VISIONI METROPOLITANE a cura di Pina De Luva

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VISIONI METROPOLITANE
a cura di Pina De Luva
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© 2010 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA
via Comelico, 3 – 20135 Milano
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Prima edizione: maggio 2014
Ristampa:
V IV III II I
2014 2015 2016 2017 2018
Copertina di Giovanna Gammarota
Printed in Italy
ISBN 978-88-6250-547-5
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FATTO COI PIEDI. USI E STILI DI UN LUOGO PUBBLICO
Filippo Fimiani
© Edizioni Angelo Guerini e Associati
La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, e le idee di
tutti vi sfilavano nei loro abiti di tutti i giorni, senza eccitare emozione,
riso, o fantasia1.
Questa considerazione del narratore, affibbiata al medico di campagna ben al disotto dell’arte della conversazione mondana e della seduzione intima ambite e desiderate dalla moglie Emma, può farci da
viatico a una riflessione su esperienza estetica, arte pubblica e monumentalità. Sono molti i motivi, credo, per cui la citazione da Madame
Bovary può reggere un tale compito, d’altronde circoscritto a un paio
di esempi.
Come prendere quest’analogia tra forme discorsive e forme urbane, tra l’urbanitas, maniera di dire e di essere, e l’urbanità, intesa come maniera di progettare e creare spazi cittadini, come, insomma,
modellizzazione urbanistica? Se fondata tutta su un dato storico, sarebbe inutile, perché poco o niente c’è in comune tra il pavimento
della Federal Plaza di New York agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso – di cui mi occuperò – e il marciapiede evocato da Flaubert
nel 1856, neanche da una ventina d’anni entrato nelle abitudini dei
suoi concittadini, sebbene evocato sin dalla fine del Settecento2. Altrettanto vano sarebbe accostare le forme di vita metropolitane in
via d’industrializzazione nel Secondo Impero e quelle «liquide» della post-modernità. Da un lato, il borghese, impegnato in «attività
multiple», dalle energie della passione alle raffinatezze della vita, e
motivato da una «curiosità» mondana, caratterizzata – Flaubert lo
diagnostica con precisione – da un impasto tra eccitazione sensoriale e ambizione sociale; dall’altro, l’ordinary Man, impiegato nei tanti
uffici amministrativi e investigativi della sicurezza nazionale e del FBI
nell’imponente Jacob K. Javits Federal Office Building, realizzato al1
G. Flaubert, Madame Bovary (1856), in Id., Œuvres, éd. A. Thibaudet et
R. Dumesnil, Gallimard, Paris 1951, t. I, p. 362.
2 L.S. Mercier, Tableaux parisiens (1781-1798), éd. J.-C. Bonnet, Mercure
de France, Paris 1994, t. I, pp. 1202 sgg.
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la fine degli anni Sessanta e completato nel 1977 in una piazza della
città che non dorme mai, come cantava Sinatra nello stesso anno,
ma neanche dimentica gli orrori del Vietnam e gli scandali del
Watergate.
La storia e la sua complessità sociale e politica incarnata nella cultura fa da correttivo per un’interpretazione delle esperienze e degli
usi dei luoghi urbani, come quella suggerita qui da Flaubert, che stabilisce un’analogia tra le forme del parlare e quelle dell’abitare, tra
gli stili del comunicare e quelli del camminare, insomma tra gli usi
del linguaggio ordinario e le pratiche della vita quotidiana.
Non per nulla introdotta proprio paragonando Parigi e New
York, un’analogia siffatta tra la pragmatica della vita urbana e la retorica pedonale è proposta da Michel de Certeau3 in pagine famose e
ancora affascinanti, nel 1980 – e intorno a quest’anno ruotano gli
esempi e i testi di cui brevemente mi occuperò. Per il gesuita francese, il camminare è uno spazio d’enunciazione, giacché si realizza in
un equilibrio instabile e dinamico tra riappropriazioni performative
di spazi già disciplinati collettivamente e negoziazioni pragmatiche,
che modalizzano sempre di nuovo i rapporti con altri soggetti e con
i tanti oggetti con cui hanno a che fare. Ovviamente, tali rapporti
con cose e persone sono già connotati da modelli sociali e da usanze
culturali, come già aveva mostrato la micro-etnologia di Goffman, e
anche il processo di soggettivazione, la maniera di sentire, credere e
fare negli ambienti urbani.
