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agricoltura alimentazione economia ecologia
Rivista trimestrale della Federazione lavoratori
agroindustria della CGIL e della Fondazione Metes
Ricerca e formazione nel settore agroalimentare
per il lavoro e la sostenibilità
DIRETTORE
Franco Farina
REDAZIONE
Claudia Cesarini
Massimiliano D’Alessio
Elisabetta Olivieri
Laura Svaluto Moreolo
Alessandra Valentini
EDIZIONI
LARISER
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agricoltura alimentazione economia ecologia
■ RIVISTA TRIMESTRALE N. 16 ■ OTTOBRE-DICEMBRE 2013
Direzione, redazione e segreteria
Via dell’Arco dei Ginnasi, 6 - 00186 Roma
Tel. 39.06.6976131 (centralino)
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Direttore responsabile
Franco Chiriaco
Segreteria e abbonamenti
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Editori
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Progetto grafico
Antonella Lupi
Stampa
Tipografia O.Gra.Ro. - Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma
Distribuzione in libreria
PDE S.p.A.
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n. 491/2001 del Registro della stampa
Poste Italiane spa spedizione in a.p. D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1 comma 1 Roma Aut. n. C/RM/47/2012
Proprietà
Flai Cgil
Questo numero è stato chiuso in tipografia il 25 marzo 2014
Questa rivista è
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■ Sommario
■ Presentazione
La redazione
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■ L’argomento
Libertà delle donne nel lavoro: intervista
Stefania Crogi e Adriana Nannicini
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■ Monografia | La rappresentanza sindacale sul luogo del lavoro
Motivi
Rappresentanza, democrazia e contrattazione
Ivana Galli
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Ricerca
L’evoluzione storica della rappresentanza sindacale aziendale
Maria Paola Del Rossi e Fabrizio Loreto
23
Temi
Le strutture della rappresentanza sul luogo del lavoro
Franco Farina
37
Azione sindacale e modelli organizzativi
Michele Greco
47
■ Rubrica | Lavoro e salute
Salute mentale e stress da lavoro
Irene Figà Talamanca
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■ Presentazione
La redazione
I
l fascicolo si apre con l’intervista sulla Libertà delle donne nel lavoro. S. Crogi e
A. Nannicini affrontano il tema dell’autorealizzazione della donna nel mondo
del lavoro. Esaminano il ruolo della donna nella società e nella famiglia e i condizionamenti che, nonostante gli avanzamenti ottenuti, possono limitare, ancora, le
possibilità di scelta nel lavoro. Si soffermano sugli avanzamenti normativi ottenuti
nell’attività rivendicativa e contrattuale della Flai Cgil evidenziando le positività che
questi hanno avuto sul piano del protagonismo e della partecipazione delle donne.
Analizzano il tema della libertà nel lavoro e approfondiscono il tema e i contenuti
dei diritti e delle tutele secondo la peculiarità del lavoro femminile e della condizione della donna.
I. Galli, Rappresentanza, democrazia e contrattazione, apre la monografia dedicata
alla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro (Rsu). Esamina in dettaglio l’accordo
interconfederale sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 e rileva che il rafforzamento
della democrazia rappresentativa, così come prevede l’accordo, comporta un nuovo
protagonismo dei lavoratori sul piano della partecipazione, del proselitismo e della contrattazione nei luoghi di lavoro.
M.P. Del Rossi e F. Loreto, L’evoluzione storica della rappresentanza sindacale aziendale, ricostruiscono storicamente il ruolo della rappresentanza sindacale in azienda.
Affrontano i vari mutamenti che dall’età liberale al fascismo, dall’Italia repubblicana
fino ai nostri giorni si sono mostrati nelle strutture sindacali nei luoghi di lavoro. Rilevano nell’analisi storica le implicazioni organizzative e sindacali che la rappresentanza
operaia ha avuto nei diversi contesti economici e produttivi. L’indagine si sofferma,
inoltre, sul ruolo delle Commissioni interne, delle Sezioni sindacali d’azienda, dei Consigli di fabbrica e delle attuali Rsu, nate, queste ultime, in un quadro di radicale mutamento in cui si è trovata l’Italia nei primi anni Novanta.
F. Farina, Le strutture della rappresentanza sul luogo del lavoro, analizza il nesso tra
produzione e rappresentanza sindacale. Osserva, in particolare, i mutamenti tecnologici e i cambiamenti organizzativi del lavoro che hanno caratterizzato storicamente la formazione della rappresentanza sindacale in fabbrica e la stessa contrattazione
nei luoghi di lavoro.
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M. Greco, Azione sindacale e modelli organizzativi, si sofferma sui cambiamenti dell’organizzazione del lavoro per esaminare le caratteristiche lavorative e gli spazi che
la rappresentanza sindacale deve occupare sul piano della contrattazione e delle relazioni sindacali in fabbrica.
I. Figà Talamanca, Salute mentale e stress da lavoro, nella Rubrica: Lavoro e salute,
indaga la relazione tra stress lavorativo e salute mentale ed analizza le valutazioni e le
prevenzioni a questi concernenti.
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■ L’argomento
Libertà delle donne nel lavoro
Stefania Crogi*; Adriana Nannicini**
F
ranco Farina: Vorrei stabilire dei preliminari prima di affrontare la nostra intervista sulla libertà delle donne nel lavoro. Esaminare il tema della libertà è indubbiamente una questione complessa e che può, nello stesso tempo, favorire considerazioni alquanto generiche e indifferenziate. Per cercare di evitare ciò, io qualificherei l’argomento della libertà come libertà positiva. Il pensiero politico e filosofico ha distinto nel corso degli ultimi tre secoli la libertà negativa dalla libertà positiva. La
prima è intesa come una facoltà che implica per gli individui il diritto di non essere
ostacolati da altri nell’esercizio della propria attività; la seconda, invece, contiene la capacità delle persone a determinarsi da sé. La libertà negativa può essere un concetto formale, privo di contenuto, che si esaurisce nell’affermazione «di un’astratta capacità, di
un’arbitraria indifferenza di fronte a qualunque determinazione»; la libertà positiva
chiama, invece, la possibilità della singola persona a volere secondo le proprie scelte e
attitudini.
La libertà positiva incarna prevalentemente le lotte e le conquiste che il sindacato nel corso dei secoli ha realizzato. Difatti l’elevazione dei salari, la riduzione delle ore di lavoro e generalmente le condizioni più umane del regime di fabbrica hanno costituito non soltanto un miglioramento economico, ma anche un tramite di
civiltà, di cultura, di vita morale. In virtù di ciò uomini e donne hanno cominciato a formare la loro personalità come una realtà autonoma e capace d’intendere il
proprio destino morale ed esistenziale. Ora, proprio per la fase che il paese sta attraversando (la recessione economica, la disoccupazione, i mutamenti in fabbrica)
ritengo che l’azione sindacale, oltre a rivendicare i cambiamenti delle politiche economiche per lo sviluppo produttivo e occupazionale, debba dischiudere ai lavoratori le possibilità dell’occupabilità, della crescita professionale e del proprio reddito come, anche, forme identitarie delle persone. Mi sembra che la possibilità delle
* Segretario generale della Flai Cgil nazionale
** Psicologa del lavoro
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persone, come facoltà di scelta, nei luoghi di lavoro, oltre a riassumere il significato della libertà positiva, sia, oggi, uno degli aspetti decisivi della rappresentanza sindacale. Dunque la libertà positiva nella rappresentanza sindacale va intesa come la
possibilità di scelta e come condizione per le donne di realizzare le proprie attese e
la valorizzazione di sé.
Credo che sia questo uno degli aspetti fondamentali del rapporto tra la libertà e
le donne nel lavoro. Trovo in ciò la sottile linea di discriminazione che, oggi più che
mai, colpisce le donne che sono ferite sul piano occupazionale dalle crisi e dalle ristrutturazioni produttive e che si trovano senza speranza, senza tempo e senza la possibilità di scegliere liberamente il proprio destino.
Vi chiedo: quanto oggi il ruolo tradizionale della donna nella società e nella famiglia
preclude le possibilità di scelta come ragione di una sua autorealizzazione?
Stefania Crogi. Ruolo e libertà, queste sono le due parole chiave della prima riflessione. In particolar modo vorrei soffermarmi su come il «ruolo» renda aprioristicamente le donne «prigioniere» rispetto alla volontà e possibilità di esercitare quella
determinazione di sé cui si fa riferimento, rispetto alla possibilità di vivere la «libertà positiva», cioè quella che rende la donna protagonista e interprete delle scelte e non
solo spettatrice di quanto è sancito formalmente. Per capire quanto pesi il ruolo non
solo in termini concettuali, sociologici e culturali, ma anche in termini materiali, voglio ricordare una recente indagine condotta dal sito statunitense salary.com che, interpellando 6.000 donne, ha quantificato dal punto di vista salariale attraverso un algoritmo l’attività lavorativa delle casalinghe. Il risultato è stato che la professione delle
casalinghe (articolata nelle mansioni di cuoca, autista, insegnante, psicologa, contabile, manager, addetta alle pulizie, operaia, lavandaia, babysitter) vale 7.000 euro al
mese, ovvero 83mila euro l’anno. Considerando che – anche se negli ultimi anni vediamo segnali in controtendenza – la mansione di casalinga, pur se non svolta a tempo pieno, è una prerogativa della donna, capiamo quanto questo «ruolo» abbia una
portata tale che determina comunque condizionamenti. L’indagine di salary.com, infatti, non si limita ad analizzare le donne casalinghe ma anche coloro che lavorano
ed in più svolgono tutte le attività che riguardano la cura della casa e della famiglia,
supplendo ad un welfare carente o a servizi che avrebbero un costo.
Questa indagine forse non ci dice nulla di nuovo, ma almeno quantifica anche in
termini economici e non solo sociali il peso del ruolo della donna nella nostra società. Un ruolo ancora oggi dato per scontato e sottovalutato e che condiziona le libertà di scelta della donna a tutti i livelli, anche in quelli dove apparentemente libertà e
pari opportunità sembrano essere concetti e pratiche consolidati.
Il lavoro è componente essenziale della libertà della donna e dell’uomo, ma per la
donna la possibilità di scelta di un lavoro e di una carriera professionale – accanto-
Adriana Nannicini. La libertà femminile è la misura della democrazia di tutti e tutte. I limiti alla libertà delle donne derivano, secondo me, in tempi e dunque strutture storiche, tanto da patriarcato quanto da capitalismo (solo per semplificare un discorso ben più complesso, che non posso sviluppare in questa sede).
Credo che in Italia, più volte negli anni, da voci diverse e in luoghi differenti, molte donne abbiano mostrato quanto sia rivoluzionaria la convinzione che «le donne decidono».
La libertà di decisione e di scelta in ogni luogo è sicuramente limitata e, altrettanto
sicuramente, non pienamente riconosciuta. Nonostante ciò, è sempre più evidente
anche agli uomini, anch’essi in qualunque luogo (dal Parlamento alla vita familiare)
che questo è un punto imprescindibile anche nel progettare cambiamenti sociali. Non
ha più senso, anche a sinistra, evitare i confronti con la soggettività femminile.
Libertà di immaginare e di progettare un mondo diverso, condizioni di lavoro diverse? Certo le delegate che ho incontrato l’anno scorso, a seguito di una ricerca sulle donne nel lavoro della Flai Cgil, hanno raccontato con sapienza che lavorare significa anche intessere reti di responsabilità che sono radicate nel reparto, in
quell’ufficio, ma che si estendono alle case, le scuole, i vecchi genitori… chiedere modi di conciliazione è anche dire che la responsabilità messa in pratica debba essere
distribuita anche agli uomini, che questi prendano parte attiva anche a questo lavoro
domestico e di cura.
Perché per nessuna delle delegate limitare o rinunciare al lavoro per il mercato (quello fuori casa, quello pagato, magari male, ma pagato) è oggi un’opzione possibile: lavorare e produrre è una realtà di tante donne nel nostro paese e queste vorrebbero essere di più; vorrebbero lavorare bene, vorrebbero qualità di condizioni di lavoro per
sé, qualità di consumo per il cittadino, mantenimento della qualità della terra, innovazione dei prodotti…
Franco Farina. La Flai Cgil in questi anni, nella sua attività rivendicativa, ha prodotto risultati rilevanti sulle politiche sociali e pari opportunità. Il contratto nazionale dell’industria alimentare (2009) ha introdotto incrementi sui giorni di permesso per la malattia dei figli, sulle percentuali dei dipendenti per l’accesso contemporaneo
dei congedi formativi, sui giorni consentiti per i genitori con figli soggetti a patologie di particolare gravità, sulle percentuali per l’accesso al part-time; così anche l’ultimo contratto (2012) ha migliorato ulteriormente il dispositivo contrattuale sul parttime (innalzamento della percentuale di reversibilità, revoca o modifica delle clausole
L’argomento
nando per un momento la crisi – possono essere non condizionate da quel ruolo? Credo che dobbiamo ancora impegnarci affinché la risposta possa essere un sì, senza se
e senza ma.
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flessibili ed elastiche per casi gravi), sulla tutela e assistenza del disabile e sui congedi
per malattia del figlio. La stessa contrattazione di secondo livello ha segnato avanzamenti efficaci sui temi delle politiche sociali e pari opportunità. Sono previsti, infatti, avanzamenti sui permessi per la nascita dei figli, per accompagnarli alle visite specialistiche, sul congedo a causa della malattia del figlio, sui permessi retribuiti per
assistere il coniuge al parto e per l’assistenza al figlio nei primi giorni di vita. In alcuni accordi si prevede un servizio ambulatorio medico-pediatrico per i figli in età pediatrica, soggiorni estivi per i figli dei dipendenti, convenzioni e contributi per l’iscrizione all’asilo nido e alle scuole materne, sussidi di studio per l’avviamento
all’università.
Sulle pari opportunità, gli accordi di secondo livello si riferiscono prevalentemente
ai temi dell’orario e della formazione. Infatti sono previsti orari a part-time (verticale e orizzontale) per i lavoratori/trici, madri e padri, fino al compimento del terzo anno di vita del bambino e il rientro sul normale orario di lavoro (questo vale anche per
i lavoratori/trici con situazioni con gravi e documentati motivi di salute o con la necessità di accudire familiari conviventi non autosufficienti o colpiti da gravi problemi di salute). Accanto a questi aspetti, gli accordi aziendali evidenziano una pratica
formativa di reinserimento al lavoro in azienda delle lavoratrici madri e dei lavoratori
padri, dopo la fruizione dei periodi di congedi parentali, per inserire le donne alle nuove competenze professionali richieste nei cicli produttivi e per sviluppare e rinnovare le professionalità acquisite. In alcuni accordi è prevista la Banca del tempo in azienda; la possibilità, cioè, di costituire gruppi di volontari che si scambiano tempo per
aiutarsi nelle piccole necessità quotidiane: incombenze domestiche, cura dei figli, assistenza agli anziani.
Oramai nel negoziato aziendale e nella contrattazione collettiva della Flai Cgil, le
politiche sociali e le pari opportunità s’intrecciano mostrandosi spesso collegate. Le
ragioni dipendono dalla necessità di rendere soprattutto indispensabili i sostegni sociali alle condizioni concrete delle donne nel lavoro. Sono risultati il cui esito è frutto di una cultura rivendicativa della categoria la quale si manifesta nei diversi settori
dell’agroalimentare, stabilendo così una propria caratteristica della sua azione.
Quanto questa cultura e i risultati ottenuti si collocano, pur nelle limitazioni di un
negoziato, in una condotta sindacale in grado di ridurre o di rompere i meccanismi
di conservazione che regolano lo status quo della donna in una condizione naturale e
predefinita sia nel lavoro sia nel rapporto con i maschi?
Stefania Crogi. Gli avanzamenti contrattuali e le conquiste ottenute, ben esposte
nella tua domanda, riguardano tutto il versante del welfare, versante necessario su cui
intervenire e sul quale come Flai tanto abbiamo fatto, ma non esaustivo. La reale parità di occasioni lavorative significa pari dignità sul lavoro. Ad esempio, proprio da
Adriana Nannicini. Le condizioni e le relazioni mi pare siano storiche, non naturali. Vecchia opposizione che mette le donne nel campo della natura! Le modifiche al riconoscimento di una presenza nella storia vengono appunto dalle modifiche della cultura rivendicativa della categoria, come sottolinei, dunque quanto più
L’argomento
una ricerca condotta per conto della Flai è emerso che le donne stesse spesso non riescono a percepire la loro polivalenza e polifunzionalità nel posto e nelle mansioni lavorative e anche le Rsu non hanno puntato a valorizzare la capacità delle donne ed
il loro inserimento in percorsi formativi. Quindi, anche qui rintracciamo il peso del
«ruolo» nei processi rivendicativi. Ma voglio aggiungere una riflessione sull’importanza
del sindacato per quanto riguarda la rivendicazione dei diritti delle donne e in generale di uomini e donne.
