Ricordi del tempo del Duce Introduzione Quest'anno, studiando il fascismo, noi ragazzi abbiamo letto gli eventi storici più importanti di quel periodo, ma non c'era niente che riguardasse la vita quotidiana delle persone. Quindi abbiamo deciso di scoprire cos'è accaduto, cosa e come hanno vissuto i giovani dell'epoca: i nostri nonni. Raccogliendo e rileggendo le loro testimonianze ci siamo resi conto che alcuni dei loro ricordi combaciavano con gli eventi storici letti in classe; era più difficile vivere nel loro tempo perché avevano meno comodità e meno ricchezze, correvano più pericoli e rischiavano ogni giorno sotto la minaccia dei bombardamenti. Mentre i nostri nonni ci raccontavano le loro esperienze del tempo del Duce, sui loro volti vedevamo il divertimento e la gioia di condividere il loro passato, ma anche sofferenza, perché hanno vissuto la loro gioventù in un'epoca particolare. Abbiamo confrontato le loro vite con le nostre, abbiamo visto le differenze dei racconti di episodi provenienti dai vari luoghi d'Italia; cose banali per noi scontate, come l'acqua calda e lo zucchero nel caffè, per loro non lo erano, perché non avevano abbastanza per permettersi questo lusso. Il Fascismo è stato un periodo molto importante per la nostra Patria: la vita degli italiani era totalmente controllata da questa dittatura; abbiamo scoperto una realtà molto diversa in cui le persone vivevano con regole differenti dalle nostre. Abbiamo partecipato al concorso letterario per non dimenticare la loro vita di quel tempo, per “ritrovare il tempo” dei nostri nonni. Mia nonna mi ha raccontato un episodio dove lei, la sua famiglia e altre persone hanno rischiato la vita. Loro abitavano in una residenza molto grande, in Sicilia. Nel loro giardino, però, si erano accampati i tedeschi. Un giorno videro passare nel cielo un aereo statunitense il quale venne abbattuto dagli uomini di Hitler. Un anziano signore fece nascondere gli americani prima che i tedeschi potessero vederli. Questi ultimi presero in ostaggio tutti gli uomini, le donne e i bambini italiani minacciandoli di ucciderli se non avessero detto loro il rifugio degli americani. Alla fine l’anziano signore dovette cedere e i tedeschi uccisero gli Statunitensi. Nonna Giusy Quando ero piccola ed andava a trovare i miei nonni, che vivevano a Bologna, ero costretta a prendere il treno e mentre viaggiavamo erano ricorrenti le grida e le suppliche inquietanti dei soldati che venivano trasportati al fronte. Mia mamma, che era la maestra in un paese in Alto Adige, si ricordava di quel giorno in cui dei soldati tedeschi hanno detto che avrebbero ammazzato tutti gli italiani che vivevano lì, ma per fortuna alcuni uomini del paese si sono schierati contro i tedeschi, dicendo che era la loro unica maestra e quindi non la dovevano toccare, così i tedeschi la risparmiarono. Nonna Angela Quando suonava l'allarme si andava tutti nel rifugio e mia mamma portava un sacchetto con dentro un po' di zucchero, per noi bambini, e l' acqua. Nel '43, con l'armistizio, i tedeschi hanno occupato l'Italia; così la mia famiglia è stata sfollata a Cellore, perchè ci avevano requisito la casa. Durante i bombardamenti da Cellore si vedevano le bombe che cadevano in città e gli spari della contraerea. Venivano lanciati anche degli spezzoni incendiari e uno è caduto sulla veranda di mia nonna, che ha preso fuoco. Si doveva sempre tenere della sabbia in casa per spegnere i fuochi. Alla fine della guerra invece dagli aerei venivano lanciate delle strisce di stagnola, così i radar tedeschi non potevano captare gli aerei americani. A Cellore gli uomini avevano dovuto scavare le trincee nei campi per i tedeschi. Molti andavano in montagna con i partigiani. Mi ricordo che i figli della mia padrona di casa erano partigiani e la figlia era fidanzata con un uno della Milizia, e i suoi fratelli l'avevano fatto