Ab urbe condita Livio 12 Ab urbe condita II, 40, 1-12 Ego nisi peperissem, Roma non oppugnaretur Coriolano, romano esiliato e rifugiatosi presso i Volsci, guida il loro esercito contro Roma. La città è assediata e solo l’intervento delle matrone, in particolare della madre di Coriolano, convince quest’ultimo a togliere l’assedio. 40 (1) Allora le matrone andarono in massa da Veturia, madre di Coriolano, e da Volumnia sua moglie, non si può sapere se per pubblica deliberazione o per paura femminile. (2) In ogni modo ottennero che Veturia, donna ormai anziana, e Volumnia, assieme ai due figli bambini di Marcio, si recassero nel campo nemico e, poiché gli uomini non erano in grado di difendere la città con le armi, dovevano difenderla le donne con le lacrime e le preghiere. (3) Quando arrivarono all’accampamento e fu annunciato a Coriolano che c’era una grande folla di donne, lui, che non si era lasciato commuovere dalla pubblica dignità degli ambasciatori né dall’autorità religiosa che ispiravano agli occhi e all’animo i sacerdoti, fu ancora più ostinato di fronte al pianto delle donne. (4) Poi un amico che tra le altre aveva riconosciuto Veturia, la quale spiccava per il suo dolore, tra la nuora e i nipoti, gli disse: “Se gli occhi non m’ingannano, ci sono qui tua madre, tua moglie e i tuoi figli”. (5) Coriolano si alzò come un pazzo dal suo posto per andare ad abbracciare la madre, ma la donna, cambiando in collera la preghiera, gli disse: “Prima che riceva il tuo abbraccio, fa’ in modo che sappia se sono venuta da un figlio o da un nemico, se sono nel tuo campo come madre o come prigioniera. (6) A questo mi ha portato una vita troppo lunga e una vecchiaia infelice, a vederti prima esule e poi nemico? Hai potuto saccheggiare la terra che ti ha generato e nutrito? (7) Per quanto tu possa essere arrivato con animo ostile e minaccioso, come non ti è caduta la collera al momento di passare il confine? Come non ti è venuto in mente, quando hai visto Roma, ‘Dentro a quelle mura stanno la mia casa e i miei Penati, mia madre, mia moglie, i miei figli?’. (8) Dunque, se non avessi partorito, Roma non sarebbe assediata; se non avessi avuto un figlio, sarei morta libera in una patria libera. Io ormai non posso soffrire più niente che non arrechi più vergogna a te che dolore a me, e per quanto sia infelice, non lo sarò a lungo. (9) Ma pensa ai tuoi figli, che, se tu insisti, sono attesi o da una morte immatura o da una lunga schiavitù”. Poi l’abbraccio della moglie e dei figli, il pianto levatosi da tutta la folla delle donne, le lamentazioni su di sé e sulla patria spezzarono alla fine la resistenza dell’uomo. (10) Abbracciò i suoi cari e li congedò, poi tolse il campo dalla città. Successivamente ritirò anche le legioni dalla campagna romana, e morì vittima dell’odio suscitato dal suo comportamento, chi dice in un modo chi un altro. Presso Fabio, l’autore di gran lunga più antico, trovo che visse fino alla vecchiaia; anzi (11) Fabio dice che spesso in età avanzata ripeteva che per un vecchio l’esilio è più duro. Gli uomini romani non disconobbero il merito delle donne (a tal punto allora si viveva senza invidiare la gloria altrui) (12) e, perché ne restasse memoria, fu costruito un tempio e dedicato alla Fortuna femminile. 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio 18 Ab urbe condita IX, 17-19 Haud equidem abnuo egregium ducem fuisse Alexandrum Livio non indulge normalmente agli excursus come Sallustio. Fedele all’impostazione annalistica della sua opera, narra con completezza tutti gli eventi che si svolgono nel loro ordine cronologico. Questa è un’eccezione famosa: cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno, una volta conquistata l’Asia, avesse avuto il tempo di volgersi contro i Romani? Lo storico alla fine della disamina dei vari aspetti della questione non ha dubbi: avrebbero prevalso i Romani. Alessandro Magno era soldato e comandante valoroso come lo erano tanti condottieri romani, la sua fortuna fu grande perché visse poco, ma quanti altri condottieri furono fortunati nella prima parte della loro vita e poi subirono rovesci? Se fosse ancora vissuto per affrontare i Romani, lo avrebbe fatto con tutti quei difetti che si manifestarono in lui dopo le grandi vittorie: col passar del tempo tali difetti si sarebbero accresciuti e si sarebbero mostrati decisivi nello scontro con gli integerrimi Romani, che oltretutto non avevano certo forze militari inferiori a quelle dei Macedoni. 17 (1) Si può constatare che fin dall’inizio di quest’opera ciò che più ho cercato di evitare è di allontanarmi dal corretto ordine della narrazione per divagare e offrire al lettore diversivi piacevoli, o a me stesso riposo. (2) Tuttavia l’aver menzionato un re e comandante così grande mi richiama i pensieri che spesso ho meditato in silenzio nel mio animo, e mi piace esaminare quale sarebbe stata la sorte dell’impero romano se si fosse dovuto combattere con Alessandro. (3) Ciò che più conta in guerra sembra essere il numero e il valore dei soldati, l’ingegno dei comandanti e la fortuna potentissima in tutte le cose umane, ma più che mai in guerra. (4) Ora questi elementi, considerati uno per uno e tutti insieme, danno la certezza che il popolo romano si sarebbe serbato invincibile, come dagli altri re e popoli, anche da Alessandro. (5) Prima di tutto, cominciando con l’esaminare i comandanti, non nego certo che Alessandro fu un grande comandante; ma gli dà più gloria il fatto di essere stato il solo e che morì giovane, nella fase ancora crescente del suo impero, senza avere sperimentato la fortuna avversa. (6) Per non nominare gli altri illustri re e comandanti, grandi esempi delle vicende umane, che cosa mise in balia della fortuna mutevole Ciro, che i Greci celebrano più di chiunque altro, se non la lunghezza della sua vita, e allo stesso modo Pompeo Magno? (7) Devo elencare i comandanti romani, non tutti e di tutti i tempi, ma solo quelli coi quali, nella loro qualità di consoli o dittatori, Alessandro avrebbe dovuto combattere: (8) Marco Valerio Corvo, Gaio Marcio Rutulo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto Publilio Filone, Lucio Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Deci, Lucio Volumnio, Manio Curio? (9) Seguono altri uomini insigni, se Alessandro avesse combattuto prima con Cartagine che con Roma e fosse passato in Italia in età più avanzata. (10) Ognuno di loro aveva doti di ingegno e di coraggio simili a quelle di Alessandro, e in più una disciplina militare trasmessa di generazione in generazione fin dai primordi della città, e progredita fino a diventare una scienza regolata da norme perenni. (11) Così avevano combattuto i re, così i Giunii e i Valerii che li avevano cacciati, così poi i Fabi, i Quinzi, i Corneli, così Furio Camillo, che nella loro giovinezza quelli che avrebbero dovuto combattere con Alessandro videro già vecchio. (12) Contro Alessandro, che affrontava sempre di persona i combattimenti (uno dei meriti per cui va più famoso), avrebbero dunque ceduto nel confronto diretto sul campo Manlio Torquato o Valerio Corvo, grandi soldati prima che coman2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio danti, (13) i Deci che si precipitarono in mezzo al nemico consacrandosi alla morte, Papirio Cursore con la sua enorme forza fisica e morale? (14) E per non nominarli tutti uno per uno, sarebbe stato sconfitto dall’ingegno di un solo giovane quel senato di cui colse esattamente l’essenza chi lo definì tutto composto di re? (15) Ci sarebbe stato il rischio che sapesse scegliere il posto per l’accampamento con più attenzione di uno qualunque di quelli che ho nominato, o predisporre i rifornimenti, premunirsi contro gli agguati, scegliere il momento di attaccare battaglia, schierare l’esercito, rafforzarlo con le riserve? (16) Avrebbe riconosciuto che non aveva più a che fare con Dario, che si tirava dietro una schiera di donne e di eunuchi, carico d’oro e di porpora, appesantito dalle sue ricchezze, preda piuttosto che nemico: Alessandro lo sconfisse senza colpo ferire, con l’unico merito di aver osato disprezzare le vanità. (17) Ben diversa gli sarebbe parsa l’Italia dall’India che attraversò gozzovigliando con un esercito ubriaco, quando avesse visto le valli di Puglia, i monti della Lucania e le tracce recenti di una sconfitta familiare, dove era morto lo zio materno, Alessandro re dell’Epiro. 18 (1) E parliamo di un Alessandro ancora non affogato nella fortuna, che nessuno si dimostrò meno capace di sopportare. (2) Se lo esaminiamo in base alla nuova fortuna e alla nuova indole (per così dire) che assunse dopo la vittoria, (3) dobbiamo dire che in Italia sarebbe venuto un Alessandro simile piuttosto a Dario, con un esercito ormai dimentico della Macedonia e degenerato alla maniera persiana. (4) Dispiace ricordare, sul conto di un re così grande, il superbo cambiamento di vesti, il desiderio di essere adulato da sudditi prostrati per terra, cosa difficile da sopportare anche per i vinti (per non dire dei Macedoni vincitori), i vergognosi supplizi e le uccisioni di amici perpetrate nel banchetto tra il vino, la vanità di attribuirsi una falsa discendenza. (5) E che sarebbe accaduto se l’amore per il vino fosse diventato di giorno in giorno più forte? Oppure la collera, violenta ed eccessiva (mi limito a riferire dati accertati dalle fonti). O riteniamo che questi vizi non rechino danno alle virtù di un comandante? (6) Ma il vero pericolo era – dicono con grande leggerezza quegli storici greci che contro il nome di Roma esaltano perfino la gloria dei Parti – che il popolo romano non riuscisse a reggere la maestà del nome di Alessandro (che credo non gli fosse noto neanche per sentito dire), (7) oppure che nessuno tra i tanti capi romani fosse in grado di levare una voce libera contro l’uomo che in Atene, città distrutta dalle armi macedoni, che vedeva fumare da vicino le rovine di Tebe, degli uomini osarono liberamente attaccare, come è testimoniato dalle testimonianze delle orazioni. (8) Si valuti quanto si vuole la grandezza di quell’uomo, ma sarà sempre la grandezza di un individuo, raccolta in poco più di dieci anni di fortuna. (9) Quelli che la esaltano dicendo che il popolo romano è stato vinto in molte battaglie (ma in nessuna guerra), mentre Alessandro non ebbe mai fortuna avversa in nessuna battaglia, non si rendono conto di confrontare le imprese di un solo uomo, e per di più di un giovane, con quelle di un popolo che combatte da più di ottocento anni. (10) Ci possiamo meravigliare se, essendoci da una parte più secoli che dall’altra anni, la fortuna sia cambiata di più in tanti secoli che in tredici anni? (11) Perché non confrontare invece uomo e uomo, comandante e comandante, fortuna e fortuna? (12) Quanti comandanti romani potrei nominare che non persero mai una battaglia? Basta ripercorrere le pagine degli Annali e dei Fasti dei magistrati per trovare consoli e dittatori del cui valore e della cui fortuna il popolo romano non 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio dovette mai in nessun giorno lagnarsi. (13) E, in questo ben più ammirevoli di Alessandro o di qualunque re, qualcuno di loro tenne la dittatura per dieci o venti giorni, nessuno comunque il consolato per più di un anno. (14) Le leve erano ostacolate dai tribuni della plebe; andavano in guerra in ritardo, venivano richiamati prima del tempo per le elezioni; (15) talvolta proprio nel momento culminante scadeva l’anno; furono impediti o danneggiati dalla leggerezza o dalla malvagità del collega; dovevano continuare una campagna male iniziata da un altro; ricevevano un esercito di novizi oppure abituato a una cattiva disciplina. (16) Invece i re non solo sono liberi da ogni impedimento, ma sono padroni delle situazioni e del tempo, non vanno dietro alle circostanze, ma le trascinano dietro al loro piano. (17) Invitto com’era, dunque, Alessandro avrebbe affrontato comandanti pure invitti, e avrebbe gettato sulla bilancia le stesse garanzie di fortuna. (18) Anzi, avrebbe corso pericoli maggiori, perché i Macedoni avrebbero avuto un solo Alessandro esposto a molti rischi e che anzi ad essi si offriva volontariamente, mentre i Romani avrebbero avuto molti pari ad Alessandro per gloria e grandezza delle imprese, di cui ognuno, a seconda del suo destino, avrebbe potuto vivere o morire senza compromettere le sorti dello stato. 19 (1) Restano da confrontare le forze in campo, per numero e qualità dei soldati, e per l’entità delle forze ausiliarie. (2) Nei censimenti del tempo erano iscritti duecentocinquantamila cittadini, e quindi anche nel caso di defezione degli alleati latini la sola leva urbana consentiva di arruolare dieci legioni. (3) Spesso in quegli anni c’erano contemporaneamente quattro o cinque eserciti che conducevano la guerra in Etruria, in Umbria (dove si erano aggiunti come nemici i Galli), nel Sannio, in Lucania. (4) In tutto il Lazio, coi Sabini, i Volsci, gli Equi, in tutta la Campania, parte dell’Umbria e dell’Etruria, coi Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e gli Apuli, considerando anche tutto il litorale greco da Turi a Napoli a Cuma, e di là fino ad Anzio o Ostia, Alessandro avrebbe trovato o validi alleati dei Romani o nemici già debellati. (5) Lui da parte sua avrebbe passato il mare coi veterani macedoni, non più di trentamila fanti e quattromila cavalieri, per lo più tessali: questa era la sua forza, perché se invece avesse portato con sé anche i Persiani, gli Indiani e gli altri popoli, ne avrebbe avuto più impaccio che aiuto. (6) C’è da aggiungere che, mentre i Romani avrebbero avuto sottomano le riserve, Alessandro, come poi Annibale, si sarebbe trovato a combattere in terra straniera con un esercito soggetto a logorarsi. (7) Quanto alle armi, loro avevano scudo e sarissa, cioè lancia, i Romani uno scudo più adatto a proteggere il corpo, e il giavellotto, proiettile più efficace della lancia. (8) Entrambi erano eserciti di posizione, abituati a conservare il loro posto, ma la falange macedone era poco mobile e uniforme, mentre lo schieramento romano era più articolato, fatto di varie parti, facile ad essere diviso e riunificato tutte le volte che fosse necessario. (9) Inoltre, quale soldato eguaglia i Romani nelle opere di fortificazione? Chi è più capace di sopportare le fatiche? Perdendo una sola battaglia Alessandro avrebbe perso la guerra; viceversa, chi avrebbe abbattuto la potenza romana che non fu abbattuta né da Caudio né da Canne? (10) Se anche avesse ottenuto qualche successo all’inizio, si sarebbe trovato a rimpiangere i Persiani, gli Indiani, l’Asia imbelle, e avrebbe riconosciuto di aver combattuto con delle donne, (11) come si racconta che disse Alessandro re dell’Epiro, colpito da una ferita mortale, confrontando con le sue le guerre combattute in Asia dal giovane Alessandro Magno. