de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.01 Pagina 5 VISIONI METROPOLITANE a cura di Pina De Luva de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.01 Pagina 4 © 2010 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA via Comelico, 3 – 20135 Milano http://www.guerini.it e-mail: [email protected] Prima edizione: maggio 2014 Ristampa: V IV III II I 2014 2015 2016 2017 2018 Copertina di Giovanna Gammarota Printed in Italy ISBN 978-88-6250-547-5 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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Sono molti i motivi, credo, per cui la citazione da Madame Bovary può reggere un tale compito, d’altronde circoscritto a un paio di esempi. Come prendere quest’analogia tra forme discorsive e forme urbane, tra l’urbanitas, maniera di dire e di essere, e l’urbanità, intesa come maniera di progettare e creare spazi cittadini, come, insomma, modellizzazione urbanistica? Se fondata tutta su un dato storico, sarebbe inutile, perché poco o niente c’è in comune tra il pavimento della Federal Plaza di New York agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso – di cui mi occuperò – e il marciapiede evocato da Flaubert nel 1856, neanche da una ventina d’anni entrato nelle abitudini dei suoi concittadini, sebbene evocato sin dalla fine del Settecento2. Altrettanto vano sarebbe accostare le forme di vita metropolitane in via d’industrializzazione nel Secondo Impero e quelle «liquide» della post-modernità. Da un lato, il borghese, impegnato in «attività multiple», dalle energie della passione alle raffinatezze della vita, e motivato da una «curiosità» mondana, caratterizzata – Flaubert lo diagnostica con precisione – da un impasto tra eccitazione sensoriale e ambizione sociale; dall’altro, l’ordinary Man, impiegato nei tanti uffici amministrativi e investigativi della sicurezza nazionale e del FBI nell’imponente Jacob K. Javits Federal Office Building, realizzato al1 G. Flaubert, Madame Bovary (1856), in Id., Œuvres, éd. A. Thibaudet et R. Dumesnil, Gallimard, Paris 1951, t. I, p. 362. 2 L.S. Mercier, Tableaux parisiens (1781-1798), éd. J.-C. Bonnet, Mercure de France, Paris 1994, t. I, pp. 1202 sgg. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 66 66 la fine degli anni Sessanta e completato nel 1977 in una piazza della città che non dorme mai, come cantava Sinatra nello stesso anno, ma neanche dimentica gli orrori del Vietnam e gli scandali del Watergate. La storia e la sua complessità sociale e politica incarnata nella cultura fa da correttivo per un’interpretazione delle esperienze e degli usi dei luoghi urbani, come quella suggerita qui da Flaubert, che stabilisce un’analogia tra le forme del parlare e quelle dell’abitare, tra gli stili del comunicare e quelli del camminare, insomma tra gli usi del linguaggio ordinario e le pratiche della vita quotidiana. Non per nulla introdotta proprio paragonando Parigi e New York, un’analogia siffatta tra la pragmatica della vita urbana e la retorica pedonale è proposta da Michel de Certeau3 in pagine famose e ancora affascinanti, nel 1980 – e intorno a quest’anno ruotano gli esempi e i testi di cui brevemente mi occuperò. Per il gesuita francese, il camminare è uno spazio d’enunciazione, giacché si realizza in un equilibrio instabile e dinamico tra riappropriazioni performative di spazi già disciplinati collettivamente e negoziazioni pragmatiche, che modalizzano sempre di nuovo i rapporti con altri soggetti e con i tanti oggetti con cui hanno a che fare. Ovviamente, tali rapporti con cose e persone sono già connotati da modelli sociali e da usanze culturali, come già aveva mostrato la micro-etnologia di Goffman, e anche il processo di soggettivazione, la maniera di sentire, credere e fare negli ambienti urbani. L’esempio flaubertiano può in questo essere illuminante: a Charles, che non è né un dandy né un flâneur, quello che manca, sia nel parlare, sia nell’abitare lo spazio pubblico, è uno stile. Non possiede, cioè, un trattamento singolare, originale e inventivo del simbolico, che gli permetta, però, non solo di distinguersi rispetto a un uso consolidato di un codice culturale dato in un certo contesto e, così, di creare e incarnare un modello degno del rispetto, dell’emulazione, dell’invidia e di altri sentimenti sociali, ma anche, e soprattutto, di appropriarsi dei comportamenti, delle conoscenze e dei gusti, insomma dei modi di fare indispensabili per appartenere a una comunità riconosciuta nella sfera pubblica. 