Sin dalla sua origine il sindacato, la Cgil, nel nostro Paese ha sempre saputo coniugare in modo strettissimo i diritti del lavoro con il rispetto dei diritti civili e di cittadinanza delle persone. Questo è ben espresso sin dal lontano 1912 in un articolo di Argentina Bonetti Altobelli, prima segretaria della Federterra, che scriveva: «Le statistiche
ci rivelano che le donne lavoratrici sono parecchi milioni, che aumentano ogni giorno,
che partecipano ad ogni lavoro, ad ogni attività sociale; ma non ci narrano tutti i dolori, i patimenti, le sofferenze economiche e morali che le donne debbono affrontare e
subire nel lavoro e nella vita. [...] Non solo, dunque noi dobbiamo difendere le donne
dallo sfruttamento capitalistico [...], ma dobbiamo levare un grido di protesta contro
lo stato di soggezione in cui vivono». Ecco, credo che siano parole importanti, anche
attuali seppur pronunciate oltre 100 anni fa, diventate un programma di azione di Argentina Altobelli e del sindacato tutto, che nel corso degli anni ha sempre lottato in difesa della donna lavoratrice e della persona: dalla rivendicazione delle 8 ore lavorative
nata con le mondine, guidate proprio da Argentina, fino alle conquiste di oggi e di quelle ancora da ottenere in materia di pari opportunità, welfare, parità di trattamento salariale, tutela della maternità. Leggi e contratti prevedono tutele importanti, ma la realtà fattuale spesso è un’altra: dalla pratica delle «dimissioni in bianco» al dato rilevato
dall’Istat secondo cui una volta lasciato il posto di lavoro solo il 40,7% delle donne ha
successivamente ripreso una attività lavorativa (libera scelta o scelta indotta?).
Sulla difesa dei diritti tout court il sindacato ha rappresentato da sempre un’avanguardia, seppur in quelle che nella domanda vengono definite «limitazioni di un negoziato», e i risultati ottenuti – sono fermamente convinta – sono e saranno in grado di modificare in senso migliorativo le condizioni delle donne sul lavoro e nella
società, aprendo spazi nuovi di protagonismo e partecipazione. La categoria che rappresento, storicamente ha saputo guardare al lavoro femminile e alle condizioni concrete di lavoro, segnando punte di avanzamento, considerando sempre le condizioni di lavoro e la parità salariale.
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le donne sono protagoniste di contrattazione, sono presenti ai tavoli, sono riferimento
per compagne e compagni di lavoro. Non credo che tutto passi per un’area di pari
opportunità, rischiando di essere un recinto. Le delegate che ho incontrato l’anno
scorso hanno raccontato di trasformazioni tecniche, di desiderio di essere riconosciute
come interlocutrici, di conoscenza del processo di produzione, di orgoglio per un
lavoro fatto bene… il lavoro. Il protagonismo femminile è avviato da lungo tempo:
tempi, pratiche, modi diversi certo, ma ciò ha una lunga storia. Anche nelle organizzazioni sindacali il protagonismo femminile è in corso da tempo, nelle organizzazioni partitiche di sinistra la dirigenza maschile fa fatica ad accorgersene. Lo spazio delle donne si apre ogni giorno di più. Nelle famiglie, varie famiglie ormai, nella
società… Quello che aspetta da tempo di mutare è il ruolo tradizionale degli uomini!!
È certo che il cambiamento di comportamenti e di modi di pensare le relazioni da
parte degli uomini, ogni esito positivo di rivendicazioni sindacali dà, sicuramente,
apporti positivi all’universo femminile e questo perché le donne lavorano, vogliono lavorare anche per il mercato e, quindi, avere una quota del loro tempo di lavoro che sia pagata. Aspettiamo ancora che si incrini il meccanismo tradizionale degli
uomini, del loro modo di assumere responsabilità del lavoro domestico e di cura per
esempio.
Di qui passerà un cambiamento percepibile, anche per la qualità di vita degli uomini.
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Franco Farina. La libertà positiva nel lavoro si qualifica nel binomio tra diritti e opportunità per le donne. Indubbiamente è una questione generale e riguarda tutti i lavoratori ma in assenza di un forte avanzamento di questo binomio, le donne sono condannate all’emarginazione dal lavoro e alla cancellazione della differenza di genere nel
lavoro che la stessa Costituzione (art. 37) riconosce.
Il tema dei diritti è quello della conoscenza, della partecipazione e della decisione. Difatti conoscere per poter partecipare alle decisioni aziendali coincide sempre
più con una nuova forma di democrazia nel lavoro la quale può ammettere, per sua
natura, la possibilità di realizzare un progetto personale e può escludere lo spazio di
arbitrio e di discrezionalità contenuto strutturalmente nella cultura aziendale. La libertà come conoscenza e come possibilità di decidere e l’autorealizzazione della donna sono oggi, a mio avviso, le condizioni inevitabili e inscindibili del progresso femminile nel lavoro. Del resto il lavoro oggi è molto cambiato rispetto al secolo
precedente; è sempre di più differenziato rispetto alle competenze professionali, la
stessa formazione di competenze nel lavoro esula esclusivamente dai dati tecnici della produzione, è richiesta l’autonomia decisionale impensabile nel passato e la prestazione, dal punto di vista della durata o della flessibilità, risulta sempre più un dato disomogeneo e caratteristico del rapporto di lavoro. Su queste novità s’impone un
Adriana Nannicini. Sì, tuttavia sono convinta che il diritto di cittadinanza delle
donne esista già e che non sia necessario uno nuovo.
Stefania Crogi. La libertà positiva nel lavoro ci porta diretti ad una azione del documento congressuale «Il lavoro decide il futuro», l’Azione numero 9 che s’intitola
«Libertà delle donne». In questa azione si fa riferimento al fatto che parità e lavoro
sono diritti di cittadinanza e cittadinanza significa democrazia. Tutto ciò si declina
o dovrebbe declinarsi, sul posto di lavoro, in possibilità di realizzarsi e autodeterminarsi. Ma c’è tanta distanza tra quello che accade realmente e quello che dovrebbe essere.
È sotto gli occhi di tutti come la crisi economica e sociale abbia portato ad una restrizione e arretramento dei diritti nel mondo del lavoro tanto per gli uomini quanto per le donne. Ma per le donne c’è sempre quel «di più», cui ho fatto riferimento
in altre occasioni, un di più determinato anche dalla presenza del «ruolo» sopra descritto.
Ci sono dati allarmanti, come quello sulle retribuzioni delle donne. La Confederazione Internazionale dei Sindacati si è soffermata sulla differenza salariale tra uomini
e donne, esaminando la situazione in 43 paesi del mondo, e le notizie non sono confortanti. Il Differenziale Retributivo di Genere è altissimo in alcuni paesi dell’Asia e
dell’Africa, ma con percentuali più basse si registra anche in Europa. Ma non bisogna andare molto lontano per verificare che nel settore agricolo, anche nei nostri campi le donne, spesso straniere, prendono una paga inferiore, e se provano a chiedere il
motivo la risposta è: «Sei donna, se vuoi lavorare è così». Pensiamo al lavoro nero; o
alle braccianti straniere e italiane, che sono sfruttate quanto gli uomini, ma in più –
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forte ripensamento delle teorie e delle politiche rivendicative che hanno caratterizzato il Novecento. Ciò riguarda lo stesso contributo della «questione femminile» così come tradizionalmente si è collocata nel passato nell’azione sindacale. È un ripensamento radicale che riguarda la questione dell’orario di lavoro, dei tempi di
lavoro e di vita che tradizionalmente sono stati trattati fuori dal lavoro e dai contenuti del lavoro stesso. Oggi mantenersi su queste categorie interpretative significa trascurare le trasformazioni in atto dell’organizzazione del lavoro e le possibilità che questi mutamenti offrono, seppur contraddittoriamente, alle donne sul terreno delle
competenze, della professionalità e di autorealizzazione per una rinnovata e potente identità femminile.
Credo che la questione della libertà nel lavoro, come fonte di un nuovo diritto
di cittadinanza per le donne, sia la ragione principale di un sindacato che voglia progredire e recuperare una crisi di rappresentanza in termini generali e di genere.
Siete d’accordo?
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spesso – oltre ad una paga inferiore sono costrette a subire la violenza e i soprusi dei
datori di lavoro e dei caporali, una violenza in più perché donne. E su questo punto
mi voglio soffermare un attimo, per sottolineare come le donne, qualsiasi lavoro o posto occupino (anche in posizioni apicali e di potere che magari erano appannaggio
tradizionale di uomini) vengono sempre attaccate, colpite, limitate nella propria libertà in quanto donne a prescindere dal merito delle questioni. Penso a quello che è
accaduto qualche tempo fa nei confronti della Presidente della Camera Laura Boldrini: l’attacco che potrebbe e dovrebbe essere politico si trasforma senza mediazione alcuna in attacco sessista, violento, minaccioso, volgare e possibile proprio perché
rivolto ad una donna.
Questo riferimento non vuole essere un modo per allontanarmi dalla domanda,
ma credo che sia emblematico di come ci sia ancora molta strada da fare nella società e nei posti di lavoro per arrivare alla piena possibilità di scelta della donna nel lavoro. Sta a noi gettare il cuore oltre la siepe e pensare alla questione femminile guardando al lavoro, alla sua organizzazione, alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro,
arrivando ad una vera eguaglianza uomo-donna delle condizioni di lavoro e di carriera. E quanto alle condizioni di lavoro, bisogna guardare con molta attenzione ad
un gap che c’è in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: non esiste una prevenzione «al femminile», che sarebbe quanto mai necessaria non per motivi ideologici ma fisiologici, cioè una prevenzione di genere, là dove usiamo il termine genere
nella sua accezione scientifica. Questo è un altro versante su cui a livello di contrattazione si sta facendo e si può fare molto.
Franco Farina. Il tema mi sembra che sia quello di adeguare sempre di più la realtà produttiva come spazio pubblico in netta distinzione dall’ambito privato o, come
avvenuto prima dello Statuto dei lavoratori (’70), dalla sfera del dominio privato. Indubbiamente con lo Statuto e con le conquiste sindacali siamo in presenza di diritti
fondamentali: la libertà di associazione in assemblea, il diritto a contrattare gli orari,
la professionalità, la sicurezza, il salario. Questi diritti collettivi, sebbene abbiano limitato il potere discrezionale del datore di lavoro, non hanno ancora scalfito il dominio sul lavoratore con il quale viene «determinato l’oggetto concreto del lavoro».
In quest’area rimane l’opportunità di una negoziazione collettiva sull’organizzazione
del lavoro ma sono esclusi i diritti alla persona/e.
La persona nel lavoro non ha diritti di cittadinanza là dove si svolge la prestazione lavorativa e in cui s’integra la dimensione personale e la personalizzazione della lavoratrice. È in questo punto nevralgico, a mio modo di vedere, che si caratterizza il
significato autentico della relazione libertà e donne del lavoro. G. Di Vittorio nel 1952
affermò che «la democrazia se c’è nella fabbrica c’è nel paese […] se è uccisa nella fabbrica non può sopravvivere nel paese» dando via alla necessità di uno statuto per la
Adriana Nannicini. Esistono varie occasioni in cui la scrittura di una carta mette
in evidenza questioni, temi, urgenze per dare maggior forza, maggior visibilità, oppure per farne un oggetto di trattativa, di precisazione legislativa.
Credo che una Carta debba vivere nella quotidianità concreta, nei contratti e nell’applicazione di questi.
La sfida è la pratica, il mutamento delle condizioni reali e concrete. Molte giuriste parlano di «diritto leggero», molte dirigenti e attiviste parlano del valore trasformativo che generano pratiche nuove, cambiamenti nei fatti, costanza di tenuta dei
risultati raggiunti. A me pare che sia un’ottica femminile esplicitare la necessità di connettere piano astratto e teorico e realtà concrete, fisiche, corporee, pratiche di cambiamento e di lotta.
Al fine di attuare e perseguire un concreto cambiamento, sarebbe necessaria una
nuova Carta? Credo sarebbe semmai interessante allargare lo sguardo.
Stefania Crogi. Con lo Statuto dei Lavoratori la Costituzione entrò nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, facendo sì che le parole di Di Vittorio citate divenissero una
realtà. Parliamo di una legge che rappresenta un pilastro per il movimento dei lavoratori e per la storia del sindacato. Nel pensare allo Statuto dei Lavoratori, vi era l’esigenza di colmare in parte la strutturale debolezza del lavoratore rispetto alla parte
datoriale e questa fu una grande intuizione e conquista. Oggi, nel ventunesimo secolo, la crisi globale rimette in discussione i principi sanciti da quel testo, così come
rimette in discussione i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Anche nella crisi occupazionale c’è un «di più» per le donne: l’occupazione femminile in Italia
è ferma al 47,2%, rispetto alla media europea del 58,6%. Se guardiamo alla generazione Neet (Not in Education, Employment or Training), sono Neet il 26% delle don-
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difesa dei diritti, della libertà e della dignità del lavoratore dove le assunzioni, le qualifiche, le retribuzioni, le promozioni e i licenziamenti dovevano essere regolati esclusivamente dal contratto e dalla legge. Questa sua intuizione portò, una volta cambiati
i rapporti di forza nelle fabbriche, allo Statuto dei lavoratori. Oggi la necessità, proprio sul piano della democrazia e della libertà nel lavoro, è quella di stabilire diritti e
opportunità della persona nel lavoro.
Questa necessità universale nel mondo del lavoro per non ritenerla indifferenziata e discriminante per le donne deve assolutamente trovare una declinazione di genere. Credo che sia possibile pensare a una Carta dei diritti per le donne nel lavoro,
dove l’esercizio di tali diritti comporta la possibilità di scelta come condizione di realizzazione delle proprie attese e della propria valorizzazione di sé come donna.
Come costruire tale Carta e quali sono i diritti che secondo voi qualificano il rapporto libertà delle donne nel lavoro?
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ne contro il 20% degli uomini, e per le donne la possibilità di una gravidanza è un
fattore che le tiene fuori dal mercato del lavoro, e non per loro scelta!
Questi dati ci dicono che, oltre la crisi, è necessario un rinnovato diritto ad avere
opportunità di lavoro, cioè capire come lo Stato intenda riconoscere alle donne che
cercano lavoro un’opportunità e possibilità di lavoro. Allora penso non tanto ad una
Carta dei diritti per le donne nel lavoro, quanto ad una Carta dei diritti per le donne
nella società, tornando qui ad agire sul famoso «ruolo» da cui è partito il nostro colloquio. All’interno della sfera lavorativa, per essere incisivi, credo sia necessario agire
sempre in un’ottica globale di elevazione dei diritti e delle tutele, facendo emergere
le peculiarità del lavoro femminile e della condizione della donna, ma sempre evitando
un approccio improntato alla separatezza. Famiglia, maternità, figli: anche qui dal presente rivado nel passato, alle parole di Donatella Turtura quando sosteneva, ad esempio, che tutela della maternità e i servizi di asili non dovrebbero essere considerate «esigenze particolari della donna lavoratrice», ma «questioni sociali di portata generale».
Seguendo tale linea, quando andiamo a rinnovare i contratti non possiamo accettare
che la considerazione per la parità di genere sia relegata – separata – nel «capitoletto» delle pari opportunità, ma è l’intera contrattazione che non deve più parlare e quindi essere pensata al maschile, bensì deve assumere nella parità dei diritti e delle tutele il riconoscimento delle differenze di genere.
Monografia
La rappresentanza
sindacale sul luogo
del lavoro
■ Motivi
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■ Temi
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■ Motivi
Rappresentanza, democrazia e contrattazione
Ivana Galli*
N
ella premessa del documento congressuale della Cgil, «Il lavoro decide il futuro», si legge: «l’Accordo del 28 giugno 2011, al di là dei diversi giudizi,
impegna tutta l’organizzazione e non è scindibile dall’Accordo del 31 maggio 2013. Accordo positivo frutto dell’iniziativa di tutta la Cgil, che rappresenta un
significativo cambiamento nel sistema di regole e di rappresentanza per la contrattazione e su cui tutta l’organizzazione è impegnata a garantire l’esigibilità».
Parto da qui per dire senza mezzi termini che il Testo Unico sulla rappresentanza, sottoscritto il 10 gennaio, che va ad attuare quanto espresso in quei due accordi, è un testo
storico per il nostro sindacato. Mette un punto fondamentale ad una vicenda che ha segnato gli ultimi anni.
Finalmente si definiscono insieme democrazia e rappresentanza, in attesa di quella legge che chiediamo da oltre 30 anni e che applichi quanto sancito dall’articolo 39 della
Costituzione: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto
altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro
iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
Ora, in attesa di una legge sulla rappresentanza, che seguitiamo a chiedere con forza, abbiamo il Testo del 10 gennaio e credo non sia un risultato da poco. Intese separate, tentativi di marginalizzare la Cgil, sindacati di comodo: tutto questo abbiamo
subito nel corso degli anni. Oggi il Testo Unico, che coordina appunto in un solo testo
diversi accordi, pone regole precise sulla certificazione degli iscritti, assumendo i dati
associativi (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e i dati elettorali ottenuti con i voti espressi in occasione delle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie. Un principio di trasparenza, che dà procedimenti e criteri per rilevare la rappresentatività sindacale calcolata, lo ripetiamo, tra dato associativo ed
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elettorale. Secondo il nuovo Testo Unico, per la misura e certificazione della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria si devono assumere i dati associativi (le deleghe aziendali che saranno accreditate secondo prassi definite) e i dati elettorali della elezione delle Rsu. Le deleghe saranno rilevate e certificate
dall’Inps, la quale elaborerà annualmente i dati raccolti. Per l’anno 2014 si rileveranno
le deleghe relative al secondo semestre, i dati saranno poi trasmessi al Cnel che li unirà ai dati ottenuti nelle elezioni delle Rsu. Il regolamento prevede che se si raggiunge
una rappresentatività del 5% si abbia il diritto di partecipare al tavolo delle trattative contrattuali. «Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni
delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo e dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo
(percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su
voti espressi) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel». I dati sulla rappresentanza sono determinati e comunicati dal CNEL entro il mese di maggio successivo
a quello della rilevazione. I nuovi Contratti Nazionali di Lavoro per essere efficaci ed
esigibili dovranno avere il 50%+1 delle Oo.Ss. rappresentative ed il voto certificato dei
lavoratori.
