alcune osservazioni sul ddl costituzionale di - Tocqueville

Focus Paper, n. 34 – aprile 2014
ALCUNE
OSSERVAZIONI
COSTITUZIONALE
DI
COSTITUZIONE
SUL
D.
RIFORMA
D.
L.
DELLA
di CLAUDIO ZUCCHELLI
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, ha insegnato Diritto Pubblico dell’Economia e Analisi Economica del Diritto
presso la LUMSA, è stato, tra l’altro, Capo dell’Ufficio Legislativo del Governo negli anni 2001/06-2008/13
Il d.d.l. costituzionale di riforma della Costituzione proposto dal Governo riguardante il
Senato e il titolo V, ha provocato adesione e dissenso, entrambi spesso violenti e viscerali.
Procedere a una riforma così importante ab irato, per così dire, è viatico per futuri
scompensi.
Se possibile, ai tecnici giuristi, soprattutto se commis di Stato come chi scrive, spetta il
compito di compiere invece un’analisi pacata, oggettiva condotta alla luce dei parametri
della scienza giuridica. Soprattutto rifiutando a priori la domanda cui prodest? In altre
parole non chiederci se una certa soluzione giovi a uno o altro schieramento politico,
poiché i meccanismi costituzionali devono essere neutri nel perseguire un risultato di
equilibrio, dove solo il voto popolare sia in grado di orientare l’indirizzo politico e
amministrativo della Nazione, e non essere concepiti o interpretati come strumenti per la
presa di potere. Ciò non gioverebbe a nessuno e anzi aprirebbe una lunga stagione di
antidemocratici governi, magari in alternanza, ma sempre antidemocratici.
Entrando nel merito occorre una breve premessa.
Ogni riforma costituzionale è, all’atto della sua presentazione, “incostituzionale” cioè di
segno contrario a ciò che prevede la norma costituzionale da modificare. Chi dimentica ciò,
e accade spesso, grida al golpe a ogni proposta, anche a quelle necessarie per adeguare i
meccanismi costituzionali alle nuove dinamiche di una società diversa da quella del 1948.
D’altra parte è vero che una Costituzione contiene anche il fondamento dello stare insieme
cambiando il quale cambia il “contratto sociale”, le motivazioni e lo spirito stesso di un
popolo che si riconosce Nazione. In tal caso possiamo utilizzare il termine ossimoro
“riforma costituzionale incostituzionale” per quelle modifiche che farebbero della
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Costituzione altro da sé, muterebbero cioè radicalmente il patto aggregativo, non rileva se
in modo migliore o peggiore.
Per plagiare una definizione coniata dal nostro Maestro Salvatore Satta, possiamo dire che
l’aggettivo “nuovo” può avere due significati. Uno è nel dire “Vestito nuovo”, ove il vestito
è un manufatto, sempre vestito sì, ma diverso dal vecchio. Uno è nel dire “Strada nuova”,
ove la strada è sì diversa dalla precedente ma conduce sempre dalla medesima partenza alla
medesima meta.
Orbene è lecito desiderare una “nuova costituzione”, ma ciò può avvenire attraverso una
rivisitazione funditus mediante un processo di formazione costituzionale palingenetico che
richiede necessariamente una Costituente, come per altro ammette la dottrina
costituzionalista. In sostanza significa cucire un nuovo vestito.
Rinnovare la Costituzione, cioè farla “nuova” significa invece manutenerla, individuare una
“strada nuova” per raggiungere però sempre il medesimo risultato, mantenendo, cioè, i
fondamenti del patto costituzionale in vigore.
Quest’ultimo tipo d’interventi, che dunque segue le procedure non di una Costituente ma
dell’articolo 138, ben può incorrere nel pericolo di essere in sé “incostituzionale” perché
muta nel profondo i contenuti del patto.
L’attenzione, quindi, si sposta all’individuazione di tali contenuti, cioè richiede la
formulazione di parametri alla luce dei quali giudicare questa “incostituzionalità”, per
comprendere se, in effetti, ci troviamo dinanzi a uno Stato fondamentalmente diverso da
quello concepito dalla Costituente.
Tale parametro, in effetti, esiste ed è stato più volte indicato dalla Corte Costituzionale, la
quale ha espressamente affermato di possedere il potere e la prerogativa di giudicare le
nuove norme costituzionali alla luce di tali parametri di coerenza interna
Esso è costituito innanzi tutto, ed espressamente, dal divieto posto dall’articolo 139 al
mutamento della forma repubblicana, in secondo luogo, e con maggiore pregnanza, dai
Principi Fondamentali contenuti nei primi dodici articoli, che corrispondono
sostanzialmente ai fondamentali Diritti Umani, in terzo luogo dai principi generali ricavabili
dall’insieme, e all’interno, del testo.
Non ci riferiamo alla così detta Costituzione materiale, ma esattamente a quei fondamenti
inespressi che permeano l’intero impianto quasi inconsapevolmente, portato della stessa
cultura sociale e politica di un popolo e della sua evoluzione storica. Principi senza i quali la
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stessa norma costituzionale suona a vuoto ed è solo un esercizio razional-costruttivistico di
elaborazione di meccanismi utopici, perfetti solo nella mente di chi li elabora.
L’enucleazione dei principi generali da una legge, sia la Costituzione sia ordinaria, è il primo
passo di una corretta interpretazione poiché fornisce non solo l’indicazione dell’obiettivo,
della meta cui tende (la voluntas legis) ma soprattutto i limiti e gli indicatori imprescindibili
attraverso i quali s’intende raggiungerli, il quadro etico, culturale e politico nel quale si
muove il popolo che accetta di farsi disciplinare da quella Costituzione, l’humus su cui
attecchisce la vite che quindi darà vini diversi secondo le diverse Costituzioni.
