Ego nisi peperissem, Roma non oppugnaretur

Ab urbe condita  Livio
12
Ab urbe condita II, 40, 1-12
Ego nisi peperissem, Roma non oppugnaretur
Coriolano, romano esiliato e rifugiatosi presso i Volsci, guida il loro esercito contro Roma. La città
è assediata e solo l’intervento delle matrone, in particolare della madre di Coriolano, convince
quest’ultimo a togliere l’assedio.
40 (1) Allora le matrone andarono in massa da Veturia, madre di Coriolano, e da
Volumnia sua moglie, non si può sapere se per pubblica deliberazione o per paura
femminile. (2) In ogni modo ottennero che Veturia, donna ormai anziana, e
Volumnia, assieme ai due figli bambini di Marcio, si recassero nel campo nemico
e, poiché gli uomini non erano in grado di difendere la città con le armi, dovevano
difenderla le donne con le lacrime e le preghiere.
(3) Quando arrivarono all’accampamento e fu annunciato a Coriolano che c’era
una grande folla di donne, lui, che non si era lasciato commuovere dalla pubblica
dignità degli ambasciatori né dall’autorità religiosa che ispiravano agli occhi e
all’animo i sacerdoti, fu ancora più ostinato di fronte al pianto delle donne. (4) Poi
un amico che tra le altre aveva riconosciuto Veturia, la quale spiccava per il suo
dolore, tra la nuora e i nipoti, gli disse: “Se gli occhi non m’ingannano, ci sono qui
tua madre, tua moglie e i tuoi figli”. (5) Coriolano si alzò come un pazzo dal suo
posto per andare ad abbracciare la madre, ma la donna, cambiando in collera la
preghiera, gli disse: “Prima che riceva il tuo abbraccio, fa’ in modo che sappia se
sono venuta da un figlio o da un nemico, se sono nel tuo campo come madre o come
prigioniera. (6) A questo mi ha portato una vita troppo lunga e una vecchiaia infelice, a vederti prima esule e poi nemico? Hai potuto saccheggiare la terra che ti ha
generato e nutrito? (7) Per quanto tu possa essere arrivato con animo ostile e minaccioso, come non ti è caduta la collera al momento di passare il confine? Come non
ti è venuto in mente, quando hai visto Roma, ‘Dentro a quelle mura stanno la mia
casa e i miei Penati, mia madre, mia moglie, i miei figli?’. (8) Dunque, se non avessi
partorito, Roma non sarebbe assediata; se non avessi avuto un figlio, sarei morta
libera in una patria libera. Io ormai non posso soffrire più niente che non arrechi
più vergogna a te che dolore a me, e per quanto sia infelice, non lo sarò a lungo. (9)
Ma pensa ai tuoi figli, che, se tu insisti, sono attesi o da una morte immatura o da
una lunga schiavitù”. Poi l’abbraccio della moglie e dei figli, il pianto levatosi da
tutta la folla delle donne, le lamentazioni su di sé e sulla patria spezzarono alla fine
la resistenza dell’uomo. (10) Abbracciò i suoi cari e li congedò, poi tolse il campo
dalla città. Successivamente ritirò anche le legioni dalla campagna romana, e morì
vittima dell’odio suscitato dal suo comportamento, chi dice in un modo chi un altro.
Presso Fabio, l’autore di gran lunga più antico, trovo che visse fino alla vecchiaia;
anzi (11) Fabio dice che spesso in età avanzata ripeteva che per un vecchio l’esilio è
più duro. Gli uomini romani non disconobbero il merito delle donne (a tal punto
allora si viveva senza invidiare la gloria altrui) (12) e, perché ne restasse memoria, fu
costruito un tempio e dedicato alla Fortuna femminile.
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Ab urbe condita  Livio
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Ab urbe condita IX, 17-19
Haud equidem abnuo egregium ducem fuisse
Alexandrum
Livio non indulge normalmente agli excursus come Sallustio. Fedele all’impostazione annalistica
della sua opera, narra con completezza tutti gli eventi che si svolgono nel loro ordine cronologico.
Questa è un’eccezione famosa: cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno, una volta conquistata
l’Asia, avesse avuto il tempo di volgersi contro i Romani? Lo storico alla fine della disamina dei vari
aspetti della questione non ha dubbi: avrebbero prevalso i Romani. Alessandro Magno era soldato
e comandante valoroso come lo erano tanti condottieri romani, la sua fortuna fu grande perché
visse poco, ma quanti altri condottieri furono fortunati nella prima parte della loro vita e poi subirono rovesci? Se fosse ancora vissuto per affrontare i Romani, lo avrebbe fatto con tutti quei difetti
che si manifestarono in lui dopo le grandi vittorie: col passar del tempo tali difetti si sarebbero
accresciuti e si sarebbero mostrati decisivi nello scontro con gli integerrimi Romani, che oltretutto
non avevano certo forze militari inferiori a quelle dei Macedoni.
17 (1) Si può constatare che fin dall’inizio di quest’opera ciò che più ho cercato di
evitare è di allontanarmi dal corretto ordine della narrazione per divagare e offrire
al lettore diversivi piacevoli, o a me stesso riposo. (2) Tuttavia l’aver menzionato
un re e comandante così grande mi richiama i pensieri che spesso ho meditato in
silenzio nel mio animo, e mi piace esaminare quale sarebbe stata la sorte dell’impero
romano se si fosse dovuto combattere con Alessandro. (3) Ciò che più conta in
guerra sembra essere il numero e il valore dei soldati, l’ingegno dei comandanti e
la fortuna potentissima in tutte le cose umane, ma più che mai in guerra. (4) Ora
questi elementi, considerati uno per uno e tutti insieme, danno la certezza che il
popolo romano si sarebbe serbato invincibile, come dagli altri re e popoli, anche
da Alessandro. (5) Prima di tutto, cominciando con l’esaminare i comandanti, non
nego certo che Alessandro fu un grande comandante; ma gli dà più gloria il fatto
di essere stato il solo e che morì giovane, nella fase ancora crescente del suo impero,
senza avere sperimentato la fortuna avversa. (6) Per non nominare gli altri illustri
re e comandanti, grandi esempi delle vicende umane, che cosa mise in balia della
fortuna mutevole Ciro, che i Greci celebrano più di chiunque altro, se non la lunghezza della sua vita, e allo stesso modo Pompeo Magno? (7) Devo elencare i
comandanti romani, non tutti e di tutti i tempi, ma solo quelli coi quali, nella loro
qualità di consoli o dittatori, Alessandro avrebbe dovuto combattere: (8) Marco
Valerio Corvo, Gaio Marcio Rutulo, Gaio Sulpicio, Tito Manlio Torquato, Quinto
Publilio Filone, Lucio Papirio Cursore, Quinto Fabio Massimo, i due Deci, Lucio
Volumnio, Manio Curio? (9) Seguono altri uomini insigni, se Alessandro avesse
combattuto prima con Cartagine che con Roma e fosse passato in Italia in età più
avanzata. (10) Ognuno di loro aveva doti di ingegno e di coraggio simili a quelle
di Alessandro, e in più una disciplina militare trasmessa di generazione in generazione fin dai primordi della città, e progredita fino a diventare una scienza regolata
da norme perenni. (11) Così avevano combattuto i re, così i Giunii e i Valerii che
li avevano cacciati, così poi i Fabi, i Quinzi, i Corneli, così Furio Camillo, che nella
loro giovinezza quelli che avrebbero dovuto combattere con Alessandro videro già
vecchio.
(12) Contro Alessandro, che affrontava sempre di persona i combattimenti (uno
dei meriti per cui va più famoso), avrebbero dunque ceduto nel confronto diretto
sul campo Manlio Torquato o Valerio Corvo, grandi soldati prima che coman2
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Ab urbe condita  Livio
danti, (13) i Deci che si precipitarono in mezzo al nemico consacrandosi alla morte,
Papirio Cursore con la sua enorme forza fisica e morale? (14) E per non nominarli
tutti uno per uno, sarebbe stato sconfitto dall’ingegno di un solo giovane quel
senato di cui colse esattamente l’essenza chi lo definì tutto composto di re? (15) Ci
sarebbe stato il rischio che sapesse scegliere il posto per l’accampamento con più
attenzione di uno qualunque di quelli che ho nominato, o predisporre i rifornimenti, premunirsi contro gli agguati, scegliere il momento di attaccare battaglia,
schierare l’esercito, rafforzarlo con le riserve? (16) Avrebbe riconosciuto che non
aveva più a che fare con Dario, che si tirava dietro una schiera di donne e di eunuchi, carico d’oro e di porpora, appesantito dalle sue ricchezze, preda piuttosto che
nemico: Alessandro lo sconfisse senza colpo ferire, con l’unico merito di aver osato
disprezzare le vanità. (17) Ben diversa gli sarebbe parsa l’Italia dall’India che attraversò gozzovigliando con un esercito ubriaco, quando avesse visto le valli di Puglia,
i monti della Lucania e le tracce recenti di una sconfitta familiare, dove era morto
lo zio materno, Alessandro re dell’Epiro.
18 (1) E parliamo di un Alessandro ancora non affogato nella fortuna, che nessuno si dimostrò meno capace di sopportare. (2) Se lo esaminiamo in base alla
nuova fortuna e alla nuova indole (per così dire) che assunse dopo la vittoria, (3)
dobbiamo dire che in Italia sarebbe venuto un Alessandro simile piuttosto a Dario,
con un esercito ormai dimentico della Macedonia e degenerato alla maniera persiana. (4) Dispiace ricordare, sul conto di un re così grande, il superbo cambiamento di vesti, il desiderio di essere adulato da sudditi prostrati per terra, cosa
difficile da sopportare anche per i vinti (per non dire dei Macedoni vincitori), i
vergognosi supplizi e le uccisioni di amici perpetrate nel banchetto tra il vino, la
vanità di attribuirsi una falsa discendenza. (5) E che sarebbe accaduto se l’amore
per il vino fosse diventato di giorno in giorno più forte? Oppure la collera, violenta
ed eccessiva (mi limito a riferire dati accertati dalle fonti). O riteniamo che questi
vizi non rechino danno alle virtù di un comandante? (6) Ma il vero pericolo era –
dicono con grande leggerezza quegli storici greci che contro il nome di Roma
esaltano perfino la gloria dei Parti – che il popolo romano non riuscisse a reggere
la maestà del nome di Alessandro (che credo non gli fosse noto neanche per sentito
dire), (7) oppure che nessuno tra i tanti capi romani fosse in grado di levare una
voce libera contro l’uomo che in Atene, città distrutta dalle armi macedoni, che
vedeva fumare da vicino le rovine di Tebe, degli uomini osarono liberamente attaccare, come è testimoniato dalle testimonianze delle orazioni.
(8) Si valuti quanto si vuole la grandezza di quell’uomo, ma sarà sempre la grandezza di un individuo, raccolta in poco più di dieci anni di fortuna. (9) Quelli che
la esaltano dicendo che il popolo romano è stato vinto in molte battaglie (ma in
nessuna guerra), mentre Alessandro non ebbe mai fortuna avversa in nessuna battaglia, non si rendono conto di confrontare le imprese di un solo uomo, e per di
più di un giovane, con quelle di un popolo che combatte da più di ottocento anni.
(10) Ci possiamo meravigliare se, essendoci da una parte più secoli che dall’altra
anni, la fortuna sia cambiata di più in tanti secoli che in tredici anni? (11) Perché
non confrontare invece uomo e uomo, comandante e comandante, fortuna e fortuna? (12) Quanti comandanti romani potrei nominare che non persero mai una
battaglia? Basta ripercorrere le pagine degli Annali e dei Fasti dei magistrati per
trovare consoli e dittatori del cui valore e della cui fortuna il popolo romano non
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Ab urbe condita  Livio
dovette mai in nessun giorno lagnarsi. (13) E, in questo ben più ammirevoli di
Alessandro o di qualunque re, qualcuno di loro tenne la dittatura per dieci o venti
giorni, nessuno comunque il consolato per più di un anno. (14) Le leve erano
ostacolate dai tribuni della plebe; andavano in guerra in ritardo, venivano richiamati prima del tempo per le elezioni; (15) talvolta proprio nel momento culminante scadeva l’anno; furono impediti o danneggiati dalla leggerezza o dalla malvagità del collega; dovevano continuare una campagna male iniziata da un altro;
ricevevano un esercito di novizi oppure abituato a una cattiva disciplina. (16)
Invece i re non solo sono liberi da ogni impedimento, ma sono padroni delle situazioni e del tempo, non vanno dietro alle circostanze, ma le trascinano dietro al loro
piano. (17) Invitto com’era, dunque, Alessandro avrebbe affrontato comandanti
pure invitti, e avrebbe gettato sulla bilancia le stesse garanzie di fortuna. (18) Anzi,
avrebbe corso pericoli maggiori, perché i Macedoni avrebbero avuto un solo Alessandro esposto a molti rischi e che anzi ad essi si offriva volontariamente, mentre i
Romani avrebbero avuto molti pari ad Alessandro per gloria e grandezza delle
imprese, di cui ognuno, a seconda del suo destino, avrebbe potuto vivere o morire
senza compromettere le sorti dello stato.
19 (1) Restano da confrontare le forze in campo, per numero e qualità dei soldati, e per l’entità delle forze ausiliarie. (2) Nei censimenti del tempo erano iscritti
duecentocinquantamila cittadini, e quindi anche nel caso di defezione degli alleati
latini la sola leva urbana consentiva di arruolare dieci legioni. (3) Spesso in quegli
anni c’erano contemporaneamente quattro o cinque eserciti che conducevano la
guerra in Etruria, in Umbria (dove si erano aggiunti come nemici i Galli), nel
Sannio, in Lucania. (4) In tutto il Lazio, coi Sabini, i Volsci, gli Equi, in tutta la
Campania, parte dell’Umbria e dell’Etruria, coi Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini
e gli Apuli, considerando anche tutto il litorale greco da Turi a Napoli a Cuma, e
di là fino ad Anzio o Ostia, Alessandro avrebbe trovato o validi alleati dei Romani
o nemici già debellati. (5) Lui da parte sua avrebbe passato il mare coi veterani
macedoni, non più di trentamila fanti e quattromila cavalieri, per lo più tessali:
questa era la sua forza, perché se invece avesse portato con sé anche i Persiani, gli
Indiani e gli altri popoli, ne avrebbe avuto più impaccio che aiuto.
(6) C’è da aggiungere che, mentre i Romani avrebbero avuto sottomano le riserve,
Alessandro, come poi Annibale, si sarebbe trovato a combattere in terra straniera
con un esercito soggetto a logorarsi. (7) Quanto alle armi, loro avevano scudo e
sarissa, cioè lancia, i Romani uno scudo più adatto a proteggere il corpo, e il giavellotto, proiettile più efficace della lancia. (8) Entrambi erano eserciti di posizione,
abituati a conservare il loro posto, ma la falange macedone era poco mobile e uniforme, mentre lo schieramento romano era più articolato, fatto di varie parti, facile
ad essere diviso e riunificato tutte le volte che fosse necessario. (9) Inoltre, quale
soldato eguaglia i Romani nelle opere di fortificazione? Chi è più capace di sopportare le fatiche? Perdendo una sola battaglia Alessandro avrebbe perso la guerra;
viceversa, chi avrebbe abbattuto la potenza romana che non fu abbattuta né da
Caudio né da Canne? (10) Se anche avesse ottenuto qualche successo all’inizio, si
sarebbe trovato a rimpiangere i Persiani, gli Indiani, l’Asia imbelle, e avrebbe riconosciuto di aver combattuto con delle donne, (11) come si racconta che disse
Alessandro re dell’Epiro, colpito da una ferita mortale, confrontando con le sue le
guerre combattute in Asia dal giovane Alessandro Magno.