scappare con la bici, poi avevano nascosto la bici, ma non si erano accorti che era caduto il campanello, così i tedeschi erano venuti a cercarlo e, di notte, avevano perquisito tutta la casa, con i mitra puntati. Mia mamma veniva da Zevio e quando andava a casa sua dalla sua famiglia tornava con farina e animali presi al mercato nero, perchè ogni raccolto o prodotto doveva essere diviso con “l'ammasso” (cioè ai soldati). Andava a Zevio in bicicletta dalla città e si metteva sempre un impermeabile largo per nasconderci sotto ogni cosa (anche gli animali). La farina serviva per avere il pane, nei panifici si scambiava la farina con il pane. Anche la grappa non si poteva avere, bisognava pagarci una tassa, e quindi veniva nascosta sottoterra: veniva lasciato un filo di ferro che veniva su dal terreno per poterla ritrovare. Verso la fine della guerra non si trovava roba da mangiare e al posto dello zucchero nel caffelatte mettevamo il sale. Per il cibo bisognva avere le tessere. Durante la guerra i fascisti avevano chiesto alla gente di raccogliere le fedi e le pentole di rame. Mi ricordo che la baby sitter di mio fratello gli aveva insegnato a dire “Polco Duce” e in famiglia avevano il terrore che il bambino lo dicesse in pubblico. Dove adesso c'è la fiera c'era il “Quarto Centro”, dopo l'8 settembre tutti i soldati cercavano di scappare ma mio papà pensava che scappare fosse un disonore. Alla fine ha dovuto cedere e si è fatto portare dei vestiti da civile, ma quando sono arrivati i tedeschi ha visto che sua sorella gli aveva portato tutti vestiti da donna. Per scappare dalla caserma sono dovuti passare dai tombini per nascondersi, e da lì sentivano passare sulla strada i carri armati. Scappavano perchè i tedeschi catturavano i militari e li portavano in Germania come prigionieri nei campi di concentramento. A Cellore c'era una sola radio in tutto il paese e si poteva ascoltare solo la radio italiana, non la radio di Londra. Noi la ascoltavamo di nascosto e c'erano dei messaggi in codice, se dicevano: "domani piove" voleva dire che il giorno dopo ci sarebbero stati i bombardamenti... Nonna Elena Ogni giovedì mattina con la scuola si faceva la parata: ero nei Balilla (i Figli della Lupa).A sette anni sono andato in colonia: il giorno dell'armistizio ero in colonia e la maestra ci ha detto di buttare giù dalla finestra tutti i simboli di Mussolini, in piazza hanno buttato giù la sua statua e poi sono dovuto tornare a casa subito. Quando sono arrivato in città avevo ancora la divisa e mia mamma mi ha nascosto in un sottoscala per togliermela. Io vivevo a Mezzane e quando c'erano i bombardamenti aerei in città bisognava ripararsi perchè cadevano le schegge. C'era il tifo e abbiamo dovuto spostarci a Castagnè e da lì si vedevano tutte le bombe su Verona che uscivano dagli aerei e facevano fumo. Quando i tedeschi scappavano i partigiani gli sparavano: mi ricordo un tedesco che cercava di scappare in bici, un partigiano l'ha fermato e gli ha preso lo bici e gli ha dato degli schiaffi. Il mio papà era della Guardia di Finanza ed è stato liberato dagli Americani, è stato preso al di là del confine a Porto Empedocle (SI).Un mio zio è rimasto chiuso in un sommergibile ma poi l'hanno liberato. Quando è finita la guerra noi ragazzi per divertirci prendevamo i sassi e li buttavamo sulle bombe per farle scoppiare. A Verona sono saltati tre forti (San Briccio, a Trezzolano, a Ceraino), la gente ha svuotato dalle munizioni il forte di San Briccio per non far saltare la città. Alla fine della guerra i Tedeschi hanno fatto saltare tutti i ponti di Verona e la città era divisa in due parti. Sul Ponte della Vittoria c'era una passerella di legno per poter passare. Nonno Gianpasquale Nonno Marino era un soldato è ha dovuto fare la scorta al treno dei tedeschi verso l'Istria. Era molto pericoloso perchè poteva essere attaccato