Così, nella nostra Costituzione sono enucleabili principi generali la cui modifica o il cui
tradimento costituirebbero sì grave violazione della Costituzione stessa, nel senso che ne
farebbero, come accennato, “altra da sé”, migliore o peggiore secondo i giudizi, ma
sicuramente “nuova” nel senso palingenetico del termine.
Vedremo più avanti l’applicazione e le implicazioni di quest’affermazione teorica, quando
s’individueranno, appunto, alcuni principi generali che sarebbero radicalmente mutati da
una o da un combinato disposto di più norme contenute nel d.d.l..
L’esame non può prescindere dall’obiettivo politico strategico della riforma, così come si
evince dalla stessa relazione illustrativa, cioè l’adeguamento dei meccanismi di formazione
delle norme ai mutati tempi, sia sotto il profilo delle procedure (riforma del Senato), sia
sotto quello della distribuzione del potere legislativo (riforma del titolo V).
Conseguentemente gli obiettivi operativi, di natura tecnica individuati dal d.d.l. sono tre:
1.
Porre fine al bicameralismo perfetto.
2.
Riordinare o sopprimere la funzione concorrente nella legislazione primaria e
ridistribuire le materie della stessa tra Stato e Regioni con la caratteristica dell’esclusività.
3.
Ridurre il costo vivo degli apparati costituzionali.
1. Porre fine al bicameralismo perfetto
Nel così detto “mercato delle leggi”, il bicameralismo perfetto induce una ripetizione della
negoziazione e ne aumenta a dismisura i costi, in maniera inaccettabile se analizzata con gli
strumenti dell’analisi economica del diritto. Non solo in termini di tempo e di utilizzazione
di risorse umane e materiali, ma anche nel senso di un sempre maggiore discostamento
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dall’obiettivo che ciascuno dei negoziatori si propone di raggiungere, in primis il Governo,
e ciò a causa del reiterarsi della negoziazione e quindi della mediazione tra gruppi
d’interesse politico che a ogni successivo passaggio sono in grado di rafforzare il proprio
potere d’interdizione. Aumentando i livelli di negoziazione, è ormai accertato, salgono più
che proporzionalmente i relativi costi.
L’eliminazione del bicameralismo perfetto può essere realizzata, astrattamente, in due modi:
a)
Sopprimendo sic et simpliciter il Senato, con la riconduzione alla Camera dei
Deputati di tutte le funzioni legislative, di controllo e amministrative latu sensu oggi
ripartite.
b)
Sottraendo al Senato tutte o congrua parte delle sue competenze legislative, che è la
strada scelta dal d.d.l. governativo.
a) La soppressione tout court, riguardata dall’ottica tecnica della possibilità di
funzionamento efficiente ed efficace, non presta il fianco a particolari critiche, tant’è che
molti sono i Paesi del mondo anche di cultura occidentale, una quarantina, ove esiste
un’unica Camera legislativa.
Non è però questa la strada intrapresa dalla bozza di riforma. Ciò non ostante è necessario
approfondirne il tema anticipandolo perché da tale analisi emergerà un principio
fondamentale della Carta costituzionale in grado di influenzare anche il diverso cammino
intrapreso dalla riforma.
Il principio evocato s’invera nel diritto delle Regioni alla partecipazione nel processo
formativo anche delle leggi statali, o almeno di alcune di esse. Se da un lato, quindi,
l’abolizione del Senato sarebbe incostituzionale, nel senso accennato, con esso colliderebbe
anche una riduzione drastica, immotivata e non coerente delle funzioni legislative.
Il principio di partecipazione, infatti, discende dalla struttura stessa della Repubblica
disegnata dalla Costituzione vigente. Articolata su Regioni quali enti esponenziali della
collettività regionale dotati, sia pure solo in determinate materie, del potere legislativo
primario, vale a dire quel potere che può incidere sui diritti dei cittadini modificando il
rapporto autorità libertà, sempre secondo il rispetto dello stato di diritto (rights of law).
Il disegno costituzionale, però, non è quello di uno Stato federale, né potrebbe essere
modificato in tal senso tramite la procedura ex articolo 138 proprio per i motivi sopra detti.
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Da questo impianto, deriva che non esiste una rigida suddivisione d’interessi, e quindi di
materie da normare, tra Lo Stato e la Regione, tanto da disegnare un sistema nel quale Stato
e Regione siano titolari di un potere normativo del tutto indifferente l’uno all’altro.
L’impianto di base della Costituzione del 1948, per vero, prende atto della necessità di
sovrapposizione e interferenza tra le due legislazioni poiché, nell’ottica di uno stato
regionalista e non federale, presuppone la coesistenza d’interessi a valenza nazionale
unitaria e d’interessi a valenza regionale particolaristica, ma sempre in capo ai medesimi
soggetti, i cittadini e per la cura d’interessi pubblici necessariamente concatenati ed
embricati. A tale scopo il Costituente elaborò la figura della legislazione concorrente (per
altro esistente anche presso altri stati tra cui la Germania, fonte d’ispirazione dell’attuale
riforma).
Nella vigente Costituzione, il luogo della negoziazione politica degli interessi a valenza
nazionale è il parlamento per il quale s’instaura il rapporto di agenzia tra elettore e
parlamentare; quello degli interessi regionali il Consiglio Regionale, ove il rapporto di
agenzia s’instaura con i Consiglieri regionali; ma il luogo della negoziazione tra interesse
nazionale e interesse regionale è, nella costituzione vigente, lo stesso Parlamento
bicamerale, ove il Senato è eletto a base regionale, e dunque rappresentante degli interessi
dei cittadini nell’ottica regionale, la Camera è eletta su base nazionale, e portatrice degli
interessi nazionali.
Tutto ciò, che avrà influenza anche nell’analisi della riforma del titolo V, per ora ci
suggerisce la conclusione che esistono aree d’interferenza ove, appunto, l’interesse
nazionale e quello regionale si confrontano e richiedono la negoziazione e mediazione, e
dunque che la partecipazione delle Regioni al processo di formazione delle leggi statali in
tali ambiti sia imprescindibile.