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Ab urbe condita  Livio
(12) Quando ricordo che la prima guerra punica fu combattuta per ventiquattro
anni sul mare dai Romani contro i Cartaginesi, penso che l’intera vita di Alessandro
sarebbe stata appena sufficiente a portare a termine questa sola guerra. (13) E forse,
dal momento che Cartagine e Roma erano unite da un antico patto di alleanza, il
timore del nemico comune avrebbe armato insieme le due città potentissime per
armi e uomini, e Alessandro sarebbe stato distrutto da una guerra contemporanea
contro Cartagine e contro Roma. (14) I Romani sperimentarono il nemico macedone, sia pure non più guidato da Alessandro e quando l’impero macedone non
era più integro: combatterono contro Antioco, Filippo, Perseo non solo senza ricevere sconfitte, ma senza correre alcun pericolo. (15) Sia detto senza iattanza, e a
parte le guerre civili: nel conflitto con i cavalieri nemici, coi fanti, in campo aperto,
in battaglia a pari condizioni, e tanto meno in terreno a noi favorevole, non ci
siamo mai trovati in difficoltà. (16) La nostra fanteria pesante può temere i cavalieri
o gli arcieri, il terreno montuoso, le difficoltà di rifornimento, (17) ma mille eserciti più forti di quello macedone e di Alessandro li respinge e li respingerà sempre,
purché duri eternamente l’amore di pace e la concordia tra cittadini in cui ora
viviamo.
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Ab urbe condita  Livio
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Ab urbe condita XXII, 53-54
Audendum atque regendum
Livio descrive il coraggio dei Romani, anche nella sconfitta di Canne: la saldezza morale del popolo
fu decisiva nelle circostanze. Livio tende a enfatizzarla, ma si trattò comunque di una reale presa di
coscienza del senso della patria, che, cementatosi in questo periodo, resterà uno dei capisaldi
dell’ideologia romana.
53 (1) Poiché sul posto si trovavano quattro tribuni militari – per la prima legione
Quinto Fabio Massimo, il figlio del dittatore dell’anno precedente; (2) per la
seconda Lucio Publicio Bibulo e Publio Cornelio Scipione; per la terza Appio
Claudio Pulcro, che recentemente era stato edile – (3) il comando supremo fu
assegnato all’unanimità a Publio Scipione (ancora giovanissimo) e ad Appio Claudio. (4) Ad essi, nel corso di una consultazione indetta tra pochi sulla situazione
dello stato, Publio Furio Filo, figlio di un ex console, dichiarò che nutrivano inutilmente una speranza impossibile; lo stato si trovava in una condizione deplorevole
e disperata; (5) alcuni giovani nobili, a capo dei quali era Lucio Cecilio Metello,
guardavano al mare e alle navi per abbandonare l’Italia e rifugiarsi presso qualche
re. (6) Questo rischio, oltre che atroce inusitato, pur dopo tanti disastri, paralizzò
e agghiacciò i presenti, che espressero l’opinione di convocare su questo punto il
consiglio di guerra; ma il giovane Scipione, comandante designato dal fato per
questa guerra, dice che non è argomento da consiglio: in una simile situazione si
doveva osare e agire, non consultarsi. (7) Quelli che volevano salvo lo stato, prendessero le armi e andassero con lui. (8) Nessun accampamento appartiene più
autenticamente al nemico di uno in cui si fanno questi progetti. (9) Seguito da
pochi, si precipita nell’alloggio di Metello e, trovando qui radunati i giovani di cui
gli era stato riferito, sguainò la spada sulle loro teste mentre discutevano e disse:
(10) “In fede mia, come è vero che non abbandonerò lo stato romano e non permetterò che nessun altro cittadino romano lo abbandoni, (11) se manco scientemente al mio giuramento ti prego, Giove Ottimo Massimo, di colpire di mala
morte me, la mia casa, la mia famiglia, le mie sostanze. (12) A te, Lucio Cecilio, e
a tutti voi qui presenti, chiedo che giuriate su queste parole; chi non giurerà, sappia
che questa spada è sguainata contro di lui”. (13) Tutti quanti giurano, non meno
atterriti che se vedessero davanti a sé il vincitore Annibale, e si mettono sotto la
sorveglianza di Scipione.
54 (1) Mentre questi fatti accadevano a Canosa, a Venosa giunsero presso il
console Varrone circa quattromilacinquecento tra fanti e cavalieri, che si erano dati
alla fuga attraverso le campagne. (2) I Venosini li distribuirono tra tutte le famiglie
perché fossero accolti con benevolenza e curati, e diedero a ogni cavaliere una toga
e una tunica e venticinque quadrigati, a ogni fante dieci quadrigati, oltre alle armi
per coloro che non ne avevano. (3) Fu curata ogni altra forma di ospitalità pubblica
e privata, facendo a gara perché il popolo di Venosa non fosse vinto in sollecitudine
dalla donna di Canosa. (4) Ma il gran numero rendeva troppo oneroso l’aggravio
per Busa, perché già si trattava di circa diecimila uomini. (5) Appio e Scipione,
appena saputo che uno dei due consoli era sano e salvo, mandarono subito a informarlo di quante truppe di fanteria e cavalleria si trovavano con loro, e a chiedergli
se ordinava che l’esercito fosse condotto a Venosa o restasse a Canosa. (6) Varrone
invece spostò a Canosa le sue truppe, e c’era dunque una qualche apparenza di
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esercito consolare: sembravano in grado di difendersi dal nemico sicuramente con
le mura, se non con le armi.
(7) A Roma non era stato annunciato che fossero nemmeno sopravvissuti questi
resti di cittadini e alleati, ma si credeva che l’esercito fosse stato massacrato col
massacro dei suoi capi, e che le truppe fossero state completamente sterminate. (8)
Mai con la città salva ci fu tanto terrore e tumulto dentro le mura di Roma. Io mi
dichiaro inferiore al mio compito, e non cercherò di raccontare quello che raccontato risulterebbe troppo inferiore al vero. (9) Dopo che l’anno precedente al Trasimeno si era perduto un esercito e un console, ora si annunciava non un’altra
ferita, ma una strage molteplice: perduti due eserciti consolari assieme a due consoli; non c’era più un campo romano né un comandante né un soldato. (10) L’Apulia, il Sannio e ormai quasi tutta l’Italia appartenevano ad Annibale. Ogni altro
popolo sarebbe stato schiacciato da un così enorme disastro. (11) Si può confrontare con questa la sconfitta dei Cartaginesi nella battaglia navale delle isole Egadi,
per cui furono costretti a ritirarsi dalla Sicilia e dalla Sardegna, e accettare di diventare tributari e sudditi; oppure la sconfitta che il medesimo Annibale ricevette poi
in Africa: ma non sono confrontabili se non per il fatto che furono sopportate con
minor forza d’animo.
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Ab urbe condita  Livio
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Ab urbe condita XXX, 15
Ne viva in potestatem Romanorum veniat
Richiamato ai suoi doveri da Scipione, Massinissa è costretto a un gesto estremo per mantenere la
promessa fatta a Sofonisba, di non consegnarla ai Romani. Livio descrive la vicenda in una suggestiva sequenza: prima i sospiri di Massinissa, poi l’altero coraggio della donna di fronte alla morte.
15 (1) A sentire queste parole, Massinissa non solo arrossì, ma gli spuntarono le
lacrime; dopo essersi dichiarato a disposizione del comandante e averlo pregato di
lasciarlo provvedere, per quanto le circostanze lo permettevano, (2) alla parola
imprudentemente data a Sofonisba di non consegnarla a nessuno, si ritirò, mortificato, dal quartiere generale nella sua tenda. (3) Allontanò i testimoni e, dopo
qualche tempo passato in frequenti sospiri e gemiti che si sentivano tutt’intorno
alla tenda, (4) alla fine mandò un gemito profondo e mandò a chiamare un suo
schiavo fedele che aveva in custodia, secondo il costume dei re, il veleno per le
evenienze dubbie, lo sciolse in una coppa e ordinò di portarlo a Sofonisba, (5)
mandandole a dire che Massinissa ben volentieri avrebbe mantenuto la prima sua
promessa, quella dovuta da un marito alla moglie; poiché ciò gli era tolto da chi
aveva il potere di farlo, manteneva la seconda, che non sarebbe caduta in mano dei
Romani. (6) Provvedesse lei stessa, ricordandosi di suo padre comandante, della
patria, dei due re che aveva sposato. Appena il servo ebbe dato a Sofonisba il messaggio e il veleno, lei disse: (7) “Accetto volentieri il dono nuziale che non mi è
sgradito, se il marito non può dare alla moglie niente di meglio. Digli però che sarei
morta meglio se non mi fossi sposata il giorno stesso della mia morte”. (8) Le parole
non furono più fiere del gesto con cui prese la coppa, e impavida, senza dare nessun
segno di turbamento, la bevve d’un colpo.
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Odi  Orazio
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Odi I, 9
Vides ut alta stet nive
Il nome greco del destinatario Taliarco (“re del banchetto”) è senz’altro fittizio e da “nome parlante” corrisponde alla funzione che il personaggio deve svolgere nella scena descritta, secondo
un procedimento già praticato dalla lirica greca e latina. Il carme si apre con un quadro invernale
localizzato a Roma, ma utilizzando uno spunto del poeta greco Alceo. Non sappiamo se anche nel
carme di Alceo vi fosse uno sviluppo simile, ma probabilmente Orazio adotta la tecnica del cosiddetto motto iniziale: prende cioè spunto da un passo del poeta greco per poi far seguire uno sviluppo del tutto autonomo. Nel procedere dinamico del carme si passa dal quadro dell’inverno,
portatore di freddo nel paesaggio e negli animi, alla scena del gioco d’amore finale.
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Vedi come si innalza bianco di neve
il Soratte, e gli alberi sofferenti non reggono
più il peso e si rapprendono i fiumi
per il gelo acuto. Dissolvi
il freddo, mettendo legna sul fuoco
con larghezza, e versa generosamente
vino di quattro anni dall’anfora
sabina, Taliarco. Il resto lascialo
agli dei che, appena placano
i venti in lotta sul mare
in burrasca, ecco che non si muovono
più i cipressi e i vecchi ontani.
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Non chiederti cosa sarà domani,
e tutti i giorni che la sorte ti darà segnali
tra gli utili, e non disprezzare, ragazzo,
i dolci amori e le danze,
finché ti è ancora lontana
la vecchiaia fastidiosa. Adesso frequenta
il Campo Marzio, le piazze e i lievi
sussurri la sera all’appuntamento,
e il riso agognato della tua ragazza
che viene dall’angolo più segreto a tradirla,
e il pegno strappato al braccio
e al dito che appena resiste.
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Odi  Orazio
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Odi I, 11
Carpe diem
Questa breve famosissima ode è dedicata a una fanciulla, Leuconoe, il cui nome evoca il candore
dell’animo e quindi l’ingenuità. Il saggio epicureo Orazio le consiglia al solito di cogliere l’attimo
fuggente, anzi strapparlo (questo il significato proprio di carpere) allo scorrere del tempo, e non
curarsi di ciò che potrà essere il domani.
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Non chiedere, non è concesso saperlo, Leuconoe,
il destino che a me e a te hanno dato gli dei;
non consultare i calcoli dei Caldei: quant’è meglio accettare
ciò che sarà, sia che Giove ci abbia assegnato molti inverni,
o per ultimo questo che logora il mare Tirreno contro gli scogli;
sii saggia, filtra il vino e tronca nel breve spazio le troppo lunghe speranze;
mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso:
cogli l’attimo e affidati meno che puoi al domani.
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Odi  Orazio
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Odi I, 37
Nunc est bibendum
L’inizio ha l’andamento di una reazione emotiva di fronte all’annuncio appena arrivato del suicidio
di Cleopatra, poi l’ode prende un andamento più solenne con l’immagine di Ottaviano che piomba
come uno sparviero sui nemici e col suicidio della regina, che preferisce la morte piuttosto che
ornare come prigioniera il carro del trionfatore. I due toni diversi si avvalgono di due modelli diversi:
all’inizio i versi di Alceo che festeggiano la morte del tiranno Mirsilo, poi probabili echi di Pindaro.
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Adesso bisogna bere, bisogna battere
la terra con libero piede, adesso è il momento
di ornare gli altari divini
con banchetti degni dei Salii.
Non era lecito prima togliere il Cecubo
dalle cantine dei padri, quando la regina
meditava al Campidoglio una folle
rovina e all’impero la fine
con il suo gregge di uomini
svergognati e sfregiati,
senza limite nelle speranze,
ubriaca di dolce fortuna. Ma la sua pazzia
la guarì l’unica nave scampata a stento alle fiamme,
e la mente sconvolta dal Mareotico
Cesare la riportò alla terribile
realtà, incalzandola nella sua fuga
dall’Italia coi remi, come lo sparviero
insegue le timide colombe o il cacciatore
una lepre sui campi nevosi
della Tessaglia, per mettere il mostro fatale
in catene. Però lei nobilmente
cercò la morte, e della spada non ebbe
la paura che hanno le donne, e non riparò
con la flotta su spiagge nascoste;
con volto sereno osò guardare
la reggia distrutta e tenere in mano
i serpenti feroci e accogliere nel suo corpo
il nero veleno, più fiera
per avere deciso la morte,
così da togliere alle navi crudeli
di portarla da privata, lei, donna
non umile, nel superbo trionfo.
3
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Odi  Orazio
30
Odi II, 14
Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni
Una delle più celebri odi oraziane riprende con struggente angoscia il senso dello scorrere del tempo.
In questa, più che altrove, il senso del piacere è sovrastato dall’idea di onnipotenza della morte, fine
ineluttabile e imminente di ogni possibile gioia. Il motivo risale alla lirica greca arcaica, in particolare
ad Alceo, il quale in un frammento contrappone le gioie del simposio all’ineluttabilità della morte. Il
destinatario Postumo potrebbe essere lo stesso a cui è dedicata l’elegia di Properzio III, 12.
1
Ahimè, Postumo, gli anni scorrono, fuggono;
non c’è religione che possa fermare le rughe,
la vecchiaia incalzante,
la morte indomabile;
5
neanche se cercassi, amico mio, con trecento tori,
ad ogni giorno che passa, di propiziarti
lo spietato Plutone, che avvolge
nelle lugubri acque Gerione
10
e Tizio, quell’onda che noi, tutti quanti
mangiamo i frutti della terra, dobbiamo
navigare, che si sia re o poverissimi
contadini. Ci sarà inutile
15
evitare la guerra sanguinosa, i frangenti
del rabbioso Mare Adriatico,
difendersi a ogni autunno
dallo scirocco che ci fiacca le ossa.
20
Dovremo vedere il buio Cocito
e le sue pigre volute, le figlie infami
di Danao e Sisifo,
condannato a una lunga fatica.
Dovremo lasciare la terra e la casa
e la moglie amata, e nessuno degli alberi che tu coltivi
seguirà il suo padrone di un giorno,
tranne il cipresso odioso.
25
Più saggio di te, il tuo erede berrà il Cecubo,
chiuso con cento chiavi,
e inonderà il pavimento del vino schietto, superbo,
superiore alle cene dei pontefici.
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Odi  Orazio
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Odi III, 1
Odi profanum volgus et arceo
È la prima delle sei “odi romane” poste all’inizio del III libro. Il loro contenuto è civile e morale e
sono concepite da Orazio come la illustrazione dei fondamenti del nuovo stato romano, dei valori
su cui doveva poggiare. Il proemio solenne, in cui Orazio si presenta come sacerdote delle Muse
nell’atto di officiare un rito dal quale sono esclusi i profani, si accorda al livello eccezionale di questa lirica, che comporta una celebrazione del regime di Augusto. In passato molti interpreti hanno
colto in queste liriche il vertice della produzione di Orazio, ora si tende invece a mettere in rilievo
la freddezza, solo di rado superata dalla vivacità della rappresentazione. Il tema specifico, l’uguaglianza di tutti di fronte a Giove, si innesta su una serie di scene assai comuni nella poesia di Orazio
con la contrapposizione della sana vita di campagna alla convulsa vita della città.
