LADOMENICA DOMENICA 23 MARZO 2014 NUMERO 472 DISEGNO DI TULLIO PERICOLI DIREPUBBLICA CULT All’interno La copertina In letteratura e nella società c’era una volta l’infanzia perduta PIERDOMENICO BACCALARIO e SIMONETTA FIORI Il libro De Cataldo: raccontare Sandro Pertini al proprio figlio MICHELE SERRA Straparlando Ennio Morricone “Così la musica mi ha salvato da fame e guerra” ANTONIO GNOLI Trent’anni fa vinceva il Nobel e ora che si appresta a compiere gli ottanta ci racconta “una vita DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI sotto il segno della curiosità” CARLO RUBBIA Vadoavivere su Marte N L’attualità Agente Kasper “Io che ho visto le supernotes” CARLO BONINI L’incontro Cher a ruota libera “Ma non parlatemi di uomini” GIUSEPPE VIDETTI DARIO CRESTO-DINA GINEVRA ella sua bella faccia giuliana dalla non lontanissima somiglianza con quella dell’attore americano John Wayne, ciò che più colpisce sono gli occhi di bambino messi su un uomo antico alto quasi un metro e novanta e spalancati sulla meraviglia. «Sa, mi sembra impossibile che io abbia ottant’anni. Ho vissuto a cavallo di due secoli, conosciuto una quantità innumerevole di persone e tra queste menti geniali come Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman, Wolfgang Pauli. Ho imparato che la vita è un recipiente, devi considerarlo sempre mezzo pieno. Sono nato in un tempo di tragedia in cui non potevi non essere ottimista. I miei mi raccomandavano: credi in te, guarda sempre avanti. Penso di averli ascoltati, guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità, nel bambino che rom- pe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la saggezza, ha trasformato l’uomo. Se da vecchi si ha la fortuna di possedere una mente che funziona ancora, bene, una parte di essa occupatela nel tentativo di accudire il vostro spirito infantile. Mi crede se le dico che Einstein non ha fatto più nulla di veramente significativo dopo i trent’anni?». Carlo Rubbia festeggerà i suoi ottant’anni tra una settimana. «Sono cresciuto a Gorizia in un mondo molto diverso da quello di oggi. Mi ricordo di un’umanità che si reggeva su un sistema lineare: si poteva soltanto andare avanti o indietro, una sopravvivenza quasi primordiale. Ma allora, forse, era più facile trovare se stessi». È in giacca e cravatta, camicia azzurra, scarpe da ginnastica o, meglio, mi sembra di capire da mezza montagna e calzini scozzesi, le mani grandi cercano un paio di volte in una tasca un fazzoletto di stoffa di quelli che le madri di una certa generazione allungavano ogni mattina ai figli, come un’ultima carezza sulla porta di casa: «Mia madre, Beatrice, era maestra elementare, di discendenza e cultura austroungarica. Il suo cognome, Lietzen, venne italianizzato in Liceni». (segue nelle pagine successive) Teatro Una pura formalità Glauco Mauri porta in scena il film di Tornatore RODOLFO DI GIAMMARCO La serie La poesia del mondo Con Di Giacomo nella “Tavernella” WALTER SITI la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 26 LA DOMENICA La copertina Carlo Rubbia “Gli alieni forse esistono. Io stesso, talvolta, in Senato, mi sento uno di loro”. Alla vigilia del suo ottantesimo compleanno lo scienziato si racconta tra sogni di bambino, poche certezze e parecchi dubbi: “C’è qualcosa sopra di noi, un ordine delle cose: chi vuole può chiamarlo Dio” Sì, cerco ancora lo stupore ‘‘ LE IMMAGINI/1 Da ragazzo in montagna; Il tesserino studentesco del 1953 con il diploma di maturità scientifica conseguito a Udine; con i colleghi del Cern a Ginevra nel 1978 DARIO CRESTO-DINA (segue dalla copertina) io padre, Silvio, era ingegnere elettronico, si occupava di telefoni a Trieste. Gorizia era una frontiera, un luogo bellissimo pieno di colori e lingue e dialetti, un luogo complicato e aperto. Il mondo entrava in casa da una radio che mio padre aveva attaccato a un palo della luce. Inseguendo le voci che uscivano da questa grande radio ricevente costruita con vecchie valvole a vuoto ho cominciato a prendere le misure di un altro mondo e dei miei desideri. Il primo viaggio è stato una fuga. Da Gorizia a Venezia durante la guerra, la sola città in cui ancora oggi mi sento pienamente felice, anche se sta evaporando come la nebbia perché purtroppo è una città offesa dalla modernità per la sua stessa natura». Il Nobel per la Fisica segna un altro anniversario tondo: trent’anni, era il 1984. Gli viene assegnato, assieme all’olandese Simon van der Meer, per aver scoperto le particelle responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni denominati W+, W- e Z, con un esperimento che doveva verificare la teoria elettrodebole di Abdus Salam e Steven Weinberg. Non approfondiamo l’argomento, il professore intuisce che comprenderei nulla o poco. La notizia del premio lo colse su un taxi da Milano a Malpensa, doveva prendere un aereo per Trieste e a mezzogiorno la radio dell’auto — ancora una volta la radio — diede con un flash la «M notizia che un italiano aveva vinto il Nobel per la fisica. Ma chi è questo Rubbia, domandò il tassista. E lui disse: sono io. Con un tono allegro, privo di sorpresa perché sapeva di essere nel novero dei candidati e perché, come confessò con umiltà qualche tempo dopo in un’intervista, «era semplicemente uno dei tanti eventi della vita che agli occhi degli altri ti trasforma in James Bond, mentre tu rimani lo stesso perché non ti dà l’immortalità». Gli domando se continua a pensarla nello stesso modo anche ora, dopo aver attraversato un così lungo tratto di vita. Mi dice con un sorriso serafico e disarmante: «Una cosa conosciuta non mi interessa più». Professore, come si diventa scienziati? «Da piccolo il regime fascista mi fece vestire da balilla, mio padre era partigiano, mia madre profondamente antifascista. Mi hanno educato alla libertà e alla conoscenza. Ho sempre prediletto il domani rispetto all’oggi e mi è sempre piaciuta l’invenzione. Per un’invenzione ancora non diffusa avrei potuto morire. La penicillina, scoperta nel 1929, non fu disponibile se non dopo la guerra. Fortunatamente riuscii ugualmente a guarire dalla broncopolmonite. Nell’immediato dopoguerra la voglia di progredire era una spinta fortissima, una carica di energia che non si è mai più rinnovata con la stessa forza. La conoscenza è basata sull’incertezza, sui Lo sguardo Mi interessa il domani Una cosa conosciuta non mi interessa più ‘‘ Il genio Ci facciamo poche domande c’è ancora tutto da scoprire Il genio passa per pazzo la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 27 LE TAPPE 1934 1957 1971 1984 1989 1999 2013 Carlo Rubbia nasce a Gorizia, il 31 marzo, da Beatrice, maestra elementare, e Silvio (ingegnere elettronico) si laurea alla Normale di Pisa, con una tesi sui raggi cosmici Alla selezione era arrivato undicesimo su dieci, poi viene ripescato insegna Fisica a Harvard fino al 1988 È anche professore di complementi di fisica superiore all’Università di Pavia riceve il Nobel per la fisica (con l’olandese Simon van der Meer) per la scoperta delle particelle elementari W+, W- e Z è direttore del Cern dove era entrato nel 1960. Fino al ’94 è anche presidente del Laboratorio di Luce di Sincrotrone (Trieste) è presidente Enea fino al 2005 In Spagna collabora con il Ciemat, centro di ricerca su energia, ambiente e tecnologia il 30 agosto viene nominato da Napolitano senatore a vita insieme a Claudio Abbado, Renzo Piano e Elena Cattaneo ‘‘ Il Nobel Agli occhi degli altri ti trasforma in James Bond Ma non ti rende immortale LE IMMAGINI/2 Dall’alto: con il professor Paolo Budinich e il Nobel Abdus Salam; la consegna del premio a Stoccolma nel1984; senatore a vita con Renzo Piano e Elena Cattaneo dal presidente Napolitano nell’agosto 2013 traguardi che appaiono impossibili, sulle piccole cose che scorgiamo lontanissime, indefinite e spaventose ma che ci attraggono come un magnete. Solo gli intrepidi e gli avventurieri le vedranno da vicino. Il mondo è stato cambiato dall’eccezione, non dalla media». Sta dicendo che siamo troppi in copia conforme e così tremebondi o prudenti da non riuscire a pensare che il progresso di domani non sia altro che l’assurdo di oggi? «Dal giorno in cui siamo scesi dall’albero sono vissuti sulla Terra appena settanta miliardi di uomini e nel corso della mia breve esistenza la popolazione si è moltiplicata per tre. Oggi siamo sette miliardi, in un solo spaziotempo rappresentiamo il dieci per cento dell’intera umanità transitata sul nostro pianeta. Sette miliardi di persone connesse ventiquattro ore su venti- quattro, un affollamento che contribuisce al conformismo e che limita l’affermarsi della differenza, dove il genio rischia di passare per un pazzo e consumarsi inutilmente come tale. Ma non era una pazzia l’uomo che vola di Leonardo o la conquista della Luna preconizzata da Von Braun?». Ci facciamo poche domande? «Non ce ne facciamo abbastanza. Avremmo bisogno di rincorrere le idee impossibili, come dicono gli americani. La scienza è un’avventura piena di dubbi, di fallimenti e di momenti di emozioni straordinarie. Molte volte ciò che propone non funziona, dovremmo continuare a chiederci: perché non così? perché non così? Romperci la testa in laboratorio. E, invece, il fallimento non è ammesso. Siamo