L’eventuale abolizione del Senato o delle sue intere competenze legislative, abbisognerebbe,
quindi, sicuramente di una contemporanea rivisitazione del sistema elettorale della Camera
per dare ivi ingresso all’interesse regionale (il che allo stato è francamente improponibile).
In mancanza di ciò la sua soppressione, o la soppressione della funzione legislativa,
sarebbero di per sé incostituzionale nel senso sopra chiarito.
Non basterebbe eccepire che l’interesse della Regione come corpo politico rappresentativo
sarebbe soddisfatto dall’esistenza della sua propria potestà legislativa in materie esclusive.
Ciò significherebbe provocare una parcellizzazione della potestà legislativa, da una parte
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solo Stato, dall’altra solo Regione, che non sembra appartenere, a prima vista, né alla forma
di Stato regionalistica né a quella federale e in ogni caso non darebbe sfogo a quel
confronto d’interessi nazionali e regionali di cui si è postulata la necessità.
Per altro, non basterebbe sopprimere l’articolo 57 primo comma “Il Senato è eletto a base
regionale etc.” per ritenere che quindi il principio della rappresentanza regionalistica
nell’esercizio del potere legislativo nazionale sia espunto dalla Costituzione. Tale principio,
infatti, come si è detto è immanente al sistema e deriva proprio dal rapporto non
federalistico tra Stato e Regioni.
Concludendo, ci pare indubitabile che il principio di partecipazione delle Regioni al
processo di formazione delle leggi statali sia insito nell’impianto di base della nostra
costituzione sì che tale partecipazione deve pur trovare ingresso, anche se è pienamente
accettabile che ciò avvenga in misura parziale in funzione dell’individuazione corretta
dell’interesse di cui la Regione come ente in sé è portatore, e in funzione delle necessità di
unità della Nazione e di omogeneità dello status civitatis.
b) La seconda ipotesi si basa sulla sottrazione totale o parziale al Senato della potestà
legislativa, che è la strada seguita dal d.d.l. governativo che quindi esamineremo nelle sue
linee generali.
Preliminarmente occorre notare che il d.d.l., è fotocopia un po' stropicciata degli articoli 50,
51, 52 e 53 della Costituzione Tedesca, quanto alla composizione e ruolo del Senato,
mentre per quanto concerne la formazione delle leggi (articolo 70 e sgg.) la fotocopia si
riferisce agli articoli 77 e seguenti della stessa Costituzione. La sostanziale e profonda
differenza tra le due Costituzioni nel disegnare il rapporto Bund/Laender e Stato/Regioni
rende già l'operazione tecnicamente poco credibile.
Il nuovo articolo 70 attribuisce la funzione legislativa solo alla Camera dei Deputati, con
l’eccezione delle leggi di revisione costituzionale e delle leggi costituzionali le cui funzioni
sarebbero esercitate collettivamente dalle due Camere.
In parole povere, ciò significa che il Legislatore ritiene corretto rappresentare e introdurre
nella negoziazione interessi differenziati per Regione e tra Stato e Regioni, proprio nel
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momento in cui s’introducono norme costituzionali le quali, per definizione, contemperano
e soddisfano interessi unitari non influenzati da visioni particolaristico-territoriali.
Si tratta, com’è evidente, di una contraddizione in termini. Non si comprende, infatti,
perché il cittadino (che è al contempo elettore dello Stato e della Regione) si debba affidare
per la revisione costituzionale contemporaneamente a un suo rappresentante agente diretto
(Deputato) e a uno indiretto (Senatore), ponendo in essere due rapporti di agenzia di cui
uno di secondo grado. Sul versante dei costi cui abbiamo accennato ciò, all’evidenza, è un
aggravio; sul versante del rapporto tra il cittadino e la norma costituzionale ciò significa
introdurre un filtro tra il cittadino e la decisione del suo agente contrario al principio della
sovranità popolare.
Sostanzialmente su questa linea governativa, non ostante le obiezioni veementi altrimenti
sollevate, il prof. Rodotà. Nell’intervista all'Unità del 3 aprile 2014 egli afferma: “Se una
sola delle Camera ha la competenza sulla fiducia e sui bilanci (la Camera ndr), per evitare di
modificare gli equilibri costituzionali occorre dare al Senato poteri sulle leggi costituzionali,
le grandi leggi di principio, l’attività di controllo e inchiesta parlamentare.” Ma aggiunge: “E
poi un Senato eletto direttamente dai cittadini con il proporzionale”.
In disparte il tema dello strumento proporzionale o maggioritario, che è altro problema, la
chiosa coglie nel segno quando accettando una riduzione dei poteri legislativi Senatoriali (in
ipotesi alle sole norme costituzionali), ne invoca di converso l’indispensabilità dell’elezione
a suffragio universale.
In effetti, il mantenimento di un qualsiasi potere legislativo al Senato postula
necessariamente che questi sia elettivo, sia pure su base regionale. Il potere legislativo non
può che essere esercitato da soggetti direttamente delegati dal popolo, come si ricava
agevolmente dall’articolo 1, comma 2: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione.” E nel concetto di sovranità s’inscrive, in primo
luogo, la titolarità di quel potere fondamentale che è costituito dall’accettazione della
limitazione della libertà naturale del cittadino tramite la legge a condizione che sia emanata
da un organo che da lui stesso, e solo da lui, tragga direttamente legittimazione.
Si deve osservare che non solo l’articolo 1 è compreso nella parte dei Principi
Fondamentali
non
modificabili
e
non
contraddicibili,
ma
soprattutto
che
sull’indispensabilità della rappresentatività popolare diretta nell’esercizio del potere
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Focus Paper, n. 34 – aprile 2014
legislativo si basa l’intero impianto della Costituzione e delle Costituzioni occidentali,
nonché quello della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
L’impianto del nuovo Senato, quindi, ci pare collidere in maniera irresolubile con il
principio sopra enunciato della partecipazione delle Regioni al processo formativo delle
leggi statali, o almeno di alcune di esse.