Quanto alla elezione delle Rsu, qui la novità, queste saranno interamente elette proporzionalmente dal voto dei lavoratori e delle lavoratrici ed avranno potere di decisione sulla contrattazione di secondo livello. Tra i punti del Testo Unico non voglio tralasciare di citare la parte Quarta relativa alle sanzioni, oggetto di discussione all’interno
della stessa Cgil. Le sanzioni riguardano tutte le parti, quindi anche le aziende che non
rispettano i contratti; e solo per le aziende sono previste sanzioni con effetti pecuniari. Inoltre, le conseguenze non potranno mai riguardare i lavoratori, ma le rappresentanze e le organizzazioni sindacali e solamente sul versante dei diritti sindacali di
origine contrattuale, escludendo – come è ovvio – i diritti derivanti da norme di legge. Quindi mai più potrà accadere quanto verificatosi a Pomigliano dove è stato sottoscritto un accordo separato che prevede sanzioni per i lavoratori e vincoli al diritto
di sciopero.
Questo è quanto prevedono oggi le regole che la Cgil ha contribuito a redigere. Ora
il punto è come esse verranno applicate nei luoghi di lavoro per rendere veramente viva e rafforzata la democrazia rappresentativa, segnando una nuova stagione di attività, partecipazione e protagonismo delle Rsu. La certificazione è importante perché
in realtà «ci conta» e ci deve far contare di più. I delegati saranno chiamati ad un protagonismo attivo e questo potrà rappresentare una forte spinta per il proselitismo, avvicinando al sindacato lavoratori e lavoratrici non con un aprioristico assenso, bensì
attraverso la partecipazione. Tutto ciò significa anche che è necessario investire ed im-
Motivi
pegnarsi sul fronte della formazione dei futuri delegati, anche qui una sfida che ci deve vedere protagonisti.
Il Testo Unico rafforza la democrazia rappresentativa, questo avviene attraverso la validazione dei contratti e la partecipazione alla contrattazione di secondo livello.
Nell’agorà del luogo di lavoro in tutte le sue articolazioni, i protagonisti sono i lavoratori e i delegati, chiamati a partecipare per contare. Deve essere una partecipazione «responsabile», diversa rispetto al passato, pertanto lavoratori e lavoratrici devono sapere e
conoscere, dibattere, devono avere l’informazione e la formazione adeguate per entrare
nel merito delle questioni e dare un contributo partecipativo. È necessario scongiurare una
condizione che purtroppo si è verificata negli anni: la separazione tra lavoratori e Rsu,
tra Rsu e territorio; la democrazia rappresentativa dovrebbe ridurre lo scarto, eliminare
divisioni a compartimenti stagni. Pertanto serve una maggiore organicità per evitare che
le soluzioni sindacali diventino e siano vissute anche dai lavoratori interessati come meri fatti amministrativi; altrimenti diventa un simulacro della democrazia. Nel protagonismo sindacale si riescono a realizzare gli obiettivi di proselitismo. Allora interpretare la democrazia rappresentativa significa anche rompere meccanismi «stagni», l’eccessivo
delegare ad altri perché tanto c’è qualcuno che provvede, significa trovare motivazione e
coinvolgimento nella partecipazione. Altrimenti il rischio è la deriva del corporativismo.
È sotto gli occhi di tutti come l’organizzazione stessa del lavoro, la sua frantumazione non
solo nei luoghi, ma soprattutto dal punto di vista contrattuale, renda sempre più difficile rappresentare e sentirsi rappresentati. Lavoratori e lavoratrici vivono un senso di solitudine e di isolamento, che dal posto di lavoro si estende a tutta la sfera del sociale, dove vengono meno momenti e luoghi di aggregazione, discussione e confronto. Anche per
questo è fondamentale la nostra capacità di azione.
La certificazione della rappresentanza, per le cose che dicevo prima, di fatto ci obbliga a lavorare sul proselitismo e sulla qualità dei contenuti. Infatti, cosa ci sarà nei contratti dipende da come e quanto il sindacato è rappresentato in una categoria, in una
azienda. Da oggi firma chi è rappresentativo, chi c’è, quindi per far pesare i nostri contenuti è necessario dare un maggiore impulso al proselitismo, segnandone una nuova stagione; per farlo bisogna essere molto concreti, sui posti di lavoro le persone non vogliono
sentire discorsi teorici, generali ed astratti, ma vogliono capire cosa accadrà domani, cosa può e vuol fare il sindacato per contrastare la crisi, come si può fare un contratto aziendale migliore, dove agire.
La contrattazione dovrà stare al centro della nostra azione, mentre informazione e discussione dovranno essere le leve su cui agire per aumentare tesserati, eleggere delegati e contare, modificando in senso migliorativo le condizioni di lavoratori e lavoratrici che vogliamo rappresentare. Il tesseramento al sindacato non deve essere vissuto come un rito
stanco, con il rischio che nel reiterarsi si affievolisca, ma deve essere momento di partecipazione vera. Ritorna centrale l’iscrizione al sindacato nelle attività del gruppo dirigen-
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te. Il Testo Unico sulla rappresentanza credo che possa essere un’opportunità per una rinnovata stagione di proselitismo e di partecipazione. Il risultato che è stato conseguito con
la firma del 10 gennaio tra sindacati e Confindustria riguarda tutto il settore dell’industria. Ora ci dobbiamo impegnare affinché un percorso similare su rappresentanza e
certificazione si estenda anche al settore dell’agricoltura, che al momento ne è fuori.
■ Ricerca
L’evoluzione storica della rappresentanza
sindacale aziendale
Maria Paola Del Rossi* e Fabrizio Loreto**
Dall’età liberale al fascismo
«La rappresentanza sindacale in azienda – ha scritto Tiziano Treu – e le forme organizzate in cui essa si concreta sono fra i punti cruciali nell’assetto di ogni sistema
di relazioni industriali»1.
Da un punto di vista storico, la prima struttura ad essere costituita nei luoghi di lavoro fu la Commissione Interna. Per lungo tempo unica forma di rappresentanza operaia in azienda, essa fu un unicum tra le esperienze europee. Sviluppatasi sul finire del
XIX secolo nelle realtà più avanzate nel Nord (Lombardia, Piemonte e Liguria), la Commissione Interna apparve negli anni del decollo industriale, che segnarono l’emergere
sulla scena nazionale delle organizzazioni dei lavoratori. La nascita del sindacato, infatti, avvenne parallelamente all’affermazione dell’industria moderna, proiettandosi come
elemento costitutivo di un nuovo ordine sociale e di un diverso assetto dell’economia
e dello Stato, segnando, attraverso la resistenza e il conflitto, un punto di rottura con il
precedente associazionismo di stampo mutualistico e solidaristico2.
Le Leghe di resistenza, definite dal primo segretario generale della CGdL, Rinaldo
Rigola, organizzazioni di «primo grado» del movimento sindacale italiano3, introdussero dunque alcuni elementi qualificanti di differenziazione rispetto alle esperienze
precedenti, quali l’utilizzo dello sciopero e la rivendicazione economica4. Questo ti* Università di Teramo
** Università di Torino
1 T. Treu, Sindacato e rappresentanze aziendali, Bologna, il Mulino, 1971, p. 11.
2 Le Società di Mutuo Soccorso (SMS), fortemente intrise del pensiero politico borghese, moderato, liberale e mazziniano, avevano una composizione interclassista e la loro attività principale si esauriva nei
compiti di assistenza e istruzione. Cfr. A. Pepe, Il sindacato nell’Italia del ’900, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, pp.15-30; A. Maiello, Sindacati in Europa. Storia, modelli e culture a confronto, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 270-271.
3 R. Rigola, Manualetto di tecnica sindacale, Firenze, 1947, p. 13.
4 In una conferenza tenuta a Bergamo per la costituzione della lega di resistenza, l’operaio Ernesto Cappellini disse: «Prima di tutto conviene osservare una cosa ed è che i movimenti che mettono in evidenza il bisogno della resistenza e danno origine alle relative società sono gli scioperi, gli scioperi si può dire che sono i progenitori delle Società di Resistenza, per cui dal numero degli scioperi che si succedono
si può prevedere e calcolare quanto numerose possano diventare queste società di resistenza» (cit. in S.
Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 604).
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po di associazione, inoltre, differiva da quelle di tipo mutualistico per il suo carattere potenzialmente «contrattuale», per essere cioè un primo organismo di «delimitazione dell’unilateralismo autoritario nelle relazioni fra operai e datori di lavoro»5.
Di tali Leghe di resistenza, le Commissioni interne rappresentarono le articolazioni
in fabbrica. Definite dal Merli un «istituto operaio unitario», esse sorsero «tra categorie qualificate e quindi numericamente ristrette, dove esiste[va] una coincidenza tra
iscritti e occupati»6; inoltre, a differenza dei Comitati di agitazione e di lotta che nascevano durante i conflitti di lavoro, esse avevano un carattere permanente.
I primi casi più importanti di Commissioni interne si ebbero tra i metallurgici milanesi, tra i cappellai di Monza e alla Pirelli, uno dei principali insediamenti industriali
non solo del capoluogo lombardo ma del Paese. Esse, come ha evidenziato Maurizio
Antonioli, furono precedute sul finire dell’Ottocento da alcuni casi di Commissioni
Operaie, elette per acclamazione e in modo totalmente spontaneo dai lavoratori nelle fasi più calde di una vertenza, soprattutto in occasione di scioperi prolungati. Questi primi organismi, temporanei ed eccezionali, avevano il compito di contrattare con
i vertici della Ditta e di riferire alle maestranze in lotta7.
Uno dei primi riconoscimenti formali di tali organismi si ebbe in occasione della
firma del celebre contratto collettivo Itala-Fiom, siglato a Torino il 27 ottobre 1906,
e considerato da molti studiosi come il primo vero esempio di contrattazione collettiva in Italia. A tale riguardo, nel suo Manualetto di tecnica sindacale, Rigola definì la
Commissione Interna eletta nell’azienda automobilistica torinese come la prima «di
carattere permanente»8.
L’accordo prevedeva l’elezione dei membri della Commissione da parte dei soli
iscritti al sindacato. Due erano le funzioni principali della Commissione: di controllo dell’applicazione corretta delle norme pattuite e di conciliazione per ricomporre le
controversie individuali e/o collettive che potevano sorgere in fabbrica. L’articolo 19
del contratto Itala-Fiom formalizzava tutta la procedura stabilita per la risoluzione del
conflitto, fino al Lodo finale, considerato inappellabile. Le prime Commissioni Interne, dunque, non avevano alcuna funzione contrattuale.
Sul modello dell’accordo Itala-Fiom ne vennero successivamente stipulati altri: ad
esempio il contratto del cappellificio Borsalino e quello tra la Federazione Vetrai e la
Società Anonima Vetrerie e Cristallerie Riunite, stipulato nel luglio 1908 e da alcuni considerato il primo contratto collettivo nazionale, in quanto il trust industriale rag5
A. Pepe, Movimento operaio e lotte sindacali. 1880-1922, Loescher editore, Torino, 1979, p. 47.
S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, cit., p. 815.
7 Cfr. Maurizio Antonioli, La questione delle rappresentanze aziendali dalla fine dell’Ottocento al riconoscimento del 1919, in F. Della Peruta, S. Misiani, A. Pepe, Il sindacalismo federale nella storia d’Italia, Milano, Angeli, 2000, pp. 26-51.
8 Rinaldo Rigola, Manualetto di tecnica sindacale, cit.
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Simonetta Ortaggi, Il prezzo del lavoro, Torino, Rosemberg & Sellier, 1988, p. 161.
Cfr. A. Pepe, La CGdL e l’età liberale, Roma, Ediesse, 1997.
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Ricerca
gruppava la quasi totalità delle imprese del settore; la questione, tuttavia, ancora oggi appare controversa in sede d’interpretazione storica.
Il rinnovo del contratto tra l’Itala e la Fiom, raggiunto nel marzo 1908, manteneva
il riconoscimento della Commissione Interna, nonostante il tentativo messo in atto
dalla locale Lega industriale di eliminare la rappresentanze aziendali attraverso la denuncia unilaterale delle norme del 1906.
Durante l’età liberale le Commissioni Interne ebbero una vita difficile a causa dei
numerosi tentativi promossi da parte datoriale per eliminarle. Come ha sottolineato
Simonetta Ortaggi, «l’eliminazione delle Commissioni interne esistenti e la creazione di una situazione che ne rendesse impossibile la formazione lì dove non esistevano era divenuto in effetti l’obiettivo fondamentale delle organizzazioni padronali a
partire dalla fine del 1909, e costituì nel 1910 uno dei terreni su cui si realizzò la coalizione di forze che diede vita alla Confindustria»9.
La nuova impostazione degli industriali prefigurava il rafforzamento politico ed economico attraverso la cancellazione del sindacato di classe e il rifiuto dell’evoluzione
democratica dello Stato liberale. Questo processo, espressione delle trasformazioni in
atto nel capitalismo italiano e della congiuntura economica, mettendo in risalto le contraddizioni del sistema giolittiano e sancendone di fatto il fallimento, diede il via a
una nuova stagione politica in cui all’ormai logoro giolittismo venne a sostituirsi la
cosiddetta «politica nazionale», promossa nel 1914 dal nuovo Presidente del Consiglio Salandra. In pochi mesi, tutta la capacità riformatrice del sistema giolittiano si
era annullata sotto la spinta dei continui incrementi della spesa militare, intorno a cui
si erano coagulati i nuovi interessi della borghesia monopolistica, con il consapevole intento di frenare l’ulteriore evoluzione del riformismo liberale.
Così, gli anni Dieci segnarono l’incipit di una nuova epoca che si sarebbe protratta fino all’avvento del fascismo, in cui si realizzò una svolta istituzionale autoritaria
all’interno della nuova società di massa: si chiuse la fase storica della prima rivoluzione
industriale e dello Stato liberale; si esaurì la stagione di legittimazione del movimento operaio organizzato; si aprì quella più complessa e contraddittoria della ricerca affannosa di uno schema triangolare di relazioni industriali tra Stato, sindacato e imprenditori. Sintomatici dell’offensiva padronale furono i conflitti del 1911 di
Piombino e dell’Elba, i quali, allo stesso tempo, mostrarono la crescente inadeguatezza della direzione confederale nella conduzione delle lotte operaie10.
Il cambiamento nei rapporti di forza, avviato all’inizio degli anni Dieci, raggiunse l’apice negli anni della Prima guerra mondiale. Questa, come è noto, rappresentò
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uno spartiacque dell’età contemporanea; limitandoci alla dimensione sindacale, si può
dire che con la Grande Guerra si avviò il passaggio graduale da un modello centrato
sulla rappresentanza territoriale e confederale ad un modello basato sulla rappresentanza federale, attraverso il passaggio cruciale della Mobilitazione Industriale. Il meccanismo della Mobilitazione Industriale, istituito nel giugno del 1915, subito dopo
l’ingresso dell’Italia a fianco dell’Intesa, segnò un punto di svolta in direzione di una
semplice e burocratica amministrazione della forza-lavoro, all’interno di un quadro
che vietava sia la libertà di sciopero, sia l’autonomia rivendicativa del sindacato. In
tale contesto, anche l’istituto della Commissione interna fu di fatto esautorato, per
essere pienamente ripristinato solo dopo la fine della guerra, con la firma dei primi
concordati collettivi nazionali di lavoro, a partire da quello metalmeccanico, siglato
il 20 febbraio 191911. I concordati, oltre al riconoscimento delle Commissioni interne,
sancirono la conquista delle 8 ore giornaliere di lavoro e ottennero importanti aumenti
salariali.
L’avvento del fascismo, come è noto, creò un clima di terrore attraverso l’utilizzo
sistematico della violenza contro l’avversario politico e di classe; fu così che, in un crescendo vorticoso di aggressioni e distruzioni, si giunse alla definitiva abolizione delle Commissioni interne, avvenuta con il Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925
grazie all’accordo tra il sindacato fascista e gli industriali.
Il Patto, stipulato nella fase decisiva della svolta totalitaria del regime, tra il 1925
e il 1926, fu la premessa della legislazione che gettò le basi dell’ordinamento corporativo. Esso stabilì il reciproco ed esclusivo riconoscimento tra la Confindustria e la
Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria; di conseguenza tutti i rapporti
contrattuali tra industriali e operai potevano essere fissati soltanto attraverso l’accordo tra le due organizzazioni. Le Commissioni interne furono abolite e le loro funzioni
demandate al sindacato locale 12.
***
A differenza di quanto accadeva nelle aziende industriali, in campo agricolo il ruolo centrale di rappresentanza fu rivestito, a partire dalla fine dell’Ottocento, dalla Lega. A causa della marcata instabilità occupazionale dei lavoratori della terra, la Lega
non poteva che nascere e svilupparsi nel territorio, dove essa si occupò soprattutto di
mercato del lavoro, acquisendo in breve tempo, specie in alcuni territori della Pianura
Padana, un notevole peso «politico» e una specifica autonomia rivendicativa.
Le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti, nonché la loro forte omogeneità
professionale, diedero alla Lega agricola una forte impronta «classista». Negli studi di
11
12
M. Antonioli, B. Bezza (a cura di), La Fiom dalle origini al fascismo, Bari, De Donato, 1978, p. 740.
A. Acquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1995, p. 439.
13
R. Zangheri, Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra 1901-1926,
Milano, Feltrinelli, 1960, p. XIV.