conservativi, ostinati nel pensare che quello che ha funzionato nel passato continuerà a funzionare nel futuro. Ma il più delle volte è un errore. Ci resta quasi tutto da capire, è la cosa che ci differenzia dalle altre specie. A me piace guardare. Un quadro, un libro, un film, un ingranaggio, non c’è separazione tra il lavoro e il divertimento. Si concentri per qualche minuto sulla cosa più semplice che conosce, scoprirà quanto poco sa di essa». Rita Levi Montalcini confessò di avere deliberatamente rinunciato agli affetti. La mia sola missione, diceva, è stata la ricerca. La scienza è un mestiere solitario? «Ho una famiglia, figli e nipoti, un’esistenza normale. Posso dire che la scienza ha illuminato la mia vita. È solitaria l’idea, ma spesso ad essa ci si arriva collegando la propria intuizione al contributo di molti di coloro che ci hanno preceduti su quel cammino. Fu così anche per Galileo Galilei. Alla sua realizzazione poi concorrono molte persone, al Cern ho guidato esperimenti con oltre cento ricercatori. La ricerca è sempre un lavoro di squadra». Come fisico si è mai sentito straniero in Italia? «Sono sempre vissuto da italiano all’estero, non ho mai avvertito il bisogno di crearmi un’altra esistenza. Nella cerimonia del Nobel il mio inno è stato quello di Mameli come per Marconi e Fermi. Tutti gli altri fisici italiani premiati a Stoccolma avevano dovuto rinunciare alla loro cittadinanza naturale. Incontro scienziati italiani di primo livello come ruolo e funzioni ovunque vado: negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, in Australia e in Cile. In Italia è difficile fare ricerca applicata. Mancano strutture e un sistema di carriera semplificato. Quando sono sbarcato all’Università di Pavia i diciassette anni di insegnamento ad Harvard non sono stati presi in considerazione. E mancano soldi, i finanziamenti pubblici sono inferiori all’uno per cento del Pil mentre negli altri grandi paesi europei si sono da tempo attestati al tre come concordato dalle intese comunitarie. È questo, dopo quello del deficit, l’altro nostro grande Problema 3%, quello nascosto». Sulla soglia degli ottant’anni che cosa va ancora cercando? «Ciò che ha cercato ogni civiltà, l’inizio della vita. Ha visto, vero? Riceviamo segnali dal Big Bang, ma il novantacinque per cento della massa dell’universo originata nei primi tre minuti della creazione ci è completamente sconosciuto. La grande avventura è arrivare a qualche milionesimo di secondo dall’origine del cosmo. Le immagini più antiche dell’universo che risalgono a trecentomila anni dopo il Big Bang ci hanno rivelato una sua struttura molto uniforme. In laboratorio creiamo delle goccioline di quell’universo per replicare il Little Bang con l’obiettivo di produrre dei protoni uguali a quelli di tredici milioni di anni fa. Ci sono leggi fisiche che pre-esistono alla materia e alla sua evoluzione, un sistema straordinariamente ordinato e privo di qualsiasi forma di caos». Quanto c’è di divino nella vita, Dio ha davvero detto all’uomo: governa la Terra? «È una riflessione molto vasta che affronto con una certa umiltà. Esiste la fede e esiste la religione. Io ho una grandissima fede ma non sono tecnicamente un credente. C’è qualcosa che sta sopra di noi, è un ordine delle cose. Chi vuole è libero di pensare che si tratti di Dio. Non c’è molto altro da dire». Crede esistano altre forme di vita simili alla nostra nelle galassie dell’universo, insomma gli extraterrestri? «La risposta è forse sì, ma saranno certamente differenti. Anche l’umanità oggi sarebbe diversa se sessantacinque milioni di anni fa un asteroide dal diametro di dieci chilometri non fosse precipitato sulla penisola dello Yucatán che separa il Mar dei Caraibi dal Golfo del Messico provocando una glaciazione che ha eliminato dalla faccia della Terra ogni essere vivente dalle dimensioni superiori ai tre centimetri. La storia è sempre stata cruenta, immagino lo sia stata anche su altri pianeti». Dopo la morte torneremo a essere nulla, esattamente ciò che eravamo prima di nascere? «Non so rispondere ma il difetto non mi preoccupa. Né mi preoccupa la mia, di morte. Le cose sono e conti- nueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo saputo offrire, l’amore che abbiamo meritato. Vado avanti come se niente fosse, imparerò quello che ancora riuscirò ad imparare. Come si dice? The show must go on, ballerò fino al giorno prima di sparire». Coltiva ancora una follia intellettuale? «Un rimpianto preventivo. È un enorme peccato che non si vada su Marte con i piedi e la bandiera. La Luna è un sasso, nulla. Marte invece ha tutto: il Nord, il Sud, l’equatore... Senza un motore a propulsione nucleare però non ce la possiamo fare. Il problema non è andare, ma tornare da Marte sulla Terra. E centrarla la Terra... È una lunga storia: bisognerebbe aspettare lassù un anno e mezzo prima di trovare la finestra giusta per la traiettoria Homan di rientro. Eppoi, dimenticavo, ci sarebbe Europa, il quarto satellite di Giove, uno dei pianeti galileiani. Dove ci sono acqua, ghiaccio e ancora acqua sotto i ghiacci, un’altra Antartide. Ah, mi creda, sarebbe un posto fantastico da visitare... se solo ne avessimo il tempo». Carlo Rubbia è stato nominato senatore a vita il 30 agosto 2013. Dice che l’esperienza nei palazzi politici romani è interessante, anche se la vive come «un alieno che viene dal passato più che dal futuro». Qualche giorno dopo il laticlavio è morta a Ginevra sua moglie, Marisa Romè, madre di Laura, medico, e André, ingegnere. Aveva settantotto anni. Non sempre si può rendere grazie anche ai giorni bui. Mentre mi racconta fugacemente e timidamente di lei — di loro due — i suoi occhi di bambino si smarriscono per il tempo che occorre a pronunciarne il nome. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 28 LA DOMENICA L’attualità L’intelligence Usa stampa banconote “fantasma” per pagare operazioni clandestine. Dove? In Corea del Nord. Un agente supersegreto, nome in codice Follow the money Kasper, fuggito da un lager cambogiano, giura che è tutto vero E ora detta le sue memorie in un libro che farà discutere La Fabbrica dollari dei Lo 007 italiano e la faccia sporca dell’America CARLO BONINI P ROMA er tredici mesi, dal marzo 2008 all’aprile 2009, un cittadino italiano ha attraversato l’inferno della prigionia in Cambogia. In una caserma, quindi in un ospedale lager, infine nel campo di concentramento di Prey Sar, alle porte di Phnom Penh. Chi lo aveva spinto in quell’abisso — «uomini dell’intelligence americana» che lo consegnano ai servizi cambogiani con «un’accusa farlocca» di riciclaggio, racconta lui — aveva deciso che non dovesse uscirne vivo e che il «segreto» che aveva scoperto se ne andasse con lui. Un segreto — spiega oggi — chiamato «Supernotes», banconote da 100 dollari «vere ma false», stampate con macchine e clichet «autorizzati» niente di meno che in Corea del Nord, con cui l’intelligence americana paga clandestinamente ciò che l’opinione pubblica non può e non deve conoscere. Regimi canaglia, narcotrafficanti e tutto ciò che si può e si deve pagare al mercato nero della sicurezza nazionale. Sentite un po’. «Le zecche americane del Bureau of Engraving and Printing che stampano banconote non sono due, ma tre. La terza — macchina, carta e tutto il resto, inclusi i rarissimi marcatori — non si trova sul territorio statunitense, bensì in Corea del Nord. Il Paese del dittatore pazzo che gioca con l’atomica. Delle esecuzioni di massa. Delle minacce e della censura. Lo Stato canaglia nemico degli Usa. Talmente canaglia che nessuno può andare a ficcarci il naso. Sono americani quelli che fanno girare le ruote del dollarificio. Sono loro a gestire il traffico di valuta. A utilizzarne i proventi colossali. Americani. Quale che sia la loro sigla. Quale che sia il cappello che si mettono per l’occasione. La struttura per la stampa dei dollari è localizzata nei dintorni di Pyongsong, una città di centomila abitanti a nord-est della capitale Pyongyang. La chiamano “la città chiusa”. Gli stranieri non possono entrarvi. La struttura fa parte della Divisione 39 dei servizi segreti nord-coreani. La Divisione 39 gestisce i fondi riservati del leader coreano. Una dotazione stimata in circa cinque miliardi di dollari». Insomma, «il dittatore nord-coreano minaccia gli Usa e nel frattempo incassa una robusta percentuale nella produzione di Supernotes. Dal canto loro, Cia, Nsa e le altre agenzie finanziano le proprie attività con fondi che i bilanci statali non potrebbero mai garantire». Ebbene, di questo cittadino italiano, del buco in cui è finito e del segreto che dice di custodire, per tredici mesi, nessuno sembra voglia davvero occuparsi con convinzione. La sua storia non affaccia nelle cronache. Il suo caso semplicemente non esiste. L’allora ministro degli Esteri Franco Frattini scrive una lettera ai familiari in cui genericamente li rassicura sull’impegno della nostra diplomazia nel risolvere quello che viene classificato come l’arresto di un cittadino italiano residente all’estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali. Il «cittadino» deve dunque cavarsela da sé. Dalla sua, ha un’avvocatessa caparbia, Barbara Belli, una donna che lo ama, Patty, e