o bombardato. All'armistizio ha dovuto tornare a casa a piedi da Udine nascondendosi per non essere catturato dai tedeschi e portato in prigioniero in Germania. Nonna Teresa Vivevo in una casa in campagna a Rovigo con 21 cugini e dato che eravamo in tanti il duce ci aveva regalato molta terra. Andavamo a scuola vestiti con una divisa e ci insegnavano come si stava seduti, come si camminava, a marciare e ogni giorno facevamo l’alzabandiera. Inoltre d’inverno, dato che non c’era il riscaldamento, ogni alunno a turno doveva portare della legna da mettere nella stufa. Ogni sabato noi bambini andavamo in una piazza della città a fare ginnastica. Mio padre per insegnarmi come si camminava, mi metteva un libro sulla testa e dovevo cercare di tenerlo in equilibrio. Nonna Corinna I miei ricordi sono purtroppo pochi e vaghi. Mi ricordo però molto bene le condizioni di vita in campagna. Vivevo in una piccola casa con 7 fratelli e la nostra mamma; tutte le mattine mi alzavo presto per aiutarla a mungere le mucche, poi andavo in città percorrendo circa sette chilometri a piedi perché non eravamo neanche in grado di comprarci una bicicletta. Un pomeriggio mentre passavo vicino alla stazione ci fu un mitragliamento e un proiettile mi colpì la gamba; infatti tuttora ho problemi a muovere il ginocchio. Il lato positivo di quel proiettile fu che non dovetti andare al fronte ed essendo laureato in ingegneria mi misero a costruire i treni. Nonno Pino In Italia al tempo di Mussolini c’era il sabato fascista dove i giovani maschi dovevano fare l’allenamento premilitare. Io non ci andavo perché al sabato lavoravo nei campi. Ma un sabato mio fratello non si è presentato all’allenamento e, essendo minorenne, la mia famiglia doveva o pagare una multa, abbastanza costosa a quel tempo, o un genitore doveva stare una notte in prigione. Cosi, siccome non c’erano soldi, mio papà ha passato una notte in cella alla stazione dei carabinieri di Montorio. A scuola tutti erano vestiti di nero. Io ero una Piccola Italiana, vestita sempre con la maglia bianca e gonna nera a pieghe. Mi ricordo dei motti di Mussolini che recitava per dimostrare all’Italia che lui era forte. Due di questi sono: “Vado vinco e torno” e “Armatevi vincete e tornate!”. L’ultimo era un motto che recitava con sicurezza per illudere gli italiani che noi eravamo forti, però lui in guerra non ci andava, infatti mandava i ragazzi e gli uomini a combattere. Nonna Idelma Nacqui poco prima dello scoppio della guerra, vivevo in un clima relativamente sereno, anche se c’erano molte difficoltà che dovevo affrontare nella mia vita quotidiana. La mattina di ogni giorno partivo da casa mia per andare a scuola, facevano eccezione il sabato fascista e la domenica, arrivata a scuola, appena entrava l’insegnante tutti i bambini facevano il saluto romano e occasionalmente ascoltavano i discorsi del Duce. Durante la ricreazione, gli insegnanti distribuivano ai bambini dei panini con la marmellata. Tornata a casa dovevo andare a lavorare con i miei fratelli e i miei genitori, anche se mio padre non era molto presente perché faceva il carabiniere. Avevo undici fratelli, quindi non dovevo pagare le tasse, alcuni di essi morirono presto, come un mio fratellino nato prematuro. Un altro morì quando aveva diciassette anni, con alcuni suoi compari era andato a cercare del cibo sul forte Castelletto (un deposito armi dei tedeschi), pur raccomandato da mio padre di non andare perché pericoloso. E così innescarono un’esplosione, forse dovuta a causa di una sigaretta depositata per errore sui mucchi della polvere da sparo che riempivano la zona. Mia madre andò tutte le sere seguenti, piangendo e urlando dove era morto il figlio, chiamandolo nel cuore della notte. I figli andavano a cercarla finché non la trovavano, sempre nello stesso posto a piangere. Ancora adesso, una volta all’anno, io e la