carlotta mismetti capua come due stelle nel mare La presente opera è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia il cui testo integrale è disponibile alla pagina web: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/legalcode Questo significa che può essere liberamente condivisa a patto che si rispettino i termini della licenza prescelta dall’autrice; la riproduzione e ogni altra forma di utilizzazione consentita deve essere fatta solo a fini non commerciali: questa licenza tutela il copyright ma anche la condivisione della conoscenza, senza scopo di lucro. Per ogni altro uso rivolgersi all’autrice e all’editore. Redazione: Edistudio, Milano Il testo della canzone riportata a p. 119-121 è Pensa di Fabrizio Moro (2007); la poesia di p. 82 è Elogio dei piedi di Erri de Luca. L’editore rimane a disposizione degli aventi diritto. © Carlotta Mismetti Capua 2011 I Edizione 2011 © 2011 – EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano – Via Tiziano, 32 [email protected] – www.edizpiemme.it 1. Forrest Gump andava a piedi To members of La città di Asterix 22 December at 23.31 Oggi ho incontrato quattro ragazzini afgani sull’autobus, scendevano alla mia stessa fermata: Piramide. Hanno camminato sei mesi per arrivare a Roma. ––––– Questa storia comincia su un autobus arancione, a Roma, in una sera di tuoni e pioggia. Un bus diretto alla Piramide, nel buio triste delle otto di sera, di ieri sera. Ma non è alla Piramide che questa storia comincia. Questa storia comincia a Tagab, un paese sulle montagne dell’Afghanistan al confine con l’Iran, che su Google Maps, se lo cercate, sta a 4.950 chilometri da Roma. Tagab, sempre se lo cercate, sono venti case, dieci mucche, tre strade, e il resto è fame, freddo e paura: a Tagab la gente scompare, da decenni qualcuno ci traffica l’oppio. Da mesi qualcuno ci traffica anche i bambini. E quattro di questi bambini erano sul bus per la Piramide, dove ero anch’io, ieri, col Tevere che forse esondava. Quattro ragazzini che hanno camminato per 4.950 7 chilometri, a piedi. Attraversando cinque paesi, per sei mesi: e ieri erano contenti, sì. A guardarli erano davvero contenti. Perché erano arrivati dove dovevano arrivare, a Roma, alla Piramide. Col bus numero 175, dove nessuno voleva sedersi vicino a loro. Perché erano sporchi, stranieri, diversi. Sul bus la gente mormorava, forte ma guardando altrove: «Ah, questi rumeni, questi rumeni assassini, avete sentito di quello…». Li guardo, mi tolgo gli occhiali distratti che abbiamo sempre addosso e vedo che rumeni non sono. E faccio le domande semplici che si fanno quando le persone le guardi negli occhi: occhi di ragazzini sporchi e dolci. «Ciao, da dove venite? Come vi chiamate?» «Veniamo dall’Afghanistan. Siamo arrivati stasera.» Sorridono. «A piedi?» chiedo, e la domanda mi pare incredibile, ma la faccio. E loro sono felici, perché capiscono che io so che dall’Afghanistan si viene pure a piedi. «Sì, a piedi.» A raccontarmi come hanno fatto è Abdul, quindici anni, gote da bambolotto e un inglese che farebbe invidia a un liceale di Viterbo. Le loro famiglie hanno pagato, guide, trafficanti, chi 5.000 dollari, chi 10.000. Hanno camminato su e giù per le montagne, dormendo sotto le stelle, attraverso l’Iran, la Turchia, sempre a piedi. E poi su una barca gonfiabile, di notte, hanno attraversato il primo dei mari, e poi la Grecia, stipati in cento su un tir. E poi il secondo, imbarcati verso Bari. E da Bari su un treno qualsiasi. E a Roma il bus numero 175. 