L’esempio flaubertiano può in questo essere illuminante: a Charles, che non è né un dandy né un flâneur, quello che manca, sia nel
parlare, sia nell’abitare lo spazio pubblico, è uno stile. Non possiede,
cioè, un trattamento singolare, originale e inventivo del simbolico,
che gli permetta, però, non solo di distinguersi rispetto a un uso consolidato di un codice culturale dato in un certo contesto e, così, di
creare e incarnare un modello degno del rispetto, dell’emulazione,
dell’invidia e di altri sentimenti sociali, ma anche, e soprattutto, di
appropriarsi dei comportamenti, delle conoscenze e dei gusti, insomma dei modi di fare indispensabili per appartenere a una comunità riconosciuta nella sfera pubblica.
3
M. de Certeau, L’invention du quotidien. I. arts de faire (1980), nouv. éd. L.
Giard, Gallimard, Paris 1990, pp. 139-165. Cfr. M. Sheringham, Everyday Life:
Theories and Practices from Surrealism to the Present, Oxford University Press,
Oxford 2006, pp. 221-227.
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Fare muro, fare senso
Questa dialettica tra usi, stile e dinamiche identitarie è al cuore del
dibattito sull’arte pubblica e sull’architettura, e particolarmente intorno all’esempio, assai noto e paradigmatico, cui ho già vagamente
accennato. Si tratta di un’opera site-specific commissionata dalla General Services Administration (GSA), nel quadro dell’Art-in-Architecture Program nel 1979 a Richard Serra. Realizzata nel 1981, è stata smantellata nel marzo del 1989 dopo un processo e una polemica molto
aspra, paragonabile a quella sull’Oiseau dans l’espace tra Brancusi e il
governo degli Stati Uniti nel 1927 – guarda un po’, sempre a New
York –; questa vicenda è un buon banco di prova per avvicinarsi alle
questioni contemporanee tra diritto, censura, iconoclastia e ontologia dell’opera d’arte e degli oggetti sociali4.
Quasi una sottile lama leggermente incurvata, in acciaio Cor-ten
grezzo, lunga trentasei metri, alta tre e mezzo, spessa solo venticinque centimetri, Tilted arc tagliava, perpendicolarmente rispetto lo Javits Building, l’intera Federal Plaza, dividendola – almeno secondo le
opinioni degli abitanti e degli impiegati raccolte fino all’ottenimento della rimozione – in due spazi separati, impedendo la vista e
ostruendo l’accesso alla fontana. I detrattori tiravano in ballo principalmente l’uso, la storia e la percezione abituale del sito, ma anche la
fruizione estetica dell’artefatto, finalmente mal fatto: la lunga parete
in Cor-ten si era infatti velocemente ossidata e arrugginita. Se questo
stato avrebbe potuto essere compatibile con quei segni dell’azione
naturale del tempo che Alois Riegl5 avrebbe forse repertoriato come
© Edizioni Angelo Guerini e Associati
4
Entrambi gli atti processuali sono pubblicati: Brancusi contre les ÉtatsUnis: un procès historique, 1928, tr. J. de Pass, con scritti di M. Rowell e A.Paleologue, Adam Biro, Paris 1995; cfr. N. Heinich, «‘C’est un oiseau!’ Brancusi vs Etas Unis, ou quand la loi définit l’art», Droit et Société, 34, 1996, pp. 649672; Public Art/Public Controversy: The Tilted Arc on trial., ACA Books, New York
1987; Tilted Arc: Chronology, Correspondence & Documents Preceding the Public
Hearing, the Public Correspondence and Documents, Subsequent to the Public Hearing, Van Abbemuseum, Eindhoven 1988; C. Weyergraf-Serra, M. Bushkirk
(eds.), The Destruction of Tilted Arc: Documents, MIT Press, Cambridge (Mass.)