mia famiglia ci rechiamo al forte per fare una messa in ricordo di tutti i caduti, si vede bene il grande cratere, ora pieno d’erba. Il sabato fascista andavamo tutti quanti in piazza, con divise nere e cappelli improvvisati, a meno che non avessimo da lavorare, mi divertivo molto, perché le canzoni erano coinvolgenti e i bambini stavano tutti insieme. Le camicie nere non erano bene accolte nella mia casa perché ci rubavano ogni genere di beni appostandosi nella notte nel pollaio o in stalla portando via gli animali. Un altro fatto che mi ricordo è quando mia sorella Maria e mio fratello Felice andavano, la notte, a ballare, io non li seguivo perché l’idea non mi affascinava molto, si recavano di nascosto a divertirsi perché i genitori sostenevano che non fosse un divertimento da persone “per bene”. Nonna Rita Mia mamma, durante la protesta al mulino per avere più pane, è stata arrestata. Io e i miei amici quando eravamo alle medie, ci siamo rifiutati di fare i Balilla e durante un sabato fascista siamo andati al forte di Montorio e abbiamo tirato i sassi ai ragazzi che si esercitavano e ci hanno dato due settimane di sospensione; oltre a sospenderci ci hanno preso di mira e continuavano a darci note. In casa mia quando dovevamo portare le capre dall’altra parte della casa dovevano passare dalle camere e quindi facevano i loro escrementi sul pavimento perché non c’erano altri passaggi. Nonno Palmiro Quando ero piccolo e c’era il coprifuoco di notte passavano gli aeroplani e sparavano nelle case che avevano la luce accesa. Nonno Francesco Da piccola in convitto il prete mi portava sempre il cibo in più perché diceva che dovevo crescere ma dopo un po’ di tempo sono dovuta ritornare a casa. Al mattino siccome non c’era molto cibo mi arrampicavo sull’albero di fichi con il pane e facevo colazione. Quando ero ancora in Francia durante i bombardamenti io e la mia famiglia andavamo in una miniera abbandonata a ripararci e ci rimanevamo anche dei giorni, c’era molta puzza, sporco e poca acqua. Poi a scuola quando sono arrivata in Italia la maestra era molto precisa su come vestirsi e pettinarsi e visto che in Francia le usanze erano diverse, quando ero acconciata in modo per lei sconcio, mi legava i capelli al banco. Nonna Luisa Ho iniziato ad andare a scuola a sei anni; la scuola era molto diversa dalla vostra: si cominciava facendo le aste (ossia linee dritte, oblique, orizzontali, curve e spezzate che sarebbero servite in seguito per comporre le lettere), i puntini e le cornicette; poi imparavamo le lettere dell’alfabeto e, solo verso la fine dell’anno, si sono iniziate a formare le prime parole, mentre in seconda elementare iniziai ad imparare le prime poesie. Il materiale veniva fornito dalla scuola perché la maggior parte degli alunni era talmente povero da non riuscire a comprarlo. In classe, vicino al crocifisso, c’erano le foto di Benito Mussolini e del Re Vittorio Emanuele: ogni volta che si entrava bisognava porgere loro il saluto fascista. Un giorno mi dimenticai di farlo e la maestra mi fece inginocchiare sulla polenta per cinque ore; un altro episodio che mi ricordo è quando, a ricreazione, io e le mie amiche imitavamo Mussolini deridendolo, e la maestra, dopo averci sentite, ci faceva inginocchiare nuovamente sulla polenta e ci diede molte bacchettate. Si cantavano canzoni e si recitavano poesie che inneggiavano Mussolini al mattino, dopo la preghiera, e alla fine della scuola. Terminate le lezioni si distribuiva agli alunni pane e minestra da portare a casa per invogliare i genitori a mandare i figli a scuola. Al sabato non si andava a scuola perché ci si doveva recare in piazza per il “Sabato Fascista”, cioè un insieme di canti e balli in onore di Mussolini. Mi piaceva molto perché incontravo i miei amici e per me era come una festa. Il Duce istituì le “Tessere”, nelle quali si prefissava una