1
Odio il volgo profano e lo tengo a distanza.
Fate silenzio; per i ragazzi e le vergini,
da sacerdote delle Muse, io canto
canti mai prima uditi.
5
Se i re terribili hanno potere sul proprio gregge,
sopra i re sta il potere di Giove,
che, illustre per avere sconfitto i giganti,
muove il mondo col suo sopracciglio.
10
È possibile che un uomo ordini
in più file i suoi alberi, che scenda in campo
un candidato più nobile, oppure migliore
per costumi e per reputazione,
15
che un altro ancora abbia più folla
di clienti; con legge equa la Necessità
sorteggia i grandi e gli infimi:
un’urna capace scuote il nome di tutti.
20
A chi pende sulla testa empia
una spada sguainata, non danno gusto
i banchetti siciliani, e non gli conciliano il sonno
il canto degli uccelli e la cetra.
Invece il dolce sonno non evita
le case umili dei contadini,
la riva ombrosa, la valle
agitata dallo Zefiro. E chi desidera
25
ciò che gli basta, neanche il mare in tempesta
lo angoscia, neanche la furia
di Arturo al tramonto, o del Capretto
quando sorge o le vigne
30
percosse dalla grandinata, o il podere
ingannevole, con le piante che accusano
ora le acque, ora le stelle che bruciano
i campi, ora l’inverno spietato.
5
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Odi  Orazio
35
I pesci sentono restringersi il mare
per le fondamenta gettate al largo;
le colmano l’architetto zelante coi suoi accoliti
e il padrone che si è stancato
40
della terra; ma timore e minacce
vanno dove va il padrone, e il nero
affanno non lascia la trireme di bronzo,
e quando cavalca siede alle sue spalle.
Ma se il marmo di Frigia e la porpora
più luminosa delle stelle, o la vite
falerna e il profumo persiano non vale
ad alleviare il dolore, perché dovrei
45
erigere un atrio alla moda,
con stipiti da fare invidia?
Perché cambiare con più laboriose
ricchezze la mia valle sabina?
6
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Odi  Orazio
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Odi III, 9
Donec gratus eram tibi
Un frammento di Saffo e alcuni epigrammi ellenistici ci presentano un dialogo d’amore, per cui non
è difficile supporre che la lirica o l’elegia ellenistica ne comprendessero diversi. Il delizioso duetto
di Orazio propone due antichi amanti che nel corso del carme ritrovano il loro amore. Il passaggio
da un amore all’altro è facile nella lirica oraziana, dove raramente la passione è profonda: d’altronde una dichiarazione appassionata come quella contenuta nell’ultimo verso non poteva riflettere una dimensione autobiografica di Orazio.
1
Finché ti piacevo e nessun altro
preferivi che ti cingesse con le sue braccia
il candido collo, vivevo
più felice del re dei Persiani.
5
“Finché non ti sei innamorato di un’altra,
e Lidia non veniva dopo di Cloe,
io, Lidia, avevo grande fama e vivevo
più gloriosa di Ilia, eroina romana”.
10
Ora Cloe mi ha in suo possesso,
esperta di cetra e di dolci armonie; per lei
non avrei paura di morire,
se il destino risparmia dopo di me il mio amore.
15
“Mi infiamma di amore reciproco
Calais figlio di Ornito di Turi; per lui
due volte accetterei di morire,
se il destino risparmia dopo di me il mio ragazzo”.
20
Ma se il vecchio amore tornasse,
riportandoci sotto il suo giogo di bronzo,
se viene mandata via la bionda Cloe
e si riapre di nuovo la porta a Lidia abbandonata?
“Per quanto lui sia bello come una stella,
e tu più leggero del sughero,
più collerico del mare in burrasca,
con te vorrei vivere, con te morire”.
7
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Odi  Orazio
49
Odi III, 30
Exegi monumentum aere perennius
La solenne orgogliosa dichiarazione di gloria eterna è posta alla fine della raccolta dei primi tre libri
pubblicati nel 23. La dichiarazione è sostenuta dalle remiscenze di due grandi lirici greci, Simonide
e Pindaro, di cui sono riecheggiati alcuni versi. Era comunque d’uso che nell’ultimo componimento
di una raccolta lirica il poeta apponesse una sphragís (sigillo), col quale dichiarava il suo nome e
forniva indicazioni e notizie su di sé. Qui è accennata la patria di Orazio, ed egli si presenta come il
primo ad aver riprodotto in Italia i carmi dei poeti eolici (Alceo e Saffo). L’affermazione lascia perplessi, perché sappiamo che anche Catullo, e prima di lui i preneoterici, avevano imitato Saffo a più
riprese. Evidentemente Orazio trascura Catullo, in quanto valuta il suo rapporto con i modelli eolici
casuale e non programmatico, ma non bisogna dimenticare che quello di proclamarsi il primo ad
aver praticato un certo genere letterario era un luogo comune. Scritta nello stesso metro del carme
I, 1, quest’ode ne costituisce il vero e proprio contrappunto: i toni esitanti e modesti dell’ode proemiale sono sostituiti da affermazioni orgogliose, le richieste d’aiuto alle Muse da esortazioni a
Melpomene perché gioisca del risultato.
1
Ho costruito un monumento più eterno del bronzo,
più alto della mole regale delle Piramidi,
che non potranno abbattere piogge mordenti,
o venti sfrenati, o l’innumerevole serie
5
degli anni, la fuga del tempo.
Non morrò interamente, e molta parte
di me sfuggirà a Libitina, e in futuro
crescerò sempre, rinnovandosi la mia gloria, finché il pontefice
salirà il Campidoglio con la vergine tacita.
10
Si dirà, dove strepita
l’Ofanto violento,
dove sui popoli rustici
regnò Dauno, povero d’acqua,
15
che, nato umile e diventato potente, per primo ho portato
in Italia la lirica greca. Tu assumi, Melpomene,
la superbia dovuta al merito, e incoronami
benignamente con l’alloro di Delfi.
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Odi  Orazio
52
Odi IV, 7
Pulvis et umbra sumus
Lo sviluppo del ragionamento è lo stesso di I, 4: torna la primavera, se ne va l’inverno e il fuggire
delle stagioni ricorda il fuggire della nostra vita; bisogna perciò cogliere l’attimo e godere del presente. Tuttavia in questa splendida ode, i cui accenti si possono definire leopardiani, la forma classica è più raffinata, senza alcuna indulgenza per immagini e particolari di contorno, che precisino
l’arrivo della primavera. Non solo, ma l’età di Orazio ha accentuato il suo pessimismo che culmina
nell’affermazione nichilista pulvis et umbra sumus.
1
La neve è scomparsa, ritorna l’erba
sui prati, le foglie sugli alberi;
si rinnova la terra e i fiumi scorrono
smagrandosi in mezzo alle rive;
5
si affaccia la Grazia a guidare nuda
le danze con le sorelle e le ninfe.
Non sperare nell’immortalità: te lo dice l’anno,
e l’ora che porta via il giorno fecondo.
10
Lo Zefiro mitiga il freddo, l’estate
travolge la primavera e morrà a sua volta,
quando l’autunno produce i frutti e le messi,
poi presto ritorna l’inverno inerte.
15
Però la luna ripara alla svelta i danni
del cielo; noi invece, quando siamo caduti
dove sono il padre Enea, Anco e Tullo,
noi siamo polvere e ombra.
20
E chi sa mai se gli dei vorranno aggiungere
un domani alla somma degli oggi?
Ma sfuggirà alle mani avide del tuo erede
ciò che darai a te stesso con animo amico.
Quando sarai morto, Torquato, e su te Minosse
pronuncerà una chiara sentenza, non varranno
a riportarti in vita la fede,
la nobiltà, l’eloquenza. Non libera
25
mai Diana il puro Ippolito
dalle tenebre infernali, né Teseo
riesce per il suo Piritoo a spezzare
le catene del Lete.
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Satire  Orazio
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Satire II, 5
Captes astutus ubique testamenta senum
Si tratta di un componimento singolare all’interno della raccolta: questa volta il dialogo è tra due
personaggi omerici, Ulisse e l’indovino Tiresia, l’ambiente nientemeno che l’oltretomba. Questo
comporta non solo uno stretto rapporto col testo omerico (il dialogo si presenta come una continuazione di quello tra gli stessi personaggi narrato nel libro XI dell’Odissea), ma anche l’assunzione
dei caratteri della cosiddetta satira Menippea. Era questo un genere ellenistico che prendeva nome
da Menippo di Gadara (III secolo a.C.), misto di prosa e poesia, in cui personaggi degradati svolgevano temi moralistici o critica di costume, rovesciando la loro rappresentazione abituale. C’era
quindi compiacimento a rappresentare eroi famosi, o addirittura divinità, nei loro desideri o difetti
più bassi. Preferite erano le scene che si svolgevano nell’oltretomba, dove i grandi uomini si trovavano simili a quelli dappoco. Col suo discorso utilitaristico-paradossale, Tiresia prende di mira una
pratica molto diffusa a Roma, quella dell’heredipeta, ossia di seguire e corteggiare un vecchietto
ricco per impadronirsi della sua eredità.
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“Aggiungi una risposta a quest’altra mia domanda, Tiresia:
in che modo e con che arti posso recuperare
le sostanze perdute. Perché ridi?”. “Dunque non basta
all’eroe astutissimo tornare ad Itaca
e rivedere i Penati?”. “O tu che non menti mai a nessuno,
vedi bene che torno nudo e povero a casa, secondo
i tuoi stessi responsi, e là non trovo bestiame o dispensa
intatta dai Proci, e senza sostanze non contano niente nobiltà e valore”.
“Insomma giacché, chiaro e tondo, è la povertà a preoccuparti,
ascolta in che modo puoi arricchire. Se ricevi in regalo
un tordo o un’altra specialità, deve subito
volare dove splende un gran patrimonio, proprietà di un vecchio.
I frutti e gli altri prodotti del tuo podere
li gusti prima del Lare il ricco, che è più venerando.
Anche se è spergiuro, di stirpe ignobile, sporco
di sangue paterno, schiavo fuggiasco, a lui non devi
rifiutare di fargli da accolito, se te lo chiede”.
“Io reggere lo strascico all’immondo Dama? Non in questo modo
mi comportai a Troia, lottando coi migliori, sempre”.
“E allora resterai povero”. “Comanderò al mio forte cuore
di sopportare: ho sofferto anche di peggio. Ma tu dimmi subito,
augure, come posso ammassare denaro”.
“Te l’ho detto e te lo ripeto: va’ a caccia, ovunque,
di testamenti di vecchi, e se uno o due furbi
mangeranno la foglia e si sottrarranno alle insidie,
non devi disperare, né abbandonare per una
delusione l’arte. Se in Foro si tratta una causa, piccola o grande,
sarai difensore di quello dei due che è ricco e senza figli,
non importa se ha torto e ha la faccia di chiamare in giudizio
uno molto migliore di lui; disprezza quello che ha fama e ragioni migliori,
se ha casa ha un figlio, o una moglie feconda.
Dirai: ‘Quinto’, o ‘Publio’ – perché queste orecchie sensibili
godono d’essere chiamate per nome – la tua virtù mi ti ha reso amico.
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Satire  Orazio
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Conosco le ambiguità del diritto, e sono in grado di sostenere una causa;
mi strapperà prima gli occhi l’uomo, chiunque sia,
che si azzardi a tenerti in spregio e a toglierti anche uno spillo:
è affar mio che tu non perda la causa e non sia deriso.
Digli di andare a casa e pensare alla salute, diventa tu stesso
suo delegato, e tieni duro, sia che la rossa canicola spacchi
le statue mute, sia che, tendendo il pingue ventre,
Furio sputi la bianca neve sulle Alpi in inverno.
‘Non vedi’, dirà qualcuno dando di gomito al suo vicino,
‘com’è paziente, acuto, servizievole con gli amici?’.
Altri pesci abboccano, e l’acquario cresce.
Se poi c’è qualche figlio, malfermo in salute,
di famiglia illustre, per non scoprirti
nel tuo corteggiamento dei celibi, insinuati piano piano
con la tua cortesia in modo da essere nominato secondo
erede, e se qualche disgrazia manda all’altro mondo il ragazzo,
tu prendi il posto vuoto. Di rado il colpo fallisce.
Se qualcuno ti dà il testamento da leggere,
ricordati di rifiutare e scostare la tavoletta,
non prima di avere sbirciato che dice il secondo rigo
della prima pagina – scorri rapidamente con l’occhio
se sei il solo o se siete in molti eredi. Talvolta succede
che un ex-quinqueviro riciclato come scriba lasci il corvo a bocca aperta,
e Nasica uccellatore sia lui a far ridere
Corano”. “Sei matto? O lo fai apposta a prendermi in giro con questi oracoli
oscuri?”. “Figlio di Laerte, tutto quello che dico è destinato
a succedere o non succedere, perché il grande Apollo mi ha dato in dono la divinazione”.
“E allora, se puoi, rivelami cosa significa questa faccenda”.
“Al tempo che un giovane principe, terrore dei Parti, disceso
dal grande Enea, sarà grande per terra e per mare,
andrà sposa al forte Corano l’alta figliola
65 di Nasica, che ha sempre paura di saldare i debiti.
Allora il genero farà così: darà al suocero le tavolette
e lo pregherà di leggere; Nasica dopo essersi molto
schermito le prenderà e leggerà in silenzio,
e troverà che a sé e alla sua famiglia restano come legato
70 gli occhi per piangere. Inoltre consiglio che, se per caso una donna
furba o un liberto governano un vecchio insano,
diventi loro complice; lodali e sarai lodato da loro anche
in assenza: anche questo aiuta, ma è molto meglio
conquistare subito il bersaglio grosso. Ha la mania di scrivere pessimi
75 versi? E tu lodalo. È un puttaniere? Non deve neanche
chiedere: devi essere tu il primo a offrire al tuo capo Penelope”.
“E credi che una donna così pudica e perbene,
che neanche i Proci riuscirono a smuovere dalla retta via,
si lascerà persuadere?”. “Il fatto è che quei giovani vennero
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Satire  Orazio
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parsimoniosi di doni, mirando alla gastronomia più che a Venere.
Per questo Penelope è onesta; ma se una volta
gusterà il dono di un vecchio, spartendolo con te, in seguito
non si potrà più tenerla lontana, così come il cane dal cuoio grasso.
Quando io ero già vecchio è successo che a Tebe una vecchia
astuta fu seppellita, in applicazione del suo testamento,
così: il cadavere unto d’olio lo portò l’erede
a spalla, per vedere se da morta poteva sfuggirgli,
dal momento che in vita le era stato sempre addosso.
Accostati con prudenza: non mancare al servizio, ma non strafare.
Una persona difficile e scontrosa si infastidirà per le troppe chiacchiere:
di’ solo ‘sì’ e ‘no’, per il resto fa’ come lo schiavo
della commedia, e sta a capo chino fingendo paura.
Attacca con gli omaggi; se c’è vento forte,
ricordagli di proteggere la sua cara testa, tiralo fuori
dalla folla coprendolo con le tue spalle, e quando ha voglia
di parlare porgi l’orecchio. Se è presuntuoso e gli piacciono
le lodi, tu insisti finché dirà basta,
alzando le mani; gonfialo a forza di parole gonfie.