1991; cfr. D. Gamboni, The Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism since
the French Revolution, Reaktion Books, London 1997, pp. 155-164.
5
In Il culto moderno dei monumenti, del 1903. Un’«estetica della ruggine» di
Tilted arc compare in uno dei più influenti e meditati detrattori dell’opera,
A.C. Danto, in Richard Serra (1985), poi in Id., The State of the Art, Prentice Hall
Press, New York 1987, p. 178 – ma cfr. «Tilted Arc and Public Art» (1986),
ibid., pp. 90-94 – e in «Art-in Response» (1993), poi in Id., Philosophizing Art.
Selected Essays, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2011, p. 40.
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Alterswert, come «valore d’antichità» in quanto invecchiamento e degrado materiale di un manufatto artistico, nella realtà, invece, si è distinto tale aspetto da un valore d’antichità propriamente detto, degno di attenzione e in grado di legittimarne un valore monumentale,
insieme artistico e storico, e lo si è comunque avvertito come inadatto a qualsiasi elemento architettonico o d’arredo urbano, insomma
come senza valore di attualità, d’uso o artistico, relativo al momento
storico e locale. Per non parlare dei graffiti e altre imbrattature o
sporcizie, davvero lontani da quanto di norma ci si aspetta da un’opera d’arte e da un monumento, o che si reputa decoroso o funzionale in un’architettura e in un elemento urbano.
Tilted arc è così apparso come un inamovibile e inutilizzabile relitto di archeologia industriale; almeno a non pochi dei suoi denigratori, che in tal modo traducevano, forse senza saperlo, uno degli elementi principali della poetica della scultura astratta del Minimalismo, paradossalmente accusata di essere ormai assimilata alla cultura
istituzionale proprio per l’impiego di materiali industriali. Stilema
abituale degli artisti da quasi due decenni, tale uso è stato infatti interpretato come sintomo di una separazione elitaria tra opera d’arte
e oggetti quotidiani e di un’esclusione individualista imposta dall’artista alle competenze percettive ed ermeneutiche dello spettatore ordinario, intimidito dalla refrattarietà dei materiali e dalla freddezza
delle forme geometriche, finalmente bloccato alla loro tautologia e
non familiarità6.
Serra7, quanto a lui, insiste sulla specificità aspettuale della scultura e la dinamica da essa attivata, non ancorata a un punto di vista
spettatoriale statico e fisso, ma relativa alla mobilità del corpo del visitatore in relazione al sito:
Tilted arc è stato costruito per la gente che cammina e attraversa la piazza, per un osservatore in movimento […] così da impegnare il pubblico
in un dialogo che potrebbe migliorare, sia percettualmente, sia concettualmente, la sua relazione con l’intera piazza. La scultura coinvolge ra6
Per una lettura gender, che elogia le forme accoglienti e femminili di
un’opera spesso contrapposta a Tilted arc, il coevo Vietnam War Memorial di
Maya Lin a Washignton, cfr. A.C. Chave, «Minimalism and the Rhetoric of
Power», Arts Magazine, January 1990, vol. 64, n. 5, pp. 44-63, e già E. Hess, «A
Tale of Two Memorials», Art in America, April 1983, vol. 71, n. 4, pp. 121-128.
7 Così l’artista nel 1985, cit. in A. Zweite, «Evidence and Experience of
Self. Some Spatially Related Sculptures by Richard Serra», in E.-G. Guse
(eds.), Richard Serra, Rizzoli, New York 1987, pp. 22-23. Cfr. R. Serra, «Tilted
Arc Destroyed» (1989), in Id., Writings/Interviews, University of Chicago
Press, Chicago 1994, p. 202.
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zionalmente ed emozionalmente. Una moltitudine di letture è possibile… Lo spettatore diventa consapevole di se stesso e del suo movimento
attraverso la piazza. Come lui si muove, la scultura cambia. La contrazione e l’espansione della scultura sono l’effetto del movimento dello spettatore. Passo dopo passo, la percezione, non solo della scultura ma dell’intero ambiente, cambia.