14 Ivi, p. XIX.
15 Cfr. la relazione di A. Altobelli al IV Congresso nazionale della Federterra, Relazione morale e finanziaria 1908-10 della Federazione nazionale, IV Congresso nazionale dei lavoratori della terra, Bologna,
2-5 marzo 1911, Bologna, tip. Zamboni [1911], ora in R. Zangheri (a cura di), Lotte agrarie in Italia,
cit., p. 395.
16 A proposito della costruzione di una lega, scriveva la Altobelli: «Bisogna innanzitutto raccogliere la
firma o l’adesione di almeno 20 lavoratori che si impegnano ad organizzarsi. È consigliabile di tenere
distinti i lavoratori per categoria, costituendo per ognuna, appena sia possibile, leghe separate (braccianti,
obbligati, mezzadri, piccoli proprietari, piccoli affittuari). Questa divisione è necessaria perché […] con
lo sviluppo della lega ogni categoria ha interessi particolari, anche in confronto di categorie affini». A.
Altobelli, Come deve funzionare l’organizzazione. Impianto di una lega. Funzionamento tecnico e amministrativo. La tattica e la preparazione per la lotta, Ravenna, Tip. Ed. «La Romagna», 1920, p. 22.
17 R. Zangheri (a cura di), Lotte agrarie in Italia, cit., p. XXII.
18 Ivi, p. XXIV.
Ricerca
storia del movimento operaio e contadino è stato ampiamente riconosciuto il ruolo
determinante avuto dalle leghe bracciantili nell’avviare la sindacalizzazione di massa
in Italia13. La Federterra ebbe il suo nerbo nel proletariato padano, in particolare emiliano, ossia in quelle zone in cui lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura aveva portato alla costituzione di una classe lavoratrice con un alto grado di omogeneità e concentrazione14. Come scrisse Argentina Altobelli, per due decenni segretaria
responsabile dell’organizzazione, quel movimento, confrontato con le coeve esperienze
europee, «senza falsa modestia si [poteva] dire il più tipico di tutto il mondo»15.
La stessa composizione delle organizzazioni aderenti alla Federterra rifletteva la particolarità della situazione agraria e del mercato del lavoro nazionale. La sua struttura
aveva un carattere territoriale, comunale e intercomunale16. Essa, pertanto, oltre a soddisfare le esigenze strettamente sindacali dei lavoratori di un determinato luogo, ne
interpretava anche i bisogni associativi più ampi. Le sue funzioni non erano, infatti,
soltanto rivendicative, ma essa creava solidarietà tra i lavoratori, prendeva misure contro l’analfabetismo, decideva i turni di lavoro, prendeva terreni in affitto, partecipava alle competizioni amministrative e politiche17.
L’assemblea della Lega rappresentava la sede, il cuore della vita democratica dell’organizzazione: «Ivi – ha scritto Zangheri – si addestra all’autogoverno una massa
di diseredati che ha scoperto nelle lotte per il lavoro un nuovo orizzonte di dignità
umana». E al suo interno la figura del capolega «riassume le qualità migliori di questa massa che si risveglia»18.
La Federterra ridusse drasticamente i flussi migratori dei braccianti, con rigidi controlli sulle assunzioni, e spesso riuscì a imporre che l’impiego locale della forza lavoro passasse solo attraverso le sue leghe. Gli strumenti principali di tale azione furono, come è noto, il collocamento di classe e l’imponibile di manodopera.
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Tornando ai settori industriali, nel primo dopoguerra, accanto alle Commissioni
Interne, un’altra esperienza significativa di rappresentanza aziendale dei lavoratori si
ebbe con i Consigli di fabbrica.
A partire dalla seconda metà del 1919 si assistette a una forte crescita della mobilitazione operaia e si entrò nella fase calda del cosiddetto «biennio rosso», che in alcune zone fu guidata proprio dai Consigli di fabbrica, i nuovi organi di rappresentanza operaia diretta nelle fabbriche19. Il loro potenziale innovativo era altissimo; la
loro funzione non si limitava a rafforzare il controllo della gestione operaia dell’impresa, ma andava ben oltre, arrivando a mettere in discussione i meccanismi basilari
della società capitalistica.
I Consigli, a differenza delle prime Commissioni Interne, erano eletti da tutti gli
operai e questo generava l’opposizione padronale e l’ostilità dei riformisti che, per la
prima volta, vedevano messa in discussione la precedente separazione tra iscritti e non
iscritti al sindacato. I vertici confederali provarono a limitare la libertà decisionale della base; nella CGdL prevalse l’idea secondo la quale i Consigli non erano altro che
organi aziendali con mere funzioni tecniche e consultive.
L’epicentro dell’iniziativa operaia fu Torino dove, anche grazie all’elaborazione teorica del gruppo de «L’Ordine Nuovo» guidato da Antonio Gramsci, il movimento dei
Consigli si diffuse a partire dal settembre 1919. Il primo esempio si ebbe alla Fiat, ma
ben presto questo modello si propagò nelle altre aziende metalmeccaniche e in alcune fabbriche chimiche e tessili.
La scollatura tra le strutture sindacali centrali e l’autonomia operaia si acuì nei momenti più delicati dello scontro, in particolare nell’aprile 1920, quando duecentomila
lavoratori scesero in sciopero contro una serrata padronale, e nel settembre 1920, quando fallì la famosa «occupazione delle fabbriche»20.
Il compromesso finale, gestito dal Governo Giolitti, non abolì né le elezioni da parte di tutti gli operai, né le figure intermedie e decisive dei Commissari di reparto; tuttavia le funzioni dei Consigli, ormai già sconfitti sul terreno della fabbrica, furono fortemente ridimensionate.
Al «biennio rosso» seguì il «biennio nero», durante il quale la violenza squadrista
si fece sempre più aggressiva, divenendo l’elemento determinante che consentì al fascismo di colpire duramente il movimento operaio democratico e di acquisire consensi sempre più ampi, dapprima tra gli agrari e quindi anche in settori della borghesia
industriale.
19
Cfr. Paolo Spriano, «L’Ordine Nuovo» e i Consigli di Fabbrica, Torino, Einaudi, 1971.
20 G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920, Bologna, il Mulino, 1975;
I due bienni rossi del Novecento. 1919-1920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto, Roma, Ediesse, 2006.
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Il sistema corporativo, dunque, escluse nel modo più assoluto la presenza di una
rappresentanza operaia nei luoghi di lavoro. Esisteva tuttavia una forma elementare
di rappresentanza del sindacato fascista, il fiduciario di fabbrica, che aveva semplici
compiti di propaganda e di intermediazione tra lavoratori e impresa, al fine di arrivare ad una conciliazione forzosa tra le parti in caso di controversie.
I fiduciari del sindacato fascista erano di nomina politica e non potevano affrontare i problemi specifici dei luoghi di lavoro, svolgendosi l’azione contrattuale tutta
all’esterno dell’azienda. Inoltre, nel settembre 1929, nonostante le pressioni del sindacato, il Partito Nazionale Fascista, guidato da Augusto Turati, e il Ministero delle
Corporazioni, guidato da Bottai, entrambi d’accordo con Mussolini, accolsero le ri21
Ornella Bianchi, Il sindacato di Stato (1930-1940), in A. Pepe, O. Bianchi, P. Neglie, La CGdL e lo
Stato autoritario, Roma, Ediesse, 1999, p. 215.
Ricerca
Le squadre di azione ricevettero i maggiori finanziamenti dai padroni terrieri della Bassa Padana e della Puglia. La loro azione criminale, rivolta contro i sindacalisti,
i politici di sinistra, i membri di Leghe e Cooperative, i sindaci, trovò il tacito appoggio
di ampi settori dello Stato italiano. Furono molti i luoghi simbolo dell’identità socialista che vennero saccheggiati, devastati e incendiati.
Come detto, sul piano istituzionale, dopo le elezioni del 1924 e l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, il regime decise una svolta in senso totalitario
che ebbe una formalizzazione con le «leggi fascistissime», approvate nel biennio
1925-1926. Tra queste, la legge sindacale del 3 aprile 1926, n. 563, trasformò il sindacato fascista, attraverso il suo riconoscimento giuridico, in soggetto di diritto pubblico; esso divenne così l’unico soggetto che poteva firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro, disciplinati per la prima volta da una legge. Inoltre, la nuova
normativa ridusse tutti gli altri sindacati a mere associazioni di fatto, prive dei poteri contrattuali e fortemente avversate sul piano dell’ordine pubblico, tanto da essere
costrette all’autoscioglimento nel giro di breve tempo; infine, si stabiliva il divieto di
sciopero e di serrata.
La legge Rocco, insieme al Patto di Palazzo Vidoni (che aveva abolito le Commissioni Interne), sancì la fine del sindacato democratico e, distruggendo la libertà
sindacale, diede avvio alla fase «corporativa» del sindacato di Stato.
Sul terreno della rappresentanza aziendale, tuttavia, come ha giustamente sottolineato Ornella Bianchi, l’abolizione delle Commissioni interne finì per affermare «l’unicità e l’insindacabilità del comando capitalistico sui processi produttivi, respingendo
il nascente sindacalismo fascista fuori dalla fabbrica e relegandolo a un generico ruolo di istanza territoriale»21.
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chieste degli industriali di negare il riconoscimento giuridico ai fiduciari, che così persero anche quel minimo di autorità che avevano faticosamente conquistato nei mesi precedenti. Ciò, tuttavia, non portò alla loro scomparsa dalle fabbriche; infatti, nel
corso degli anni essi si occuparono delle controversie sui cottimi, di qualifiche previdenziali e di formazione professionale, finendo per rappresentare, seppure in via informale, l’unico legame del sindacato con i lavoratori dentro le aziende, proprio negli anni della crescente applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro anche
in Italia.
Il riconoscimento giuridico sarebbe giunto in modo tardivo soltanto nel 1939, con
l’accordo tra Pirelli, a capo della Confederazione fascista degli industriali, e Pietro Capoferri, presidente della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, quando ormai il paese stava precipitando verso il baratro della Seconda guerra mondiale22.
L’accordo vietava il licenziamento o il trasferimento dei fiduciari, se non per motivi gravi e indipendenti dal ruolo esercitato. Con la costante riproposizione dell’annosa questione della presenza sindacale in azienda il sindacalismo fascista tentò di contrastare il potere assoluto degli imprenditori e di riconquistare margini minimi di
autonomia. In ogni caso, l’estraneità del sindacato dal mondo della produzione, imposta dal fascismo prima con l’abolizione delle Commissioni interne e poi con il mancato riconoscimento dei fiduciari di fabbrica, avrebbe segnato a lungo il sindacalismo
italiano; tanto che il giuslavorista Giugni, ancora nella seconda metà degli anni Cinquanta, individuava in una prassi contrattuale incapace di ancorarsi alle concrete realtà di fabbrica un chiaro elemento di continuità con gli anni del regime fascista23.
La rappresentanza sindacale aziendale nell’Italia repubblicana
Se nel 1925 l’abolizione delle Commissioni Interne era stato il primo passo operato dal regime fascista per la definitiva cancellazione della libertà sindacale in Italia, il
ripristino delle stesse fu il primo passo realizzato dalle rinascenti strutture sindacali
libere all’indomani della caduta del fascismo. Erano infatti passate poche settimane
dall’arresto di Mussolini (25 luglio 1943), quando il 2 settembre il commissario delegato della Confindustria, Giuseppe Mazzini, e l’ultimo segretario generale della
CGdL prefascista, il socialista Bruno Buozzi, alla presenza del ministro del Lavoro Pic-
22 S. Musso, Norme contrattuali e soggetti delle relazioni industriali dalla fine degli anni Trenta alla caduta del fascismo, «Movimento operaio e socialista», n. 1-2, 1990, pp. 47-48. Cfr. A. De Bernardi, Operai e nazione. Sindacato, operai e Stato nell’Italia fascista, Milano, Angeli, 1993; A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma- Bari, Laterza, 2010.
23 G. Giugni, Esperienze corporative e postcorporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, il Mulino,
n. 1-2, 1956.
***
24
L’accordo Buozzi-Mazzini è riportato in V. Foa, Sindacati e lotte operaie 1943-1973, Torino, Loescher, 1975, p. 43; cfr. Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia,
vol. VI, Il funzionamento delle Commissioni Interne.
25 Cfr. Libri bianchi sulla condizione operaia negli anni Cinquanta, a cura di V. Reiser e L. Ganapini, De
Donato, Bari 1981. La letteratura sulla repressione antioperaia degli anni Cinquanta è molto ampia: cfr.
A. Accornero, Gli anni ’50 in fabbrica con un diario di una commissione interna, Bari, De Donato, 1973;
E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Torino, Einaudi, 1974.
Ricerca
cardi, firmarono il primo accordo interconfederale «libero» dopo oltre un ventennio
di dittatura.
L’accordo Buozzi-Mazzini aveva come oggetto proprio il ripristino di una rappresentanza operaia nelle fabbriche; si trattava di un accordo dai contenuti molto
avanzati che fissava per la prima volta l’elezione delle Commissioni Interne da parte di tutti i lavoratori (anche non iscritti, compresi gli impiegati, articolo 2), e che
soprattutto fissava la possibilità da parte degli organismi di stipulare contratti collettivi (articolo 4)24.
Dopo la Liberazione le Commissioni Interne furono disciplinate da altri accordi
interconfederali che però, nel clima della guerra fredda e delle tensioni politiche nazionali e internazionali, ne limitarono le funzioni. I tre accordi interconfederali furono firmati il 7 agosto 1947, l’8 maggio 1953 e il 18 aprile 1966. La decisione più
rilevante, presa sin dal 1947, fu quella di privare le Commissioni Interne del potere
di negoziazione.
Le funzioni principali tornavano ad essere di fatto quelle svolte nelle fasi più dinamiche dell’età liberale: il controllo dell’applicazione delle norme contrattuali, il tentativo di conciliazione nel caso di controversie individuali e collettive, il dialogo con
i lavoratori. Le elezioni avvenivano a suffragio universale, ma sulla base di liste sindacali, con la possibilità di esprimere un voto di preferenza.
In realtà, soprattutto nei difficili anni Cinquanta, le Commissioni Interne (in particolare i rappresentanti della Cgil) furono soggette a pesanti discriminazioni, attraverso ricatti, minacce, trasferimenti forzati, licenziamenti, nonostante gli accordi prevedessero forme mirate di garanzia nell’esercizio delle funzioni sindacali. L’offensiva
avviata da parte padronale si traduceva nella limitazione delle libertà sindacali nei luoghi di lavoro e nella repressione antioperaia, come si evince bene dai materiali raccolti
nei famosi «Libri bianchi»25; tuttavia, non solo limiti oggettivi, ma anche colpe dei
sindacati, timorosi di decentrare l’attività contrattuale, ridussero il peso e l’influenza
di tali organismi tra i lavoratori. Così, i sindacati confederali decisero di fatto di congelare le Commissioni interne, arrivando infine a sospenderne le elezioni nei primi
anni Settanta (come si vedrà fra breve), dopo l’ondata di radicale conflittualità che si
registrò in Italia nel 1968-69 e che portò alla ribalta il movimento dei delegati.
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Sin dall’immediato dopoguerra, infatti, era prevalsa, specie nella Cgil, la linea della centralizzazione contrattuale; lo stesso Statuto confederale approvato dal I Congresso
nazionale sottraeva l’iniziativa contrattuale ai lavoratori in fabbrica; una scelta, questa, che fu considerata necessaria a causa della grande miseria delle masse lavoratrici
in un paese che usciva devastato dall’immane conflitto mondiale.
Tale politica fu abbandonata solo a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta,
all’indomani della sconfitta della Fiom nelle elezioni delle Commissioni interne alla
Fiat (marzo 1955), che avviò un processo di autocritica nell’organizzazione, inaugurato da Giuseppe Di Vittorio e portato a compimento dal suo successore Agostino
Novella. Questi ereditò da Di Vittorio un sindacato che doveva misurarsi con un’Italia in fermento a causa della grande trasformazione economica e sociale innescata
dal «miracolo» industriale26. La Cgil si impegnò nella costruzione di un solido sindacato moderno, dotato di un forte potere contrattuale e di autorevolezza rappresentativa, anche grazie a un rapporto più democratico con i lavoratori.
All’interno di questa linea si inserì la scelta della contrattazione integrativa, settoriale e aziendale, frutto non di una visione corporativa, ma finalizzata a rafforzare il
potere contrattuale dei lavoratori e considerata come presupposto per lo sviluppo di
una maggiore democrazia nei luoghi di lavoro27. La necessità di adeguare la politica
rivendicativa della Cgil alle mutate realtà aziendali e la traduzione concreta di questa impostazione da un punto di vista organizzativo venne attuata introducendo alcune importanti novità e modifiche statutarie già nel IV Congresso nazionale del 1956,
poi perfezionate nel successivo Congresso di Milano del 1960: fu in questa occasione che la Cgil approvò ufficialmente la linea dell’articolazione, affidando al successivo Convegno di Livorno del 1961 il compito di dare nuovo slancio alle Sezioni sindacali d’azienda28.
La scelta di integrare l’attività delle Commissioni Interne con nuovi organismi di
rappresentanza in fabbrica era stata presa dai sindacati verso la metà degli anni Cinquanta. Di fronte al netto peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche,
innescato dalla diffusione dell’organizzazione scientifica della produzione secondo il
modello fordista-taylorista, sia la Cgil che la Cisl decisero di rafforzare la loro presenza
in fabbrica attraverso i nuovi organismi.