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio (12) Quando ricordo che la prima guerra punica fu combattuta per ventiquattro anni sul mare dai Romani contro i Cartaginesi, penso che l’intera vita di Alessandro sarebbe stata appena sufficiente a portare a termine questa sola guerra. (13) E forse, dal momento che Cartagine e Roma erano unite da un antico patto di alleanza, il timore del nemico comune avrebbe armato insieme le due città potentissime per armi e uomini, e Alessandro sarebbe stato distrutto da una guerra contemporanea contro Cartagine e contro Roma. (14) I Romani sperimentarono il nemico macedone, sia pure non più guidato da Alessandro e quando l’impero macedone non era più integro: combatterono contro Antioco, Filippo, Perseo non solo senza ricevere sconfitte, ma senza correre alcun pericolo. (15) Sia detto senza iattanza, e a parte le guerre civili: nel conflitto con i cavalieri nemici, coi fanti, in campo aperto, in battaglia a pari condizioni, e tanto meno in terreno a noi favorevole, non ci siamo mai trovati in difficoltà. (16) La nostra fanteria pesante può temere i cavalieri o gli arcieri, il terreno montuoso, le difficoltà di rifornimento, (17) ma mille eserciti più forti di quello macedone e di Alessandro li respinge e li respingerà sempre, purché duri eternamente l’amore di pace e la concordia tra cittadini in cui ora viviamo. 5 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio 24 Ab urbe condita XXII, 53-54 Audendum atque regendum Livio descrive il coraggio dei Romani, anche nella sconfitta di Canne: la saldezza morale del popolo fu decisiva nelle circostanze. Livio tende a enfatizzarla, ma si trattò comunque di una reale presa di coscienza del senso della patria, che, cementatosi in questo periodo, resterà uno dei capisaldi dell’ideologia romana. 53 (1) Poiché sul posto si trovavano quattro tribuni militari – per la prima legione Quinto Fabio Massimo, il figlio del dittatore dell’anno precedente; (2) per la seconda Lucio Publicio Bibulo e Publio Cornelio Scipione; per la terza Appio Claudio Pulcro, che recentemente era stato edile – (3) il comando supremo fu assegnato all’unanimità a Publio Scipione (ancora giovanissimo) e ad Appio Claudio. (4) Ad essi, nel corso di una consultazione indetta tra pochi sulla situazione dello stato, Publio Furio Filo, figlio di un ex console, dichiarò che nutrivano inutilmente una speranza impossibile; lo stato si trovava in una condizione deplorevole e disperata; (5) alcuni giovani nobili, a capo dei quali era Lucio Cecilio Metello, guardavano al mare e alle navi per abbandonare l’Italia e rifugiarsi presso qualche re. (6) Questo rischio, oltre che atroce inusitato, pur dopo tanti disastri, paralizzò e agghiacciò i presenti, che espressero l’opinione di convocare su questo punto il consiglio di guerra; ma il giovane Scipione, comandante designato dal fato per questa guerra, dice che non è argomento da consiglio: in una simile situazione si doveva osare e agire, non consultarsi. (7) Quelli che volevano salvo lo stato, prendessero le armi e andassero con lui. (8) Nessun accampamento appartiene più autenticamente al nemico di uno in cui si fanno questi progetti. (9) Seguito da pochi, si precipita nell’alloggio di Metello e, trovando qui radunati i giovani di cui gli era stato riferito, sguainò la spada sulle loro teste mentre discutevano e disse: (10) “In fede mia, come è vero che non abbandonerò lo stato romano e non permetterò che nessun altro cittadino romano lo abbandoni, (11) se manco scientemente al mio giuramento ti prego, Giove Ottimo Massimo, di colpire di mala morte me, la mia casa, la mia famiglia, le mie sostanze. (12) A te, Lucio Cecilio, e a tutti voi qui presenti, chiedo che giuriate su queste parole; chi non giurerà, sappia che questa spada è sguainata contro di lui”. (13) Tutti quanti giurano, non meno atterriti che se vedessero davanti a sé il vincitore Annibale, e si mettono sotto la sorveglianza di Scipione. 54 (1) Mentre questi fatti accadevano a Canosa, a Venosa giunsero presso il console Varrone circa quattromilacinquecento tra fanti e cavalieri, che si erano dati alla fuga attraverso le campagne. (2) I Venosini li distribuirono tra tutte le famiglie perché fossero accolti con benevolenza e curati, e diedero a ogni cavaliere una toga e una tunica e venticinque quadrigati, a ogni fante dieci quadrigati, oltre alle armi per coloro che non ne avevano. (3) Fu curata ogni altra forma di ospitalità pubblica e privata, facendo a gara perché il popolo di Venosa non fosse vinto in sollecitudine dalla donna di Canosa. (4) Ma il gran numero rendeva troppo oneroso l’aggravio per Busa, perché già si trattava di circa diecimila uomini. (5) Appio e Scipione, appena saputo che uno dei due consoli era sano e salvo, mandarono subito a informarlo di quante truppe di fanteria e cavalleria si trovavano con loro, e a chiedergli se ordinava che l’esercito fosse condotto a Venosa o restasse a Canosa. (6) Varrone invece spostò a Canosa le sue truppe, e c’era dunque una qualche apparenza di 6 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio esercito consolare: sembravano in grado di difendersi dal nemico sicuramente con le mura, se non con le armi. (7) A Roma non era stato annunciato che fossero nemmeno sopravvissuti questi resti di cittadini e alleati, ma si credeva che l’esercito fosse stato massacrato col massacro dei suoi capi, e che le truppe fossero state completamente sterminate. (8) Mai con la città salva ci fu tanto terrore e tumulto dentro le mura di Roma. Io mi dichiaro inferiore al mio compito, e non cercherò di raccontare quello che raccontato risulterebbe troppo inferiore al vero. (9) Dopo che l’anno precedente al Trasimeno si era perduto un esercito e un console, ora si annunciava non un’altra ferita, ma una strage molteplice: perduti due eserciti consolari assieme a due consoli; non c’era più un campo romano né un comandante né un soldato. (10) L’Apulia, il Sannio e ormai quasi tutta l’Italia appartenevano ad Annibale. Ogni altro popolo sarebbe stato schiacciato da un così enorme disastro. (11) Si può confrontare con questa la sconfitta dei Cartaginesi nella battaglia navale delle isole Egadi, per cui furono costretti a ritirarsi dalla Sicilia e dalla Sardegna, e accettare di diventare tributari e sudditi; oppure la sconfitta che il medesimo Annibale ricevette poi in Africa: ma non sono confrontabili se non per il fatto che furono sopportate con minor forza d’animo. 7 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ab urbe condita Livio 26 Ab urbe condita XXX, 15 Ne viva in potestatem Romanorum veniat Richiamato ai suoi doveri da Scipione, Massinissa è costretto a un gesto estremo per mantenere la promessa fatta a Sofonisba, di non consegnarla ai Romani. Livio descrive la vicenda in una suggestiva sequenza: prima i sospiri di Massinissa, poi l’altero coraggio della donna di fronte alla morte. 15 (1) A sentire queste parole, Massinissa non solo arrossì, ma gli spuntarono le lacrime; dopo essersi dichiarato a disposizione del comandante e averlo pregato di lasciarlo provvedere, per quanto le circostanze lo permettevano, (2) alla parola imprudentemente data a Sofonisba di non consegnarla a nessuno, si ritirò, mortificato, dal quartiere generale nella sua tenda. (3) Allontanò i testimoni e, dopo qualche tempo passato in frequenti sospiri e gemiti che si sentivano tutt’intorno alla tenda, (4) alla fine mandò un gemito profondo e mandò a chiamare un suo schiavo fedele che aveva in custodia, secondo il costume dei re, il veleno per le evenienze dubbie, lo sciolse in una coppa e ordinò di portarlo a Sofonisba, (5) mandandole a dire che Massinissa ben volentieri avrebbe mantenuto la prima sua promessa, quella dovuta da un marito alla moglie; poiché ciò gli era tolto da chi aveva il potere di farlo, manteneva la seconda, che non sarebbe caduta in mano dei Romani. (6) Provvedesse lei stessa, ricordandosi di suo padre comandante, della patria, dei due re che aveva sposato. Appena il servo ebbe dato a Sofonisba il messaggio e il veleno, lei disse: (7) “Accetto volentieri il dono nuziale che non mi è sgradito, se il marito non può dare alla moglie niente di meglio. Digli però che sarei morta meglio se non mi fossi sposata il giorno stesso della mia morte”. (8) Le parole non furono più fiere del gesto con cui prese la coppa, e impavida, senza dare nessun segno di turbamento, la bevve d’un colpo. 8 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 6 Odi I, 9 Vides ut alta stet nive Il nome greco del destinatario Taliarco (“re del banchetto”) è senz’altro fittizio e da “nome parlante” corrisponde alla funzione che il personaggio deve svolgere nella scena descritta, secondo un procedimento già praticato dalla lirica greca e latina. Il carme si apre con un quadro invernale localizzato a Roma, ma utilizzando uno spunto del poeta greco Alceo. Non sappiamo se anche nel carme di Alceo vi fosse uno sviluppo simile, ma probabilmente Orazio adotta la tecnica del cosiddetto motto iniziale: prende cioè spunto da un passo del poeta greco per poi far seguire uno sviluppo del tutto autonomo. Nel procedere dinamico del carme si passa dal quadro dell’inverno, portatore di freddo nel paesaggio e negli animi, alla scena del gioco d’amore finale. 1 5 10 Vedi come si innalza bianco di neve il Soratte, e gli alberi sofferenti non reggono più il peso e si rapprendono i fiumi per il gelo acuto. Dissolvi il freddo, mettendo legna sul fuoco con larghezza, e versa generosamente vino di quattro anni dall’anfora sabina, Taliarco. Il resto lascialo agli dei che, appena placano i venti in lotta sul mare in burrasca, ecco che non si muovono più i cipressi e i vecchi ontani. 15 20 Non chiederti cosa sarà domani, e tutti i giorni che la sorte ti darà segnali tra gli utili, e non disprezzare, ragazzo, i dolci amori e le danze, finché ti è ancora lontana la vecchiaia fastidiosa. Adesso frequenta il Campo Marzio, le piazze e i lievi sussurri la sera all’appuntamento, e il riso agognato della tua ragazza che viene dall’angolo più segreto a tradirla, e il pegno strappato al braccio e al dito che appena resiste. 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 8 Odi I, 11 Carpe diem Questa breve famosissima ode è dedicata a una fanciulla, Leuconoe, il cui nome evoca il candore dell’animo e quindi l’ingenuità. Il saggio epicureo Orazio le consiglia al solito di cogliere l’attimo fuggente, anzi strapparlo (questo il significato proprio di carpere) allo scorrere del tempo, e non curarsi di ciò che potrà essere il domani. 1 5 Non chiedere, non è concesso saperlo, Leuconoe, il destino che a me e a te hanno dato gli dei; non consultare i calcoli dei Caldei: quant’è meglio accettare ciò che sarà, sia che Giove ci abbia assegnato molti inverni, o per ultimo questo che logora il mare Tirreno contro gli scogli; sii saggia, filtra il vino e tronca nel breve spazio le troppo lunghe speranze; mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso: cogli l’attimo e affidati meno che puoi al domani. 2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 20 Odi I, 37 Nunc est bibendum L’inizio ha l’andamento di una reazione emotiva di fronte all’annuncio appena arrivato del suicidio di Cleopatra, poi l’ode prende un andamento più solenne con l’immagine di Ottaviano che piomba come uno sparviero sui nemici e col suicidio della regina, che preferisce la morte piuttosto che ornare come prigioniera il carro del trionfatore. I due toni diversi si avvalgono di due modelli diversi: all’inizio i versi di Alceo che festeggiano la morte del tiranno Mirsilo, poi probabili echi di Pindaro. 1 5 10 15 20 25 30 Adesso bisogna bere, bisogna battere la terra con libero piede, adesso è il momento di ornare gli altari divini con banchetti degni dei Salii. Non era lecito prima togliere il Cecubo dalle cantine dei padri, quando la regina meditava al Campidoglio una folle rovina e all’impero la fine con il suo gregge di uomini svergognati e sfregiati, senza limite nelle speranze, ubriaca di dolce fortuna. Ma la sua pazzia la guarì l’unica nave scampata a stento alle fiamme, e la mente sconvolta dal Mareotico Cesare la riportò alla terribile realtà, incalzandola nella sua fuga dall’Italia coi remi, come lo sparviero insegue le timide colombe o il cacciatore una lepre sui campi nevosi della Tessaglia, per mettere il mostro fatale in catene. Però lei nobilmente cercò la morte, e della spada non ebbe la paura che hanno le donne, e non riparò con la flotta su spiagge nascoste; con volto sereno osò guardare la reggia distrutta e tenere in mano i serpenti feroci e accogliere nel suo corpo il nero veleno, più fiera per avere deciso la morte, così da togliere alle navi crudeli di portarla da privata, lei, donna non umile, nel superbo trionfo. 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 30 Odi II, 14 Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni Una delle più celebri odi oraziane riprende con struggente angoscia il senso dello scorrere del tempo. In questa, più che altrove, il senso del piacere è sovrastato dall’idea di onnipotenza della morte, fine ineluttabile e imminente di ogni possibile gioia. Il motivo risale alla lirica greca arcaica, in particolare ad Alceo, il quale in un frammento contrappone le gioie del simposio all’ineluttabilità della morte. Il destinatario Postumo potrebbe essere lo stesso a cui è dedicata l’elegia di Properzio III, 12. 1 Ahimè, Postumo, gli anni scorrono, fuggono; non c’è religione che possa fermare le rughe, la vecchiaia incalzante, la morte indomabile; 5 neanche se cercassi, amico mio, con trecento tori, ad ogni giorno che passa, di propiziarti lo spietato Plutone, che avvolge nelle lugubri acque Gerione 10 e Tizio, quell’onda che noi, tutti quanti mangiamo i frutti della terra, dobbiamo navigare, che si sia re o poverissimi contadini. Ci sarà inutile 15 evitare la guerra sanguinosa, i frangenti del rabbioso Mare Adriatico, difendersi a ogni autunno dallo scirocco che ci fiacca le ossa. 20 Dovremo vedere il buio Cocito e le sue pigre volute, le figlie infami di Danao e Sisifo, condannato a una lunga fatica. Dovremo lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e nessuno degli alberi che tu coltivi seguirà il suo padrone di un giorno, tranne il cipresso odioso. 25 Più saggio di te, il tuo erede berrà il Cecubo, chiuso con cento chiavi, e inonderà il pavimento del vino schietto, superbo, superiore alle cene dei pontefici. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 34 Odi III, 1 Odi profanum volgus et arceo È la prima delle sei “odi romane” poste all’inizio del III libro. Il loro contenuto è civile e morale e sono concepite da Orazio come la illustrazione dei fondamenti del nuovo stato romano, dei valori su cui doveva poggiare. Il proemio solenne, in cui Orazio si presenta come sacerdote delle Muse nell’atto di officiare un rito dal quale sono esclusi i profani, si accorda al livello eccezionale di questa lirica, che comporta una celebrazione del regime di Augusto. In passato molti interpreti hanno colto in queste liriche il vertice della produzione di Orazio, ora si tende invece a mettere in rilievo la freddezza, solo di rado superata dalla vivacità della rappresentazione. Il tema specifico, l’uguaglianza di tutti di fronte a Giove, si innesta su una serie di scene assai comuni nella poesia di Orazio con la contrapposizione della sana vita di campagna alla convulsa vita della città. 1 Odio il volgo profano e lo tengo a distanza. Fate silenzio; per i ragazzi e le vergini, da sacerdote delle Muse, io canto canti mai prima uditi. 5 Se i re terribili hanno potere sul proprio gregge, sopra i re sta il potere di Giove, che, illustre per avere sconfitto i giganti, muove il mondo col suo sopracciglio. 10 È possibile che un uomo ordini in più file i suoi alberi, che scenda in campo un candidato più nobile, oppure migliore per costumi e per reputazione, 15 che un altro ancora abbia più folla di clienti; con legge equa la Necessità sorteggia i grandi e gli infimi: un’urna capace scuote il nome di tutti. 20 A chi pende sulla testa empia una spada sguainata, non danno gusto i banchetti siciliani, e non gli conciliano il sonno il canto degli uccelli e la cetra. Invece il dolce sonno non evita le case umili dei contadini, la riva ombrosa, la valle agitata dallo Zefiro. E chi desidera 25 ciò che gli basta, neanche il mare in tempesta lo angoscia, neanche la furia di Arturo al tramonto, o del Capretto quando sorge o le vigne 30 percosse dalla grandinata, o il podere ingannevole, con le piante che accusano ora le acque, ora le stelle che bruciano i campi, ora l’inverno spietato. 5 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 35 I pesci sentono restringersi il mare per le fondamenta gettate al largo; le colmano l’architetto zelante coi suoi accoliti e il padrone che si è stancato 40 della terra; ma timore e minacce vanno dove va il padrone, e il nero affanno non lascia la trireme di bronzo, e quando cavalca siede alle sue spalle. Ma se il marmo di Frigia e la porpora più luminosa delle stelle, o la vite falerna e il profumo persiano non vale ad alleviare il dolore, perché dovrei 45 erigere un atrio alla moda, con stipiti da fare invidia? Perché cambiare con più laboriose ricchezze la mia valle sabina? 6 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 38 Odi III, 9 Donec gratus eram tibi Un frammento di Saffo e alcuni epigrammi ellenistici ci presentano un dialogo d’amore, per cui non è difficile supporre che la lirica o l’elegia ellenistica ne comprendessero diversi. Il delizioso duetto di Orazio propone due antichi amanti che nel corso del carme ritrovano il loro amore. Il passaggio da un amore all’altro è facile nella lirica oraziana, dove raramente la passione è profonda: d’altronde una dichiarazione appassionata come quella contenuta nell’ultimo verso non poteva riflettere una dimensione autobiografica di Orazio. 1 Finché ti piacevo e nessun altro preferivi che ti cingesse con le sue braccia il candido collo, vivevo più felice del re dei Persiani. 5 “Finché non ti sei innamorato di un’altra, e Lidia non veniva dopo di Cloe, io, Lidia, avevo grande fama e vivevo più gloriosa di Ilia, eroina romana”. 10 Ora Cloe mi ha in suo possesso, esperta di cetra e di dolci armonie; per lei non avrei paura di morire, se il destino risparmia dopo di me il mio amore. 15 “Mi infiamma di amore reciproco Calais figlio di Ornito di Turi; per lui due volte accetterei di morire, se il destino risparmia dopo di me il mio ragazzo”. 20 Ma se il vecchio amore tornasse, riportandoci sotto il suo giogo di bronzo, se viene mandata via la bionda Cloe e si riapre di nuovo la porta a Lidia abbandonata? “Per quanto lui sia bello come una stella, e tu più leggero del sughero, più collerico del mare in burrasca, con te vorrei vivere, con te morire”. 7 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 49 Odi III, 30 Exegi monumentum aere perennius La solenne orgogliosa dichiarazione di gloria eterna è posta alla fine della raccolta dei primi tre libri pubblicati nel 23. La dichiarazione è sostenuta dalle remiscenze di due grandi lirici greci, Simonide e Pindaro, di cui sono riecheggiati alcuni versi. Era comunque d’uso che nell’ultimo componimento di una raccolta lirica il poeta apponesse una sphragís (sigillo), col quale dichiarava il suo nome e forniva indicazioni e notizie su di sé. Qui è accennata la patria di Orazio, ed egli si presenta come il primo ad aver riprodotto in Italia i carmi dei poeti eolici (Alceo e Saffo). L’affermazione lascia perplessi, perché sappiamo che anche Catullo, e prima di lui i preneoterici, avevano imitato Saffo a più riprese. Evidentemente Orazio trascura Catullo, in quanto valuta il suo rapporto con i modelli eolici casuale e non programmatico, ma non bisogna dimenticare che quello di proclamarsi il primo ad aver praticato un certo genere letterario era un luogo comune. Scritta nello stesso metro del carme I, 1, quest’ode ne costituisce il vero e proprio contrappunto: i toni esitanti e modesti dell’ode proemiale sono sostituiti da affermazioni orgogliose, le richieste d’aiuto alle Muse da esortazioni a Melpomene perché gioisca del risultato. 1 Ho costruito un monumento più eterno del bronzo, più alto della mole regale delle Piramidi, che non potranno abbattere piogge mordenti, o venti sfrenati, o l’innumerevole serie 5 degli anni, la fuga del tempo. Non morrò interamente, e molta parte di me sfuggirà a Libitina, e in futuro crescerò sempre, rinnovandosi la mia gloria, finché il pontefice salirà il Campidoglio con la vergine tacita. 10 Si dirà, dove strepita l’Ofanto violento, dove sui popoli rustici regnò Dauno, povero d’acqua, 15 che, nato umile e diventato potente, per primo ho portato in Italia la lirica greca. Tu assumi, Melpomene, la superbia dovuta al merito, e incoronami benignamente con l’alloro di Delfi. 8 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Odi Orazio 52 Odi IV, 7 Pulvis et umbra sumus Lo sviluppo del ragionamento è lo stesso di I, 4: torna la primavera, se ne va l’inverno e il fuggire delle stagioni ricorda il fuggire della nostra vita; bisogna perciò cogliere l’attimo e godere del presente. Tuttavia in questa splendida ode, i cui accenti si possono definire leopardiani, la forma classica è più raffinata, senza alcuna indulgenza per immagini e particolari di contorno, che precisino l’arrivo della primavera. Non solo, ma l’età di Orazio ha accentuato il suo pessimismo che culmina nell’affermazione nichilista pulvis et umbra sumus. 1 La neve è scomparsa, ritorna l’erba sui prati, le foglie sugli alberi; si rinnova la terra e i fiumi scorrono smagrandosi in mezzo alle rive; 5 si affaccia la Grazia a guidare nuda le danze con le sorelle e le ninfe. Non sperare nell’immortalità: te lo dice l’anno, e l’ora che porta via il giorno fecondo. 10 Lo Zefiro mitiga il freddo, l’estate travolge la primavera e morrà a sua volta, quando l’autunno produce i frutti e le messi, poi presto ritorna l’inverno inerte. 15 Però la luna ripara alla svelta i danni del cielo; noi invece, quando siamo caduti dove sono il padre Enea, Anco e Tullo, noi siamo polvere e ombra. 20 E chi sa mai se gli dei vorranno aggiungere un domani alla somma degli oggi? Ma sfuggirà alle mani avide del tuo erede ciò che darai a te stesso con animo amico. Quando sarai morto, Torquato, e su te Minosse pronuncerà una chiara sentenza, non varranno a riportarti in vita la fede, la nobiltà, l’eloquenza. Non libera 25 mai Diana il puro Ippolito dalle tenebre infernali, né Teseo riesce per il suo Piritoo a spezzare le catene del Lete. 9 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Satire Orazio 68 Satire II, 5 Captes astutus ubique testamenta senum Si tratta di un componimento singolare all’interno della raccolta: questa volta il dialogo è tra due personaggi omerici, Ulisse e l’indovino Tiresia, l’ambiente nientemeno che l’oltretomba. Questo comporta non solo uno stretto rapporto col testo omerico (il dialogo si presenta come una continuazione di quello tra gli stessi personaggi narrato nel libro XI dell’Odissea), ma anche l’assunzione dei caratteri della cosiddetta satira Menippea. Era questo un genere ellenistico che prendeva nome da Menippo di Gadara (III secolo a.C.), misto di prosa e poesia, in cui personaggi degradati svolgevano temi moralistici o critica di costume, rovesciando la loro rappresentazione abituale. C’era quindi compiacimento a rappresentare eroi famosi, o addirittura divinità, nei loro desideri o difetti più bassi. Preferite erano le scene che si svolgevano nell’oltretomba, dove i grandi uomini si trovavano simili a quelli dappoco. Col suo discorso utilitaristico-paradossale, Tiresia prende di mira una pratica molto diffusa a Roma, quella dell’heredipeta, ossia di seguire e corteggiare un vecchietto ricco per impadronirsi della sua eredità. 1 5 10 15 20 25 30 “Aggiungi una risposta a quest’altra mia domanda, Tiresia: in che modo e con che arti posso recuperare le sostanze perdute. Perché ridi?”. “Dunque non basta all’eroe astutissimo tornare ad Itaca e rivedere i Penati?”. “O tu che non menti mai a nessuno, vedi bene che torno nudo e povero a casa, secondo i tuoi stessi responsi, e là non trovo bestiame o dispensa intatta dai Proci, e senza sostanze non contano niente nobiltà e valore”. “Insomma giacché, chiaro e tondo, è la povertà a preoccuparti, ascolta in che modo puoi arricchire. Se ricevi in regalo un tordo o un’altra specialità, deve subito volare dove splende un gran patrimonio, proprietà di un vecchio. I frutti e gli altri prodotti del tuo podere li gusti prima del Lare il ricco, che è più venerando. Anche se è spergiuro, di stirpe ignobile, sporco di sangue paterno, schiavo fuggiasco, a lui non devi rifiutare di fargli da accolito, se te lo chiede”. “Io reggere lo strascico all’immondo Dama? Non in questo modo mi comportai a Troia, lottando coi migliori, sempre”. “E allora resterai povero”. “Comanderò al mio forte cuore di sopportare: ho sofferto anche di peggio. Ma tu dimmi subito, augure, come posso ammassare denaro”. “Te l’ho detto e te lo ripeto: va’ a caccia, ovunque, di testamenti di vecchi, e se uno o due furbi mangeranno la foglia e si sottrarranno alle insidie, non devi disperare, né abbandonare per una delusione l’arte. Se in Foro si tratta una causa, piccola o grande, sarai difensore di quello dei due che è ricco e senza figli, non importa se ha torto e ha la faccia di chiamare in giudizio uno molto migliore di lui; disprezza quello che ha fama e ragioni migliori, se ha casa ha un figlio, o una moglie feconda. Dirai: ‘Quinto’, o ‘Publio’ – perché queste orecchie sensibili godono d’essere chiamate per nome – la tua virtù mi ti ha reso amico. 10 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Satire Orazio 35 40 45 50 55 60 Conosco le ambiguità del diritto, e sono in grado di sostenere una causa; mi strapperà prima gli occhi l’uomo, chiunque sia, che si azzardi a tenerti in spregio e a toglierti anche uno spillo: è affar mio che tu non perda la causa e non sia deriso. Digli di andare a casa e pensare alla salute, diventa tu stesso suo delegato, e tieni duro, sia che la rossa canicola spacchi le statue mute, sia che, tendendo il pingue ventre, Furio sputi la bianca neve sulle Alpi in inverno. ‘Non vedi’, dirà qualcuno dando di gomito al suo vicino, ‘com’è paziente, acuto, servizievole con gli amici?’. Altri pesci abboccano, e l’acquario cresce. Se poi c’è qualche figlio, malfermo in salute, di famiglia illustre, per non scoprirti nel tuo corteggiamento dei celibi, insinuati piano piano con la tua cortesia in modo da essere nominato secondo erede, e se qualche disgrazia manda all’altro mondo il ragazzo, tu prendi il posto vuoto. Di rado il colpo fallisce. Se qualcuno ti dà il testamento da leggere, ricordati di rifiutare e scostare la tavoletta, non prima di avere sbirciato che dice il secondo rigo della prima pagina – scorri rapidamente con l’occhio se sei il solo o se siete in molti eredi. Talvolta succede che un ex-quinqueviro riciclato come scriba lasci il corvo a bocca aperta, e Nasica uccellatore sia lui a far ridere Corano”. “Sei matto? O lo fai apposta a prendermi in giro con questi oracoli oscuri?”. “Figlio di Laerte, tutto quello che dico è destinato a succedere o non succedere, perché il grande Apollo mi ha dato in dono la divinazione”. “E allora, se puoi, rivelami cosa significa questa faccenda”. “Al tempo che un giovane principe, terrore dei Parti, disceso dal grande Enea, sarà grande per terra e per mare, andrà sposa al forte Corano l’alta figliola 65 di Nasica, che ha sempre paura di saldare i debiti. Allora il genero farà così: darà al suocero le tavolette e lo pregherà di leggere; Nasica dopo essersi molto schermito le prenderà e leggerà in silenzio, e troverà che a sé e alla sua famiglia restano come legato 70 gli occhi per piangere. Inoltre consiglio che, se per caso una donna furba o un liberto governano un vecchio insano, diventi loro complice; lodali e sarai lodato da loro anche in assenza: anche questo aiuta, ma è molto meglio conquistare subito il bersaglio grosso. Ha la mania di scrivere pessimi 75 versi? E tu lodalo. È un puttaniere? Non deve neanche chiedere: devi essere tu il primo a offrire al tuo capo Penelope”. “E credi che una donna così pudica e perbene, che neanche i Proci riuscirono a smuovere dalla retta via, si lascerà persuadere?”. “Il fatto è che quei giovani vennero 11 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Satire Orazio 80 85 90 95 100 105 110 parsimoniosi di doni, mirando alla gastronomia più che a Venere. Per questo Penelope è onesta; ma se una volta gusterà il dono di un vecchio, spartendolo con te, in seguito non si potrà più tenerla lontana, così come il cane dal cuoio grasso. Quando io ero già vecchio è successo che a Tebe una vecchia astuta fu seppellita, in applicazione del suo testamento, così: il cadavere unto d’olio lo portò l’erede a spalla, per vedere se da morta poteva sfuggirgli, dal momento che in vita le era stato sempre addosso. Accostati con prudenza: non mancare al servizio, ma non strafare. Una persona difficile e scontrosa si infastidirà per le troppe chiacchiere: di’ solo ‘sì’ e ‘no’, per il resto fa’ come lo schiavo della commedia, e sta a capo chino fingendo paura. Attacca con gli omaggi; se c’è vento forte, ricordagli di proteggere la sua cara testa, tiralo fuori dalla folla coprendolo con le tue spalle, e quando ha voglia di parlare porgi l’orecchio. Se è presuntuoso e gli piacciono le lodi, tu insisti finché dirà basta, alzando le mani; gonfialo a forza di parole gonfie. Quando ti avrà liberato dal servizio e dalle preoccupazioni, e sentirai dire a occhi aperti ‘Nomino Ulisse erede di un quarto’, andrai in giro dicendo: ‘Dov’è il mio amico Dama? Dove troverò un uomo così forte e leale?’