8 Abdul mi chiede: «Signora possiamo farle una domanda?». Ora sono io che sorrido. «Come mai parla inglese, signora?» Gli chiedo dove pensano di dormire, e rispondono: «Al parco». Col Tevere che esonda, alle nove di sera, con le felpe di cotone… a piedi? Li faccio scendere, andiamo. Al centralino del Comune mi dicono che l’unica a quell’ora è la Caritas. Andiamo alla Caritas, torniamo indietro, prendiamo una metro. Nel vagone un ragazzo con le scarpe d’argento e il gel nei capelli scherza col suo amico: «Meniamoli, no?». L’altro ha una collana borchiata, tutti tacciono. Anche noi si tace, e si va avanti. Francesco, un amico che lavora ad Action Aid, mi spiega al telefono: «È sicuramente la tratta di bambini da Tagab e Ghazni, è un caso internazionale. Non è un segreto, né per l’Interpol né per l’Unione Europea» aggiunge, a tranquillizzarmi. Una tratta che non finisce alla Piramide, ma forse in una fabbrica per lavoratori clandestini, forse in una squadra di spacciatori minorenni a Belgrado, forse in un ospedale dove si espiantano gli organi e qualcuno li vende. Secondo un rapporto del Consiglio d’Europa, nell’Europa dell’Est un rene, al mercato nero, costa sui 2.500 dollari. I trafficanti riescono a venderlo anche a più di 150.000. Nel buio sempre più triste arriviamo fino alla Caritas di via Marsala. La ragazza che sta al cancello – Luana, una ragazza in jeans, gentile e concreta – mi dice che: «No, non possiamo prenderli. Siamo a “letti zero” sta9 sera, e poi non hanno documenti. Prendiamo solo quelli coi documenti. E poi sono minori, e i minori non li prendiamo. Se ora lei li porta a casa rischia: concorso in tratta di minori. Lo dico per lei, così sa come funziona». Ah, ecco, si imparano certe cose, dei giorni: si impara che quando arrivi dall’Afghanistan a piedi, e hai 15 anni, e il tuo paese è in guerra dal 1979 e l’Unione Europea ha deciso che comunque non ci puoi tornare perché, carte alla mano, è un paese “pericoloso”, e per di più piove qui e il Tevere esonda, ecco, in questi casi allora servono i documenti. Ah, ecco. Il cancello della Caritas resta chiuso, e come spiega Luana: «Scusi signora, ma devo tenerlo così sennò mi entrano tutti. Capisce?». Non tanto. Però dopo un po’ capisco, perché restano chiusi anche quelli delle altre associazioni a cui telefono. Li devo lasciare in strada, è l’unica cosa da fare, secondo chi se ne intende: il centralino, gli operatori di strada, il mio amico della Ong. Ma io non me ne intendo. E allora cerco di mostrarmi molto tranquilla agli occhi di quelli della Caritas, che mi hanno fatto capire che rischio di passare per una che fa la tratta dei bambini stranieri. Tratta limitata per ora alla metro Piramide stazione Termini, ma pur sempre tratta illegalissima. E allora, per prendere tempo e apparire ai loro occhi ragionevole e non un’esaltata che sotto la pioggia cerca un tetto per quattro ragazzini venuti a piedi dall’Afghanistan, ecco che mi metto a parlare col ragazzo che sta fuori dalla porta, uno con la giacca blu. Massimiliano, mi pare si chiamasse, e pure lui dispensa un buon consiglio, di quelli che ti tranquillizzano, e mi dice: «Guardi che 10 alla fine la cosa migliore è portarli in commissariato». Sorrido sempre più tranquillissima e gli chiedo: «E cosa succede in commissariato, Massimiliano?». «Li rimpatriano. Che poi, alla fine, signora, è la cosa migliore per questi ragazzi.» Non so come, ma quella sera la Caritas mi era parsa la cosa migliore e invece non lo era, casa mia mi era parsa la cosa migliore e invece non lo era, per via della legge Bossi-Fini, mi pare di aver capito, e il commissariato poteva essere anche la cosa migliore, ma insomma mi pareva che non lo fosse; non per il commissariato, figurarsi, ma per questo fatto del rimpatrio, che mi faceva venire subito in mente il posto da cui venivano. Mica ci sono stata ma insomma, una guerra, quella me la immagino. Più o meno. Non tanto perché la conosco bene la guerra che si fa oggi. Ma so che uno può pensare di mettersi in cammino, nella vita: ecco, quello lo so proprio bene cosa significa. Per cui, consegnati quattro clementi panini, quattro arance e coperte della Caritas – anche quelle illegalissime, a quel punto – gli metto in mano venti euro e il mio numero di telefono. E dove gli do appuntamento per il giorno dopo. Anche loro hanno una scheda, senza il telefono. La tiene in tasca Abdul insieme a un bigliettino di carta minuscolo, colato di inchiostro bagnato, dove qualcuno chissà dove gli aveva scritto “Pyramid”. Dove dovevano arrivare. «Domani mattina, alla Piramide. Alle nove. Capito?» «Capito, signora.» Così tornano da dove erano venuti, più o meno. Nel mistero. 