Questi ultimi, a differenza delle Commissioni Interne, erano strutture di base
del sindacato; infatti i rappresentanti venivano eletti dai soli iscritti oppure nomi26 Cfr. G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Ses-
santa, Roma, Donzelli, 1996.
Foa, B. Trentin, Le politiche rivendicative della Cgil per gli anni ’60, «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 31-32, p. 8 ss.; cfr. E. Bartocci, Alle origini della contrattazione articolata (1960-1964), Roma,
Esi, 1979, pp. 99-116.
28 Cfr. F. Loreto (a cura di), Agostino Novella. Il dirigente dei momenti difficili, Roma, Ediesse, 2006.
27 V.
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Il «secondo biennio rosso» 1968-69, caratterizzato da lotte sociali radicali, vide
il raggiungimento di obiettivi storici quali le 40 ore settimanali, il diritto di assemblea, gli aumenti salariali uguali per tutti, un forte controllo sull’organizzazione del
lavoro30. Di fronte ad una crescente e massiccia mobilitazione operaia, sia le Commissioni Interne, sia le Sezioni sindacali, vennero eclissate dalle nuove strutture di
fabbrica, più autonome, più democratiche e soprattutto più unitarie. Infatti, le lotte furono guidate spesso da nuove figure, i delegati (di gruppo, di reparto, di squadra, ecc.), riuniti nei Consigli di Fabbrica. I delegati furono il risultato di un’amplissima partecipazione operaia che rafforzò in modo decisivo i meccanismi della
democrazia sindacale. Eletti anch’essi da tutti i lavoratori, i delegati venivano scelti su scheda bianca, senza ricorso a liste sindacali (a differenza dei membri delle Commissioni Interne) e, inoltre, erano responsabili nei confronti dell’assemblea e revocabili in qualsiasi momento da questa. Soprattutto, essi furono i promotori di
29
Le conclusioni di Agostino Novella al Congresso di Livorno, «Vita e attività della Cgil», supplemento
di «Rassegna sindacale», n. 43-44, luglio-agosto 1961, pp. 2169-2175. Cfr. A. Di Gioia, Sindacato e
strutture negli statuti CGIL, «Rassegna sindacale: Quaderno», n. 49, cit., p. 54.
30 Cfr. B. Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso, 1968-69, Roma, Editori Riuniti, 1999.
Ricerca
nati dallo stesso sindacato. Le Sezioni vennero intese non come mero decentramento
di una linea politica che calava dall’alto, ma come organi dotati di funzioni proprie di orientamento ed elaborazione, veri e propri strumenti effettivi di democrazia
sindacale, la quale maturava attraverso il momento dell’assemblea degli iscritti. I
compiti di queste strutture andavano dal tesseramento al proselitismo, dalla diffusione della politica confederale allo sviluppo dell’unità d’azione29. Tuttavia, così come era accaduto con le Commissioni interne, anche alle Sezioni aziendali non venne riconosciuto il potere contrattuale, che continuava ad essere esercitato dal
sindacato provinciale e, quindi, al di fuori dei luoghi di lavoro. Ancora una volta,
dunque, fu questo il limite più evidente che contribuì al loro superamento durante le grandi lotte del 1968-69.
In sintesi, nel momento in cui l’attività sindacale veniva decentrata e riportata nelle fabbriche, il potere contrattuale continuava a restare nelle mani del sindacato provinciale di categoria o della struttura territoriale. Ecco perché, quando la contrattazione aziendale cominciò ad assumere una portata quantitativa e qualitativa notevole,
le Sezioni sindacali, prive del potere negoziale, furono percepite dai lavoratori come
strumenti inadeguati di lotta; tutto questo avvenne tra l’altro in una fase, quella degli anni Sessanta, in cui aumentarono in modo sproporzionato l’alienazione, lo
sfruttamento, la fatica e i carichi di lavoro.
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un’intensa stagione contrattuale aziendale che anticipò le conquiste poi raggiunte
anche in sede nazionale31.
In quei mesi, una parte significativa del sindacato ebbe il merito di confrontarsi
dialetticamente con le nuove strutture democratiche e unitarie di base. Le Sezioni sindacali furono sciolte e le Commissioni Interne «congelate». La categoria più impegnata su questo versante fu quella dei metalmeccanici, anche se essa venne presto seguita da tutte le principali categorie del sindacalismo industriale (alimentaristi,
chimici, edili, tessili, ecc.).
Dopo la firma dei contratti nazionali nell’autunno caldo, alla prima Conferenza
unitaria dei metalmeccanici, tenuta a Genova nel marzo 1970, i Consigli di Fabbrica vennero scelti come l’organismo di base del nuovo sindacato unitario in costruzione. Le modalità organizzative ed elettive furono stabilite l’anno seguente, nel corso della seconda Conferenza unitaria, che anticipò scelte analoghe compiute da altre
Federazioni, ma non dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil. Le Confederazioni, infatti, cercarono di mantenere un controllo più stretto sul movimento, finendo per limitare di fatto il potere contrattuale dei Consigli.
Tuttavia, a differenza di CISL e UIL, più timorose degli effetti imprevedibili prodotti dall’allargamento a macchia d’olio dei Consigli, la Cgil, nel corso del Direttivo
del 20-21 dicembre 1970, provò a superare la contraddizione «fra l’unità nella fabbrica e la divisione fuori della fabbrica», compiendo la scelta del Consiglio dei delegati quale «organizzazione di base unitaria del sindacato»32.
Tale decisione ebbe un grande valore, in quanto la Cgil sostenne di voler recepire
la spinta unitaria della base e porla come elemento decisivo delle proprie scelte strategiche a favore di una maggiore centralità della fabbrica; tuttavia, occorre precisare
che essa ebbe una scarsa applicazione pratica a causa dell’opposizione delle altre Confederazioni.
In ogni caso, il dispiegarsi di questa ondata eccezionale di conflittualità sociale permise ad un pezzo rilevante del sindacato di conquistare una «rigidità» in fabbrica che
si tradusse in un effettivo potere di controllo degli operai nei luoghi di lavoro, nella
difesa dei propri diritti contro il sistema tayloristico di organizzazione del lavoro, nell’obbligo per gli imprenditori di contrattare con le rappresentanze sindacali aziendali i tempi, i ritmi, gli organici, la mobilità interna, l’orario di lavoro, gli straordinari
e tante altre materie. I numeri furono altrettanto eloquenti: nel 1973, ad esempio,
31
Cfr. F. Anderlini, S. Sechi, Dalle Sezioni sindacali ai Consigli di Fabbrica, «Annali della Fondazione
Feltrinelli», XVI, Milano, Feltrinelli, 1974-75.
32 L. Lama, Relazione al Direttivo del 20-21 dicembre 1970, in Strutture unitarie sui luoghi di lavoro, Editrice Sindacale Italiana, Roma, 1971, p. 26; la risoluzione finale è a pp. 5-7.
33 Cfr. L. Mariucci, I rapporti tra sindacato e Stato. Percorsi di lettura, «Quaderni di Rassegna Sindacale», n. 114-115, maggio-agosto 1985, p. 67. Cfr. L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Sindacato tra fabbrica
e istituzioni. La Cgil (1969-1985), Milano, Unicopli, 2004, pp. 24-28; Autunno caldo, quarant’anni
dopo, a cura di C. Ghezzi, Roma, Ediesse, 2010.
34 B. Trentin, Autunno caldo, cit., pp. 144-145.
35 A. Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna, il Mulino, 1992.
36 G.P. Cella e T. Treu, Le nuove relazioni industriali, Bologna, il Mulino, 1998, p. 130.
37 Ivi, p. 244.
Ricerca
furono firmati circa 7.500 accordi aziendali, che coinvolsero ben 9.800 consigli di fabbrica e 97.171 delegati33.
In definitiva, come ha scritto Bruno Trentin, «con l’inizio del 1970 cominciò all’interno del movimento sindacale la battaglia per costruire il sindacato dei Consigli
e per vincere le forti resistenze conservatrici che si espressero anche nelle federazioni
dei metalmeccanici»; il processo di diffusione dei delegati divenne «inseparabile da
quello di una unità sindacale, costruita a partire da un processo di democratizzazione delle organizzazioni e da un ripensamento delle sue forme di rappresentanza»34.
A coronamento di tale azione, nel maggio 1970 entrò in vigore la legge n. 300 del
20 maggio 1970, lo Statuto dei Lavoratori, che al Titolo III disciplinava anche le Rappresentanze Sindacali Aziendali (Rsa), esplose in modo tumultuoso e incontrollabile nel biennio precedente. Alla fine, come è noto, i Consigli non ebbero mai una regolamentazione nazionale unica, ma furono disciplinati soltanto dalle diverse
regolamentazioni aziendali. La diffusione proseguì per tutta la prima metà degli anni Settanta, mentre la loro parabola cominciò a declinare parallelamente alla crisi più
generale del sindacato35. Essi sono rimasti formalmente in vigore fino al 1993 quando un accordo interconfederale ha sancito la nascita delle RSU, le Rappresentanze Sindacali Unitarie36.
La nascita delle Rsu si è inserita nel quadro di un radicale mutamento in cui si è
trovata l’Italia nei primi anni Novanta. Le vicende internazionali collegate alla fine
della guerra fredda, la crisi politica della Prima Repubblica, l’accelerazione del processo di integrazione europea e le difficoltà economiche portarono il governo «tecnico»
guidato da Ciampi a coinvolgere i sindacati in politiche pubbliche attraverso un sistema di concertazione, introdotto con l’accordo del 23 luglio 1993. Esso arrivava a
circa un anno di distanza dall’accordo del 31 luglio 1992 con cui il sindacato accettava la fine della scala mobile in cambio di una seria politica dei redditi, rigorosa e
redistributiva.
La concertazione e la riforma del sistema contrattuale, avviate con l’accordo del
1993, produssero un cambiamento anche nelle forme della rappresentanza sindacale aziendale, attraverso la definitiva configurazione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie37. Il perfezionamento dell’intesa sulle Rsu, raggiunto il 20 dicembre 1993, sta-
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biliva il diritto per i sindacati di concorrere con proprie liste elettorali: ciò valeva sia
per le organizzazioni firmatarie dell’accordo interconfederale e del contratto nazionale; sia per le associazioni che accettavano l’accordo interconfederale e che avevano
almeno il 5% di aderenti fra i lavoratori dell’unità produttiva.
L’accordo, approvato dai lavoratori tramite referendum, ha portato negli anni successivi a una sostanziale riduzione della conflittualità, mentre la concertazione ha costituito la base fondamentale delle politiche di risanamento grazie alle quali l’Italia ha
potuto centrare il fondamentale traguardo europeo38.
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Cfr. J.T. Santos, I sindacati italiani nel secondo dopoguerra, in M. Antonioli (a cura di), Per una storia del sindacato in Europa, Milano, Mondadori, 2013, p. 85. Per una prima ricerca sul ruolo e le funzioni delle RSU si veda il volume A. Braga, M. Carrieri, Delegati a Milano: il «capitale sociale» del sindacato nel cuore padano, Roma, Donzelli, 2001.
■ Temi
Le strutture della rappresentanza
sul luogo del lavoro
Franco Farina*
Premessa
L’elemento per comprendere la lunga e complessa storia della struttura della rappresentanza sindacale in fabbrica è l’identità di una base sociale formalmente e informalmente riconosciuta dai lavoratori. Quest’unità comune è definita dalla produzione e più specificatamente dal modo con il quale la fabbrica è organizzata e come
i lavoratori sono regolati nel processo lavorativo (ciclo, area, reparto). La produzione,
nella storia della rappresentanza, ha così stabilito la parità, la solidarietà, l’unità dei
lavoratori e le politiche rivendicative aziendali dei lavoratori.
Produzione e rappresentanza sindacale
Alla fine della Seconda guerra mondiale e del regime fascista le Commissioni Interne, i Consigli di gestione, i Commissari di reparto, si avvalsero di delegati in cui
l’elemento della produzione fu la sostanza del potere rivendicativo e del controllo in
fabbrica. In particolare i Consigli di gestione costituiti dagli operai e dai tecnici nel 1945
hanno raffigurato, più di una qualsiasi ideologia classista, il legame tra l’azione operaia e la produzione aziendale. Questa esperienza operaia, nonostante il breve periodo della sua durata (’45-48), si collocò in una fase irregolare della nostra storia sociale ed economica tanto da assumere un carattere esemplare e connotativo concernente
la cultura del lavoro del movimento operaio e sindacale italiano. Con il decreto del
Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia) del 17 aprile 1945, si sancì il principio della partecipazione dei Consigli di gestione alla conduzione delle aziende. La
scelta da parte dei Comitati di liberazione della partecipazione operaia alla gestione
dell’azienda fu l’esito del contributo dei lavoratori alla lotta di liberazione, alla difesa delle aziende con l’occupazione delle fabbriche, alla protezione dei macchinari dalla distruzione e dagli espropri da parte dei tedeschi in ritirata. Secondo G. Di Vittorio l’esigenza della difesa della produzione e dell’occupazione aveva cancellato negli
operai quel senso di distacco nei confronti della fabbrica come luogo di dominio e
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di sfruttamento padronale e aveva determinato quel carattere nazionale che costituì
«il nerbo decisivo delle forze nazionali che hanno abbattuto il fascismo ed hanno portato un contributo efficiente alla liberazione della Patria dall’invasore tedesco»1. Le
attribuzioni dei Consigli di gestione furono definite su «tutte le questioni che riguardano il programma tecnico di produzione e l’adozione di soluzioni produttive
più efficienti, nonché di tutte le questioni relative alla miglior utilizzazione del lavoro in azienda». Quest’attribuzione, nell’esperienza dei Consigli, trovò un contributo
da parte del sindacato. In particolare le strutture orizzontali della Cgil si adopereranno
nella selezione dei membri proposti come candidati e nella preparazione stessa degli
elementi più idonei ai compiti2. Le stesse Commissioni interne svolsero un ruolo attivo sulle proposte dei Consigli; infatti l’obiettivo della ricostruzione dell’apparato industriale e della produzione trovò una collaborazione operaia diffusa seppur nella distinzione dei ruoli3. L’intervento, tra i più rilevanti, dei Consigli di gestione fu la
reintroduzione del cottimo e degli incentivi. Questa linea, parzialmente contestata da
parte dei lavoratori, fece parte dell’obiettivo del sindacato di incrementare la produttività fondata sulla razionalizzazione e non sull’intensificazione dello sfruttamento4 che le stesse Commissioni interne garantivano attraverso il rispetto dei ritmi produttivi, degli orari di lavoro e della stessa disciplina aziendale. Altre attività dei
Consigli di gestione, oltre a combattere ogni forma di assenteismo, furono la proposta
di premi incentivanti, «premi pulizia macchine», «premi manutenzioni macchine» per
il risparmio dei materiali, la lotta contro gli sprechi, la riduzione degli scarti e di premi per le migliorie organizzative e tecniche5. Ci fu, anche, un’attività legata alla difesa dell’occupazione con il rifiuto dello sblocco dei licenziamenti dovuto alla massiccia smobilitazione dell’industria bellica e un’operosità circa il riutilizzo della
manodopera in esubero («brigate della ricostruzione»). Dunque in questa fase delicatissima della ricostruzione i Consigli di gestione portarono, con le Commissioni in-
1 Il virgolettato si riferisce a una parte della relazione alla commissione per la Costituzione di G. Di
Vittorio, Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, Roma, 1946. Di Vittorio fa riferimento
agli scioperi del marzo del ’43 e al contributo degli operai/e alla resistenza al nazifascismo. Su questi
temi si veda la trattazione su Il settantesimo della Resistenza in Italia 1943-1945, in «Quaderni di rassegna sindacale» n. 4, ottobre-dicembre 2013, pp. 219-272.
2 La CdL di Milano organizzò dei corsi «per la preparazione del personale qualificato da immettersi nel
Consiglio di gestione, per preparare un maggior numero di operai a compiti di gestione tecnica; analoghi corsi [verranno] tenuti nelle altre città dai CdG stessi, con la collaborazione di docenti universitari ed esperti». L. Lanzardo, I consigli di gestione nella strategia della collaborazione, in Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-73, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 337.
3 In tempi recenti forme di gestione operaia e sindacale si sono spesso ripetute in alcune crisi aziendali.
Cfr. M. Severo, Il miracolo del latte, (Prefazione di S. Crogi), Ediesse, Roma, 2013.
4 La stessa Camera del Lavoro di Milano istituì una scuola di cottimisti per escludere, attraverso esperti di fiducia, forme di sfruttamento operaio.
5 I consigli di gestione nella strategia della collaborazione, cit., p. 337.
6
7
R. Morandi, Democrazia diretta e riforme di struttura. Einaudi, Torino, 1960, p. 98.
Cfr. F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda. Una storia sospesa, Ediesse, Roma, 2014.
Temi
terne, «le masse lavoratrici alla consapevolezza delle necessità cui sottostà la produzione, hanno dato loro l’esatta misura della responsabilità che portano, elevandole alla considerazione propria del fenomeno economico»6. Questo dato, seppur maturato in un’esperienza storica breve, sarà la caratteristica della rappresentanza sindacale
la cui legittimazione si personificherà, prima che negli interessi di classe, nelle questioni della produzione e dell’organizzazione del lavoro concernenti la difesa delle condizioni di lavoro e del consolidamento dell’occupazione e dell’azienda. La distanza e
la vicinanza tra rappresentanza, produzione e contrattazione costituiranno nella storia sindacale la sconfitta e l’affermazione del sindacato.
