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Wilbur Smith
Il Trionfo Del Sole
The Triumph of the Sun © 2005
Questo libro è dedicato
alla mia anima gemella,
compagna di vita,
moglie e migliore amica
Mokhiniso Rakhimova Smith
La terra brucia dell'inestinguibile sete di millenni, e nel cielo
azzurro acciaio neppure una nuvola ostacola l'implacabile trionfo
del sole.
Winston S. Churchill, The River War (1905)
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REBECCA appoggiò i gomiti al davanzale dell'ampia finestra senza
vetri, mentre il calore del deserto le soffiava in faccia come le esalazioni di
un altoforno. Anche dal fiume sottostante sembrava salire del vapore,
quasi fosse un calderone. In quel punto il grande corso d'acqua era largo
quasi un miglio, poiché era la stagione della piena del Nilo, e la corrente
era così forte da creare vortici e gorghi luccicanti su tutta la sua ampia
distesa. Il Nilo Bianco era verde, adesso, e fetido del marciume degli
acquitrini dove era appena passato, una zona di paludi che occupava una
regione vasta quanto il Belgio. Gli arabi chiamavano quel grande pantano
Bahr el Ghazal. Per gli inglesi, era il Sudd.
Un anno prima, nei mesi freschi, Rebecca insieme a suo padre aveva
risalito la corrente fin dove il fiume riprendeva il suo corso emergendo
dalle paludi. Oltre, i canali e le lagune del Sudd non avevano mai
conosciuto una pista, erano inesplorati, con il loro tappeto fitto e fluttuante
di erbe in perpetuo ondeggiare che li nascondeva agli occhi di chiunque
non fosse un navigatore dei più capaci ed esperti. Quel mondo acquatico,
oppresso dalla febbre, era abitato dal coccodrillo e dall'ippopotamo, da
miriadi di strani volatili - alcuni di grande bellezza, altri grotteschi - e dal
sitatunga, la singolare antilope anfibia dotata di corna a spirale, manto
ispido e zoccoli allungati, adatti alla vita nell'acqua.
Rebecca si voltò, e nel movimento una treccia folta e bionda le venne a
coprire un occhio. Scostò la treccia e il suo sguardo fu di nuovo a valle, là
dove i due grandi fiumi confluivano l'uno nell'altro. Non si era ancora
stancata del fascino di quella visione, anche se erano ormai due lunghi
anni che ogni giorno contemplava il medesimo paesaggio. Un folto
groviglio di erbe galleggiava al centro del canale. Si era staccato dalle
paludi, e avrebbe seguito la corrente fino a disperdersi, lontano, nel nord,
nel turbinio delle cateratte, le rapide che di tanto in tanto interrompevano
lo scorrere monotono del Nilo. Rebecca lo seguì nel suo pesante incedere
fino alla confluenza.
L'altro Nilo scendeva da est, fresco e dolce come il ruscello di montagna
che ne era la sorgente. In questa stagione di piena le sue acque erano
colorate del grigio-azzurro pallido del limo che aveva dilavato dalle catene
montuose dell'Abissinia. Il colore gli aveva dato il nome, Nilo Azzurro, un
fiume un po' meno ampio del suo gemello, ma che pure formava un
maestoso serpente d'acqua. I fiumi confluivano al vertice del triangolo di
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terra su cui si trovava la Città della Proboscide, perché era questo il
significato del suo nome, Khartum. I due rami non si mescolavano subito,
ma, per quanto a valle Rebecca potesse spingere il suo sguardo, essi
scorrevano fianco a fianco nello stesso letto ognuno mantenendo il proprio
colore e le proprie caratteristiche finché non precipitavano insieme sulle
rocce all'entrata della gola di Shabluka, venti miglia più avanti, e non
cominciavano a ribollire in un tumultuoso abbraccio.
«Ma tu non mi stai ascoltando, cara», la apostrofò un po' bruscamente
suo padre.
Rebecca sorrise mentre si girava a guardarlo. «Perdonatemi, padre... ero
distratta.»
«Lo so, lo so. Non sono tempi facili, questi, ma hai il dovere di
affrontarli. Non sei più una bambina, Becky.»
«Certo che non lo sono», ribatté lei, quasi inalberandosi. Non era nelle
sue intenzioni lamentarsi; non lo faceva mai. «Dalla settimana scorsa ho
diciassette anni. Tu e la mamma vi siete sposati che lei aveva la mia stessa
età.»
«E adesso tu occupi il suo posto come signora della mia casa.» Al
ricordo dell'amata moglie e delle terribili circostanze della sua morte il
padre aveva assunto un'espressione quasi scorata, triste.
«Padre caro, vedete come il vostro ragionamento non si regge...» obiettò
Rebecca ridendo. «Se sono quello che dite, allora perché volete
costringermi ad abbandonarvi?»
David Benbrook guardò disorientato la figlia, quindi scacciò il dolore e
si mise a ridere con lei. Era così acuta d'ingegno, e così graziosa, che quasi
mai sapeva resisterle. «Sei proprio come tua madre.» Tale giudizio
coincideva di solito con la bandiera bianca della resa, ma invece questa
volta egli continuò a discutere e a portare le sue ragioni. Rebecca si era
nuovamente girata verso la finestra; lo ascoltava, non lo ignorava del tutto,
ma era attenta solo in parte. Adesso che suo padre le aveva ricordato in
quale terribile pericolo versassero, proprio mentre era lì, a guardare
dall'altra parte del fiume, cominciò a sentirsi ghermire la bocca dello
stomaco dai freddi artigli della paura.
Gli edifici disordinati della città indigena di Omdurman arrivavano fin
sulla riva opposta del fiume, anch'essi del colore della terra come il deserto
che li circondava, minuscoli a quella distanza come case di bambola, e
fluttuanti nel miraggio. Eppure emanavano pericolo: un pericolo feroce
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come il calore del sole, in quanto notte e giorno i tamburi non smettevano
mai, a costante memoria della minaccia mortale che incombeva su di loro.
Poteva sentire il loro rimbombo dall'altra sponda, come il battito del cuore
del mostro. Lo immaginava seduto al centro della sua rete, che al di là del
fiume teneva lo sguardo famelico fisso su di loro, quel fanatico
dall'inestinguibile sete di sangue umano, che presto con l'aiuto dei suoi fidi
sarebbe venuto a prenderli. Ebbe un fremito di paura, e tornò a
concentrarsi sulla voce del padre.
«Ravviso in te lo stesso cieco coraggio e la medesima ostinazione di tua
madre, è vero... ma pensa alle gemelle, Becky. Pensa alle bambine. Sono
le tue bambine, ora.»
«So qual è il mio dovere nei loro confronti in ogni momento della mia
giornata: dall'alba al tramonto», s'infiammò Rebecca, ma fu subito lesta a
nascondere la collera e a sorridere ancora: quel sorriso che sempre
raddolciva il cuore di suo padre. «E penso anche a voi.» Si mosse dalla
finestra per porsi di fianco alla sua sedia, in piedi, e gli posò una mano
sulla spalla. «Se venite anche voi, padre, andremo anch'io e le bambine.»
«Io non posso, Becky. Il mio compito è qui. Sono il console generale di
Sua Maestà e il mio dovere è sacro. Il mio posto è a Khartum.»
«Ebbene, allora anche il mio», si limitò a ribattere Rebecca, e gli
accarezzò il capo. I capelli di suo padre erano ancora fitti ed elastici sotto
le dita, ma ormai il nero aveva quasi lasciato il posto all'argento. Era un
bell'uomo, e spesso lei gli spazzolava i capelli e gli spuntava e arricciava i
baffi con il medesimo orgoglio che un tempo aveva avuto sua madre.
Lui diede un sospiro, e proprio mentre si preparava a insistere di nuovo,
un coro lacerante di strilli infantili penetrò dalla finestra aperta. Si
irrigidirono, poiché avevano riconosciuto le voci, ed ebbero entrambi un
tuffo al cuore. Rebecca attraversò la stanza mentre David balzava in piedi
dalla scrivania dov'era seduto: ma poi, quando gli strilli risuonarono
ancora e in essi riconobbero il tono dell'eccitazione, non del terrore, la
tensione si allentò.
«Sono nella torretta di guardia», disse Rebecca.
«Ma non hanno il permesso di salire», esclamò David.
«Ci sono molti posti dove non hanno il permesso di andare, e sono
proprio quelli dove di solito vanno a cacciarsi.» In un attimo fu alla porta,
e poi fuori, nel corridoio lastricato in pietra, all'estremità opposta del quale
una scala a chiocciola si avvitava all'interno della torretta. Rebecca si
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sollevò le gonne e salì gli scalini di corsa, agile e sicura, con il padre che la
seguiva a passo più tranquillo. Uscì nello sfavillare del sole sulla terrazza
in cima alla torretta.
Le gemelle erano lì che danzavano, pericolosamente vicine a un
parapetto basso, tanto che Rebecca fu costretta a tirarle indietro afferrando
una bambina con la destra e l'altra con la sinistra. Dall'alto del palazzo del
console guardò giù: i minareti e i tetti di Khartum si stendevano ai suoi
piedi, e per miglia e miglia in ogni direzione si poteva abbracciare un
perfetto panorama dei due rami del Nilo.
Intanto Saffron cercava di liberare il braccio dalla presa di Rebecca.
«L'Ite!» strillava. «Guarda, che arriva l'Ibis.» Delle due gemelle era la più
alta, e la più scura. Selvaggia e testarda come un maschio.
«L'Intrepid Ibis», saltò su Amber a voce alta. Era una bambina bionda e
delicata, con un timbro melodioso di voce anche quando era eccitata. «C'è
Ryder, sull'Intrepid Ibis!»
«Per te, è il signor Ryder Courteney», la corresse Rebecca. «Non devi
mai chiamare gli adulti con il loro nome di battesimo. Non ho alcuna
intenzione di ripetertelo.» Nessuna delle bambine però prese sul serio la
sgridata, perché tutte e tre le sorelle si erano già messe a fissare
avidamente a monte del Nilo Bianco, dove la graziosa nave a vapore
bianca scendeva col favore della corrente.
«Pare fatta di zucchero a velo», commentò Amber, la bellezza di
famiglia, con i suoi tratti angelici, il nasino impertinente e i grandi
occhioni azzurri.
«Dici così tutte le volte che viene», le fece notare Saffron, per niente
acida. Non avrebbe potuto essere più diversa da Amber: occhi del colore
del miele affumicato, una spruzzatina di efelidi che le faceva risaltare gli
zigomi alti, e una bocca larga, sempre pronta a ridere. Saffron alzò lo
sguardo verso Rebecca e i suoi occhi color del miele si illuminarono di un
bagliore malizioso. «Ryder è il tuo bello, eh? Il tuo beau.» Beau era
l'ultima acquisizione del suo vocabolario, e poiché veniva riservata
soltanto a Ryder Courteney, Rebecca la trovava pretenziosa e stranamente
esasperante.
«No di certo!» le rispose di botto la sorella maggiore, con una punta di
superbia a dissimulare l'irritazione. «E non essere sfacciata, signorina
Sputasentenze.»
«Porta un sacco di cibo!» Saffron stava indicando con il dito la fila di
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quattro capaci barconi dal fondo piatto che l'Ibis aveva al traino.
Rebecca lasciò andare le braccia delle gemelle e con entrambe le mani
davanti agli occhi schermò la luce per vedere meglio. Saffron aveva
ragione: su almeno due delle chiatte vi erano alte cataste di sacchi di
dhurra, il cereale che serviva come alimento base nel Sudan, e le altre due
avevano un carico di merci assortite, poiché Ryder era uno dei più ricchi
mercanti che battevano i due fiumi. Le sue stazioni commerciali erano in
fila a intervalli regolari di circa un centinaio di miglia lungo le rive dei due
Nili, dalla confluenza dell'Atbara a nord fino a Gondokoro e alla lontana
Equatoria a sud, e poi verso est da Khartum lungo il Nilo Azzurro fino
all'interno degli altopiani dell'Abissinia.
Proprio in quel momento, anche David usciva sulla terrazza. «Grazie al
buon Dio è arrivato», fece con voce sommessa. «È l'ultima possibilità che
avete per fuggire. Courteney sarà in grado di portare voi e centinaia di
nostri profughi a valle del fiume, fuori dalla minaccia delle mortali grinfie
del Mahdi.»
Mentre parlava poterono udire un solitario colpo di cannone provenire
dall'altra sponda del Nilo Bianco; si girarono all'istante tutti e quattro e
scorsero del fumo che usciva da uno dei cannoni Krupp dei dervisci in
posizione sulla riva. Un istante più tardi un getto enorme di spruzzi
d'acqua si alzò dalla superficie del fiume a un centinaio di metri dal vapore
che ormai si stava avvicinando all'attracco. La liddite dello scoppio aveva
colorato la schiuma di giallo.
Rebecca si portò una mano alla bocca per soffocare un grido d'allarme
mentre David si limitò a una caustica osservazione: «Voglia il cielo che la
loro mira sia sempre quella solita...»
Uno dopo l'altro gli altri cannoni delle batterie dei dervisci produssero il
lungo rimbombo di una salva, mentre le acque intorno alla piccola nave
schizzavano e ribollivano per gli scoppi delle granate e gli shrapnel
sferzavano la superficie del fiume come pioggia tropicale.