11 Che è dove abito anche io, a Roma, sotto questa Piramide di marmo tra un fiume e una stazione di treni. Ed è qui che comincia ora questa storia. Storia definita poi “una lodevole iniziativa” da un caro amico, frase che mi avrebbe fatto molto arrabbiare perché non vuole dire niente, e le frasi che non vogliono dire niente mi fanno sempre arrabbiare – più di quelle che non si capiscono, tipo: «Che poi per loro il rimpatrio è la cosa migliore». E questo è un punto importante di questa storia, e della vita in generale, perché le frasi che non vogliono dire niente sono come gomma che rimbalza, e le frasi che non capisci sono come carta ruvida, e ci restano appiccicati i tuoi pensieri sopra. E dato che questa è una storia lunga 5.000 chilometri, e non sappiamo ora dove continua, abbiamo deciso che la raccontiamo un giorno alla volta. 12 2. Pastarelle e cappuccini To members of La città di Asterix 23 December at 15:38 La mattina dopo è arrivata. E siamo andati a prenderli, con un coltellino svizzero. ––––– La mattina che ti svegli e hai appuntamento con quattro bambini afgani con cui hai fatto amicizia su un autobus, dopo che si sono fatti 5.000 chilometri a piedi – e dentro un tir e su un gommone, e picchiati dalla polizia, dormendo sotto le stelle, un freddo cane, e tutto per arrivare a Roma la sera prima, chissà perché poi a Roma che Roma non ha da dormire per loro, neanche una branda in un dormitorio pubblico e legale ma un panino e un arancio per cena – ecco, in una mattina così, una mattina così strana dell’inverno della vita, cosa fai? Intanto ti svegli presto, e butti giù dal letto un po’ di amici. Che poi questa che chiamano “la tratta”, con meno ipocrisia quelli che studiano queste cose la definiscono smuggling: e la precisione è importante, perché smuggling è il contrabbando – di droga, armi, medicine, di 13 sigarette. Ora si fa di bambini. Gli esseri umani rendono di più. Francamente in questa strana mattina dell’inverno della vita succede anche che quando ti svegli ti senti in colpa. E forse è per questo, più che per il panico, che butti giù dal letto la gente alle sette di mattina. E succede anche che pensi: “Erano contenti”. E capisci che la vita nelle scarpe degli altri non la puoi mettere, che la loro è anche un’avventura. E che avventura. Dall’Afghanistan alla Piramide, a piedi, come Forrest Gump. Che io, confesso, mentre tornavo a casa la sera prima, al calduccio, con gli amici che mi aspettavano con un vassoio di pastarelle alla panna e il risotto sul fuoco, ho pensato una cosa davvero banale, ma io non l’avevo mai pensata davvero, e certe cose nella vita anche quelle banali bisogna che uno le ripensa un’altra volta: “Ma le famiglie che hanno salvato gli ebrei a Roma, li mettevano a dormire in soffitta o li facevano scappare in campagna, e quelli che gli davano i documenti falsi?”. Ecco, davanti al vassoio di pastarelle, ho pensato questo. Per questo poi alle sette del mattino chiami, e chi trovi trovi. Francesco mi avverte: «Secondo me non li becchi più. I bambini, soprattutto quelli piccoli, vengono messi subito su un treno, o tenuti nascosti qualche giorno e poi portati chissà dove». È sicuro: «È tratta, è così che funziona la tratta». Alle sette di mattina anche Cristopher Hein, direttore del CIR, il Consiglio Italiano per i Rifugiati, dubita che possa ritrovarli, anche lui dice che se ne sono andati, ma che comunque ci aspetta in ufficio. Se li trovo. E mi dice che i bambini sono le prime vittime dei conflitti armati, 14 soprattutto nelle guerre moderne, dove non si conquistano