. Se riesci a piangere un poco, è sempre utile per nascondere il volto che sprizza gioia. La tomba, se è lasciata alla tua decisione, costruiscila senza risparmio; il funerale, ben fatto, abbia gli elogi del vicinato. Se uno degli eredi è anziano e ha una brutta tosse, digli che se desidera acquistare una casa o un podere della tua parte, sarai lieto di dargliela per una lira. Ma Proserpina mi tira via imperiosamente: addio, e stammi bene”. 12 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Epistole Orazio 72 Epistole I, 4 Epicuri de grege porcus L’epistola è rivolta al poeta Albio Tibullo, che sta cercando ispirazione nel suo ritiro in campagna. L’affettuosa missiva si volge comunque alla solita esortazione a godere dell’attimo fuggente e termina con un aprosdóketon, un’affermazione inattesa, che esalta il tono confidenziale della lettera. 1 5 10 15 Albio, giudice spassionato delle mie Satire, cosa devo pensare che fai dalle parti di Pedo? Scrivi opere in grado di vincere quelle di Cassio da Parma, o ti aggiri in silenzio tra i boschi salubri con pensieri degni di un uomo onesto e saggio? Non sei mai stato un corpo senz’anima: gli dei ti hanno dato la bellezza, la ricchezza, la capacità di goderla. Che cosa di meglio potrebbe chiedere per il suo pupillo la cara nutrice, che sia saggio e sappia esprimere le proprie idee, che abbia in abbondanza amicizie, buon nome, salute, vita comoda e un portafoglio fornito? Tra speranze, preoccupazioni, paure e collere, devi credere che ogni tuo giorno sia l’ultimo: verrà più piacevole l’ora in cui non speri. E quando vorrai ridere vieni a trovarmi, grasso e florido, la pelle ben curata, un porco epicureo. 13 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Amores Ovidio 1 Amores I, 1 “Quis tibi, saeve puer, dedit hoc in carmina iuris?” L’inizio della raccolta è un componimento programmatico nel quale, riprendendo allusivamente la prima parola dell’Eneide (arma), Ovidio se ne distacca subito illustrando la sua scelta diversa. Lo svolgimento è sulla falsariga di quello tradizionale: un dio sopraggiunge ad ammonire il poeta e a distoglierlo dai generi più alti, che non si adattano al suo spirito. Allora, ubbidendo al dio, il poeta si mette a scrivere versi d’amore. Tutto il gioco appare scontato: probabilmente non era stata rivolta a Ovidio nessuna richiesta specifica di comporre un poema epico, ma egli deve rispettare la tradizione dei poeti elegiaci, che opponevano un garbato rifiuto (recusatio) a chi richiedeva una poesia di carattere più ufficiale. Ovidio riduce tutto a uno scherzo: come altri temi dell’elegia, anche il proemio, la scelta della poetica si avvicina molto alla parodia dei poeti precedenti. 1 5 10 15 20 25 30 Mi preparavo a narrare in un metro solenne le armi e le guerre violente, argomento adatto al ritmo; il verso di sotto era uguale al primo, ma si dice che Amore rise e gli tolse un piede. “Chi ti ha dato diritti sui versi, ragazzo insolente? I poeti appartengono alle Muse, non sono il tuo codazzo. E se Venere allora strappasse le armi alla bionda Minerva, e la bionda Minerva a sua volta agitasse le fiaccole? Chi approverebbe che Cerere regni sui boschi selvosi, e i campi si coltivino con la legge della vergine arciera? Chi armerebbe di punte aguzze Febo dai bei capelli, mentre Marte suona la lira beotica? Tu hai molto, ragazzo, un regno anche troppo potente: perché aspiri ambiziosamente a una nuova impresa? Forse il tuo è ovunque? È tua la valle dell’Elicona? E a stento ormai Febo mantiene la sua cetra? Quando la pagina nuova si è ben elevata sul primo verso, il successivo allenta la mia ispirazione, e non ho materia adatta ai ritmi più blandi, né ragazzo, né ragazza coi capelli lunghi e ben pettinati”. Dopo il mio lamento, subito quello aprì la faretra, scelse frecce adatte per la mia rovina, piegò con forza su un suo ginocchio l’arco ricurvo, e disse: “Prendi, poeta, quello che devi cantare!”. Povero me; il ragazzo aveva frecce infallibili: brucio, e Amore regna nel mio petto vuoto. Il mio canto s’innalzi su sei piedi, e si riabbassi poi su cinque; addio, ferree guerre, coi vostri ritmi! Cingi le tempie bionde col mirto del lido, Musa, che devo esprimere in undici piedi. 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Amores Ovidio 5 Amores I, 9 Militat omnis amans È illustrata la militia amoris, ossia il comportamento dell’amante che ubbidisce alla sua donna come un soldato. Il tema è proprio dell’elegia romana ed è uno di quei casi in cui un’istituzione importante dello stato (l’esercito), intoccabile nella tradizione romana, viene stravolta parodicamente per illustrare il valore dell’amore. Il nuovo soldato è dunque l’amante e, come un soldato, si piega a ogni sacrificio fino a quello supremo della vita per la sua donna-padrona. Ma il tono leggero non calca la mano sull’impegno gravoso, quanto sul ridicolo dell’istituzione presa di mira. 1 5 10 15 20 25 30 35 Ogni amante è un soldato, Amore ha i suoi accampamenti, credimi, Attico, ogni amante è un soldato. L’età adatta alla guerra è la stessa all’amore: è indecoroso un vecchio soldato come un amore senile. Gli anni che i comandanti chiedono a un forte soldato, li richiede al suo uomo una bella ragazza. Ambedue vegliano e ambedue riposano sulla terra, l’uno sorveglia la porta dell’amata, l’altro del capo; al soldato toccano i lunghi viaggi, ma se parte l’amata l’amante la seguirà con coraggio e senza limiti; attraverserà i monti e i fiumi ingrossati dalla tempesta, calpesterà mucchi di neve. Prendendo il mare, non prenderà a pretesto i venti torbidi, non richiederà stelle favorevoli a solcare le acque. Chi, tranne un soldato o un amante, sopporterà il freddo della notte, e la neve mista alla fitta pioggia? Se l’uno è mandato a spiare il nemico, l’altro tiene gli occhi sul rivale come un nemico. Uno assedia le grandi città, l’altro la soglia dell’amante inflessibile, l’uno spezza le torri, l’altro i battenti. Spesso è servito assalire i nemici nel sonno, e uccidere masse inermi a mano armata. Così caddero le feroci schiere del tracio Reso, e voi, cavalli, catturati, lasciaste il vostro padrone, così spesso gli amanti approfittano del sonno dei mariti e, mentre il nemico dorme, usano le loro armi. Superare le sentinelle e le pattuglie di guardia è compito perpetuo del soldato e del povero amante. È dubbio Marte e incerta Venere, i vinti risorgono e quelli che penseresti non possono cadere, cadono. Smetta dunque chi mette l’amore tra gli ozi; l’amore è proprio di un ingegno intraprendente. Achille brucia, affranto, per Briseide che gli hanno rapita: finché potete, spezzate, Troiani, le forze greche. Ettore dall’abbraccio di Andromaca andava in battaglia, ed era la moglie a mettergli l’elmo sul capo. Si dice che il capo supremo, il figlio di Atreo, restò attonito a vedere la figlia di Priamo coi capelli sciolti, da Menade. 2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Amores Ovidio 40 45 E Marte, colto sul fatto, provò le catene del fabbro: non c’è storia più nota di questa in cielo. Io stesso ero pigro, nato per gli ozi sciatti; il letto e l’ombra avevano rammollito il mio animo; ma l’amore di una bella donna mi ha spinto, ignavo com’ero, a prestare servizio nel suo accampamento. Per questo mi vedi svelto e capace di ingaggiare battaglie notturne. Ami chi non vuol essere pigro! 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Ars amandi Ovidio 15 Ars amandi I, 1-40 Arte regendus amor Nel proemio dell’opera il poeta si presenta come maestro d’amore. Il poemetto si colloca nella tradizione del poema didascalico: perciò Ovidio si contrappone ai predecessori nel suo genere che si erano dichiarati ispirati da qualche dio. Il nuovo poema trasmette insegnamenti che sono dettati dall’esperienza. Poiché il poeta è un grande esperto d’amore, qui si fa maestro, un maestro più attendibile e veritiero di quelli che lo hanno preceduto a comporre poemi didascalici. 1 5 10 15 20 25 30 35 40 Se qualcuno tra questa gente non sa l’arte di amare, legga questo: dopo aver letto sarà esperto in amore. Con la tecnica si muovono rapide le navi a vela e a remi, con la tecnica i cocchi agili, con la tecnica bisogna guidare amore. Come Automedonte era adatto a guidare il carro con le briglie flessibili, e Tifi era timoniere sulla nave tessala, così Venere mi ha fatto maestro del tenero amore, e io di Amore sarò il Tifi e l’Automedonte. È feroce e in grado di respingermi spesso, ma è un ragazzo, ha età malleabile e adatta a essere guidata. Il figlio di Filira con la cetra educò il piccolo Achille, e con la sua scienza tranquilla ne domò l’animo fiero. Achille che tante volte atterrì amici e nemici, aveva paura – si dice – di quel vecchio decrepito, e spesso su ordine del maestro gli offriva lui stesso da sferzare le mani che Ettore avrebbe provato. Chirone fu il maestro di Achille, io lo sono di Amore, entrambi ragazzi terribili e figli di dee. Ma anche il collo del toro è appesantito dall’aratro, e morde il freno il cavallo magnanimo: così Amore mi cederà, anche se colpisce il mio petto con il suo arco e agita e mi scuote sul viso le fiaccole; quanto più Amore mi ha trafitto, quanto più violentemente bruciato, tanto meglio io potrò vendicarmi. Non mentirò sostenendo che sei stato tu, Apollo, a insegnarmi l’arte, non mi ammaestra il canto di un uccello del cielo, non mi sono apparse Clio e le sue sorelle, mentre custodivo un gregge sui campi di Ascra; è l’esperienza che crea quest’opera, obbedite a un poeta esperto: canterò il vero; e tu, madre di Amore, assisti l’impresa. State lontani da me, leggere bende, segnali del pudore, e vesti lunghe che coprite fino a mezzo piede; io parlerò dell’amore sicuro, dei furti leciti, e nella mia poesia non ci sarà delitto. All’inizio devi adoperarti a trovare un oggetto d’amore, tu che militi per la prima volta in un esercito nuovo; la seconda fatica è pregare la ragazza scelta, la terza che l’amore duri per lungo tempo. Questo è l’argomento, quest’area percorrerà il nostro carro, questa sarà la meta della sua corsa. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Heroides Ovidio 22 Heroides XII, 159-212 Ingentes parturit ira minas Dopo il racconto delle nuove nozze di Giasone, l’ultima parte dell’epistola si può dividere in due sezioni: il lamento (vv. 159-80), e la minaccia di vendetta di Medea (vv. 181-212). La prima parte si sviluppa in modo piuttosto dinamico: dopo una momentanea crisi di identità a causa dell’inefficacia dei filtri magici (vv. 169-74), Medea pensa a Giasone con la nuova sposa (vv. 175-80). Si giunge così alla seconda sequenza perché da quel pensiero scaturisce la minaccia di vendetta, con cui Medea ritrova la sua identità eroica e la fiducia nei poteri magici (vv. 181-212). 160 165 170 175 180 185 190 195 Sii lieto, padre mio e voi Colchi abbandonati, ricevi il sacrificio espiatorio, ombra di mio fratello: dopo aver perso il regno, la patria, la casa, sono abbandonata dal mio sposo, che per me era tutto. Ho potuto domare i serpenti e i tori furiosi, solo mio marito non ho potuto domare; e io che coi filtri sapienti ho ricacciato le fiamme, alle mie stesse fiamme non riesco a sfuggire. Mi abbandonano anche gli incantesimi, le erbe, le arti; a niente serve la dea, né i misteri della potente Ecate. Non mi è gradito il giorno, le notti passano in triste veglia, il dolce sonno se ne va dal mio corpo. Io, che ho saputo addormentare un drago, non posso addormentare me stessa: a tutti più che a me è utile la mia arte. Il corpo che ho salvato lo abbraccia la mia rivale, è lei che gode il frutto della mia fatica. Forse, mentre provi a vantarti con la tua stupida sposa, e a dire cose adatte a orecchie ingiuste, inventi sul mio aspetto e il mio carattere nuove colpe. Rida e goda dei miei difetti. Rida pure, giacendo in alto sopra la porpora – piangerà e arderà di un fuoco maggiore del mio –. Finché resterà il ferro, il fuoco, il veleno, nessun nemico di Medea sarà impunito. Ma se la preghiera può commuovere un cuore di ferro, ascolta adesso parole più umili del mio animo. Sono supplice verso di te come tu tante volte lo fosti con me, e non esito a prostrarmi ai tuoi piedi. Se per te non conto, guarda ai nostri figli: una matrigna cattiva infierirà su di loro. Sono troppo simili a te, e la loro immagine mi colpisce: quando li vedo i miei occhi si bagnano. Ti prego per gli dei celesti, e la luce del sole mio avo, per il bene che ti ho fatto e i due pegni del nostro amore, ridammi il letto per cui nella mia follia ho lasciato tutto, mantieni la tua parola e dammi aiuto. Non ti imploro contro tori, né contro uomini, non ti chiedo di vincere con i tuoi mezzi un serpente; 5 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Heroides Ovidio 200 205 210 chiedo te, che merito, che di tua volontà ti sei dato a me, e con te, padre, divenni madre. Chiedi dov’è la dote? L’abbiamo contata in quel campo che hai dovuto arare per prenderti il vello; è l’ariete dorato, con il suo splendido vello, la mia dote, che mi negheresti se ti chiedessi di restituirla. La mia dote è la tua salvezza, è la gioventù greca; va’ dunque, malvagio, metti a confronto le ricchezze di Sisifo. Se vivi, se hai una moglie e un suocero potenti, se puoi essere ingrato, a me lo devi. Ma io subito a loro… Che serve annunciare la mia vendetta? Enorme è la minaccia creata dall’ira. Vado dove mi porta l’ira, e mi pentirò forse della mia azione, come mi pento di aver salvato un uomo infido. Questa storia la veda il dio che sconvolge il mio cuore; ma certo la mia mente medita un non so che di grande. 6 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Metamorfosi Ovidio 32 Metamorfosi IV, 55-105 Audacem faciebat amor Piramo e Tisbe sono due innamorati di Babilonia, il cui matrimonio è vietato dai genitori. Perciò i due giovani decidono di incontrarsi fuori città. Si danno un appuntamento, e Tisbe arriva per prima, ma deve fuggire a causa dell’arrivo di una leonessa. Si mette in salvo, ma mentre fugge le cade il velo, che la leonessa strattona e sporca di sangue. 