La conquista e l’affermazione della contrattazione aziendale avvenute negli anni ’60
– dopo l’ascesa dell’industrialismo in Italia, la sconfitta delle Commissioni interne della Fiom-Cgil nel ’55 e la crisi del modello contrattuale centralizzato – causarono una
nuova rappresentanza sindacale7: i delegati di reparto e il Consiglio di Fabbrica. Il lavoro si concentrò prevalentemente nella grande industria e furono inseriti, da parte
padronale, «metodi assolutamente nuovi, di carattere scientifico» (il metodo taylor-fordista) per regolare la prestazione lavorativa. Quest’organizzazione del lavoro, insieme
alla meccanizzazione di macchine monouso, s’indirizzò su una ricerca organica e sistematica per l’ottenimento del massimo rendimento dello sforzo lavorativo mediante
una dequalificazione professionale e un innalzamento dei carichi e dei ritmi di lavoro. La diffusione di questa realtà, senza un’adeguata rappresentanza sindacale cioè distante dai criteri organizzativi del lavoro e senza una struttura contrattuale adeguata,
portò alla sconfitta e alla perdita enorme d’iscritti alla Cgil. Gli obiettivi indicati da
Di Vittorio nella sua famosa autocritica nel direttivo della Cgil del ’55 e le conseguenti
elaborazioni nei congressi Confederali del ’56 e del ’60 aprirono una fase sindacale
in cui l’innovazione del modello contrattuale e le iniziative che questa comportò generarono l’esigenza di una nuova struttura della rappresentanza in fabbrica. La Cgil,
fino allora, concepì le strutture di fabbrica come organismi prevalentemente di controllo sulla direzione aziendale per l’applicazione dei contratti e per le leggi (Commissione interne) e come istituzioni di congiunzione fra l’organizzazione, i lavoratori e la vita aziendale. I Comitati sindacali prima e le Sezioni sindacali aziendali (Sas)
poi furono proposti con la preoccupazione di dare, da parte della Cgil, un orientamento sindacale per escludere rischi di aziendalismo o addirittura di collaborazionismo delle Commissioni interne. In particolare le Sezioni sindacali aziendali nate per
realizzare un maggiore e ramificato raccordo con gli operai assunsero di fatto una funzione organizzativa e di proselitismo invece che compiti di guida e di elaborazione a
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livello aziendale. Difatti le Sas ebbero grosse difficoltà a svolgere un ruolo di direzione sia perché non furono riconosciute da accordi interconfederali (non furono organismi unitari) sia per la presenza e la legittimazione delle Commissioni interne tra gli
operai e le aziende ma soprattutto perché non avendo un legame tra produzione e contrattazione in una fase di grande riorganizzazione industriale mantennero, sostanzialmente, una presenza rappresentativa e non rivendicativa.
Produzione, rappresentanza e contrattazione
I Consigli di fabbrica e i delegati di reparto, riconosciuti come istanza di base del
sindacato, furono le strutture della rappresentanza sindacale, in sostituzione delle
Commissioni interne, già dalla fine degli anni ’60. La particolarità di queste strutture fu una rappresentanza dei lavoratori sull’organizzazione della produzione, così come questa fu regolata dalle imprese nei luoghi di lavoro, e con la prerogativa, riconosciuta, di contrattare a livello di fabbrica. Si saldò, difatti, per la prima volta, con
le lotte degli anni ’60 per il riconoscimento di un nuovo modello contrattuale incardinato dal contratto collettivo di categoria e dalla contrattazione aziendale, la rappresentanza dei lavoratori e la contrattazione dell’organizzazione produttiva e del lavoro dopo la lontana e breve esperienza dei Consigli di gestione e le isolate
contrattazioni delle Commissioni interne degli anni ’40 e ’508.
La particolarità del Consiglio di fabbrica fu data dalla natura della sua composizione rappresentativa. Infatti i delegati che ordinavano l’organismo aziendale rappresentavano i reparti di provenienza in cui, però, la rappresentanza del delegato avveniva secondo il criterio omogeneo tra lavoratori e con gli stessi interessi che
scaturivano dai medesimi compiti produttivi. Differentemente dalle elezioni dei delegati sull’universo dei lavoratori della fabbrica, così come avviene per esempio per le
elezioni di un consigliere comunale, il delegato rappresentò, a prescindere dunque dal
valore numerico del reparto, la forza «possibile dell’unità del gruppo omogeneo, nel
reparto o nella squadra, in primo luogo in riferimento a quei problemi che l’organizzazione del lavoro solleva(va) quotidianamente alla classe operaia»9. Da questa definizione di rappresentanza scaturì una tipica contrattazione in fabbrica sulla produzione e sull’organizzazione del lavoro. L’organismo incaricato fu il Consiglio di
fabbrica (di solito i negoziatori furono l’esecutivo del CdF) che sui cottimi, sui carichi di lavoro, sulle qualifiche professionali, sull’ambiente di lavoro e sul premio di produzione stabiliva, tramite accordi, le regole. La contrattazione in fabbrica, proprio per
8
Cfr. La contrattazione collettiva in azienda. Una storia sospesa, cit., pp. 83-84.
9 S. Garavini, Strutture dell’autonomia sul luogo di lavoro, in « Rassegna sindacale: Quaderno», n. 24, 1969.
Temi
la particolarità della struttura della rappresentanza, fissava i contenuti rivendicativi mediante una conoscenza diretta che proveniva dai reparti e dal delegato. Difatti il delegato di reparto oltre ad essere stabilmente interlocutore dei lavoratori, lo era, anche,
saldamente per il capo aziendale riguardo a questioni concernenti il funzionamento
della sezione produttiva e rappresentava la ragione rivendicativa per i lavoratori.
Il Consiglio di fabbrica, a volte, trattava argomenti inerenti a problematiche di reparto e a volte singoli temi produttivi per l’insieme della fabbrica e, inoltre, svolgeva
il negoziato aziendale secondo le fisiologiche scadenze del premio di produzione o degli stessi rimandi applicativi che il contratto nazionale prevedeva su singoli argomenti
come l’orario di lavoro, la professionalità, le implicazioni delle innovazioni tecnologiche (organici, ritmi, cottimi e professionalità) e così via. In questa trama negoziale
il consiglio di fabbrica garantiva un equilibrio rivendicativo ed escludeva forme d’isolamento e di corporativizzazione (a volte molto frequenti tra i reparti forti della fabbrica) che potevano accadere nei diversi spazi che la divisione del lavoro stabiliva secondo il criterio di razionalità produttiva dell’azienda. Inoltre si stabiliva un
collegamento organico con il sindacato il cui esito determinava una reciprocità di comprensione dei problemi reali dei lavoratori per il sindacato e la possibilità di diffondere le pratiche rivendicative per i Consigli di fabbrica nelle multiformi realtà industriali. Tale concertazione, esplicitata dal rapporto che si stabiliva tra Consiglio e
organizzazione, comportava una scienza sindacale dove l’elemento della conoscenza
e della competenza era sempre un criterio di accesso per i diversi protagonisti nel dibattito e nella discussione sia per i delegati sia per i dirigenti diversamente collocati
nell’organizzazione (segretari di categoria e confederali). Una cultura organizzativa in
cui l’interazione insita nel rapporto tra lavoratori, delegati e i Consigli e tra questi e
il sindacato stabiliva – pur nelle diverse titolarità negoziali di fabbrica, di categoria e
confederali – l’unità, l’identità dei lavoratori con il sindacato e lo stesso proselitismo
sindacale.
Questa esperienza rimane comprensibile se resta nella sua specificità storica in cui
le condizioni oggettive del lavoro in fabbrica (il metodo taylor-fordista), la crisi delle
Commissioni interne, la composizione della forza lavoro e degli assetti industriali, le
novità del modello contrattuale degli anni ’60, la rottura dell’unità sindacale degli anni ’80 e così via hanno stabilito i presupposti di tale fase sindacale. Restano di questa esperienza i valori (l’identità sindacale con la coesione dei lavoratori), la cultura
rivendicativa (la contrattazione e organizzazione del lavoro) come un patrimonio ancora valido nell’attuale fase della rappresentanza sindacale ma le presenti condizioni
oggettive sono sicuramente diverse dal passato. In questa diversità si gioca la tenuta
della rappresentanza sindacale nei confronti dei lavoratori. Si gioca, cioè, la funzione delle Rsu nei luoghi di lavoro.
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16/2013 La rappresentanza sindacale
Tecnologie, rappresentanza e contrattazione
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La prima diversità che le attuali Rsu si trovano a dover affrontare è quella del cambiamento della realtà tecnica e del sistema delle macchine che hanno sempre ordinato
il rapporto tra produzione e organizzazione del lavoro.
In generale il compito delle Commissioni interne si configurò in un orizzonte
temporale in cui la realtà tecnica fu prevalentemente dominata dalle macchine utensili flessibili. Tale dato modificò in parte la tradizionale struttura artigianale del lavoro. Il lavoro artigianale, infatti, si basava sul mestiere e sulle capacità personali
del lavoratore mentre nelle macchine utensili polivalenti e flessibili (torni universali, frese, ecc.), seppur con la sostituzione nella macchina degli strumenti adoperati dall’uomo nell’epoca artigianale, prevaleva la perizia del lavoratore nella «messa a punto» e nel conoscere e valutare la messa in opera della propria attività. Tale
aspetto richiedeva un lungo apprendistato e una qualifica che, a sua volta, si configurava come un mestiere industriale e una professionalità sicura nel mercato del
lavoro. Difatti il movimento sindacale, in quegli anni, fu guidato prevalentemente dagli operai qualificati, dai quadri intermedi e dai tecnici di provenienza operaia
e tale composizione sociale e professionale nelle fabbriche costituì una cultura rivendicativa guidata, nei suoi diversi temi, alla difesa e alla valorizzazione della professionalità10. Con la sostituzione delle macchine flessibili con le macchine speciali
monouso, costruite per un determinato tipo di lavorazione a un dato prodotto, il
rapporto tra rappresentanza e produzione si modificherà alla radice. Si capovolgerà, difatti, per la prima volta il rapporto uomo-macchina il cui esito dominerà gran
parte del secolo.
La caratteristica di tale relazione raffigurò la dipendenza del lavoratore alla macchina e la «razionalizzazione» attraverso la parcellizzazione dell’attività produttiva
e della specializzazione dei compiti. La conoscenza della macchina non fu più la
competenza lavorativa, l’apprendistato durerà pochissimi giorni, differentemente
invece dai lunghi tirocini sulle macchine flessibili e non saranno apprezzate competenze concernenti la «messa a punto», la riparazione, il mantenimento nei confronti della tecnologia. La macchina per il lavoratore non fu più l’oggetto da cui
poter ricavare l’opera come esito delle sue abilità tecniche nei suoi confronti ma il
rapporto fu esclusivamente meccanico e funzionale. In questo senso si perderà la
qualificazione professionale (tornitore, fresatore) per dipendere da una specializzazione meccanica impersonale e ripetitiva (addetto macchina). La rappresentanza sindacale nella combinazione tra tecnologia, divisione tecnica e parcellizzazione lavorativa cercherà la sua legittimazione rivendicativa tra gli operai relativa alla
10
La contrattazione collettiva in azienda. Una storia sospesa, cit., p. 72.
dequalificazione professionale, alla monotonia, ai ritmi, alla ripetitività e alla parcellizzazione del lavoro11.
In questo quadro si qualificherà da parte dei Consigli di fabbrica la contrattazione sull’organizzazione del lavoro e della produzione in cui il lavoro operaio e impiegatizio fu contestualizzato e compreso nella forma organizzativa (taylor-fordista), nella tecnologia allora imperante e nelle modalità di intreccio tra i due fattori da cui fu
ottenuta la funzione della rappresentanza e i contenuti rivendicativi.
L’attuale rappresentanza (Rsu), rispetto a quanto finora detto, si trova in una situazione diversa. La differenza sta proprio negli attuali cambiamenti organizzativi, che
hanno nominato la fine o la riduzione dei modelli taylor-fordista, e il mutamento tecnologico raffigurato dall’automazione flessibile.
I processi di automazione consolidati nell’industria manifatturiera negli anni ’80
hanno mutato i motivi della rappresentanza sindacale in fabbrica. La specializzazione flessibile della produzione, come il modello d’impresa prevalente, si avvale di macchine e sistemi integrati che, in virtù di un hardware e di un software progrediti, autorizzano la progettazione e la produzione di una definita varietà di prodotti per via
automatica. Inoltre sono in grado di controllare la qualità, di avvalersi di accorgimenti
automatici di manutenzione, di contabilità e d’inventario in un insieme di più macchine utensili specializzate e alimentate in un processo continuo di lavorazione del prodotto. Questo mutamento, dove apparentemente il lavoratore sembra del tutto assente e dimenticato, infrange, invece, il rapporto meccanico e prefissato nei movimenti
e nei tempi tra lavoratore e macchine così come si era configurato nel periodo precedente. Prevalentemente con l’automazione si riduce o scompare il lavoro parcellare e ripetitivo a ritmo vincolato a favore invece di lavori di supervisione, di controllo, di manutenzione e di riparazione del macchinario che accordano al lavoratore una
maggiore responsabilità e specializzazione tecnica. Difatti questa richiede al lavoratore, oltre a cognizioni teoriche, abilità, autonomia ed esperienza che sono in netto
contrasto con la dequalificazione operaia rappresentata dalla funzionalità meccanica
della relazione macchina-uomo.
La produttività del lavoro si sposta dalla semplice mansione a una produttività di
flusso, in concomitanza della regolarità di processo, del miglioramento della qualità
della produzione e del prodotto12. Tale rovesciamento a seguito dell’automazione por11
Si veda su questo punto la rappresentazione del lavoro fordista fatta in L.F. Celine, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 1992, p. 252.
12 F. Farina, Della produttività, Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma, 2007.
Temi
La contrattazione delle Rsu
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ta a identificare il lavoro non più come mansione ma come attività secondo alcuni
criteri innovativi che annunciano la stessa operosità e che si mostrano con la crescita e la flessibilità professionale (polivalenza, polifunzionale) con il lavoro in gruppo
e, più in generale, con la ripersonalizzazione del lavoro13. Sono questi gli aspetti che
mostrano l’entità, l’essenza della produzione nel mutamento; ma la natura della produzione in un ciclo di lavorazione automatizzato e l’insieme delle prestazioni richieste (flessibilità, polivalenza, polifunzionalità, ripersonalizzazione nel lavoro) segnano
la vera natura del cambiamento che è contrassegnata per la prima volta nella grande
industria dalla coincidenza tra il ruolo tecnico del lavoratore con quello assegnato all’insieme dell’organizzazione. In altri termini la qualità professionale diviene ora stimabile solo in rapporto al sistema organizzativo con cui l’azienda coordina e unisce
il complesso tecnico automatizzato.
Tale coincidenza non si configura solitamente nella rappresentazione del lavoro,
nell’individuazione dei compiti, nel grafico professionale dell’impresa ma soprattutto nel passaggio del rapporto uomo-macchina a quello dell’uomo-azienda che modifica profondamente le relazioni sindacali e le politiche rivendicative. Infatti questo passaggio definisce una diversa e inedita antropologia del lavoro. Si passa cioè dalla
centralità del lavoro come classificazione dell’operatività del lavoratore alla centralità della persona nel lavoro come risorsa cognitiva.
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Conclusione
Indubbiamente oggi rappresentare il lavoro, rispetto al passato, non è semplice. La
frantumazione, la precarizzazione e i mutamenti organizzativi impongono nuove rubriche rappresentative. La questione, però, non riguarda unicamente la sociologia industriale e l’analisi sindacale e come queste rappresentino il lavoro secondo i diversi
dualismi e stilemi tra gli occupati e i disoccupati, tra i tempi di lavoro indeterminati e determinati, tra i garantiti e i precari. Tale rappresentazione, nonostante le contraddizioni che si mostrano sul piano del futuro delle persone, può cadere in una raffigurazione tradizionale e manichea. Già negli anni ’70 la Cgil pose la questione al
Congresso di Bari (1973) della riunificazione del mercato del lavoro di fronte alla rottura della centralità della classe operaia e al ridimensionamento della grande fabbrica mediante appalti, decentramento produttivo, lavoro nero e a domicilio. Fu una questione che comportava una critica ai processi di ristrutturazione allora in atto e alle
conseguenze in essi contenuti sui problemi occupazionali. L’approccio della critica,
nella sostanza, mirava a una politica rivendicativa complessiva meramente distribu13
F. Farina, Persona e lavoro, Ediesse, Roma, 2005.
14
15
Persona e lavoro. Per una fenomenologia dell’attività, cit., p. 109.
B. Trentin, La città del lavoro, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 243.
Temi
tiva e risarcitoria circa i possibili effetti delle ristrutturazioni. Oggi, viceversa, la frantumazione del mercato del lavoro e i processi di precarizzazione non sono risolvibili, esclusivamente, attraverso politiche compensative e d’indennizzo, così com’è avvenuto nel passato.
In questi nuovi processi che coinvolgono il mercato e il rapporto di lavoro s’impone sempre di più il richiamo alla persona che lavora e non più un rapporto di subordinazione dove il salario è scambiato con il tempo del lavoratore ma la chiamata è
riferita alla persona concreta e al tempo reale della produzione. Per confutare Marx
oggi non potremmo dire più che, negli attuali rapporti contrattuali siano essi precari o indeterminati, «un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora». Infatti, oggi,
in quell’ora di lavoro avviene la distinzione tra i lavoratori secondo l’esperienza, la capacità e la conoscenza della persona nel lavoro. La differenza dipende, cioè, dalla qualità della persona14 che si misura nei cicli produttivi con la flessibilità professionale,
la responsabilità e la capacità d’intervento e di «tutela» della qualità del prodotto15.