È forse esagerato dire, come è stato più volte fatto, che si tratta di una
descrizione «strettamente fenomenologica» dell’«esperienza scultorea puramente astratta»8; è più corretto assumere questa e altre affermazioni simili come una dichiarazione di poetica, che cerca di illustrare gli effetti sul pubblico e la sua relazione coll’opera e lo spazio
nella sua totalità. L’esperienza in gioco, non solo individuale ma collettiva, anzi: plurale, è certo corporea e sensibile, ma anche emotiva
ed esistenziale, simbolica, conoscitiva e critica, capace insomma di
una «ristrutturazione» (il termine è di Serra) complessiva del sito.
D’altronde, parlare di «letture molteplici» sempre possibili e
aperte, significa non solo ricorrere a un’ambiguità di un modo di dire del linguaggio ordinario per indicare un’inesauribilità del senso,
presunta e auspicata dall’artista, ma anche rimandare alla mediazione di un regime ottico tecnico e di un sistema notazionale specifico.
Significa, in altri termini, mettere accanto alle pratiche dal basso di
una visibilità parziale e volumetrica, ravvicinata e tattile, le finzioni
della visione planimetrica e del disegno urbano dello spazio visto, o
fotografato9, dall’alto, a distanza e lineare, astratto e scritto. Significa, finalmente, mediare tra i modi di abitare sensibili e le costruzioni
visive e segniche dello spazio, creare cioè un medium differenziale
tra le figure del corpo e le forme dell’oggetto e del testo, tra stili somatici e codici plastici e semiotici, tra pratiche, ripetute e differenti,
di manufatti fisici, identici e statici, scultorei e architettonici, e scritture, astratte e leggibili10.
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8
R. Storr, «‘Tilted Arc’: Enemy of the People?», Art in America, September 1985, vol. 73, n. 9, pp. 90-97. Cfr. M. Kwon, One Place after Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2004, pp. 11 ss,
e, su Tilted arc, pp. 72-83.
9
Paradigmatica la critica di Serra alle immagini fotografiche o cinematografiche dall’alto di Spiral Jetty, di Robert Smithson, del 1970; cfr. «Richard
Serra’s Urban Sculpture. Interview by Douglas Crimp» (1980), in R. Serra,
Writing/Interviews, cit., p. 129. Una critica alla «vue plongéante» è in de Certeau (L’invention du quotidien. I, cit., pp. 140 sgg.) e nei corsi al Collège de
France del 1981-1982 di Foucault (Herméneutique du sujet, éd. F. Ewald, A.
Fontana, F. Gros, Gallimard-Seuil, Paris 2001, pp. 265 sgg.).
10
«Medium-differential» è definizione di Hal Foster, «The Un/making
of Sculpture», in R. Ferguson, A. McCall, C. Weyergraf-Serra (eds.), Richard
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Fuori luogo
La consapevolezza corporea del movimento intorno alla scultura
pubblica, messa da Serra in primo piano, ne ribalta e riformula
un’altra, forse meno nota al pubblico distratto che si trova a passarle
accanto per andare al lavoro o a casa, non sempre informato dei fatti del mondo dell’arte: quella statica e contemplativa del sublime pittorico dell’Espressionismo astratto. La valenza critica del site-specific si
oppone innanzitutto alla specificità e all’autosufficienza – idealista e
ideologica11 – del medium pittorico e scultoreo modernista, sia sul
piano fenomenologico, sia su quello istituzionale.
A David Sylvester, nel 1965, a proposito di Vir Heroicus Sublimis
(1950-1951), Barnett Newman aveva detto che «il dipinto dovrebbe
dare all’uomo il senso del luogo: che egli sappia di esser là, così da esser consapevole di se stesso […] di aver il senso della [propria] dimensione. […] È quello che ho cercato di fare: che lo spettatore di fronte
al mio quadro sa di essere là»12. In un’altra occasione, ribadito che
chiunque, stando di fronte i suoi dipinti, deve sentirne la verticalità
come un soffitto a vòlta che lo ingloba e risveglia in lui «una consapevolezza del suo esser vivo» e l’«unica reale sensazione dello spazio»,
Newman afferma che questo è il contrario del «creare un ambiente».