55 60 65 70 75 80 85 90 95 Piramo e Tisbe, l’uno il più bello dei giovani, l’altra superiore a tutte le ragazze d’Oriente; stavano in due case contigue, dove si dice che Semiramide cinse l’alta città con mura di cotto. La vicinanza li fece conoscere e compiere i primi passi dell’amore, che col tempo crebbe. Si sarebbero uniti in legittimo matrimonio, ma lo vietarono i loro padri; però non poterono vietare che entrambi fossero perdutamente innamorati l’uno dell’altro. Senza nessun confidente, parlano a cenni e gesti, e quanto più è coperto, tanto più il fuoco ribolle. Il muro comune alle due case aveva una piccola fessura, prodotta al tempo della costruzione, un difetto che nessuno notò per secoli; voi lo notaste per primi, amanti (cosa non vede l’amore?), e ne faceste una via per la voce; di là passavano sicure le dolcezze sussurrate appena. Spesso quando stavano di qua Tisbe e di là Piramo, e a vicenda captavano il soffio di voce, dicevano: “Muro invidioso, perché ostacoli il nostro amore? Cosa ti costerebbe permetterci di unire i nostri corpi o, se questo è troppo, aprirti per baciarci? Non siamo ingrati: sappiamo di doverlo a te, se le parole arrivano alle orecchie amate”. Dopo aver detto ciò inutilmente dai loro posti diversi, a sera si dissero “Ciao”, ed entrambi diedero al muro baci che non lo passavano. Quando la successiva aurora ebbe tolto i fuochi notturni, e i raggi del sole asciugarono i campi brinosi, si incontrano al solito posto, e con lieve sussurro si lamentarono a lungo e stabilirono di ingannare la sorveglianza e tentare di uscire nel silenzio della notte e, usciti di casa, di lasciare anche la città e, per non perdersi vagando negli ampi spazi, si diedero appuntamento al sepolcro di Nino, nascondendosi all’ombra di un albero: là c’era un albero ricco di frutti candidi, un gelso altissimo accanto a una fonte fresca. Questi furono i patti: la luce, che sembrava tarda ad andarsene, infine precipitò nelle acque e dalle acque emerse la notte. L’astuta Tisbe aprì la porta nel buio; esce senz’essere vista dai suoi e, col volto velato, 7 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Metamorfosi Ovidio 100 105 arrivò alla tomba di Nino e sedette ai piedi dell’albero fissato. L’amore la rendeva ardita. Ma ecco che arriva con la schiuma alla bocca una leonessa reduce da una strage di buoi, per saziare la sete nell’acqua della fonte vicina; ai raggi della luna Tisbe la vide lontana, e impaurita fuggì in una grotta buia, ma nella fuga perse il velo che le scivolò dalle spalle. La feroce leonessa, toltasi con molta acqua la sete, tornando nel bosco, trovò per caso il delicato velo di Tisbe, e lo stracciò con la bocca insanguinata. 8 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Metamorfosi Ovidio 33 Metamorfosi IV, 105-166 Una requiescit in urna Piramo vede le tracce della leonessa, pensa che abbia sbranato Tisbe, e si trafigge con la spada. Il suo sangue colora di rosso i frutti di un albero di gelso. Tisbe torna appena in tempo per vedere Piramo morire, e si toglie la vita con la stessa arma. Per il desiderio che Tisbe esprime in punto di morte, le bacche del gelso manterranno il colore rosso, a ricordo della vicenda. 105 110 115 120 125 130 135 140 Piramo, uscito più tardi, trovò nello strato di polvere le impronte certe di una belva, e impallidì in tutto il volto. Come trovò anche la veste sporca di sangue, disse: “Una sola notte distruggerà i due amanti, di cui era lei la più degna di lunga vita; la mia anima è colpevole. Io ti ho uccisa, infelice, dicendoti di venire di notte in luoghi orribili e non arrivando per primo. Straziate il mio corpo, sbranate a morsi le mie scellerate viscere, leoni che abitate sotto questa rupe. Ma è da vigliacchi desiderare la morte”. Raccoglie il velo di Tisbe e lo porta con sé all’albero stabilito, pianse e baciò la stoffa ben conosciuta, e disse: “Ricevi dunque pure il mio sangue”. Piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, e senza indugio lo estrasse, morendo, dalla ferita ardente, e giacque a terra supino. Il sangue sprizzò in alto, come quando si guasta il piombo e si spezza un tubo, e da un foro sottile prorompe un lungo getto d’acqua e colpisce l’aria violentemente. I frutti dell’albero, cosparsi dal sangue, diventano neri, e la radice inzuppata di sangue tinge dello stesso colore le more pendenti. Ancora impaurita, per non ingannare l’amante, Tisbe ritorna e cerca il ragazzo con gli occhi e con l’anima, ansiosa di raccontargli a quale pericolo è scampata. Riconosce il luogo e la forma dell’albero, ma la rende incerta il colore dei frutti, non sa se è quello. Mentre è in dubbio, vede sul suolo insanguinato palpitare un corpo, indietreggia e, col volto più pallido del bosso, rabbrividisce come le onde del mare, tremolante in superficie per una lieve brezza. Quando, dopo un indugio, riconobbe il suo amore, percosse sonoramente le braccia innocenti, si strappò i capelli e, abbracciando il capo amato, riempì la ferita di lacrime, mescolando il pianto al sangue, e imprimendo i suoi baci sul volto gelido gridò: “Piramo, quale sciagura ti ha tolto a me? Rispondimi, Piramo, ti chiama la tua carissima Tisbe: ascoltami, alza il viso giacente! 9 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Metamorfosi Ovidio 145 150 155 160 165 Al nome di Tisbe, Piramo sollevò gli occhi gravati già dalla morte, la guardò e li richiuse. Dopo che riconobbe il suo velo e la fodera d’avorio nuda, disse: “Ti ha ucciso, infelice, la tua mano e il tuo amore! Ma anch’io per questo ho una mano forte, e ho l’amore, che mi darà forza a ferirmi. Ti seguirò nella morte, diranno che della tua morte sono stata infelicissima, causa e compagna. E tu, che soltanto la morte poteva strapparmi, neanche in morte mi sarai strappato. Questo però vi chiediamo entrambi, infelicissimo padre mio e padre suo, che quelli che ha unito l’amore autentico e l’ora estrema non impediate che siano sepolti nella stessa tomba. Tu, albero che adesso copri con i tuoi rami il povero corpo di uno, e presto di entrambi, mantieni un segno di questa strage, ed abbi sempre frutti scuri e adatti al lutto, ricordo della doppia morte”. Così disse e, puntato il pugnale contro il suo fianco, si gettò sul ferro ancora caldo di sangue. Il loro voto commosse gli dei e i genitori: infatti è nero il colore del frutto quando è maturo, e quello che avanza dal rogo, riposa in un’unica urna. 10 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Fasti Ovidio 49 Fasti II, 813-852 Quam veniam vos datis, ipsa nego Dopo aver confessato il proprio disonore al padre e al marito, Lucrezia si uccide. A causa dell’azione disonorevole, Tarquinio il Superbo e la sua famiglia vengono cacciati da Roma. 815 820 825 830 835 840 845 850 Era giunto il giorno: siede coi capelli sparsi, come una madre che sta per andare al funerale del figlio, e richiama dal campo il vecchio padre e il fedele marito: l’uno e l’altro arrivano senza frapporre indugio. Come vedono il suo stato, le chiedono il motivo del pianto, a chi prepara le esequie, quale male l’ha colpita. Tace a lungo, e nasconde nel velo il volto pudico, scorrono le lacrime come acqua perenne. Da un lato il padre, dall’altro il marito consolano le sue lacrime, la pregano di parlare e piangono, presi da un cieco terrore. Tre volte tentò di parlare e ci rinunciò, alla quarta osò, ma senza riuscire a sollevare lo sguardo. “Anche questo dovremo a Tarquinio”, disse, “che io stessa debba, infelice, narrare il mio disonore? Racconta quello che può, ma restano le cose ultime; pianse, e le guance matronali arrossirono. Della costrizione subita la perdonano il padre e il marito, “Ma il perdono che voi mi date – lei disse – io me lo nego”. E senza indugio si trafisse il petto con un ferro nascosto, e cadde coperta di sangue ai piedi del padre. Anche morendo fece attenzione a non cadere scompostamente – questo, anche cadendo, era il suo pensiero. Sul suo corpo, piangendo il comune dolore, il padre e il marito giacciono, dimenticando il decoro. Arriva Bruto, e finalmente smentisce il suo nome con il coraggio, estrae il ferro dal corpo semivivo e, tenendo l’arma ancora stillante del suo nobile sangue, con voce minacciosa pronunciò parole impavide: “Per questo casto e fortissimo sangue io giuro, per i tuoi mani, che saranno i miei dei, che Tarquinio la pagherà, espulso con la sua famiglia. Già abbastanza il mio valore è rimasto nascosto”. A queste parole lei mosse giacendo gli occhi spenti, e parve che le confermasse scuotendo i capelli. Portata al funerale, la donna che ebbe coraggio virile trascinò dietro di sé il pianto e l’odio. La sua ferita è esposta. Bruto solleva i Romani gridando, e riferisce la colpa orrenda del principe. Tarquinio fugge con la sua famiglia, un console assume per un anno il governo: fu l’ultimo giorno di regno. 11 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Properzio 2 Elegie I, 3 Hac Amor hac Liber Il poeta torna a casa da Cinzia ubriaco nel cuore della notte: in contemplazione della fanciulla che dorme, frena il suo impulso erotico, ma i raggi della luna risvegliano Cinzia, che indirizza parole di rimprovero all’amato. L’elegia famosa presenta motivi che ricorrono in un epigramma di un autore di età bizantina, Paolo Silenziario, che molto probabilmente non imitò direttamente Properzio (è difficile che a quel tempo egli fosse letto nel mondo bizantino), ma si rifece a un epigramma ellenistico perduto, che sarebbe il modello dello stesso Properzio. Tuttavia, sia la lunga serie iniziale dei paragoni mitologici, sia la delicata descrizione dei sentimenti di Properzio conferiscono all’elegia elementi di forte originalità. 1 5 10 15 20 25 30 35 Come giaceva sfinita sulla spiaggia deserta la donna di Cnosso mentre si allontanava la nave di Teseo, come si abbandonò al primo sonno Andromeda, figlia di Cefeo, liberata dal duro scoglio, come, non meno stanca delle assidue danze, la baccante di Tracia cade sull’Apidano erboso, così mi apparve, spirante morbida pace, Cinzia, appoggiando il capo alle mani incerte, mentre mi trascinavo, ubriaco di molto vino, e i servi scuotevano a tarda sera la fiaccola. Io, non avendo ancora perso tutti i miei sensi, cercai di entrare nel letto morbidamente segnato; e benché di qua Amore, e di qua Bacco, due dei esigenti, mi spingessero con doppio ardore a tentarla insinuando pian piano il braccio, a toccarla, a baciarla, ad assaltarla, sdraiata com’era, io tuttavia non osavo turbare il sonno della mia padrona, temendo le ire e l’asprezza ben nota, ma la guardavo fisso con gli occhi attenti come Argo guardava le corna ignote di Io. Ora toglievo una ghirlanda dalla mia fronte e la mettevo, Cinzia, sulle tue tempie; ora godevo a ravviarti i capelli sparsi e mettere furtivamente pomi nelle tue mani; doni offerti tutti al tuo sonno ingrato, doni che scivolavano spesso giù dal tuo seno, e tutte le volte che sospiravi con lieve moto, restavo attonito credendo a un vano presagio, temendo che i sogni ti portassero timori insoliti o che qualcuno ti costringesse a essere sua. Finché la luna, battendo alle diverse finestre, zelante, con la luce che ancora indugiava, aprì coi lievi raggi gli occhi chiusi, e così disse, poggiando il gomito sul morbido letto: “Così finalmente ti riporta al mio letto l’offesa di un’altra che ti ha cacciato di casa? 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Properzio 40 45 Dove hai consumato il lungo tempo della mia notte, e torni stanco quando tramontano, ahimè, le stelle? Possa anche tu, malvagio, passare simili notti, come le fai passare sempre a me disgraziata. Ingannavo il sonno tessendo la porpora o suonando, sfinita, la cetra di Orfeo e talvolta, abbandonata, mi lamentavo pian piano del tuo lungo indugiare in altri amori: poi finalmente caddi nelle dolci ali del sonno. Quella fu l’ultima cura per le mie lacrime”. 2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Properzio 14 Elegie II, 15 O nox mihi candida! È la celebrazione di una notte d’amore felice, tra l’esultanza e l’augurio che il legame tra il poeta e Cinzia non debba mai recidersi. I motivi, specie della seconda parte con la serie di adynata, ossia accadimenti impossibili, sono tradizionali della poesia d’amore. D’altronde anche l’apostrofe al letto, complice e testimone, si trova già in un epigramma greco di Filodemo. Ma quello che è straordinario in Properzio è la carica emotiva con cui descrive il trasporto fisico dell’amore: si può dire che questa elegia costituisca una delle più appassionate rievocazioni nell’antichità dell’unione di due corpi in amore. 1 5 10 15 20 25 30 35 Oh me felice! Oh notte per me splendida! Oh letto fatto felice dal mio piacere! Quante parole diciamo al lume della lucerna, e quale fu la lotta, a lume spento! Ora lottava con me a seno nudo, ora, ricoprendosi, frapponeva indugi. Mi aprì con la sua bocca gli occhi caduti nel sonno e mi disse: “Come sei pigro!”. Quanti amplessi e intrecci di braccia, e quanto hanno indugiato i miei baci sulle tue labbra. A me non piace guastare l’amore con movimenti ciechi; se non sai, sono gli occhi le guide in amore. Si dice che Paride morì d’amore alla vista del corpo nudo di Elena, che usciva dal letto nuziale; e che Endimione nudo conquistò la sorella di Apollo e giacque con la dea nuda. Se ti ostinassi a giacere con me vestita, sentiresti le mie mani e ti strapperei la veste, e se la mia collera trascendesse più ancora, mostreresti a tua madre le braccia livide. Il seno non ancora cadente ti lascia giocare: ci badi chi ha già partorito ed ha vergogna. Mentre ci è permesso, saziamo gli occhi d’amore: poi viene una lunga notte, e non tornerà il giorno. Oh se tu volessi legarci stretti, con una catena che nessun giorno sia più capace di sciogliere! Ti siano d’esempio i colombi innamorati, l’unione perfetta del maschio e della femmina. Sbaglia chi cerca la fine di un amore insano, il vero amore non conosce misura. Prima la terra ingannerà l’aratore con false messi, prima il Sole attaccherà al suo carro cavalli neri, e i fiumi richiameranno le loro acque alla sorgente, i pesci resteranno senz’acqua nei gorghi asciutti, prima ch’io possa trasferire ad altre la mia passione: a lei apparterrò in vita e in morte. E se vorrà concedermi altre di queste notti, 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Properzio 40 45 50 sarà lungo allora anche un anno di vita. Se me ne donerà molte, in esse diverrò immortale; in una sola notte chiunque può essere un dio. Se tutti amassero trascorrere in questo modo la vita e giacere carichi di molto vino, non ci sarebbero armi crudeli né navi da guerra; il mare di Azio non rivolterebbe le nostra ossa, e Roma, tante volte colpita dai suoi stessi trionfi, non scioglierebbe i capelli sfinita. Di questo certo i miei discendenti dovranno lodarmi: i nostri brindisi non hanno mai offeso gli dei. Finché dura la luce, non trascurare il frutto della vita: saranno pochi i tuoi baci, se anche me li dai tutti. E come i petali lasciano le ghirlande sfiorite, e li vedi nuotare sopra le coppe, dispersi, così a noi che, amandoci, viviamo in grande baldanza, forse il domani chiuderà il nostro destino. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Properzio 18 Elegie III, 10 Natalisque tui sic peragamus iter È il giorno del compleanno di Cinzia: per questo le Camene sono accanto al letto del poeta al suo risveglio a invitarlo alla celebrazione. Viene evocata poi la giornata festiva di Cinzia, che troverà il suo compimento la sera nel talamo. Propriamente l’elegia è un genethliakon, ossia un carme dedicato al genetliaco di un personaggio, come ad esempio Tibullo I, 7: questo sta a dimostrare che l’elegia augustea poteva esser costituita, come la lirica, da carmi d’occasione. 1 5 10 15 20 25 30 Sono rimasto stupito alla visita delle Muse stamani attorno al mio letto, nel sole splendente. Hanno dato il segno del compleanno di Cinzia, battendo tre volte le mani con lieto auspicio. Passi senza nuvole questo giorno, tacciano i venti nell’aria, l’onda minacciosa si acquieti dolcemente sul lido. Oggi non voglio veder soffrire nessuno, e la stessa pietra di Niobe reprima le lacrime; tacciano gli alcioni smettendo il loro lamento, e la madre di Iti non pianga più la sua morte. E tu, cara, che hai visto la luce con buoni auspici, alzati e rivolgi la tua preghiera agli dei che chiedono il giusto. Prima di tutto manda via il sonno con acqua pura, e aggiusta con le mani le splendide chiome. Poi indossa l’abito con il quale hai conquistato la prima volta gli occhi di Properzio e non lasciare senza fiori la testa; chiedi che ti resti sempre la bellezza che è il tuo potere, e resti sempre il tuo regno sulla mia persona. Poi, dopo avere purificato gli altari adorni di fiori con l’incenso, quando tutta la casa brillerà della luce propizia, si prepari la mensa, e la notte passi nel bere, e la coppa d’onice color mirra unga di croco il naso. I flauti accompagnino, fino a restarne rauchi, le danze notturne, e sia libera nei tuoi discorsi la malizia, e il dolce convito tolga il sonno pigro; nella via vicina l’aria risuoni. Getteremo i dadi e interrogheremo la sorte su chi il dio ragazzo colpisca con ali aspre. Quando tra molte bevute si sarà fatto tardi, e Venere preparerà i suoi riti notturni, celebreremo solennemente la festa nel nostro letto, e compiremo così il tuo compleanno. 5 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Tibullo 1 Elegie I, 1 Possim contentus vivere parvo La prima elegia del primo libro propone immediatamente alcuni dei motivi portanti dell’elegia di Tibullo. Con il movimento definito Priamel, tradizionale nella lirica fin da quella arcaica greca, viene criticata la scala di valori al cui vertice si trovano la ricchezza o la forza militare. Una modesta vita in campagna è quella ideale, a somiglianza delle scelte di Orazio. Tuttavia, i motivi oraziani di amore per la campagna si inseriscono nell’elegia erotica, collocando in questa sorta di mondo ideale la presenza della donna, che ne diventa un fattore essenziale. 1 5 10 15 20 25 30 35 Altri accumuli per sé ricchezza di oro fulvo, e possieda molti iugeri di terreno coltivato; lo prenderà il continuo terrore del nemico vicino, e gli leveranno il sonno le trombe di guerra. Io voglio condurre una vita tranquilla nella mia povertà, purché sempre risplenda la fiamma sul mio focolare. Pianterò di mia mano – una mano esperta di contadino – al tempo giusto le tenere viti e i grandi alberi da frutto; non mi deluderà la Speranza, mi offrirà sempre mucchi di messi e pingue mosto nei tini ricolmi. Io venero qualunque tronco abbandonato nei campi, qualunque vecchia pietra nei trivi ha corone di fiori; e tutti i frutti che cresce per me il nuovo anno sono offerti in voto al dio dei campi. Bionda Cerere, per te dai miei campi ci sarà sempre una corona di spighe a pendere alla porta del tempio, e negli orti ricchi di frutti sarà messo Priapo, il rubicondo custode, perché spaventi con la terribile falce gli uccelli. E anche voi, Lari, custodi di un campo ora povero, un tempo ricco, accogliete i vostri doni. Un tempo il sacrificio di una vitella purificava infiniti giovenchi, adesso è un’agnella la modesta vittima per un podere minuscolo. L’agnella cadrà in vostro onore, e attorno la gioventù rustica griderà: “Evviva, dateci messi e buon vino!”. Possa io finalmente vivere soddisfatto di poco, e non essere sempre soggetto ai lunghi viaggi, ma evitare la canicola all’ombra di un albero vicino a un ruscello di acqua che scorre. Non mi vergognerò di tenere in mano il bidente e di stimolare col pungolo i buoi pigri; non mi dispiacerà riportare a casa nel mio grembo un’agnella, o una capretta abbandonata dalla mamma distratta. Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il mio piccolo gregge: è nelle grandi mandrie che va cercata la preda. Tutti gli anni io purifico i miei pastori e cospargo di latte la placida Pale. Assistetemi, dei, non disprezzate i doni che vengono da una povera mensa in semplici cocci. 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Tibullo 40 45 50 55 60 65 70 75 In antico i contadini si costruirono coppe di coccio, plasmandole con argilla duttile. Io non pretendo le ricchezze dei padri e il raccolto che le messi diedero ai nostri antichi avi: mi basta un po’ di grano, e se posso riposare sul letto familiare e là dare ristoro alle membra. Quanto mi piace, stando sdraiato, sentire la furia dei venti e stringere teneramente al seno la mia donna o, quando l’Austro invernale riversa acque gelide, dormire un sonno tranquillo cullato dalla pioggia. Questo è ciò che voglio: a buon diritto sia ricco chi riesce a sopportare il mare in burrasca e le aspre piogge. Scompaia tutto l’oro che c’è e le pietre preziose, piuttosto che far piangere per i nostri viaggi una donna. Tu sì che devi, Messalla, combattere in terra e in mare, perché la tua casa esibisca le spoglie nemiche; me mi trattengono i vincoli di una bella ragazza, e faccio il guardiano alla sua porta chiusa. Delia mia, io non voglio la gloria e, purché rimanga con te, mi chiamino pure ozioso e pigro. Voglio guardarti, quando verrà la mia ultima ora, e morire tenendoti con la mano che manca. Mi piangerai deposto sul catafalco per il rogo, Delia, e mi darai baci misti a tristi lacrime. Piangerai, perché non hai il cuore di ferro, nel tuo tenero petto non sta una pietra. Dal mio funerale nessun giovane e nessuna ragazza potrà tornare a casa con gli occhi asciutti. Ma tu, senza offendere i miei Mani, risparmia, Delia mia, i capelli sciolti e le tenere gote. Intanto, finché lo permette il destino, restiamo uniti nell’amore: tra poco verrà la morte col capo avvolto di tenebre, tra poco s’insinuerà l’età inerte, amare non sarà più decente, né dire coccole col capo bianco. Adesso si devono avere amori leggeri, quando non si ha vergogna di abbattere porte, e piace attaccare briga. In questo sono buon capo e buon soldato; voi andatevene, insegne e trombe di guerra – portate ferite agli uomini avidi, e anche ricchezze: io per me, tranquillo col mio mucchietto, disprezzerò i ricchi e la fame. 2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Tibullo 3 Elegie I, 10 Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? La situazione è probabilmente rapportabile al 31 a.C., quando nell’imminenza della battaglia di Azio ci fu un massiccio arruolamento di soldati. La vita militare naturalmente era sgradita a Tibullo, il quale aveva ben altre preferenze. Ma il problema è intendere come il poeta si ponesse nei confronti del regime di Ottaviano. Si è portati a credere che in questo caso Tibullo si potesse avvalere della mediazione di Messalla, il quale era sì legato ormai a Ottaviano, ma in passato aveva militato in partiti opposti e tendeva ad assumere posizioni moderate anche nei confronti di Antonio. Ma in ogni caso un’elegia come questa non poteva presentare un particolare valore politico, in quanto contiene una serie di luoghi comuni contro la guerra, solo vivacizzati dal momento di disagio personale del poeta. 1 5 10 15 20 25 30 35 Chi fu l’uomo che inventò le spade orrende? Quant’era feroce, e veramente di ferro! Allora nacquero per il genere umano le stragi e le guerre, e fu aperta alla morte una via più breve. O forse, pover’uomo, non ebbe colpa, e siamo noi a volgere al nostro male l’arma che lui ci diede contro le belve? È tutta colpa dell’oro: non c’erano guerre quando sulla mensa stavano coppe di faggio. Non c’erano fortezze né trincee, e il comandante del gregge prendeva sonno tranquillamente tra le sue pecore sparse. Fossi vissuto allora! Non avrei conosciuto le tristi armi del volgo, né sentito la tromba con animo trepido; ora mi trascinano alla guerra, e forse già qualche nemico porta le armi destinate a piantarsi nel mio fianco. Ma voi salvatemi, Lari dei miei padri che mi allevaste quando bambino correvo ai vostri piedi. Non vergognatevi di essere fatti di vecchio legno; in questo modo abitavate la vecchia casa degli avi. Mantenevano meglio la loro parola quando un dio di legno stava in una piccola sede, con povero culto. Ed era placato, sia che gli facessero offerte d’uva, sia che ornassero la sacra chioma con corone di spighe; e qualcuno che aveva ottenuto il voto portava lui stesso focacce, e dietro di lui la figlia bambina un puro favo. Allontanate da me le armi di bronzo, Lari, […] e avrete per vittima un porco dalla stalla piena. Gli terrò dietro con la veste pulita e coi canestri legati col mirto, inghirlandato anch’io di mirto. Così voglio piacervi: un altro sia forte nelle armi, e abbatta i capi nemici col favore di Marte; così, mentre bevo, l’eroe mi potrà raccontare le sue imprese e disegnare l’accampamento col vino sulla mensa. Che pazzia è questa di affrettare la nera morte con le guerre? Già incombe e viene da sé in silenzio. 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Elegie Tibullo 40 45 50 55 60 65 Là sotto non ci sono messi e vigneti, ma Cerbero prepotente e il nocchiero deforme dell’acqua stigia; là, percuotendosi il volto, coi capelli bruciati, vaga la pallida schiera nei laghi bui. Quant’è preferibile il destino dell’uomo che ha avuto figli, e arriva alla vecchiaia in una piccola casa. Lui segue le sue pecore, il figlio gli agnelli, e quando torna stanco la moglie gli scalda l’acqua. Così vorrei essere anch’io, e imbiancare i capelli, e raccontare da vecchio le cose del tempo passato. Intanto la Pace coltivi i campi. È la splendida Pace che all’inizio condusse i buoi sotto il curvo giogo ad arare, coltivò le viti e raccolse il succo dell’uva, perché l’anfora paterna versasse al figlio il vino. In pace risplendono bidente e vomere, e nel buio la ruggine coglie le dolorose armi del soldato. Un po’ brillo, il contadino riporta a casa dal bosco la moglie e i figli sul carro. Ardono allora le battaglie di Venere, e la donna lamenta i capelli strappati, le porte infrante. Colpita sulle tenere guance piange, ma piange anche il vincitore di avere mani così forti e stupide. Amore prepotente amministra nel litigio gli insulti reciproci, e siede indifferente tra l’uno e l’altra imbronciati. È di pietra o di ferro, chi picchia la sua ragazza, e tira giù dal cielo gli dei. Si accontenti di strapparle di dosso la veste sottile, di scompigliarne i capelli acconciati, di farla piangere: quattro volte felice l’uomo che con la sua ira fa piangere la ragazza. Chi menerà le mani, prenda lo scudo e la lancia, e si tenga lontano dalla dolce Venere. Vieni a me, Pace fecondatrice, portando la spiga, e il tuo candido grembo trabocchi di frutti. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Bucoliche Virgilio 1 Egloga I Tityre, tu patulae Melibeo è sfortunato, perché i suoi campi sono stati espropriati in favore dei veterani: tutta la sua invidia va verso Titiro, che sta tranquillamente abbandonato all’ombra di un faggio, perché si è recato a Roma dove ha incontrato un giovane dio, che gli ha concesso di rimanere. Il carme è incentrato sullo struggente attaccamento dei due pastori alla natura e alla loro vita. Benché vi sia sicuramente il riferimento a un evento storico ben definito, come l’esproprio delle terre nei territori di Cremona e Mantova dopo il 42, il paesaggio bucolico si rende luogo di evasione ideale. E la malinconia della scena trova la sua espressione più alta proprio nel calar della sera descritto alla conclusione. 1 5 10 15 20 25 30 Melibeo Tu, Titiro, sdraiato all’ombra di un vasto faggio, intoni sulla zampogna leggera un canto silvestre; noi lasciamo la nostra patria e i dolci campi, noi fuggiamo dalla nostra patria e tu, Titiro, ozioso all’ombra, fai risuonare le selve del nome della bella Amarillide. Titiro È stato un dio, Melibeo, a darmi questi agi. Sì, lui sarà sempre per me un dio, e il suo altare spesso lo tingerà un agnello del mio ovile; è stato lui a permettere alle mie vacche di pascolare tranquille, come puoi vedere, e a me stesso di suonare sulla zampogna quello che voglio. Melibeo Non t’invidio, provo piuttosto stupore; a tal punto da tutte le parti tutta la campagna è sconvolta. E io stesso, triste, spingo avanti le mie caprette, e a stento trascino questa. Ha appena lasciato tra i folti noccioli due gemelli, speranza del gregge, partoriti sulla nuda pietra. Ricordo che spesso questo male ce l’hanno predetto, se non fossimo stati ciechi, le querce colpite dal fulmine. Ma tu dicci, Titiro, chi è questo dio. Titiro La città che chiamano Roma, io credevo, Melibeo, scioccamente che fosse simile a questa nostra dove spesso noi pastori siamo soliti portare gli agnelli. Come sapevo che i cuccioli sono simili ai cani, e i capretti alle capre, così ero solito confrontare il piccolo al grande. Ma questa città solleva tanto il capo fra le altre, come i cipressi in mezzo ai viburni flessibili. Melibeo Ma quale motivo avevi di andare a Roma? Titiro La libertà che, pigro com’ero, si accorse tardivamente di me, quando radendomi la barba cadeva un po’ bianca, si accorse di me alla fine, e venne dopo lungo tempo, da quando mi possiede Amarillide e Galatea mi ha lasciato. Ti confesserò infatti che mentre ero in potere di Galatea, non avevo speranza di libertà, né cura delle mie sostanze. E benché dai miei recinti uscissero molte vittime, e molto formaggio si spremesse per l’ingrata città, la mia mano non tornava mai piena di denaro a casa. Melibeo Mi chiedevo perché invocassi gli dei così triste, Amarillide, perché lasciassi avvizzire i frutti sull’albero: 1 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Bucoliche Virgilio 35 40 45 50 55 60 65 70 75 Titiro era lontano. I pini stessi, Titiro, le fonti, gli arbusti ti chiamavano. Titiro Che fare? Non sarei mai potuto uscire di schiavitù, né conoscere altrove dei così potenti. Là, Melibeo, ho conosciuto quel giovane per cui i miei altari fumano dodici giorni ogni anno. Lui per primo alle mie preghiere ha dato questa risposta: “Continuate a pascolare i buoi, ragazzi, e aggiogate i tori”. Melibeo Fortunato vecchio! Dunque i campi rimarranno tuoi, per te grandi abbastanza, anche se tutto è nuda pietra e la palude copre di giunchi fangosi i pascoli: campi sconosciuti non attireranno le bestie gravide, né le danneggerà il contagio del gregge vicino. Fortunato vecchio, qui tra i fiumi ben noti e le fonti sacre prenderai il fresco e l’ombra, e sempre dal confine vicino la siepe, dove le api iblee succhiano i fiori del salice, ti concilierà il sonno col suo lieve sussurro; il potatore sotto l’alta rupe canterà all’aria, e intanto né le rauche colombe, tuo amore, né la tortora sotto l’alto olmo cesserà di tubare. Titiro Prima pascoleranno in cielo gli agili cervi e il mare abbandonerà i pesci esposti sopra la spiaggia, e attraversando i confini reciproci, i Parti in esilio berranno l’acqua dell’Arar e i Germani quella del Tigri, che dal mio animo possa svanire il suo volto. Melibeo Noi invece di qui ce ne andremo, alcuni nell’Africa ardente, altri nella Scizia o verso il fiume Oasse, che trascina la creta, o nella terra dei Britanni, del tutto separati dal mondo. Verrà mai il momento che rivedrò dopo tanto i miei campi e il tetto di zolle della mia povera casa spiando da dietro le spighe tutto il mio regno? Un empio soldato avrà queste terre coltivate con tanto amore, un barbaro queste messi: ecco a che punto la discordia ha portato i cittadini infelici! Per costoro abbiamo lavorato i nostri campi! Innesta ora i peri, Melibeo, disponi le viti e voi mie caprette, un tempo felici, andate. Non vi vedrò più, sdraiato in una grotta verde, pendere da una rupe spinosa; non canterò più, caprette, non vi condurrò più al pascolo a brucare i fiori del citiso e il salice amaro. Titiro Però avresti potuto riposare con me questa notte sopra le verdi fronde; ci sono mele dolcissime, castagne farinose, abbondanza di buon formaggio, e già i tetti delle case fumano in lontananza e dai monti cadono le ombre lunghe. 