3 M. de Certeau, L’invention du quotidien. I. arts de faire (1980), nouv. éd. L. Giard, Gallimard, Paris 1990, pp. 139-165. Cfr. M. Sheringham, Everyday Life: Theories and Practices from Surrealism to the Present, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 221-227. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 67 67 Fare muro, fare senso Questa dialettica tra usi, stile e dinamiche identitarie è al cuore del dibattito sull’arte pubblica e sull’architettura, e particolarmente intorno all’esempio, assai noto e paradigmatico, cui ho già vagamente accennato. Si tratta di un’opera site-specific commissionata dalla General Services Administration (GSA), nel quadro dell’Art-in-Architecture Program nel 1979 a Richard Serra. Realizzata nel 1981, è stata smantellata nel marzo del 1989 dopo un processo e una polemica molto aspra, paragonabile a quella sull’Oiseau dans l’espace tra Brancusi e il governo degli Stati Uniti nel 1927 – guarda un po’, sempre a New York –; questa vicenda è un buon banco di prova per avvicinarsi alle questioni contemporanee tra diritto, censura, iconoclastia e ontologia dell’opera d’arte e degli oggetti sociali4. Quasi una sottile lama leggermente incurvata, in acciaio Cor-ten grezzo, lunga trentasei metri, alta tre e mezzo, spessa solo venticinque centimetri, Tilted arc tagliava, perpendicolarmente rispetto lo Javits Building, l’intera Federal Plaza, dividendola – almeno secondo le opinioni degli abitanti e degli impiegati raccolte fino all’ottenimento della rimozione – in due spazi separati, impedendo la vista e ostruendo l’accesso alla fontana. I detrattori tiravano in ballo principalmente l’uso, la storia e la percezione abituale del sito, ma anche la fruizione estetica dell’artefatto, finalmente mal fatto: la lunga parete in Cor-ten si era infatti velocemente ossidata e arrugginita. Se questo stato avrebbe potuto essere compatibile con quei segni dell’azione naturale del tempo che Alois Riegl5 avrebbe forse repertoriato come © Edizioni Angelo Guerini e Associati 4 Entrambi gli atti processuali sono pubblicati: Brancusi contre les ÉtatsUnis: un procès historique, 1928, tr. J. de Pass, con scritti di M. Rowell e A.Paleologue, Adam Biro, Paris 1995; cfr. N. Heinich, «‘C’est un oiseau!’ Brancusi vs Etas Unis, ou quand la loi définit l’art», Droit et Société, 34, 1996, pp. 649672; Public Art/Public Controversy: The Tilted Arc on trial., ACA Books, New York 1987; Tilted Arc: Chronology, Correspondence & Documents Preceding the Public Hearing, the Public Correspondence and Documents, Subsequent to the Public Hearing, Van Abbemuseum, Eindhoven 1988; C. Weyergraf-Serra, M. Bushkirk (eds.), The Destruction of Tilted Arc: Documents, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991; cfr. D. Gamboni, The Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism since the French Revolution, Reaktion Books, London 1997, pp. 155-164. 5 In Il culto moderno dei monumenti, del 1903. Un’«estetica della ruggine» di Tilted arc compare in uno dei più influenti e meditati detrattori dell’opera, A.C. Danto, in Richard Serra (1985), poi in Id., The State of the Art, Prentice Hall Press, New York 1987, p. 178 – ma cfr. «Tilted Arc and Public Art» (1986), ibid., pp. 90-94 – e in «Art-in Response» (1993), poi in Id., Philosophizing Art. Selected Essays, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2011, p. 40. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 68 68 Alterswert, come «valore d’antichità» in quanto invecchiamento e degrado materiale di un manufatto artistico, nella realtà, invece, si è distinto tale aspetto da un valore d’antichità propriamente detto, degno di attenzione e in grado di legittimarne un valore monumentale, insieme artistico e storico, e lo si è comunque avvertito come inadatto a qualsiasi elemento architettonico o d’arredo urbano, insomma come senza valore di attualità, d’uso o artistico, relativo al momento storico e locale. Per non parlare dei graffiti e altre imbrattature o sporcizie, davvero lontani da quanto di norma ci si aspetta da un’opera d’arte e da un monumento, o che si reputa decoroso o funzionale in un’architettura e in un elemento urbano. Tilted arc è così apparso come un inamovibile e inutilizzabile relitto di archeologia industriale; almeno a non pochi dei suoi denigratori, che in tal modo traducevano, forse senza saperlo, uno degli elementi principali della poetica della scultura astratta del