solo territori, ma si distrugge il nemico, villaggio per villaggio, etnia per etnia, casa per casa. La guerra è fatta così, è cieca ma ci vede. «La tratta non è che una conseguenza della guerra. In questo momento preciso ci sono ventitré paesi in guerra e circa 250.000 minori direttamente coinvolti in conflitti armati» mi dice, alle sette del mattino. Gulp, per fortuna anche Michael si è alzato presto: «Ti accompagno alla Piramide a prenderli». «Favoloso, grazie, prendi dei maglioni. Dai, Michael andiamo.» E invece prende un coltello svizzero: forse anche lui sa che ci sono ventitré guerre nel mondo, in questo momento, ma non sa bene dove stanno e come sono fatte. Nemmeno io so dove stanno. Ma si vede che la guerra avanza, se ora sta alla Piramide, sotto casa mia. Però dato che in Afghanistan c’è la guerra dal 1979, l’Unione Europea lo riconosce ancora come paese pericoloso, per chiunque. Me lo ha detto il presidente del CIR, alle sette di mattina, perciò in nessun caso questi quattro ragazzini che alle nove mi aspettano alla Piramide, fermata metropolitana blu, verranno reimbarcati verso il posto da cui sono fuggiti a piedi. E allora ti senti meglio, e pensi che all’Unione Europea le vuoi un po’ bene. E alle nove, col cuore affogato nel senso di colpa e nella tristezza, e con un minuscolo coltello in tasca con noi, siamo andati a prenderli. La stazione metro blu, alla Piramide, è piena di gente. Un po’ fa freddo, un po’ piove, un po’ si va di fretta. Tra i tanti che hanno freddo ci potrebbero essere i ragazzini 15 afgani, confusi con altri stranieri che lavorano ai banchi di mutandine o distribuiscono i giornali. Ma non ci sono. Tranne uno, imbacuccato in una giacca grigia, di cotone pure quella. Akmed, sedici anni, il più timido dei quattro, il più silenzioso. «Mrs… Carlotta» mi dice. Uno. Ok. Uno. «E gli altri?» Tace, si guarda, mi guarda come a dire: non chiedermelo, perché non posso dire niente. Ok, andiamo avanti: uno. «Prendiamo un cappuccino, Akmed?» dice Michael, col coltellino in tasca. Ora si vede che proprio non ci serve questo coltellino. Un cappuccino invece sì. Ci serve, per amicizia. E Akmed prende il suo primo cappuccino a Roma, nel bar della Piramide, dove si prende il treno per andare al mare. A Roma, dove Pietro pose la pietra e dove forse ieri il Tevere esondava. Ma poi non ha esondato. 16 3. Cose che ci sono ma non si vedono To members of La città di Asterix 23 December at 19:31 Domani è la Vigilia, per alcuni è brodo, per alcuni crema fritta. I tassisti a Roma certe volte si rifiutano perfino di portarti dove gli dici che vuoi andare. Emergenza umanitaria o diluvio. Questo per dire i tassisti a Roma. La nostra avventura prosegue al Circo Massimo, che come sa chi lo ha visto coi suoi propri occhi, è invisibile. ––––– E così io e Akmed siamo in un taxi, destinazione cir: Centro Italiano Rifugiati, nato qui a Roma quando le cose hanno cominciato a peggiorare altrove. Roma è una città che non ti aspetti. Piove, e il tassista non ci vuole portare dove dobbiamo andare. «Signora, pioveee… Ma non lo vede che Roma è paralizzata?» alza la voce. Lo vedo. E attacca un brontolio su Roma, i tombini, le sue noie di tassista e le sue tragedie di cittadino, che lo vorrei scaraventare giù dal taxi, come in un film americano, e mettermi a guidare io. Ma non ho la patente. 