2 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Bucoliche Virgilio 5 Egloga X Omnia vincit Amor L’ultimo carme della raccolta contiene il disperato lamento d’amore di Cornelio Gallo nel paesaggio bucolico dell’Arcadia: la sua donna è andata lontano nei paesi del nord al seguito di un generale. Nemmeno il canto alla fine potrà recargli conforto. Trattandosi dell’ultima egloga, si è pensato da tempo a un significato di riflessione poetica. Cornelio Gallo era autore di elegie d’amore e qui Virgilio probabilmente svolge un discorso metapoetico. Gallo rappresenta il fallimento o quanto meno l’inferiorità del genere elegiaco di fronte a quello bucolico, la cui validità è così consolidata. 1 5 10 15 20 25 30 35 Concedimi ancora quest’ultima fatica, Aretusa: devo cantare pochi versi per il mio Gallo, ma tali che Licoride debba leggerli; come negare un canto a Gallo? Così quando passi sotto le acque sicule, possa Doride salata non mescolare le acque alle tue! Comincia: cantiamo gli amori affannosi di Gallo, mentre le capre camuse brucano la tenera erba. Non cantiamo a sordi, e le selve riecheggeranno ogni cosa. In quali boschi, in quali foreste eravate, Naiadi, quando Gallo si consumava in un amore indegno? Non vi trattenevano certo i gioghi del monte Pindo né del Parnaso, e neanche Aganippe beota. Su di lui piansero allora perfino le tamerici e gli allori e il Menalo fitto di pini, e le pietre del freddo Liceo, quando giaceva sotto una roccia deserta. Intorno gli stanno le greggi che non hanno fastidio di noi, e tu non averlo di loro, divino poeta: anche il bellissimo Adone portava le pecore al pascolo. Ecco arriva il pastore e in ritardo arrivano i porcari, arriva Menalca fradicio per avere raccolto le ghiande invernali. Tutti chiedono: “Da dove ti viene questo amore?” Arriva Apollo e gli dice: “Perché sei così pazzo? Il tuo amore, Licoride, ha seguito un altro tra gli orrendi accampamenti e le nevi”. Arriva Silvano con una ghirlanda agreste sul capo, scuotendo rami fioriti e grandi gigli. Arriva Pan, il dio dell’Arcadia, che abbiamo veduto tutto rosso delle sanguigne bacche del sambuco e del minio. E gli dice: “Non hai misura? Di queste cose l’amore non cura, l’amore crudele non si sazia di lacrime, così come l’erba d’acqua, le api di citiso, le caprette di erba”. E lui tristemente: “Pure, voi Arcadi canterete tutto ciò alle vostre montagne, voi Arcadi che siete i soli esperti nel canto. Come riposerebbero in pace le mie ossa se un giorno la vostra zampogna raccontasse i miei amori! Fossi stato uno di voi, o custode del vostro gregge, o vendemmiatore dell’uva matura! Certo se avessi una Fillide oppure un Aminta oppure qualche altra follia (che importa se Aminta 3 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Bucoliche Virgilio 40 45 50 55 60 65 70 75 è un po’ scuro? Lo sono anche le viole e i giacinti), starebbe sdraiato con me tra i salici o sotto una vite flessuosa: Fillide farebbe per me ghirlande, e canterebbe Aminta. Ci sono fonti fresche e prati morbidi, e il bosco, Licoride: qui passerei con te la mia vita. Adesso invece il folle amore mi tiene nella dura guerra in mezzo alle armi e di fronte ai nemici. Tu lontano dalla patria (vorrei non crederlo!) vedi sola senza di me, crudele, le nevi alpine e il freddo del Reno. Spero che non ti faccia male, che il ghiaccio aspro non tagli i tuoi teneri piedi! Andrò a cantare i versi composti nel metro di Euforione di Calcide sulla zampogna di un pastore siculo. Ho deciso che è meglio soffrire nei boschi, tra le spelonche delle fiere e la storia dei miei amori inciderla sugli alberi giovani, che cresceranno e insieme a loro il mio amore. Intanto percorrerò il Menalo assieme alle ninfe o caccerò gli aspri cinghiali. Il freddo non mi impedirà di accerchiare coi cani i boschi del Monte Partenio. E già mi sembra di andare per le rocce e i boschi sonanti e mi piace scagliare con l’arco dei Parti le frecce cidonie, come se ciò possa essere rimedio alla mia follia o il dio possa imparare ad essere mite verso le sventure umane. Ma non mi piacciono più le Amadriadi e neanche i canti, e anche a voi boschi dico addio. Non lo possono cambiare tutte le nostre fatiche, neanche bevessimo nel gelo le acque dell’Ebro, neanche affrontassimo nell’inverno piovoso le nevi di Tracia o pascolassimo sotto il Cancro le greggi etiopiche quando la corteccia dell’olmo muore essiccata. Tutto vince Amore, e anche noi cediamo all’Amore”. Basterà che questo abbia cantato, Muse, il vostro poeta, mentre siede e intreccia fiscelle con l’ibisco sottile: voi farete queste mie cose grandi per Gallo, Gallo, per cui il mio amore cresce di ora in ora, come s’innalza il verde ontano nella primavera. Alziamoci, perché l’ombra è molesta a chi canta, l’ombra del ginepro; l’ombra nuoce anche alle messi. E voi caprette andatevene a casa, ché siete sazie e viene la sera. 4 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Georgiche Virgilio 8 Georgiche II, 136-176 Salve, magna parens frugum Sono le celebri lodi dell’Italia, l’excursus inserito nella prima parte del II libro. Il luogo comune delle lodi di una regione si era già affermato nella letteratura greca del V secolo con le lodi dell’Attica (la regione di Atene), che erano comparse in testi diversi (opere storiografiche, orazioni, tragedie). Nella cultura letteraria romana le lodi dell’Italia erano già state svolte pochi anni prima nel De re rustica di Varrone, ma al tempo in cui erano scritte le Georgiche assumevano un valore ideologico particolare. Era allora in pieno svolgimento la lotta di Ottaviano contro Antonio. Questi, succube, almeno secondo la propaganda di Ottaviano, della regina egizia Cleopatra, progettava di trasferire la capitale dell’impero ad Alessandria, e contro tale progetto si accanì il partito di Ottaviano, rivendicando la tradizione e gli aspetti positivi dell’Italia. 140 145 150 155 160 165 170 Né le selve dei Medi, terra ricchissima, né il bellissimo Gange, l’Ermo torbido d’oro, possono competere per meriti con l’Italia, né la Battriana né l’India né la Pancaia ricca di sabbie che contengono incenso. Qui non furono i tori che spirano fuoco dalle narici ad arare seminando il terreno coi denti di drago, né vi crebbe la messe di uomini irta di elmi e di lance, ma la riempirono le ricche spighe e il vino Massico; la occupano gli olivi e gli armenti floridi. Qui il cavallo da guerra entra in campo coraggiosamente, qui bianche greggi, Clitunno, e il toro, massima vittima, spesso aspersi dalla tua acqua sacra condussero ai templi degli dei i trionfi romani. Qui la primavera è perenne e l’estate si prende i mesi non suoi: due volte le bestie ingravidano, due volte l’albero produce frutti. Non ci sono le tigri rabbiose né la razza crudele dei leoni, e l’aconito non inganna quei poveretti che lo raccolgono, non trascina per terra le immense volute il serpente squamoso né si raccoglie in una così enorme spirale. Aggiungi tante illustri città ed opere, tante fortezze innalzate su dirupi scoscesi e i fiumi che lambiscono le mura antiche. Devo ricordare il mare che la circonda da entrambi i lati? O i grandi laghi? Te, Lario, più grande di tutti, te, Benaco, che ti innalzi con onde e fragore marini? O devo ricordare i porti, le chiuse imposte al Lucrino e l’acqua che infuria con grande fragore, dove l’onda Giulia risuona per largo tratto tenendo lontano il mare e i marosi tirreni invadono le acque d’Averno? Questa stessa terra mostra vene d’argento, miniere di rame ed è ricchissima d’oro. E ha creato un’aspra razza di uomini, i Marsi, i Sabelli, i Liguri adusi alle avversità, i Volsci armati di lancia, e i Deci, i Marii, i grandi Camilli, gli Scipioni duri in guerra e te, grandissimo Cesare, 5 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Georgiche Virgilio 175 che ora già vittorioso nelle estreme terre dell’Asia, tieni lontani dalle rocche di Roma gli Indi imbelli. Salve, grandissima madre di messi, terra Saturnia, e madre di uomini: io mi dedico a un’opera di grande pregio osando schiudere le sacre fonti e cantando il carme di Esiodo per le città romane. 6 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Georgiche Virgilio 13 Georgiche IV, 453-527 Orpheu, quis tantus furor? Il dio marino Proteo, costretto da Aristeo a rispondergli sulla causa della moria delle api, racconta la storia struggente di Orfeo ed Euridice. Subito dopo i primi versi, il poeta si dimentica che il narratore è il bizzarro dio marino e che sta rispondendo ad Aristeo. La narrazione diventa simpatetica, il narratore partecipa delle sofferenze dei personaggi e con l’apostrofe o con lo stile indiretto libero rende visibile tale partecipazione. Inoltre, il racconto riprende la tecnica dell’epillio alessandrino e neoterico. Si tratta di una narrazione essenzialmente sentimentale, che ha per oggetto più le sensazioni che gli eventi. Non tutti i passaggi sono raccontati puntualmente, vi sono lacune clamorose: ad esempio, non si precisa quando e come viene stipulato il patto tra gli dei degli inferi e Orfeo. Tali omissioni vanno a vantaggio di uno spazio più ampio riservato all’analisi dei sentimenti. Di questa memorabile narrazione si è cercato un significato profondo in armonia col senso del poema: così Orfeo e il suo canto vano possono essere visti come simboli della poesia d’amore, inferiore e inutile rispetto a quella didascalica. 455 460 465 470 475 480 “Ti perseguita l’ira di un dio, e non dappoco, sconti una grave colpa commessa: Orfeo, infelice senza sua colpa, ti suscita queste pene, se il fato consente, disperato per la moglie che gli è stata rapita. Mentre ti fuggiva per i fiumi a precipizio, la fanciulla non vide davanti ai suoi piedi nell’erba alta un immane serpente che presidiava le rive e fu condannata a morire. Il coro delle coetanee Driadi riempì le cime dei monti di grida; piansero le vette di Rodope, gli alti Pangei, la terra guerriera di Reso, i Geti, l’Ebro e l’attica Orizia. Lui consolando sulla cetra l’amore ferito, te soltanto, dolce sposa, cantava, solo in riva al mare, te al venire, te al tramonto del giorno. Entrò nelle gole tenarie, le alte porte di Dite, e nel bosco oscurato da nero terrore, andò dagli dei inferi, dal re tremendo, cuori incapaci di piegarsi alle preghiere degli uomini. Commosse dal canto venivano dalle sedi profonde dell’Erebo le ombre lievi, immagini prive di luce, quante migliaia d’uccelli si nascondono tra le foglie quando la sera o la pioggia invernale li caccia dai monti, donne e uomini, corpi di magnanimi eroi al termine della vita, ragazzi e ragazze vergini, giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei genitori, che tutt’intorno incatena il fango nero e l’orrendo canneto del fiume Cocito, l’odiosa palude con le sue acque pigre, e rinchiude lo Stige che scorre per nove giri. Stupirono le case stesse dei morti e il profondo Tartaro e le Erinni con le chiome intrecciate di serpi turchine, Cerbero tenne aperte le sue tre bocche e si fermò nel vento la ruota di Issione. 7 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Georgiche Virgilio 485 490 495 500 505 510 515 520 525 E già ritornando era sfuggito a tutte le insidie ed Euridice restituitagli saliva al cielo aperto seguendolo – questa legge aveva imposto Proserpina – quando un’improvvisa follia prese l’amante incauto; perdonabile, se potessero perdonare gli dei di sotterra: sulla soglia ormai della luce immemore, vinto nell’animo, si fermò e si volse a guardare la sua Euridice e perdette tutte le sue fatiche, fu rotto il patto del crudele tiranno e tre volte si udì un fragore per gli stagni d’Averno. ‘Quale enorme follia ha distrutto me infelice e te, Orfeo? Di nuovo mi chiamano indietro i fati crudeli e il sonno spegne i miei occhi offuscati. Addio: mi circonda e mi inghiotte una notte infinita mentre non più tua, a te tendo invano le mani’. Così disse, e sparve alla vista come il fumo disperso nell’aria tenue; fuggì altrove e non vide più lui che inutilmente abbracciava le ombre e ancora voleva parlare; ma il guardiano degli Inferi non gli permise di passare un’altra volta la palude in mezzo. Che fare, dove andare, dopo aver perso due volte la sposa? Con quale pianto commuovere gli inferi, con quale voce gli dei? Lei già fredda passava lo Stige sulla barca. Dicono che la pianse per sette mesi sotto un’alta rupe, presso la riva deserta dello Strimone e sotto le fredde stelle narrava questa sua storia, addolcendo le tigri e portando con sé le querce, grazie al suo canto, come all’ombra del pioppo l’usignolo gemente piange i figli perduti che l’aspro coltivatore spiando ha strappato ancora implumi dal nido; piange la notte e sedendo sul ramo ripete il canto pietoso e riempie vasti spazi dei suoi lamenti. Nessun amore o matrimonio piegò il suo animo. Da solo percorreva i ghiacci Iperborei e il gelido Tanai e i campi Rifei mai liberi dalle brine, lamentando la perdita di Euridice e gli inutili doni di Dite. Ma le donne di Tracia, respinte per il culto di lei, durante l’orgia notturna di Bacco fecero a pezzi il giovane e lo sparsero per i campi. Anche allora il capo, staccato dal candido collo e trascinato dall’Ebro eagrio nel mezzo della corrente, invocava Euridice con la lingua ormai fredda, povera Euridice, chiamava col respiro fuggente, Euridice ripetevano per tutto il corso del fiume le rive”. 