Minimalismo, paradossalmente accusata di essere ormai assimilata alla cultura istituzionale proprio per l’impiego di materiali industriali. Stilema abituale degli artisti da quasi due decenni, tale uso è stato infatti interpretato come sintomo di una separazione elitaria tra opera d’arte e oggetti quotidiani e di un’esclusione individualista imposta dall’artista alle competenze percettive ed ermeneutiche dello spettatore ordinario, intimidito dalla refrattarietà dei materiali e dalla freddezza delle forme geometriche, finalmente bloccato alla loro tautologia e non familiarità6. Serra7, quanto a lui, insiste sulla specificità aspettuale della scultura e la dinamica da essa attivata, non ancorata a un punto di vista spettatoriale statico e fisso, ma relativa alla mobilità del corpo del visitatore in relazione al sito: Tilted arc è stato costruito per la gente che cammina e attraversa la piazza, per un osservatore in movimento […] così da impegnare il pubblico in un dialogo che potrebbe migliorare, sia percettualmente, sia concettualmente, la sua relazione con l’intera piazza. La scultura coinvolge ra6 Per una lettura gender, che elogia le forme accoglienti e femminili di un’opera spesso contrapposta a Tilted arc, il coevo Vietnam War Memorial di Maya Lin a Washignton, cfr. A.C. Chave, «Minimalism and the Rhetoric of Power», Arts Magazine, January 1990, vol. 64, n. 5, pp. 44-63, e già E. Hess, «A Tale of Two Memorials», Art in America, April 1983, vol. 71, n. 4, pp. 121-128. 7 Così l’artista nel 1985, cit. in A. Zweite, «Evidence and Experience of Self. Some Spatially Related Sculptures by Richard Serra», in E.-G. Guse (eds.), Richard Serra, Rizzoli, New York 1987, pp. 22-23. Cfr. R. Serra, «Tilted Arc Destroyed» (1989), in Id., Writings/Interviews, University of Chicago Press, Chicago 1994, p. 202. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 69 69 zionalmente ed emozionalmente. Una moltitudine di letture è possibile… Lo spettatore diventa consapevole di se stesso e del suo movimento attraverso la piazza. Come lui si muove, la scultura cambia. La contrazione e l’espansione della scultura sono l’effetto del movimento dello spettatore. Passo dopo passo, la percezione, non solo della scultura ma dell’intero ambiente, cambia. È forse esagerato dire, come è stato più volte fatto, che si tratta di una descrizione «strettamente fenomenologica» dell’«esperienza scultorea puramente astratta»8; è più corretto assumere questa e altre affermazioni simili come una dichiarazione di poetica, che cerca di illustrare gli effetti sul pubblico e la sua relazione coll’opera e lo spazio nella sua totalità. L’esperienza in gioco, non solo individuale ma collettiva, anzi: plurale, è certo corporea e sensibile, ma anche emotiva ed esistenziale, simbolica, conoscitiva e critica, capace insomma di una «ristrutturazione» (il termine è di Serra) complessiva del sito. D’altronde, parlare di «letture molteplici» sempre possibili e aperte, significa non solo ricorrere a un’ambiguità di un modo di dire del linguaggio ordinario per indicare un’inesauribilità del senso, presunta e auspicata dall’artista, ma anche rimandare alla mediazione di un regime ottico tecnico e di un sistema notazionale specifico. Significa, in altri termini, mettere accanto alle pratiche dal basso di una visibilità parziale e volumetrica, ravvicinata e tattile, le finzioni della visione planimetrica e del disegno urbano dello spazio visto, o fotografato9, dall’alto, a distanza e lineare, astratto e scritto. Significa, finalmente, mediare tra i modi di abitare sensibili e le costruzioni visive e segniche dello spazio, creare cioè un medium differenziale tra le figure del corpo e le forme dell’oggetto e del testo, tra stili somatici e codici plastici e semiotici, tra pratiche, ripetute e differenti, di manufatti fisici, identici e statici, scultorei e architettonici, e scritture, astratte e leggibili10. © Edizioni Angelo Guerini e Associati 8 R. Storr, «‘Tilted Arc’: Enemy of the People?», Art in America, September 1985, vol. 73, n. 9, pp. 90-97. Cfr. M. Kwon, One Place after Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2004, pp. 11 ss, e, su Tilted arc, pp. 72-83. 9 Paradigmatica la critica di Serra alle immagini fotografiche o cinematografiche dall’alto di Spiral Jetty, di Robert Smithson, del 1970; cfr. «Richard Serra’s Urban Sculpture. Interview by Douglas Crimp» (1980), in R. Serra, Writing/Interviews, cit., p. 129. Una critica alla «vue plongéante» è in de Certeau (L’invention du quotidien. I, cit., pp. 140 sgg.) e nei corsi al Collège de France del 1981-1982 di Foucault (Herméneutique du sujet, éd. F. Ewald, A. Fontana, F. Gros, Gallimard-Seuil, Paris 2001, pp. 265 sgg.). 