, narcotrafficanti e tutto ciò che si può e si deve pagare al mercato nero della sicurezza nazionale.
Sentite un po’. «Le zecche americane del Bureau of Engraving
and Printing che stampano banconote non sono due, ma tre. La
terza — macchina, carta e tutto il resto, inclusi i rarissimi marcatori — non si trova sul territorio statunitense, bensì in Corea del Nord.
Il Paese del dittatore pazzo che gioca con l’atomica. Delle esecuzioni di massa. Delle minacce e della censura. Lo Stato canaglia nemico degli Usa. Talmente canaglia che nessuno può andare a ficcarci il naso. Sono americani quelli che fanno girare le ruote del dollarificio. Sono loro a gestire il traffico di valuta. A utilizzarne i proventi colossali. Americani. Quale che sia la loro sigla. Quale che sia
il cappello che si mettono per l’occasione. La struttura per la stampa dei dollari è localizzata nei dintorni di Pyongsong, una città di
centomila abitanti a nord-est della capitale Pyongyang. La chiamano “la città chiusa”. Gli stranieri non possono entrarvi. La struttura fa parte della Divisione 39 dei servizi segreti nord-coreani. La
Divisione 39 gestisce i fondi riservati del leader coreano. Una dotazione stimata in circa cinque miliardi di dollari». Insomma, «il dittatore nord-coreano minaccia gli Usa e nel frattempo incassa una
robusta percentuale nella produzione di Supernotes. Dal canto loro, Cia, Nsa e le altre agenzie finanziano le proprie attività con fondi che i bilanci statali non potrebbero mai garantire».
Ebbene, di questo cittadino italiano, del buco in cui è finito e del
segreto che dice di custodire, per tredici mesi, nessuno sembra voglia davvero occuparsi con convinzione. La sua storia non affaccia
nelle cronache. Il suo caso semplicemente non esiste. L’allora ministro degli Esteri Franco Frattini scrive una lettera ai familiari in
cui genericamente li rassicura sull’impegno della nostra diplomazia nel risolvere quello che viene classificato come l’arresto di un
cittadino italiano residente all’estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali. Il
«cittadino» deve dunque cavarsela da sé. Dalla sua, ha un’avvocatessa caparbia, Barbara Belli, una donna che lo ama, Patty, e un’anziana madre che vive a Firenze, grazie alle cui rimesse in contanti
attraverso Money Transfer («Alla fine, circa 250mila euro versati in
più tranches», dice mostrando le ricevute di pagamento), compra
la propria sopravvivenza nel lager in cui è rinchiuso e dove viene regolarmente pestato a sangue. Perché quel denaro, per i suoi aguzzini cambogiani, è una fortuna a cui non si possono voltare le spalle. Poi — è appunto l’aprile del 2009 — il nostro riesce a evadere dal
suo inferno e a raggiungere l’Italia. Dove, tuttavia, lo attende un
mandato di cattura per un’accusa di bancarotta fraudolenta. Si costituisce nel carcere di Regina Coeli, a Roma, dove resta per quattro giorni e viene interrogato dal procuratore aggiunto Giancarlo
Capaldo e dal pm Francesco Ciardi («Capaldo era convinto che fos-
si al centro dei misteri d’Italia»). Una volta scarcerato, si esilia in una
casa di campagna dove getta in un baule il diario sporco di sangue
e sudore della sua prigionia, si mette a coltivare gli ulivi, apre una
palestra di arti marziali frequentata da ex appartenenti a corpi militari di élite, si tiene in allenamento con qualche lancio in paracadute, diventa padre di una bambina e trascorre notti insonni inseguito dagli incubi di ciò che ha attraversato e dal fantasma del suo
passato. Fino a quando non cerca e rintraccia un giornalista che si
era occupato di lui, Luigi Carletti. Gli racconta la sua storia, ora scritta in un libro su cui la la Mondadori scommette molto: Supernotes.
Quel cittadino italiano nel suo libro di memorie si fa chiamare
“Agente Kasper”. È un uomo controverso e la sua storia promette
di suscitare un vespaio.
In una palazzina liberty di Roma, in un ufficio illuminato dal primo sole della primavera, Kasper, 55 anni, sorride fasciato da una tshirt aderente blu e pantaloni verde cachi dalle ampie tasche che
ne disegnano il corpo massiccio e atletico. Sul bicipite destro fa mostra di sé una grande tatuaggio. Un gladio coronato dal motto unus
sed leo. All’anagrafe, Kasper ha un nome e un cognome. Che Repubblica conosce bene per essere stato all’onore delle cronache
negli anni ’90 e ancora nei giorni della sua permanenza a Regina
Coeli nel 2009. Un nome e un cognome che Kasper e la Mondadori chiedono che non venga reso pubblico. «Il mio nome non ha importanza — dice lui —. La mia vita è cambiata. Sono diventato padre. Con quel mondo ho chiuso. Mi importa solo che un giorno mia
figlia, digitando su Google, non pensi che suo padre è stato quello
che hanno scritto di lui i giornali. Cose del tipo, “un ex di Avanguardia nazionale che negli anni della militanza studentesca andava in giro con un dobermann” e che certa magistratura ha fatto
pensare che fossi, infilandomi anche in golpe da operetta. Mentre
la verità è solo che da ragazzo io ero di destra e da adulto ho fatto
una vita che non poteva essere raccontata. In fondo, il libro serve a
svelare una verità che altrimenti sarebbe morta con me». Quel
mondo è il luogo delle ombre e degli specchi che chiamiamo intelligence. Dove nulla è fino in fondo vero o falso. E dove, soprattutto,
nulla è mai ciò che appare. Una regola che vale anche per Kasper.
Dice di sé: «Ho lavorato per il mio Paese come agente sotto co-
IL LIBRO
Supernotes (Mondadori,
408 pagine, 19 euro)
da oggi è in libreria
È l’incredibile storia raccontata
al giornalista Luigi Carletti
dall’agente Kasper,
un ex carabiniere poi agente
“irregolare” dei servizi segreti
e del Ros: la sua vera identità
non può essere rivelata
pertura dall’inizio degli anni ’80, subito dopo essermi congedato
da carabiniere. Prima per il Sismi, poi per il Ros. Il mio lavoro di copertura era pilota di aereo per compagnie civili. L’Ati prima, L’Alitalia poi, fino al ’98. Per il mio operato ero stato proposto per una
medaglia al valor civile che non mi è stata mai consegnata». Agente sotto copertura, dunque. E tuttavia, assolutamente irregolare.
Kasper non risulta sia mai stato incardinato nel nostro Servizio militare, né nel Ros dei carabinieri, per il quale ha comunque partecipato a due operazioni contro il narcotraffico (“Pilota” e “Sinai”)
istruite dall’allora procuratore di Firenze, Pierluigi Vigna, e di cui è
traccia documentale in sentenze passate in giudicato. «Nulla di
più, nulla di meno. Dall’operazione Sinai in poi, il Ros non ha più
avuto rapporti operativi con Kasper. Nei carabinieri Kasper ha
svolto il servizio di leva e i carabinieri sono un organismo di polizia
giudiziaria che opera su direttiva della magistratura, non sono un
Servizio segreto», dicono oggi al comando del Raggruppamento
speciale dell’Arma. «Non potevo che essere un irregolare — osserva lui — perché certe cose possono farle solo gli irregolari. Né ho
mai manifestato l’intenzione di diventare effettivo alla nostra intelligence. Sarei finito a marcire dietro una scrivania. E non era
quella la vita che volevo».