17 Mi giro e vedo che Akmed guarda fuori dal finestrino, ma non so cosa stia guardando. Un filosofo franco-lituano, Emmanuel Lévinas, ha detto: «Io sono l’altro», ma mica è facile essere proprio come l’altro, stare nella sua vita, camminare nelle sue scarpe. Si fa all’ingrosso, anche se Lévinas lo diceva nel particolare. Fuori c’è Roma, con le sue nubi di smalto, il suo cielo tormentato, lo squarcio immenso della Biblioteca di Augusto. Saliamo e scendiamo, tra i colli. L’Aventino, dove nasceva Roma se decideva Remo, invece ha deciso Romolo. Giù verso il Velabro, il Palatino. Noi andiamo al Velabro, nella palude. La leggenda ricorda che è qui che arrivarono i due gemelli, nella cesta. Il cir, che opera sotto il patrocinio delle Nazioni Unite, è di fatto un ufficio, quattro stanze, e fuori un citofono con un cartello con gli orari di ricevimento. Io questo cartello lo conoscevo a memoria, per cui anche il cir. Ho abitato al piano di sotto per otto anni, pensa un po’ tu la vita. Si dice così: pensa un po’ tu, poi però alla vita si smette di pensarci. Ricordo uomini e donne che con i documenti in mano andavano e venivano, sbagliavano giorno, e continuavano a sbagliare: strada, destino e citofono. Spesso sbagliavano, e dovevano tornare un altro giorno, con un altro documento. Quando uscivo li trovavo seduti fuori, aspettavano sugli scalini davanti all’Arco di Giano, dio bifronte della pace e della guerra. Aspettavano. Un giorno hanno bussato alla mia porta. Ho aperto distrattamente, ero al telefono, cucinavo, pensavo fosse solo il pony. Sbadatamente ho richiuso la porta. Quando ho finito la telefonata, ho girato il sugo e poi 18 gli occhi. Sul mio divano c’era seduta una famiglia. Se ne stavano composti, in silenzio, come li avesse dipinti Bruegel, contadini di cinquecento anni fa. Lui con la giacca pesante, rattoppata, il cappello. La moglie, col fazzoletto in testa, portava due valigie e due bambini. Erano seduti sul mio divano, come in sala d’attesa. Pensavano di essere arrivati al Centro Rifugiati, invece era casa mia. E non vedevano la cucina, i libri, le pareti celesti, il sugo, il divano. Questa scenetta, la loro incertezza e la mia distrazione, anzi la loro certezza di essere nel posto giusto e il mio totale imbarazzo a doverli mandare via, mi fece ridere per un sacco di tempo. Ma di questo smarrimento, loro così lontani eppure così vicini, nel bel mezzo del mio salotto, ora sorrido. Chissà dove sono, li penso e tanto basta. Quella mattina al cir, però, a ripensarci, una cosa mi ha fatto davvero molto ridere. «D’accordo, ma Tagab vicino a dove? Vicino a cosa?» gli chiedevano molto puntigliosamente. Tagab è il posto da dove viene Akmed. Se lo cercate su Google Maps lo potete vedere. Un po’ imbarazzata ho chiesto molto gentilmente alle avvocatesse del cir se per caso non si poteva stampare l’immagine di Google Maps di quella zona, che era inutile starlo lì a interrogare così. E Akmed, che parla un inglese minimo e zero italiano, Tagab col dito ce l’ha fatta vedere allora dove stava. Dopo, ma molto dopo, questa cosa che al Centro Italiano Rifugiati patrocinio delle Nazioni Unite non c’era il mappamondo mi ha fatto tanto ridere. Comunque siamo venuti via dal cir. 19 Perché Akmed è minorenne, e al cir si occupano solo di maggiorenni. E così siamo andati a casa mia. Dal finestrino del taxi, all’andata e al ritorno, Akmed vede il Circo Massimo, e lo guarda con attenzione. Anche se il Circo Massimo non si vede. Come sanno tutti i romani, anche se magari non ci fanno caso. Perché in effetti il Circo Massimo è solo una traccia per terra, ma se ve lo nominano allora vedete subito le bighe di Ben Hur. Invece c’è solo un po’ d’erba sopra. Ma sopra cosa? Il punto è che – e vale per il Circo Massimo, per la storia di Akmed e di tutti quanti – certe cose sono diverse nella realtà dall’effetto che fanno le parole. Ci sono cose che non si vedono ma esistono. Ci sono parole che suonano enormi e sono un orlo imbastito. Come Circo Massimo. E parole che sembrano erbetta, come “minori”, e invece è Akmed; questo ragazzino con gli occhi verdi impaurito. Ma non lo dà a vedere. E anche gli altri 8.000 non lo danno a vedere, eppure arrivano a Roma. I turisti non lo vedono, il Circo Massimo. Quando arrivano all’angolo tra via del Velabro e via San Teodoro ti fermano e ti chiedono, con la piantina di Roma in mano: «Scusi, dov’è il Circo Massimo?». Mi è successo un sacco di volte. E tu allora con la mano indichi: quello. E indichi