Poi tutti i grandi tamburi dell'esercito del Mahdi si misero a tuonare in
una sfida a gola spiegata, accompagnati dagli squilli dei corni ombeyya.
Dalle strade tra le case di fango sciamarono in un baleno cavalli e
cammelli, guidati al galoppo lungo la riva al medesimo passo dell'Ibis.
Rebecca era corsa al lungo cannocchiale di ottone che suo padre teneva
sempre fisso sul treppiede all'estremità del parapetto e puntato al di là del
fiume sulla roccaforte nemica. Dovette alzarsi in punta di piedi per
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raggiungere la lente e mettere rapidamente a fuoco l'obiettivo; solo così
poté far spaziare lo sguardo sullo sciame della cavalleria dei dervisci, per
metà nascosta dalle rosse nuvole di polvere sollevate dai cavalli lanciati in
corsa. Li vedeva così vicini che poteva distinguere le espressioni di ferocia
e crudeltà dei loro volti scuri, ed era quasi in grado di leggere sulle labbra
le imprecazioni e le minacce, e sentire quel terribile grido di guerra: «Allah
Akbar! Non c'è altro Dio al di fuori di Allah, e Maometto è il suo profeta».
Quei cavalieri erano gli Ansar, gli Aiutanti, la guardia personale del
Mahdi, l'élite del suo esercito. Indossavano tutti la jibba, la tunica a toppe,
simbolo degli stracci che erano stati gli unici indumenti in loro possesso
all'inizio di questa jihad contro gli empi, i miscredenti, gli infedeli. Armati
solo di lance e di pietre, negli ultimi sei mesi avevano distrutto tre eserciti
degli infedeli e massacrato i loro soldati fino all'ultimo uomo. Adesso
tenevano sotto assedio Khartum, e si pavoneggiavano in quelle tuniche, il
segno del loro indomito coraggio e della loro fede in Allah e nel suo
Mahdi, l'Atteso. Nelle cavalcate brandivano i pesanti spadoni a due mani e
facevano fuoco con le carabine Martini-Henry che avevano preso ai loro
nemici sconfitti.
Nel corso dei mesi dell'assedio Rebecca aveva veduto questa esibizione
di forza guerriera già molte volte, e quindi spostò il cannocchiale da loro e
lo fece ruotare verso l'altra sponda del fiume, attraversando con lo sguardo
la selva di tonfi di granate e di schizzi di schiuma, finché la plancia
scoperta del vapore non venne messa pienamente a fuoco. La figura
familiare di Ryder Courteney era appoggiata alla battagliola della plancia e
sembrava considerare i gesti grotteschi degli uomini che cercavano di
ucciderlo con una punta di vago divertimento. Nel momento in cui venne
inquadrato da Rebecca, Ryder si raddrizzò e si tolse dalle labbra il lungo
sigaro nero per dire qualcosa al suo timoniere: questi, obbediente, impresse
un rapido movimento alla ruota del timone e la lunga scia dell'Ite cominciò
a curvarsi verso la riva di Khartum.
Nonostante la canzonatura di Saffron, Rebecca non provò spasimi
d'amore alla vista di Ryder... e del resto, sorrise tra sé e sé, dubitava che li
avrebbe riconosciuti. Si considerava immune da emozioni mondane come
questa, e tuttavia aveva provato una improvvisa fitta di ammirazione per la
compostezza che quell'uomo sapeva mantenere nel bel mezzo di un simile
pericolo, un sentimento a cui aveva fatto prontamente seguito l'ardore
caldo dell'amicizia. «Be', non c'è niente di male ad ammettere che siamo
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amici», si disse, e mentre rassicurava se stessa provò anche un'immediata
preoccupazione per la sua sorte: «Ti prego, Signore, proteggi Ryder che si
trova nell'occhio della tempesta», sussurrò, e sembrò che il Signore fosse
in ascolto.
Sotto i suoi occhi infatti una scheggia d'acciaio di shrapnel aprì un buco
dai contorni frastagliati nella ciminiera appena sopra la testa di Ryder,
facendo erompere il fumo nero della caldaia. Egli non si guardò nemmeno
intorno, ma riportò il sigaro alle labbra emettendo una lunga scia di fumo
grigiastro di tabacco, che il vento si incaricò di spazzar via. Indossava una
camicia bianca tutt'altro che fresca di bucato, aperta sul collo, e teneva le
maniche arrotolate alte sul braccio, e anche un cappello a tesa larga di
foglie di palma intrecciate che con un colpetto di pollice fece inclinare
all'indietro sulla nuca. A un rapido sguardo dava l'impressione di una
struttura fisica tarchiata, ma si trattava di un'illusione favorita
dall'ampiezza e dalla postura delle spalle e anche dalla circonferenza delle
braccia, rese muscolose dal duro lavoro: ma poi la vita stretta e la
differenza di statura con il timoniere arabo che gli stava di fianco
smentivano questa prima impressione.
David intanto aveva preso per mano le figlie più piccole e si era curvato
sul parapetto per intrecciare una conversazione fatta di grida con qualcuno
di sotto, nel cortile del palazzo consolare.
«Mio caro generale, credete di poter convincere i vostri artiglieri a
rispondere al fuoco e a impegnarli per sviare l'attenzione dal battello del
signor Courteney?» Il tono era di deferenza.
Rebecca guardò giù e vide che suo padre parlava con l'ufficiale
comandante della guarnigione egiziana che difendeva la città, il generale
Gordon detto «il Cinese», uno degli eroi dell'impero, colui che aveva vinto
guerre in ogni parte del mondo, anche in Cina, dove il suo leggendario
«Esercito Sempre Vittorioso» gli aveva procurato il soprannome. Era
uscito dal suo quartier generale nell'ala sud del palazzo, ed era
riconoscibile per il fez rosso dalla caratteristica forma a vaso di fiori.
«L'ordine è già stato impartito agli artiglieri, signore.» La replica di
Gordon suonò vivace e determinata, con una punta di fastidio. Non aveva
bisogno che gli ricordassero qual era il suo dovere.
La sua voce era giunta nitida dove si trovava Rebecca, ma del resto si
diceva che fosse in grado di farsi sentire senza sforzo da una parte all'altra
di un campo di battaglia mentre infuriava il combattimento.
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Qualche minuto più tardi l'artiglieria egiziana apriva un fuoco irregolare
dalle postazioni lungo il fiume: avevano dei cannoni da montagna Krupp,
pezzi di piccolo calibro e di modello obsoleto, e munizioni scarse e già
vecchie, facili a fare cilecca: tuttavia, per chi conoscesse l'inettitudine della
guarnigione egiziana, la loro precisione era sorprendente. Così nel cielo
limpido si videro nuvole di fumo nero di shrapnel proprio sopra le batterie
dervisce: in effetti gli artiglieri di entrambi gli schieramenti avevano
potuto curare l'alzo di tiro gli uni a bersaglio degli altri durante i lunghi
mesi trascorsi dall'inizio dell'assedio. La conseguenza di questi colpi fu
che il fuoco dei dervisci si indebolì visibilmente. Intanto, ancora illeso, il
piroscafo bianco aveva raggiunto la confluenza dei due fiumi e la fila delle
chiatte l'aveva seguito finché, con una brusca virata a dritta, si era portato
all'imboccatura del Nilo Azzurro. Qui, grazie agli edifici della città, aveva
potuto quasi subito trovare un riparo dai cannoni della riva occidentale.
Prive ormai della loro preda, le batterie nemiche avevano taciuto.
«Possiamo scendere al molo per andargli incontro?» Era Saffron che
cercava di trascinare suo padre a un capo della scala. «Sbrigati, Becky,
corriamo ad accogliere il tuo beau.»
Mentre attraversavano di corsa i trascurati giardini del palazzo, sbiancati
dal sole, si accorsero che anche il generale Gordon si stava recando al
porto con un gruppo di ufficiali egiziani che gli sgambettavano dietro.
Appena al di là delle porte la carogna di un cavallo ostruiva a metà il
passaggio: giaceva lì da dieci giorni, ucciso da una granata vagante sparata
dai dervisci. La pancia si era enfiata e le ferite aperte brulicavano di una
massa informe di vermi bianchi. Non mancavano le mosche, che
ronzavano sopra il corpo in una fitta nuvola azzurra, e anche il fetore della
carne in putrefazione era spaventoso, mescolato com'era a tutti gli altri
odori della città assediata. Ogni respiro sembrava prendere Rebecca alla
gola, e lo stomaco le si rivoltava; tuttavia riuscì a reprimere la nausea per
non recare vergogna a se stessa e alla dignità della carica di suo padre.
Invece le gemelle facevano a gara in una pantomima a chi esprimeva il
maggiore disgusto. «Puah!» «Uhhh! Che puzza!» gridavano, e come non
bastasse si piegavano in due, mimando dei realistici conati di vomito e
accompagnando le rispettive esibizioni con urletti di divertimento.
«Alla larga da qui, piccole selvagge!...» David le guardò minaccioso
brandendo il suo bastone dal pomo d'argento. Le bambine si misero a
urlare, simulando allarme, poi corsero via in direzione del porto
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scavalcando le pile di detriti di case bombardate e bruciate. Rebecca e
David le seguirono di buon passo, ma prima ancora di superare la sede
della dogana incontrarono una moltitudine che proveniva dalla città e
andava nella loro stessa direzione.
Era un fiume compatto di umanità, mendicanti e storpi, schiavi e soldati,
ricche signore servite dai loro schiavi e baldracche galla vestite di niente,
madri con i piccini fasciati sulla schiena e trascinanti da ambo i lati
mocciosi in lacrime; e ancora funzionari del governo e grassi mercanti di
schiavi pieni di diamanti e anelli d'oro alle dita. Tutti con uno scopo:
scoprire quale fosse il carico che trasportava il battello e se poteva offrire
anche solo una debole speranza di fuga da quel piccolo inferno che era
Khartum.
Le gemelle erano state subito sommerse dalla folla, e così David si era
visto costretto a sollevare Saffron sulle spalle mentre Rebecca teneva
stretta la mano di Amber. Faticarono a farsi strada, finché la folla non
riconobbe la figura alta e maestosa del console inglese e gli cedette il
passo. Guadagnarono la riva soltanto qualche minuto dopo il generale
Gordon, che li chiamò perché lo raggiungessero.
Intanto l'Intrepid Ibis solcava la corrente, e quando ebbe raggiunto le
acque più tranquille e protette a circa novanta metri dalla riva mollò le
cime di traino, e i quattro barconi si misero all'ancora allineati da poppa, le
prue rivolte alla robusta corrente del Nilo Azzurro. Ryder Courteney, dopo
aver schierato delle guardie armate su ogni chiatta a protezione del carico
contro eventuali saccheggi, si mise al timone del battello e manovrò per
accostarlo al molo.
Non appena egli fu alla loro portata, le gemelle strillarono il benvenuto:
«Ryder! Siamo noi! Ci hai portato un regalo?» Lui le sentì al di sopra del
tumulto della folla, e individuò subito Saffron appollaiata sulle spalle di
suo padre. Si tolse il sigaro di bocca e lo buttò fuori bordo, nel fiume: poi,
allungata una mano per prendere la cima della sirena, lanciò in aria un
sonoro getto di vapore mandandole un bacio.
Saffron andò in brodo di giuggiole mettendosi a ridacchiare e a
dimenarsi come una cucciolona. «Non è il beau più affascinante del
mondo?» esclamò, lanciando un'occhiata alla sorella maggiore.
Rebecca la ignorò, ma gli occhi di Ryder adesso erano già posati su di
lei e l'uomo si era tolto il cappello dai folti riccioli neri, lustri di sudore. Il
viso e le braccia abbronzati dal sole del deserto erano del colore del tek
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lucidato, eccetto una striscia di pelle più chiara appena sotto l'attaccatura
dei capelli, che era stata protetta dal copricapo. Rebecca ricambiò il saluto
con un sorriso e un inchino. Saffron aveva ragione; Ryder era davvero un
bell'uomo, specialmente quando sorrideva, ma aveva delle grinze agli
angoli degli occhi: era vecchio, pensò Rebecca, dimostrava tutti i suoi
trent'anni.
«Ti fa gli occhi dolci, credo...» Pure Amber le aveva espresso con
severità la sua opinione.
«Non osare mai più... non tirare più in ballo questa diabolica assurdità,
mademoiselle», la redarguì Rebecca.
«Diabolica assurdità, mademoiselle», ripeté a bassa voce Amber, e si
mise a fare le prove per usare queste parole al primo litigio con Saffron.
Sul fiume, Ryder Courteney era tutto preso dalle manovre di attracco del
vapore. Lo fece virare con la prua nella corrente, e ve lo tenne grazie a un
abile tocco impresso alla valvola: quindi mollò la ruota del timone e, in
lenta deriva di lato, il battello si mise di traverso al corso del fiume finché
la sua fiancata d'acciaio non andò a sfiorare i parabordi di stuoia che
riparavano il molo. L'equipaggio lanciò le cime di ormeggio agli uomini
sulla banchina che ne presero i capi e le assicurarono. Ryder chiamò con
l'interfono la caldaia, e Jock McCrump fece capolino dal boccaporto della
sala macchine, il viso striato di grasso nero. «Signorsì, capitano?»
«Tieni in pressione la caldaia, Jock. Non si sa mai che si debba tagliar la
corda.»
«Signorsì, capitano. Non voglio a bordo nessuno di quei selvaggi
puzzolenti.» Jock si ripulì il grasso dalle mani, enormi e callose, con uno
stoppaccio di cascami di cotone.