La vita che Kasper voleva la racconta nel suo Supernotes. Roba da
arditi. Pistole, stupefacenti, agenti della Cia, del Fbi o semplicemente ex spioni che nella Ditta sono stati per poi mettersi in proprio e diventare free-lance dell’intelligence. Volti e gesti stravolti
dall’adrenalina nei diversi angoli del globo. Un plot in cui il lettore
non ha molta scelta. Credere o meno a ciò che legge. Che i dollari
della vergogna, falsi ma veri, esistano («Li ho visti con i miei occhi»),
che il governo abbia abbandonato questo suo cittadino perché
scomodo. Non fosse altro perché dagli atti ufficiali della nostra magistratura e della nostra diplomazia risulta un racconto capovolto
che suona così: Kasper viene arrestato su richiesta dell’Fbi perché
accusato di frode informatica, uso di documenti falsi e di aver riciclato quattro milioni di dollari, viene assistito dalla nostra ambasciata a Bangkok anche attraverso il console a Phnom Pehn, visitato e monitorato nel periodo della sua prigionia e quindi regolarmente rilasciato dalle autorità cambogiane con un visto in uscita
che gli ha consentito di raggiungere Vienna in aereo.
Luigi Carletti, il giornalista che di Kasper ha raccolto le memorie, dice: «Si può pensare quel che si vuole della storia che mi
ha raccontato. Ma un fatto è certo. Tutti i procedimenti contro di
lui sono improvvisamente evaporati. Non se ne sa più nulla. In
Italia, in America, in Cambogia. Nessuno lo ha più cercato. Forse perché quelle accuse erano strumentali. O no?». Kasper sorride. «Voglio pensare che devo la mia vita alla buona sorte e a un
amico come l’ex comandante del Ros, il generale Ganzer. Che ci
sia stato lui dietro la mia fuga da Prey Sar». Ganzer, oggi in pensione, schiarisce la voce: «Nel ’98, dissi a Kasper che essendo stato esposto a un grosso rischio con le operazioni Pilota e Sinai, la
sua collaborazione con il Ros doveva ritenersi conclusa per sempre. Da allora, in modo del tutto autonomo, Kasper si è prima
messo nei guai con agenti del Nocs e della Finanza. Poi ha aperto un bar in Cambogia, dove è finito in carcere su rogatoria americana. In quei tredici mesi, l’unica cosa che feci, fu attivare la nostra Direzione Centrale dei Servizi Antidroga perché l’addetto a
Bangkok e il nostro console in Thailandia si sincerassero di quanto stava accadendo. Ho visto Kasper l’ultima volta quando si è costituito al Ros nel 2009 per essere accompagnato a Regina Coeli.
Mettiamola così. Kasper è un uomo intelligente ma anche molto avventuroso».
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LA DOMENICA
L’anniversario
Hrabal
Io
&
Ho tradotto il re di Praga
I racconti non pubblicati, i giri di birra, una serata
con Havel e una falce fatale. Tra ricordi, fotografie
e aneddoti un ritratto del grande scrittore
a cent’anni dalla nascita
GIUSEPPE DIERNA
L
a carta è parecchio ingiallita, ma forse era
gialla già allora, nel ’59: c’era ancora penuria
di carta, in quel finire degli anni Cinquanta,
nella Cecoslovacchia non ancora pienamente destalinizzata (anzi: in realtà solo
molto parzialmente), e per le bozze di stampa non si sprecava certo quella buona. Le
correzioni, le aggiunte, sono però lì, tracciate con la riconoscibilissima calligrafia un po’
tremolante di Hrabal. Era il suo primo libro
di racconti (anzi: avrebbe dovuto esserlo),
dal titolo sufficientemente bizzarro da far da
presentazione a uno scrittore a dir poco anomalo per l’epoca: L’allodola sul filo, titolo
senza alcun apparente legame con ciò che
c’era nei racconti. Un trucco per aggirare la
censura? La prima di una lunga serie di provocazioni linguistiche? Chissà… Intanto,
però, lo scandalo seguìto alla pubblicazione
del romanzo I vigliacchi di Josef Škvorecký
(con corollario di licenziamenti e copie ritirate — benché tardivamente — dalle librerie) spinge la casa editrice a bloccarne la
pubblicazione e a smontare i piombi, per cui
di quel libro avanzano oggi solo quelle boz-
ze che Hrabal mi aveva regalato sul finire
degli anni Ottanta, durante uno dei molti
pomeriggi passati assieme («del resto sono
più utili a lei che a me»).
Se si escludono i due racconti usciti nel
’56 — in 250 copie — come allegato al Bollettino dell’Associazione dei bibliofili cechi, iniziava così la carriera ufficiale di scrittore Bohumil Hrabal, il maggior narratore
ceco della seconda metà del Novecento,
nato in Moravia il 28 marzo di cent’anni fa,
giusto tre mesi prima dell’attentato a Sarajevo (e quindi ancora all’interno dell’Impero austro-ungarico). E, oltretutto, quello
non era neanche il primo libro che gli
smontavano bello e impaginato. La cosa
era già successa — undici anni prima — alla Stradina perduta, un volumetto nel quale Hrabal, ancora a Nymburk (una cinquantina di chilometri da Praga, la cittadina della sua giovinezza), aveva raccolto a
proprie spese il meglio della sua produzione poetica, in parte risalente al periodo in
cui era ancora un ventenne che arrossisce
facilmente, che facilmente balbetta e s’impappina, e il sabato si attarda a stirare le
banconote da dieci corone «per infilarle poi
con cura nel portafoglio e mettermi in bella mostra nel momento in cui, in osteria,
avrei pagato la consumazione». Un elegante gagà, coi capelli impomatati e lo sguardo
languido, «sempre agghindato all’ultima
moda», con un vestito di sartoria, camicia
su misura e guanti in pelle di cervo. La stradina perduta, che nel finale già conteneva
le avvisaglie di una nuova scrittura, era andato a infrangersi contro la nazionalizzazione della tipografia seguita alla presa di
potere comunista di febbraio, quando «arrivò il 1948… e io mi ritrovai un po’… non
dico messo da parte… ma, insomma, mi ritrovai a lavorare alle acciaierie di Kladno»,
come mi aveva raccontato, con una cospicua dose di ironia, nell’intervista che gli
avevo fatto per L’Espresso nel 1986, al tempo dell’uscita della mia traduzione di Ho
servito il re d’Inghilterra.
Sì, il trentenne Hrabal, già con un copioso passato da poeta inedito (frutto della lettura di poetisti cechi e surrealisti francesi) e
da pochi anni finalmente laureatosi in legge (l’occupazione tedesca aveva avuto tra le
altre conseguenze anche la chiusura delle
università), finisce a lavorare alle acciaierie
Poldi, la Poldinka come la chiamavano affettuosamente gli operai, piccolo inferno
dall’incidente facile, dove — come leggiamo nello splendido poemetto La bella Poldi (1950), che ne mitizza i contorni — «Dio
guida l’ambulanza e da solo raccoglie gli
angeli spezzati e li trasporta nella notte». E
quella breve esperienza (tre anni, fino a un
incidente sul lavoro che toglie di mezzo anche lui) segnerà non solo la sua scrittura ma
soprattutto il suo modo di guardare.
Alcuni anni più tardi, ricordandosi forse
di André Breton che aveva parlato dei poeti come di «apparecchi di registrazione» che
ricusano ogni «operazione di filtraggio della realtà», scriverà infatti Hrabal: «Un uomo
che ritiene di essere nato per diventare
scrittore deve imparare a diventare un occhietto di diamante in movimento, deve
imparare a montarsi un nastro di registratore nel cervello». Come il Cineocchio di
Dziga Vertov, quei documentari che riprendavano quasi «oggettivamente» le
conquiste della rivoluzione russa, anche
Hrabal essenzialmente ascolta, osserva,
memorizza. E scrive un racconto come Jarmilka, incentrato su un’addetta alla distri-
la Repubblica
DOMENICA 23 MARZO 2014
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‘‘
Col presidente
Appena scarcerato,
ancora teso,
un po’ smagrito,
il futuro presidente
guarda divertito,
quasi affascinato,
un Hrabal teatrale
e irrefrenabile,
in piena
affabulazione
‘‘
In osteria
Ero uno
di quei ventenni
che il sabato
si stirano
le banconote
da dieci corone
per mettersi
in bella mostra
al momento
di pagare
‘‘
Sotto la falce
Il poveretto,
inseguito dalle api,
non trovava
di meglio
per liberarsene
che agitare
la falce
che fatalmente
gli si conficca
in testa
buzione del cibo lì a Kladno, musa — volutamente priva di fronzoli — della nuova «fattografia» hrabaliana, da opporre alla Nadja un
po’ folle e artistoide raccontata da Breton.