uno spicchio di terra grande ma vuoto, nemmeno una biga, solo erbetta. Un’ellissi e l’erba, dall’alto della collina lo vedi bene: ma solo se lo sai. Luca, che fa l’architetto, mi ha detto che queste cose – le tracce per terra, dove non restano mattoni o rovine ma solo terra per terra ed erba sopra la terra – sono un segno che la gente ricorda, come se lo spazio resta. E 20 in architettura queste cose che non si vedono hanno un nome: “permanenze”. Dice Luca, questo amico che ora lavora in Africa per l’unicef, che la parola – permanenze – l’ha coniata Aldo Rossi, un architetto italiano che amo e che nel mondo degli architetti è riconosciuto come “l’ultimo maestro”. Anche nelle scuole di architettura di Tokyo studiano Aldo Rossi e le cose che pensava e faceva. Lui un giorno ha scritto una cosa, nel suo taccuino personale – un taccuino di quelli che entrano in tasca, lo usava quando viaggiava, ci faceva dei disegni molto belli – che non me la sono più scordata: «Un uomo, soprattutto un uomo d’intelletto, apre più conti con l’arte e con la vita di quanti potrà chiuderne». D’accordo, ora voi pensate: ma che c’entra? A noi ci interessa sapere dove sono finiti gli altri bambini: che ci frega delle permanenze? Giuro, c’entra. Vedrete che c’entra anche con gli altri tre ragazzini afgani, che non so dove sono. Per cui andiamo avanti. 21 4. Forrest Gump scopre via Volturno To members of La città di Asterix 24 December at 15:25 Alla stazione Termini è Natale, in questa puntata: come nelle vostre case. Solo che in questo Natale c’è tanta altra roba oltre all’arrosto. Soprattutto c’è un cartello su una porta che mi guarda dritto negli occhi. ––––– Al portone di Save the Children, poi – pioggia o non pioggia, bomba o non bomba come cantava Venditti – siamo arrivati, proprio come la canzone “siamo arrivati a Roma”. Senza Michelangelo, Sordi e Venditti a Roma vi perdete sicuro. Save the Children è un’associazione indipendente nata in Inghilterra, una Ong che in Italia lavora con gli enti pubblici e che di solito – nei paesi in guerra o dove mancano le cose primarie, tipo l’acqua o la pace – si occupa di mantenere un bambino a casa sua: nel suo villaggio, nel suo orfanotrofio o nella sua tenda. Bene, non saprei dire come si vive in una tenda o in 22 un villaggio dove mancano le cose primarie, tipo l’acqua o la pace. Però un collega mi ha detto questo: «Non ha senso, mantenerli in questi posti. Se li vedi sono tuguri. Magari c’è una donna, l’anziana del villaggio, che dà da mangiare a otto bambini che magari sono orfani o malati. Ma sono tanti, troppi, e poi come vivono? Guarda, Carlotta, stai male quando li vedi, davvero ti chiedi se ha senso mandare questi spiccioli…». E poi il collega, che si chiama Carlo e queste cose – i tuguri – le ha viste coi suoi occhi, mi ha detto anche che «l’unica soluzione sarebbe portarli qui. Adottarli, portarseli a casa: ma la legge non lo consente. Ecco, l’unica battaglia che possiamo fare qui, in Italia, in Europa, è quella per la legge sull’adozione internazionale». Questa battaglia da noi c’è già. Ma non si vede tanto, come il Circo Massimo. Save the Children con 80 centesimi al giorno assiste i bambini nel tugurio che ha visto Carlo. E se ora sta qui a Roma, Capitale del Regno, Europa, si vede che c’è bisogno anche qui. Ma a questo Carlo non lo impressiona. Può darsi che nel tugurio non ci volevano stare – forse mancava l’acqua pulita, forse c’erano troppe mine sotto terra: o, invece stavano bene, che si può essere felici anche a piedi scalzi. Quelli di Save the Children li incrocio spesso la domenica mattina: stanno spesso a Piazza del Popolo, con le giacche rosse degli operai. Come catarifrangenti gentilissimi fermano le persone in questa piazza che pare una conchiglia, dove un tempo c’erano dei bar molto eleganti e ora no, perché è tutto un precipitare a Roma, oramai. In questa conchiglia certe domeniche il Comune dà