Quando ti avrà liberato dal servizio e dalle preoccupazioni,
e sentirai dire a occhi aperti ‘Nomino Ulisse erede di un quarto’,
andrai in giro dicendo: ‘Dov’è il mio amico Dama?
Dove troverò un uomo così forte e leale?’.
Se riesci a piangere un poco, è sempre utile
per nascondere il volto che sprizza gioia. La tomba,
se è lasciata alla tua decisione, costruiscila senza risparmio;
il funerale, ben fatto, abbia gli elogi del vicinato.
Se uno degli eredi è anziano e ha una brutta tosse,
digli che se desidera acquistare una casa o un podere
della tua parte, sarai lieto di dargliela per una lira.
Ma Proserpina mi tira via imperiosamente: addio, e stammi bene”.
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Epistole  Orazio
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Epistole I, 4
Epicuri de grege porcus
L’epistola è rivolta al poeta Albio Tibullo, che sta cercando ispirazione nel suo ritiro in campagna.
L’affettuosa missiva si volge comunque alla solita esortazione a godere dell’attimo fuggente e
termina con un aprosdóketon, un’affermazione inattesa, che esalta il tono confidenziale della lettera.
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Albio, giudice spassionato delle mie Satire,
cosa devo pensare che fai dalle parti di Pedo?
Scrivi opere in grado di vincere quelle di Cassio da Parma,
o ti aggiri in silenzio tra i boschi salubri
con pensieri degni di un uomo onesto e saggio?
Non sei mai stato un corpo senz’anima: gli dei ti hanno dato
la bellezza, la ricchezza, la capacità di goderla.
Che cosa di meglio potrebbe chiedere per il suo pupillo la cara
nutrice, che sia saggio e sappia esprimere le proprie idee,
che abbia in abbondanza amicizie, buon nome, salute,
vita comoda e un portafoglio fornito?
Tra speranze, preoccupazioni, paure e collere,
devi credere che ogni tuo giorno sia l’ultimo:
verrà più piacevole l’ora in cui non speri.
E quando vorrai ridere vieni a trovarmi, grasso e florido,
la pelle ben curata, un porco epicureo.
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Amores  Ovidio
1
Amores I, 1
“Quis tibi, saeve puer, dedit hoc in carmina iuris?”
L’inizio della raccolta è un componimento programmatico nel quale, riprendendo allusivamente la
prima parola dell’Eneide (arma), Ovidio se ne distacca subito illustrando la sua scelta diversa. Lo
svolgimento è sulla falsariga di quello tradizionale: un dio sopraggiunge ad ammonire il poeta e a
distoglierlo dai generi più alti, che non si adattano al suo spirito. Allora, ubbidendo al dio, il poeta
si mette a scrivere versi d’amore. Tutto il gioco appare scontato: probabilmente non era stata rivolta
a Ovidio nessuna richiesta specifica di comporre un poema epico, ma egli deve rispettare la tradizione dei poeti elegiaci, che opponevano un garbato rifiuto (recusatio) a chi richiedeva una poesia
di carattere più ufficiale. Ovidio riduce tutto a uno scherzo: come altri temi dell’elegia, anche il
proemio, la scelta della poetica si avvicina molto alla parodia dei poeti precedenti.
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Mi preparavo a narrare in un metro solenne
le armi e le guerre violente, argomento adatto al ritmo;
il verso di sotto era uguale al primo,
ma si dice che Amore rise e gli tolse un piede.
“Chi ti ha dato diritti sui versi, ragazzo insolente?
I poeti appartengono alle Muse, non sono
il tuo codazzo. E se Venere allora strappasse le armi alla bionda Minerva,
e la bionda Minerva a sua volta agitasse le fiaccole?
Chi approverebbe che Cerere regni sui boschi selvosi,
e i campi si coltivino con la legge della vergine arciera?
Chi armerebbe di punte aguzze Febo dai bei capelli,
mentre Marte suona la lira beotica?
Tu hai molto, ragazzo, un regno anche troppo potente:
perché aspiri ambiziosamente a una nuova impresa?
Forse il tuo è ovunque? È tua la valle dell’Elicona?
E a stento ormai Febo mantiene la sua cetra?
Quando la pagina nuova si è ben elevata sul primo verso,
il successivo allenta la mia ispirazione,
e non ho materia adatta ai ritmi più blandi,
né ragazzo, né ragazza coi capelli lunghi e ben pettinati”.
Dopo il mio lamento, subito quello aprì la faretra,
scelse frecce adatte per la mia rovina,
piegò con forza su un suo ginocchio l’arco ricurvo,
e disse: “Prendi, poeta, quello che devi cantare!”.
Povero me; il ragazzo aveva frecce infallibili:
brucio, e Amore regna nel mio petto vuoto.
Il mio canto s’innalzi su sei piedi, e si riabbassi
poi su cinque; addio, ferree guerre, coi vostri ritmi!
Cingi le tempie bionde col mirto del lido,
Musa, che devo esprimere in undici piedi.
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Amores  Ovidio
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Amores I, 9
Militat omnis amans
È illustrata la militia amoris, ossia il comportamento dell’amante che ubbidisce alla sua donna
come un soldato. Il tema è proprio dell’elegia romana ed è uno di quei casi in cui un’istituzione
importante dello stato (l’esercito), intoccabile nella tradizione romana, viene stravolta parodicamente per illustrare il valore dell’amore. Il nuovo soldato è dunque l’amante e, come un soldato, si
piega a ogni sacrificio fino a quello supremo della vita per la sua donna-padrona. Ma il tono leggero
non calca la mano sull’impegno gravoso, quanto sul ridicolo dell’istituzione presa di mira.
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Ogni amante è un soldato, Amore ha i suoi accampamenti,
credimi, Attico, ogni amante è un soldato.
L’età adatta alla guerra è la stessa all’amore:
è indecoroso un vecchio soldato come un amore senile.
Gli anni che i comandanti chiedono a un forte soldato,
li richiede al suo uomo una bella ragazza.
Ambedue vegliano e ambedue riposano sulla terra,
l’uno sorveglia la porta dell’amata, l’altro del capo;
al soldato toccano i lunghi viaggi, ma se parte l’amata
l’amante la seguirà con coraggio e senza limiti;
attraverserà i monti e i fiumi ingrossati
dalla tempesta, calpesterà mucchi di neve.
Prendendo il mare, non prenderà a pretesto i venti torbidi,
non richiederà stelle favorevoli a solcare le acque.
Chi, tranne un soldato o un amante, sopporterà il freddo
della notte, e la neve mista alla fitta pioggia?
Se l’uno è mandato a spiare il nemico,
l’altro tiene gli occhi sul rivale come un nemico.
Uno assedia le grandi città, l’altro la soglia
dell’amante inflessibile, l’uno spezza le torri, l’altro i battenti.
Spesso è servito assalire i nemici nel sonno,
e uccidere masse inermi a mano armata.
Così caddero le feroci schiere del tracio Reso,
e voi, cavalli, catturati, lasciaste il vostro padrone,
così spesso gli amanti approfittano del sonno dei mariti
e, mentre il nemico dorme, usano le loro armi.
Superare le sentinelle e le pattuglie di guardia
è compito perpetuo del soldato e del povero amante.
È dubbio Marte e incerta Venere, i vinti risorgono
e quelli che penseresti non possono cadere, cadono.
Smetta dunque chi mette l’amore tra gli ozi;
l’amore è proprio di un ingegno intraprendente.
Achille brucia, affranto, per Briseide che gli hanno rapita:
finché potete, spezzate, Troiani, le forze greche.
Ettore dall’abbraccio di Andromaca andava in battaglia,
ed era la moglie a mettergli l’elmo sul capo.
Si dice che il capo supremo, il figlio di Atreo, restò attonito
a vedere la figlia di Priamo coi capelli sciolti, da Menade.
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Amores  Ovidio
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E Marte, colto sul fatto, provò le catene del fabbro:
non c’è storia più nota di questa in cielo.
Io stesso ero pigro, nato per gli ozi sciatti;
il letto e l’ombra avevano rammollito il mio animo;
ma l’amore di una bella donna mi ha spinto, ignavo com’ero,
a prestare servizio nel suo accampamento.
Per questo mi vedi svelto e capace di ingaggiare battaglie
notturne. Ami chi non vuol essere pigro!
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Ars amandi  Ovidio
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Ars amandi I, 1-40
Arte regendus amor
Nel proemio dell’opera il poeta si presenta come maestro d’amore. Il poemetto si colloca nella
tradizione del poema didascalico: perciò Ovidio si contrappone ai predecessori nel suo genere che
si erano dichiarati ispirati da qualche dio. Il nuovo poema trasmette insegnamenti che sono dettati
dall’esperienza. Poiché il poeta è un grande esperto d’amore, qui si fa maestro, un maestro più
attendibile e veritiero di quelli che lo hanno preceduto a comporre poemi didascalici.
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Se qualcuno tra questa gente non sa l’arte di amare,
legga questo: dopo aver letto sarà esperto in amore.
Con la tecnica si muovono rapide le navi a vela e a remi,
con la tecnica i cocchi agili, con la tecnica bisogna guidare amore.
Come Automedonte era adatto a guidare il carro con le briglie flessibili,
e Tifi era timoniere sulla nave tessala,
così Venere mi ha fatto maestro del tenero amore,
e io di Amore sarò il Tifi e l’Automedonte.
È feroce e in grado di respingermi spesso,
ma è un ragazzo, ha età malleabile e adatta a essere
guidata. Il figlio di Filira con la cetra educò il piccolo Achille,
e con la sua scienza tranquilla ne domò l’animo fiero.
Achille che tante volte atterrì amici e nemici,
aveva paura – si dice – di quel vecchio decrepito,
e spesso su ordine del maestro gli offriva lui stesso
da sferzare le mani che Ettore avrebbe provato.
Chirone fu il maestro di Achille, io lo sono di Amore,
entrambi ragazzi terribili e figli di dee.
Ma anche il collo del toro è appesantito
dall’aratro, e morde il freno il cavallo magnanimo:
così Amore mi cederà, anche se colpisce il mio petto
con il suo arco e agita e mi scuote sul viso le fiaccole;
quanto più Amore mi ha trafitto, quanto più violentemente
bruciato, tanto meglio io potrò vendicarmi.
Non mentirò sostenendo che sei stato tu, Apollo,
a insegnarmi l’arte, non mi ammaestra il canto di un uccello del cielo,
non mi sono apparse Clio e le sue sorelle,
mentre custodivo un gregge sui campi di Ascra;
è l’esperienza che crea quest’opera, obbedite a un poeta esperto:
canterò il vero; e tu, madre di Amore, assisti l’impresa.
State lontani da me, leggere bende, segnali
del pudore, e vesti lunghe che coprite fino a mezzo piede;
io parlerò dell’amore sicuro, dei furti leciti,
e nella mia poesia non ci sarà delitto.
All’inizio devi adoperarti a trovare un oggetto d’amore,
tu che militi per la prima volta in un esercito nuovo;
la seconda fatica è pregare la ragazza scelta,
la terza che l’amore duri per lungo tempo.
Questo è l’argomento, quest’area percorrerà il nostro carro,
questa sarà la meta della sua corsa.
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Heroides  Ovidio
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Heroides XII, 159-212
Ingentes parturit ira minas
Dopo il racconto delle nuove nozze di Giasone, l’ultima parte dell’epistola si può dividere in due
sezioni: il lamento (vv. 159-80), e la minaccia di vendetta di Medea (vv. 181-212). La prima parte si sviluppa in modo piuttosto dinamico: dopo una momentanea crisi di identità
a causa dell’inefficacia dei filtri magici (vv. 169-74), Medea pensa a Giasone con la nuova sposa
(vv. 175-80). Si giunge così alla seconda sequenza perché da quel pensiero scaturisce la minaccia di vendetta, con cui Medea ritrova la sua identità eroica e la fiducia nei poteri magici (vv. 181-212).
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Sii lieto, padre mio e voi Colchi abbandonati,
ricevi il sacrificio espiatorio, ombra di mio fratello:
dopo aver perso il regno, la patria, la casa,
sono abbandonata dal mio sposo, che per me era tutto.
Ho potuto domare i serpenti e i tori furiosi,
solo mio marito non ho potuto domare;
e io che coi filtri sapienti ho ricacciato le fiamme,
alle mie stesse fiamme non riesco a sfuggire.
Mi abbandonano anche gli incantesimi, le erbe, le arti;
a niente serve la dea, né i misteri della potente Ecate.
Non mi è gradito il giorno, le notti passano in triste veglia,
il dolce sonno se ne va dal mio corpo.
Io, che ho saputo addormentare un drago, non posso
addormentare me stessa: a tutti più che a me è utile la mia arte.
Il corpo che ho salvato lo abbraccia la mia rivale,
è lei che gode il frutto della mia fatica.
Forse, mentre provi a vantarti con la tua stupida sposa,
e a dire cose adatte a orecchie ingiuste, inventi
sul mio aspetto e il mio carattere nuove colpe.
Rida e goda dei miei difetti. Rida
pure, giacendo in alto sopra la porpora
– piangerà e arderà di un fuoco maggiore del mio –.
Finché resterà il ferro, il fuoco, il veleno,
nessun nemico di Medea sarà impunito.
Ma se la preghiera può commuovere un cuore di ferro,
ascolta adesso parole più umili del mio animo.
Sono supplice verso di te come tu tante volte
lo fosti con me, e non esito a prostrarmi ai tuoi piedi.
Se per te non conto, guarda ai nostri figli:
una matrigna cattiva infierirà su di loro.
Sono troppo simili a te, e la loro immagine
mi colpisce: quando li vedo i miei occhi si bagnano.
Ti prego per gli dei celesti, e la luce del sole mio avo,
per il bene che ti ho fatto e i due pegni del nostro amore,
ridammi il letto per cui nella mia follia ho lasciato
tutto, mantieni la tua parola e dammi aiuto.
Non ti imploro contro tori, né contro uomini,
non ti chiedo di vincere con i tuoi mezzi un serpente;
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Heroides  Ovidio
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chiedo te, che merito, che di tua volontà
ti sei dato a me, e con te, padre, divenni madre.
Chiedi dov’è la dote? L’abbiamo contata in quel campo
che hai dovuto arare per prenderti il vello;
è l’ariete dorato, con il suo splendido vello,
la mia dote, che mi negheresti se ti chiedessi
di restituirla. La mia dote è la tua salvezza,
è la gioventù greca; va’ dunque, malvagio, metti a confronto le ricchezze di Sisifo.
Se vivi, se hai una moglie e un suocero
potenti, se puoi essere ingrato, a me lo devi.
Ma io subito a loro… Che serve annunciare la mia
vendetta? Enorme è la minaccia creata dall’ira.
Vado dove mi porta l’ira, e mi pentirò forse
della mia azione, come mi pento di aver salvato un uomo infido.
Questa storia la veda il dio che sconvolge il mio cuore;
ma certo la mia mente medita un non so che di grande.
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Metamorfosi  Ovidio
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Metamorfosi IV, 55-105
Audacem faciebat amor
Piramo e Tisbe sono due innamorati di Babilonia, il cui matrimonio è vietato dai genitori. Perciò i
due giovani decidono di incontrarsi fuori città. Si danno un appuntamento, e Tisbe arriva per prima,
ma deve fuggire a causa dell’arrivo di una leonessa. Si mette in salvo, ma mentre fugge le cade il
velo, che la leonessa strattona e sporca di sangue.
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Piramo e Tisbe, l’uno il più bello dei giovani,
l’altra superiore a tutte le ragazze d’Oriente;
stavano in due case contigue, dove si dice che Semiramide
cinse l’alta città con mura di cotto.