«Cinéma vérité», come dirà nel ’65 in un’intervista. Ma i crudeli racconti di quegli anni,
e i non meno crudeli poemetti (oltre alla Bella Poldi anche Bambino di Praga), rimarranno inediti per diversi decenni, falsando in tal
modo la percezione dello scrittore Hrabal da
parte dei lettori, trasformandolo — complice, bisogna dirlo, Hrabal stesso — in un nuovo Jaroslav Hašek, un compare del soldato
Švejk, mentre invece la raffinata complessità
narrativa hrabaliana, il suo gusto moderno
del montaggio, la pratica delle citazioni (da
Dante ai più biechi manifesti murali) lo allontanano drasticamente da Hašek, e se c’è
un modello da indicare dietro la dominante
del linguaggio parlato («il parlato come spettacolo», per citare Gianni Celati) questo sarà
da rinvenire piuttosto in Louis-Ferdinand
Céline, «l’irraggiungibile Céline», come mi
diceva in quell’intervista.
Più che inventare, Hrabal ama assemblare, riutilizzare, incollare «oggetti trovati» di
vario ordine e natura (storielle, immagi-
ni…), così come faceva anche concretamente negli anni Cinquanta, e poi di nuovo
vent’anni dopo, in alcuni affascinanti collage cartacei che nei primi mesi della nostra
frequentazione alla Tigre d’oro mi aveva invitato a casa sua a vedere, disegnandomi —
su quei foglietti dove in osteria si segnano le
birre — una mappa per come raggiungerlo.
Così, ad esempio, nel Re d’Inghilterra Hrabal
confessa di aver utilizzato i ricordi dell’oste
della cittadina di Sadská, mentre altri frammenti provengono da Miloš Havel, proprietario degli Studi Barrandov e zio di Václav. E
una volta che avevamo fatto un giro al castello di Lysá nad Labem, una trentina di chilometri da Praga, alla casa di riposo dove avevano dimorato negli ultimi anni la madre di
Hrabal e il fantasmagorico zio Pepin, a un
certo punto tra le statue tardobarocche del
parco ci si era parata davanti un’esile figura
femminile in pietra arenaria, con una falce
quasi infilata nella testa, e là era stato immediato ricordarsi di un personaggio del suo secondo libro di racconti del ’64, Pábitelé (parola inventata che potremmo rendere con
Cianfruglioni): il poveretto, inseguito dalle
api, non trova di meglio per liberarsene che
SOUVENIR
Dall’album dei ricordi di Giuseppe Dierna:
nella foto grande, Hrabal nella sua casa,
primi anni ’80 Dall’alto: con Havel
il 25 maggio ’89 alla prima
del Re d’Inghilterra (sul programma di sala
Havel scrive “Viva Hrabal”, Hrabal scrive
“Viva Havel” e “Viva Dierna”);
lo scrittore mentre sorseggia una birra
(accanto un foglietto d’osteria su cui annota
come raggiungere casa; sotto
una sua pagella); in un parco mentre imita
il personaggio di uno dei suoi primi libri
agitare in maniera forsennata la falce che ha
in mano e che fatalmente gli si va a conficcare nella testa. Si vedeva che Hrabal si stava divertendo, scoperto lì nel suo archivio di immagini, e si era subito messo in posa a imitarne il gesto. Non mi restava altro che scattare la foto.
In quegli anni a Praga avevo l’abitudine di
portare sempre con me la macchina fotografica, per cui avevo potuto fotografare, con
Hrabal che mi faceva da Cicerone, gli angoli
di Nymburk — la torre dell’acqua, le mura
dell’ormai scomparsa fabbrica di birra gestita dal patrigno — che avevo incontrato traducendo La tonsura e che avrei ritrovato affrontando alcuni anni più tardi La stradina
perduta. E avevo potuto fotografare, nell’appartamento di Praga, l’enorme dorata corona di David (poi donata allo scrittore Arnošt
Lustig) che si stagliava sulla parete della camera da letto, e che Hrabal negli anni Cinquanta aveva rinvenuto nella vecchia sinagoga di Liben, ormai adibita a magazzino del
Teatro S. K. Neumann, quando era stata definitivamente smantellata. Certo, aver potuto invece riprendere il bric-à-brac che affollava gli spazi dell’appartamento di Liben
(Sull’argine dell’eternità) dove Hrabal tornava dal lavoro all’acciaieria, e dov’era rimasto per vent’anni! Una casa tutta stracolma — a quel che scrivevano i giornalisti che,
dopo l’uscita nel ’63 del suo primo volumetto di racconti (La perlina sul fondo), cominciavano a fargli visita — di targhe pubblicitarie, placche coi numeri civici, alcune maschere mortuarie dello stesso Hrabal (opera
dell’amico Vladimír Boudník) e persino una
protesi attaccata al lampadario, che a questo
punto ci verrebbe da immaginare tutto fatto
di minuscole ossa umane, come nella cripta
di Sedlec a Kutná Hora.
E mi era riuscito anche di immortalare, alla fine di maggio del 1989, alla prima praghese di Ho servito il re d’Inghilterra, lo storico incontro di Hrabal con Václav Havel, da
poco per l’ultima volta scarcerato e accolto
alla stazione di Praga da una piccola folla che
già lo acclamava «il nostro presidente». Un
po’ smagrito, con i muscoli ai bordi della
bocca che ne tradivano la tensione, il futuro
presidente guarda divertito, quasi affascinato, un Hrabal in piena affabulazione. Teatrale, irrefrenabile.
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la Repubblica
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LA DOMENICA
Spettacoli
Immortali
Ancora oggi è l’autore più rappresentato, citato, letto,
rivoluzionato e stravolto. A teatro, al cinema e ora anche sul web
TEATRO, CINEMA E MUSICAL
APP E VIDEOGAMES
Qui sopra un’immagine della prima a Parigi nel 2002 dell’Amleto di Peter Brook,
spettacolo teatrale che avrà anche un adattamento cinematografico
Regista e teorico del teatro, Brook è annoverato tra i maggiori interpreti
del Bardo. Sotto, il musical di David Zard, superacclamato dai teenager,
Romeo e Giulietta; un Al Pacino, classico, in Riccardo III
Sotto ancora Cesare deve morire dei fratelli Taviani con i detenuti del carcere
di Rebibbia, Orso d’oro a Berlino 2012
A sinistra: Shakespeare or Die,
videogioco che riproduce
i testi principali del Bardo
Qui sopra in senso orario:
English Literature Revision
Games (gioco e quiz);
SwipeSpeare traduce in inglese
contemporaneo; Shakespeare
Collected, album di foto e ritagli;
Shakespeare In Bits, come
studiare in maniera interattiva
ROMEO E GIULIETTA
Nella foto grande:
Romeo + Giulietta
di Baz Luhrman
(1996)
con Di Caprio,
ambientato
ai nostri giorni
RODOLFO DI GIAMMARCO
ra un mese esatto, il 23 aprile, ricorre il
450esimo anniversario della nascita (presunta, valutando il battesimo documentato del 26
aprile 1564) di William Shakespeare, l’autore di
teatro più conosciuto e più messo in scena ovunque
e in tutti i tempi, drammaturgo-attore che riceverà
ogni tipo di omaggio in un ampio “corridoio” di due anni esatti, visto che morì 52enne il 23 aprile del 1616, e il 400esimo della scomparsa cadrà nel 2016. Perché, da metà del Settecento, Shakespeare assurse a rango di classico? E perché questo nome riscuote invariabilmente un culto universale tributato da ogni età, ceto e livello di sapere? Più di una, le risposte: è il più eccezionale raccontatore di fatti e di caratteri mai esistito, è il più prolifico fabbricante di parole di impatto fluido e naturale, è il più
strategico specialista di temi politici e civili, è il più poetico
ritrattista della morte dell’amore (e dell’amore per la morte), è il più antesignano artefice di concept sull’ambiguità
del genere sessuale, è il più romanzesco drammaturgo
delle criticità di gente di potere e di gente discriminata.