«Hai tu il comando», gli disse Ryder, e scavalcando la battagliola della
nave atterrò sul molo. Si diresse dove il generale Gordon lo stava
aspettando con il suo stato maggiore, ma non aveva fatto ancora una
dozzina di passi che la folla gli si serrò attorno intrappolandolo come un
pesce nella rete.
Un groviglio confuso e agitato di egiziani e di altri arabi lo circondò
afferrandolo per i vestiti. «Effendi, ti prego, Effendi, ho dieci bambini e
quattro mogli. Prendici a bordo della tua bella nave. Al sicuro!» lo
pregavano, in arabo e in un incerto inglese. Gli sventolavano in faccia
rotoli di banconote. «Cento sterline egiziane. È tutto quello che ho. Prendi,
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Effendi, e pregherò Allah che ti doni una lunga vita.»
«Sovrane d'oro della tua regina!» era l'offerta di un altro, che faceva
tintinnare la borsa di tela che teneva a tracolla come un tamburino.
C'erano donne che si toglievano i gioielli: pesanti bracciali d'oro, anelli e
collane con pietre scintillanti. «Me e il mio bambino. Prendici con te,
padrone.» Gli spingevano davanti i loro figlioletti, miseri piccini che
squittivano appena, le guance incavate per la fame, alcuni straziati dalle
lesioni e dalle ulcere aperte dello scorbuto, le fasce che li coprivano piene
di macchie giallo-tabacco tipiche delle feci liquide del colera. Si
spingevano e lottavano tra di loro per giungere fino a lui. Una donna fu
travolta e cadde in ginocchio, lasciandosi sfuggire il bambino sotto i piedi
della marea montante della folla. Le sue urla diventarono sempre più
deboli man mano che veniva calpestato finché, in ultimo, un sandalo
chiodato gli spaccò il cranio come un guscio d'uovo e il bambino di colpo
smise di piangere, restando immobile - un bambolotto abbandonato - nella
polvere.
Ryder Courteney lanciò un muggito di rabbia e con i pugni serrati prese
a menare colpi all'impazzata. Abbatté con un solo pugno alla mascella un
grasso mercante turco, poi abbassò le spalle e caricò proprio in mezzo a
quella umanità tumultuante. Si dispersero per lasciarlo passare, ma alcuni
invece avevano preso la direzione dell'Intrepid Ibis e cercavano di
arrampicarsi sul ponte.
Ad aspettarli alla battagliola c'erano Jock McCrump, con una chiave
inglese in pugno, e cinque dell'equipaggio alle sue spalle armati di ganci
d'accosto e asce da incendio. Jock spaccò il cranio al primo che cercava di
salire a bordo, e costui cadde dentro la stretta manica d'acqua tra la nave e
il molo di pietra per sparire subito sotto la superficie. Non risalì più.
Ryder si rese conto del pericolo e tentò di tornare alla nave, ma perfino
lui non riusciva a farsi strada in mezzo a quella massa compatta di corpi.
«Jock, salpa e mettiti all'ancora con le chiatte!» gridò.
Jock lo udì al di sopra dello strepito e fece segno di aver capito agitando
la chiave inglese. Poi con un salto fu sulla plancia e lanciò un ordine secco
all'equipaggio, che non perse tempo nell'operazione di levare gli ormeggi e
tagliò le cime che assicuravano la nave alla riva con alcuni precisi colpi
d'ascia. L'Intrepid Ibis si mosse immettendosi di prua nella corrente ma,
prima che prendesse un abbrivio sufficiente a governare il timone, altri
rifugiati cercarono di saltare al di là dello spazio che separava il battello da
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terra. Quattro non ce la fecero ad arrivare fino alla nave e furono spazzati
via, a valle, dalla forza della corrente. Uno si aggrappò alla battagliola e
restò penzoloni lungo la fiancata, tentando di tirarsi a bordo e implorando
l'equipaggio sopra di lui di avere pietà.
Bashid, il nostromo arabo, si avvicinò alla battagliola sormontando quel
disgraziato, e con un solo movimento dell'ascia gli mozzò di netto quattro
dita della mano destra. Le dita caddero sul ponte d'acciaio come brune
salsicce di maiale, mentre la vittima lanciava un urlo e cadeva nel fiume.
Bashid buttò le dita fuori bordo con un calcio e ripulì la lama sulla tunica,
poi andò a liberare l'ancora di prua dal suo alloggiamento. Jock mise il
vapore di traverso alla corrente e uscì per ancorarsi in testa alla fila delle
chiatte.
Un gemito di disperazione si sollevò dalla folla, ma Ryder continuò a
guardarla torvo, sempre con i pugni chiusi. Avevano imparato senza ombra
di dubbio che cosa volesse dire quel gesto, e arretrarono di fronte a lui. Nel
frattempo il generale Gordon aveva dato l'ordine a uno squadrone di
soldati di sedare il tumulto, e quelli stavano avanzando con le baionette
inastate usando il calcio dei fucili per bastonare chiunque sbarrasse loro la
strada. Davanti a questa carica la folla si sparpagliò scomparendo negli
stretti vicoli della città. Avevano lasciato indietro solo il bambino morto,
con la madre ferita che piangeva accasciata su di lui, e una mezza dozzina
di rivoltosi che si lamentavano seduti in pozzanghere del loro stesso
sangue, ancora tramortiti; il turco che Ryder aveva abbattuto se ne stava
tranquillo riverso sulla schiena a russare sonoramente.
Ryder cercò con lo sguardo David e le figlie, ma con suo grande sollievo
capì che il console al primo segnale di tumulto aveva avuto il buon senso
di portare al sicuro la famiglia nel palazzo. Poi però scorse il generale
Gordon che veniva verso di lui passando in mezzo ai rifiuti e ai corpi stesi.
«Buon pomeriggio, generale.»
«Salve, signor Courteney. Sono lieto che siate arrivato. Spero abbiate
fatto buon viaggio.»
«Ottimo, signor generale. Il passaggio attraverso il Sudd non ci ha creato
difficoltà. In questa stagione il canale è ripulito. Non c'è bisogno di
tonneggiare per aprirsi la strada.» Non si peritò di ricordare che il suo
battello era passato attraverso il fuoco incrociato delle batterie dei dervisci;
e nemmeno che a dargli il benvenuto in città c'era stato il tumulto appena
concluso.
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«È un carico pesante, il vostro?» Gordon, che rendeva a Ryder un buon
quindici centimetri di statura, lo guardò da sotto in su con quei suoi occhi
leggendari: erano del colore azzurro acciaio che aveva il cielo di
mezzogiorno sopra il deserto, ipnotici, irresistibili, il segno esteriore della
ferrea fede di Gordon in se stesso e nel suo Dio. Pochi che avessero
cercato di penetrare in quello sguardo li potevano dimenticare.
Ryder comprese all'istante che cosa volesse dire la domanda. «Ho
millecinquecento sacchi di sorgo dhurra sui miei barconi, e ogni sacco
pesa dieci qantar.» Il qantar era una misura di peso araba, pari a circa
cinquanta chilogrammi.
Gli occhi di Gordon mandarono bagliori come di zaffiri tagliati, e poi si
batté con il bastone sulla coscia. «Bene, signore, bene. La guarnigione e
l'intera popolazione sono già sfinite per la penuria di viveri, e quindi il
vostro carico potrebbe esserci di grande utilità fino all'arrivo della colonna
dei soccorsi dal Cairo.»
Ryder Courteney sgranò gli occhi per la sorpresa di fronte a una stima
così ottimistica. C'erano quasi trentamila persone intrappolate nella città, e
persino con razioni da fame quella moltitudine avrebbe divorato un
centinaio di sacchi al giorno. Le ultime notizie che avevano ricevuto,
prima che i dervisci interrompessero la linea del telegrafo verso nord,
erano che la spedizione di soccorso era ancora in fase di organizzazione
nella zona del delta, e non sarebbe stata pronta a cominciare il viaggio per
il sud prima di parecchie settimane. E anche allora avrebbe dovuto
affrontare più di mille miglia di viaggio per arrivare a Khartum, e sul
percorso navigare sulle cateratte e attraversare lo spaventoso deserto della
Madre delle Pietre... e poi, prima di raggiungere la città e togliere l'assedio,
avrebbe dovuto aprirsi la strada combattendo contro le orde dei dervisci
che sorvegliavano in tutta la loro lunghezza le regioni di confine sulle rive
del Nilo. Millecinquecento sacchi di dhurra non erano neanche
lontanamente sufficienti a mantenere gli abitanti di Khartum per un
periodo la cui lunghezza non era prevedibile. Ma poi comprese che
l'ottimismo era la migliore armatura che Gordon potesse trovare, e che un
uomo come lui non poteva permettere nemmeno a se stesso di riconoscere
che la situazione era tragica, e di arrendersi alla disperazione.
Annuì, come per dire che era d'accordo. «Ho il vostro permesso di
cominciare le vendite di grano, generale?» La città era soggetta alla legge
marziale, e non era consentita nessuna distribuzione di vettovaglie senza la
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personale approvazione di Gordon.
«Non posso permettere che distribuiate voi quelle provviste. La
popolazione della mia città è alla fame.» Ryder notò che Gordon aveva
usato il possessivo. «Se vendeste quel grano, sarebbero i ricchi mercanti ad
accaparrarselo, a tutto svantaggio dei poveri. Non ho altra scelta se non di
requisire l'intero carico. E' naturale che vi verrà pagato un prezzo equo.»
Per un momento Ryder lo guardò interdetto, senza parole. Poi ritrovò la
voce. «Un prezzo equo, generale?»
«Terminato l'ultimo raccolto, il prezzo della dhurra nei suq di questa
città era di sei scellini al sacco. Un prezzo equo: e per quel che mi riguarda
lo è ancora, signore.»
«Terminato l'ultimo raccolto non c'erano né la guerra né l'assedio»,
ribatté Ryder. «Generale... sei scellini non tengono conto del prezzo
esorbitante che sono stato costretto a pagare. E nemmeno mi compensano
delle difficoltà del trasporto del sorgo e del giusto profitto a cui mi sento di
avere diritto.»
«Quanto al profitto sono certo, signor Courteney, che sei scellini vi
restituiranno un guadagno del tutto soddisfacente.» Gordon lo squadrava
con il suo sguardo ferreo. «La città è sotto la legge marziale, signore, e la
speculazione e l'accaparramento sono entrambi crimini che portano sulla
forca.»
Ryder sapeva che non era una minaccia teorica. Aveva visto molti
uomini frustati o giustiziati in maniera sommaria per una qualsiasi
mancanza al proprio dovere, o anche solo per aver manifestato disprezzo
di fronte ai decreti di quel piccolo uomo.
Gordon si sbottonò il taschino dell'uniforme ed estrasse un taccuino. Vi
scarabocchiò sopra qualcosa in fretta, strappò il foglio e lo consegnò a
Ryder. «È il mio personale 'pagherò' per una somma di
quattrocentocinquanta sterline egiziane. Si possono riscuotere presso la
cassa del khedivè al Cairo», disse in tono sbrigativo. Il khedivè era chi in
quel momento governava l'Egitto. «In che cosa consiste il resto del vostro
carico, signor Courteney?»
«Avorio, uccelli e animali selvatici vivi», fu l'amara risposta di Ryder.
«Quelli li potete scaricare nel vostro deposito. Per ora non ho alcun
interesse per questi animali, anche se più avanti può darsi che sorga la
necessità di macellarli per rifornire di carne la popolazione. In quanto
tempo sarete pronto a ripartire di nuovo con il battello e le chiatte?»
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«Partire, generale?» Ryder impallidì sotto l'abbronzatura: aveva intuito
che cosa stava per accadere.
«Vi confisco le imbarcazioni per il trasporto dei profughi a valle», gli
spiegò Gordon. «Potete richiedere tutto il legname che vi serve per il
funzionamento delle vostre caldaie, e io vi rimborserò per questo viaggio
al prezzo di due sterline a passeggero. Secondo i miei calcoli potete
imbarcare cinquecento donne, bambini e capifamiglia. Esaminerò
personalmente le necessità di ognuno e deciderò chi deve avere la
precedenza.»
«Mi pagherete con un'altra cambiale, generale?» domandò Ryder, non
senza ironia.
«Precisamente, signor Courteney. Resterete in attesa a Metemma finché
la spedizione di soccorso non vi avrà raggiunto. I miei battelli sono già là.
Ci sarà un gran bisogno della vostra famosa abilità di pilota per il
passaggio dalla gola di Shabluka, signor Courteney.»
Gordon il Cinese non nascondeva tutto il suo disprezzo per ciò che
considerava rapacità e venerazione di Mammona, al punto che, quando il
khedivè d'Egitto gli aveva offerto uno stipendio di diecimila sterline per
assumersi il pericoloso compito di evacuare il Sudan, Gordon aveva
insistito che fosse ridotto a duemila. La sua era una concezione tutta
personale del dovere verso il suo prossimo e il suo Dio. «Portate dunque le
vostre chiatte lungo il molo e le mie truppe saranno di sorveglianza mentre
gli uomini le scaricano e trasportano la dhurra nel magazzino della
dogana. A dirigere l'operazione sarà il maggiore al-Faruk, del mio stato
maggiore.» Gordon fece un cenno all'ufficiale egiziano al suo fianco, che
salutò distrattamente Ryder. Al-Faruk aveva profondi occhi scuri, ed
emanava un potente profumo di brillantina. «E ora mi dovete scusare,
signore. Ho molto da fare.»