Né ci pare sufficiente l’escamotage del d.d.l. consistente nel fatto che la Costituzione
richiami se stessa per aggirare, di fatto, il principio, in una forma di autoinganno. L’articolo
55, comma 4 del d.d.l. pudicamente afferma che “Il Senato concorre, secondo modalità
stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa” Una solenne affermazione di principio
smentita dai fatti. Il Senato entra (per così dire) nel processo normativo solo con facoltà
propositive a “cose fatte” cioè dopo l’approvazione definitiva (!!) della legge, (articolo 70
comma tre), con quanta incisività è immaginabile.
Vero è che il Senato può proporre disegni di legge alla Camera e che questa ha l’obbligo di
esaminarle, ma a parte che la fase propositiva non sembra esattamente far parte della
formazione delle leggi e quindi non è certo che soddisfi il principio costituzionale di
partecipazione, la storia ci ha insegnato di almeno un altro organo di rilevanza
costituzionale cui era attribuito il compito di proporre disegni di legge, e non sembra che la
cosa abbia dato risultati neppure appena appena accettabili (CNEL).
Non è qui il caso di esaminare i casi d’interferenza propositiva nel caso di leggi particolari e
delle maggioranze speciali richieste e del complicato meccanismo con il quale il Senato
dovrebbe avere la possibilità di esercitare una moral suasion sulla Camera, poiché non
stiamo compiendo un’esegesi completa del testo. Ciò che interessa in questa sede è solo
rilevare che sia pure tali modalità non soddisfano il requisito della partecipazione delle
Regioni alla formazione legislativa.
Il testo, inoltre, collide fortemente anche con il principio di sovranità, come accennato,
poiché è impensabile, costituzionalmente, che un potere legislativo, e per giunta di rango
costituzionale, sia esercitato da soggetti chiamati con elezione di secondo grado e per di più
in maniera tale da non rappresentare l’intera Nazione, a cagione, ovviamente, delle
differenze di popolazione, stratificazione sociale, indirizzo politico proprie di ciascuna
Regione, ma non necessariamente rappresentative dell’intero corpo elettorale.
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Accade, invece, che il d.d.l., in presunto ossequio all’articolo 114, secondo cui “La
Repubblica è costituita dai Comuni, (dalle Province), dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato”, introduca tra i Senatori anche 24 sindaci di cui 22 di capoluogo di
Regione e Provincia autonoma e due eletti da uno specifico collegio composto di tutti i
sindaci d’Italia. Ciò giustifica il nome di Senato delle Autonomie, ma non impedisce
un’evidente rottura costituzionale.
In disparte l’osservazione che le città metropolitane non sarebbero stranamente
rappresentate nel Senato, pur essendo chiamate anch’esse dall’articolo 114 a costituire la
Repubblica, con evidente contraddizione, si osserva che la partecipazione degli enti locali
alla funzione legislativa (costituzionale poi!) si pone in insanabile contrasto con l’intero
impianto della formazione delle norme voluto dalla Costituzione e che ne costituisce un
principio generale determinativo dell'assetto stesso dello Stato e dei suoi rapporti con i
cittadini.
L’articolo 114, sicuramente, intende chiarire che i Comuni quali enti esponenziali delle
comunità locali in maniera autonoma e originaria e quindi non perché a loro volta
ricompresi in una Regione, formano la comunità nazionale, ma l’impianto regionalistico
segna una marcata differenza tra Regioni e Comuni. A questi ultimi, infatti, non è attribuita
alcuna potestà legislativa, essi cioè non sottoscrivono con gli elettori quel mandato di
agenzia riguardo alla normazione e gestione dei loro diritti naturali. I Comuni, in sostanza,
non ricevono un mandato di definire la legge nel rispetto dei diritti (i rights of law per
intenderci) ma eventualmente solo quello di normare, con norme regolamentari di secondo
grado e nel rispetto della legge, situazioni concrete nelle quali il potere legislativo, nazionale
o regionale, abbia già regolato l’assetto dei diritti.
Non vi è alcuna ragione costituzionale, pertanto, perché essi partecipino alla funzione
legislativa nazionale, e in ispecie costituzionale, alla quale il popolo non li ha chiamati. Ed è
proprio quest’ultimo aspetto quello che rinforza il dubbio sulla costituzionalità di un tale
assetto.
Si aggiunga a ciò che l’articolo 55, comma 2 della bozza, rafforzato dal comma 4 dello
stesso, espressamente riconosce una rappresentanza generale nazionale ai soli Deputati,
implicitamente ammettendo che i Senatori di provenienza regionale e comunale
rappresentano esclusivamente la propria Regione senza neppure avere l’obbligo, né già
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giuridico ma neppure politico o etico, di porsi il problema dell’interesse generale della
Nazione, ché anzi, in ipotesi, avrebbero il dovere di postergare rispetto a quello regionale!
Del resto, nemmeno la costituzione tedesca, ispiratrice e madre di questa riforma, prevede
all’articolo 50 una rappresentanza diversa da quella dei Laender, e ciò anche se
l'ordinamento tedesco prevede anch’esso l’istituzione Comune (Gemeinde) con organi
elettivi, identici a quelli italiani e dunque avrebbe potuto, in ipotesi, allargare la
composizione anche a essi.
Un ulteriore problema è posto dal numero esorbitante di Senatori a vita previsto dal d.d.l.,
ben 21.