A suo favore, nella nostra era, c’è la frammentabilità del suo immenso repertorio. I limitati caratteri di
Twitter e dei tanti social network della cultura dei
nostri anni lo rendono massicciamente popolare,
e le frasi, gli aforismi che fioriscono dalle sue ope-
T
Quattro secoli
di tutto esaurito
la Repubblica
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Quand’era in vita aveva bisogno di duemila spettatori paganti a ogni replica
adesso ha milioni di “mi piace” su Facebook e 966mila video su YouTube
Padre e figlio
dialogo sul Bardo
CARLO CECCHI e VALERIO BINASCO
inasco. Shakespeare è il nostro miglior amico.
Quando lo si recita, la tragica inutilità della vita
pare un dono, un’occasione straordinaria.
Cecchi.“La verità èin Shakespeare, e un filosofo non
potrebbe appropriarsene senza esplodere col suo sistema”, ha detto Emil Cioran. Il bello è che questa verità è affidata al teatro.
B. Io debbo a lui più di una nascita e salvezza. La prima è stata a Palermo, con Cecchi. Lì ho incontrato Amleto, e lo stato di feroce necessità grazie a cui l’anima di
un attore emerge.
C. È un prisma, e se lo giri mostra immagini diverse.
Se pensi che una scena significhi solo una cosa, gli metti una camicia di forza. Presto scoprirai altri sensi.
B.A Shakespeare devo tutto. Me ne sono tenuto lontano. Poi c’è stata una rinascita, ho fondato la Popular
Shakespeare Kompany per Romeo e Giulietta, La tempesta, Il mercante di Venezia.
C. Io sono arrivato tardi, con La tempesta. Poi feci
Amleto tradotto da Garboli, lo rifeci col “ragazzo” Binasco, e seguirono Misura per misura, e il Sogno. Ora
metto in scena La dodicesima notte.
B. Il mio modo di fare Shakespeare s’è allontanato
dal furore di una volta. Facciamo teatro per essere felici. E solo Shakespeare ha saputo cogliere le assurdità e
i drammi con leggerezza, e potenza.
C. Shakespeare è assoluto. C’è bisogno solo di attori
e pubblico. E gli attori-registi devono intraprendervi
una via personale. Dicevo a Binasco e ai giovani: voi mi
dovete uccidere.
B. Shakespeare racconta le nostre luci e tenebre come se davvero tutti fossimo figli di Dio.
C. Qualcuno sostiene che prima viene Shakespeare
e poi Dio.
FOTO LUCA DEL PIA
FOTO TOMMASO LE PERA
FOTO TOMMASO LE PERA
B
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ESTREMI
FOTO TOMMASO LE PERA
Da sinistra, in senso orario: l’Amleto di Latella
con Danilo Negrelli; ancora Amleto, versione
Societas Raffaello Sanzio, con Paolo Tonti,
(celebre perché pochi riuscivano a restare
in sala fino alla fine); il Sogno di una notte
di mezza estate del Carretto; Carmelo Bene
nel contestato Hommelette
for Hamlet; Branciaroli
e Orsini nell’Otello
di Lavia; Il Mercante
di Venezia di Binasco:
Silvio Orlando in Shylock
re svettano negli indici di consultazione online
mondiali e italiani. La percezione del costante boom
di ricerche testate da Google Trends parla di una sempre
eccezionale vendita di libri teatrali (nell’ordine: Macbeth, Sogno, Romeo e Giulietta, Amleto, Otello...), di centinaia di app per
smartphone e tablet (applicazioni sul repertorio, sul linguaggio,
sui personaggi), di archivi fotografici tematici, di gallerie virtuali
di opere d’arte. E mentre il creatore di teatro più immortale (e intelligentemente trasgredito) aveva bisogno di 1500-2000 spettatori paganti a ogni replica, il suo corrispettivo destino di oggi può
far leva su milioni di “mi piace” su Facebook, su 966mila video su
YouTube (dove il motore di ricerca registra da noi il massimo dei
contatti per Shakespeare, Shakespeare in Love, Romeo e Giulietta),
oltre che su performance e film di fattura canonica o rielaborata.
Proprio adesso, in un periodo celebrativo che ha il suo cuore in
Inghilterra ma riguarda ormai cultori, spettatori e lettori di ogni
Paese — coinvolgendo noi italiani per la locationin nostre città di
alcune tra le sue più fortunate commedie — forse potremmo lodare in controtendenza alcune qualità anti-istituzionali, alcuni
studi dei lati oscuri dell’uomo, alcune inquietanti messe a nudo di
fenomeni individuali e collettivi che testimoniano la frugalità e il
pragmatismo di questo genio irripetuto. Shakespeare è patrimonio di artisti contemporanei di apocalittica reinvenzione, e si pensi ai dirompenti, beffardi e dolorosi manifesti dei vari Amleto, e di
Romeo e Giulietta, Riccardo III e Otello con cui il nostro Carmelo
Bene ha segnato decenni di negatività fantastica e possessiva. Ma
il Bardo è stato anche oggetto di una destrutturazione violenta e
iconoclasta da parte di Romeo Castellucci, autore-regista della
Socìetas Raffaello Sanzio, che dopo aver affrontato con colpi
sconvolgenti l’Amleto giunse a misurarsi con l’ars oratoria del
Giulio Cesare attraverso apparecchi foniatrici che visualizzassero
la carne delle parole, e attraverso le sonorità artaudiane di un laringectomizzato, con recupero attuale di Pezzi staccati.
Il positivo rumore culturale globalizzato annuncia tra l’altro un
sequel cinematografico di Shakespeare in Love e una inedita versione dal vivo al Noël Coward Theatre di Londra, e preannuncia
mostre, musical, allestimenti, riscritture, audiolibri, ebook, celebrazioni e percorsi a Stratford-Upon-Avon, città natale dello scrittore. Tutto ma anche il contrario di tutto (ci fu un’alzata di scudi
contro un’infondatezza di identità sostenuta dal film Anonymous
di Roland Emmerich del 2011) viaggia da sempre sul potere delle
parole e delle storie di circa 38 capolavori del Bardo, ma la stima
degli uomini edotti e degli uomini semplici continua a essere
sproporzionatissima in rapporto all’uomo William, alla conoscenza scarsa, lacunosa e misteriosa delle vicissitudini dell’individuo Shakespeare. La sua meteora, il suo insegnamento, la sua
fascinazione fanno i conti con una persona di origini provinciali e
modesta istruzione, con uno che sposò diciottenne una moglie
otto anni più grande, da cui ebbe tre figli, da cui “fuggì” per andarsene a Londra inizialmente a tenere in custodia i cavalli all’ingresso dei teatri, per poi entrare rapidamente nel sistema della
scena, recitando e scrivendo per l’industria dell’intrattenimento
retta dalla logica del profitto, ma sempre spinto da un’etica contraria alle realtà politiche e sociali del tempo, tranne la parentesi
intima dei Sonetti “dedicati” al mecenate-amico del cuore
Southampton, e alla Dark Lady.