La vicinanza li fece conoscere e compiere i primi passi
dell’amore, che col tempo crebbe. Si sarebbero uniti
in legittimo matrimonio, ma lo vietarono i loro padri; però non poterono
vietare che entrambi fossero perdutamente innamorati
l’uno dell’altro. Senza nessun confidente, parlano a cenni e gesti,
e quanto più è coperto, tanto più il fuoco ribolle.
Il muro comune alle due case aveva una piccola
fessura, prodotta al tempo della costruzione,
un difetto che nessuno notò per secoli;
voi lo notaste per primi, amanti (cosa non vede l’amore?),
e ne faceste una via per la voce; di là passavano
sicure le dolcezze sussurrate appena.
Spesso quando stavano di qua Tisbe e di là Piramo,
e a vicenda captavano il soffio di voce,
dicevano: “Muro invidioso, perché ostacoli il nostro amore?
Cosa ti costerebbe permetterci di unire
i nostri corpi o, se questo è troppo,
aprirti per baciarci? Non siamo ingrati: sappiamo di doverlo a te,
se le parole arrivano alle orecchie amate”.
Dopo aver detto ciò inutilmente dai loro posti
diversi, a sera si dissero “Ciao”, ed entrambi
diedero al muro baci che non lo passavano.
Quando la successiva aurora ebbe tolto i fuochi
notturni, e i raggi del sole asciugarono i campi brinosi,
si incontrano al solito posto, e con lieve sussurro
si lamentarono a lungo e stabilirono
di ingannare la sorveglianza e tentare di uscire
nel silenzio della notte e, usciti di casa, di lasciare anche
la città e, per non perdersi vagando negli ampi spazi,
si diedero appuntamento al sepolcro di Nino,
nascondendosi all’ombra di un albero: là c’era un albero
ricco di frutti candidi, un gelso altissimo accanto
a una fonte fresca. Questi furono i patti: la luce,
che sembrava tarda ad andarsene, infine precipitò nelle acque
e dalle acque emerse la notte. L’astuta Tisbe aprì la porta nel buio;
esce senz’essere vista dai suoi e, col volto velato,
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Metamorfosi  Ovidio
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arrivò alla tomba di Nino e sedette ai piedi dell’albero
fissato. L’amore la rendeva ardita. Ma ecco che arriva
con la schiuma alla bocca una leonessa reduce da una strage di buoi,
per saziare la sete nell’acqua della fonte vicina;
ai raggi della luna Tisbe la vide lontana,
e impaurita fuggì in una grotta buia,
ma nella fuga perse il velo che le scivolò dalle spalle.
La feroce leonessa, toltasi con molta acqua la sete,
tornando nel bosco, trovò per caso il delicato velo
di Tisbe, e lo stracciò con la bocca insanguinata.
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Metamorfosi  Ovidio
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Metamorfosi IV, 105-166
Una requiescit in urna
Piramo vede le tracce della leonessa, pensa che abbia sbranato Tisbe, e si trafigge con la spada. Il
suo sangue colora di rosso i frutti di un albero di gelso. Tisbe torna appena in tempo per vedere
Piramo morire, e si toglie la vita con la stessa arma. Per il desiderio che Tisbe esprime in punto di
morte, le bacche del gelso manterranno il colore rosso, a ricordo della vicenda.
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Piramo, uscito più tardi, trovò nello strato di polvere
le impronte certe di una belva, e impallidì in tutto il volto.
Come trovò anche la veste sporca di sangue,
disse: “Una sola notte distruggerà i due amanti,
di cui era lei la più degna di lunga vita;
la mia anima è colpevole. Io ti ho uccisa, infelice,
dicendoti di venire di notte in luoghi orribili
e non arrivando per primo. Straziate il mio corpo,
sbranate a morsi le mie scellerate viscere,
leoni che abitate sotto questa rupe.
Ma è da vigliacchi desiderare la morte”. Raccoglie il velo
di Tisbe e lo porta con sé all’albero stabilito,
pianse e baciò la stoffa ben conosciuta,
e disse: “Ricevi dunque pure il mio sangue”.
Piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco,
e senza indugio lo estrasse, morendo, dalla ferita ardente,
e giacque a terra supino. Il sangue sprizzò in alto,
come quando si guasta il piombo e si spezza un tubo,
e da un foro sottile prorompe un lungo getto d’acqua
e colpisce l’aria violentemente. I frutti dell’albero,
cosparsi dal sangue, diventano neri,
e la radice inzuppata di sangue tinge
dello stesso colore le more pendenti.
Ancora impaurita, per non ingannare l’amante,
Tisbe ritorna e cerca il ragazzo con gli occhi e con l’anima,
ansiosa di raccontargli a quale pericolo
è scampata. Riconosce il luogo e la forma dell’albero,
ma la rende incerta il colore dei frutti, non sa se è quello.
Mentre è in dubbio, vede sul suolo insanguinato
palpitare un corpo, indietreggia e, col volto
più pallido del bosso, rabbrividisce come le onde del mare,
tremolante in superficie per una lieve brezza.
Quando, dopo un indugio, riconobbe il suo amore,
percosse sonoramente le braccia innocenti,
si strappò i capelli e, abbracciando il capo amato,
riempì la ferita di lacrime, mescolando il pianto al sangue,
e imprimendo i suoi baci sul volto gelido
gridò: “Piramo, quale sciagura ti ha tolto
a me? Rispondimi, Piramo, ti chiama la tua carissima
Tisbe: ascoltami, alza il viso giacente!
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Metamorfosi  Ovidio
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Al nome di Tisbe, Piramo sollevò gli occhi
gravati già dalla morte, la guardò e li richiuse.
Dopo che riconobbe il suo velo e la fodera
d’avorio nuda, disse: “Ti ha ucciso, infelice,
la tua mano e il tuo amore! Ma anch’io per questo ho una mano
forte, e ho l’amore, che mi darà forza a ferirmi.
Ti seguirò nella morte, diranno che della tua morte
sono stata infelicissima, causa e compagna. E tu, che soltanto
la morte poteva strapparmi, neanche in morte mi sarai strappato.
Questo però vi chiediamo entrambi, infelicissimo
padre mio e padre suo, che quelli che ha unito
l’amore autentico e l’ora estrema
non impediate che siano sepolti nella stessa tomba.
Tu, albero che adesso copri con i tuoi rami
il povero corpo di uno, e presto di entrambi,
mantieni un segno di questa strage, ed abbi sempre
frutti scuri e adatti al lutto, ricordo della doppia morte”.
Così disse e, puntato il pugnale contro il suo fianco,
si gettò sul ferro ancora caldo di sangue.
Il loro voto commosse gli dei e i genitori:
infatti è nero il colore del frutto quando è maturo,
e quello che avanza dal rogo, riposa in un’unica urna.
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Fasti  Ovidio
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Fasti II, 813-852
Quam veniam vos datis, ipsa nego
Dopo aver confessato il proprio disonore al padre e al marito, Lucrezia si uccide. A causa dell’azione
disonorevole, Tarquinio il Superbo e la sua famiglia vengono cacciati da Roma.
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Era giunto il giorno: siede coi capelli sparsi,
come una madre che sta per andare al funerale del figlio,
e richiama dal campo il vecchio padre e il fedele marito:
l’uno e l’altro arrivano senza frapporre indugio.
Come vedono il suo stato, le chiedono il motivo del pianto,
a chi prepara le esequie, quale male l’ha colpita.
Tace a lungo, e nasconde nel velo il volto pudico,
scorrono le lacrime come acqua perenne.
Da un lato il padre, dall’altro il marito consolano le sue lacrime,
la pregano di parlare e piangono, presi da un cieco terrore.
Tre volte tentò di parlare e ci rinunciò, alla quarta
osò, ma senza riuscire a sollevare lo sguardo.
“Anche questo dovremo a Tarquinio”, disse, “che io stessa
debba, infelice, narrare il mio disonore?
Racconta quello che può, ma restano le cose ultime;
pianse, e le guance matronali arrossirono.
Della costrizione subita la perdonano il padre e il marito,
“Ma il perdono che voi mi date – lei disse – io me lo nego”.
E senza indugio si trafisse il petto con un ferro nascosto,
e cadde coperta di sangue ai piedi del padre.
Anche morendo fece attenzione a non cadere
scompostamente – questo, anche cadendo, era il suo pensiero.
Sul suo corpo, piangendo il comune dolore,
il padre e il marito giacciono, dimenticando il decoro.
Arriva Bruto, e finalmente smentisce il suo nome con il coraggio,
estrae il ferro dal corpo semivivo e, tenendo
l’arma ancora stillante del suo nobile sangue,
con voce minacciosa pronunciò parole impavide:
“Per questo casto e fortissimo sangue io giuro,
per i tuoi mani, che saranno i miei dei,
che Tarquinio la pagherà, espulso con la sua famiglia.
Già abbastanza il mio valore è rimasto nascosto”.
A queste parole lei mosse giacendo gli occhi spenti,
e parve che le confermasse scuotendo i capelli.
Portata al funerale, la donna che ebbe coraggio virile
trascinò dietro di sé il pianto e l’odio.
La sua ferita è esposta. Bruto solleva i Romani
gridando, e riferisce la colpa orrenda del principe.
Tarquinio fugge con la sua famiglia, un console assume
per un anno il governo: fu l’ultimo giorno di regno.
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Elegie  Properzio
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Elegie I, 3
Hac Amor hac Liber
Il poeta torna a casa da Cinzia ubriaco nel cuore della notte: in contemplazione della fanciulla che
dorme, frena il suo impulso erotico, ma i raggi della luna risvegliano Cinzia, che indirizza parole di
rimprovero all’amato. L’elegia famosa presenta motivi che ricorrono in un epigramma di un autore
di età bizantina, Paolo Silenziario, che molto probabilmente non imitò direttamente Properzio (è
difficile che a quel tempo egli fosse letto nel mondo bizantino), ma si rifece a un epigramma ellenistico perduto, che sarebbe il modello dello stesso Properzio. Tuttavia, sia la lunga serie iniziale dei
paragoni mitologici, sia la delicata descrizione dei sentimenti di Properzio conferiscono all’elegia
elementi di forte originalità.
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Come giaceva sfinita sulla spiaggia deserta la donna
di Cnosso mentre si allontanava la nave di Teseo,
come si abbandonò al primo sonno Andromeda,
figlia di Cefeo, liberata dal duro scoglio,
come, non meno stanca delle assidue danze,
la baccante di Tracia cade sull’Apidano erboso,
così mi apparve, spirante morbida pace,
Cinzia, appoggiando il capo alle mani incerte,
mentre mi trascinavo, ubriaco di molto vino,
e i servi scuotevano a tarda sera la fiaccola.
Io, non avendo ancora perso tutti i miei sensi,
cercai di entrare nel letto morbidamente segnato;
e benché di qua Amore, e di qua Bacco, due dei
esigenti, mi spingessero con doppio ardore
a tentarla insinuando pian piano il braccio,
a toccarla, a baciarla, ad assaltarla, sdraiata com’era, io tuttavia
non osavo turbare il sonno della mia padrona,
temendo le ire e l’asprezza ben nota,
ma la guardavo fisso con gli occhi attenti
come Argo guardava le corna ignote di Io.
Ora toglievo una ghirlanda dalla mia fronte
e la mettevo, Cinzia, sulle tue tempie;
ora godevo a ravviarti i capelli sparsi e mettere furtivamente pomi nelle tue
mani;
doni offerti tutti al tuo sonno ingrato,
doni che scivolavano spesso giù dal tuo seno,
e tutte le volte che sospiravi con lieve moto,
restavo attonito credendo a un vano presagio, temendo
che i sogni ti portassero timori insoliti
o che qualcuno ti costringesse a essere sua.
Finché la luna, battendo alle diverse finestre,
zelante, con la luce che ancora indugiava,
aprì coi lievi raggi gli occhi chiusi,
e così disse, poggiando il gomito sul morbido letto:
“Così finalmente ti riporta al mio letto
l’offesa di un’altra che ti ha cacciato di casa?
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Elegie  Properzio
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Dove hai consumato il lungo tempo della mia notte,
e torni stanco quando tramontano, ahimè, le stelle?
Possa anche tu, malvagio, passare simili notti,
come le fai passare sempre a me disgraziata.
Ingannavo il sonno tessendo la porpora
o suonando, sfinita, la cetra di Orfeo
e talvolta, abbandonata, mi lamentavo pian piano
del tuo lungo indugiare in altri amori:
poi finalmente caddi nelle dolci ali del sonno.
Quella fu l’ultima cura per le mie lacrime”.
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Elegie  Properzio
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Elegie II, 15
O nox mihi candida!
È la celebrazione di una notte d’amore felice, tra l’esultanza e l’augurio che il legame tra il poeta e
Cinzia non debba mai recidersi. I motivi, specie della seconda parte con la serie di adynata, ossia
accadimenti impossibili, sono tradizionali della poesia d’amore. D’altronde anche l’apostrofe al
letto, complice e testimone, si trova già in un epigramma greco di Filodemo. Ma quello che è straordinario in Properzio è la carica emotiva con cui descrive il trasporto fisico dell’amore: si può dire
che questa elegia costituisca una delle più appassionate rievocazioni nell’antichità dell’unione di
due corpi in amore.
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Oh me felice! Oh notte per me splendida! Oh letto
fatto felice dal mio piacere! Quante
parole diciamo al lume della lucerna,
e quale fu la lotta, a lume spento!
Ora lottava con me a seno nudo,
ora, ricoprendosi, frapponeva indugi.
Mi aprì con la sua bocca gli occhi caduti
nel sonno e mi disse: “Come sei pigro!”.
Quanti amplessi e intrecci di braccia, e quanto hanno indugiato i miei baci
sulle tue labbra. A me non piace
guastare l’amore con movimenti ciechi;
se non sai, sono gli occhi le guide in amore.
Si dice che Paride morì d’amore alla vista
del corpo nudo di Elena, che usciva dal letto nuziale;
e che Endimione nudo conquistò la sorella
di Apollo e giacque con la dea nuda.
Se ti ostinassi a giacere con me vestita,
sentiresti le mie mani e ti strapperei
la veste, e se la mia collera trascendesse più ancora,
mostreresti a tua madre le braccia livide.
Il seno non ancora cadente ti lascia
giocare: ci badi chi ha già partorito ed ha vergogna.
Mentre ci è permesso, saziamo gli occhi d’amore:
poi viene una lunga notte, e non tornerà il giorno.
Oh se tu volessi legarci stretti, con una catena
che nessun giorno sia più capace di sciogliere!
Ti siano d’esempio i colombi innamorati,
l’unione perfetta del maschio e della femmina.
Sbaglia chi cerca la fine di un amore insano,
il vero amore non conosce misura.
Prima la terra ingannerà l’aratore con false messi,
prima il Sole attaccherà al suo carro cavalli neri,
e i fiumi richiameranno le loro acque alla sorgente,
i pesci resteranno senz’acqua nei gorghi asciutti,
prima ch’io possa trasferire ad altre la mia passione:
a lei apparterrò in vita e in morte.
E se vorrà concedermi altre di queste notti,
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Elegie  Properzio
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sarà lungo allora anche un anno di vita.
Se me ne donerà molte, in esse diverrò immortale;
in una sola notte chiunque può essere un dio.
Se tutti amassero trascorrere in questo modo la vita
e giacere carichi di molto vino,
non ci sarebbero armi crudeli né navi da guerra;
il mare di Azio non rivolterebbe le nostra ossa,
e Roma, tante volte colpita dai suoi stessi trionfi,
non scioglierebbe i capelli sfinita.
Di questo certo i miei discendenti dovranno lodarmi:
i nostri brindisi non hanno mai offeso gli dei.
Finché dura la luce, non trascurare il frutto
della vita: saranno pochi i tuoi baci, se anche
me li dai tutti. E come i petali lasciano le ghirlande sfiorite,
e li vedi nuotare sopra le coppe, dispersi,
così a noi che, amandoci, viviamo in grande baldanza,
forse il domani chiuderà il nostro destino.