Se consideriamo il famoso paradosso dell’elettore, per cui il voto di ciascuno è al contempo
ininfluente o determinante secondo la circostanza, figuriamoci quale potrebbe essere
l’impatto di 21 Senatori su un collegio Senatoriale di 107 loro compresi (22 Presidenti di
Regione e Provincia autonoma, 22 sindaci di capoluogo, due sindaci eletti, 40 consiglieri
regionali, atteso che il testo si riferisce all’elezione solo da parte dei consigli regionali e non
delle provincie autonome, per un totale di 86). Ne ricaviamo anche solo per semplice buon
senso, che un tale numero pari al 20 per cento del totale, inficia ulteriormente la capacità
rappresentativa del Senato, soprattutto se chiamato a svolgere funzioni legislative
costituzionali, aggravando l’incostituzionalità dell’impianto.
La temporaneità della nomina, sia pure oltre la legislatura (sette anni), non risolve questo
problema, ma anzi ne pone un altro. Infatti, limitando la presenza in Senato di un cittadino
che vanti “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” a un periodo
determinato, in realtà si sgancia la sua presenza in Senato dalla medesima causa per cui è
stato nominato, dato che non appare pensabile che i “particolari meriti” vengano meno
dopo sette anni. L’istituto, concepito come occasione di ringraziamento e deferenza della
collettività nei confronti del Senatore, ma anche come occasione d’illustrazione del
medesimo Senato per l’accoglienza tra i suoi ranghi di un così elevato personaggio, si
degrada, così, a una sorta di temporaneo premio morale (atteso che non si parla
d’indennità), un super premio letterario o un Nobel nostrano, con l’aggravante per cui,
poiché non è previsto il divieto di una seconda nomina, s’intacca in radice la necessaria
indipendenza di giudizio e azione nei confronti di un’aspettativa al rinnovo.
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Per incidens, qualunque sia la funzione del Senato, ma a maggior ragione se dovesse
svolgere funzioni legislative di qualsiasi grado, la non estensione ai Senatori delle
guarentigie proprie dei Deputati (art. 68) appare inaccettabile costituzionalmente.
Concludendo sul punto, riteniamo fuori dell’assetto costituzionale:
- l’esclusione delle Regioni dalla partecipazione alla formazione delle leggi statali e la
conseguente limitazione alle sole leggi costituzionali;
- l’attribuzione delle funzioni di revisione costituzionale, se nella composizione e nei
metodi di nomina previsti;
- l’esclusione del suffragio universale ove al Senato siano mantenuti poteri legislativi di
qualunque rango.
- L’esorbitante numero di senatori di nomina presidenziale.
- L’esclusione per i Senatori, sia pure eletti di secondo grado, delle guarentigie parlamentari,
2. sopprimere la funzione concorrente nella legislazione primaria e ridistribuire le materie
della stessa tra Stato e Regioni con la caratteristica dell’esclusività.
A tale scopo, il comma 3 dell’articolo 117 sarebbe abrogato.
Non si creda, però, che la soppressione delle materie di competenza concorrente contenuta
nel nuovo articolo 117 così come proposto dal d.d.l., raggiunga effettivamente l’obiettivo e
determini un sicuro spartiacque tra le competenze esclusive dello Stato e tutto il resto
dell’universo mondo che, secondo il meccanismo della residualità di cui all’articolo 117
comma 3, è di competenza esclusiva delle Regioni. Non ci s’illuda che per questa via non ci
sia modo di individuare interferenze legislative che potrebbero giustificare una
sovrapposizione legislativa nell’approvazione di leggi ordinarie statali.
Già le osservazioni in punto di teoria sopra formulate danno conto del fatto che sussista,
ineliminabile, la necessità di negoziazione tra interessi nazionali e regionali, il che
determina, per così dire in rerum natura, l’esistenza di aree di sovrapposizione e
interferenza nella normazione di tali interessi che nessun tratto di penna potrà eliminare
dalla realtà fattuale.
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Focus Paper, n. 34 – aprile 2014
E a dimostrazione che l’estensore della bozza non poteva sfuggire a questa elementare
verità, il d.d.l. prevede tra le competenze esclusive dello Stato anche la determinazione di:
“norme generali” nelle seguenti materie:
- procedimento amministrativo e rapporto di lavoro pubblico,
- tutela della salute;
- sicurezza alimentare;
- tutela e sicurezza del lavoro;
- istruzione, ordinamento scolastico;
- attività culturali;
- turismo;
- ordinamento sportivo;
- governo del territorio.
L’espressione “norme generali” è praticamente nuova per la costituzione perché
attualmente utilizzata solo nella lettera n) del comma 2 dell’articolo 117 in materia di
competenza esclusiva sull’istruzione. Nell’articolo 117 comma 4 del testo vigente
rinveniamo invece l’espressione “principi generali” la quale esprime il contenuto delle leggi
statali previste dallo stesso comma, logicamente necessarie per l’esercizio della legislazione
concorrente.
A quanto consta, l’unica sentenza della Corte Costituzionale che descriva la distinzione tra
“norme generali” e “principi generali” è la n. 200 del 9 giugno 2009, secondo cui “Le
"norme generali sull'istruzione" sono disposizioni che contribuiscono a delineare la
struttura di base del sistema di istruzione: esse non necessitano di un'ulteriore normazione a
livello regionale, e dunque non possono essere qualificate come espressive di principi
fondamentali della materia dell'istruzione.”
Non ostante ciò, la distinzione tra “principi generali” e “norme generali” non è agevole,
salvo a una prima lettura concludere che nelle materie ove si esercita tale potere generale le
norme statali possano direttamente rivolgersi ai destinatari, senza la mediazione della legge
regionale, ma con prescrizioni generali (?) e quest’ultima non possa, quindi, disporre nello
stesso ambito o contraddire la legge statale anche se limitandosi a coprirne spazi vuoti.
Se così fosse la potestà legislativa regionale ne sarebbe diminuita rispetto all’attualità, con
un sostanziale peggioramento della condizione costituzionale delle Regioni rispetto al
meccanismo delle materie concorrenti.