Ed è opportuno prendere atto che chi è stato in nuce lo sceneggiatore di tanti film (dall’Amleto di Meliès agli Shakespeare di Laurence Olivier, di Welles, di Kurosawa, di Bene, di Brook, di Zeffirelli, di Stoppard, di Branagh, di Radford, fino a Cesare deve morire dei fratelli Taviani), pur baciato dal successo, abitasse a Londra
in stanze affittate in quartieri modesti, prima di acquistare la casa
New Place nel luogo di nascita, e di garantirsi un buen retiro londinese a Blackfriars tre anni prima di morire relativamente giovane, in concomitanza con l’incendio del Globe Theatre. Ed è bello
che, al di là del suo accorto testamento, l’eredità dei suoi testi alimenti continui picchi di vendita dell’editoria (con punte massime nel 1932 e nel 1953), ispiri nostri interi cartelloni come quelli
della veterana Estate Shakespeariana a Verona e del Globe di Roma diretto da Proietti, e induca molti teatranti a un gran lavoro rivoluzionario sulle sue pietre miliari della scena. Nel senso che, oltre a Bene e Castellucci, i vari Peter Brook, Bob Wilson, Peter Zadek, Peter Stein, Heiner Müller, Robert Lepage, Giovanni Testori,
Giancarlo Cobelli, Leo de Berardinis, Luca Ronconi, Carlo Cecchi
e Valerio Binasco hanno aggiunto forza contemporanea e tradimenti vitali a un autore che anche al suo millesimo anniversario
resterà colui il quale ha scritto le tavole della legge del teatro.
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DOMENICA 23 MARZO 2014
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Next
In frigo
LA DOMENICA
Un quarto della spesa finisce
nella spazzatura. Ecco perché
la scienza dell’alimentazione
ha deciso di correre ai ripari
Puntando non sul contenuto ma sul contenitore
Tra poco, assicura, mangeremo anche quello
8,7 200 60%
miliardi di euro
il costo
dello spreco
domestico
ogni anno in Italia
grammi
il cibo sprecato
a settimana da ogni
famiglia italiana
per una spesa di 7 euro
degli italiani
getta il cibo una
volta alla settimana
per un totale
di 76 kg ogni anno
FILM PLASTICI
Assorbono gli odori
sgradevoli, ma anche l’etilene,
il maggiore responsabile
della maturazione
della frutta e della verdura:
in questo modo mele e kiwi
durano più a lungo
Il packaging di domani avrà una doppia funzione: prolungare
la vita del prodotto, per esempio ritardandone la maturazione (attivo)
e dare più informazioni al consumatore sullo stato dell’alimento
utilizzando etichette che cambiano colore (intelligente)
ANTI-UMIDITÀ
Un sistema utilizzato,
soprattutto in Giappone,
per conservare meglio
il pesce fresco, ma anche
la carne: vengono inseriti
nella confezione dei foglietti
che assorbono l’umidità
ASSORBI-GAS
CALDO-FREDDO
Tipico caso di packaging attivo:
per conservare più a lungo
e meglio il caffè, tostato
e macinato, basta inserire
all’interno della confezione
un sacchetto che assorbe
l’anidride carbonica
Un esempio un po’ diverso
di packaging attivo, ma comunque
funzionale a mantenere alte
le prestazioni del prodotto,
riguarda le bevande autorefrigeranti
o, al contrario, quelle che
si autoriscaldano (caffè, tè)
ANTIMICROBICI
Il rilascio controllato
di antimicrobici nell’imballaggio
estende la durata
di prodotti freschi,
per esempio formaggi
a pasta molle, prevenendo
la crescita di batteri
ILARIA ZAFFINO
rigoriferi smart che ti avvisano con un bip quando le
scorte all’interno stanno
per finire o per andare a male. Spie luminose che occhieggiano dalle confezioni dei prodotti e cambiano colore se il
contenuto è stato sottoposto a sbalzi di
temperatura. Sensori Rfid che danno
l’allerta in caso di maturazione avanzata. O, più semplicemente: sacchetti, foglietti, bustine e imbottiture che, nell’ordine, assorbono ossigeno, emettono etanolo (per far durare di più pane,
pizza e biscotti), non fanno gocciolare
(carni e pesci), evitano la muffa. Non è
fantascienza applicata alla nostra tavola quotidiana. Al contrario. Molti di
questi sistemi per conservare più a lungo il cibo (e quindi sprecarne di meno)
F
Non rompete le scatole
vi diranno tutto loro
GLOSSARIO
Packaging
L’imballaggio che protegge l’alimento da luce, gas, batteri
In futuro avrà anche una funzione “attiva” (far durare di più il cibo)
e “intelligente” (dare maggiori informazioni al consumatore sul prodotto)
stanno per arrivare anche nelle nostre
case e, se non ancora in Italia, negli Stati Uniti, in Australia e in Giappone già riscuotono parecchio successo.
Nel mondo ogni anno un terzo degli
alimenti prodotti va sprecato: gettiamo
nel cestino 1,3 tonnellate di cibo. Solo in
Italia, secondo un rapporto elaborato
da Waste Watcher, osservatorio nazionale sugli sprechi, ogni famiglia butta
via due etti di cibo a settimana, che detti così non sembrano neanche troppi,
ma in un anno si concretizzano in un totale di 8,7 miliardi di euro sprecati. Sono frutta, verdura, formaggio, pane, gli
alimenti più penalizzati, mentre tra i cibi cotti prima è la pasta: fatto sta che circa il 25 per cento della spesa finisce nella spazzatura. Il motivo più frequente?
Ha fatto la muffa. Cattivo odore. Oppure: è scaduto. Oltre il 40 per cento dello
spreco alimentare avviene proprio tra
Etichette Rfid
Minuscoli chip che comunicano tramite la radiofrequenza: possono
dare informazioni immediate su un cibo, come data di confezionamento
o scadenza e seguirne il percorso nella catena produttiva
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I PIÙ SPRECATI
Fonte: Rapporto spreco domestico in Italia/Osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market/Swg 2013/2014
TEMPO
GAS
RFID
Il TTI (indicatore tempo temperatura )
è un’etichetta termosensibile
che cambiando colore ci dice
se l’alimento è stato esposto
a una temperatura più calda
di quella raccomandata
Utile per i surgelati
L’indicatore di gas segnala
la presenza o l’assenza di ossigeno
in una confezione, per esempio
di carne: se l’ossigeno è presente
cambia colore informando così
che l’imballaggio ha una perdita
e il cibo potrebbe essere scaduto
L’identificazione automatica
in radiofrequenza sostituirà
l’etichetta cartacea
e il codice a barre
In grado di dare molte
più informazioni e di interagire
con elettrodomestici intelligenti
uovo
materiali
intelligente
catalizzatore che
attiva il materiale
intelligente
ELABORAZIONE GRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA - ALCUNA IMMAGINI DA THE PACKAGE DESIGN BOOK 2 (TASCHEN)
la membrana
separa
il catalizzatore
dal materiale
intelligente
packaging
di carta riciclata
AUTOCOTTURA
MATURAZIONE
L’imballaggio, in cartoncino riciclato
con vari strati al di sotto,
serve anche per cuocere l’uovo
che si trova all’interno: aprendo
la confezione si otterrà un uovo
alla coque per un rapido spuntino
Brevettati in Nuova Zelanda,
gli indicatori di maturazione
sono etichette intelligenti
che cambiando colore, dal rosso
al giallo, ci informano sul livello
di maturazione della frutta
INCHIOSTRO
Come pastigliette colorate
oppure trasparenti, gli indicatori
a inchiostro termocromo sono
sensibili alle temperature: hanno
una zona che, quando la catena
del freddo viene interrotta, cambia
colore. Usati per le bevande
L’ULTIMA FRONTIERA
Arriva dall’università di Harvard la novità più estrema
in fatto di packaging: WikiCells è un “involucro”
commestibile perché formato da cellule di cibo
e da un polimero biodegradabile uniti grazie
a forze elettrostatiche
le mura domestiche.