il 23 permesso di fare delle mostre di automobili, delle volte c’è la fiera della Polizia, quando i ragazzi di Save the Children chiedono un minuto di attenzione la risposta che ricevono più spesso è: «Vi conosco già», anche se poi magari uno non li conosce. A Save the Children Akmed ha un colloquio privato, a porta chiusa, con un mediatore: un ragazzo con i basettoni e il giubbotto di pelle marrone, poco più grande di lui. Ma su questo comincio ad avere dei dubbi: come mia madre non distingue tra un trentenne e un trentacinquenne, io non distinguo più, son tutti giovani uguali, dai 16 ai 26. Questo ragazzo, afgano anche lui, che ha studiato da mediatore e parla l’italiano, fa appunto questo: media. Ma io sono fuori dalla porta e non so come sta mediando. Credo che avvicina parole e pensieri. Le parole afgane e quelle italiane sono diverse, ma delle volte, molte volte, forse tutte le volte, anche i pensieri di un avvocato e quelli di un ragazzino scappato dalle bombe sono diversi. Quando Akmed esce dal colloquio, per via di questa diversità ineluttabile della vita che è parte anche della fatica umana di sentirsi pesare addosso i panni dell’altro, è piegato in due. «Ora sa come funziona il percorso e ha rilasciato una dichiarazione qui da noi,» mi spiega l’avvocato, che è poi una ragazza, col golf a righe marroni e verdi «dove chiede tutela come minore, e il riconoscimento dei suoi diritti. Si è dichiarato sedicenne e afgano. Ora dobbiamo chiamare il commissariato, quando avranno una volante libera lo verranno a prendere.» 24 Non so se è la volante della Polizia o la dichiarazione o il percorso, ma Akmed è piegato in due, si tiene lo stomaco, ha paura. «Akmed?» gli batto sulla spalla. «Hey, Akmed, dove sei? Io sono qui.» Non parla, si abbraccia la pancia. Ha capito o non ha capito? Ma, con lo stomaco chiuso e l’ansia di una Nonna Papera, capisco per la prima volta l’effetto che fa quella cosa che d’ora in avanti chiameremo la “Procedura”. La Procedura, come è molto ben spiegato in un documento che mi consegna un’impiegata di Save the Children, giustamente preoccupata delle Procedure, spiega appunto la «Procedura seguita per richiedere l’inserimento di un minore non accompagnato in una struttura protetta». Punto Uno, Due e Tre. Tutto molto preciso e utile, son certa. Non ho letto queste procedure, quando ero in via Volturno, le ho lette solo dopo. Ma ho letto un’altra cosa, in via Volturno 58, che stava appiccicata sulla porta dove Akmed ha fatto il colloquio e rilasciato la dichiarazione che era minorenne. L’avvocato Susanna, col golf a righe, sulla porta della sua stanza ha appeso un cartello con una frase di Martin Luther King: «La domanda più importante della nostra esistenza è: cosa posso fare io per gli altri?». Questo diceva il cartello, e questo ho letto. Sono scesa di corsa a comprare un cellulare, perché senza la minima idea della procedura e di cosa sarebbe successo in commissariato, ho capito che ad Akmed forse mancava un cellulare. Per chiamare qualcuno, magari anche Save the Children, che gli aveva dato un numero, ma non verde. 25 Ma può darsi che dica una bugia, che il cellulare alla fine servisse a me per parlare con Akmed, per sapere dove dormiva. In fondo, proprio una cosa inutile, una cosa ingenua e marginale, questa di sapere dove dormiva. Una cosa proprio da Papera. Non essendo pratica, mi pareva che questa fosse proprio l’unica cosa che potevo fare in quel momento, per rispondere alla domanda di Martin Luther King. Se uno ti fa una domanda si aspetta che rispondi, no? E soprattutto ora io me lo aspettavo, da me. Per cui sono scesa alla stazione Termini a comprarne uno. E la stazione Termini è addobbata per il Santo Natale, e alle cinque di questo confuso pomeriggio succede un’altra cosa divertentissima. In fondo è lo scopo di questa storia, farvi ridere tantissimo. 26
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