Johnny Guitar in DVD "I'm a stranger here myself" Johnny Logan La recente pubblicazione in dvd di Johnny Guitar (id., Nicholas Ray, 1954) è l’occasione per ritornare su questo non-classico del cinema western, su questo capolavoro d’astrazione e furore, di violenza e ingegno. Prima di tutto, però, va detto che l’edizione in dvd della Puntozero, nonostante sembri sorgere sotto l’egida della Fox – il cui logo compare sul retro del dvd – è decisamente scadente. Johnny Guitar fa parte di una serie chiamata Western Collection, che comprende anche altri importanti titoli molti dei quali finora inediti in dvd: Il fuciliere del deserto (Fighting Caravans, Otto Bowers, 1931), Il mio corpo ti scalderà (The Outlaw, Howard Hughes, 1943), Rancho Notorius (id., Fritz Lang, 1952), Il mercenario della morte (Gunslinger, Roger Corman, 1956), La tortura della freccia (Run of the Arrow, Samuel Fuller, 1957). Tutti questi titoli partono da master di scarsa qualità, l’immagine risulta sgranata e spesso il colore è spento. Il suono stesso è poco nitido, e le tracce audio, l’inglese e l’italiano, nella maggior parte dei casi (Johnny Guitar è purtroppo uno di questi) mancano dei sottotitoli. La scarsa qualità dell’insieme non può non ripercuotersi su un’opera come Johnny Guitar, forse l’esempio più audace di uso del Trucolor, processo fotografico particolarmente antinaturalistico brevettato dalla Republic, casa produttrice del film. L’approccio di Ray al western è infatti l’opposto del realismo: tutto, nel film, è profondamente simbolico. Gli spazi chiusi sono visibilmente artificiali, illuminati come in un film di Sirk (e non a caso Johnny Guitar è l’unico western fotografato da Harry Stradling, operatore di film musical, melodrammi e noir), mentre l’inverosimiglianza del trattamento degli esterni (Sedona, in Arizona), e in particolar modo della valle dietro la cascata, dimostrano l’indifferenza di Ray nei confronti della credibilità a favore di una messinscena che tende all’astrazione, che predilige lavorare sulla forma prima che su tutto il resto, attraverso la quale allestisce una vorticosa serie di rimandi, interni e non. Il cinema di Nicholas Ray è un cinema al contempo viscerale ed intellettuale, rifiuta la grammatica standardizzata dell’intrattenimento (spesso i suoi film venivano giudicati eccessivamente lenti, con trame mal sviluppate, personaggi abbozzati) ma nutre l’impianto metaforico con effetti estremamente immediati, quasi grossolani. In questo senso il cinema di Ray, e Johnny Guitar lo www.turindamsreview.unito.it dimostra più di ogni altro suo film, recupera un’ingenuità1 che è la stessa delle origini del cinema americano, e richiede allo spettatore di seguirlo in questo percorso, abbandonandosi alla forza delle sue immagini barocche - è stato spesso scritto - eppure così incredibilmente immediate, di fortissimo impatto. La grandezza di Ray sta nel fare un cinema astratto, teorico, rifiutando però la distanza dalla materia narrata, rifiutando ogni distacco ironico e ogni rigore di messa in scena. L’eccesso, quindi, è la cifra del cinema di Ray. Il lirismo tipico dei film western non gli interessa affatto. Manca completamente, in Johnny Guitar, la rappresentazione nostalgica di un mondo che va scomparendo, perché il mondo che Ray mette in scena non ha nulla da rimpiangere, manca la lacerazione di personaggi divisi tra la natura selvaggia e la civiltà che avanza, perché la ferita dei protagonisti è di natura sentimentale, appartiene alla sfera del mélo, manca il senso sacrale della natura maestosa, che qui è invece intrusiva e opprimente (persino i rami degli alberi, come in una sorta di fiaba, si protendono minacciosi in scena). Manca infine soprattutto l’aderenza alla Storia americana, al mito dell’insediamento. Il senso è che nell’America di Johnny Guitar come in quella del 1954, le forze in campo sono l’avidità, il fanatismo, l’invidia, la repressione, l’egoismo. La sfida tra i protagonisti non assume lo statuto tragico di molti western dell’epoca, anche se permane un senso di sovradeterminazione tipico dei soggetti di Philip Yordan, sceneggiatore del film con Ben Maddow, non accreditato perché perseguitato dalla Commissione per le attività antiamericane2. All’inizio del film, ad esempio, Vienna e Emma hanno un eloquente scambio di battute: “I'm going to kill you”, dice Emma. E Vienna non può che ribattere: “I know. If I don't kill you first”. Le regole del gioco sono insomma date fin dal principio, in quella prima sequenza della durata di mezz’ora nella quale entrano in campo tutti i personaggi e si definiscono, attraverso una serie di opposizioni, i ruoli di ciascun soggetto e ciascun gruppo. 