Per arginare il fenomeno, la scienza
dell’alimentazione più che sul “contenuto” oggi punta sul “contenitore”. Il
packaging del futuro non solo mira ad
allungare la shelf lifedei prodotti, ritardando la maturazione, prolungando
la scadenza, eliminando l’umidità, assorbendo l’ossigeno, tanto per fare
qualche esempio. Ci permette anche
di monitorare passo dopo passo lo stato dell’alimento, segnalandoci immediatamente se, per esempio, ha subìto
sbalzi termici. «Da una parte, il packaging sarà “attivo”», spiega Davide Barbanti, professore di Scienze degli alimenti all’università di Parma, «perché
oltre a proteggere l’alimento da luce,
calore, gas, batteri, interagisce con esso allungandogli la vita. Per esempio,
evitandone l’ossidazione: accade a bevande, succhi di frutta. Oppure scon-
giurando mutamenti di colore. Perciò
vengono fuse all’interno della confezione sostanze antiossidanti. O più banalmente queste sostanze possono essere inserite in sacchetti, o bustine di
materiale poroso, che a contatto con
l’alimento non lo fanno diventare scuro o molle o perdere di croccantezza.
Nei grandi magazzini dove vengono
conservate enormi quantità di frutta,
ci sono macchine che sottraggono l’etilene (la sostanza che fa maturare la
frutta): ecco, nel piccolo la logica è la
stessa. Per conservare mele e kiwi per
un periodo più lungo devo adottare alcune misure attraverso l’immissione o
la sottrazione di sostanze anti-microbiche o anti-invecchiamento».
Ma, dall’altra parte, il packaging di
domani sarà anche “intelligente”, perché in grado di darci molte più notizie
riguardo a ciò che ci apprestiamo a
Shelf life
Letteralmente “vita del prodotto sullo scaffale”: è quel periodo di tempo
durante il quale l’alimento mantiene le sue qualità se correttamente
conservato. Può essere espressa nella scritta “da consumarsi entro”
mangiare. Al posto della semplice
scritta “da consumarsi preferibilmente entro” avremo allora etichette termo-sensibili, che reagiscono al calore
e cambiano colore, a mo’ di semaforo,
del tipo verde (cioè, buono) o rosso (attenzione, ha subìto sbalzi termici).
Oppure biosensori, per identificare la
presenza di sostanze tossiche nei cibi
utilizzando molecole di natura biologica, come anticorpi o enzimi, che
quando entrano in contatto con una
tossina reagiscono e subiscono delle
modificazioni poi tradotte in un impulso elettrico.
Altro esempio: gli Rfid. Utilissimi per
la tracciabilità dei prodotti, sostituiranno le vecchie etichette con una specie di
chip che ci dice dove il prodotto è stato
fatto e tutto quello che vorremmo sapere (e non abbiamo mai osato chiedere)
sulla sua vita. A livello mondiale ci sono
marchi che già fanno queste etichette.
Da noi quando arriveranno? Dal punto
di vista tecnico, sembra tutto pronto,
dicono gli esperti. Il problema grosso
restano i costi troppo alti. «Il mercato
italiano non è ancora maturo, anche se
sta aumentando la sensibilità verso
l’introduzione della tecnologia in confezioni e imballaggi» spiega Andrea Segrè, ideatore dell’osservatorio Waste
Watcher. Lo dimostrano i risultati di un
recente sondaggio (realizzato per Repubblica proprio da Waste Watcher
con Swg) su come dovrebbe essere il
packaging di domani: «Assistiamo a un
atteggiamento ambivalente: il consumatore chiede sì indicazioni più chiare
sulla provenienza e sulla reale scadenza dei prodotti, ma più che a sensori
(auspicabili solo dal 23 per cento degli
intervistati) ed etichette termosensibili
(15 per cento) guarda ancora a imbal-
laggi sostenibili e a spreco zero (45 per
cento)». Nel lungo cammino che ci condurrà a Rfid e spie luminose, infatti, una
tendenza che ci riguarda tutti più da vicino è l’aumento del 60 per cento dell’eco-packaging nei prossimi cinque
anni (secondo il rapporto Transparency Market Research): vedremo sempre più materiali ecologici e leggeri come bioresine al posto della plastica. E
non si esclude un ritorno al vuoto a rendere tanto in voga trent’anni fa. Mentre,
sul fronte opposto, piovono provocazioni: e se il pack di domani fosse addirittura commestibile? Un ricercatore di
Harvard, David Edwards, sta già studiando questa soluzione: basta unire
cellule di cibo a un polimero biodegradabile, promette, e il gioco è fatto. A quel
punto, saremo davvero (anche) gli imballaggi che mangiamo.
Etilene
Ormone vegetale responsabile della maturazione di frutta e verdura:
si può filtrare inserendo nella confezione un sacchetto che contiene
un composto assorbi-gas per rallentarne il processo
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DOMENICA 23 MARZO 2014
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LA DOMENICA
I sapori
Botte piena
Siamo i secondi
viticoltori biologici
del mondo e la qualità
del prodotto è in crescita
Tanto da sfidare le migliori
etichette industriali
Provare (al Vinitaly)
per credere
Chianti Classico Badia
a Coltibuono 2010
Gli Eremi 2011
La Distesa
Sangiovese e Canaiolo coltivati
in biologico (certificato Icea)
nei vigneti di Gaiole
Elegante e complesso
Un sesto di rame e zolfo
ammessi dal disciplinare,
nella terra del Verdicchio bio
certificato Imc, serico e agrumato
Prezzo: 13 euro
Abbinamento: bistecca alla fiorentina
Animante
Barone Pizzini
Verrà presentato al Vinitaly
il morbido Franciacorta
della storica azienda bio
(certificata Icm)
Prezzo: 18 euro
Abbinamento: tagliolini al pesce di lago
Malvasia 2009
Damijan Podversic
Certificazione Imc per il bianco
prezioso, floreale e sapido,
da uve coltivate sulle colline
tra Gorizia e l’Isonzo
Prezzo: 30 euro
Abbinamento: crostacei
Barolo Brunate
Le Coste 2009 Rinaldi
Rispetto profondo
per la terra e divieto assoluto
di avvelenarla nel rosso
nobile e balsamico
Prezzo: 35 euro
Abbinamento: brasati e formaggi stagionati
Bio
Bacco
Quando il vino
ignora la chimica
Prezzo: 12 euro
Abbinamento: brodetto di pesce
LICIA GRANELLO
bbiamo bisogno di meditazione e di equilibrio:
il ritorno contadino non
è rifiuto della tecnica; è
l’invito a sottomettere
sempre e comunque la
tecnica al rispetto delle esigenze umane». Così
scriveva Gino Veronelli quarant’anni fa, e sembra
oggi. Impossibile, allora, pensare che il Vinitaly
potesse dedicare spazio ed energie al vino «non
convenzionale». Da quell’intuizione geniale e visionaria (sfociata nel 2003 nel libro-progetto Critical Wine, terra e libertà) a oggi, il mondo del vino
è cambiato così tanto che nessuno si stupisce se
l’edizione numero 48 (dal 6 al 9 aprile alla Fiera di
Verona) dedicherà due padiglioni, VinitalyBio e
Vivit (Vigne Vignaioli Terroir), ai vini cari a Veronelli, a cui aggiungere lo spazio del Sol Bio, dedicato agli extravergine biologici. Ma grande è la
confusione sotto il cielo della nuova eco-enologia,
come testimoniano altre due manifestazioni, che
cominceranno sabato 5: ViniVeri a Cerea (Verona)
e VinNatur a Villa Favorita (Vicenza).
Se Veronelli associava sensibilità planetaria,
agricoltura contadina e rivoluzione dei consumi,
prefigurando un ritorno al futuro incentrato su
una comune visione etica della produzione enogastronomica, i bio-vignaioli ancora faticano a
darsi un’identità collettiva e cercano di trovare
una chiave da condividere per offrire la giusta immagine di sé a un popolo di bevitori sempre più riluttanti (sotto i 40 litri procapite).
Certo, esiste il vino biologico certificato (fogliolina verde docet). Un regolamento importante,
varato dall’Ue appena due anni fa, norma l’intero
processo di vinificazione (prima si certificavano
solo le uve). Vittoria pagata in termini di allentato
rigore del disciplinare, tra coadiuvanti consentiti
e aumentati limiti della solforosa, condizione necessaria per azzerare i rischi di acetificazione connessi al trasporto delle bottiglie, soprattutto fuori
dall’Italia. Ma intanto, la bioviticoltura italiana,
che occupa il 7 per cento del totale dei vigneti —
seconda estensione al mondo, dopo la Spagna —
ha alzato enormemente gli standard qualitativi,
tanto da mandare in passerella vini buonissimi, in
grado di competere con le migliori etichette della
viticoltura industriale, spesso disposta a troppe
manipolazioni pur di creare il vino perfetto.