L’accostamento, appena suggerito, tra Serra e Newman, non illustra
allora solo la differenza tra la tridimensionalità scultorea e architettonica e la bidimensionalità pittorica, ma indica quanto Modernismo e
Minimalismo vogliono essere anti-environemental, contro l’ambiente.
La scala, la dimensione, sono gli elementi comuni di tale iconologia del sublime: le zip verticali di Newman e le pareti in Cor-ten di
Serra: Sculpture 1985-1998, Museum of Contemporary Art-Steidl Verlag, Los
Angeles-Göttingen 1998, p. 14. Riprendo Rosalind Krauss – «la specificità
del sito non è l’oggetto dell’opera, ma – nella sua articolazione del movimento orientato del corpo dello spettatore – ne è il medium» – e Hans Belting – la propriocezione come condizione di possibilità d’invenzione dei
media artificiali esterni. Cfr. R. Krauss, «Richard Serra Sculpture», in Id.
(ed.), Richard Serra: Sculptures, MoMa, New York 1986, p. 37, e H. Belting,
«Immagine, medium, corpo: un nuovo approccio all’iconologia» (2005), in
A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie delle immagini, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 77 ss.
11 Cfr. D. Crimp, On the Museum’s Ruins, MIT Press, Cambridge (Mass.)
1993, pp. 17 ss..
12 B. Newman, «Interview by David Sylvester» (1965), in Barnett Newman:
Selected Writings and Interviews, ed. J.P. O’Neill, Berkeley, University of California Press, 1990, pp. 257 ss.; cfr. R. Serra, «An Interview by Peter Eisenman» (1983), in Id., Writings/Interviews, cit., p. 145.
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Serra non sono gigantesche, ma colossali. Solo che Vir Heroicus Sublimis raffigura senza i limiti pittorici della figurazione ed ha un contenuto profondo – la specificità del medium pittorico e il «fatto metafisico» della differenza di taglia dello spettatore in quanto uomo in generale13 –, mentre Tilted arc marca invece una cesura e una crisi, è un
taglio14 nella superficie urbana data, incide una ferita nello spazio
pubblico storicamente e politicamente determinato, e si pone così
come condizione materiale negativa per un fuori misura e uno scarto, per un’invenzione e una condotta sensibile ravvicinata e in dettaglio, insomma per uno stile estetico critico nei confronti della coerenza e della totalità aspettuale e simbolica, pianificata e disciplinata,
del sito. Sia la discontinuità percettiva tra arte e architettura, sia l’interruzione pragmatica tra scultura site-specific e contesto, entrambe
spiacevoli e insoddisfacenti in termini di relazioni estetiche e strumentali, mostrano i limiti, le differenze e le contraddizioni sociali,
politiche, ideologiche, di Federal Plaza.
La scultura è dunque come una presa di parola parresiasta
(Krzysztof Wodiczko), prende spazio contro il luogo, qui contro l’architettura e il disegno urbano. Serra è un facitore e marcatore di un
«anti-ambiente»; prende posizione, dispone l’opera dislocandone le
condizioni materiali e immateriali di esperienza: «Penso – afferma –
che la scultura, se ha un qualche potenziale, è quello di creare il suo
proprio luogo e il suo proprio spazio, e, in questo senso, lavorare in
contraddizione con gli spazi e i luoghi dov’è stata creata»15.