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Elegie  Properzio
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Elegie III, 10
Natalisque tui sic peragamus iter
È il giorno del compleanno di Cinzia: per questo le Camene sono accanto al letto del poeta al suo
risveglio a invitarlo alla celebrazione. Viene evocata poi la giornata festiva di Cinzia, che troverà il
suo compimento la sera nel talamo. Propriamente l’elegia è un genethliakon, ossia un carme dedicato al genetliaco di un personaggio, come ad esempio Tibullo I, 7: questo sta a dimostrare che
l’elegia augustea poteva esser costituita, come la lirica, da carmi d’occasione.
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Sono rimasto stupito alla visita delle Muse
stamani attorno al mio letto, nel sole splendente.
Hanno dato il segno del compleanno di Cinzia,
battendo tre volte le mani con lieto auspicio.
Passi senza nuvole questo giorno, tacciano i venti nell’aria,
l’onda minacciosa si acquieti dolcemente sul lido.
Oggi non voglio veder soffrire nessuno,
e la stessa pietra di Niobe reprima le lacrime;
tacciano gli alcioni smettendo il loro lamento,
e la madre di Iti non pianga più la sua morte.
E tu, cara, che hai visto la luce con buoni auspici,
alzati e rivolgi la tua preghiera agli dei che chiedono il giusto.
Prima di tutto manda via il sonno con acqua pura,
e aggiusta con le mani le splendide chiome.
Poi indossa l’abito con il quale hai conquistato la prima volta gli occhi
di Properzio e non lasciare senza fiori la testa;
chiedi che ti resti sempre la bellezza che è il tuo potere,
e resti sempre il tuo regno sulla mia persona.
Poi, dopo avere purificato gli altari adorni di fiori
con l’incenso, quando tutta la casa brillerà della luce propizia,
si prepari la mensa, e la notte passi nel bere,
e la coppa d’onice color mirra unga di croco il naso.
I flauti accompagnino, fino a restarne rauchi, le danze
notturne, e sia libera nei tuoi discorsi
la malizia, e il dolce convito tolga il sonno
pigro; nella via vicina l’aria risuoni.
Getteremo i dadi e interrogheremo la sorte
su chi il dio ragazzo colpisca con ali aspre.
Quando tra molte bevute si sarà fatto tardi,
e Venere preparerà i suoi riti notturni,
celebreremo solennemente la festa nel nostro
letto, e compiremo così il tuo compleanno.
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Elegie  Tibullo
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Elegie I, 1
Possim contentus vivere parvo
La prima elegia del primo libro propone immediatamente alcuni dei motivi portanti dell’elegia di
Tibullo. Con il movimento definito Priamel, tradizionale nella lirica fin da quella arcaica greca, viene
criticata la scala di valori al cui vertice si trovano la ricchezza o la forza militare. Una modesta vita
in campagna è quella ideale, a somiglianza delle scelte di Orazio. Tuttavia, i motivi oraziani di
amore per la campagna si inseriscono nell’elegia erotica, collocando in questa sorta di mondo
ideale la presenza della donna, che ne diventa un fattore essenziale.
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Altri accumuli per sé ricchezza di oro fulvo,
e possieda molti iugeri di terreno coltivato;
lo prenderà il continuo terrore del nemico vicino,
e gli leveranno il sonno le trombe di guerra.
Io voglio condurre una vita tranquilla
nella mia povertà, purché sempre risplenda la fiamma sul mio focolare.
Pianterò di mia mano – una mano esperta di contadino –
al tempo giusto le tenere viti e i grandi alberi
da frutto; non mi deluderà la Speranza, mi offrirà sempre
mucchi di messi e pingue mosto nei tini ricolmi.
Io venero qualunque tronco abbandonato nei campi,
qualunque vecchia pietra nei trivi ha corone di fiori;
e tutti i frutti che cresce per me il nuovo anno
sono offerti in voto al dio dei campi.
Bionda Cerere, per te dai miei campi ci sarà sempre
una corona di spighe a pendere alla porta del tempio,
e negli orti ricchi di frutti sarà messo Priapo, il rubicondo custode,
perché spaventi con la terribile falce gli uccelli.
E anche voi, Lari, custodi di un campo ora povero,
un tempo ricco, accogliete i vostri doni.
Un tempo il sacrificio di una vitella purificava infiniti
giovenchi, adesso è un’agnella la modesta vittima per un podere minuscolo.
L’agnella cadrà in vostro onore, e attorno la gioventù rustica
griderà: “Evviva, dateci messi e buon vino!”.
Possa io finalmente vivere soddisfatto di poco,
e non essere sempre soggetto ai lunghi viaggi,
ma evitare la canicola all’ombra di un albero
vicino a un ruscello di acqua che scorre.
Non mi vergognerò di tenere in mano il bidente
e di stimolare col pungolo i buoi pigri;
non mi dispiacerà riportare a casa nel mio grembo un’agnella,
o una capretta abbandonata dalla mamma distratta.
Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il mio piccolo gregge:
è nelle grandi mandrie che va cercata la preda.
Tutti gli anni io purifico i miei pastori
e cospargo di latte la placida Pale.
Assistetemi, dei, non disprezzate i doni che vengono
da una povera mensa in semplici cocci.
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Elegie  Tibullo
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In antico i contadini si costruirono coppe
di coccio, plasmandole con argilla duttile.
Io non pretendo le ricchezze dei padri e il raccolto
che le messi diedero ai nostri antichi avi:
mi basta un po’ di grano, e se posso riposare sul letto
familiare e là dare ristoro alle membra.
Quanto mi piace, stando sdraiato, sentire
la furia dei venti e stringere teneramente
al seno la mia donna o, quando l’Austro invernale riversa
acque gelide, dormire un sonno tranquillo cullato dalla
pioggia. Questo è ciò che voglio: a buon diritto sia ricco
chi riesce a sopportare il mare in burrasca e le aspre piogge.
Scompaia tutto l’oro che c’è e le pietre
preziose, piuttosto che far piangere per i nostri viaggi una donna.
Tu sì che devi, Messalla, combattere in terra e in mare,
perché la tua casa esibisca le spoglie nemiche;
me mi trattengono i vincoli di una bella ragazza,
e faccio il guardiano alla sua porta chiusa.
Delia mia, io non voglio la gloria e, purché rimanga
con te, mi chiamino pure ozioso e pigro.
Voglio guardarti, quando verrà la mia ultima
ora, e morire tenendoti con la mano che manca.
Mi piangerai deposto sul catafalco per il rogo, Delia,
e mi darai baci misti a tristi lacrime.
Piangerai, perché non hai il cuore di ferro,
nel tuo tenero petto non sta una pietra.
Dal mio funerale nessun giovane e nessuna ragazza
potrà tornare a casa con gli occhi asciutti.
Ma tu, senza offendere i miei Mani, risparmia,
Delia mia, i capelli sciolti e le tenere gote.
Intanto, finché lo permette il destino, restiamo uniti
nell’amore: tra poco verrà la morte col capo avvolto
di tenebre, tra poco s’insinuerà l’età inerte, amare
non sarà più decente, né dire coccole col capo bianco.
Adesso si devono avere amori leggeri, quando non si ha vergogna
di abbattere porte, e piace attaccare briga.
In questo sono buon capo e buon soldato; voi andatevene,
insegne e trombe di guerra – portate ferite
agli uomini avidi, e anche ricchezze: io per me, tranquillo
col mio mucchietto, disprezzerò i ricchi e la fame.
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Elegie  Tibullo
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Elegie I, 10
Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
La situazione è probabilmente rapportabile al 31 a.C., quando nell’imminenza della battaglia di Azio
ci fu un massiccio arruolamento di soldati. La vita militare naturalmente era sgradita a Tibullo, il quale
aveva ben altre preferenze. Ma il problema è intendere come il poeta si ponesse nei confronti del
regime di Ottaviano. Si è portati a credere che in questo caso Tibullo si potesse avvalere della mediazione di Messalla, il quale era sì legato ormai a Ottaviano, ma in passato aveva militato in partiti
opposti e tendeva ad assumere posizioni moderate anche nei confronti di Antonio. Ma in ogni caso
un’elegia come questa non poteva presentare un particolare valore politico, in quanto contiene una
serie di luoghi comuni contro la guerra, solo vivacizzati dal momento di disagio personale del poeta.
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Chi fu l’uomo che inventò le spade orrende?
Quant’era feroce, e veramente di ferro!
Allora nacquero per il genere umano le stragi e le guerre,
e fu aperta alla morte una via più breve.
O forse, pover’uomo, non ebbe colpa, e siamo noi
a volgere al nostro male l’arma che lui ci diede contro le belve?
È tutta colpa dell’oro: non c’erano guerre
quando sulla mensa stavano coppe di faggio.
Non c’erano fortezze né trincee, e il comandante del gregge
prendeva sonno tranquillamente tra le sue pecore sparse.
Fossi vissuto allora! Non avrei conosciuto
le tristi armi del volgo, né sentito la tromba con animo trepido;
ora mi trascinano alla guerra, e forse già qualche nemico
porta le armi destinate a piantarsi nel mio fianco.
Ma voi salvatemi, Lari dei miei padri che mi allevaste
quando bambino correvo ai vostri piedi.
Non vergognatevi di essere fatti di vecchio legno;
in questo modo abitavate la vecchia casa degli avi.
Mantenevano meglio la loro parola quando un dio di legno
stava in una piccola sede, con povero culto.
Ed era placato, sia che gli facessero offerte d’uva,
sia che ornassero la sacra chioma con corone di spighe;
e qualcuno che aveva ottenuto il voto portava lui stesso
focacce, e dietro di lui la figlia bambina un puro favo.
Allontanate da me le armi di bronzo, Lari,
[…]
e avrete per vittima un porco dalla stalla piena.
Gli terrò dietro con la veste pulita e coi canestri
legati col mirto, inghirlandato anch’io di mirto.
Così voglio piacervi: un altro sia forte nelle armi,
e abbatta i capi nemici col favore di Marte;
così, mentre bevo, l’eroe mi potrà raccontare
le sue imprese e disegnare l’accampamento col vino
sulla mensa. Che pazzia è questa di affrettare la nera morte
con le guerre? Già incombe e viene da sé in silenzio.
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Elegie  Tibullo
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Là sotto non ci sono messi e vigneti, ma Cerbero
prepotente e il nocchiero deforme dell’acqua stigia;
là, percuotendosi il volto, coi capelli bruciati,
vaga la pallida schiera nei laghi bui.
Quant’è preferibile il destino dell’uomo che ha avuto figli,
e arriva alla vecchiaia in una piccola casa.
Lui segue le sue pecore, il figlio gli agnelli,
e quando torna stanco la moglie gli scalda l’acqua.
Così vorrei essere anch’io, e imbiancare i capelli,
e raccontare da vecchio le cose del tempo passato.
Intanto la Pace coltivi i campi. È la splendida Pace
che all’inizio condusse i buoi sotto il curvo giogo ad arare,
coltivò le viti e raccolse il succo dell’uva,
perché l’anfora paterna versasse al figlio il vino.
In pace risplendono bidente e vomere,
e nel buio la ruggine coglie le dolorose armi del soldato.
Un po’ brillo, il contadino riporta a casa
dal bosco la moglie e i figli sul carro.
Ardono allora le battaglie di Venere, e la donna lamenta
i capelli strappati, le porte infrante.
Colpita sulle tenere guance piange, ma piange
anche il vincitore di avere mani così forti e stupide.
Amore prepotente amministra nel litigio gli insulti reciproci,
e siede indifferente tra l’uno e l’altra imbronciati.
È di pietra o di ferro, chi picchia la sua
ragazza, e tira giù dal cielo gli dei.
Si accontenti di strapparle di dosso la veste sottile,
di scompigliarne i capelli acconciati, di farla
piangere: quattro volte felice l’uomo
che con la sua ira fa piangere la ragazza.
Chi menerà le mani, prenda lo scudo e la lancia,
e si tenga lontano dalla dolce Venere.
Vieni a me, Pace fecondatrice, portando
la spiga, e il tuo candido grembo trabocchi di frutti.
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Bucoliche  Virgilio
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Egloga I
Tityre, tu patulae
Melibeo è sfortunato, perché i suoi campi sono stati espropriati in favore dei veterani: tutta la sua
invidia va verso Titiro, che sta tranquillamente abbandonato all’ombra di un faggio, perché si è recato
a Roma dove ha incontrato un giovane dio, che gli ha concesso di rimanere. Il carme è incentrato sullo
struggente attaccamento dei due pastori alla natura e alla loro vita. Benché vi sia sicuramente il
riferimento a un evento storico ben definito, come l’esproprio delle terre nei territori di Cremona e
Mantova dopo il 42, il paesaggio bucolico si rende luogo di evasione ideale. E la malinconia della
scena trova la sua espressione più alta proprio nel calar della sera descritto alla conclusione.
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Melibeo Tu, Titiro, sdraiato all’ombra di un vasto faggio,
intoni sulla zampogna leggera un canto silvestre;
noi lasciamo la nostra patria e i dolci campi,
noi fuggiamo dalla nostra patria e tu, Titiro, ozioso all’ombra, fai risuonare
le selve del nome della bella Amarillide.
Titiro È stato un dio, Melibeo, a darmi questi agi.
Sì, lui sarà sempre per me un dio, e il suo altare
spesso lo tingerà un agnello del mio ovile;
è stato lui a permettere alle mie vacche di pascolare tranquille,
come puoi vedere, e a me stesso di suonare sulla zampogna quello che voglio.
Melibeo Non t’invidio, provo piuttosto stupore; a tal punto da tutte le parti
tutta la campagna è sconvolta. E io stesso, triste,
spingo avanti le mie caprette, e a stento trascino
questa. Ha appena lasciato tra i folti noccioli
due gemelli, speranza del gregge, partoriti sulla nuda pietra.
Ricordo che spesso questo male ce l’hanno predetto, se non fossimo stati
ciechi, le querce colpite dal fulmine.
Ma tu dicci, Titiro, chi è questo dio.
Titiro La città che chiamano Roma, io credevo,
Melibeo, scioccamente che fosse simile a questa nostra
dove spesso noi pastori siamo soliti portare gli agnelli.
Come sapevo che i cuccioli sono simili ai cani,
e i capretti alle capre, così ero solito confrontare il piccolo al grande.
Ma questa città solleva tanto il capo fra le altre, come i cipressi in mezzo ai
viburni flessibili.
Melibeo Ma quale motivo avevi di andare a Roma?
Titiro La libertà che, pigro com’ero, si accorse tardivamente
di me, quando radendomi la barba
cadeva un po’ bianca, si accorse di me alla fine, e venne dopo lungo tempo,
da quando mi possiede Amarillide e Galatea mi ha lasciato.
Ti confesserò infatti che mentre ero in potere di Galatea,
non avevo speranza di libertà, né cura delle mie sostanze. E benché dai miei
recinti uscissero molte vittime,
e molto formaggio si spremesse per l’ingrata città,
la mia mano non tornava mai piena di denaro a casa.
Melibeo Mi chiedevo perché invocassi gli dei così triste, Amarillide,
perché lasciassi avvizzire i frutti sull’albero:
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Bucoliche  Virgilio
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Titiro era lontano. I pini stessi, Titiro, le fonti, gli arbusti ti chiamavano.
Titiro Che fare? Non sarei mai potuto uscire di schiavitù,
né conoscere altrove dei così potenti.
Là, Melibeo, ho conosciuto quel giovane
per cui i miei altari fumano dodici giorni ogni anno.
Lui per primo alle mie preghiere ha dato questa risposta:
“Continuate a pascolare i buoi, ragazzi, e aggiogate i tori”.