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Sia quel che sia, è ancora presto per addentrarsi in un’esegesi specifica. Ciò che appare
molto più che probabile è che la legislazione concorrente, nei fatti, sia destinata a rimanere
sia pure rimaneggiata e sotto altro nome, almeno per le materie su citate.
Ciò rafforza il giudizio d’incostituzionalità, sempre nel senso chiarito all’inizio, della
sottrazione al Senato di competenze legislative, almeno in quelle materie ove la medesima
Costituzione nuova riconoscerebbe la sovrapposizione o interferenza.
In conclusione, la soppressione delle materie concorrenti, accompagnata dall’invenzione
delle leggi contenenti “norme generali” non sembra in sé collidere con i principi
fondamentali. Tuttavia, appare foriera di ulteriori complicazioni, ritardi, dichiarazioni
d’incostituzionalità postume e quindi di gravi costi. Da un punto di vista tecnico, l’obiettivo
dovrebbe essere quello di fare chiarezza e non di introdurre nuovi concetti non arati dalla
giurisprudenza costituzionale. Dal punto di vista del tecnico sembrerebbe molto meglio
mantenere l’istituto della legislazione concorrente così come oggi conosciuto, limitandolo
però solo alle materie che il d.d.l. individua come “norme generali”, il che permetterebbe,
anche, di adottare la soluzione di cui parleremo più avanti.
3. Ridurre il costo vivo degli apparati costituzionali
Nessuna obiezione si è levata da alcuno circa la necessità o opportunità di risparmiare sui
costi vivi delle due Camere, obbiettivo strategico quindi comune e da rispettare in pieno.
Occorre però precisare, per affrontare quest’argomento, che la produttività delle nostre
Camere e dei singoli componenti, non ostante ciò che ne pensa la maggioranza degli
italiani, è alta e svolgere il mestiere di parlamentare, anche se ben retribuito, non è
esattamente una passeggiata: tra lavori d’aula, di commissione, riunioni politiche etc., cui si
aggiunge il lavoro politico nel partito o sul territorio che fa parte anch’esso del “mestiere”.
La grande lentezza nella produzione legislativa deriva, in verità, proprio dai ripetuti e
susseguenti livelli di negoziazione. Essa è insita nel sistema, che va dunque riformato, più
che nella buona volontà degli agenti.
Se affrontiamo il problema in un’ottica di analisi economica, non possiamo non osservare
che i parlamentari costituiscono sostanzialmente un fattore di produzione del prodotto
“legge”. I costi dei fattori di produzione devono essere tendenzialmente ridotti per
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garantire il costo marginale inferiore al prezzo/beneficio ma tale esercizio si arresta quando,
a tecnologia invariata, ciò incida negativamente sulla produzione sotto il profilo
quantitativo o qualitativo.
Ribaltando questi banali principi di economia aziendale al prodotto “legge” si rifletta sul
fatto che il prodotto legislativo dovrebbe avere alti standard di qualità, poiché le leggi
malfatte inducono costi di transazione nella loro esecuzione elevatissimi, ancora più elevati
dei costi di produzione.
La riduzione dei costi di produzione, quindi, deve essere compensata dall’innovazione
tecnologica, che nel caso di specie non è rappresentata solo dal miglioramento delle
procedure (ad esempio con l’introduzione dell’informatica) ma anche, e principalmente,
dalla reingegnerizzazione delle stesse, vale a dire, nel caso atipico della funzione legislativa,
tramite il riordino del riparto di competenze tra Camere, l’abolizione del bicameralismo
perfetto, la riduzione dei tavoli di negoziazione, la liberalizzazione di settori sino a oggi
normati legislativamente etc.
La riduzione dei costi del fattore di produzione “parlamentare” passa anche attraverso la
riduzione del loro numero. Ma si deve comunque avere l’accortezza di non esagerare.
Ridurre il numero dei parlamentari e dei funzionari oltre una soglia di equilibrio
costi/ricavi, significa, come accennato, indurre inefficienza e quindi inefficacia dell’azione.
Il numero ottimo dei parlamentari, quindi, non è individuabile a spanne, così perché 945
più sei esteri ci sembrano troppi, ma deve essere pensato in base ad un’analisi seria dei
flussi, cioè degli input e output del sistema, che purtroppo nessuna Camera ha mai osato
fare.
In mancanza di studi seri, quindi, diamo per scontata una drastica riduzione spanno
metrica, con la consapevolezza, però, che un’inefficacia indotta da inefficienza avrebbe
conseguenze sull’assetto costituzionale perché determinerebbe dei vuoti che sarebbero
riempiti surrettiziamente da altri organi costituzionali, rompendo l’equilibrio.
In ultimo, la soppressione di un’autonoma indennità per i Senatori non presenta problemi
di costituzionalità atteso il meccanismo, per quanto da noi criticato, dell’elezione di
secondo grado. Abbiamo avuto modo di accennare ai senatori di nomina, ai quali invece,
l’indennità deve essere corrisposto per non incorrere nella violazione dell’articolo 36 che
dispone la giusta retribuzione per ogni lavoratore, norma applicabile sicuramente a tutti
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coloro che svolgono un qualsiasi lavoro con caratteristiche di prevalenza e sussistenza
anche se in ambito politico.
CONCLUSIONI E PROPOSTE SENZA PRETESE
Gravi perplessità, quindi, solleva l’attuale impianto del d.d.l.
Nel doveroso rispetto degli obbiettivi politici dichiarati, possiamo brevemente suggerire
alcune modifiche, fermo restando, per non apparire proprio sprovveduti e ingenui, che
l’individuazione dell’esistenza di obbiettivi non dichiarati non compete al giurista nel
momento in cui tenta di essere un tecnico indipendente.