quantità di cibo giornaliero, che doveva essere rispettata per arrivare a fine mese; queste tessere venivano timbrate ad ogni acquisto. Avevo otto fratelli, per cui la mia famiglia pagava meno tasse. Nella corte dove abitavo, durante la guerra, si erano stabiliti dei soldati tedeschi, con i quali ci si doveva comportare bene, ma che avevano un animo gentile: infatti, quando avanzavano del cibo, vedendo la difficoltà in cui si trovava la mia famiglia, ce lo cedevano volentieri. Ricordo che un giorno, mentre correvo, sono caduta facendomi un profondo taglio al ginocchio; un soldato tedesco, Alexander, vedendomi cadere, si è subito precipitato ad aiutarmi. Mi ha soccorsa, e tutti i giorni veniva a medicarmi finchè non sono guarita. Si andava a Messa tutti i giorni, prima di andare a scuola, mentre alla sera ci si riuniva nelle stalle per riscaldarsi: si chiacchierava, ci si raccontava delle storie, si ballava e, a volte, si mangiavano patate, polenta o zucca, il tutto accompagnato da un bicchiere di latte caldo appena munto. La domenica ci si ritrovava fra parenti a mangiare e a fare festa, giocando con i cugini a rincorrersi, a campana, a nascondino o con le bambole (fatte dalle mamme con stoffa o legno). La festa più grande, però, è stata quando è tornato il papà dalla guerra, del quale non si sapeva nulla da circa un anno. Nonna Gina Io sono nata a Badia, un piccolo paese di montagna. Quando ero piccola ogni volta che si entrava in classe a scuola o che si incontrava un carabiniere bisognava fare il saluto fascista e ogni sabato dovevo indossare la divisa con la gonna nera e la camicia bianca. Poi quasi ogni giorno passava un aereo che sparava a tutto quello che trovava sulla strada principale del paese, infatti un mio zio era morto cercando di nascondersi sotto ad un carretto. I ragazzi erano costretti ad andare in guerra ; uno dei miei fratelli, Nello, era stato scelto, l’altro no perché lo ritenevano troppo debole. Ma Nello era riuscito a scappare e a tornare a casa, nascondendosi nella stalla. Io lo avevo scoperto perché lo avevo visto di sfuggita e l’unica cosa che mi aveva detto era di stare zitta. Ma un giorno io e mia sorella avevamo incontrato due carabinieri che ci avevano chiesto se eravamo contente che nostro fratello fosse tornato a casa, e noi avevamo risposto che lui si trovava in guerra. Ma mentre noi andavamo in paese loro erano andati da nostro padre e per cercare di ingannarlo gli avevano detto che le sue figlie avevano confessato che Nello era tornato a casa, ma nostro padre aveva negato tutto: così i carabinieri se ne andarono. Mi ricordo che un altro mio zio Ettore era stato costretto ad andare in guerra, e la mattina in cui doveva partire era seduto sulla sedia in cucina e stava zitto con un’aria triste e malinconica mentre mia madre continuava a ripetergli di sbrigarsi o avrebbe perso la corriera. Lui fu il primo morto in guerra di tutto il paese. E un’altra cosa che mi è rimasta impressa sono le donne che quando potevano insultavano Mussolini, erano arrabbiatissime, a tutte era morto almeno un figlio. Nonna Amelia Ai tempi del fascismo, abitavo in un collegio per sordi e dentro all’edificio c’era tanta tristezza perché eravamo vestiti tutti uguali, con la stessa maglietta arancione di scadente lana italiana, che faceva tanto prurito. Non si poteva mai giocare e scherzare con gli amici e dovevamo fare molte ore di ginnastica al giorno, e chi non era in grado di completare questi esercizi veniva bacchettato e picchiato dalla maestra. Il giorno del sabato fascista scappavo sempre da mia mamma perchè non volevo vestirmi in quella maniera cioè col mantello nero, con la camicia nera, con i pantaloni neri e con la spilla del fascismo. Anche i miei genitori non volevano mandarmi alla sfilata dei balilla ma erano costretti. Nonno Adriano
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