È in questa differenza dal passato che, però, si manifesta la problematicità della rappresentanza sindacale. Dicevamo che il ruolo del lavoratore non si misura più sulla
mansione ma sugli effetti complessivi dell’organizzazione. Tale legame avvalora una
novità che nell’esecuzione del lavoro si qualifica con l’intelligenza, competenza ed efficacia ma che nella sostanza mobilita l’essere della persona nell’organizzazione produttiva. Su quest’aspetto, che può sembrare del tutto formale, si giocano la posizione e la risoluzione del lavoratore nei cambiamenti organizzativi, la sua cittadinanza
nel lavoro e la sua personalità produttiva. Del resto le aziende coinvolte nei cambiamenti non fanno mistero circa l’importanza di un’adeguazione del lavoratore al fine
di identificare il cambiamento con i modi di essere della persona nel lavoro anche attraverso interventi unilaterali sui riconoscimenti salariali, professionali, stabilendo così incentivi alla carriera e alla soddisfazione sindacale del lavoratore. È in questo nucleo che si stabilisce oggi l’efficacia della rappresentanza sindacale che, in contrasto
con il valore aziendalistico, dovrà misurarsi con i temi della libertà nel lavoro, della
partecipazione operaia alle decisioni aziendali, del governo del tempo del lavoratore,
della formazione e della correlazione tra produttività e qualità del lavoro in azienda
(salario, professionalità, orari e organici). Sono tutti aspetti che riguardano i lavori in
una realtà produttiva e riguardano tutti i rapporti di lavoro in essere: la precarizzazione dell’occupazione, la flessibilità delle prestazioni, la mobilità del lavoro fino al
rapporto indeterminato. Diritti individuali e politiche rivendicative rinnovate sono
i prodromi di una nuova rappresentanza sindacale.
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■ Temi
Azione sindacale e modelli organizzativi
Michele Greco*
Premessa
Già prima del 2008 la nostra economia e il nostro tessuto socio economico erano
messi a dura prova dalla inefficienza di sistema, dai ritardi strutturali e infrastrutturali e da un corredo politico normativo di indubbia mediocrità. La crisi mondiale intervenuta dal 2008 in poi ha aggravato ed, inesorabilmente, abbattuto la tenuta del
sistema produttivo nazionale ed ha affievolito ogni timido tentativo di rilancio programmatico. Se i dati della disoccupazione, in prima istanza, hanno retto mostrando lievissime flessioni, gli indici del Pil e della produzione industriale, già fortemente indeboliti dalle condizioni preesistenti, subirono tracolli preoccupanti. Il Pil,
azzerato per i primi anni e poi passato in area negativa negli ultimi tempi, ha sancito numericamente l’entrata in recessione della sesta potenza industriale al mondo; la
flessione del 40% della produzione industriale riportò la nostra industria agli anni ’70
e proiettò il recupero del terreno perso, sperando in un trend di crescita costante importante, su una base temporale a carattere decennale e questo solo per ritornare a saldo zero.
Le azioni politiche e gli interventi legislativi, piuttosto che arginare questa involuzione sistemica hanno dato il via a un circolo vizioso che ha visto la nostra economia nazionale perdere sempre più la capacità endogena di resistere vanificando oltre
più il potenziale, mai pienamente sfruttato, dell’export di qualità che comunque il
nostro paese ha sempre potuto vantare. La debolezza economica, l’instabilità politica e l’enorme debito pubblico, sommati alla schizofrenia dei mercati valutari e finanziari diedero il via ad una mostruosa azione speculativa ai danni dei paesi cosiddetti PIGS tanto da mettere in ginocchio le già disastrate economie domestiche. La
Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e, infine, l’Italia vennero prese di mira da
una speculazione atroce che costrinse quei governi a subire i diktat della cd troika e
ad attuare strumenti di rientro del debito di estrema austerità e severità, avviando, come anticipato, un circolo vizioso che via via ha destrutturato il mercato interno a vantaggio della finanza e delle banche.
* Segretario Flai Cgil Umbria
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In questo contesto è lampante l’indebolimento del sistema industriale e, di conseguenza, si delinea una frattura all’interno del mondo del lavoro in termini sia di tutele sia di rappresentanze. L’azione sindacale, sempre più indebolita dalle forze centrifughe e fintamente riformiste, subisce suo malgrado la stagione della frammentarietà:
si smarrisce l’azione unitaria e la stagione degli accordi separati caratterizza le scelte
di quartiere invece che di sistema. La Cgil viene isolata, Cisl e Uil, malgrado le politiche e malgrado i governi, firmano accordi quadro e di rivisitazione delle regole generali della rappresentanza e della democrazia nelle fabbriche. Il modello Pomigliano (accordo sindacale d’indubbio livello sottoscritto tra i metalmeccanici di Cisl e Uil
e la Fiat) diventa il cavallo di Troia con cui il governo di centrodestra indebolisce l’azione sindacale unitaria e mette all’angolo la Fiom Cgil e quindi la nostra Confedarazione. In questo quadro la stessa Confindustria smarrisce la sua capacità di rappresentanza e alcune grandi aziende si svincolano dà via dell’astronomia (sede di
Confindustria) e il rischio di un’atomizzazione contrattuale diventa concreto. Ma la
realtà produttiva italiana è fortemente variegata e solo il mantenimento di una sorta
di «reductio ad unum» contrattuale può assicurare una concorrenza leale nei settori.
Il Ccnl, paradossalmente, assicura condizioni di base per tutte le fabbriche, così garantendo gli imprenditori da un dumping interno che avrebbe favorito le realtà prive di rappresentanza sindacale a dispetto di quelle realtà fortemente sindacalizzate in
cui la contrattazione era forte e favorevole ai lavoratori. In questo quadro l’azione delle categorie è stata determinante, la stessa Flai nel 2009 tenendo stretta a sé il valore
aggiunto dell’unitarietà sottoscrisse con Fai e Uila e federalimentari, all’indomani degli accordi separati, dell’introduzione dell’Ipca e dell’art. 8 di sacconiana fattezza, il
rinnovo del Ccnl alimentare rilanciando con forza la stagione dell’unita sindacale quale unica soluzione a garanzia del reddito e delle tutele dei lavoratori.
Contrattazione e organizzazione del lavoro
Malgrado il rinnovo dei Ccnl e malgrado la recuperata unità sindacale, il persistere
della crisi, oltre la durata media a cui la storia ci aveva abituati nella sua ciclicità, ha
portato alla luce, come da un fiume in secca, tutti i difetti e le inefficienze di sistema
che per lungo tempo erano state sommerse e nascoste dal fiume in piena della globale bolla economica monetaria. Le aziende italiane, fortemente penalizzate da decenni di mancati investimenti e di inesistenti politiche industriali, risentono degli effetti della crisi più delle concorrenti europee. L’arretramento dei consumi interni fa
mancare dai bilanci fatturati importanti e l’export compensa solo con prodotti di qualità a marchio «Made in Italy», valore aggiunto non replicabile. Una compensazione
in termini ristretti sia di volumi sia di fatturato da non essere sufficiente a sostenere
le aziende nel loro insieme.
Temi
In questo contesto nuove necessità ed esigenze prendono corpo all’interno delle aziende. L’azione sindacale in alcuni contesti viene snaturata e ridotta alla gestione
della crisi in funzione difensiva, accordi su Cig (ordinaria e straordinaria), nel migliore dei casi si attivano contratti di solidarietà con la condivisione di un piano industriale e di rilancio, nei casi disperati ci si rivolge agli accordi di mobilità ed, infine nei casi senza via d’uscita il tetto e le gru hanno rappresentato lo strumento
ultimo per lanciare l’allarme della chiusura definitiva di questa o di quell’altra fabbrica.
Le aziende solide, comunque avviavano percorsi di riorganizzazione pesanti mirati
al recupero della produttività e dell’efficienza. Una seria rivisitazione del processo produttivo che al netto del livello tecnologico posseduto vuole insistere sul valore aggiunto
delle risorse umane e sulla capacità delle maestranze di rappresentare una risposta valida alla necessità di essere competitivi e flessibili.
Gruppi Multinazionali come la Nestlè, al netto degli investimenti tecnologici, della ricerca e del lancio di nuovi prodotti, scelgono quale strumento anticrisi a livello
europeo l’introduzione di un nuovo modello organizzativo il cui perno centrale è il
lavoratore. Ridisegnare il modello aziendale su una struttura piatta ed orizzontale in
cui la linea assume il valore di «reparto a sé» e gli operatori agiscono in totale autonomia organizzativa. Nuove competenze vengono richieste agli operatori: problem
solving, analisi del processo e manutenzione ordinaria per citarne alcune.
Una sempre più responsabilizzazione degli operatori rispetto alle strutture piramidali, tale da spostare radicalmente il concetto di lavoratori subordinati verso una
sorta di «lavoratori autonomi» capaci di scelte e di gestione un tempo impensabili.
L’ulteriore e radicale cambiamento agisce sulla professionalità e sulle competenze degli operatori, anche qui si va verso una competenza diffusa tale da assicurare gli stessi livelli standards di professionalità e fungibilità all’interno del gruppo di lavoro rispetto alle diverse postazioni di lavoro.
La stessa flessibilità produttiva assume sempre più caratteri di cogente necessità;
le aziende che competono con le concorrenti europee assumono la flessibilità quale
elemento imprescindibile nel processo produttivo. Nel nostro settore, caratterizzato
da consumi stagionali e da picchi e flessi produttivi, si rende necessaria una risposta
pronta e qualificata alle richieste del mercato. Ecco perché la flessibilità delle maestranze in termini sia di professionalità (quindi di polivalenza e di polifunzionalità sia
di produzione, organizzazione a scorrimento sul sabato e sulla domenica), diventa strumento da strutturare e consolidare quale nuova metodica di lavoro.
La sintesi a cui sono giunti i grandi gruppi multinazionali è questa: il livello tecnologico e impiantistico è alla portata di tutti in termini sia di costo sia di approvvigionamento e di buona tecnologia a prezzi contenuti e, di conseguenza, la competizione spostata su altri fattori: marketing, ricerca e sviluppo delle risorse umane.
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La crisi impone scelte a basso impatto sui bilanci ma capaci di assicurare fatturato e ritorno economico, in modo sostenibile e consolidato. L’elemento su cui si è scelto di insistere è il fattore umano, unico strumento capace di riprodurre risultati in modo continuativo e in modo sostenibile. Vero valore aggiunto in quanto unico e non
ripetibile in quanto elemento variabile rispetto alle aziende concorrenti.
La leva del costo di produzione viene attivata non riducendo il costo del lavoro e
quindi agendo in maniera depressiva sulle risorse umane e sulle maestranze, ma esasperando in senso positivo l’apporto di quest’ultime nel processo produttivo.
I modelli di riferimento sono di matrice nipponica: il modello Toyota è fonte unica delle diverse varianti che le varie aziende ridisegnano nella propria realtà.
In quanto modelli nipponici, l’elemento mancante e non considerato è il sindacato: ecco perchè la prima vera sfida per noi è come si inserisce l’azione rivendicativa e di rappresentanza in questo nuovo modello organizzativo.
La scelta verso questa nuova direzione non può essere avversata sic et simpliciter, in
quanto scelta della controparte, come avviene tra i sindacati d’oltralpe rispetto all’esperienza Nestlè. Del resto, tale scelta, non può essere neanche subita perché rischierebbe di snaturare la compagine sindacale delle nostre aziende e tra i nostri lavoratori.
Lo sforzo sindacale è mirato a ridisegnarsi un ruolo in questo contesto, valorizzando
l’azione rivendicativa e di rappresentanza rispetto ad una struttura piatta in cui l’autonomia gestionale paventata può ingenerare la convinzione di poter acquisire un potere contrattuale diverso e più ampio anche fomentato dal riconoscimento di bonus
e benefit unilateralmente assegnati dall’azienda.
Com’è evidente, il rischio è che gli stessi riconoscimenti economici e professionali sfuggano alla declaratoria contrattuale per rientrare in piani professionali disegnati dall’azienda alla luce del nuovo modello organizzativo produttivo.
Conclusioni
L’azione sindacale va ridisegnata alla luce di queste nuove necessità: ai lavoratori
vanno prefigurati e assicurati nuovi contesti di contrattazione, in ordine alla loro professionalità, al work life balance e al salario integrativo di secondo livello.
Si deve entrare nel merito dei modelli organizzativi, condividerne l’implementazione garantendo il pragmatismo a dispetto del dogmatismo di natura manualistica.
La specificità della fabbrica, della natura umana e del contesto sociale in cui si adotta il modello rappresentano gli spazi di manovra entro i quali la rappresentanza deve trovare la ragion d’essere. È necessario cogliere dalle difficoltà l’opportunità di una
gestione condivisa, piuttosto che la capacità di un protagonismo non previsto dal modello di riferimento.
Temi
Bisognerebbe diventare proattivi rispetto al modello, carpirne le specificità e piegarle alla funzione sindacale: collettivizzando gli obiettivi e i riconoscimenti; bisognerebbe limitare e contemperare i protagonismi individuali, impedendo l’esasperazione competitiva; occorrerebbe definire e condividere nuovi riconoscimenti categoriali
che vanno oltre le consuete declaratorie, svincolare tali riconoscimenti dal tentativo
concreto delle controparti di assegnare bonus e benefit una tantum, non consolidabili sul salario minimo. Se si consolidano nuove competenze vanno consolidate anche le remunerazioni.
Rispetto alla flessibilità e alla sempre più preponderante richiesta di disponibilità
che deriva da questi modelli organizzativi, risulta non indifferente una politica di intervento rispetto al work life balance. Una più efficace politica sul tele lavoro (un’importante iniziativa che consente ai collaboratori di organizzare il proprio lavoro in modo flessibile e aiutarli così concretamente a conciliare gli impegni della vita lavorativa
e familiare) e sul lavoro agile (gli impiegati hanno la possibilità di alternare giornate
di lavoro da casa alla tradizionale presenza in ufficio), permettendo queste modalità
di espletamento della propria attività lavorativa in un quadro di gestione inclusiva della persona rispetto al proprio posto di lavoro e nell’ambito di accordi quadro che tutelino, regolando ogni aspetto possibile.
Bisogna sapersi riposizionare rispetto a questi nuovi indirizzi, andando sempre più
verso modelli europei dove si scambia flessibilità e produttività con salario e welfare
aziendale. Definendo livelli valoriali di rappresentanza e di tutela che risultino dalla
mediazione dei diversi sistemi nazionali: dal modello della contrattazione collettiva
nazionale quale baluardo di rivendicazione generale tipico del nostro sistema italiano, al modello di cogestione tedesco che include il lavoratore nella responsabilità delle sorti della propria azienda anche in termini decisionali a fronte della condivisione
dei sacrifici, al modello inglese della diffusa rappresentanza attraverso la funzione di
avviamento al lavoro affidata alle organizzazioni sindacali, per giungere infine al modello di welfare totale dei sistemi dei paesi nordici.
Ecco dunque la necessità sempre più lampante di definire una piattaforma europea di rivendicazione sindacale che sappia sintetizzare i vari modelli costruendone uno
comunitario, che getti le basi per un’azione sindacale sovranazionale tesa a ridurre e
a limitare azioni di dumping e di scorretta concorrenza salariale che i vari mercati nazionali mettono in campo a discapito della Comunità Europea e dei lavoratori e delle lavoratrici.
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Rubrica: Lavoro e salute
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■ Rubrica: Lavoro e salute
Salute mentale e stress da lavoro
Irene Figà-Talamanca*
Premessa
L’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 1986 ha definito la salute come uno
stato di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattia. Questa
definizione che vede gli esseri umani in una prospettiva olistica non è nuova nella civiltà occidentale: già nella Grecia antica il legame tra salute del corpo e della mente
era espresso nel noto detto, ripreso dal greco, che in latino suona «mens sana in corpore sano». Eppure quando parliamo di salute, spesso ci riferiamo alla salute fisica. Anche la medicina moderna e la ricerca scientifica, nonostante i passi da gigante nella
diagnosi e nella cura delle malattie del corpo, ha ancora molta strada da fare nel campo delle malattie mentali.
La salute mentale
Cosa si intende per «salute mentale»? Certo nessuno può dire di avere una «perfetta» salute mentale. Infatti, lo stato di salute mentale è soggettivo, variabile e influenzato costantemente da fattori interni ed esterni all’individuo. Il lavoro è sicuramente uno dei principali determinanti dello stato di salute mentale. Infatti, la
«buona» salute mentale, implica che l’individuo abbia l’opportunità di realizzare le
sue aspettative e capacità, di lavorare in modo produttivo e soddisfacente e di contribuire alla sua comunità. In mancanza di queste condizioni, ed in mancanza di sostegno, l’individuo può perdere progressivamente la capacità di affrontare lo stress e
le difficoltà della vita e può sviluppare sintomi di sofferenza mentale. Quindi non esiste uno stato chiaramente «positivo» o «negativo» di salute mentale, ma piuttosto uno
spettro che varia dal massimo «benessere» al massimo «malessere», fino a manifestazioni chiaramente patologiche.