Fermo restando, come per noi è costituzionalmente assolutamente fermo, che vi sia
corrispondenza biunivoca necessaria tra un qualsiasi potere legislativo e l’elezione a
suffragio universale, il rispetto del principio di partecipazione sopra analizzato conduce
necessariamente al mantenimento delle due Camere elette a suffragio universale, entrambe
con competenze legislative costituzionali e ordinarie.
Questa soluzione diventa però assai più efficiente (nel rapporto cioè costi benefici) di quella
governativa, se s’introduce la specializzazione delle Camere, oltre all’inevitabile riduzione
del numero complessivo dei parlamentari.
In sostanza ciascuna Camera dovrebbe essere dotata di competenze legislative esclusive.
Non è qui il caso di affrontare funditus la problematica di quale sia il confine tra leggi da
affidare in esclusiva alla Camera o al Senato.
Possiamo però ritenere che la riforma dell’’articolo 117 fornisca uno spunto per la
soluzione del problema.
Infatti, la sostanziale conservazione delle materie che non possiamo più definire
“concorrenti”, ma che non possiamo non chiamare “interferenti”, suggerisce di affidare al
Senato, in maniera esclusiva, solo la formazione di quelle leggi generali di cui si è discorso.
Poiché, come si disse, la legislazione concorrente cacciata dalla porta è rientrata dalla
finestra, proprio le materie sopra citate nelle quali essa continuerà a sussistere, cambiata
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veste e nome, ben potrebbero essere le materie riservate al potere legislativo esclusivo del
Senato che si esplica in norme generali, come reciterebbe la Costituzione.
In tal caso, infatti, in quella sede avverrebbe la negoziazione degli interessi regionali e statali
su materie che, per essere destinate alla regolazione statale generale sicuramente
interferente con quella regionale, richiedono necessariamente una “concorrenza” cioè un
“concorso” nella formazione.
L’affidamento al Senato di tale competenza legislativa da un lato rende protagonisti del
processo legislativo statale ma incidente sul potere regionale, i destinatari stessi delle norme
statali (i cittadini delle Regioni e gli organi regionali) dall’altro soddisfa in pieno il diritto di
partecipazione delle Regioni a quella parte di legislazione statale comunque incidente sulle
loro prerogative costituzionali.
Un opportuno sistema di controllo eventuale e reciproco (per intenderci simile a quello che
la bozza di riforma, copiando la costituzione tedesca, ipotizza per il Senato delle autonomie
ivi proposto, cioè potestà di richiedere modifiche, libertà della Camera di accoglierle,
necessità di maggioranze qualificate in caso di dissenso etc.) può ben realizzare una
negoziazione tra la Camera, quale espressione degli interessi generali nazionali e il Senato,
quale espressione degli interessi regionali, soddisfacendo il requisito costituzionale più volte
citato.
La bozza Chiti, di cui avanti, si muove nella medesima direzione, ma prevede, in tali casi, la
conservazione del bicameralismo, che diviene così imperfetto. E’ un’ulteriore ipotesi, che
però in partenza prevede il costo aggiuntivo delle negoziazioni successive derivanti dal
bicameralismo.
Va da sé che le modifiche costituzionali rimarrebbero a competenza collettiva ex articolo
138.
La composizione del Senato, nella nostra ipotesi, dovrebbe essere fortemente regionalista
prevedendo l’elezione di un numero ristrettissimo di senatori sulla base di un collegio unico
regionale. La scelta del sistema elettorale non è materia costituzionale ma riservata alla
legge. E’ però necessario che la Costituzione indichi un principio non facilmente aggirabile
e questo potrebbe essere, appunto, l’indicazione esplicita del collegio unico.
Non è qui il caso di entrare in dettagli tecnici, ciò che ci preme sottolineare è la necessità di
disancorare l’elezione dei senatori, quanto più possibile, dalle dinamiche politiche a livello
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nazionale accentuando il rapporto di agenzia tra l’intero corpo elettorale regionale e i
senatori. Era già l’obiettivo della Costituzione originaria, in attuazione della quale i sistemi
furono differenziati in proporzionale puro alla Camera e in uninominale al Senato. Le
differenze che il nostro Costituente riteneva così si sarebbero automaticamente verificate
nel bicameralismo perfetto si sono rivelate nella pratica inesistenti sino alla riforma della
legge elettorale della Camera che però ha reso il sistema ingovernabile. Il recupero della
forte differenziazione tra i due sistemi elettorali unita però indefettibilmente alla
specializzazione del Senato, a nostro avviso, potrebbe ridare vigore al disegno originale. In
sintesi si deve puntare a un sistema elettorale senatoriale che segni più marcatamente la
differente rappresentatività d’interessi dei Senatori rispetto ai Deputati.
Quanto alla fiducia, è congruente limitarne la concessione alla Sola Camera. Il Governo,
infatti, risponde allo Stato Comunità rappresentato dai Deputati della Camera eletti a
suffragio universale e su base nazionale. Se si adotta un sistema elettorale per il Senato
fortemente regionalistico, come da noi ipotizzato, la sommatoria dei senatori se da un lato
sarebbe idonea alla rappresentazione differenziata degli interessi regionalistici nella
formazione delle leggi di competenza esclusiva e costituzionali, dall’altro, proprio per tale
motivo, non apparirebbe idonea a stabilire un rapporto di fiducia tra l’intero corpo
elettorale e il Governo dello Stato.
E’ altrettanto pacifico che la sommatoria dei Deputati e Senatori dovrebbe essere in tal
caso pari a 630, distribuiti in 100 e 530. Com’è ovvio è anche questo un numero puramente
casuale, che ha il solo pregio di raggiungere il medesimo risultato di risparmio previsto nella
bozza di riforma.
Si osservi per completezza che l’articolo 56 della Costituzione non risulterebbe modificato,
e dunque sarebbero mantenuti i dodici deputati della circoscrizione estero, mentre l’articolo
57 sul senato sarebbe completamente modificato, eliminando i senatori esteri. Ma ciò
contrasta con l’articolo 48, inalterato, che prevede l’istituzione di una circoscrizione estero
per l’elezione “delle camere” cioè di entrambe. Si tratta probabilmente di un errore di
coordinamento che comunque dovrà essere corretto.