10 «Medium-differential» è definizione di Hal Foster, «The Un/making of Sculpture», in R. Ferguson, A. McCall, C. Weyergraf-Serra (eds.), Richard de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 70 70 Fuori luogo La consapevolezza corporea del movimento intorno alla scultura pubblica, messa da Serra in primo piano, ne ribalta e riformula un’altra, forse meno nota al pubblico distratto che si trova a passarle accanto per andare al lavoro o a casa, non sempre informato dei fatti del mondo dell’arte: quella statica e contemplativa del sublime pittorico dell’Espressionismo astratto. La valenza critica del site-specific si oppone innanzitutto alla specificità e all’autosufficienza – idealista e ideologica11 – del medium pittorico e scultoreo modernista, sia sul piano fenomenologico, sia su quello istituzionale. A David Sylvester, nel 1965, a proposito di Vir Heroicus Sublimis (1950-1951), Barnett Newman aveva detto che «il dipinto dovrebbe dare all’uomo il senso del luogo: che egli sappia di esser là, così da esser consapevole di se stesso […] di aver il senso della [propria] dimensione. […] È quello che ho cercato di fare: che lo spettatore di fronte al mio quadro sa di essere là»12. In un’altra occasione, ribadito che chiunque, stando di fronte i suoi dipinti, deve sentirne la verticalità come un soffitto a vòlta che lo ingloba e risveglia in lui «una consapevolezza del suo esser vivo» e l’«unica reale sensazione dello spazio», Newman afferma che questo è il contrario del «creare un ambiente». L’accostamento, appena suggerito, tra Serra e Newman, non illustra allora solo la differenza tra la tridimensionalità scultorea e architettonica e la bidimensionalità pittorica, ma indica quanto Modernismo e Minimalismo vogliono essere anti-environemental, contro l’ambiente. La scala, la dimensione, sono gli elementi comuni di tale iconologia del sublime: le zip verticali di Newman e le pareti in Cor-ten di Serra: Sculpture 1985-1998, Museum of Contemporary Art-Steidl Verlag, Los Angeles-Göttingen 1998, p. 14. Riprendo Rosalind Krauss – «la specificità del sito non è l’oggetto dell’opera, ma – nella sua articolazione del movimento orientato del corpo dello spettatore – ne è il medium» – e Hans Belting – la propriocezione come condizione di possibilità d’invenzione dei media artificiali esterni. Cfr. R. Krauss, «Richard Serra Sculpture», in Id. (ed.), Richard Serra: Sculptures, MoMa, New York 1986, p. 37, e H. Belting, «Immagine, medium, corpo: un nuovo approccio all’iconologia» (2005), in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie delle immagini, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 77 ss. 11 Cfr. D. Crimp, On the Museum’s Ruins, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1993, pp. 17 ss.. 12 B. Newman, «Interview by David Sylvester» (1965), in Barnett Newman: Selected Writings and Interviews, ed. J.P. O’Neill, Berkeley, University of California Press, 1990, pp. 257 ss.; cfr. R. Serra, «An Interview by Peter Eisenman» (1983), in Id., Writings/Interviews, cit., p. 145. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 71 71 Serra non sono gigantesche, ma colossali. Solo che Vir Heroicus Sublimis raffigura senza i limiti pittorici della figurazione ed ha un contenuto profondo – la specificità del medium pittorico e il «fatto metafisico» della differenza di taglia dello spettatore in quanto uomo in generale13 –, mentre Tilted arc marca invece una cesura e una crisi, è un taglio14 nella superficie urbana data, incide una ferita nello spazio pubblico storicamente e politicamente determinato, e si pone così come condizione materiale negativa per un fuori misura e uno scarto, per un’invenzione e una condotta sensibile ravvicinata e in dettaglio, insomma per uno stile estetico critico nei confronti della coerenza e della totalità aspettuale e simbolica, pianificata e disciplinata, del sito. Sia la discontinuità percettiva tra arte e architettura, sia l’interruzione pragmatica tra scultura site-specific e contesto, entrambe spiacevoli e insoddisfacenti in termini di relazioni estetiche e strumentali, mostrano i limiti, le differenze e le contraddizioni sociali, politiche, ideologiche, di Federal Plaza. La scultura è dunque come una presa di parola