1 “Ingenuità”, con “violenza”, è la parola chiave del saggio di Jacques Rivette Notes sur une révolution, pubblicato sul numero 54 dei Cahiers du Cinéma, qualche mese dopo l’uscita del film in Francia. Il saggio si occupa anche e soprattutto di Ray, capofila, secondo Rivette, di un rinnovamento del cinema americano e di un ritorno “al lirismo, ai sentimenti violenti, al melodramma”: cfr. Giovanna Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima: intorno alla Nouvelle Vague, Firenze, La casa Usher, 1984, pp. 153-156. 2 Il fatto che il film sia tratto da un romanzo di Roy Chanslor sembra non avere alcuna importanza. Come dichiara Philip Yordan a Bertrand Tavernier: “Mister Herbert I. Yates ha detto semplicemente: «Prendete Joan Crawford, e fate che sia contenta durante la lavorazione». Abbiamo scelto il romanzo di Chanslor senza leggerne neanche una parola, solamente il titolo; e abbiamo scritto una storia dove la donna fosse la vedette, cosa rara nel western». Bertrand Tavernier, Rencontre avec Philip Yordan, Cahiers du Cinéma n. 128, 1962, tr. it. in Marco Giusti (a cura di), Il cinema di Nicholas Ray, Parma, Incontri cinematografici Salsomaggiore Terme, p. 43. www.turindamsreview.unito.it L’idea di partenza di Ray è quindi quella di spezzare “ogni regola che si doveva spezzare in un western”3, facendo della sfida centrale del film proprio quella tra le due donne, le quali hanno infatti il privilegio del duello finale. Ovvio che questo ha fatto la fortuna del film nell’ambito dei gender studies, specie se si considera il rapporto ambiguo tra Johnny e Vienna, nel quale è lei il soggetto dominante, mentre Johnny è la metà debole della coppia, quasi piagnucoloso nel momento in cui si rivela il passato comune dei due. Il celeberrimo dialogo che apre la prima, meravigliosamente onirica scena notturna è in questo senso esemplare e vale la pena di essere riportato per intero: Johnny: "How many men have you forgotten?"; Vienna: "As many women as you've remembered"; Johnny: "Don't go away"; Vienna: "I haven't moved"; Johnny: "Tell me something nice"; Vienna: "Sure, what do you want to hear?" Johnny: "Lie to me. Tell me all these years you've waited. Tell me"; Vienna (meccanicamente): "All those years I've waited" Johnny: "Tell me you'd a-died if I hadn't come back" Vienna (meccanicamente): "I woulda died if you hadn't come back"; Johnny: "Tell me you still love me like I love you"; Vienna: (meccanicamente): "I still love you like you love me" Johnny: "Thanks. Thanks a lot". Questo personaggio, Johnny Logan, che dà il titolo al film, non è tanto il protagonista (Joan Crawford domina indiscutibilmente la vicenda e la scena) quanto piuttosto una sorta di fulcro attorno al quale precipitano gli avvenimenti (si pensi alla già citata prima sequenza, dove non si sa ancora nulla di lui ed egli si sistema al centro della scena, tra il gruppo di Vienna e quello di Emma, raffreddando la situazione). La sua presenza, ai fini dell’intreccio, è quasi trascurabile, ma ha un valore simbolico molto forte, giustifica le impennate melodrammatiche e rappresenta soprattutto l’alter ego dell’autore, il personaggio immaturo e bloccato, protagonista di moltissimi film di Ray, che avrà l’anno dopo il volto di James Dean in Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955). A parte la debolezza caratteriale, la sua figura è simile a molte altre dei western di quegli anni: l’ex pistolero che decide di lasciarsi alle spalle la violenza e che in questo caso al posto della colt imbraccia la chitarra (ma avrebbe benissimo potuto intraprendere la professione di guida come James Stewart in Bend of the River, Là 3 Mike Goodwin e Naomi Wise, Nicholas Ray: Rebel!, Take One n. 6, vol. 5, 1977, tr. it. In Marco Giusti (a cura di), Il cinema di Nicholas Ray, cit., p. 43. www.turindamsreview.unito.it dove scende il fiume, Anthony Mann, 1952, o aprire una bottega come Glenn Ford in The Fastest Gun Alive, La pistola sepolta, Russell Rouse, 