Da un punto di vista di analisi economica del diritto, la soluzione ripartita si appalesa come
più efficiente di una soluzione puramente abolizionista in tutto o in parte, come nel d.d.l..
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Essa, infatti, a costi degli apparati invariati, unisce la virtuosità della Camera unica, con la
suddivisione del lavoro legislativo, assicurando, quindi, maggiore specializzazione e
soprattutto maggiore aderenza alla negoziazione d’interessi su base nazionale (la Camera) o
regionalistica (il Senato), ovviamente in funzione della corretta individuazione delle diverse
sfere legislative. I costi di transazione, quindi, sono destinati in tal modo a ridursi
drasticamente affiancandosi alla riduzione dei costi vivi già cennata.
Si consideri, infatti, che la negoziazione bi ripartita in due organi negoziatori determina
minori costi perché suddivide le materie, e quindi le occasioni di negoziazione, tra due
tavoli indipendenti. Ciò impedisce le negoziazioni super collettive, allargate a molti soggetti
e oggetti. I costi di transazione, infatti, aumentano più che proporzionalmente
all’aumentare dei soggetti negoziatori e delle materie da negoziare, perché tale aumento
permette un maggiore incrocio e mediazione d’interessi. Infatti, l’accentramento in un
unico luogo virtuale (ecco il mercato delle leggi) permette lo scambio o l'interdizione
reciproca su molti più oggetti di quanto si avrebbe se i luoghi di negoziazione fossero
separati. L’equilibrio, quindi, si raggiunge a livelli più bassi, cioè più lontani dal risultato
economicamente vantaggioso per tutti i contraenti, di quanto si troverebbe ove gli oggetti
di contrattazione contemporaneamente in gioco fossero meno numerosi. I costi, in sintesi,
aumentano in maniera più che proporzionale a causa dell’interazione a rete più complessa.
Senza dire che il sistema elettorale del Senato necessariamente garantisce solo la presenza
dei maggiori schieramenti, quindi un numero minore di negoziatori e d’interessi
rappresentati rispetto alla Camera ove il sistema elettorale determina invece, se
auspicalmente non frammentazione, certamente un numero maggiore di partiti minori che
però partecipano anch’essi alla negoziazione condizionandola e aumentandone i costi.
Invariato rispetto all’attuale testo costituzionale dovrebbe restare il numero attuale dei
Senatori a vita (cinque).
Solo un accenno alla bozza di riforma Chiti, Albano e altri. Essa si muove nella medesima
ottica da quella qui proposta anche se con radicali differenze interne.
Senza entrare nel merito delle disposizioni e delle relative complicazioni necessarie per far
funzionare il sistema ipotizzato da tale proposta di legge, basterà osservare che essa lascia
l'elezione a suffragio universale, riduce a 315 i Deputati e a 100 i Senatori più sei esteri,
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specializza le Camere, anche se in senso del tutto diverso da quanto sopra ipotizzato.
Prevede, infatti, una serie di leggi, legate a materie previamente individuate, per le quali la
funzione legislativa è esercitata collettivamente, mentre riserva alla specializzazione della
Camera tutte le altre materie.
Il bicameralismo, quindi, rimane sia pure in maniera imperfetta.
Dal punto di vista dei costi di transazione, riteniamo che i risultati siano più costosi rispetto
all’ipotesi da noi proposta, a causa del mantenimento del bicameralismo perfetto in un
congruo numero di materie, anche se comunque inferiori a quelli ipotizzati dalla bozza
governativa.
La ultima verità, a nostro avviso, è che nel riformare i meccanismi di negoziazione delle
scelte pubbliche non ci si dovrebbe affidare all’improvvisazione o all’imitazione o alle vuote
parole d’ordine, ma a una seria analisi d’impatto della regolazione costituzionale e a uno
studio dei flussi di produzione normativa. Ma poiché ciò suona alle orecchie di chi ignora la
materia come una manovra puramente dilatoria, allora avanti così, e che lo Stellone d’Italia
ci protegga!
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CHI SIAMO
Il Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche nasce dalla collaborazione tra la Fondazione
Novae Terrae ed il Centro Cattolico Liberale al fine di favorire l’incontro tra studiosi
dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storico inglese Lord Acton, nonché
di cultori ed accademici interessati alle tematiche filosofiche, storiografiche,
epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche e culturali, avendo come riferimento la
prospettiva antropologica ed i principi della Dottrina Sociale della Chiesa.
PERCHÈ TOCQUEVILLE E LORD ACTON
Il riferimento a Tocqueville e Lord Acton non è casuale. Entrambi intellettuali cattolici,
hanno perseguito per tutta la vita la possibilità di avviare un fecondo confronto con quella
componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo, utilitarismo e
materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni con quelle tipiche del
pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana.
MISSION
Il Centro, oltre ad offrire uno spazio dove poter raccogliere e divulgare documentazione
sulla vita, il pensiero e le opere di Tocqueville e Lord Acton, vuole favorire e promuovere
una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi della concorrenza, dello
sviluppo economico, dell'ambiente e dell'energia, delle liberalizzazioni e delle
privatizzazioni, della fiscalità e dei conti pubblici, dell'informazione e dei media,
dell'innovazione scientifica e tecnologica, della scuola e dell'università, del welfare e delle
riforme politico-istituzionali.
Oltre all'attività di ricerca ed approfondimento, al fine di promuovere l'aggiornamento della
cultura italiana e l'elaborazione di public policies, il Centro organizza seminari, conferenze
e corsi di formazione politica, favorendo l'incontro tra il mondo accademico, quello
professionale-imprenditoriale e quello politico-istituzionale.
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