In qualità di padrona di casa ufficiale del console generale di Sua Maestà
Britannica nel Sudan, Rebecca aveva la responsabilità della conduzione
della casa e della servitù. Quella sera, sotto la sua supervisione, i servitori
avevano apparecchiato la tavola per la cena sopra la terrazza che dava sul
Nilo Azzurro, in modo che gli ospiti di David potessero godere della
brezza che veniva dal fiume. Al tramonto i servitori avrebbero acceso i
bracieri di rami e foglie di eucalipto perché il fumo tenesse alla larga le
zanzare, e per l'occasione sarebbe arrivato anche l'intrattenimento offerto
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dal generale Gordon: ogni sera c'erano un concerto della banda
dell'esercito e uno spettacolo di fuochi d'artificio che, nelle intenzioni del
generale, dovevano impedire alla popolazione di Khartum di pensare
troppo ai rigori e alle difficoltà dell'assedio.
Rebecca aveva preparato una tavola che era uno splendore, ma non
perché Ryder Courteney era uno degli invitati... come peraltro aveva
sostenuto punzecchiandola sua sorella Saffron. L'argenteria e i cristalli
della dotazione del consolato erano stati lucidati fino a risplendere e le
tovaglie erano uscite dal bucato bianche come l'ala di un angelo. Solo che,
sfortunatamente, i cibi da servire non erano della stessa qualità, perché
avrebbero avuto come prima portata una zuppa di lappola e di frutti di rosa
canina provenienti dalle rovine del giardino del palazzo consolare, cui
sarebbe seguito un pàté di cuori di palma lessati e dhurra macinata a
pietra; ma come piatto forte avrebbero servito una suprème di pellicano.
Quasi tutte le sere David si metteva alla posta sulla terrazza che
guardava il fiume con una delle sue doppiette Purdey in posizione di tiro, e
aspettava che gli uccelli acquatici si levassero in volo e gli passassero
sopra per posarsi nei loro rifugi notturni. Alle sue spalle anche le gemelle
erano in attesa con gli altri fucili. Un terzetto di armi da fuoco così ben
assortito veniva definito un contorno di fucili. David era dell'opinione che
una donna che viveva in Africa, un continente pieno di animali selvaggi e
di uomini ancora più selvaggi, dovesse essere esperta nell'uso di armi da
fuoco. Sotto i suoi insegnamenti infatti Rebecca era già diventata un'abile
tiratrice con la pistola, e di solito era capace con i sei colpi del pesante
revolver Webley di buttar giù dal muro in fondo alla terrazza almeno
cinque scatolette di carne vuote da dieci passi, scaraventandole a roteare
sulle acque del Nilo.
Le gemelle erano ancora troppo piccole per reggere il rinculo di un
Webley o di un Purdey, e così le aveva addestrate a caricare le doppiette di
riserva, col risultato che erano diventate svelte e precise come un addetto
ai fucili nella caccia al gallo cedrone nello Yorkshire. Appena suo padre
aveva sparato tutti e due i colpi, Amber agguantava dalle sue mani il fucile
scarico e, quasi nello stesso istante, Saffron gli lanciava in mano il
secondo; e mentre lui raccoglieva gli uccelli e sparava di nuovo, le ragazze
ricaricavano l'arma ed erano pronte a servirlo di un altro fucile non appena
lui avesse allungato la mano per chiederlo. Tra tutti e tre erano in grado di
mantenere un impressionante volume di fuoco.
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David era un famoso tiratore, e di rado sprecava una cartuccia: così,
mentre le ragazze lo incoraggiavano con i loro urletti, egli sapeva
all'occasione abbattere in rapida successione cinque o sei alzavole da uno
stormo che lo sorvolava a velocità sostenuta. Nelle prime settimane
dell'assedio erano regolarmente venute a tiro della terrazza le anatre
selvatiche, alzavole e mestoloni, e specie più esotiche, come le oche
selvatiche egiziane e le marzaiole: e tutte queste prede avevano costituito
aggiunte non trascurabili alla dispensa di palazzo. Ma le anatre scampate al
pericolo avevano presto imparato la lezione. Ora gli stormi si tenevano
abitualmente alla larga dalla terrazza e l'abilità nel tiro di David poteva
ancora portare sulla tavola solo gli uccelli più stupidi e meno appetitosi:
una coppia di pellicani dal becco possente erano stati le vittime più recenti.
La portata di accompagnamento che Rebecca aveva in mente di servire
erano foglie e gambi della ninfea sacra egiziana. Raccomandandole questa
pianta, Ryder Courteney le aveva detto che il suo nome botanico era
Nymphaea alba; Ryder aveva un grande bagaglio di conoscenze di tutti gli
aspetti del mondo della natura. In quell'occasione lei aveva usato i bei fiori
azzurri in insalata perché il loro gusto un po' pepato aiutava a nascondere il
forte sapore di pesce della carne di pellicano: erano piante che crescevano
nello stretto canale che separava la città dalla terraferma quando, come in
quella stagione, l'acqua nel canale arrivava alla cintola. Ma nel periodo
della secca del Nilo, l'acqua si prosciugava del tutto: di conseguenza il
generale Gordon aveva ordinato alle sue truppe di allargare e scavare il
canale in modo che formasse un fossato a protezione delle difese della città
e, con grande fastidio di Rebecca, i soldati nel corso dei loro lavori stavano
distruggendo la fonte di quella nutriente ghiottoneria.
Le cantine del palazzo consolare erano quasi vuote, eccetto che per una
sola cassa di champagne Krug che David teneva da parte per celebrare
l'arrivo dei soccorsi da sud. Tuttavia Ryder Courteney, quando aveva
mandato Bashid al consolato per far sapere che accettava l'invito a cena,
gli aveva dato da portare tre zucche a fiaschetto piene di tej, il forte
idromele degli indigeni che aveva il gusto di un sidro di scarsa qualità.
Rebecca aveva intenzione di servirlo nelle caraffe di cristallo usate per i
vini rossi, quasi a conferirgli un'importanza che di norma non era
giustificata.
Adesso era al lavoro per gli ultimi tocchi ai preparativi della cena e alla
decorazione floreale della tavola allestita con gli oleandri del povero
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giardino del palazzo. Gli ospiti erano attesi di lì a un'ora, e suo padre non
era ancora tornato dall'appuntamento giornaliero con il generale Gordon:
Rebecca era un po' timorosa che David potesse arrivare in ritardo e
rovinarle la serata. D'altra parte, però, si era anche sentita segretamente
sollevata dal fatto che il generale Gordon non avesse accettato l'invito: era
un grand'uomo, un santo, un eroe dell'impero, ma privo di talento per la
vita di società. La sua era una conversazione pia, infarcita di parole
misteriose, e quanto al suo senso dell'umorismo si poteva dire, a essere
benevoli, che era un po' debole, se non del tutto mancante.
In quel momento udì il passo familiare di suo padre che risuonava sotto i
portici del palazzo e la sua voce che si alzava a chiamare uno dei servitori.
Corse a salutarlo quando uscì sulla terrazza, ma egli rispose all'abbraccio
della figlia in maniera distratta, quasi fosse un obbligo. Lei fece un passo
indietro e si mise a studiargli il viso. «Che cosa c'è, padre?»
«Dobbiamo andarcene domani notte. Il generale Gordon ha ordinato che
tutti i cittadini inglesi, francesi e austriaci lascino subito la città.»
«Questo vuol dire che verrete con noi, papà?» In quel periodo usava di
rado l'appellativo affettuoso dei bambini.
«Ma certo.»
«Come viaggeremo?»
«Gordon ha requisito il vapore e i barconi di Ryder Courteney. Gli ha
ordinato di scendere a valle con tutti noi a bordo. Ho cercato di oppormi
alla sua decisione, ma senza risultato. Quell'uomo è intrattabile e nessuno
può smuoverlo dal sentiero che ha scelto.» Ma poi David le sorrise,
l'afferrò alla vita e la fece ruotare, come in un giro di valzer. «A dire il
vero, sono molto sollevato che la decisione sia stata presa senza di me, e
che tu e le gemelle sarete condotte in salvo.»
Un'ora dopo David e Rebecca erano in piedi sotto il candelabro nell'atrio
del palazzo ad accogliere i loro invitati, che nella quasi totalità erano
maschi, poiché già da alcuni mesi quasi tutte le donne bianche erano state
evacuate a nord, verso il delta, a bordo dei poco affidabili battelli a vapore
del generale Gordon. Ora quelle navi erano in secca ben più a sud, a
Metemma, ad aspettare l'arrivo della spedizione di soccorso. Rebecca e le
gemelle erano tra le poche donne europee rimaste in città.
Le gemelle si tenevano modestamente dietro il padre. Erano riuscite a
farsi concedere dalla sorella maggiore di rimanere lì fin quando Ryder
fosse arrivato e di guardare con lui i fuochi d'artificio prima che Nazira, la
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loro bambinaia, le portasse a dormire. Nazira era stata anche la bambinaia
di Rebecca, ed era amata come se anche lei fosse un membro della
famiglia Benbrook. Adesso si teneva vicino alle gemelle, dietro di loro,
pronta a entrare in azione non appena fossero suonate le nove.
Con grande disappunto delle gemelle, Ryder Courteney arrivò per
ultimo: ma quando comparve, da parte loro fu un unico ridacchiare e
bisbigliare.
«È un così bell'uomo...» commentò Saffron, e fece quasi la mossa di
cadere in deliquio.
Nazira le rifilò un pizzicotto e le sussurrò in arabo: «Anche se non
diventerai mai una Lady, devi almeno imparare a comportarti come se lo
fossi, Saffy».
«Non l'avevo mai visto vestito da ricevimento.» Questa era Amber, che
completava il giudizio della sorella. In effetti, Ryder indossava una di
quelle nuove giacche da sera recentemente consacrate alla moda dal
principe di Galles, con i risvolti di satin marezzato e la vita stretta. L'aveva
fatta copiare da una illustrazione sul London Illustrated News da un sarto
armeno al Cairo, e la portava con eleganza disinvolta ben lontana dal
fustagno sgualcito che indossava ogni giorno. Per di più era rasato di
fresco e i suoi capelli risplendevano alla luce delle candele.
«E poi, guarda, ci ha portato dei regali!» Amber aveva notato l'eloquente
rigonfiamento in corrispondenza del taschino. Aveva già l'occhio di una
donna per quei particolari.
Ryder strinse la mano a David e fece un inchino a Rebecca. Parecchi
membri del corpo diplomatico arrivati prima di lui le avevano baciato la
mano atteggiandosi nel gesto alla francese, ma lui invece si trattenne, e
preferì strizzare l'occhio alle due gemelle, che a loro volta si coprirono la
bocca per reprimere un riso nervoso quando gli fecero una riverenza in
risposta al suo saluto. «Posso avere l'onore di scortare queste due belle
dame fino alla terrazza?» chiese lui con un inchino.
«Uì ut, messiè», fu la risposta grave di Saffron, che ebbe quasi l'effetto
di far perdere il controllo a Amber.
Ryder le prese entrambe sottobraccio, chinandosi un poco perché ci
potessero arrivare, e le guidò in terrazza attraverso le portefinestre. Uno
dei servitori in livrea bianca e turbante azzurro servì loro dei bicchieri di
limonata fatta con i pochi frutti che restavano sugli alberi del frutteto, e
Ryder consegnò alle gemelle i doni, che erano delle collane di grani
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d'avorio lavorati in forma di minuscoli animali: leoni, scimmie e giraffe.
Allacciò i fermagli dietro il collo, e loro ne rimasero incantate.
Come se fosse stata imbeccata, la banda militare che si trovava giù sul
maidan, accanto al vecchio mercato degli schiavi, cominciò a suonare. La
distanza attutiva il suono mantenendo un volume piacevole, e i musicisti
ebbero un certo successo nell'abbellire il repertorio familiare di polke,
valzer e marcette dell'esercito britannico con fascinose cadenze orientali.
«Canta per noi, Ryder, ti prego!» lo pregava Amber, e quando lui,
mettendosi a ridere, scosse la testa, lei fece appello a suo padre: «Fallo
cantare, papà, ti prego».
«Mia figlia ha ragione, signor Courteney. Una voce accrescerebbe oltre
misura il piacere della serata.»
Ryder si mise a cantare senza alcun imbarazzo, e ben presto tutti furono
costretti a battere i piedi o le mani a tempo di musica, e addirittura ci
furono alcuni che pretendendo di dimostrare le loro capacità vocali si
unirono al coro di Sul mare fino a Skye. Poi cominciò lo spettacolo dei
fuochi artificiali, il festeggiamento notturno del generale Gordon. Il cielo
si riempì delle cascate di scintille azzurre, verdi e rosse dei razzi
segnaletici, e gli spettatori espressero con lunghe esclamazioni tutto il loro
stupore. Sull'altra riva del Nilo l'artigliere derviscio che David aveva
soprannominato «il Beduino Pazzo» sparò alcune granate esplosive verso
il punto da cui pensava venissero fatti partire i razzi. Al solito la mira era
sbagliata; nessuno quindi cercò di mettersi al riparo e tutti invece si misero
a gridare con gusto prendendosi gioco dei suoi sforzi.