Poi ci sono gli altri, quelli che mettono la faccia,
raccontando in prima persona le fatiche di vignaioli artigianali. Storie familiari, generazionali,
oppure ragazzi che approdano alla terra da una
storia diversa, urbana, universitaria. I loro vini nascono da rese bassissime (30-40 quintali per ettaro), ignorando la chimica e piegando la tecnologia
al rispetto della naturalità, il rapporto con i clienti
è personale, vuoi per le strutture di accoglienza
(agriturismi, fattorie didattiche) che integrano il
lavoro agricolo, vuoi per il passaparola sempre più
attivo nel mondo alimentare. Estranei agli slogan
ruffiani del marketing, molti di loro spingono perché l’etichettatura dei vini si adegui a quella di tutti gli altri alimenti prodotti e venduti in Europa,
con l’elenco completo degli ingredienti e della filiera. Una ricetta semplice semplice per riconoscere, finalmente, i vini buoni, puliti e giusti.
«A
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’etichetta
La produzione di vini
biologici (regolamento
europeo 203/2012)
certificata dall’etichetta
verde, prevede
il divieto di concimi
chimici, diserbanti,
anticrittogamici,
insetticidi, pesticidi,
organismi geneticamente
modificati e limita
la solforosa totale
a 100 mg/l per i vini rossi
e 150 mg/l per i bianchi
la Repubblica
DOMENICA 23 MARZO 2014
■ 37
Dove comprare
MONFORTE
D’ALBA (CN)
Flavio Roddolo
Bricco Appiani
Località S. Anna 5
Tel. 0173-78535
MAGRÈ
(BZ)
Alois Lageder
Vicolo dei Conti 9
Tel. 0471-809500
LUCERA
(FG)
Agricola Paglione
Strada
per San Giusto
Tel. 0881-024905
SOLICCHIATA
(CT)
Azienda Agricola
Frank Cornelissen
Via Nazionale 297
Tel. 0942-986315
COSSIGNANO
(AP)
Azienda Vitivinicola
Fontorfio
C.da Fiorano 4
Tel. 0735-736076
SGONICO
(TS)
Vodopivec
Località
Colludrozza 4
Tel. 040-229181
PUIANELLO
DI QUATTRO
CASTELLA (RE)
Ca’ de Noci
Via F.lli Bandiera 1
Tel. 0522-889855
TRAMONTI
(SA)
Azienda Agricola
Monte di Grazia
Via Orsini 26
Tel. 089-876906
CIRÒ MARINA
(KR)
Cataldo Calabretta
Viticoltore
Via Mandorleto 47
Tel. 347-1866941
RIVERGARO
(PC)
La Stoppa
Località
Ancarano
Tel. 0523-958159
Montepulciano
d’Abruzzo Riserva
2008 Praesidium
Grillo Rocce
di Pietra Longa
2012 Centopassi
Frutti rossi maturi e intensità
carnale nel vino prodotto
senza chimica, né in vigna,
né in cantina
Nasce nelle campagne
confiscate alla mafia, certificate
bio dalla Ccpb, il bianco
aromatico e beverino
Prezzo: 28 euro
Abbinamento: carni arrosto
A tavola
Le mie uve
fanno da sole
Prezzo: 11 euro
Abbinamento: crudi di mare
Morei 2011
Foradori
Vinificato in anfora secondo
la tradizione georgiana,
il Teroldego energico e ruvido
certificato biodinamico
NICOLETTA BOCCA
uella biodinamica è un’agricoltura dell’esperienza, come è sempre stata l’agricoltura fino a pochi decenni fa, quando hanno incominciato a venderci un’agricoltura della certezza.
Ancora oggi, in certe annate, qualche viticoltore sostiene che chi fa
biologico o biodinamico non raccoglierà nulla, e se raccoglie è perché ha barato. C’è incredulità,
paura, la sensazione di non fare le
cose come andrebbero fatte,
quando invece una buona agricoltura naturale richiede un livello di attenzione e di ascolto sempre in perfezionamento, dove intervenire il minimo è il modo migliore per dare il massimo.
Alla biodinamica sono arrivata
con una formazione classica alle
spalle, in vigna e in cantina, che mi
ha aiutato ad avere basi e conoscenze. A volte ciò mi ha ostacolato, perché certe libertà di osservazione e ragionamento non ti vengono più istintive. Scopri che hai
perso quella capacità che hanno i
grandi e rari medici diagnostici di
riconoscere, da pochi segni, la
malattia “a vista”. Nel biodinamico, rispetto al biologico, si lavora
molto di più su elementi non misurabili e percepibili facilmente,
sulle forze eteriche, un ambito in
cui la fretta del risultato va dimenticata. L’ho verificato col mio Dolcetto, il San Fereolo, in cui le uve
anno dopo anno hanno avuto
sempre meno bisogno di me in
cantina, come un figlio che cresce
bene; in cui il vino ritrova da solo
gli equilibri interni, restituendo
l’annata e il luogo con maggior individualità e intensità. Del resto, la
biodinamica non dovrebbe aspirare a essere un risultato, ma solo
un mezzo attraverso il quale cerchiamo di raggiungere la verità,
che un territorio riesce a esprimere nello stato di grazia del minor
numero di interferenze possibili.
Viticoltrice biodinamica
a Dogliani nelle Langhe,
figlia del giornalista Giorgio
Q
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Prezzo: 25 euro
Abbinamento: carni alla griglia
Filagnotti 2011
Cascina degli Ulivi
Metodo biodinamico
per il bianco corposo
e mandorlato da uve Cortese
maturate a Novi Ligure
Prezzo: 13 euro
Abbinamento: carni bianche
Le Trame 2008
Podere Le Boncie
Sangiovese coltivato
ad alberello e vinificazione
ipertradizionale per il Chianti
speziato, austero e lunghissimo
Prezzo: 25 euro
Abbinamento: grandi carni
la Repubblica
DOMENICA 23 MARZO 2014
■ 38
LA DOMENICA
L’incontro
Icone
All’anagrafe ha quasi settant’anni,
cinquanta dei quali passati su palchi
e set. Ma essere ancora un sex symbol
non la sconvolge affatto: “Il botox
aiuta, ma anche il dna: pensi
che io e mia madre abbiamo
la stessa taglia
di jeans”. Femminista,
ha una figlia trans
(Chastity, ora Chaz)
e ha sposato la causa
gay:“Loro non mi hanno
mai abbandonata. Quanto agli uomini
etero, lasciamo stare...”
D
MILANO
avanti a lei l’ultima cosa che viene in mente è
l’età. Cher parla di leggings e tacchi a spillo,
perizomi e calze a rete mentre mette a
punto i dettagli del suo tour Dressed to
Kill che ha debuttato ieri sera a Phoenix, in Arizona, e la terrà impegnata fino a giugno. Poi riflette: «Oddio, ce la
farò? Il 20 maggio compio sessantotto
anni e le ossa cominciano a scricchiolare. A questa età ogni cosa arriva inaspettata, come un dono. Ormai non
pianifico più la mia carriera. Un disco
dopo dodici anni (Closer to the Truth)
era l’ultima cosa che avevo programmato. Continuo ancora a credere che
si tratti di un caso fortuito. A sessant’anni tenni la mia prima tournée
d’addio, mi sembrava un’età onorevole per sparire dalle scene. Invece
eccomi qua, pronta a rompermi di
nuovo la schiena, con la trepidazione
di un’adolescente. Cantare per me è
qualcosa di incontrollabile a livello
mentale. Recitare, al contrario, richiede un’attenzione e una concentrazione pazzesche», racconta l’artista premio Oscar per Stregata dalla
luna (1987). «La musica ti offre più libertà, devi memorizzare un testo, ma
ti muovi liberamente, improvvisi, te
la godi. Recitare è tutt’altro che divertente, il bello di un film arriva quando
hai finito di girarlo e lo vedi montato.