un’anziana madre che vive a Firenze, grazie alle cui rimesse in contanti attraverso Money Transfer («Alla fine, circa 250mila euro versati in più tranches», dice mostrando le ricevute di pagamento), compra la propria sopravvivenza nel lager in cui è rinchiuso e dove viene regolarmente pestato a sangue. Perché quel denaro, per i suoi aguzzini cambogiani, è una fortuna a cui non si possono voltare le spalle. Poi — è appunto l’aprile del 2009 — il nostro riesce a evadere dal suo inferno e a raggiungere l’Italia. Dove, tuttavia, lo attende un mandato di cattura per un’accusa di bancarotta fraudolenta. Si costituisce nel carcere di Regina Coeli, a Roma, dove resta per quattro giorni e viene interrogato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal pm Francesco Ciardi («Capaldo era convinto che fos- si al centro dei misteri d’Italia»). Una volta scarcerato, si esilia in una casa di campagna dove getta in un baule il diario sporco di sangue e sudore della sua prigionia, si mette a coltivare gli ulivi, apre una palestra di arti marziali frequentata da ex appartenenti a corpi militari di élite, si tiene in allenamento con qualche lancio in paracadute, diventa padre di una bambina e trascorre notti insonni inseguito dagli incubi di ciò che ha attraversato e dal fantasma del suo passato. Fino a quando non cerca e rintraccia un giornalista che si era occupato di lui, Luigi Carletti. Gli racconta la sua storia, ora scritta in un libro su cui la la Mondadori scommette molto: Supernotes. Quel cittadino italiano nel suo libro di memorie si fa chiamare “Agente Kasper”. È un uomo controverso e la sua storia promette di suscitare un vespaio. In una palazzina liberty di Roma, in un ufficio illuminato dal primo sole della primavera, Kasper, 55 anni, sorride fasciato da una tshirt aderente blu e pantaloni verde cachi dalle ampie tasche che ne disegnano il corpo massiccio e atletico. Sul bicipite destro fa mostra di sé una grande tatuaggio. Un gladio coronato dal motto unus sed leo. All’anagrafe, Kasper ha un nome e un cognome. Che Repubblica conosce bene per essere stato all’onore delle cronache negli anni ’90 e ancora nei giorni della sua permanenza a Regina Coeli nel 2009. Un nome e un cognome che Kasper e la Mondadori chiedono che non venga reso pubblico. «Il mio nome non ha importanza — dice lui —. La mia vita è cambiata. Sono diventato padre. Con quel mondo ho chiuso. Mi importa solo che un giorno mia figlia, digitando su Google, non pensi che suo padre è stato quello che hanno scritto di lui i giornali. Cose del tipo, “un ex di Avanguardia nazionale che negli anni della militanza studentesca andava in giro con un dobermann” e che certa magistratura ha fatto pensare che fossi, infilandomi anche in golpe da operetta. Mentre la verità è solo che da ragazzo io ero di destra e da adulto ho fatto una vita che non poteva essere raccontata. In fondo, il libro serve a svelare una verità che altrimenti sarebbe morta con me». Quel mondo è il luogo delle ombre e degli specchi che chiamiamo intelligence. Dove nulla è fino in fondo vero o falso. E dove, soprattutto, nulla è mai ciò che appare. Una regola che vale anche per Kasper. Dice di sé: «Ho lavorato per il mio Paese come agente sotto co- IL LIBRO Supernotes (Mondadori, 408 pagine, 19 euro) da oggi è in libreria È l’incredibile storia raccontata al giornalista Luigi Carletti dall’agente Kasper, un ex carabiniere poi agente “irregolare” dei servizi segreti e del Ros: la sua vera identità non può essere rivelata pertura dall’inizio degli anni ’80, subito dopo essermi congedato da carabiniere. Prima per il Sismi, poi per il Ros. Il mio lavoro di copertura era pilota di aereo per compagnie civili. L’Ati prima, L’Alitalia poi, fino al ’98. Per il mio operato ero stato proposto per una medaglia al valor civile che non mi è stata mai consegnata». Agente sotto copertura, dunque. E tuttavia, assolutamente irregolare. Kasper non risulta sia mai stato incardinato nel nostro Servizio militare, né nel Ros dei carabinieri, per il quale ha comunque partecipato a due operazioni contro il narcotraffico (“Pilota” e “Sinai”) istruite dall’allora procuratore di Firenze, Pierluigi Vigna, e di cui è traccia documentale in sentenze passate in giudicato. «Nulla di più, nulla di meno. Dall’operazione Sinai in poi, il Ros non ha più avuto rapporti operativi con Kasper. Nei carabinieri Kasper ha svolto il servizio di leva e i carabinieri sono un organismo di polizia giudiziaria che opera su direttiva della magistratura, non sono un Servizio segreto», dicono oggi al comando del Raggruppamento speciale dell’Arma. «Non potevo che essere un irregolare — osserva lui — perché certe cose possono farle solo gli irregolari. Né ho mai manifestato l’intenzione di diventare effettivo alla nostra intelligence. Sarei finito a marcire dietro una scrivania. E non era quella la vita che volevo». La vita che Kasper voleva la racconta nel suo Supernotes. Roba da arditi. Pistole, stupefacenti, agenti della Cia, del Fbi o semplicemente ex spioni che nella Ditta sono stati per poi mettersi in proprio e diventare free-lance dell’intelligence. Volti e gesti stravolti dall’adrenalina nei diversi angoli del globo. Un plot in cui il lettore non ha molta scelta. Credere o meno a ciò che legge. Che i dollari della vergogna, falsi ma veri, esistano («Li ho visti con i miei occhi»), che il governo abbia abbandonato questo suo cittadino perché scomodo. Non fosse altro perché dagli atti ufficiali della nostra magistratura e della nostra diplomazia risulta un racconto capovolto che suona così: Kasper viene arrestato su richiesta dell’Fbi perché accusato di frode informatica, uso di documenti falsi e di aver riciclato quattro milioni di dollari, viene assistito dalla nostra ambasciata a Bangkok anche attraverso il console a Phnom Pehn, visitato e monitorato nel periodo della sua prigionia e quindi regolarmente rilasciato dalle autorità cambogiane con un visto in uscita che gli ha consentito di raggiungere Vienna in aereo. Luigi Carletti, il giornalista che di Kasper ha raccolto le memorie, dice: «Si può pensare quel che si vuole della storia che mi ha raccontato. Ma un fatto è certo. Tutti i procedimenti contro di lui sono improvvisamente evaporati. Non se ne sa più nulla. In Italia, in America, in Cambogia. Nessuno lo ha più cercato. Forse perché quelle accuse erano strumentali. O no?». Kasper sorride. «Voglio pensare che devo la mia vita alla buona sorte e a un amico come l’ex comandante del Ros, il generale Ganzer. Che ci sia stato lui dietro la mia fuga da Prey Sar». Ganzer, oggi in pensione, schiarisce la voce: «Nel ’98, dissi a Kasper che essendo stato esposto a un grosso rischio con le operazioni Pilota e Sinai, la sua collaborazione con il Ros doveva ritenersi conclusa per sempre. Da allora, in modo del tutto autonomo, Kasper si è prima messo nei guai con agenti del Nocs e della Finanza. Poi ha aperto un bar in Cambogia, dove è finito in carcere su rogatoria americana. In quei tredici mesi, l’unica cosa che feci, fu attivare la nostra Direzione Centrale dei Servizi Antidroga perché l’addetto a Bangkok e il nostro console in Thailandia si sincerassero di quanto stava accadendo. Ho visto Kasper l’ultima volta quando si è costituito al Ros nel 2009 per essere accompagnato a Regina Coeli. Mettiamola così. Kasper è un uomo intelligente ma anche molto avventuroso». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 DISEGNO DI GIPI PER REPUBBLICA ■ 29 la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 30 LA DOMENICA L’anniversario Hrabal Io & Ho tradotto il re di Praga I racconti non pubblicati, i giri di birra, una serata con Havel e una falce fatale. Tra ricordi, fotografie e aneddoti un ritratto del grande scrittore a cent’anni dalla nascita GIUSEPPE DIERNA L a carta è parecchio ingiallita, ma forse era gialla già allora, nel ’59: c’era ancora penuria di carta, in quel finire degli anni Cinquanta, nella Cecoslovacchia non ancora pienamente destalinizzata (anzi: in realtà solo molto parzialmente), e per le bozze di stampa non si sprecava certo quella buona. Le correzioni, le aggiunte, sono però lì, tracciate con la riconoscibilissima calligrafia un po’ tremolante di Hrabal. Era il suo primo libro di racconti (anzi: avrebbe dovuto esserlo), dal titolo sufficientemente bizzarro da far da presentazione a uno scrittore a dir poco anomalo per l’epoca: L’allodola sul filo, titolo senza alcun apparente legame con ciò che c’era nei racconti. Un trucco per aggirare la censura? La prima di una lunga serie di provocazioni linguistiche? Chissà… Intanto, però, lo scandalo seguìto alla pubblicazione del romanzo I vigliacchi di Josef Škvorecký (con corollario di licenziamenti e copie ritirate — benché tardivamente — dalle librerie) spinge la casa editrice a bloccarne la pubblicazione e a smontare i piombi, per cui di quel libro avanzano oggi solo quelle boz- ze che Hrabal mi aveva regalato sul finire degli anni Ottanta, durante uno dei molti pomeriggi passati assieme («del resto sono più utili a lei che a me»). Se si escludono i due racconti usciti nel ’56 — in 250 copie — come allegato al Bollettino dell’Associazione dei bibliofili cechi, iniziava così la carriera ufficiale di scrittore Bohumil