Le due gemelle erano già state condotte nella loro camera tra vane
proteste quando gli invitati furono chiamati a tavola da uno dei valletti
arabi in livrea, che batté su un tamburello. L'appetito non mancava: se non
erano ancora ridotti alla fame, ci erano vicini. Le porzioni risultarono
minuscole, ognuna quasi un boccone, ma Herr Schiffer, il console
austriaco, dichiarò che la zuppa era proprio eccellente, il pàté di cuori di
palma nutriente e il pellicano arrosto «veramente straordinario». Rebecca
si convinse che lo diceva per farle un complimento.
Mentre la cena si avviava alla conclusione, Ryder Courteney fece un
altro gesto che confermò la sua condizione di eroe della serata. Batté le
mani e Bashid, il suo nostromo, uscì in terrazza sorridendo con stampato
un ghigno simile a quello di una gargolla, e un vassoio d'argento in mano
dove troneggiavano una bottiglia di cognac Hine di qualità superiore e una
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scatola di cedro di sigari cubani. Per merito dei bicchieri pieni fino all'orlo
e dei sigari fumati fino a farne brillare la punta, lo stato d'animo dei signori
presenti divenne più espansivo, e anche la conversazione divagò, almeno
finché non si unì ai discorsi il signor Le Blanc.
«Mi meraviglia che Gordon il Cinese abbia rifiutato l'invito a un così
grazioso intrattenimento.» E intanto ridacchiava, in una maniera puerile e
irritante. «Certamente, non è possibile salvare la potenza dell'impero
britannico ventiquattro ore al giorno. Perfino Ercole fu costretto a riposarsi
dopo le sue fatiche.» Le Blanc era il capo della delegazione del Belgio
inviata da re Leopoldo per avviare relazioni diplomatiche con il Mahdi, ma
fino a quel momento i suoi sforzi non erano stati coronati da successo, e
anche lui era finito prigioniero in quella città insieme con tutti gli altri. Gli
inglesi presenti lo guardarono con un certo compatimento; tuttavia dato
che era uno straniero e non sapeva come regolarsi fu scusato per la sua
frase malaccorta.
«Il generale ha rifiutato di presenziare a un banchetto mentre la
popolazione è ridotta alla fame», s'inalberò Rebecca, in difesa di Gordon.
«Credo sia stato un gesto veramente nobile da parte sua.» E poi, per
troncare il discorso, affermò modestamente: «Anche se l'umile
intrattenimento che vi offro non è certo un banchetto grandioso; né ne ha
la pretesa».
Seguendo il suo esempio, David iniziò a recitare un panegirico
dell'inflessibile carattere del generale e delle sue meravigliose imprese. A
Ryder Courteney, invece, bruciava ancora l'ultima dimostrazione del
carattere irremovibile di Gordon, e pertanto non si unì al coro di lodi.
«Esercita un potere quasi messianico sui suoi uomini», diceva tutto
infervorato David. «Lo seguiranno ovunque, e se non lo faranno li
trascinerà con sé per il codino, come fece con l'Esercito Sempre Vittorioso
in Cina... o li prenderà a calci finché il loro didietro non diventerà viola,
come fa con la marmaglia egiziana con la quale è costretto al presente a
difendere la città.»
«Che linguaggio, papà», lo redarguì Rebecca, che ci teneva alla forma.
«Mi dispiace, cara, ma è la verità. E' un uomo che non conosce la paura.
Da solo, montato su un cammello e in alta uniforme, entrò a cavallo nel
campo dei ribelli di quel furfante criminale di Suleiman, e poi riuscì ad
arringarli. Invece di eliminarlo subito Suleiman preferì abbandonare la
rivolta e tornarsene in patria.»
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«Fece lo stesso con gli Zulu in Sudafrica. Quando passò da solo in
mezzo ai loro bellicosi reggimenti, gli impi, e posò su di loro i suoi occhi
straordinari, essi lo venerarono come un dio. Al che egli fece fustigare i
loro comandanti, gli induna, per empietà.»
E un altro disse: «Re e potenti di molte nazioni hanno fatto a gara per
assicurarsi i suoi servigi: l'imperatore della Cina, re Leopoldo del Belgio, il
khedivè d'Egitto e il primo ministro della colonia del Capo».
«E' un uomo di Dio prima di essere un guerriero. Disprezza lo strepito
degli uomini e prima di prendere una decisione risolutiva egli chiede in
preghiera solitaria che cosa voglia da lui Dio.»
Mi chiedo se il suo Dio voleva che sequestrasse la mia dhurra, pensò
amaramente Ryder, ma invece di dar voce al suo stato d'animo impresse
un'enfatica svolta al discorso. «Non vi pare degno di nota che, per tanti
aspetti, l'uomo che gli sta di fronte sull'altra sponda del Nilo abbia in
comune molte caratteristiche con il nostro eroico generale?» Un silenzio di
tomba tenne dietro all'osservazione, di cattivo gusto quasi quanto la
sgarberia di Le Blanc, e affatto indegna di un uomo del calibro di Ryder
Courteney.
Perfino Rebecca fu inorridita all'idea che si potesse paragonare il santo
con il mostro, ma intanto osservò che gli altri avevano prestato attenzione
alle parole di Ryder: anche se era il più giovane al tavolo, gli invitati lo
guardavano con deferenza perché la sua fortuna e la sua reputazione erano
eccezionali. Aveva raggiunto le Montagne della Luna e navigato su tutti i
grandi laghi dell'interno dell'Africa; era amico e confidente di Giovanni, il
Negus d'Abissinia; e il Mutesa di Buganda e il Kamrasi di Buyoro
intrattenevano relazioni con lui e gli avevano concesso privilegi di
commercio esclusivi nei loro regni.
Il suo arabo era fluente al punto che poteva discutere sul Corano con i
mullah di una moschea. Parlava una dozzina di altre lingue più primitive,
ed era in grado di mercanteggiare con i Dinka che vivono sempre nudi e
gli Shilluk. Aveva cacciato e catturato ogni specie conosciuta di animale
selvaggio e di uccello dell'Equatoria, e li aveva venduti ai serragli di re e
imperatori e ai giardini zoologici di tutta Europa.
«Mi sembra un'opinione stravagante, Ryder», aveva osato dichiarare
David, non senza cautela. «La prima cosa che mi viene in mente è che il
Mahdi, in tutta la sua follia, e il generale Charles Gordon si trovano l'uno
agli antipodi dell'altro. Ma forse potreste essere voi a mettere in rilievo
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alcune delle caratteristiche che li avvicinerebbero.»
«Primo, David, sono entrambi degli asceti che praticano la negazione di
sé e che si astengono da ogni piacere mondano», rispose senza difficoltà
Ryder. «Ed entrambi sono uomini di Dio.»
«Ma non è lo stesso Dio», obiettò David.
«Sissignore! L'unico e medesimo Dio: il Dio degli ebrei, dei musulmani
e dei cristiani è lo stesso Dio. Solo che lo venerano in modi differenti.»
David sorrise. «Forse ne potremo discutere in un altro momento. Per ora,
diteci, che cos'altro hanno in comune?
«Essi credono entrambi che sia Dio a parlare direttamente con loro e, di
conseguenza, si ritengono infallibili. Una volta che hanno preso una
decisione, essi rimangono incrollabili e sordi a qualsiasi obiezione. Inoltre,
come molti grandi uomini e donne bellissime, sono traditi entrambi dalla
loro fede nel culto della personalità. Credono che ogni loro azione sarà
coronata da successo per l'azzurro dei loro occhi, o per la fessura tra i loro
denti davanti e per la loro eloquenza», disse Ryder.
«Sappiamo chi ha occhi azzurri e irresistibili», sogghigno sotto i baffi
David, «ma a chi appartiene il sorriso con una fessura in mezzo ai denti?»
«A Mohamed Ahmed, il Mahdi, Colui che e Guidato da Dio. La fessura
a forma di cuneo si chiama falya, e i suoi Ansar la considerano segno della
divinità.»
«Parlate come se lo conosceste», disse Le Blanc. «Lo avete incontrato?»
«Sì», confermò Ryder, mentre tutti lo guardavano come se avesse
ammesso di cenare con Satana in persona.
Rebecca fu la prima a riprendersi dalla sorpresa. «Allora raccontateci,
signor Courteney, dove e quando? Com'è davvero, a vedersi?»
«L'ho conosciuto per la prima volta quando viveva in un buco sulla riva
dell'isola di Abbas, a monte del Nilo Azzurro, a quaranta miglia da dove
ora siamo seduti. Spesso quando i miei viaggi mi facevano passare davanti
a quell'isola scendevo a riva per sedermi insieme a lui e parlare di Dio e
delle cose degli uomini. Non potrei pretendere che fossimo amici, né che
l'avrei mai desiderato. Ma c'era qualcosa in quell'uomo che mi affascinava.
Intuivo che era diverso dagli altri, e quando riprendevo il viaggio ero
sempre impressionato dalla sua devozione religiosa, dalla sua forza
tranquilla e dal sorriso imperturbabile che mostrava. E' un vero patriota,
come il generale Gordon... un altro tratto che hanno in comune.»
«Lasciamo stare il generale Gordon. Conosciamo tutti le sue virtù», si
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inserì Rebecca. «Parlateci piuttosto di questo terribile Mahdi. Come fate a
dire che ha in sé anche solo un granello della stessa nobiltà?»
«Sappiamo tutti che la dominazione del Sudan da parte del khedivè
d'Egitto è stata iniqua e brutale. Dietro la magnifica facciata del dominio
imperiale hanno prosperato una crudeltà e una corruzione indicibili. La
popolazione indigena è stata sottoposta al comportamento rapace e
inumano dei pascià, e a un esercito di occupazione forte di quarantamila
uomini, che veniva usato per raccogliere le tasse esorbitanti imposte dai
pascià. Solo la metà finiva al khedivè al Cairo, e il resto invece negli
scrigni privati degli stessi pascià. La terra era governata con la baionetta e
il curbascio, la crudele frusta di pelle di ippopotamo, e dei pascià
effeminati sedevano qui a Khartum e si deliziavano a progettare le torture
e le esecuzioni più selvagge. Villaggi interi erano rasi al suolo e i loro
abitanti venivano massacrati. Arabi e negri insieme si facevano piccoli per
il terrore all'ombra dell'odiato 'turco', ma nessuno osava protestare.
«E mentre gli egiziani dicevano di aspirare a rendere più civili questi
popoli, promuovevano e incoraggiavano il commercio degli schiavi,
perché questo era il modo con cui si pagavano le tasse. Ho visto questi
orrori con i miei stessi occhi, e allora mi stupivo della sopportazione dei
sudanesi. Discutevo di tutto questo con l'eremita nel suo tugurio sulla riva
del fiume. Eravamo tutti e due uomini in giovane età, anche se io ero più
giovane di lui di qualche anno. Cercavamo nelle nostre conversazioni di
scoprire come mai questa situazione non cambiava, perché l'arabo è uomo
orgoglioso e non gli erano mancate le provocazioni. La conclusione era
che non c'erano i due elementi essenziali di una rivoluzione, e il primo era
la conoscenza di condizioni migliori. Il generale Charles Gordon, come
governatore del Sudan, l'ha fornito. L'altro elemento mancante era un
catalizzatore che portasse gli oppressi a unirsi, e a suo tempo Mohamed
Ahmed l'ha fornito. Ecco dunque la nascita della nuova nazione mahdista.»
Restarono tutti in silenzio, finché non fu ancora Rebecca a intervenire, e
la sua fu una domanda da donna. Le sfaccettature politiche, religiose e
militari della storia del Mahdi le interessavano ben poco. «Ma com'è
veramente quest'uomo, signor Courteney? Qual è il suo aspetto, e com'è il
suo comportamento? Che voce ha? E dateci qualche altra informazione su
quella strana fessura tra i denti.»
«Ha lo stesso immenso carisma di Charles Gordon, un altro elemento
che hanno in comune. È di media statura e piuttosto snello. Ha sempre
Wilbur Smith
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indossato tuniche di un bianco immacolato, anche quando viveva nel
tugurio scavato nel terreno. Sulla sua guancia destra c'è una voglia che ha
la forma di un uccello o di un angelo, e i suoi discepoli e i fedeli la
considerano come l'impronta del divino. La fessura tra i denti attira
l'attenzione quando parla. È un oratore travolgente, con una voce morbida
e sibilante, ma quando si incollerisce, allora parla con la voce tonante dei
profeti biblici pur continuando a sorridere anche al colmo dell'ira.» Ryder
aveva estratto dal taschino l'orologio d'oro.
«Manca solo un'ora a mezzanotte; vi ho fatto attardare. Dovreste tutti
andare a riposare; e riposare bene, perché come vi è stato detto è mio
dovere, assegnatomi dal generale Gordon, di assicurarmi che nessuno di
voi che siete qui stanotte sia mai costretto ad ascoltare la voce di
Mohamed Ahmed. Vi prego di ricordare che dovete trovarvi a bordo del
mio vapore al molo della Città Vecchia prima della mezzanotte di domani.
È mia intenzione di salpare quando sarà ancora troppo buio perché gli
artiglieri dervisci possano individuarci chiaramente. Riducete al minimo il
vostro bagaglio. Con un po' di fortuna, potremo battercela prima che
riescano a sparare un solo colpo.»
David sorrise. «Ci vorrà proprio una gran bella fortuna, signor
Courteney, visto che la città formicola di spie dei dervisci. Il Mahdi
conosce con precisione ogni nostra mossa quasi prima che la conosciamo
noi.»