parresiasta (Krzysztof Wodiczko), prende spazio contro il luogo, qui contro l’architettura e il disegno urbano. Serra è un facitore e marcatore di un «anti-ambiente»; prende posizione, dispone l’opera dislocandone le condizioni materiali e immateriali di esperienza: «Penso – afferma – che la scultura, se ha un qualche potenziale, è quello di creare il suo proprio luogo e il suo proprio spazio, e, in questo senso, lavorare in contraddizione con gli spazi e i luoghi dov’è stata creata»15. Si sbaglierebbe però a considerare tale instaurazione solo negati- © Edizioni Angelo Guerini e Associati 13 B. Newman, «Interview by David Sylvester», cit. In chiave transtorica e transculturale Danto, che sto qui parafrasando, evoca a questo proposito addirittura il Dasein heideggeriano; cfr. A.C. Danto, L’abuso della bellezza, (2003), tr. it. di C. Italia, Postmediabooks, Milano 2008, pp. 176 sgg. All’opposto dello sforzo percettivo e dell’esercizio critico cui Tilted arc costringe, è quanto afferma sul Vietnam Veterans Memorial Maya Lin (Boundaries, Simon & Schuster, New York 2000, p. 2: 03): «ogni mio lavoro trova la sua origine nel semplice desiderio di rendere la gente consapevole dell’ambiente tutt’intorno, non solo del mondo fisico ma anche di quello psicologico in cui viviamo. […] Creo spazi in cui pensare, senza provare a imporre cosa pensare […] Ancora più significativi sono per me quei lavori focalizzati sui puri livelli estetici dell’esperienza, che invitano lo spettatore a entrare, che gli chiedono di notare un cambiamento in una forma, un colore, o una luce». 14 Su «taglia» e «taglio», «fuori taglia» e «dettaglio», rimando alle pagine di Jacques Derrida sul colossos, in La vérité en peinture, Flammarion, Paris 1978, e Glas, Galilée, Paris 1974. 15 R. Serra, «Rigging. An Interview by Clara Weyergraf-Serra» (1980), in Id., Writings/Interviews, cit., p. 171. de luca 1_Layout 1 09/05/14 10.03 Pagina 72 72 va o distruttrice in senso triviale, non dialettico: l’opera d’arte pubblica è all’opera perché fa differenza nella sfera pubblica là dove è e non altrove, perché è polemicamente all’opera nella polis; anti-monumentale16 e, dunque, intransitiva, non significa niente – non è dunque un testo17 – senza essere però auto-referenziale, costringe anzi sensibilmente alla sensatezza. Se, come Serra stesso affermò, rimuoverla equivale a distruggerla, questo non riguarda né la sua esistenza materiale, né il suo statuto autoriale, ma il suo differire esteticamente – alla percezione e al discorso – dalle istituzioni storiche sia del mondo dall’arte – in quanto oggetto di una relazione aspettuale contemplativa specifica –, sia da quello della vita ordinaria – in quanto architettura, oggetto e luogo di un rapporto strumentale. Né site-dominant, né site-determined o site-adjusted 18, determinata o adattata al sito fisico, ai suoi usi, sentimenti e credenze, insomma all’habitus che retoricamente implica e induce, condizione di possibilità dell’opera e della sua esistenza è il suo essere e far essere poieticamente e pubblicamente fuori luogo e fuori taglia, far cioè abitare ogni giorno criticamente e creativamente sia lo spazio vissuto, fenomenologico, sia il luogo messo in discorso, istituzionale. 16 «Quando guardiamo queste opere, ci è chiesto di prestare una qualche credenza alla nozione di monumento? Non si riferiscono affatto alla storia dei monumenti. Non memorializzano nulla. Si riferiscono alla scultura e a niente di più. Non ci chiedono a gran voce di essere chiamati monumenti. Una curva in acciaio non è un monumento». Così in «Richard Serra’s Urban Sculpture. Interview by Douglas Crimp», cit., p. 135; l’intervistatore evoca i «counter-Monuments» e i «non-uments» di Matta-Clark. 17 Di «natura testuale dell’arte memoriale (di tutta l’arte, quando è tale)» parla invece A.C. Danto, «The Vietnam Veterans Memorial» (1985), in Id., The Wake of Art: Criticism, Philosophy, and the Ends of Taste, ed. G. Horowitz, T. Huhn, G + B Art International, Amsterdam 1988, pp. 154, 156. 18 R. Irwing, Being and Circumstance: Notes Toward a Conditional Art, Lapis Press, San Francisco 1985, pp. 25 sgg. Sulla struttura entimematica dell’arte pubblica, manchevole in Titled arc, insiste Arthur Danto, cfr. F. Fimiani, «Il pubblico trasfigurato. Retoriche delle forme di vita ordinarie», in G. Matteucci, M. Prontera (a cura di), La natura delle emozioni, Mimesis, Milano 2014, pp. 171-188.
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