Hrabal, il maggior narratore ceco della seconda metà del Novecento, nato in Moravia il 28 marzo di cent’anni fa, giusto tre mesi prima dell’attentato a Sarajevo (e quindi ancora all’interno dell’Impero austro-ungarico). E, oltretutto, quello non era neanche il primo libro che gli smontavano bello e impaginato. La cosa era già successa — undici anni prima — alla Stradina perduta, un volumetto nel quale Hrabal, ancora a Nymburk (una cinquantina di chilometri da Praga, la cittadina della sua giovinezza), aveva raccolto a proprie spese il meglio della sua produzione poetica, in parte risalente al periodo in cui era ancora un ventenne che arrossisce facilmente, che facilmente balbetta e s’impappina, e il sabato si attarda a stirare le banconote da dieci corone «per infilarle poi con cura nel portafoglio e mettermi in bella mostra nel momento in cui, in osteria, avrei pagato la consumazione». Un elegante gagà, coi capelli impomatati e lo sguardo languido, «sempre agghindato all’ultima moda», con un vestito di sartoria, camicia su misura e guanti in pelle di cervo. La stradina perduta, che nel finale già conteneva le avvisaglie di una nuova scrittura, era andato a infrangersi contro la nazionalizzazione della tipografia seguita alla presa di potere comunista di febbraio, quando «arrivò il 1948… e io mi ritrovai un po’… non dico messo da parte… ma, insomma, mi ritrovai a lavorare alle acciaierie di Kladno», come mi aveva raccontato, con una cospicua dose di ironia, nell’intervista che gli avevo fatto per L’Espresso nel 1986, al tempo dell’uscita della mia traduzione di Ho servito il re d’Inghilterra. Sì, il trentenne Hrabal, già con un copioso passato da poeta inedito (frutto della lettura di poetisti cechi e surrealisti francesi) e da pochi anni finalmente laureatosi in legge (l’occupazione tedesca aveva avuto tra le altre conseguenze anche la chiusura delle università), finisce a lavorare alle acciaierie Poldi, la Poldinka come la chiamavano affettuosamente gli operai, piccolo inferno dall’incidente facile, dove — come leggiamo nello splendido poemetto La bella Poldi (1950), che ne mitizza i contorni — «Dio guida l’ambulanza e da solo raccoglie gli angeli spezzati e li trasporta nella notte». E quella breve esperienza (tre anni, fino a un incidente sul lavoro che toglie di mezzo anche lui) segnerà non solo la sua scrittura ma soprattutto il suo modo di guardare. Alcuni anni più tardi, ricordandosi forse di André Breton che aveva parlato dei poeti come di «apparecchi di registrazione» che ricusano ogni «operazione di filtraggio della realtà», scriverà infatti Hrabal: «Un uomo che ritiene di essere nato per diventare scrittore deve imparare a diventare un occhietto di diamante in movimento, deve imparare a montarsi un nastro di registratore nel cervello». Come il Cineocchio di Dziga Vertov, quei documentari che riprendavano quasi «oggettivamente» le conquiste della rivoluzione russa, anche Hrabal essenzialmente ascolta, osserva, memorizza. E scrive un racconto come Jarmilka, incentrato su un’addetta alla distri- la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 31 ‘‘ Col presidente Appena scarcerato, ancora teso, un po’ smagrito, il futuro presidente guarda divertito, quasi affascinato, un Hrabal teatrale e irrefrenabile, in piena affabulazione ‘‘ In osteria Ero uno di quei ventenni che il sabato si stirano le banconote da dieci corone per mettersi in bella mostra al momento di pagare ‘‘ Sotto la falce Il poveretto, inseguito dalle api, non trovava di meglio per liberarsene che agitare la falce che fatalmente gli si conficca in testa buzione del cibo lì a Kladno, musa — volutamente priva di fronzoli — della nuova «fattografia» hrabaliana, da opporre alla Nadja un po’ folle e artistoide raccontata da Breton. «Cinéma vérité», come dirà nel ’65 in un’intervista. Ma i crudeli racconti di quegli anni, e i non meno crudeli poemetti (oltre alla Bella Poldi anche Bambino di Praga), rimarranno inediti per diversi decenni, falsando in tal modo la percezione dello scrittore Hrabal da parte dei lettori, trasformandolo — complice, bisogna dirlo, Hrabal stesso — in un nuovo Jaroslav Hašek, un compare del soldato Švejk, mentre invece la raffinata complessità narrativa hrabaliana, il suo gusto moderno del montaggio, la pratica delle citazioni (da Dante ai più biechi manifesti murali) lo allontanano drasticamente da Hašek, e se c’è un modello da indicare dietro la dominante del linguaggio parlato («il parlato come spettacolo», per citare Gianni Celati) questo sarà da rinvenire piuttosto in Louis-Ferdinand Céline, «l’irraggiungibile Céline», come mi diceva in quell’intervista. Più che inventare, Hrabal ama assemblare, riutilizzare, incollare «oggetti trovati» di vario ordine e natura (storielle, immagi- ni…), così come faceva anche concretamente negli anni Cinquanta, e poi di nuovo vent’anni dopo, in alcuni affascinanti collage cartacei che nei primi mesi della nostra frequentazione alla Tigre d’oro mi aveva invitato a casa sua a vedere, disegnandomi — su quei foglietti dove in osteria si segnano le birre — una mappa per come raggiungerlo. Così, ad esempio, nel Re d’Inghilterra Hrabal confessa di aver utilizzato i ricordi dell’oste della cittadina di Sadská, mentre altri frammenti provengono da Miloš Havel, proprietario degli Studi Barrandov e zio di Václav. E una volta che avevamo fatto un giro al castello di Lysá nad Labem, una trentina di chilometri da Praga, alla casa di riposo dove avevano dimorato negli ultimi anni la madre di Hrabal e il fantasmagorico zio Pepin, a un certo punto tra le statue tardobarocche del parco ci si era parata davanti un’esile figura femminile in pietra arenaria, con una falce quasi infilata nella testa, e là era stato immediato ricordarsi di un personaggio del suo secondo libro di racconti del ’64, Pábitelé (parola inventata che potremmo rendere con Cianfruglioni): il poveretto, inseguito dalle api, non trova di meglio per liberarsene che SOUVENIR Dall’album dei ricordi di Giuseppe Dierna: nella foto grande, Hrabal nella sua casa, primi anni ’80 Dall’alto: con Havel il 25 maggio ’89 alla prima del Re d’Inghilterra (sul programma di sala Havel scrive “Viva Hrabal”, Hrabal scrive “Viva Havel” e “Viva Dierna”); lo scrittore mentre sorseggia una birra (accanto un foglietto d’osteria su cui annota come raggiungere casa; sotto una sua pagella); in un parco mentre imita il personaggio di uno dei suoi primi libri agitare in maniera forsennata la falce che ha in mano e che fatalmente gli si va a conficcare nella testa. Si vedeva che Hrabal si stava divertendo, scoperto lì nel suo archivio di immagini, e si era subito messo in posa a imitarne il gesto. Non mi restava altro che scattare la foto. In quegli anni a Praga avevo l’abitudine di portare sempre con me la macchina fotografica, per cui avevo potuto fotografare, con Hrabal che mi faceva da Cicerone, gli angoli di Nymburk — la torre dell’acqua, le mura dell’ormai scomparsa fabbrica di birra gestita dal patrigno — che avevo incontrato traducendo La tonsura e che avrei ritrovato affrontando alcuni anni più tardi La stradina perduta. E avevo potuto fotografare, nell’appartamento di Praga, l’enorme dorata corona di David (poi donata allo scrittore Arnošt Lustig) che si stagliava sulla parete della camera da letto, e che Hrabal negli anni Cinquanta aveva rinvenuto nella vecchia sinagoga di Liben, ormai adibita a magazzino del Teatro S. K. Neumann, quando era stata definitivamente smantellata. Certo, aver potuto invece riprendere il bric-à-brac che affollava gli spazi dell’appartamento di Liben (Sull’argine dell’eternità) dove Hrabal tornava dal lavoro all’acciaieria, e dov’era rimasto per vent’anni! Una casa tutta stracolma — a quel che scrivevano i giornalisti che, dopo l’uscita nel ’63 del suo primo volumetto di racconti (La perlina sul fondo), cominciavano a fargli visita — di targhe pubblicitarie, placche coi numeri civici, alcune maschere mortuarie dello stesso Hrabal (opera dell’amico Vladimír Boudník) e persino una protesi attaccata al lampadario, che a questo punto ci verrebbe da immaginare tutto fatto di minuscole ossa umane, come nella cripta di Sedlec a Kutná Hora. E mi era riuscito anche di immortalare, alla fine di maggio del 1989, alla prima praghese di Ho servito il re d’Inghilterra, lo storico incontro di Hrabal con Václav Havel, da poco per l’ultima volta scarcerato e accolto alla stazione di Praga da una piccola folla che già lo acclamava «il nostro presidente». Un po’ smagrito, con i muscoli ai bordi della bocca che ne tradivano la tensione, il futuro presidente guarda divertito, quasi affascinato, un Hrabal in piena affabulazione. Teatrale, irrefrenabile. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 32 LA DOMENICA Spettacoli Immortali Ancora oggi è l’autore più rappresentato, citato, letto, rivoluzionato e stravolto. A teatro, al cinema e ora anche sul web TEATRO, CINEMA E MUSICAL APP E VIDEOGAMES Qui sopra un’immagine della prima a Parigi nel 2002 dell’Amleto di Peter Brook, spettacolo teatrale che avrà anche un adattamento cinematografico Regista e teorico del teatro, Brook è annoverato tra i maggiori interpreti del Bardo. Sotto, il musical di David Zard, superacclamato dai teenager, Romeo e Giulietta; un Al Pacino, classico, in Riccardo III Sotto ancora Cesare deve morire dei fratelli Taviani con i detenuti del carcere di Rebibbia, Orso d’oro a Berlino 2012 A sinistra: Shakespeare or Die, videogioco che riproduce i testi principali del Bardo Qui sopra in senso orario: English Literature Revision Games (gioco e quiz); SwipeSpeare traduce in inglese contemporaneo; Shakespeare Collected, album di foto e ritagli; Shakespeare In Bits, come studiare in maniera interattiva ROMEO E GIULIETTA Nella foto grande: Romeo + Giulietta di Baz Luhrman (1996) con Di Caprio, ambientato ai nostri giorni RODOLFO DI GIAMMARCO ra un mese esatto, il 23 aprile, ricorre il 450esimo anniversario della nascita (presunta, valutando il battesimo documentato del 26 aprile 1564) di William Shakespeare, l’autore di teatro più conosciuto e più messo in scena ovunque e in tutti i tempi, drammaturgo-attore che riceverà ogni tipo di omaggio in un ampio “corridoio” di due anni esatti, visto che morì 52enne il 23 aprile del 1616, e il 400esimo della scomparsa cadrà nel 2016. Perché, da metà del Settecento, Shakespeare assurse a rango di classico? E perché questo nome riscuote invariabilmente un culto universale tributato da ogni età, ceto e livello di sapere? Più di una, le risposte: è il più eccezionale raccontatore di fatti e di caratteri mai esistito, è il più prolifico fabbricante di parole di impatto fluido e naturale, è il più strategico specialista di temi politici e civili, è il più poetico ritrattista della morte dell’amore (e dell’amore per la morte), è il più antesignano artefice di concept sull’ambiguità del genere sessuale, è il più romanzesco drammaturgo delle criticità di gente di potere e di gente discriminata. A suo favore, nella nostra era, c’è la frammentabilità del suo immenso repertorio. I limitati caratteri di Twitter e dei tanti social network della cultura dei nostri anni lo rendono massicciamente popolare, e le frasi, gli aforismi che fioriscono dalle sue ope- T Quattro secoli di tutto esaurito la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 33 Quand’era in vita aveva bisogno di duemila spettatori paganti a ogni replica adesso ha milioni di “mi piace” su Facebook e 966mila video su YouTube Padre e figlio dialogo sul Bardo CARLO CECCHI e VALERIO BINASCO inasco. Shakespeare è il nostro miglior amico. Quando lo si recita, la tragica inutilità della vita pare un dono, un’occasione straordinaria. Cecchi.“La verità èin Shakespeare, e un filosofo non potrebbe appropriarsene senza esplodere col suo sistema”, ha detto Emil Cioran. Il bello è che questa verità è affidata al teatro. B. Io debbo a lui più di una nascita e salvezza. La prima è stata a Palermo, con Cecchi. Lì ho incontrato Amleto, e lo stato di feroce necessità grazie a cui l’anima di un attore emerge. C. È un prisma, e se lo giri mostra immagini diverse. Se pensi che una scena significhi solo una cosa, gli metti una camicia di forza. Presto scoprirai altri sensi. B.A Shakespeare devo tutto. Me ne sono tenuto lontano. Poi c’è stata una rinascita, ho fondato la Popular Shakespeare Kompany per Romeo e Giulietta, La tempesta, Il mercante di Venezia. C. Io sono arrivato tardi, con La tempesta. Poi feci Amleto tradotto da Garboli, lo rifeci col “ragazzo” Binasco, e seguirono Misura per misura, e il Sogno. Ora metto in scena La dodicesima notte. B. Il mio modo di fare Shakespeare s’è allontanato dal furore di una volta. Facciamo teatro per essere felici. E solo Shakespeare ha saputo cogliere le assurdità e i drammi con leggerezza, e potenza. C. Shakespeare è assoluto. C’è bisogno solo di attori e pubblico. E gli attori-registi devono intraprendervi una via personale. Dicevo a Binasco e ai giovani: voi mi dovete uccidere. B. Shakespeare racconta le nostre luci e tenebre come se davvero tutti fossimo figli di Dio. C. Qualcuno sostiene che prima viene Shakespeare e poi Dio. FOTO LUCA DEL PIA FOTO TOMMASO LE PERA FOTO TOMMASO LE PERA B © RIPRODUZIONE RISERVATA ESTREMI FOTO TOMMASO LE PERA Da sinistra, in senso orario: l’Amleto di Latella con Danilo Negrelli; ancora Amleto, versione Societas Raffaello Sanzio, con Paolo Tonti, (celebre perché pochi riuscivano a restare in sala fino alla fine); il Sogno di una notte di mezza estate del Carretto; Carmelo Bene nel contestato Hommelette for Hamlet; Branciaroli e Orsini nell’Otello di Lavia; Il Mercante di Venezia di Binasco: Silvio Orlando in Shylock re svettano negli indici di consultazione online mondiali e italiani. La percezione del costante boom di ricerche testate da Google Trends parla di una sempre eccezionale vendita di libri teatrali (nell’ordine: Macbeth, Sogno, Romeo e Giulietta, Amleto, Otello...), di centinaia di app per smartphone e tablet (applicazioni sul repertorio, sul linguaggio, sui personaggi), di archivi fotografici tematici, di gallerie virtuali di opere d’arte. E mentre il creatore di teatro più immortale (e intelligentemente trasgredito) aveva bisogno di 1500-2000 spettatori paganti a ogni replica, il suo corrispettivo destino di oggi può far leva su milioni di “mi piace” su Facebook, su 966mila video su YouTube (dove il motore di ricerca registra da noi il massimo dei contatti per Shakespeare, Shakespeare in Love, Romeo e Giulietta), oltre che su performance e film di fattura canonica o rielaborata. Proprio adesso, in un periodo celebrativo che ha il suo cuore in Inghilterra ma riguarda ormai cultori, spettatori e lettori di ogni Paese — coinvolgendo noi italiani per la locationin nostre città di alcune tra le sue più fortunate commedie — forse potremmo lodare in controtendenza alcune qualità anti-istituzionali, alcuni studi dei lati oscuri dell’uomo, alcune inquietanti messe a nudo di fenomeni individuali e collettivi che testimoniano la frugalità e il pragmatismo di questo genio irripetuto. Shakespeare è patrimonio di artisti contemporanei di apocalittica reinvenzione, e si pensi ai dirompenti, beffardi e dolorosi manifesti dei vari Amleto, e di Romeo e Giulietta, Riccardo III e Otello con cui il nostro Carmelo Bene ha segnato decenni di negatività fantastica e possessiva. Ma il Bardo è stato anche oggetto di una destrutturazione violenta e iconoclasta da parte di Romeo Castellucci, autore-regista della Socìetas Raffaello Sanzio, che dopo aver affrontato con colpi sconvolgenti l’Amleto giunse a misurarsi con l’ars oratoria del Giulio Cesare attraverso apparecchi foniatrici che visualizzassero la carne delle parole, e attraverso le sonorità artaudiane di un laringectomizzato, con recupero attuale di Pezzi staccati. Il positivo rumore culturale globalizzato annuncia tra l’altro un sequel cinematografico di Shakespeare in Love e una inedita versione dal vivo al Noël Coward Theatre di Londra, e preannuncia mostre, musical, allestimenti, riscritture, audiolibri, ebook, celebrazioni e percorsi a Stratford-Upon-Avon, città natale dello scrittore. Tutto ma anche il contrario di tutto (ci fu un’alzata di scudi contro un’infondatezza di identità sostenuta dal film Anonymous di Roland Emmerich del 2011) viaggia da sempre sul potere delle parole e delle storie di circa 38 capolavori del Bardo, ma la stima degli uomini edotti e degli uomini semplici continua a essere sproporzionatissima in rapporto all’uomo William, alla conoscenza scarsa, lacunosa e misteriosa delle vicissitudini dell’individuo Shakespeare. La sua meteora, il suo insegnamento, la sua fascinazione fanno i conti con una persona di origini provinciali e modesta istruzione, con uno che sposò diciottenne una moglie otto anni più grande, da cui ebbe tre figli, da cui “fuggì” per andarsene a Londra inizialmente a tenere in custodia i cavalli all’ingresso dei teatri, per poi entrare rapidamente nel sistema della scena, recitando e scrivendo per l’industria dell’intrattenimento retta dalla logica del profitto, ma sempre spinto da un’etica contraria alle realtà politiche e sociali del tempo, tranne la parentesi intima dei Sonetti “dedicati” al mecenate-amico del cuore Southampton, e alla Dark Lady. Ed è opportuno prendere atto che chi è stato in nuce lo sceneggiatore di tanti film (dall’Amleto di Meliès agli Shakespeare di Laurence Olivier, di Welles, di Kurosawa, di Bene, di Brook, di Zeffirelli, di Stoppard, di Branagh, di Radford, fino a Cesare deve morire dei fratelli Taviani), pur baciato dal successo, abitasse a Londra in stanze affittate in quartieri modesti, prima di acquistare la casa New Place nel luogo di nascita, e di garantirsi un buen retiro londinese a Blackfriars tre anni prima di morire relativamente giovane, in concomitanza con l’incendio del Globe Theatre. Ed è bello che, al di là del suo accorto testamento, l’eredità dei suoi testi alimenti continui picchi di vendita dell’editoria (con punte massime nel 1932 e nel 1953), ispiri nostri interi cartelloni come quelli della veterana Estate Shakespeariana a Verona e del Globe di Roma diretto da Proietti, e induca molti teatranti a un gran lavoro rivoluzionario sulle sue pietre miliari della scena. Nel senso che, oltre a Bene e Castellucci, i vari Peter Brook, Bob Wilson, Peter Zadek, Peter Stein, Heiner Müller, Robert Lepage, Giovanni Testori, Giancarlo Cobelli, Leo de Berardinis, Luca Ronconi, Carlo Cecchi e Valerio Binasco hanno aggiunto forza contemporanea e tradimenti vitali a un autore che anche al suo millesimo anniversario resterà colui il quale ha scritto le tavole della legge del teatro. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 34 Next In frigo LA DOMENICA Un quarto della spesa finisce nella spazzatura. Ecco perché la scienza dell’alimentazione ha deciso di correre ai ripari Puntando non sul contenuto ma sul contenitore Tra poco, assicura, mangeremo anche quello 8,7 200 60% miliardi di euro il costo dello spreco domestico ogni anno in Italia grammi il cibo sprecato a settimana da ogni famiglia italiana per una spesa di 7 euro degli italiani getta il cibo una volta alla settimana per un totale di 76 kg ogni anno FILM PLASTICI Assorbono gli odori sgradevoli, ma anche l’etilene, il maggiore responsabile della maturazione della frutta e della verdura: in questo modo mele e kiwi durano più a lungo Il packaging di domani avrà una doppia funzione: prolungare la vita del prodotto, per esempio ritardandone la maturazione (attivo) e dare più informazioni al consumatore sullo stato dell’alimento utilizzando etichette che cambiano colore (intelligente) ANTI-UMIDITÀ Un sistema utilizzato, soprattutto in Giappone, per conservare meglio il pesce fresco, ma anche la carne: vengono inseriti nella confezione dei foglietti che assorbono l’umidità ASSORBI-GAS CALDO-FREDDO Tipico caso di packaging attivo: per conservare più a lungo e meglio il caffè, tostato e macinato, basta inserire all’interno della confezione un sacchetto che assorbe l’anidride carbonica Un esempio un po’ diverso di packaging attivo, ma comunque funzionale a mantenere alte le prestazioni del prodotto, riguarda le bevande autorefrigeranti o, al contrario, quelle che si autoriscaldano (caffè, tè) ANTIMICROBICI Il rilascio controllato di antimicrobici nell’imballaggio estende la durata di prodotti freschi, per esempio formaggi a pasta molle, prevenendo la crescita di batteri ILARIA ZAFFINO rigoriferi smart che ti avvisano con un bip quando le scorte all’interno stanno per finire o per andare a male. Spie luminose che occhieggiano dalle confezioni dei prodotti e cambiano colore se il contenuto è stato sottoposto a sbalzi di temperatura. Sensori Rfid che danno l’allerta in caso di maturazione avanzata. O, più semplicemente: sacchetti, foglietti, bustine e imbottiture che, nell’ordine, assorbono ossigeno, emettono etanolo (per far durare di più pane, pizza e biscotti), non fanno gocciolare (carni e pesci), evitano la muffa. Non è fantascienza applicata alla nostra tavola quotidiana. Al contrario. Molti di questi sistemi per conservare più a lungo il cibo (e quindi sprecarne di meno) F Non rompete le scatole vi diranno tutto loro GLOSSARIO Packaging L’imballaggio che protegge l’alimento da luce, gas, batteri In futuro avrà anche una funzione “attiva” (far durare di più il cibo) e “intelligente” (dare maggiori informazioni al consumatore sul prodotto) stanno per arrivare anche nelle nostre case e, se non ancora in Italia, negli Stati Uniti, in Australia e in Giappone già riscuotono parecchio successo. Nel mondo ogni anno un terzo degli alimenti prodotti va sprecato: gettiamo nel cestino 1,3 tonnellate di cibo. Solo in Italia, secondo un rapporto elaborato da Waste Watcher, osservatorio nazionale sugli sprechi, ogni famiglia butta via due etti di cibo a settimana, che detti così non sembrano neanche troppi, ma in un anno si concretizzano in un totale di 8,7 miliardi di euro sprecati. Sono frutta, verdura, formaggio, pane, gli alimenti più penalizzati, mentre tra i cibi cotti prima è la pasta: fatto sta che circa il 25 per cento della spesa finisce nella spazzatura. Il motivo più frequente? Ha fatto la muffa. Cattivo odore. Oppure: è scaduto. Oltre il 40 per cento dello spreco alimentare avviene proprio tra Etichette Rfid Minuscoli chip che comunicano tramite la radiofrequenza: possono dare informazioni immediate su un cibo, come data di confezionamento o scadenza e seguirne il percorso nella catena produttiva ■ 35 I PIÙ SPRECATI Fonte: Rapporto spreco domestico in Italia/Osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market/Swg 2013/2014 TEMPO GAS RFID Il TTI (indicatore tempo temperatura ) è un’etichetta termosensibile che cambiando colore ci dice se l’alimento è stato esposto a una temperatura più calda di quella raccomandata Utile per i surgelati L’indicatore di gas segnala la presenza o l’assenza di ossigeno in una confezione, per esempio di carne: se l’ossigeno è presente cambia colore informando così che l’imballaggio ha una perdita e il cibo potrebbe essere scaduto L’identificazione automatica in radiofrequenza sostituirà l’etichetta cartacea e il codice a barre In grado di dare molte più informazioni e di interagire con elettrodomestici intelligenti uovo materiali intelligente catalizzatore che attiva il materiale intelligente ELABORAZIONE GRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA - ALCUNA IMMAGINI DA THE PACKAGE DESIGN BOOK 2 (TASCHEN) la membrana separa il catalizzatore dal materiale intelligente packaging di carta riciclata AUTOCOTTURA MATURAZIONE L’imballaggio, in cartoncino riciclato con vari strati al di sotto, serve anche per cuocere l’uovo che si trova all’interno: aprendo la confezione si otterrà un uovo alla coque per un rapido spuntino Brevettati in Nuova Zelanda, gli indicatori di maturazione sono etichette intelligenti che cambiando colore, dal rosso al giallo, ci informano sul livello di maturazione della frutta INCHIOSTRO Come pastigliette colorate oppure trasparenti, gli indicatori a inchiostro termocromo sono sensibili alle temperature: hanno una zona che, quando la catena del freddo viene interrotta, cambia colore. Usati per le bevande L’ULTIMA FRONTIERA Arriva dall’università di Harvard la novità più estrema in fatto di packaging: WikiCells è un “involucro” commestibile perché formato da cellule di cibo e da un polimero biodegradabile uniti grazie a forze elettrostatiche le mura domestiche. Per arginare il fenomeno, la scienza dell’alimentazione più che sul “contenuto” oggi punta sul “contenitore”. Il packaging del futuro non solo mira ad allungare la shelf lifedei prodotti, ritardando la maturazione, prolungando la scadenza, eliminando l’umidità, assorbendo l’ossigeno, tanto per fare qualche esempio. Ci permette anche di monitorare passo dopo passo lo stato dell’alimento, segnalandoci immediatamente se, per esempio, ha subìto sbalzi termici. «Da una parte, il packaging sarà “attivo”», spiega Davide Barbanti, professore di Scienze degli alimenti all’università di Parma, «perché oltre a proteggere l’alimento da luce, calore, gas, batteri, interagisce con esso allungandogli la vita. Per esempio, evitandone l’ossidazione: accade a bevande, succhi di frutta. Oppure scon- giurando mutamenti di colore. Perciò vengono fuse all’interno della confezione sostanze antiossidanti. O più banalmente queste sostanze possono essere inserite in sacchetti, o bustine di materiale poroso, che a contatto con l’alimento non lo fanno diventare scuro o molle o perdere di croccantezza. Nei grandi magazzini dove vengono conservate enormi quantità di frutta, ci sono macchine che sottraggono l’etilene (la sostanza che fa maturare la frutta): ecco, nel piccolo la logica è la stessa. Per conservare mele e kiwi per un periodo più lungo devo adottare alcune misure attraverso l’immissione o la sottrazione di sostanze anti-microbiche o anti-invecchiamento». Ma, dall’altra parte, il packaging di domani sarà anche “intelligente”, perché in grado di darci molte più notizie riguardo a ciò che ci apprestiamo a Shelf life Letteralmente “vita del prodotto sullo scaffale”: è quel periodo di tempo durante il quale l’alimento mantiene le sue qualità se correttamente conservato. Può essere espressa nella scritta “da consumarsi entro” mangiare. Al posto della semplice scritta “da consumarsi preferibilmente entro” avremo allora etichette termo-sensibili, che reagiscono al calore e cambiano colore, a mo’ di semaforo, del tipo verde (cioè, buono) o rosso (attenzione, ha subìto sbalzi termici). Oppure biosensori, per identificare la presenza di sostanze tossiche nei cibi utilizzando molecole di natura biologica, come anticorpi o enzimi, che quando entrano in contatto con una tossina reagiscono e subiscono delle modificazioni poi tradotte in un impulso elettrico. Altro esempio: gli Rfid. Utilissimi per la tracciabilità dei prodotti, sostituiranno le vecchie etichette con una specie di chip che ci dice dove il prodotto è stato fatto e tutto quello che vorremmo sapere (e non abbiamo mai osato chiedere) sulla sua vita. A livello mondiale ci sono marchi che già fanno queste etichette. Da noi quando arriveranno? Dal punto di vista tecnico, sembra tutto pronto, dicono gli esperti. Il problema grosso restano i costi troppo alti. «Il mercato italiano non è ancora maturo, anche se sta aumentando la sensibilità verso l’introduzione della tecnologia in confezioni e imballaggi» spiega Andrea Segrè, ideatore dell’osservatorio Waste Watcher. Lo dimostrano i risultati di un recente sondaggio (realizzato per Repubblica proprio da Waste Watcher con Swg) su come dovrebbe essere il packaging di domani: «Assistiamo a un atteggiamento ambivalente: il