«Forse stavolta riusciremo a giocarlo.» Ryder si alzò a metà dalla sedia
per fare un inchino a Rebecca. «Vi prego di scusarmi se ho abusato della
vostra ospitalità, signorina Benbrook.»
«Ma è ancora troppo presto perché ci lasciate. Nessuno di noi ha
intenzione di andare a dormire. Sedetevi ancora, signor Courteney, vi
prego. Non ci potete abbandonare così, senza dirci più nulla. Adesso che ci
avete così affascinati dovete finire la storia.»
Ryder fece un gesto rassegnato e si sprofondò di nuovo nella poltrona.
«Come posso resistere a un vostro ordine? Ma temo che conosciate già
tutti il resto della storia, perché è già stata raccontata spesso e io non
voglio annoiarvi.»
Mormorii di protesta corsero lungo tutta la tavola. «Suvvia, signore. La
signorina Benbrook ha ragione. Dobbiamo ascoltare fino in fondo la vostra
versione, poiché a quanto pare è molto diversa da quelle che ci è capitato
di sentire finora.»
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Ryder Courteney fece un cenno d'assenso e continuò: «Nelle società
occidentali, noi siamo orgogliosi delle nostre gloriose tradizioni e del
nostro alto livello morale. Eppure, presso i popoli illetterati e incolti
l'ignoranza è essa stessa fonte di una grande energia perché è proprio
l'ignoranza a costituire un irresistibile incentivo al fanatismo. Qui in Sudan
ci sono stati tre giganteschi passi sulla via della ribellione. Il primo fu la
miseria di tutte le popolazioni indigene del paese. Il secondo avvenne
quando, guardando intorno a sé, esse riconobbero che la fonte di tutti i loro
mali era l'odiato turco, i favoriti del khedivè al Cairo. Vi era dunque
bisogno di un solo altro passo prima che la potente onda del fanatismo si
frangesse sul paese, e quello fu il momento in cui spuntò dal nulla l'uomo
che sarebbe diventato il Mahdi...»
«Ma certo!» lo interruppe David. «Il seme era già stato gettato da tempo.
La credenza shukri che un giorno, nel tempo della vergogna e della
discordia, sarebbe stato inviato da Allah un secondo grande profeta che
avrebbe riportato i fedeli a Dio e avrebbe difeso l'Islam.»
Rebecca lanciò a suo padre un'occhiata severa. «È la storia del signor
Courteney, padre. Lasciatelo raccontare.»
I presenti sorrisero di fronte a quell'intervento così vivace, e David
assunse un'espressione colpevole. «Non volevo rubarvi il racconto.
Continuate pure, signore.»
«Invece avete ragione, David. Sono cent'anni che il popolo del Sudan
spera sempre nella comparsa di qualche asceta che emerga dall'oscurità.
Quando si diffuse la fama di quest'uomo i pellegrini cominciarono a venire
a frotte all'isola di Abbas. Recavano doni di valore, che Mohamed Ahmed
distribuiva ai poveri. Ascoltavano le sue prediche, e quando se ne
andavano per tornare alle loro case portavano con sé gli scritti di quel
sant'uomo. La sua fama raggiunse ogni angolo del Sudan finché giunse
all'orecchio di un individuo che aspettava bramosamente da tutta una vita
la venuta del secondo profeta. Abdullahi, il figlio di un umile prete, il più
giovane di quattro fratelli, intraprese un viaggio pieno di febbrili
aspettative fino all'isola di Abbas, dove infine arrivò su un asino scorticato
dalla sella e riconobbe nel giovane e devoto eremita il vero messaggero di
Dio.»
David non riuscì più a trattenersi. «Oppure riconobbe lo strumento che
l'avrebbe portato a un potere e a una ricchezza impensabili.»
«Forse così è più corretto», gli fece eco Ryder, ridendo. «Come che sia, i
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due uomini costituirono una saldissima alleanza. Ben presto giunse alle
orecchie di Rauf Pascià, il governatore egiziano di Khartum, la notizia che
questo pazzo prete predicava l'odio contro il khedivè del Cairo. Mandò un
messo all'isola di Abbas perché Mohamed Ahmed venisse qui in città a
giustificarsi. Il prete ascoltò il messo, poi si alzò in piedi e proclamò con le
parole di un vero profeta: 'Per grazia di Dio e del suo Profeta, io sono il
padrone di questa terra. In nome di Dio dichiaro la jihad, la guerra santa,
contro i turchi'.
«Il messo fuggì dal suo padrone e Abdullahi raccolse attorno a sé una
piccola banda di miserabili, che poi armò con pietre e bastoni. Rauf Pascià
inviò due compagnie dei suoi migliori soldati a risalire il Nilo su un vapore
e a catturare quel prete così turbolento. Credeva nel metodo di incentivare
chi conduce la guerra. Aveva infatti due capitani e promise la promozione
e una lauta ricompensa a chi dei due avesse arrestato il Mahdi. Di notte il
capitano del battello sbarcò i soldati sull'isola e le due compagnie, ora in
competizione l'una con l'altra, marciarono per strade diverse allo scopo di
circondare il villaggio ove si diceva che il prete avesse trovato rifugio.
Nella confusione di quella notte illune le due compagnie si lanciarono
furiosamente l'una contro l'altra, poi si ritirarono verso il punto di approdo.
Il capitano del battello, spaventato, si rifiutò di imbarcarli a meno che non
si recassero a nuoto fino alla sua nave. Furono in pochi ad accettare
l'offerta, perché i più non sapevano nuotare e quelli che erano in grado di
farlo avevano paura dei coccodrilli. Così finì che il capitano li abbandonò
al loro destino e fece ritorno a Khartum. Mohamed Ahmed e Abdullahi,
con il loro esercito di miserabili, piombarono sugli egiziani demoralizzati e
li massacrarono.
«La notizia di questa straordinaria vittoria si propagò in tutto il paese:
degli uomini armati di bastoni avevano messo in rotta l'odiato turco. Di
certo la loro guida doveva essere il Mahdi, l'Atteso. Sapendo che truppe
egiziane ancora più numerose sarebbero state mandate a ucciderlo, l'uomo
che si era autoproclamato Mahdi cominciò una hegira, una fuga simile
all'esodo dell'Unico Vero Profeta dalla Mecca a Medina, un migliaio di
anni prima. Tuttavia, prima che cominciasse la ritirata, egli nominò il
fedele Abdullahi suo khalifa, califfo, suo luogotenente di fronte a Dio. Si
trattava di una nomina in accordo con i precedenti e la profezia, e ben
presto la ritirata divenne un'avanzata trionfale. Il Mahdi veniva preceduto
da racconti di miracoli e di segni premonitori. Una notte un'ombra nera
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nascose la mezzaluna, il simbolo dell'Egitto e della Turchia, e ogni uomo
in Sudan poté vedere chiaramente questo messaggio da parte di Dio alto
nel cielo di mezzanotte. Quando il Mahdi raggiunse una roccaforte in
montagna molto a sud di Khartum, a cui secondo la profezia egli cambiò il
nome in Jebel Masa, giudicò di essere finalmente al sicuro da Rauf Pascià.
Tuttavia era ancora alla portata di Fashoda: Rashid Bey, il governatore
della città, era più coraggioso e intraprendente della maggior parte dei
governatori egiziani. Egli marciò dunque su Jebel Masa con
millequattrocento uomini armati alla pesante. Ma poiché disprezzava
questa moltitudine di contadini non prese troppe precauzioni, e così
l'intrepido califfo Abdullahi gli tese un'imboscata nella quale Rashid Bey
si cacciò dritto filato: né lui né nessun altro dei suoi uomini sopravvissero
a quella giornata. L'Ansar, un esercito male armato e miserabile, li
massacrò fino all'ultimo uomo.»
Il sigaro di Ryder si era spento. Lui si alzò, prese un ramoscello che
bruciava dal braciere dei rami di eucalipto, lo riaccese, e solo dopo che si
fu rimesso a tirare allegramente tornò a sedersi. «Adesso che Abdullahi si
era impadronito di fucili e di un cospicuo arsenale militare, per non parlare
del tesoro di Fashoda in cui era depositato quasi mezzo milione di sterline,
era diventato una potenza formidabile. Il khedivè del Cairo diede ordine
che fosse radunato un nuovo esercito qui a Khartum e ne affidò il comando
a un ufficiale inglese in pensione, il generale Hicks. Era uno degli eserciti
più abissalmente inetti che mai siano comparsi sul campo, e l'autorità di
Hicks era indebolita e i suoi ordini revocati dall'incompetente Rauf Pascià,
il quale era già il responsabile di due disastri militari.»
Ryder fece una pausa e mentre si versava il fondo della bottiglia di Hine
scosse tristemente la testa. «Adesso son trascorsi quasi due anni dal giorno
in cui il generale Hicks uscì dalla città con settemila uomini di fanteria e
cinquecento soldati di cavalleria. Era sostenuto da artiglieria someggiata,
cannoni Krupp e mitragliatrici Nordenfelt. I suoi uomini erano per lo più
musulmani e avevano sentito parlare della leggenda del Mahdi, così
cominciarono a disertare quando non avevano ancora coperto cinque
miglia. Hicks mise in catene cinquanta uomini della batteria dei Krupp per
costringerli a mostrare più coraggio, ma anch'essi disertarono portando con
sé le loro manette.» Ryder aveva gettato indietro il capo e rideva, e
sebbene il racconto fosse stato per certi versi terrificante, la risata risultò
così contagiosa che anche Rebecca si trovò a ridere con lui.
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Quello che Hicks non sapeva, e a cui non credette nemmeno quando il
tenente Penrod Ballantyne - l'ufficiale addetto alle informazioni - lo ebbe
messo sull'avviso, era che adesso sotto la bandiera verde del Mahdi si
accalcavano quarantamila uomini. Uno degli emiri che avevano portato la
loro tribù a unirsi allo schieramento di Abdullahi altri non era che Osman
Atalan dei Beja.»
Alla menzione di quel nome gli uomini intorno al tavolo diedero qualche
segno di agitazione: era un uomo di grande influenza, dato che i Beja
erano i più fieri e i più temuti di tutti i combattenti arabi e Osman Atalan il
più terribile dei loro comandanti. «Il 3 di novembre del 1883 la forza
raccogliticcia di Hicks si buttò a testa bassa contro l'esercito del Mahdi, e
fu fatta a pezzi dalle cariche dell'Ansar. Hicks stesso fu ferito a morte
mentre si poneva a capo dell'ultimo quadrato delle sue truppe: quando lui
cadde il quadrato si ruppe e l'Ansar sciamò sopra l'esercito. Penrod
Ballantyne, che aveva avvertito Hicks del pericolo, vide il generale
svuotare interamente il suo revolver contro la carica degli arabi prima che
la testa gli venisse mozzata da un veloce roteare di spadone. Il diretto
superiore di Ballantyne, il maggiore Adams, era a terra colpito alle gambe,
e gli arabi stavano massacrando e mutilando i feriti. In quel frangente
Ballantyne balzò a cavallo e riuscì a issare il maggiore Adams dietro la
sella; poi si aprì la strada tra gli assalitori e, liberatosi dall'accerchiamento,
fu in grado di raggiungere la retroguardia egiziana, in quel momento in
fuga verso Khartum. Era il solo ufficiale europeo sopravvissuto, e dunque
prese il comando. Chiamò a raccolta gli uomini e li guidò nelle
scaramucce della ritirata fino al loro arrivo in città. Ballantyne riportò
indietro duecento uomini, compreso il maggiore Adams ferito; duecento
uomini, dei settemila e cinquecento che erano partiti col generale Hicks.
La condotta del tenente Ballantyne fu il solo raggio di luce in una giornata
altrimenti buia, che vide il Mahdi e il suo khalifa diventare padroni di tutto
il Sudan: calarono con i loro vittoriosi quarantamila uomini su questa città
portando con sé i cannoni catturati che ci hanno tormentato fino a oggi. E
così la popolazione langue e muore di fame, o perisce di peste e colera
mentre aspetta il destino che il Mahdi ha in serbo per Khartum.»
C'erano delle lacrime negli occhi di Rebecca quando Ryder smise di
parlare. «Sembra davvero un giovane valoroso, questo Penrod Ballantyne.
Non l'avete mai incontrato, signor Courteney?»
«Chi? Ballantyne?» Ryder sembrò sorpreso per questo brusco cambio
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d'argomento proprio al culmine del suo racconto. «Sì, ero qui quando tornò
dal campo di battaglia.» «Diteci, per favore, qualcosa di più su di lui.»
Ryder diede una scrollata di spalle. «Quasi tutte le signore con le quali ho
parlato mi assicurano che lo trovano uno splendido cavaliere. Sono
innamorate specialmente dei suoi baffi, che si dicono formidabili. E forse
il capitano Ballantyne sarebbe anche troppo disponibile a trovarsi
d'accordo con l'opinione generale che le donne hanno su di lui.»
«Ma non ne avete parlato come di un tenente?»
«Nel tentativo di salvare qualche minuscolo granello di gloria da quella
terribile giornata, il comandante delle truppe inglesi al Cairo sollevò un
gran polverone sul ruolo di Ballantyne nella battaglia. Si dà appunto il
caso che Ballantyne fosse un ufficiale subalterno del Decimo Ussari, che è
il vecchio reggimento di Lord Wolseley. Wolseley è sempre pronto ad
aiutare la carriera di un collega, così Ballantyne fu innalzato addirittura al
grado di capitano e, come se questo non fosse sufficiente, gli fu conferita
la Victoria Cross.»