La prevalenza di disturbi mentali è molto elevata e in continuo aumento. Nell’ultimo documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in occasione della
«Giornata Mondiale della Salute Mentale» (10 ottobre 2012), è stimato che le persone sofferenti di disturbi mentali nel mondo sono oggi oltre 350 milioni. Nel 2020
* La Sapienza Università di Roma
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la malattia mentale diventerà la seconda più importante causa di disabilità. Studi recenti condotti in Italia hanno mostrato che la prevalenza di disturbi mentali nella popolazione adulta è, come minimo, vicino al 8%. Solo il 17% di questi pazienti si rivolgono ad un servizio sanitario, principalmente per motivi di disinformazione. I dati,
inoltre, mostrano che gli anziani, le donne, i disoccupati e i disabili hanno un maggiore rischio di soffrire di disturbi psichici.
Le malattie mentali hanno un altissimo costo sociale. Oltre il carico di sofferenza
per il malato stesso e per la sua famiglia, esse determinano spesso disabilità permanenti, ricoveri ripetuti in ospedale o in strutture protette, reclusione in penitenziari,
uso di sostanze, con enormi conseguenze sociali, e morte prematura per suicidio o per
altre cause correlate (es. alcolismo, incidenti, violenza). A questi costi si devono aggiungere i costi economici. Ad esempio, in Italia, nel periodo dal 2000 al 2011, le dosi prescritte e distribuite di antidepressivi sono aumentate del 340%.
Eppure le risorse per la cura e la prevenzione di queste malattie sono estremamente
limitate, specialmente nei paesi più poveri, in due terzi dei quali non esiste nessun tipo di previdenza per i malati mentali. Nei paesi occidentali è stato calcolato che la
spesa per la diagnosi e la cura di queste malattie è alta: gli Usa, per esempio, spendono
16 mld di dollari annui per le cure, di cui la maggior parte psicofarmaci. In Europa,
si stima che il costo sia diretto (diagnosi, cura, riabilitazione), che indiretto (perdita
di giorni lavorativi, pensioni ecc.), della depressione e della demenza ammonti a 100
mld l’anno. In Italia, questa spesa è vicina a 14 mld l’anno.
In tutti i paesi europei si osserva, negli ultimi anni, un aumento di assenteismo,
di perdita del lavoro e di disabilità causata problemi mentali. Nel Regno Unito, per
esempio, nel 2007 il 40% delle pensioni di disabilità erano associate a malattie mentali. In alcuni paesi dell’Unione Europea, la frequenza della depressione ha superato
quella delle malattie occupazionali muscolo-scheletriche. Questo indica anche il fatto che la depressione stia diventando la prima causa di assenteismo, di abbandono del
lavoro e di pensionamento anticipato.
Tra i fattori che, probabilmente, contribuiscono a questo aumento di problemi legati alla salute mentale, ci sono i recenti cambiamenti del mercato del lavoro (contratti precari e facili licenziamenti) e l’incremento dei carichi di lavoro. Anche l’invecchiamento e la femminilizzazione della forza lavoro contribuiscono ad aumentare
la frequenza di disturbi mentali nella popolazione lavorativa. Infatti, è noto che questi disturbi aumentino con l’età e che siano più comuni tra le donne.
Qual è il rapporto tra stress lavorativo e salute mentale?
Dai dati sopra citati si deduce che le malattie mentali incidono molto sulla produttività e sul costo del lavoro, ma il discorso deve anche essere rovesciato: quale è il
Ricerche recenti nei paesi della Comunità Europea mettono in evidenza come lo
stress legato alla attività lavorativa sia un problema di salute largamente diffuso fino
ad occupare il secondo posto fra quelli più indicati dai lavoratori. Secondo queste ricerche, la condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa. In Italia, secondo l’«European Foundation for the Improvement of Living and Working
Condition», il valore si attesta al 27%, poco al di sopra della media europea.
In una recente ricerca nel settore dell’industria agroalimentare, condotta dalla Fondazione Metes, è emerso che quasi la metà delle lavoratrici ha accusato disturbi dovuti allo stress lavorativo causato da ripetitività, ritmi elevati e problemi organizzativi del lavoro. In molte delle ricerche risulta che lo stress lavorativo è molto più sentito
dalle donne che dagli uomini e questo è attribuito sia al doppio carico (lavoro e famiglia) che grava sulle donne sia al fatto che le donne spesso sono addette ai compiti meno qualificati, più monotoni e ripetitivi e quindi più stressanti.
Per queste ragioni, i rischi psicosociali e, più specificatamente, lo stress lavorativo
devono essere considerati a tutti gli effetti rischi lavorativi che vanno rilevati e valutati insieme agli altri rischi quando si effettua la valutazione degli ambienti di lavoro. Infatti, la normativa sulla tutela della salute dei lavoratori, anche in Italia, dal 2008
prevede la valutazione del rischio psicosociale, in particolare lo stress lavorativo.
La Comunità Europea, attraverso l’Osha (Occupational Safety and Health Agency),
considera la promozione della salute mentale nei luoghi di lavoro una priorità. Infatti,
nel 2009 l’Osha ha condotto una campagna di ricognizione della situazione dello stress
lavorativo e della sua prevenzione nei paesi membri. Sono state così raccolte una serie di buone pratiche messe in atto da varie aziende che hanno cercato di ridurre lo
stress lavorativo e di promuovere la salute mentale.
Alcune di queste esperienze, riportate in un rapporto dell’Eu/Osha, sono particolarmente innovative: un’azienda danese per esempio, aveva come obiettivo quello di
creare La fabbrica da sogno per creare un’atmosfera amichevole per tutti i lavoratori,
senza distinzione di età, genere, religione e mansione e dove ai reclutati erano asse-
Rubrica: Lavoro e salute
ruolo del lavoro sulla salute mentale? Senza nessun dubbio l’ambiente di lavoro (fisico e, soprattutto, psicologico e sociale) ricopre un ruolo di grande importanza per
il mantenimento e la promozione della salute mentale. Il lavoro in sé è benefico per
la salute mentale perché aumenta la stima di sé, il senso di appartenenza, lo status dell’individuo e la sua autonomia. Ma il lavoro può anche esporre a rischi psicologici e
sociali come lo stress da troppa responsabilità, da troppo carico, da conflitti con i superiori e/o colleghi, da insicurezza (ecc.), causando ansietà, depressione, disaffezione
e «burnout». In questo modo si istaura un circolo vizioso che porta all’aumento dell’assenteismo, alla riduzione della produttività, a errori, alla perdita di motivazione e
di interesse e a tensioni nelle relazioni interpersonali.
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gnati compiti adatti ad ognuno di loro secondo le caratteristiche personali, attitudini e mentalità: cioè adattando il compito al lavoratore, piuttosto che il lavoratore al
compito.
Altre strategie innovative censite dall’Osha erano quelle di offrire alcuni servizi (anche finanziari) ai famigliari dei dipendenti, di formazione permanente nell’orario del
lavoro, di rimborso parziale per le spese di cura e assistenza ai figli dei dipendenti,
la promozione degli interessi culturali e sportivi dei lavoratori, dell’assegnazione di
un «tutor» ai lavoratori nuovi, di controlli medici e di programmi di promozione della salute per ridurre i rischi da stili di vita errati (fumo, alcool, alimentazione), ecc.
Alcune di queste esperienze «innovative», ricordano esperienze simili vissute in Italia negli anni ’70 ispirate e attuate dal movimento sindacale di quell’epoca che aveva messo la salute al centro delle sue lotte. Esempi erano la diretta partecipazione dei
lavoratori alla valutazione dei rischi lavorativi attraverso i «gruppi omogenei», il diritto di informazione e formazione (ad esempio le 150 ore contrattuali), gli asili nido aziendali, la tutela della donna in gravidanza, ecc. Alcune di queste conquiste sono poi state incorporate nella legislazione italiana (vedi lo Statuto dei Lavoratori).
Passato tuttavia l’entusiasmo del movimento sindacale e con l’arrivo di successive crisi economiche, molte di queste «innovazioni» di allora sono state applicate sempre
più raramente. In compenso, il nuovo quadro legislativo della tutela della salute dei
lavoratori, entrato in vigore nel 1994, fornisce una completa struttura normativa e
organizzativa che, almeno teoricamente, consente di applicare le regole e gli standard
necessari per tutelare la salute dei lavoratori, compresa la salute mentale.
Valutazione e prevenzione dello stress lavorativo
per la promozione della salute mentale
L’attuale normativa, che segue la normativa Eu, concerne specificatamente lo stress
lavorativo: il Decreto Legislativo 81/2008, nel suo articolo 28, prevede la valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato. Inoltre, lo stress lavorativo è menzionato
in altri articoli per la tutela specifica delle donne, anziani e lavoratori stranieri, soggetti più vulnerabili allo stress. Il Governo ha successivamente emanato le linee guida per l’applicazione pratica della legge che attualmente è in vigore.
La valutazione dello stress lavorativo richiede metodi e strumenti diversi dai tradizionali mezzi di rilevazione finora usati per gli ambienti di lavoro (es. misurazione
degli inquinanti, controllo impianti, ecc.).
Nella prassi attuale il rischio «stress lavorativo», quando rilevato segue il seguente
schema:
1. Un’analisi documentale per acquisire notizie dell’organizzazione del lavoro (organigramma, flussi produttivi, flussi comunicativi, gestione risorse umane, ecc.).
La corretta attuazione di questa procedura richiede ovviamente, prima di tutto, la
formazione di tutti gli attori coinvolti: tecnici, dirigenti aziendali, addetti alla sicurezza, e lavoratori. Per ora, l’applicazione della normativa sulla valutazione dello stress
è stata applicata a poche realtà lavorative. Il rischio da evitare, data la difficoltà di seguire la procedura valutativa correttamente e le carenze formative (anche dei tecnici
e degli altri addetti al lavoro), è che la valutazione del rischio finisca per essere una
formalità da sbrigare con qualche annotazione frettolosa e superficiale. D’altronde,
l’introduzione della obbligatorietà di questo tipo di valutazione ha il grande merito
di aver sollevato un interesse e una discussione su un rischio lavorativo finora trascurato, con alti costi individuali e collettivi.
È da augurarsi che, con il tempo e con la crescita della cultura della sicurezza sul
lavoro, la valutazione e, soprattutto, la prevenzione dello stress lavorativo, facciano sempre più parte integrante delle buone pratiche del lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute
2. La raccolta di indicatori aziendali di stress lavoro-correlabili (assenze per malattia, infortuni, turn-over, richieste cambio mansione, ecc.) e informazioni sulla gestione della salute e sicurezza (verbali riunioni, visite periodiche, piani di intervento
annuali/pluriennali, relazioni biostatistiche annuali).
3. Valutazione oggettiva tramite metodi di osservazione diretta del lavoro o/e attraverso check-list o altri strumenti adatti. L’analisi oggettiva permetterà anche di identificare gruppi omogenei di lavoratori ovvero partizioni organizzative aventi caratteristiche comuni in merito ai fattori di rischio organizzativo.
4. Valutazione soggettiva tramite l’analisi della percezione dei lavoratori dello stress
lavoro-correlato sui gruppi omogenei, attraverso strumenti di valutazione delle dimensioni lavorative critiche percepite, delle risorse individuali/di gruppo fruibili e
dei disturbi psicofisici stress lavoro-correlati (disturbi psichici, disturbi somatici).
5. Una relazione conclusiva con l’analisi dei dati e la definizione dei livelli di rischio
a cui collegare gli interventi preventivi/protettivi sullo stress lavoro-correlato, che
diventa parte integrante del documento generale di valutazione dei rischi. Quindi, sulla base dei dati raccolti, e sulla base dell’analisi degli stessi si identificheranno
indicatori sintetici di livello di rischio (del tipo basso-medio-alto) a livello aziendale o per partizione o di gruppo omogeneo.
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Sommari dei numeri precedenti
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N. 1/2010
Presentazione, F. Farina.
Monografia, L’agricoltura e la nuova Pac verso il 2013.
M. D’Alessio, Introduzione; La riforma dell’Health Chech; La riforma dell’Ocm vitivinicolo; La riforma dell’Ocm ortofrutta; Partenariato e approccio integrato: il contributo delle Organizzazioni sindacali allo sviluppo rurale 2007-2012.
N. 2/2010
Presentazione, F. Chiriaco.
L’analisi, A. Pepe, I congressi di svolta della Cgil; F. Farina, Le costellazioni contrattuali.
Monografie, A. Di Stasi, Dalla cittadinanza del lavoro all’apartheid dei diritti; M.
D’Alessio, Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana; F.F., I
dannati della terra; E. Olivieri, Schiavismo nel XXI secolo; C. Cesarini, L’essenziale è invisibile agli occhi.
Temi, G. Girolami, I giovani e la pensione: istruzioni per l’uso; L. Svaluto Moreolo, I
giovani italiani e l’emancipazione dalla famiglia.
Documentazione, A. Stivali, Immigrazione e lavoro.
N. 3-4/2010
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione, la qualità del lavoro e la centralità del territorio; A. Pepe, Il sindacato e la contrattazione in una prospettiva storica.
L’analisi, P. Di Nicola, Management e organizzazione nell’impresa contemporanea; M.
D’Alessio, La contrattazione, l’azienda agricola e gli aiuti comunitari; D. Pantini,
La filiera agroalimentare in Italia.
Temi, F. Assennato, Contrattazione e qualità degli ambienti di lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, La salute delle donne e il lavoro agricolo.
Documentazione, F. Farina, Il sapere, il saper fare e il saper essere.
Recensioni.
Abstract.
N. 7/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare; A. Pepe, L’accordo interconfederale del 28 giugno in una prospettiva storica.
Temi, M. D’Alessio, Il lavoro forestale e le normative regionali in Italia; G. Mattioli,
Energia ed agricoltura.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Il rischio infettivo tra i lavoratori dell’agroalimentare.
Memoria, M.L. Righi, Ricordo di Nella Marcellino.
Abstract.
N. 8/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, Intervista a Stefania Crogi.
Temi, F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil; D. Pantini, L’approvvigionamento
agricolo nell’era della scarsità e i possibili impatti per l’industria alimentare.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Integratori alimentari: possiamo fidarci
degli antiossidanti?
Recensioni.
Abstract.
N. 9-10/2012
Presentazione, Franco Chiriaco.
Monografia | Tesseramento e sindacato
L’argomento, S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo.
Temi, I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative, F. Farina, Tesseramento e po-
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N. 5-6/2011
Presentazione, La redazione.
Temi, F. Farina, Distretti agroalimentari e contrattazione territoriale; M. D’Alessio,
I distretti nell’industria alimentare italiana; D. Pantini, Nuovi scenari per l’agricoltura italiana; O. Cimino, Il lavoro salariato nell’agricoltura italiana: un’analisi sintetica.
L’argomento, A. Pepe, L’unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, I bambini e i rischi ambientali in agricoltura.
Recensioni.
Abstract.
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litiche rivendicative, A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento, M.P. Del Rossi,
Il modello inglese; S. Cruciani, Il «caso francese» tra culture politiche e relazioni
industriali (1895-1995); P. Borioni, Il modello scandinavo; M.P. Del Rossi, Il
modello tedesco.
L’analisi, A. Borello, La riforma della Politica comune della pesca: gli effetti socioeconomici di breve periodo.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Salute e lavoro delle donne nel settore
agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo.
Segnalazioni e recensioni.
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N. 11/2012
Presentazione, La redazione.
Monografia | Piano del lavoro e contrattazione
L’argomento, S. Crogi, Piano del lavoro e politiche rivendicative.
L’analisi, M. D’Alessio, L’occupazione nella crisi economica: quali evoluzioni nell’agroalimentare?
Temi, F. Farina, Occupazione, orari di lavoro e produttività; F. Loreto, Le politiche della Cgil contro la disoccupazione.
Ricerche, A. Pepe, Il collocamento in Italia in una dimensione storica.
Documentazione, M.P. Del Rossi, La Cgil e l’occupazione (Appendice documentaria).
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà-Talamanca, Che cosa sappiamo sui possibili effetti sulla salute dell’uso dei telefoni cellulari?
Segnalazioni e recensioni.
N. 12/2012
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura.
L’analisi, M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del lavoro in agricoltura.
Conoscenze, F. Abbrescia, Il mercato del lavoro in Puglia, F. Tassinati, Il mercato del
lavoro in agricoltura.
Temi, E. Pedrazzoli, Ingresso nel mercato del lavoro e modifiche delle tutele dei lavoratori - Legge n. 92/2012.
Rubrica: Lavoro e diritti, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Segnalazioni e recensioni.
N. 13-14/2013
Presentazione, La redazione
L’argomento, S. Crogi, Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori.
N. 15/2013
Presentazione, La redazione
L’argomento, S. Crogi, L’autonomia e la competenza
L’analisi, F. Farina, Le costellazioni contrattuali; S. Crogi, Intervista; S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo; I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative; F. Farina, Tesseramento e politiche rivendicative; A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento; F. Farina, Orario di lavoro e produttività; S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura; M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del
lavoro in agricoltura.
Rubrica, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della
Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Ricerche, M. D’Alessio, Per un progetto di rilancio dell’agroalimentare italiano; F. Farina, Catena del valore e modelli organizzativi.
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L’analisi, A. Pepe, La crisi italiana nell’Europa tedesca: per una nuova diplomazia economica e sindacale.
Temi, F. Farina, Il negoziato e la struttura contrattuale; G. Rotella, La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro; M. D’Alessio, Le Organizzazioni dei produttori: una nuova prospettiva contrattuale?
Ricerche, F. Giordano, Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo: due realtà toscane e pugliesi a confronto.
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