8 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 21 Eneide II, 506-558 Haec finis Priami fatorum Tra gli episodi narrati nella caduta di Troia spiccano non quelli più importanti dal punto di vista militare, ma piuttosto quelli più patetici, che coinvolgono personaggi ingiustamente sacrificati alla guerra, o perché troppo giovani (Polite), o perché troppo vecchi (Priamo). 510 515 520 525 530 535 540 545 Forse mi chiederai anche quale fu il destino di Priamo. Quando vide la città presa e caduta, scardinate le porte della sua casa, il nemico nelle sue stanze, il vecchio indossò invano sulle spalle tremanti le armi dismesse da tanto tempo, cinse la spada inutile e si lanciò a morire nel folto dei suoi nemici. In mezzo al palazzo, c’era all’aperto un grandissimo altare, e accanto, incombente all’altare, un lauro antico, che con la sua ombra abbracciava i Penati. Qui sedevano invano attorno agli altari Ecuba e le sue figlie come colombe scampate alla nera tempesta strette assieme, abbracciando i simulacri divini. Come Ecuba vide Priamo con le armi della giovinezza gli disse: “Quale pensiero atroce, infelicissimo sposo, ti ha spinto a indossare le armi? E dove mai ti precipiti? Non questi aiuti, non questi difensori richiede il presente, neppure se ci fosse il mio Ettore. Resta qui: quest’altare ci proteggerà tutti, oppure morremo insieme”. E così dicendo, riporta indietro il vecchio e lo mette a sedere sul luogo sacro. Ecco che scampato al massacro di Pirro, uno dei figli di Priamo, Polite, fugge per i lunghi portici, in mezzo alle armi e ai nemici, e percorre ferito gli atri vuoti. Lo insegue impetuoso Pirro nel desiderio di colpirlo, lo ha ormai quasi in mano, gli è addosso con la lancia. E quando finalmente fu giunto davanti agli occhi dei genitori, cade e con molto sangue esala la vita. Priamo allora, per quanto già in preda, in mezzo alla morte, non si trattenne, non risparmiò la voce e la collera: “A te per questo delitto, per tali imprese, gli dei, se c’è in cielo pietà che di tali imprese si curi, possano rendere il premio e le grazie dovute, tu che mi hai fatto assistere alla morte di un figlio e con la sua morte hai sporcato il volto di un padre. Non fu così quell’Achille, da cui menti di essere nato, col suo nemico Priamo; rispettò i diritti del supplice, restituì al sepolcro il corpo esangue di Ettore e mi rimise nel mio regno”. Così dicendo il vecchio scagliò la lancia imbelle, senza forza, che fu respinta dal roco bronzo e pendette inutile dall’umbone rotondo. 9 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 550 555 Rispose Pirro: “Andrai dunque tu stesso a riferire a mio padre Achille il messaggio e ricordati di raccontargli bene i miei delitti, e che Neottolemo è un figlio degenere. Intanto muori”. E così dicendo trascina all’altare Priamo che trema e scivola sul sangue del figlio, si attacca con la sinistra ai capelli e con la destra solleva la spada lucente e la pianta fino all’elsa nel fianco. Fu questa la morte di Priamo, questa la fine fatale che ebbe, vedendo Troia in fiamme e caduta Pergamo, colui che fu un tempo il re superbo di tanti popoli e terre dell’Asia. Giace sulla spiaggia, grande, il suo busto, un capo troncato dalle spalle ed un corpo senza più nome. 10 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 33 Eneide IX, 420-449 Fortunati ambo Eurialo è stato catturato dai Rutuli, ma Niso non lo abbandona. Stando nascosto, uccide due soldati che tengono prigioniero Eurialo, scatenando l’ira del comandante dei nemici, Volcente. Infine, si lancia all’assalto, per morire insieme all’amato Eurialo. Il sacrificio dei due amici è inutile in una prospettiva militare, ma tale da conquistare una gloria eterna: di qui l’apostrofe che rivolge loro il narratore, chiamandoli fortunati. 420 425 430 435 440 445 Volcente è furioso, ma non riesce a vedere l’autore del lancio, e non sa dove sfogare la rabbia. “Tu intanto mi pagherai la morte di entrambi col tuo sangue caldo”, disse, e con la spada sguainata piombò addosso ad Eurialo. Allora, in preda a folle terrore, Niso gridò, non poté più nascondersi al buio né sopportare un così grande dolore: “Me, me, sono io che l’ho fatto, me colpite col ferro, Rutuli, mio è l’inganno, niente ha fatto il ragazzo: non l’avrebbe potuto, ne attesto il cielo e le stelle consapevoli. Ha solo amato troppo l’amico infelice”. Mentre così parlava, la spada spinta con forza passò le costole e ruppe il candido petto. Rotolò nella morte Eurialo, per le belle membra scorse il sangue e la testa reclinò sulle spalle: come il fiore purpureo, reciso dall’aratro, languisce morendo, e i papaveri abbassano il capo sul collo stanco, quando la pioggia li aggrava. Niso allora si butta nel mezzo e fra tutti cerca il solo Volcente, di lui solo si occupa. I nemici lo circondano, di qua lo stringono, di là lo ricacciano. Nondimeno insiste, ruotando la spada fulminea, finché l’immerse in bocca al Rutulo urlante e morendo tolse al suo nemico la vita. Allora si gettò sopra l’amico esanime, e là trafitto riposò in una placida morte. Ambedue fortunati! Se qualcosa possono i miei canti, nessun giorno vi toglierà alla memoria dei posteri finché la casa di Enea possiederà l’immobile rupe del Campidoglio e il senato romano avrà l’impero. 11 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 35 Eneide X, 762-908 Animam diffundit in arma cruore La figura del tiranno Mezenzio, spregiatore degli dei e odiato soprattutto dalle sue stesse genti, è una delle più riuscite del poema. Prima è rappresentata la sua discesa in battaglia. Si è notato che la similitudine con Orione richiama la categoria del mostruoso, e che Mezenzio, una sorta di mostro nell’animo per crudeltà, è rappresentato coi tratti esteriori dell’essere fisicamente mostruoso. Ma nello scontro con Enea diviene soccombente. La discesa in campo del figlio giovinetto Lauso in soccorso del padre ferito costituisce uno degli episodi più struggenti del poema. Enea ha pietà e rende onore al nemico giovinetto, mentre lo stesso Mezenzio di fronte alla morte del figlio trova la forza e i modi di una morte dignitosa. Il suo comportamento nel momento finale, quando viene ucciso da Enea e offre il collo perché sia reciso, ricorda l’atteggiamento di una vittima predestinata al sacrificio. 765 770 775 780 785 790 795 Ma ecco che brandendo l’enorme lancia torvo entra in campo Mezenzio. Quanto è grande Orione quando avanza a piedi per le distese di Nereo aprendosi la via e sovrasta con la spalla le onde, o portando dalla cima dei monti un ontano antico cammina per terra e nasconde la testa in mezzo alle nubi, così avanza Mezenzio con le armi immense. Contro di lui si prepara a marciare Enea, avendolo visto già da lontano. Ma quello resta imperterrito aspettando il nemico magnanimo, fermo nella sua mole, e dopo avere misurato con gli occhi il tiro di lancia dice: “Mi assistano adesso l’arma che brandisco e la mano che è il mio dio. Ti consacro, Lauso, a trofeo, vestito delle spoglie di Enea, con le armi strappate al predone ucciso”. Così disse e lanciò da lontano la lancia stridente, ma fu respinta in volo dallo scudo di Enea e colpì fra l’inguine e il fianco il forte Antore, compagno di Ercole, che venuto da Argo si era unito ad Evandro e viveva in terra italica. L’infelice è abbattuto dal colpo destinato ad un altro, guarda il cielo e morendo ricorda la dolce Argo. Poi è il pio Enea a scagliare la lancia che attraversò il triplo strato di bronzo e poi il lino e la triplice pelle di toro, poi si fermò al fondo dell’inguine senza più forza. Allora rapidamente Enea, lieto per aver visto il sangue nemico, estrae la spada dalla coscia e lo incalza con forza mentre l’altro trema. Gemette profondamente per amore del caro padre Lauso come lo vide, e le lacrime scorsero per le sue guance. E qui non tacerò l’aspra storia della tua morte né le tue imprese, né te stesso, nobile giovane, se l’antichità farà sì che venga creduto. Mezenzio retrocedeva, impacciato e come inutile, cercando di strappare dallo scudo la lancia nemica. Quando il ragazzo balzò avanti e si gettò nella mischia, 12 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 800 805 810 815 820 825 830 835 840 si fece sotto alla spada di Enea che già si alzava con la destra a portare il colpo e lo fermò in questo indugio. I compagni con grandi grida assecondano il padre, che esce protetto dallo scudo del figlio, gettando frecce e disturbando coi lanci da lontano il nemico. Enea, furioso, si tiene coperto. Come quando le nubi precipitano in un rovescio di grandine e fuggono dai campi aratori e contadini, il viandante si tiene al riparo o sotto la riva del fiume o sotto la volta di un’alta rupe fin che piove sulla terra, per poi fare le sue occupazioni quando il sole ritorna, così coperto di frecce da ogni parte, Enea sopporta la nube di guerra aspettando che passi e provoca Lauso e lo minaccia: “Dove corri a morire osando più delle tue forze? Incauto, ti inganna il tuo affetto filiale”. Nondimeno Lauso impazza nella sua furia e nel capo troiano più aspra sorge la collera. Le Parche filano l’ultimo filo per Lauso: Enea trapassa con la valida spada il giovane e nel suo corpo la immerge tutta. La punta passò lo scudo, arma troppo leggera per la sua audacia, la tunica intessuta dalla madre con un filo d’oro e il sangue riempì le pieghe: la vita se ne andò mesta per l’aria ai Mani e abbandonò il corpo. Come vide il volto e lo sguardo del giovane morente straordinariamente pallidi, Enea gemette profondamente per compassione e tese la destra e gli strinse il cuore l’immagine dell’affetto filiale. “Povero ragazzo, che può darti il pio Enea per le tue imprese, che sia degno della tua indole? Tieni per tue le armi che ti diedero gioia: ti rimando all’esequie dei tuoi, se ne avranno cura. Ma consoli la tua misera morte, infelice, che cadi per mano del grande Enea”. E incoraggia i suoi compagni esitanti, e lo solleva da terra, che sporcava di sangue i capelli ben pettinati. Intanto il padre, sulla riva del Tevere, stagnava con l’acqua la ferita, appoggiandosi al tronco di un albero. L’elmo di bronzo pende lontano da un albero e le armi pesanti giacciono sul prato. Attorno a lui stanno giovani scelti e lui sfinito, ansimante, appoggia il capo: la lunga barba gli pende sul petto. Chiede sempre di Lauso e gli manda molti messaggi a richiamarlo, a portargli gli ordini del suo povero padre. Invece i compagni portavano sopra le armi, piangendo, Lauso esanime – grande, e vinto da una grande ferita. Il cuore presago della sventura riconobbe da lontano il lamento. 13 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 845 850 855 860 865 870 875 880 885 890 Sporca di molta polvere la sua canizie, tende al cielo ambo le mani e si getta sul corpo. “Figlio mio, tanta voglia di vivere mi ha dunque spinto a lasciare mio figlio affrontare al mio posto la destra nemica? Io tuo padre sono salvo per le tue piaghe, vivo per la tua morte? Questo è per me il vero esilio, questa è la ferita che mi trafigge in profondo. Figlio mio, io ho macchiato coi miei delitti il tuo nome, io cacciato con odio dal trono paterno. Io ero in debito verso la patria e l’odio dei miei, e avessi dato con mille morti la mia vita colpevole! Vivo e non lascio ancora la luce e gli uomini, ma li lascerò”. E così dicendo si alza sull’arto ferito e, benché la sua forza sia impacciata dalla profonda ferita, non si abbatte e si fa portare il cavallo. Era questo la sua gloria e il suo conforto. Con lui usciva vincitore da ogni battaglia. E così parla al cavallo afflitto: “A lungo abbiamo vissuto, Rebo, se pure qualcosa dura a lungo per i mortali. Oggi, o riporterai vincitore le spoglie cruente e la testa di Enea e insieme a me vendicherai i dolori di Lauso, o se la forza non ci apre la strada, cadrai assieme a me; certo non credo, fortissimo, che sopporteresti ordini estranei e accetteresti per padroni i Troiani”. Così disse, e accolto in groppa, vi accomodò il suo corpo familiare e armò le due mani di lance acute, col capo lucente di bronzo e irto di pennacchi equini. Si gettò nella mischia di corsa; nel suo cuore ribolle l’onore e la furia mescolata al pianto [e l’amore agitato dalle furie e il valore consapevole]. Qui chiamò Enea a gran voce tre volte ed Enea lo riconobbe e pregò con animo lieto: “Così voglia il padre degli dei, così il grande Apollo! Inizia dunque il combattimento”. E ciò detto, gli corre incontro con la lancia nemica. E quello: “Crudelissimo, mi hai tolto il figlio e vuoi farmi paura? Quello era il solo modo di uccidermi. Non ho paura della morte o riguardo per nessun dio. Smetti: vengo a morire, però prima ti porto questi doni”. E ciò detto, scagliò una lancia e poi un’altra e un’altra ancora, muovendosi in ampio giro, ma tutte le regge lo scudo dorato. Tre volte girò a sinistra attorno ad Enea scagliando le lance, tre volte l’eroe troiano porta una selva immane sopra la piastra di bronzo. Stanco di tanti indugi, e di svellere tante lance, e incalzato dall’iniqua battaglia, molto pensando in cuor suo, infine esplode 14 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010 Eneide Virgilio 895 900 905 e trapassa con l’asta le tempie del cavallo guerriero. Il cavallo s’impenna, colpendo l’aria coi calci, e seguendo il suo cavaliere disarcionato gli cade addosso con la spalla slogata. Troiani e Latini incendiano di urla il cielo. Vola Enea sguainando la spada dal fodero e dice: “Dov’è ora l’aspro Mezenzio e la sua feroce forza d’animo?” Ma l’altro, appena guardando in alto ebbe preso respiro e fu tornato in sé, rispose: “Amaro nemico, perché mi provochi e mi minacci la morte? Non è empia la morte, non a questi patti sono venuto in guerra e con te non li ha fatti neppure il mio Lauso. Solo ti chiedo, se c’è qualche pietà per i nemici vinti, lascia che il mio corpo lo copra la terra. So bene che mi sta attorno l’odio acerbo dei miei. Ti prego, difendimi dal loro furore e concedi che divida con mio figlio la tomba”. Ciò detto, accolse consapevolmente nel collo la spada, e con un fiotto di sangue versò sulle armi l’anima. 15 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010
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