consumatore chiede sì indicazioni più chiare sulla provenienza e sulla reale scadenza dei prodotti, ma più che a sensori (auspicabili solo dal 23 per cento degli intervistati) ed etichette termosensibili (15 per cento) guarda ancora a imbal- laggi sostenibili e a spreco zero (45 per cento)». Nel lungo cammino che ci condurrà a Rfid e spie luminose, infatti, una tendenza che ci riguarda tutti più da vicino è l’aumento del 60 per cento dell’eco-packaging nei prossimi cinque anni (secondo il rapporto Transparency Market Research): vedremo sempre più materiali ecologici e leggeri come bioresine al posto della plastica. E non si esclude un ritorno al vuoto a rendere tanto in voga trent’anni fa. Mentre, sul fronte opposto, piovono provocazioni: e se il pack di domani fosse addirittura commestibile? Un ricercatore di Harvard, David Edwards, sta già studiando questa soluzione: basta unire cellule di cibo a un polimero biodegradabile, promette, e il gioco è fatto. A quel punto, saremo davvero (anche) gli imballaggi che mangiamo. Etilene Ormone vegetale responsabile della maturazione di frutta e verdura: si può filtrare inserendo nella confezione un sacchetto che contiene un composto assorbi-gas per rallentarne il processo © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 36 LA DOMENICA I sapori Botte piena Siamo i secondi viticoltori biologici del mondo e la qualità del prodotto è in crescita Tanto da sfidare le migliori etichette industriali Provare (al Vinitaly) per credere Chianti Classico Badia a Coltibuono 2010 Gli Eremi 2011 La Distesa Sangiovese e Canaiolo coltivati in biologico (certificato Icea) nei vigneti di Gaiole Elegante e complesso Un sesto di rame e zolfo ammessi dal disciplinare, nella terra del Verdicchio bio certificato Imc, serico e agrumato Prezzo: 13 euro Abbinamento: bistecca alla fiorentina Animante Barone Pizzini Verrà presentato al Vinitaly il morbido Franciacorta della storica azienda bio (certificata Icm) Prezzo: 18 euro Abbinamento: tagliolini al pesce di lago Malvasia 2009 Damijan Podversic Certificazione Imc per il bianco prezioso, floreale e sapido, da uve coltivate sulle colline tra Gorizia e l’Isonzo Prezzo: 30 euro Abbinamento: crostacei Barolo Brunate Le Coste 2009 Rinaldi Rispetto profondo per la terra e divieto assoluto di avvelenarla nel rosso nobile e balsamico Prezzo: 35 euro Abbinamento: brasati e formaggi stagionati Bio Bacco Quando il vino ignora la chimica Prezzo: 12 euro Abbinamento: brodetto di pesce LICIA GRANELLO bbiamo bisogno di meditazione e di equilibrio: il ritorno contadino non è rifiuto della tecnica; è l’invito a sottomettere sempre e comunque la tecnica al rispetto delle esigenze umane». Così scriveva Gino Veronelli quarant’anni fa, e sembra oggi. Impossibile, allora, pensare che il Vinitaly potesse dedicare spazio ed energie al vino «non convenzionale». Da quell’intuizione geniale e visionaria (sfociata nel 2003 nel libro-progetto Critical Wine, terra e libertà) a oggi, il mondo del vino è cambiato così tanto che nessuno si stupisce se l’edizione numero 48 (dal 6 al 9 aprile alla Fiera di Verona) dedicherà due padiglioni, VinitalyBio e Vivit (Vigne Vignaioli Terroir), ai vini cari a Veronelli, a cui aggiungere lo spazio del Sol Bio, dedicato agli extravergine biologici. Ma grande è la confusione sotto il cielo della nuova eco-enologia, come testimoniano altre due manifestazioni, che cominceranno sabato 5: ViniVeri a Cerea (Verona) e VinNatur a Villa Favorita (Vicenza). Se Veronelli associava sensibilità planetaria, agricoltura contadina e rivoluzione dei consumi, prefigurando un ritorno al futuro incentrato su una comune visione etica della produzione enogastronomica, i bio-vignaioli ancora faticano a darsi un’identità collettiva e cercano di trovare una chiave da condividere per offrire la giusta immagine di sé a un popolo di bevitori sempre più riluttanti (sotto i 40 litri procapite). Certo, esiste il vino biologico certificato (fogliolina verde docet). Un regolamento importante, varato dall’Ue appena due anni fa, norma l’intero processo di vinificazione (prima si certificavano solo le uve). Vittoria pagata in termini di allentato rigore del disciplinare, tra coadiuvanti consentiti e aumentati limiti della solforosa, condizione necessaria per azzerare i rischi di acetificazione connessi al trasporto delle bottiglie, soprattutto fuori dall’Italia. Ma intanto, la bioviticoltura italiana, che occupa il 7 per cento del totale dei vigneti — seconda estensione al mondo, dopo la Spagna — ha alzato enormemente gli standard qualitativi, tanto da mandare in passerella vini buonissimi, in grado di competere con le migliori etichette della viticoltura industriale, spesso disposta a troppe manipolazioni pur di creare il vino perfetto. Poi ci sono gli altri, quelli che mettono la faccia, raccontando in prima persona le fatiche di vignaioli artigianali. Storie familiari, generazionali, oppure ragazzi che approdano alla terra da una storia diversa, urbana, universitaria. I loro vini nascono da rese bassissime (30-40 quintali per ettaro), ignorando la chimica e piegando la tecnologia al rispetto della naturalità, il rapporto con i clienti è personale, vuoi per le strutture di accoglienza (agriturismi, fattorie didattiche) che integrano il lavoro agricolo, vuoi per il passaparola sempre più attivo nel mondo alimentare. Estranei agli slogan ruffiani del marketing, molti di loro spingono perché l’etichettatura dei vini si adegui a quella di tutti gli altri alimenti prodotti e venduti in Europa, con l’elenco completo degli ingredienti e della filiera. Una ricetta semplice semplice per riconoscere, finalmente, i vini buoni, puliti e giusti. «A © RIPRODUZIONE RISERVATA L’etichetta La produzione di vini biologici (regolamento europeo 203/2012) certificata dall’etichetta verde, prevede il divieto di concimi chimici, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi, organismi geneticamente modificati e limita la solforosa totale a 100 mg/l per i vini rossi e 150 mg/l per i bianchi la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 37 Dove comprare MONFORTE D’ALBA (CN) Flavio Roddolo Bricco Appiani Località S. Anna 5 Tel. 0173-78535 MAGRÈ (BZ) Alois Lageder Vicolo dei Conti 9 Tel. 0471-809500 LUCERA (FG) Agricola Paglione Strada per San Giusto Tel. 0881-024905 SOLICCHIATA (CT) Azienda Agricola Frank Cornelissen Via Nazionale 297 Tel. 0942-986315 COSSIGNANO (AP) Azienda Vitivinicola Fontorfio C.da Fiorano 4 Tel. 0735-736076 SGONICO (TS) Vodopivec Località Colludrozza 4 Tel. 040-229181 PUIANELLO DI QUATTRO CASTELLA (RE) Ca’ de Noci Via F.lli Bandiera 1 Tel. 0522-889855 TRAMONTI (SA) Azienda Agricola Monte di Grazia Via Orsini 26 Tel. 089-876906 CIRÒ MARINA (KR) Cataldo Calabretta Viticoltore Via Mandorleto 47 Tel. 347-1866941 RIVERGARO (PC) La Stoppa Località Ancarano Tel. 0523-958159 Montepulciano d’Abruzzo Riserva 2008 Praesidium Grillo Rocce di Pietra Longa 2012 Centopassi Frutti rossi maturi e intensità carnale nel vino prodotto senza chimica, né in vigna, né in cantina Nasce nelle campagne confiscate alla mafia, certificate bio dalla Ccpb, il bianco aromatico e beverino Prezzo: 28 euro Abbinamento: carni arrosto A tavola Le mie uve fanno da sole Prezzo: 11 euro Abbinamento: crudi di mare Morei 2011 Foradori Vinificato in anfora secondo la tradizione georgiana, il Teroldego energico e ruvido certificato biodinamico NICOLETTA BOCCA uella biodinamica è un’agricoltura dell’esperienza, come è sempre stata l’agricoltura fino a pochi decenni fa, quando hanno incominciato a venderci un’agricoltura della certezza. Ancora oggi, in certe annate, qualche viticoltore sostiene che chi fa biologico o biodinamico non raccoglierà nulla, e se raccoglie è perché ha barato. C’è incredulità, paura, la sensazione di non fare le cose come andrebbero fatte, quando invece una buona agricoltura naturale richiede un livello di attenzione e di ascolto sempre in perfezionamento, dove intervenire il minimo è il modo migliore per dare il massimo. Alla biodinamica sono arrivata con una formazione classica alle spalle, in vigna e in cantina, che mi ha aiutato ad avere basi e conoscenze. A volte ciò mi ha ostacolato, perché certe libertà di osservazione e ragionamento non ti vengono più istintive. Scopri che hai perso quella capacità che hanno i grandi e rari medici diagnostici di riconoscere, da pochi segni, la malattia “a vista”. Nel biodinamico, rispetto al biologico, si lavora molto di più su elementi non misurabili e percepibili facilmente, sulle forze eteriche, un ambito in cui la fretta del risultato va dimenticata. L’ho verificato col mio Dolcetto, il San Fereolo, in cui le uve anno dopo anno hanno avuto sempre meno bisogno di me in cantina, come un figlio che cresce bene; in cui il vino ritrova da solo gli equilibri interni, restituendo l’annata e il luogo con maggior individualità e intensità. Del resto, la biodinamica non dovrebbe aspirare a essere un risultato, ma solo un mezzo attraverso il quale cerchiamo di raggiungere la verità, che un territorio riesce a esprimere nello stato di grazia del minor numero di interferenze possibili. Viticoltrice biodinamica a Dogliani nelle Langhe, figlia del giornalista Giorgio Q © RIPRODUZIONE RISERVATA Prezzo: 