Si sbaglierebbe però a considerare tale instaurazione solo negati-
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13
B. Newman, «Interview by David Sylvester», cit. In chiave transtorica e
transculturale Danto, che sto qui parafrasando, evoca a questo proposito addirittura il Dasein heideggeriano; cfr. A.C. Danto, L’abuso della bellezza,
(2003), tr. it. di C. Italia, Postmediabooks, Milano 2008, pp. 176 sgg. All’opposto dello sforzo percettivo e dell’esercizio critico cui Tilted arc costringe, è
quanto afferma sul Vietnam Veterans Memorial Maya Lin (Boundaries, Simon &
Schuster, New York 2000, p. 2: 03): «ogni mio lavoro trova la sua origine nel
semplice desiderio di rendere la gente consapevole dell’ambiente tutt’intorno, non solo del mondo fisico ma anche di quello psicologico in cui viviamo. […] Creo spazi in cui pensare, senza provare a imporre cosa pensare
[…] Ancora più significativi sono per me quei lavori focalizzati sui puri livelli estetici dell’esperienza, che invitano lo spettatore a entrare, che gli chiedono di notare un cambiamento in una forma, un colore, o una luce».
14 Su «taglia» e «taglio», «fuori taglia» e «dettaglio», rimando alle pagine
di Jacques Derrida sul colossos, in La vérité en peinture, Flammarion, Paris
1978, e Glas, Galilée, Paris 1974.
15 R. Serra, «Rigging. An Interview by Clara Weyergraf-Serra» (1980), in
Id., Writings/Interviews, cit., p. 171.
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va o distruttrice in senso triviale, non dialettico: l’opera d’arte pubblica è all’opera perché fa differenza nella sfera pubblica là dove è e
non altrove, perché è polemicamente all’opera nella polis; anti-monumentale16 e, dunque, intransitiva, non significa niente – non è
dunque un testo17 – senza essere però auto-referenziale, costringe
anzi sensibilmente alla sensatezza. Se, come Serra stesso affermò, rimuoverla equivale a distruggerla, questo non riguarda né la sua esistenza materiale, né il suo statuto autoriale, ma il suo differire esteticamente – alla percezione e al discorso – dalle istituzioni storiche sia
del mondo dall’arte – in quanto oggetto di una relazione aspettuale
contemplativa specifica –, sia da quello della vita ordinaria – in quanto architettura, oggetto e luogo di un rapporto strumentale.
Né site-dominant, né site-determined o site-adjusted 18, determinata o
adattata al sito fisico, ai suoi usi, sentimenti e credenze, insomma all’habitus che retoricamente implica e induce, condizione di possibilità dell’opera e della sua esistenza è il suo essere e far essere poieticamente e pubblicamente fuori luogo e fuori taglia, far cioè abitare
ogni giorno criticamente e creativamente sia lo spazio vissuto, fenomenologico, sia il luogo messo in discorso, istituzionale.
16
«Quando guardiamo queste opere, ci è chiesto di prestare una qualche credenza alla nozione di monumento? Non si riferiscono affatto alla storia dei monumenti. Non memorializzano nulla. Si riferiscono alla scultura e
a niente di più. Non ci chiedono a gran voce di essere chiamati monumenti.
Una curva in acciaio non è un monumento». Così in «Richard Serra’s Urban Sculpture. Interview by Douglas Crimp», cit., p. 135; l’intervistatore evoca i «counter-Monuments» e i «non-uments» di Matta-Clark.
17
Di «natura testuale dell’arte memoriale (di tutta l’arte, quando è tale)» parla invece A.C. Danto, «The Vietnam Veterans Memorial» (1985), in
Id., The Wake of Art: Criticism, Philosophy, and the Ends of Taste, ed. G. Horowitz,
T. Huhn, G + B Art International, Amsterdam 1988, pp. 154, 156.
18 R. Irwing, Being and Circumstance: Notes Toward a Conditional Art, Lapis
Press, San Francisco 1985, pp. 25 sgg. Sulla struttura entimematica dell’arte
pubblica, manchevole in Titled arc, insiste Arthur Danto, cfr. F. Fimiani, «Il
pubblico trasfigurato. Retoriche delle forme di vita ordinarie», in G. Matteucci, M. Prontera (a cura di), La natura delle emozioni, Mimesis, Milano
2014, pp. 171-188.