Dicono che il palcoscenico sia una
droga, in tal caso è l’unica che io abbia
mai preso».
Magrissima, tonica, parrucca mogano che le incornicia un viso meno
spigoloso di quando si chiamava ancora Cherilyn Sarkisian (sangue armeno e indiano cherokee nelle vene)
e a diciassette anni si mise in mente di
fare la cantante, o l’attrice, o qualsiasi altra cosa la vicina Hollywood avesse da offrire a un’adolescente di El
Centro, California. «Volevo far parte
di questo mondo. Non era una tentazione ma un’opportunità; già alle elementari ero molto motivata. Poi grazie a Dio incontrai Sonny Bono, uno
che conosceva i trucchi del mestiere;
non sarei riuscita a mettere a fuoco le
mie potenzialità senza di lui. Ho avuto anche la fortuna di avere una madre e una nonna che erano mie fan ancor prima dei trionfi di Sonny & Cher».
Cinquant’anni di palcoscenico e ancora è un sex symbol. Dei ritocchi a
colpi di bisturi e di botox non ha mai
fatto mistero, ma a mantenerla così in
forma non sarebbero bastati neanche
gli interventi del Dr. Frankenstein.
«C’è qualcosa di buono nel dna di famiglia. Mia nonna è morta a 96 anni
ed è andata in palestra fino alla settimana prima. Mia madre ha 87 anni ed
è una bellissima donna, indossiamo
jeans della stessa taglia. Al resto hanno pensato buonumore e successo.
Mi fanno ridere le pop star che dicono: la fama non mi ha mai viziata. Impossibile. Prenda il mio caso, famosa
per mezzo secolo, talmente abituata a
essere una privilegiata da averci fatto
il callo. Una volta sono andata al supermercato e totalmente noncurante
della fila sono andata dritta alla cassa,
come fosse la cosa più naturale del
mondo. Vero è che non ho mai avuto
abitudini pericolose, droghe, alcol,
sigarette. In questo non assomiglio a
Judy Garland. Molti cantanti e attori
non riescono a reggere il passo — specie mezzo secolo fa quando gli artisti
lavoravano decisamente più di oggi.
Quando ho cominciato a cantare si
registrava su un quattro piste, non
c’erano tutte le diavolerie che abbiamo oggi. Ti mettevi davanti al microfono e cantavi; se non andava bene ripetevi l’intera canzone anche
cento volte. Il clima fra gli artisti era
meno competitivo, non c’erano in
ballo tutti questi milioni. Quello della
musica era un piccolo business, le star
non lanciavano profumi o linee di
moda, si investiva tutto nel mestiere,
per avere musicisti migliori, coreografi all’altezza, abiti di scena più elaborati. Ricordo perfettamente quando Sonny e io incidemmo il primo album, era il 1965. La domanda che ci
facevamo più spesso era: ne faremo
mai un altro? Forse per questo non ho
mai pensato di smettere. L’unica cosa
che mi ha fatto desiderare di mandare tutto all’aria è stata la totale mancanza di privacy, una limitazione
enorme alla libertà di cui ho bisogno
come l’aria. Che vuol dire andare al cinema, in motocicletta, al centro commerciale senza essere importunata. E
i telefonini… una maledizione. Oggi
chiunque s’improvvisa paparazzo!
L’altro giorno mentre ero in strada un
uomo mi è venuto incontro a una velocità pazzesca, quando è arrivato a
un centimetro da me ha azionato la
fotocamera. Pensavo avesse un’arma. C’è un solo posto ormai dove pos-
Un giorno
al supermercato
incurante della fila
me ne vado
dritta alla cassa:
brutta abitudine
quella di sentirsi
dei privilegiati
FOTO GETTY
GIUSEPPE VIDETTI
so vivere tranquillamente: nella mia
casa di Malibu. A patto che non ci sia
un uomo che bussi alla porta».
Gli uomini, un argomento sensibile. «Io parlo di tutto, non ho segreti,
ma gli amori lasciamoli da parte. Anche il più sensibile dei giornalisti ha
sempre frainteso tutto. Le dico solo
che avrei voluto essere un’artista più
indipendente, invece anche alla mia
veneranda età sono costretta a dipendere dagli uomini. Non sono una
compositrice, ho bisogno di autori,
arrangiatori, produttori; e sono quasi
sempre uomini. Sono una donna fortunata, perché in quello che faccio è
l’arte che garantisce la libertà e un’eguaglianza che diversamente sono
difficili da conquistare. Nel nostro
mondo non cambia nulla se sei uomo
o donna, bianco o nero, vali solo per
quello che fai. Sono le canzoni a far la
differenza».
Il femminismo, un argomento sensibilissimo. «Credo che la condizione
della donna sia peggiore di com’è
sempre stata. Avevamo fatto tanti
progressi negli anni Sessanta di cui
abbiamo goduto i benefici per almeno due decenni successivi. Poi all’improvviso tutto è crollato. Negli Stati
Uniti la società è diventata assai più
conservatrice e moralista. C’è più arroganza e una minore disponibilità
ad ascoltare il punto di vista degli altri. Negli anni Sessanta, Sonny mi diceva sempre: puoi anche litigare con
qualcuno di giorno e la sera giocarci a
poker. Adesso la gente si odia, i punti
di vista — soprattutto in politica — sono sempre diametralmente opposti,
inconciliabili». Rifiuta l’idea che sexy
faccia rima con oca, che la bellezza sia
di ostacolo all’intelligenza, che la vanità sia il vizio delle miss e non delle
scienziate. Cher è più donna che mai,
più femminista di prima. «Appartengo a una generazione che dava voce
alle proteste, che rivendicava i propri
diritti. Oggi siamo lenti, la rabbia è repressa. Gli Usa hanno sonnecchiato
anche di fronte alla guerra in Iraq sostenuta da giustificazioni false e assurde. Molti degli ideali per i quali abbiamo combattuto negli anni Sessanta sono stati calpestati. E a farne le
spese sono soprattutto le donne, ancora ostaggio di fidanzati e mariti — è
dimostrato che la maggior parte dei
femminicidi vengono perpetrati da
persone molto vicine alle vittime. Gli
uomini sono più liberi, non hanno il
diritto di dirci cosa dobbiamo fare del
nostro corpo. Neanche i papaveri di
Washington che parlano senza cognizione di causa di aborto, contraccezione e matrimoni tra persone dello
stesso sesso. Ho rifiutato di cantare
alle Olimpiadi invernali di Sochi a
causa delle infami leggi antigay che
sono state promulgate in Russia. Sarebbe stato un insulto per i miei fan,
per tutti i gay che mi hanno sostenuta
nel periodo più buio della mia carriera, quando c’erano solo loro ad applaudirmi nei teatri. E anche per mia
figlia, che ha cambiato sesso — e Dio
sa quanto mi ci è voluto per capire e
accettare il fatto che Chastity fosse diventata Chaz! Per questo sostengo
che ci sia bisogno di un presidente
donna e ho fatto campagna per Hillary Clinton, una persona intelligente
con un marito intelligente, una che
conosce il Palazzo e avrebbe fatto cose egregie per il Paese. Certo, poi ho riconosciuto che l’elezione di Obama
era un fatto anche più rivoluzionario.
Devo dire che avevo completamente
sottovalutato i pregiudizi razziali dei
repubblicani. Cercano di distruggerlo, lo ridicolizzano in ogni modo. Ho
memoria di undici presidenti e mai
sono stata testimone di un ostruzionismo come quello che stanno facendo a Obama mettendolo ripetutamente in condizioni di non agire. Terribile». Placa la sua foga. Ma è solo per
un attimo: «E però mi piacerebbe così tanto poter vedere un presidente
donna...».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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