25 euro Abbinamento: carni alla griglia Filagnotti 2011 Cascina degli Ulivi Metodo biodinamico per il bianco corposo e mandorlato da uve Cortese maturate a Novi Ligure Prezzo: 13 euro Abbinamento: carni bianche Le Trame 2008 Podere Le Boncie Sangiovese coltivato ad alberello e vinificazione ipertradizionale per il Chianti speziato, austero e lunghissimo Prezzo: 25 euro Abbinamento: grandi carni la Repubblica DOMENICA 23 MARZO 2014 ■ 38 LA DOMENICA L’incontro Icone All’anagrafe ha quasi settant’anni, cinquanta dei quali passati su palchi e set. Ma essere ancora un sex symbol non la sconvolge affatto: “Il botox aiuta, ma anche il dna: pensi che io e mia madre abbiamo la stessa taglia di jeans”. Femminista, ha una figlia trans (Chastity, ora Chaz) e ha sposato la causa gay:“Loro non mi hanno mai abbandonata. Quanto agli uomini etero, lasciamo stare...” D MILANO avanti a lei l’ultima cosa che viene in mente è l’età. Cher parla di leggings e tacchi a spillo, perizomi e calze a rete mentre mette a punto i dettagli del suo tour Dressed to Kill che ha debuttato ieri sera a Phoenix, in Arizona, e la terrà impegnata fino a giugno. Poi riflette: «Oddio, ce la farò? Il 20 maggio compio sessantotto anni e le ossa cominciano a scricchiolare. A questa età ogni cosa arriva inaspettata, come un dono. Ormai non pianifico più la mia carriera. Un disco dopo dodici anni (Closer to the Truth) era l’ultima cosa che avevo programmato. Continuo ancora a credere che si tratti di un caso fortuito. A sessant’anni tenni la mia prima tournée d’addio, mi sembrava un’età onorevole per sparire dalle scene. Invece eccomi qua, pronta a rompermi di nuovo la schiena, con la trepidazione di un’adolescente. Cantare per me è qualcosa di incontrollabile a livello mentale. Recitare, al contrario, richiede un’attenzione e una concentrazione pazzesche», racconta l’artista premio Oscar per Stregata dalla luna (1987). «La musica ti offre più libertà, devi memorizzare un testo, ma ti muovi liberamente, improvvisi, te la godi. Recitare è tutt’altro che divertente, il bello di un film arriva quando hai finito di girarlo e lo vedi montato. Dicono che il palcoscenico sia una droga, in tal caso è l’unica che io abbia mai preso». Magrissima, tonica, parrucca mogano che le incornicia un viso meno spigoloso di quando si chiamava ancora Cherilyn Sarkisian (sangue armeno e indiano cherokee nelle vene) e a diciassette anni si mise in mente di fare la cantante, o l’attrice, o qualsiasi altra cosa la vicina Hollywood avesse da offrire a un’adolescente di El Centro, California. «Volevo far parte di questo mondo. Non era una tentazione ma un’opportunità; già alle elementari ero molto motivata. Poi grazie a Dio incontrai Sonny Bono, uno che conosceva i trucchi del mestiere; non sarei riuscita a mettere a fuoco le mie potenzialità senza di lui. Ho avuto anche la fortuna di avere una madre e una nonna che erano mie fan ancor prima dei trionfi di Sonny & Cher». Cinquant’anni di palcoscenico e ancora è un sex symbol. Dei ritocchi a colpi di bisturi e di botox non ha mai fatto mistero, ma a mantenerla così in forma non sarebbero bastati neanche gli interventi del Dr. Frankenstein. «C’è qualcosa di buono nel dna di famiglia. Mia nonna è morta a 96 anni ed è andata in palestra fino alla settimana prima. Mia madre ha 87 anni ed è una bellissima donna, indossiamo jeans della stessa taglia. Al resto hanno pensato buonumore e successo. Mi fanno ridere le pop star che dicono: la fama non mi ha mai viziata. Impossibile. Prenda il mio caso, famosa per mezzo secolo, talmente abituata a essere una privilegiata da averci fatto il callo. Una volta sono andata al supermercato e totalmente noncurante della fila sono andata dritta alla cassa, come fosse la cosa più naturale del mondo. Vero è che non ho mai avuto abitudini pericolose, droghe, alcol, sigarette. In questo non assomiglio a Judy Garland. Molti cantanti e attori non riescono a reggere il passo — specie mezzo secolo fa quando gli artisti lavoravano decisamente più di oggi. Quando ho cominciato a cantare si registrava su un quattro piste, non c’erano tutte le diavolerie che abbiamo oggi. Ti mettevi davanti al microfono e cantavi; se non andava bene ripetevi l’intera canzone anche cento volte. Il clima fra gli artisti era meno competitivo, non c’erano in ballo tutti questi milioni. Quello della musica era un piccolo business, le star non lanciavano profumi o linee di moda, si investiva tutto nel mestiere, per avere musicisti migliori, coreografi all’altezza, abiti di scena più elaborati. Ricordo perfettamente quando Sonny e io incidemmo il primo album, era il 1965. La domanda che ci facevamo più spesso era: ne faremo mai un altro? Forse per questo non ho mai pensato di smettere. L’unica cosa che mi ha fatto desiderare di mandare tutto all’aria è stata la totale mancanza di privacy, una limitazione enorme alla libertà di cui ho bisogno come l’aria. Che vuol dire andare al cinema, in motocicletta, al centro commerciale senza essere importunata. E i telefonini… una maledizione. Oggi chiunque s’improvvisa paparazzo! L’altro giorno mentre ero in strada un uomo mi è venuto incontro a una velocità pazzesca, quando è arrivato a un centimetro da me ha azionato la fotocamera. Pensavo avesse un’arma. C’è un solo posto ormai dove pos- Un giorno al supermercato incurante della fila me ne vado dritta alla cassa: brutta abitudine quella di sentirsi dei privilegiati FOTO GETTY GIUSEPPE VIDETTI so vivere tranquillamente: nella mia casa di Malibu. A patto che non ci sia un uomo che bussi alla porta». Gli uomini, un argomento sensibile. «Io parlo di tutto, non ho segreti, ma gli amori lasciamoli da parte. Anche il più sensibile dei giornalisti ha sempre frainteso tutto. Le dico solo che avrei voluto essere un’artista più indipendente, invece anche alla mia veneranda età sono costretta a dipendere dagli uomini. Non sono una compositrice, ho bisogno di autori, arrangiatori, produttori; e sono quasi sempre uomini. Sono una donna fortunata, perché in quello che faccio è l’arte che garantisce la libertà e un’eguaglianza che diversamente sono difficili da conquistare. Nel nostro mondo non cambia nulla se sei uomo o donna, bianco o nero, vali solo per quello che fai. Sono le canzoni a far la differenza». Il femminismo, un argomento sensibilissimo. «Credo che la condizione della donna sia peggiore di com’è sempre stata. Avevamo fatto tanti progressi negli anni Sessanta di cui abbiamo goduto i benefici per almeno due decenni successivi. Poi all’improvviso tutto è crollato. Negli Stati Uniti la società è diventata assai più conservatrice e moralista. C’è più arroganza e una minore disponibilità ad ascoltare il punto di vista degli altri. Negli anni Sessanta, Sonny mi diceva sempre: puoi anche litigare con qualcuno di giorno e la sera giocarci a poker. Adesso la gente si odia, i punti di vista — soprattutto in politica — sono sempre diametralmente opposti, inconciliabili». Rifiuta l’idea che sexy faccia rima con oca, che la bellezza sia di ostacolo all’intelligenza, che la vanità sia il vizio delle miss e non delle scienziate. Cher è più donna che mai, più femminista di prima. «Appartengo a una generazione che dava voce alle proteste, che rivendicava i propri diritti. Oggi siamo lenti, la rabbia è repressa. Gli Usa hanno sonnecchiato anche di fronte alla guerra in Iraq sostenuta da giustificazioni false e assurde. Molti degli ideali per i quali abbiamo combattuto negli anni Sessanta sono stati calpestati. E a farne le spese sono soprattutto le donne, ancora ostaggio di fidanzati e mariti — è dimostrato che la maggior parte dei femminicidi vengono perpetrati da persone molto vicine alle vittime. Gli uomini sono più liberi, non hanno il diritto di dirci cosa dobbiamo fare del nostro corpo. Neanche i papaveri di Washington che parlano senza cognizione di causa di aborto, contraccezione e matrimoni tra persone dello stesso sesso. Ho rifiutato di cantare alle Olimpiadi invernali di Sochi a causa delle infami leggi antigay che sono state promulgate in Russia. Sarebbe stato un insulto per i miei fan, per tutti i gay che mi hanno sostenuta nel periodo più buio della mia carriera, quando c’erano solo loro ad applaudirmi nei teatri. E anche per mia figlia, che ha cambiato sesso — e Dio sa quanto mi ci è voluto per capire e accettare il fatto che Chastity fosse diventata Chaz! Per questo sostengo che ci sia bisogno di un presidente donna e ho fatto campagna per Hillary Clinton, una persona intelligente con un marito intelligente, una che conosce il Palazzo e avrebbe fatto cose egregie per il Paese. Certo, poi ho riconosciuto che l’elezione di Obama era un fatto anche più rivoluzionario. Devo dire che avevo completamente sottovalutato i pregiudizi razziali dei repubblicani. Cercano di distruggerlo, lo ridicolizzano in ogni modo. Ho memoria di undici presidenti e mai sono stata testimone di un ostruzionismo come quello che stanno facendo a Obama mettendolo ripetutamente in condizioni di non agire. Terribile». Placa la sua foga. Ma è solo per un attimo: «E però mi piacerebbe così tanto poter vedere un presidente donna...». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ Cher
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