1956), ma che non ha per nulla perso lo smalto. Ciò che lo differenzia dai personaggi coevi di molti altri western va ricercato ancora una volta nell’approccio melodrammatico alla vicenda: la molla che fa scattare tale meccanismo di rifiuto del proprio passato è la perdita della donna amata, non una consapevolezza morale dell’atrocità delle proprie azioni. Anche perché la dimostrazione della propria virilità passa inevitabilmente attraverso l’uso dell’arma, com’è evidente nel momento in cui Logan, del tutto gratuitamente, fa volare via la pistola a Turkey rivelandosi così come un pistolero provetto. In quel momento l’immaturità del soggetto emerge prepotentemente, specie se si considera il suo comportamento nella scena appena trascorsa, dove si era proposto come pacificatore tra le due fazioni, quella di Dancin’ Kid e quella di Emma e McIvers. In quell’occasione, dichiarando che “There's only two things in this world that a 'real man' needs: a cup of coffee and a good smoke”, il personaggio sembra aver raggiunto una serenità interiore che si rivelerà subito posticcia. La vera prova di maturità verrà dopo: “la vera accettazione di Johnny da parte di Vienna si realizza quando Logan resiste alla provocazione di Dancin’ Kid (efficacissimo il guizzo, con repentino passaggio della pistola tra destra e sinistra)”4. Il vero soggetto del film è quindi la storia d’amore di Johnny e Vienna, la rinascita del loro amore, battezzato dall’acqua della cascata dalla quale escono alla fine del film, abbracciati. Anche in questo caso, il simbolismo di Ray appare semplice ma efficace: “l’acqua della cascata è un segno di purificazione, il fuoco dell’incendio materializza la furia di Emma”5, che con un’intuizione particolarmente felice Ray dipinge come una sorta dell’incendio, di strega (nella appunto, le scena fiamme scaturiscono alle sue spalle, come se fosse lei stessa a generarle, mentre il suo viso è deformato da un piacere malvagio) in un film che parla anche, se non soprattutto, di caccia alle streghe. Ray, che non ebbe mai noie dalla commissione McCarthy, fu comunque vicino agli ambienti comunisti di Hollywood, e con gli sceneggiatori del film (Maddow blacklisted, Yordan a lungo residente a Parigi per motivi 4 Cesare Secchi, Paolo Vecchi, Lampi e speroni danzanti. Temi e atmosfere nel western psicologico, Torino, Lindau, 2000, p. 51. 5 Stefano Masi, Nicholas Ray, Milano, Il Castoro, 1995, p. 49. www.turindamsreview.unito.it politici) fece di Johnny Guitar anche un film a proposito delle persecuzioni maccartiste. Ciò è evidente fin dalla scelta degli attori: Sterling Hayden collaborò con la Commissione e nel film interpreta un uomo con un passato da farsi perdonare, Ward Bond, “uno dei capi del partito fascista a Hollywood”6 interpreta McIvers, il capo degli allevatori che con Emma guida i vigilantes nella persecuzione di Vienna e Dancin’ Kid. Nella seconda parte del film gli allevatori sono vestiti tutti di nero e nella scena dell’irruzione - dove si contrappongono ad una Vienna che invece per l’unica volta indossa un abito da donna, completamente bianco - si dispongono minacciosamente a V come uccelli rapaci. La lettura antimaccartista prende maggiormente forza da questa scena, quando l’intolleranza puritana degli allevatori si trasforma in vera e propria persecuzione, fino all’estromissione dello sceriffo e al linciaggio, dando al film un’impennata di violenza impressionante. Questo continuo cambio di registri, assieme all’uso del colore sopraccitato, assieme agli spazi stilizzati, all’eccentrica geografia degli scenari naturali, fa del film una sorta di sogno, un “western sognato, spettacolare, irreale fino al limite, delirante”7, come ha scritto Truffaut, il quale ha dato di Ray, proprio in rapporto a questo film, la definizione migliore: “lo si immagina un intellettuale ma che sa astrarsi da tutto ciò che non viene dal cuore”8. Johnny Guitar può apparire difficile ad uno spettatore che vi si accosta oggi, ma per amare Ray basta poco: basta amare il Cinema. 6 Bertrand Tavernier, Rencontre avec Philip Yordan, cit., p. 43. 7 François Truffaut, Johnny Guitar, Cahiers du Cinéma n. 46, 1955, tr. it. in Marco Giusti (a cura di), Il cinema di Nicholas Ray, cit., p. 64. 8 Ivi, p. 95. www.turindamsreview.unito.it
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