«Perché il capitano Ballantyne non incontra la vostra approvazione?»
chiese Rebecca.
Per la prima volta David ebbe modo di scoprire nell'atteggiamento di sua
figlia verso Ryder Courteney un chiaro segno di freddezza. Notò anche
con stupore l'interesse invero eccessivo che ella mostrava nei confronti di
Ballantyne, il quale doveva essere per lei un estraneo, quando
improvvisamente, e non senza una leggera sorpresa, si ricordò che il
giovane Ballantyne aveva fatto visita al consolato alcune settimane prima
che l'esercito di Hicks si mettesse in marcia andando incontro alla sua
completa distruzione a El Obeid. Il ragazzo era venuto a consegnare
personalmente un dispaccio da parte di Evelyn Baring, il console inglese al
Cairo: un messaggio troppo delicato per una spedizione via telegrafo,
perfino in linguaggio cifrato. Sebbene allora non si fosse detto nulla al
proposito, egli aveva tuttavia immaginato che Ballantyne fosse un ufficiale
del servizio informazioni dello stato maggiore di Baring, e che il suo
appoggio all'eterogenea armata di Hicks fosse solo una copertura.
Maledizione, sì! Adesso ricordo tutto, pensò David. Rebecca era entrata
nel suo studio mentre lui era impegnato con Ballantyne. Quando li aveva
presentati, i due giovani si era scambiati alcune espressioni di circostanza,
e poi Rebecca li aveva lasciati. Ma poi, nell'accompagnare Ballantyne alla
porta, l'aveva notata che disponeva dei fiori nella sala, e appena dopo, nel
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dare un'occhiata fuori dalla finestra dello studio, aveva visto sua figlia
passeggiare con Ballantyne diretta all'ingresso del palazzo. Ballantyne gli
era sembrato assai premuroso. Ora tutto tornava. Forse non era puro caso
se Rebecca si era attardata nella sala quando Ballantyne era uscito dal suo
studio. Sorrise tra sé e sé, pensando al modo in cui sua figlia aveva finto di
non aver mai incontrato Ballantyne quando aveva chiesto a Ryder
Courteney cosa ne pensasse di quell'uomo.
Così giovane, ma già uguale a sua madre, rifletté David. E' subdola
come un palazzo pieno di pascià.
Ryder Courteney doveva ancora rispondere alla provocazione di
Rebecca. «Sono certo che Ballantyne sia un autentico eroe, e anche i peli
che gli adornano il viso mi fanno una certa impressione. Tuttavia non ho
mai rilevato in lui un eccesso di umiltà. Ma io ho sempre sentimenti
ambivalenti verso i soldati. Quando hanno finito di far fuori i pagani,
prendere d'assalto le città e impadronirsi dei regni, essi semplicemente se
ne vanno, con le sciabole e le medaglie che tintinnano. Tocca poi a degli
amministratori, a dei civili come vostro padre, tentare di mettere ordine nel
caos che i militari hanno prodotto, e agli uomini d'affari come me riportare
la prosperità tra una popolazione rovinata. No, signorina Benbrook, non ho
alcuna divergenza con il capitano Ballantyne, ma non sono così
innamorato di quel ramo dell'apparato statale al quale egli appartiene.»
L'occhio di Rebecca restò freddo e la sua espressione severa quando
Ryder Courteney si alzò di nuovo per andarsene, questa volta con
maggiore determinazione. Rebecca non cercò più di rinviare la sua
partenza.
Fu solo dopo mezzanotte che Ryder ritornò al suo deposito, dove dormì
poche ore prima che Bashid gli desse la sveglia. Allora consumò una
colazione a base di biscotti di dhurra freddi e coriacei e carne in salamoia
seduto alla scrivania, mentre lavorava alla luce delle lampade a olio sui
suoi registri e sul libro cassa. Quando si rese conto di come erano ridotti i
suoi affari, si sentì cogliere da una soffocante sensazione di paura.
A parte le seicento sterline depositate nella filiale del Cairo della Barings
Bank, quasi tutto il suo patrimonio era concentrato nella città assediata.
Nel magazzino c'erano diciotto tonnellate di avorio del valore di cinque
scellini la libbra, ma solo una volta che le avesse trasportate al Cairo,
mentre nella Khartum assediata non valevano un sacco di dhurra. Idem
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poteva dirsi della tonnellata e mezzo di gomma arabica, la linfa dell'albero
di acacia, che era stata seccata in tavolette nere e appiccicose. Era un
prodotto di gran pregio, usato nelle arti, nei cosmetici, e nell'industria della
stampa. Al Cairo la sua scorta l'avrebbe potuta vendere per diverse
migliaia di sterline. Poi aveva quattro ampi magazzini in cui erano impilate
fino al soffitto pelli di bestiame essiccate che aveva barattato dalle tribù di
pastori dinka e shilluk, nel sud. Un'altra stanza spaziosa era piena di merci
da scambiare: rotoli di filo di rame, perline di vetro veneziano, asce
d'acciaio e lame di zappe, specchietti, vecchi moschetti Tower e barili di
polvere nera a buon mercato, rotoli di tela calicò e tagli di cotone
Birmingham e ogni genere dei ciondoli e gingilli che deliziavano i sovrani
dei regni meridionali e i loro sudditi.
Nelle gabbie e all'interno degli steccati in fondo al suo quartiere teneva
gli animali selvatici e gli uccelli che formavano una parte importante delle
merci che trattava. Erano stati catturati nelle savane e nelle foreste
dell'Equatoria e trasportati a valle sulle sue chiatte e sul suo battello. Nei
recinti riposavano, venivano resi più mansueti e familiarizzavano con gli
esseri umani. Nello stesso tempo i custodi imparavano quali cibi e cure
avrebbero assicurato la loro sopravvivenza fino al momento di trasferirli a
nord lungo il Nilo perché fossero venduti all'asta ai compratori e ai loro
agenti al Cairo e a Damasco, e perfino a Napoli e Roma dove i prezzi
erano notevolmente più alti. In quei mercati alcune delle specie africane
più rare potevano fruttare almeno un centinaio di sterline il capo.
Ma i suoi beni più preziosi erano nascosti dietro la porta d'acciaio di una
camera blindata che era camuffata da un grande arazzo persiano: più di
cento sacchetti di talleri d'argento di Maria Teresa, la moneta onnipresente
nel Medio Oriente, coniati con un ritratto della florida regina di Ungheria e
di Boemia. Era la sola moneta che accettavano gli Abissini dei loro reami
di montagna e altri suoi partner commerciali un po' più raffinati, come il
Mutesa in Buganda, gli Hadendowa e i Saar dei deserti orientali, anche se
in quel momento ci sarebbe stato poco da commerciare con gli emiri di
quelle tribù arabe del deserto perché erano quasi tutti accorsi in massa per
unirsi alla jihad del Mahdi.
Gli sfuggì un sorriso sardonico alla luce della lampada, mentre si
chiedeva se il Mahdi potesse essere sensibile a un'offerta di talleri di Maria
Teresa. Ma non ne era così convinto; aveva sentito dire che nei suoi
saccheggi aveva già accumulato più di un milione di sterline.
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Nella camera blindata però, di fianco ai sacchetti di tela pieni di talleri,
c'erano tesori anche più grandi. Cinquanta sacchi di dhurra, più di una
ventina di scatole di sigari cubani, sei casse di cognac Hine e cinquanta
libbre di caffè abissino.
Gordon il Cinese fa fucilare gli incettatori: spero che mi offra almeno un
sigaro e una benda, pensò. Poi tuttavia tornò mortalmente serio. Prima che
Gordon gli sequestrasse l'Intrepid Ibis, Ryder aveva progettato di spostare
tutto quello che poteva delle sue scorte e dei suoi magazzini a valle fino al
Cairo. Poi avrebbe forzato il blocco del fiume.
Inoltre aveva deciso che, mentre era occupato con questo viaggio,
Bashid conducesse con una carovana di cammelli le merci più ingombranti
e meno preziose fino in Abissinia, e forse anche in una delle stazioni
commerciali sulla costa del mar Rosso. Sebbene il Mahdi avesse
dispiegato le sue truppe sulla riva occidentale del Nilo Azzurro, e stesse
bloccando il fiume, c'erano ancora molti varchi nel cordone che stringeva
d'assedio la città. Il principale di essi era rappresentato dall'ampio cuneo di
deserto sguarnito tra i due fiumi, al cui vertice si trovava la città. Solo uno
stretto canale proteggeva questa parte del suo perimetro, e per quanto gli
uomini del generale Gordon fossero al lavoro per renderlo più profondo e
più ampio, al di là non c'era più nulla: nessun esercito di dervisci, solo
sabbia, sterpaglia e alcune macchie di cespugli di acacia per centinaia di
miglia.
Said Mahtum, uno dei pochi emiri che non erano ancora passati dalla
parte dei dervisci, aveva concordato un prezzo con Ryder per portare i suoi
cammelli nelle vicinanze della città, appena fuori vista, dietro una cresta
bassa e rocciosa. Là, sotto la sovrintendenza di Bashid, avrebbe preso in
consegna le merci e le avrebbe fatte passare di nascosto dal confine
sudanese fino a una delle stazioni commerciali di Ryder sulle colline ai
piedi delle catene dell'Abissinia. Tutti questi piani adesso andavano a
rotoli, e lui sarebbe stato costretto a lasciare tutto quello che aveva nella
città assediata portando con sé solo un carico di profughi.
«Dannato generale, dannato Cinese, dannato Gordon!» esclamò
alzandosi bruscamente e mettendosi a camminare intorno alla stanza. A
parte la cabina dell'Intrepid Ibis, questa era la sua sola dimora stabile. Suo
padre e suo nonno avevano vagabondato in molti posti, e da loro aveva
imparato lo stile di vita itinerante del cacciatore e del mercante africano.
Questo deposito però era casa sua, e ci voleva solo una donna come si
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deve per completarla.
All'improvviso l'immagine di Rebecca Benbrook gli aprì il cuore, ma il
sorriso che seguì non fu certo dei più allegri. Aveva l'impressione, per una
qualche ragione che non poteva immaginare, di essersi bruciato i ponti alle
spalle in quella direzione.
Alla parete, fissate da anelli di bronzo alle pietre del rivestimento,
c'erano un paio di massicce zanne di elefante: lui si avvicinò e passò la
mano con aria assente su una di quelle colonne giallastre. La sensazione
dell'avorio liscio sotto le dita era rilassante come la corona di un rosario. A
Karamojo, mille miglia a sud di Khartum, sul Nilo Vittoria, Ryder aveva
ucciso con un sol colpo in mezzo al cervello il possente maschio che
portava queste zanne.
Mentre stava ancora accarezzando l'avorio, studiò la fotografia sbiadita
nella cornice di ebano che si trovava sulla parete vicina. Raffigurava una
famiglia in piedi di fronte a un carro trainato da buoi in un paesaggio
brullo, ma inequivocabilmente africano.
Al giogo c'era un tiro di sedici buoi con a fianco il conducente nero,
pronto a schioccare la sua lunga frusta e a iniziare in qualsiasi momento la
migrazione verso una qualche destinazione sconosciuta. Al centro della
fotografia c'era il padre di Ryder seduto in sella al suo cavallo preferito, un
castrone grigio che si chiamava Fox. Era un uomo grande e grosso, di
robusta complessione, con una barba tutta nera. Era morto da così tanto
tempo che Ryder non era in grado di ricordare se la fotografia fosse
somigliante. Teneva Ryder, che allora aveva sei anni, sul pomo della sella,
con le lunghe gambe tutte pelle e ossa a penzoloni. Sua madre era in piedi
vicino alla testa del cavallo con lo sguardo sereno rivolto alla macchina
fotografica. Gli tornava alla mente ogni particolare dei suoi bei tratti fisici
e, come sempre quando li guardava, il ricordo gli provocò una stretta al
cuore. La madre teneva per mano la sorella di Ryder, Alice, di qualche
anno più grande di lui, mentre sull'altro lato c'era il fratello maggiore di
Ryder, che teneva protettivo un braccio intorno alla vita della mamma.
Quel giorno era il sedicesimo compleanno di Waite Courteney. Di dieci
anni più grande, era stato per lui più un papà che un fratello, da quando il
loro padre era stato ucciso da un bufalo ferito nel corso del viaggio che i
cinque della fotografia stavano per intraprendere.
L'ultima volta che Ryder Courteney aveva pianto era stato quando aveva
ricevuto il telegramma di sua sorella Alice, da Londra, che gli annunciava
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2005 - Il Trionfo Del Sole
la tragica notizia che Waite era stato ucciso dagli Zulu su un campo di
battaglia dimenticato da Dio in Sudafrica, ai piedi di una collina chiamata
Isandlwhana, «il Luogo della Piccola Mano». Aveva lasciato una vedova,
Ada, con due figli, Sean e Garrick; per fortuna erano già uomini fatti e
potevano prendersi cura di lei.
Ryder sospirò e mandò via quei tristi pensieri. Diede una voce a Bashid.
Anche se era ancora buio, c'era un mucchio di cose da fare quel giorno se
volevano essere pronti a salpare prima di mezzanotte.