Melibeo Fortunato vecchio! Dunque i campi rimarranno tuoi,
per te grandi abbastanza, anche se tutto è nuda pietra
e la palude copre di giunchi fangosi i pascoli:
campi sconosciuti non attireranno le bestie gravide,
né le danneggerà il contagio del gregge vicino.
Fortunato vecchio, qui tra i fiumi ben noti
e le fonti sacre prenderai il fresco e l’ombra, e sempre dal confine vicino la
siepe,
dove le api iblee succhiano i fiori del salice,
ti concilierà il sonno col suo lieve sussurro;
il potatore sotto l’alta rupe canterà all’aria,
e intanto né le rauche colombe, tuo amore,
né la tortora sotto l’alto olmo cesserà di tubare.
Titiro Prima pascoleranno in cielo gli agili cervi
e il mare abbandonerà i pesci esposti sopra la spiaggia,
e attraversando i confini reciproci, i Parti in esilio berranno l’acqua
dell’Arar e i Germani quella del Tigri,
che dal mio animo possa svanire il suo volto.
Melibeo Noi invece di qui ce ne andremo, alcuni nell’Africa ardente,
altri nella Scizia o verso il fiume Oasse, che trascina la creta,
o nella terra dei Britanni, del tutto separati dal mondo.
Verrà mai il momento che rivedrò dopo tanto i miei campi
e il tetto di zolle della mia povera casa
spiando da dietro le spighe tutto il mio regno?
Un empio soldato avrà queste terre coltivate con tanto amore,
un barbaro queste messi:
ecco a che punto la discordia ha portato
i cittadini infelici! Per costoro abbiamo
lavorato i nostri campi! Innesta ora i peri,
Melibeo, disponi le viti e voi mie caprette, un tempo felici,
andate. Non vi vedrò più, sdraiato in una grotta
verde, pendere da una rupe spinosa; non canterò più,
caprette, non vi condurrò più al pascolo
a brucare i fiori del citiso e il salice amaro.
Titiro Però avresti potuto riposare con me questa notte
sopra le verdi fronde; ci sono mele dolcissime,
castagne farinose, abbondanza di buon formaggio,
e già i tetti delle case fumano in lontananza
e dai monti cadono le ombre lunghe.
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Bucoliche  Virgilio
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Egloga X
Omnia vincit Amor
L’ultimo carme della raccolta contiene il disperato lamento d’amore di Cornelio Gallo nel paesaggio
bucolico dell’Arcadia: la sua donna è andata lontano nei paesi del nord al seguito di un generale.
Nemmeno il canto alla fine potrà recargli conforto. Trattandosi dell’ultima egloga, si è pensato da
tempo a un significato di riflessione poetica. Cornelio Gallo era autore di elegie d’amore e qui Virgilio probabilmente svolge un discorso metapoetico. Gallo rappresenta il fallimento o quanto meno
l’inferiorità del genere elegiaco di fronte a quello bucolico, la cui validità è così consolidata.
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Concedimi ancora quest’ultima fatica, Aretusa:
devo cantare pochi versi per il mio Gallo, ma tali
che Licoride debba leggerli; come negare un canto a Gallo?
Così quando passi sotto le acque sicule, possa
Doride salata non mescolare le acque alle tue!
Comincia: cantiamo gli amori affannosi di Gallo,
mentre le capre camuse brucano la tenera erba.
Non cantiamo a sordi, e le selve riecheggeranno ogni cosa.
In quali boschi, in quali foreste eravate,
Naiadi, quando Gallo si consumava in un amore indegno?
Non vi trattenevano certo i gioghi del monte Pindo
né del Parnaso, e neanche Aganippe beota.
Su di lui piansero allora perfino le tamerici e gli allori
e il Menalo fitto di pini, e le pietre del freddo Liceo,
quando giaceva sotto una roccia deserta.
Intorno gli stanno le greggi che non hanno fastidio
di noi, e tu non averlo di loro, divino
poeta: anche il bellissimo Adone portava le pecore al pascolo.
Ecco arriva il pastore e in ritardo arrivano i porcari, arriva
Menalca fradicio per avere raccolto le ghiande invernali.
Tutti chiedono: “Da dove ti viene questo amore?” Arriva Apollo
e gli dice: “Perché sei così pazzo? Il tuo amore, Licoride,
ha seguito un altro tra gli orrendi accampamenti e le nevi”.
Arriva Silvano con una ghirlanda agreste sul capo,
scuotendo rami fioriti e grandi gigli.
Arriva Pan, il dio dell’Arcadia, che abbiamo veduto
tutto rosso delle sanguigne bacche del sambuco
e del minio. E gli dice: “Non hai misura? Di queste cose l’amore non cura,
l’amore crudele non si sazia di lacrime, così come l’erba
d’acqua, le api di citiso, le caprette di erba”.
E lui tristemente: “Pure, voi Arcadi canterete
tutto ciò alle vostre montagne, voi Arcadi che siete i soli
esperti nel canto. Come riposerebbero in pace
le mie ossa se un giorno la vostra zampogna raccontasse i miei amori!
Fossi stato uno di voi, o custode del vostro
gregge, o vendemmiatore dell’uva matura!
Certo se avessi una Fillide oppure un Aminta
oppure qualche altra follia (che importa se Aminta
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è un po’ scuro? Lo sono anche le viole e i giacinti),
starebbe sdraiato con me tra i salici o sotto una vite flessuosa:
Fillide farebbe per me ghirlande, e canterebbe
Aminta. Ci sono fonti fresche e prati morbidi,
e il bosco, Licoride: qui passerei con te la mia vita.
Adesso invece il folle amore mi tiene nella dura guerra
in mezzo alle armi e di fronte ai nemici.
Tu lontano dalla patria (vorrei non crederlo!)
vedi sola senza di me, crudele, le nevi alpine
e il freddo del Reno. Spero che non ti faccia male,
che il ghiaccio aspro non tagli i tuoi teneri piedi!
Andrò a cantare i versi composti nel metro di Euforione di Calcide
sulla zampogna di un pastore siculo. Ho deciso
che è meglio soffrire nei boschi, tra le spelonche
delle fiere e la storia dei miei amori inciderla
sugli alberi giovani, che cresceranno e insieme a loro il mio amore.
Intanto percorrerò il Menalo assieme alle ninfe
o caccerò gli aspri cinghiali. Il freddo non mi impedirà di accerchiare
coi cani i boschi del Monte Partenio. E già mi sembra
di andare per le rocce e i boschi sonanti
e mi piace scagliare con l’arco dei Parti le frecce cidonie,
come se ciò possa essere rimedio alla mia follia
o il dio possa imparare ad essere mite verso le sventure umane.
Ma non mi piacciono più le Amadriadi e neanche
i canti, e anche a voi boschi dico addio. Non lo possono
cambiare tutte le nostre fatiche, neanche bevessimo
nel gelo le acque dell’Ebro, neanche affrontassimo
nell’inverno piovoso le nevi di Tracia
o pascolassimo sotto il Cancro le greggi etiopiche
quando la corteccia dell’olmo muore essiccata.
Tutto vince Amore, e anche noi cediamo all’Amore”.
Basterà che questo abbia cantato, Muse, il vostro poeta,
mentre siede e intreccia fiscelle con l’ibisco sottile:
voi farete queste mie cose grandi per Gallo,
Gallo, per cui il mio amore cresce di ora in ora,
come s’innalza il verde ontano nella primavera.
Alziamoci, perché l’ombra è molesta a chi canta,
l’ombra del ginepro; l’ombra nuoce anche alle messi.
E voi caprette andatevene a casa, ché siete sazie e viene la sera.
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Georgiche  Virgilio
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Georgiche II, 136-176
Salve, magna parens frugum
Sono le celebri lodi dell’Italia, l’excursus inserito nella prima parte del II libro. Il luogo comune
delle lodi di una regione si era già affermato nella letteratura greca del V secolo con le lodi dell’Attica (la regione di Atene), che erano comparse in testi diversi (opere storiografiche, orazioni, tragedie). Nella cultura letteraria romana le lodi dell’Italia erano già state svolte pochi anni prima nel De
re rustica di Varrone, ma al tempo in cui erano scritte le Georgiche assumevano un valore ideologico
particolare. Era allora in pieno svolgimento la lotta di Ottaviano contro Antonio. Questi, succube,
almeno secondo la propaganda di Ottaviano, della regina egizia Cleopatra, progettava di trasferire
la capitale dell’impero ad Alessandria, e contro tale progetto si accanì il partito di Ottaviano, rivendicando la tradizione e gli aspetti positivi dell’Italia.
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Né le selve dei Medi, terra ricchissima,
né il bellissimo Gange, l’Ermo torbido d’oro,
possono competere per meriti con l’Italia, né la Battriana
né l’India né la Pancaia ricca di sabbie che contengono incenso.
Qui non furono i tori che spirano fuoco dalle narici
ad arare seminando il terreno coi denti di drago,
né vi crebbe la messe di uomini irta di elmi e di lance,
ma la riempirono le ricche spighe e il vino Massico;
la occupano gli olivi e gli armenti floridi.
Qui il cavallo da guerra entra in campo coraggiosamente,
qui bianche greggi, Clitunno, e il toro, massima vittima,
spesso aspersi dalla tua acqua sacra condussero
ai templi degli dei i trionfi romani.
Qui la primavera è perenne e l’estate si prende i mesi non suoi:
due volte le bestie ingravidano, due volte l’albero produce frutti.
Non ci sono le tigri rabbiose né la razza crudele
dei leoni, e l’aconito non inganna quei poveretti che lo raccolgono,
non trascina per terra le immense volute il serpente squamoso
né si raccoglie in una così enorme spirale.
Aggiungi tante illustri città ed opere,
tante fortezze innalzate su dirupi scoscesi
e i fiumi che lambiscono le mura antiche.
Devo ricordare il mare che la circonda da entrambi i lati?
O i grandi laghi? Te, Lario, più grande di tutti,
te, Benaco, che ti innalzi con onde e fragore marini?
O devo ricordare i porti, le chiuse imposte al Lucrino
e l’acqua che infuria con grande fragore,
dove l’onda Giulia risuona per largo tratto tenendo
lontano il mare e i marosi tirreni invadono le acque d’Averno?
Questa stessa terra mostra vene d’argento,
miniere di rame ed è ricchissima d’oro.
E ha creato un’aspra razza di uomini, i Marsi, i Sabelli,
i Liguri adusi alle avversità, i Volsci armati di lancia,
e i Deci, i Marii, i grandi Camilli,
gli Scipioni duri in guerra e te, grandissimo Cesare,
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Georgiche  Virgilio
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che ora già vittorioso nelle estreme terre dell’Asia,
tieni lontani dalle rocche di Roma gli Indi imbelli.
Salve, grandissima madre di messi, terra Saturnia,
e madre di uomini: io mi dedico a un’opera di grande pregio
osando schiudere le sacre fonti e cantando
il carme di Esiodo per le città romane.
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Georgiche  Virgilio
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Georgiche IV, 453-527
Orpheu, quis tantus furor?
Il dio marino Proteo, costretto da Aristeo a rispondergli sulla causa della moria delle api, racconta
la storia struggente di Orfeo ed Euridice. Subito dopo i primi versi, il poeta si dimentica che il narratore è il bizzarro dio marino e che sta rispondendo ad Aristeo. La narrazione diventa simpatetica,
il narratore partecipa delle sofferenze dei personaggi e con l’apostrofe o con lo stile indiretto libero
rende visibile tale partecipazione. Inoltre, il racconto riprende la tecnica dell’epillio alessandrino e
neoterico. Si tratta di una narrazione essenzialmente sentimentale, che ha per oggetto più le sensazioni che gli eventi. Non tutti i passaggi sono raccontati puntualmente, vi sono lacune clamorose:
ad esempio, non si precisa quando e come viene stipulato il patto tra gli dei degli inferi e Orfeo. Tali
omissioni vanno a vantaggio di uno spazio più ampio riservato all’analisi dei sentimenti. Di questa
memorabile narrazione si è cercato un significato profondo in armonia col senso del poema: così
Orfeo e il suo canto vano possono essere visti come simboli della poesia d’amore, inferiore e inutile
rispetto a quella didascalica.
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“Ti perseguita l’ira di un dio, e non dappoco,
sconti una grave colpa commessa: Orfeo, infelice
senza sua colpa, ti suscita queste pene, se il fato consente,
disperato per la moglie che gli è stata rapita.
Mentre ti fuggiva per i fiumi a precipizio,
la fanciulla non vide davanti ai suoi piedi nell’erba alta
un immane serpente che presidiava le rive e fu condannata a morire.
Il coro delle coetanee Driadi riempì le cime
dei monti di grida; piansero le vette di Rodope,
gli alti Pangei, la terra guerriera di Reso,
i Geti, l’Ebro e l’attica Orizia.
Lui consolando sulla cetra l’amore ferito,
te soltanto, dolce sposa, cantava, solo in riva al mare,
te al venire, te al tramonto del giorno.
Entrò nelle gole tenarie, le alte porte di Dite,
e nel bosco oscurato da nero terrore,
andò dagli dei inferi, dal re tremendo,
cuori incapaci di piegarsi alle preghiere degli uomini.
Commosse dal canto venivano dalle sedi profonde dell’Erebo
le ombre lievi, immagini prive di luce,
quante migliaia d’uccelli si nascondono tra le foglie
quando la sera o la pioggia invernale li caccia dai monti,
donne e uomini, corpi di magnanimi eroi
al termine della vita, ragazzi e ragazze vergini,
giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei genitori,
che tutt’intorno incatena il fango nero e l’orrendo canneto
del fiume Cocito, l’odiosa palude con le sue acque pigre,
e rinchiude lo Stige che scorre per nove giri.
Stupirono le case stesse dei morti e il profondo
Tartaro e le Erinni con le chiome intrecciate di serpi turchine,
Cerbero tenne aperte le sue tre bocche
e si fermò nel vento la ruota di Issione.
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Georgiche  Virgilio
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E già ritornando era sfuggito a tutte le insidie
ed Euridice restituitagli saliva al cielo aperto
seguendolo – questa legge aveva imposto Proserpina –
quando un’improvvisa follia prese l’amante incauto;
perdonabile, se potessero perdonare gli dei di sotterra:
sulla soglia ormai della luce immemore, vinto nell’animo,
si fermò e si volse a guardare la sua Euridice e perdette
tutte le sue fatiche, fu rotto il patto del crudele tiranno
e tre volte si udì un fragore per gli stagni d’Averno.
‘Quale enorme follia ha distrutto me infelice
e te, Orfeo? Di nuovo mi chiamano indietro
i fati crudeli e il sonno spegne i miei occhi offuscati.
Addio: mi circonda e mi inghiotte una notte infinita
mentre non più tua, a te tendo invano le mani’.
Così disse, e sparve alla vista come il fumo disperso nell’aria
tenue; fuggì altrove e non vide più lui
che inutilmente abbracciava le ombre e ancora voleva
parlare; ma il guardiano degli Inferi non gli permise
di passare un’altra volta la palude in mezzo.
Che fare, dove andare, dopo aver perso due volte
la sposa? Con quale pianto commuovere gli inferi,
con quale voce gli dei? Lei già fredda passava lo Stige
sulla barca. Dicono che la pianse per sette mesi
sotto un’alta rupe, presso la riva deserta
dello Strimone e sotto le fredde stelle narrava
questa sua storia, addolcendo le tigri e portando con sé le querce,
grazie al suo canto, come all’ombra del pioppo l’usignolo gemente
piange i figli perduti che l’aspro coltivatore
spiando ha strappato ancora implumi dal nido;
piange la notte e sedendo sul ramo ripete
il canto pietoso e riempie vasti spazi dei suoi lamenti.
Nessun amore o matrimonio piegò il suo animo.
Da solo percorreva i ghiacci Iperborei e il gelido Tanai
e i campi Rifei mai liberi dalle brine,
lamentando la perdita di Euridice e gli inutili
doni di Dite. Ma le donne di Tracia, respinte
per il culto di lei, durante l’orgia notturna di Bacco
fecero a pezzi il giovane e lo sparsero per i campi.
Anche allora il capo, staccato dal candido collo
e trascinato dall’Ebro eagrio nel mezzo della corrente,
invocava Euridice con la lingua ormai fredda,
povera Euridice, chiamava col respiro fuggente,
Euridice ripetevano per tutto il corso del fiume le rive”.
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Eneide  Virgilio
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Eneide II, 506-558
Haec finis Priami fatorum
Tra gli episodi narrati nella caduta di Troia spiccano non quelli più importanti dal punto di vista
militare, ma piuttosto quelli più patetici, che coinvolgono personaggi ingiustamente sacrificati alla
guerra, o perché troppo giovani (Polite), o perché troppo vecchi (Priamo).
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Forse mi chiederai anche quale fu il destino di Priamo.
Quando vide la città presa e caduta, scardinate le porte
della sua casa, il nemico nelle sue stanze,
il vecchio indossò invano sulle spalle tremanti le armi
dismesse da tanto tempo, cinse la spada inutile
e si lanciò a morire nel folto dei suoi nemici.
In mezzo al palazzo, c’era all’aperto un grandissimo altare,
e accanto, incombente all’altare, un lauro antico,
che con la sua ombra abbracciava i Penati.
Qui sedevano invano attorno agli altari Ecuba e le sue figlie
come colombe scampate alla nera tempesta
strette assieme, abbracciando i simulacri divini.
Come Ecuba vide Priamo con le armi della giovinezza
gli disse: “Quale pensiero atroce, infelicissimo sposo,
ti ha spinto a indossare le armi? E dove mai ti precipiti?
Non questi aiuti, non questi difensori richiede
il presente, neppure se ci fosse il mio Ettore.
Resta qui: quest’altare ci proteggerà tutti, oppure
morremo insieme”. E così dicendo, riporta
indietro il vecchio e lo mette a sedere sul luogo sacro.
Ecco che scampato al massacro di Pirro, uno dei figli
di Priamo, Polite, fugge per i lunghi portici, in mezzo
alle armi e ai nemici, e percorre ferito gli atri
vuoti. Lo insegue impetuoso Pirro nel desiderio
di colpirlo, lo ha ormai quasi in mano, gli è addosso
con la lancia. E quando finalmente fu giunto davanti agli occhi
dei genitori, cade e con molto sangue esala la vita.
Priamo allora, per quanto già in preda, in mezzo alla morte,
non si trattenne, non risparmiò la voce e la collera:
“A te per questo delitto, per tali imprese,
gli dei, se c’è in cielo pietà che di tali imprese si curi,
possano rendere il premio e le grazie dovute,
tu che mi hai fatto assistere alla morte di un figlio
e con la sua morte hai sporcato il volto di un padre.
Non fu così quell’Achille, da cui menti di essere nato,
col suo nemico Priamo; rispettò i diritti del supplice,
restituì al sepolcro il corpo esangue
di Ettore e mi rimise nel mio regno”.
Così dicendo il vecchio scagliò la lancia
imbelle, senza forza, che fu respinta dal roco bronzo
e pendette inutile dall’umbone rotondo.
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Eneide  Virgilio
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Rispose Pirro: “Andrai dunque tu stesso
a riferire a mio padre Achille il messaggio e ricordati di raccontargli
bene i miei delitti, e che Neottolemo è un figlio degenere.
Intanto muori”. E così dicendo trascina all’altare
Priamo che trema e scivola sul sangue del figlio,
si attacca con la sinistra ai capelli e con la destra solleva
la spada lucente e la pianta fino all’elsa nel fianco.
Fu questa la morte di Priamo, questa la fine fatale
che ebbe, vedendo Troia in fiamme e caduta Pergamo,
colui che fu un tempo il re superbo di tanti
popoli e terre dell’Asia. Giace sulla spiaggia, grande, il suo busto,
un capo troncato dalle spalle ed un corpo senza più nome.
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Eneide  Virgilio
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Eneide IX, 420-449
Fortunati ambo
Eurialo è stato catturato dai Rutuli, ma Niso non lo abbandona. Stando nascosto, uccide due soldati
che tengono prigioniero Eurialo, scatenando l’ira del comandante dei nemici, Volcente. Infine, si
lancia all’assalto, per morire insieme all’amato Eurialo. Il sacrificio dei due amici è inutile in una
prospettiva militare, ma tale da conquistare una gloria eterna: di qui l’apostrofe che rivolge loro il
narratore, chiamandoli fortunati.
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Volcente è furioso, ma non riesce a vedere
l’autore del lancio, e non sa dove sfogare la rabbia.
“Tu intanto mi pagherai la morte di entrambi
col tuo sangue caldo”, disse, e con la spada sguainata
piombò addosso ad Eurialo. Allora, in preda a folle terrore,
Niso gridò, non poté più nascondersi al buio
né sopportare un così grande dolore:
“Me, me, sono io che l’ho fatto, me colpite col ferro,
Rutuli, mio è l’inganno, niente ha fatto il ragazzo:
non l’avrebbe potuto, ne attesto il cielo e le stelle consapevoli.
Ha solo amato troppo l’amico infelice”.
Mentre così parlava, la spada spinta con forza
passò le costole e ruppe il candido petto.
Rotolò nella morte Eurialo, per le belle membra
scorse il sangue e la testa reclinò sulle spalle:
come il fiore purpureo, reciso dall’aratro,
languisce morendo, e i papaveri abbassano il capo
sul collo stanco, quando la pioggia li aggrava.
Niso allora si butta nel mezzo e fra tutti cerca
il solo Volcente, di lui solo si occupa.
I nemici lo circondano, di qua lo stringono, di là lo ricacciano.
Nondimeno insiste, ruotando la spada fulminea,
finché l’immerse in bocca al Rutulo urlante
e morendo tolse al suo nemico la vita.
Allora si gettò sopra l’amico esanime,
e là trafitto riposò in una placida morte.
Ambedue fortunati! Se qualcosa possono
i miei canti, nessun giorno vi toglierà alla memoria dei posteri
finché la casa di Enea possiederà l’immobile rupe
del Campidoglio e il senato romano avrà l’impero.
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Eneide  Virgilio
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Eneide X, 762-908
Animam diffundit in arma cruore
La figura del tiranno Mezenzio, spregiatore degli dei e odiato soprattutto dalle sue stesse genti, è una
delle più riuscite del poema. Prima è rappresentata la sua discesa in battaglia. Si è notato che la
similitudine con Orione richiama la categoria del mostruoso, e che Mezenzio, una sorta di mostro
nell’animo per crudeltà, è rappresentato coi tratti esteriori dell’essere fisicamente mostruoso. Ma
nello scontro con Enea diviene soccombente. La discesa in campo del figlio giovinetto Lauso in soccorso del padre ferito costituisce uno degli episodi più struggenti del poema. Enea ha pietà e rende
onore al nemico giovinetto, mentre lo stesso Mezenzio di fronte alla morte del figlio trova la forza e i
modi di una morte dignitosa. Il suo comportamento nel momento finale, quando viene ucciso da Enea
e offre il collo perché sia reciso, ricorda l’atteggiamento di una vittima predestinata al sacrificio.
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Ma ecco che brandendo l’enorme lancia
torvo entra in campo Mezenzio. Quanto è grande Orione
quando avanza a piedi per le distese di Nereo
aprendosi la via e sovrasta con la spalla le onde,
o portando dalla cima dei monti un ontano antico
cammina per terra e nasconde la testa in mezzo alle nubi,
così avanza Mezenzio con le armi immense.
Contro di lui si prepara a marciare Enea,
avendolo visto già da lontano. Ma quello resta imperterrito
aspettando il nemico magnanimo, fermo nella sua mole,
e dopo avere misurato con gli occhi il tiro di lancia
dice: “Mi assistano adesso l’arma che brandisco e la mano
che è il mio dio. Ti consacro, Lauso, a trofeo,
vestito delle spoglie di Enea, con le armi strappate al predone ucciso”.
Così disse e lanciò da lontano la lancia stridente,
ma fu respinta in volo dallo scudo di Enea
e colpì fra l’inguine e il fianco il forte Antore,
compagno di Ercole, che venuto da Argo
si era unito ad Evandro e viveva in terra italica.
L’infelice è abbattuto dal colpo destinato ad un altro,
guarda il cielo e morendo ricorda la dolce Argo.
Poi è il pio Enea a scagliare la lancia
che attraversò il triplo strato di bronzo e poi il lino
e la triplice pelle di toro, poi si fermò al fondo
dell’inguine senza più forza. Allora rapidamente
Enea, lieto per aver visto il sangue nemico, estrae la spada
dalla coscia e lo incalza con forza mentre l’altro trema.
Gemette profondamente per amore del caro padre
Lauso come lo vide, e le lacrime scorsero per le sue guance.
E qui non tacerò l’aspra storia della tua morte
né le tue imprese, né te stesso, nobile giovane,
se l’antichità farà sì che venga creduto.
Mezenzio retrocedeva, impacciato e come inutile,
cercando di strappare dallo scudo la lancia
nemica. Quando il ragazzo balzò avanti e si gettò nella mischia,
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si fece sotto alla spada di Enea che già si alzava con la destra
a portare il colpo e lo fermò in questo indugio.
I compagni con grandi grida assecondano
il padre, che esce protetto dallo scudo del figlio,
gettando frecce e disturbando coi lanci
da lontano il nemico. Enea, furioso, si tiene coperto.
Come quando le nubi precipitano in un rovescio di grandine
e fuggono dai campi aratori e contadini,
il viandante si tiene al riparo o sotto la riva
del fiume o sotto la volta di un’alta rupe
fin che piove sulla terra, per poi fare le sue occupazioni
quando il sole ritorna, così coperto di frecce da ogni parte,
Enea sopporta la nube di guerra aspettando che passi
e provoca Lauso e lo minaccia:
“Dove corri a morire osando più delle tue forze?
Incauto, ti inganna il tuo affetto filiale”. Nondimeno Lauso
impazza nella sua furia e nel capo troiano
più aspra sorge la collera. Le Parche filano
l’ultimo filo per Lauso: Enea trapassa con la valida spada
il giovane e nel suo corpo la immerge tutta.
La punta passò lo scudo, arma troppo leggera per la sua audacia,
la tunica intessuta dalla madre con un filo d’oro
e il sangue riempì le pieghe: la vita se ne andò mesta
per l’aria ai Mani e abbandonò il corpo.
Come vide il volto e lo sguardo del giovane
morente straordinariamente pallidi,
Enea gemette profondamente per compassione
e tese la destra e gli strinse il cuore l’immagine dell’affetto filiale.
“Povero ragazzo, che può darti il pio Enea
per le tue imprese, che sia degno della tua indole?
Tieni per tue le armi che ti diedero gioia:
ti rimando all’esequie dei tuoi, se ne avranno cura.
Ma consoli la tua misera morte, infelice,
che cadi per mano del grande Enea”. E incoraggia
i suoi compagni esitanti, e lo solleva da terra,
che sporcava di sangue i capelli ben pettinati.
Intanto il padre, sulla riva del Tevere,
stagnava con l’acqua la ferita, appoggiandosi
al tronco di un albero. L’elmo di bronzo
pende lontano da un albero e le armi pesanti giacciono
sul prato. Attorno a lui stanno giovani scelti e lui sfinito,
ansimante, appoggia il capo: la lunga barba gli pende sul petto.
Chiede sempre di Lauso e gli manda molti messaggi
a richiamarlo, a portargli gli ordini del suo povero padre.
Invece i compagni portavano sopra le armi, piangendo,
Lauso esanime – grande, e vinto da una grande ferita.
Il cuore presago della sventura riconobbe da lontano il lamento.
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Sporca di molta polvere la sua canizie,
tende al cielo ambo le mani e si getta sul corpo.
“Figlio mio, tanta voglia di vivere mi ha dunque spinto
a lasciare mio figlio affrontare al mio posto la destra nemica?
Io tuo padre sono salvo per le tue piaghe,
vivo per la tua morte? Questo è per me il vero esilio,
questa è la ferita che mi trafigge in profondo.
Figlio mio, io ho macchiato coi miei delitti il tuo nome,
io cacciato con odio dal trono paterno.
Io ero in debito verso la patria e l’odio dei miei,
e avessi dato con mille morti la mia vita colpevole!
Vivo e non lascio ancora la luce e gli uomini,
ma li lascerò”. E così dicendo si alza sull’arto ferito
e, benché la sua forza sia impacciata dalla profonda ferita,
non si abbatte e si fa portare il cavallo. Era questo
la sua gloria e il suo conforto. Con lui usciva
vincitore da ogni battaglia. E così parla al cavallo afflitto:
“A lungo abbiamo vissuto, Rebo, se pure qualcosa
dura a lungo per i mortali. Oggi, o riporterai vincitore
le spoglie cruente e la testa di Enea e insieme a me
vendicherai i dolori di Lauso, o se la forza non ci apre la strada,
cadrai assieme a me; certo non credo, fortissimo,
che sopporteresti ordini estranei e accetteresti per padroni i Troiani”.
Così disse, e accolto in groppa, vi accomodò il suo corpo
familiare e armò le due mani di lance acute,
col capo lucente di bronzo e irto di pennacchi equini.
Si gettò nella mischia di corsa; nel suo cuore ribolle
l’onore e la furia mescolata al pianto
[e l’amore agitato dalle furie e il valore consapevole].
Qui chiamò Enea a gran voce tre volte ed Enea
lo riconobbe e pregò con animo lieto:
“Così voglia il padre degli dei, così il grande Apollo!
Inizia dunque il combattimento”. E ciò detto,
gli corre incontro con la lancia nemica.
E quello: “Crudelissimo, mi hai tolto il figlio e vuoi farmi paura?
Quello era il solo modo di uccidermi. Non ho paura
della morte o riguardo per nessun dio.
Smetti: vengo a morire, però prima ti porto
questi doni”. E ciò detto, scagliò una lancia
e poi un’altra e un’altra ancora, muovendosi
in ampio giro, ma tutte le regge lo scudo dorato.
Tre volte girò a sinistra attorno ad Enea
scagliando le lance, tre volte l’eroe troiano
porta una selva immane sopra la piastra di bronzo.
Stanco di tanti indugi, e di svellere tante
lance, e incalzato dall’iniqua battaglia,
molto pensando in cuor suo, infine esplode
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Eneide  Virgilio
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e trapassa con l’asta le tempie del cavallo guerriero.
Il cavallo s’impenna, colpendo l’aria coi calci,
e seguendo il suo cavaliere disarcionato
gli cade addosso con la spalla slogata.
Troiani e Latini incendiano di urla il cielo.
Vola Enea sguainando la spada dal fodero
e dice: “Dov’è ora l’aspro Mezenzio e la sua feroce
forza d’animo?” Ma l’altro, appena guardando in alto
ebbe preso respiro e fu tornato
in sé, rispose: “Amaro nemico, perché mi provochi
e mi minacci la morte? Non è empia la morte, non a questi patti
sono venuto in guerra e con te non li ha fatti neppure il mio Lauso.
Solo ti chiedo, se c’è qualche pietà per i nemici vinti,
lascia che il mio corpo lo copra la terra. So bene
che mi sta attorno l’odio acerbo dei miei. Ti prego, difendimi
dal loro furore e concedi che divida con mio figlio la tomba”.
Ciò detto, accolse consapevolmente nel collo la spada,
e con un fiotto di sangue versò sulle armi l’anima.
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