I due uomini passarono di fianco al magazzino dell'avorio e giunsero al
cancello dello steccato degli animali. Il vecchio Alì andò loro incontro tra
un colpo di tosse e un borbottio.
«O prediletto di Allah», lo salutò Ryder. «Possa il grembo delle tue belle
e giovani mogli essere fertile. E possa il loro ardore incendiare il tuo cuore
e infiacchire i tuoi ginocchi.»
Alì cercò di non sorridere a queste frivolezze, perché tutte e tre le sue
mogli erano vecchie streghe, e quando un riso soffocato fece per sfuggirgli
lo trasformò in un colpo di tosse, poi sputò del catarro giallo nella polvere.
Alì era il custode del serraglio e, malgrado sembrasse odiare l'intero genere
umano, aveva un tocco magico con le creature selvatiche. Portò Ryder a
fare un giro alle gabbie delle scimmie. Erano tutte ben pulite, e l'acqua e il
cibo nei piatti erano freschi. Ryder allungò un braccio nella gabbia dei
colobi e il suo preferito gli saltò sulla spalla, mise a nudo i denti e mostrò
le zanne. Ryder trovò in tasca i resti del biscotto di dhurra della sua
colazione e glieli offrì da mangiare. Si mise ad accarezzargli il bel pelo
bianco e nero mentre proseguivano la visita lungo la fila di gabbie. C'erano
cinque differenti specie di gorilla, compresi i babbuini, e due giovani
scimpanzé, di cui proveniva fortissima richiesta dall'Europa e dall'Asia, e
che avrebbero travato compratori bramosi al Cairo. Si arrampicarono ad
abbracciare il collo di Alì e il più giovane cominciò a succhiargli un
orecchio come se fosse la mammella della madre, mentre Alì borbottava
loro qualcosa in toni leggeri e affettuosi.
Oltre le scimmie c'erano gabbie piene di uccelli, dagli storni dalle vivaci
tinte metalliche alle aquile, a enormi gufi, alle cicogne dalle lunghe gambe
e infine ai buceri, con i becchi come grandi trombe gialle. «Ce la fai
ancora a trovare del cibo per loro?» Ryder stava indicando gli uccelli
carnivori legati per una zampa ai loro pali. Alì grugni evasivamente, e
allora fu Bashid a prendersi la briga di rispondere per lui.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«I topi sono i soli animali che ancora prosperano in città. I monelli ce li
portano a due spiccioli l'uno.» Alì gli lanciò un'occhiata velenosa per aver
divulgato un'informazione che non era affar suo.
In fondo allo steccato erano rinchiuse tutte insieme le antilopi; invece i
bufali del Capo non si trovavano insieme ad altri animali perché troppo
aggressivi. Si trattava di vitelli appena svezzati, e il motivo era che gli
animali giovani erano più adattabili e viaggiavano meglio delle bestie in
età più matura. Ryder aveva lasciato per ultime nel suo giro le due belle
antilopi rare che aveva catturato durante la sua ultima spedizione. Avevano
un manto lucido, bruno rossiccio, su cui spiccavano delle strisce bianche,
enormi occhi umidi e orecchi a forma di tromba, ed erano anch'esse
animali giovani; giunte a maturità avrebbero avuto la taglia di un pony. In
mezzo agli orecchi spuntavano come delle gemme che ben presto
sarebbero sbocciate in pesanti corna a spirale. Sebbene delle pelli conciate
di bongo fossero state descritte in passato, a quanto Ryder sapeva nessun
esemplare vivo era mai stato messo in vendita in Europa: per una coppia
da riproduzione come quella avrebbe potuto pretendere un prezzo
principesco. Porse loro del biscotto di dhurra, ed esse vennero a leccare
avidamente nella palma della mano.
Mentre procedevano, Ryder e Alì discutevano quale fosse la soluzione
migliore per mantenere un costante approvvigionamento di foraggio al
loro piccolo zoo per tenerlo ben nutrito e in salute. I bongo erano animali
che brucavano dagli alberi, e Alì aveva scoperto che accettavano anche il
fogliame delle acacie, e così gli uomini di al-Mahtum portavano
regolarmente a dorso di cammello carichi di rami appena tagliati dal
deserto in cambio di qualche manciata di talleri di Maria Teresa.
«Ma tra un po' dovrò trarre a riva un'altra isola galleggiante di canne,
perché se non lo facciamo gli altri animali moriranno di fame», lo avvertì
Alì con tono lugubre. Trovava sempre di suo gusto essere il latore di
notizie preoccupanti. Quando delle vere e proprie zattere di erbe palustri e
di papiro si staccavano dai fitti ammassi di vegetazione nelle lagune e nei
canali del Sudd, la corrente del Nilo le portava a valle. Alcune di queste
zattere erano così vaste e galleggiavano così bene che spesso trasportavano
con sé dalle paludi animali di grossa taglia e, nonostante tutti gli sforzi dei
dervisci, Ryder e il suo equipaggio erano bravi ad agganciare queste
zattere viventi con lunghi cavi e trascinarle sulla riva. Qui squadre di
operai tagliavano quei grovigli vegetali in masse più maneggevoli e li
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ancoravano al fossato ricavato dal canale: in questo modo le erbe e le
canne restavano verdi fino al momento in cui erano usate come foraggio.
Bastò a stento la luce dell'intera giornata perché Ryder finisse i
preparativi della partenza da Khartum, e il sole era già al tramonto quando
lui e Bashid lasciarono il quartiere con una fila di cammelli carichi di
bagagli diretta al vecchio porto. Quando salirono a bordo, Jock McCrump
aveva già messo le caldaie dell'Intrepid Ibis in pressione.
Ryder era dolorosamente consapevole che le spie di cui la città pullulava
tenevano gli occhi puntati su di loro mentre caricavano le ultime fascine di
legname per le caldaie su una delle chiatte. Quando finirono, il sole era già
tramontato da due ore, ma il calore del giorno teneva ancora stretta la città
in un abbraccio appiccicoso, mentre la luna cominciava a mostrare il suo
corno al di sopra dell'orizzonte, a oriente, e a mutare l'aspetto dei tetri
edifici cittadini con il pallore romantico dei suoi raggi.
Senza dare nell'occhio nel traffico ormai scarso del fiume, una leggera
feluca sfruttava l'ultima brezza della sera per lasciare la riva di Omdurman
e scivolare a valle. Col favore dell'oscurità, oltrepassò l'entrata del vecchio
porto per non molto più della sua lunghezza e il suo capitano, in piedi su
uno dei sedili, poté scrutare quello che succedeva all'interno. Vide che le
torce erano accese, e ai raggi della luna poté rendersi conto di tutta
l'insolita attività intorno al vapore ferenghi ormeggiato nel porto interno;
udì il clamore e le grida di molte voci e questo confermava le informazioni
che erano filtrate: la nave ferenghi si preparava a lasciare la città. Allora
tornò a sedersi al suo posto dietro il timone, con un fischio appena
percettibile ordinò ai tre uomini d'equipaggio di rinforzare la grande vela
latina per condurre la barca a prendere la brezza della notte, e poi diede un
forte strattone alla barra. La piccola imbarcazione schizzò via di traverso
rispetto alla corrente e si diresse a Omdurman, sulla sponda occidentale del
fiume. Non appena furono giunti al riparo del profilo della costa, il
capitano fischiò ancora, ma questa volta con un sibilo più acuto, e quasi
immediatamente una voce gli intimò dall'oscurità: «Nel nome del Profeta e
del Divino Mahdi, chi va là!?»
Il capitano si alzò di nuovo e rispose alle sentinelle sulla riva. «Non c'è
altro Dio al di fuori di Allah, e Maometto è il suo profeta. Porto notizie per
il khalifa Abdullahi.»
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L'Intrepid Ibis intanto si trovava ancora al molo della Città Vecchia.
Jock McCrump e Ryder Courteney controllavano la fila di fucili MartiniHenry nella rastrelliera sul retro della plancia scoperta, accertandosi che
fossero stati caricati e che i pacchetti di ricambio delle grandi cartucce
Boxer-Henry calibro 45 fossero a portata di mano: era probabile che la
nave dovesse forzare il blocco dei dervisci una volta lasciato il porto.
Non avevano ancora completato tutti i preparativi che i primi tra i
passeggeri più in vista cominciarono a salire sulla passerella, e Bashid li
accompagnò al loro alloggio. L'Ibis aveva solo quattro cabine: una era
quella di Ryder Courteney, che nonostante le proteste di Bashid aveva
deciso di lasciarla alla famiglia Benbrook. Nella minuscola cabina c'erano
solo due cuccette e quindi sarebbero stati un po' stretti, ma almeno le
ragazze avrebbero potuto avere un bagno privato e godere di un po' di
riservatezza, pur trovandosi su una nave così affollata; una delle gemelle
avrebbe sicuramente dormito col padre, mentre l'altra poteva stare con
Rebecca. I consoli stranieri erano stati alloggiati nelle altre cabine, mentre
tutto il resto dei quasi quattrocento passeggeri doveva tentare la sorte
arrangiandosi sui ponti scoperti oppure ammucchiarsi sui tre barconi vuoti.
La quarta chiatta era carica di legname in modo che non ci fosse la
necessità di scendere a riva per rifornirsi di questo prezioso combustibile.
Ryder lanciò uno sguardo all'orizzonte, a est. Mancavano pochi giorni
alla luna piena, e quindi avrebbe avuto la luce sufficiente per distinguere il
canale che portava alla gola di Shaluka... ma purtroppo anche gli artiglieri
dervisci avrebbero avuto il bersaglio illuminato. La loro mira migliorava
ogni giorno di più, man mano che acquisivano una maggiore pratica ed
esperienza nel puntamento dei cannoni Krupp che avevano catturato a El
Obeid, e quanto a munizioni, poi, la loro scorta sembrava pressoché
infinita.
Ryder ritornò a guardare il molo, e subito ebbe modo di irritarsi. Il
maggiore al-Faruk, dello stato maggiore del generale Gordon, aveva
schierato una compagnia delle sue truppe a guardia del perimetro del
porto. Con le baionette inastate, erano pronti a impedire tumulti da parte
dei profughi privi del lasciapassare di Gordon nel caso quelli tentassero di
prendere d'assalto il piccolo battello e di salire a bordo con la forza. Gli
abitanti di Khartum, ormai alla disperazione, non si sarebbero fermati
davanti a nulla e avrebbero corso ogni rischio pur di fuggire dalla città. Ma
quello che dava più fastidio a Ryder era che al-Faruk aveva concesso ai
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suoi uomini il permesso di accendere delle torce per esaminare meglio i
volti e i documenti degli aspiranti passeggeri che si mettevano in fila
all'ingresso del porto, e così adesso la luce illuminava l'intera area per la
gioia delle sentinelle dei dervisci di guardia sulla riva opposta del fiume.
«In nome di Dio, maggiore, fate spegnere quelle luci ai vostri uomini!»
gridò rabbiosamente Ryder.
«Ho ordini precisi da parte del generale Gordon di non far passare
nessuno finché non ho controllato i documenti.»
«State richiamando l'attenzione del Mahdi sui preparativi di partenza»,
rispose ancora gridando Ryder. «Ho i miei ordini, capitano.»
Mentre era in corso questo litigio la folla dei passeggeri e di chi sperava
di imbarcarsi si andava ingrossando rapidamente, e i più erano carichi di
bambini o di fagotti con tutti i loro averi. Tuttavia di fronte alla proibizione
di entrare venivano presi dall'angoscia e dal panico, e molti cominciavano
a gridare e a brandire il loro lasciapassare in alto sopra la testa, mentre
quelli che non l'avevano restavano lì ostinati e torvi in viso nella speranza
di una qualche occasione.
«Lasciate passare quella gente», urlò Ryder. «Solo quando avrò finito di
controllare i loro documenti», lo rimbeccò il maggiore girandosi e
lasciando Ryder a smaniare impotente al parapetto della plancia; del resto
al-Faruk era un uomo testardo e l'alterco non ebbe altro effetto che di
rinviare all'infinito l'imbarco. Fu allora che Ryder notò la figura slanciata
di David che cercava di farsi largo nella ressa seguito dappresso dalle
figlie, e con un certo sollievo vide anche che al-Faruk li aveva riconosciuti
e li guidava a segni attraverso il cordone delle sue truppe. Corsero alla
passerella carichi dei loro beni più cari: Saffron trascinava la scatola dei
colori e Amber un sacchetto di tela riempito dei suoi libri preferiti. C'era
anche Nazira a spingere le ragazze su per la passerella, perché David aveva
usato tutta la sua influenza e il prestigio del suo ufficio per farle ottenere
un lasciapassare.
«Buona sera, David. Voi e la vostra famiglia avrete la mia cabina», lo
salutò Ryder mentre saliva a bordo.
«No! No! Mio caro amico, non siamo venuti qui a buttarvi fuori di
casa.»
«Sarò indaffaratissimo in plancia, e per tutta la durata del viaggio», lo
rassicurò Ryder. «Buona sera, signorina Benbrook. Ci sono soltanto due
cuccette, temo che sarete un po' stretti, ma non c'è niente di meglio. La
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vostra cameriera dovrà prendere posto su una delle chiatte.»
«Buona sera, signor Courteney; grazie, ma Nazira è una di famiglia, e
può dividere una delle cuccette con Amber. Saffron starà con mio padre.
Quanto a me, dormirò sul pavimento della cabina. Sono sicura che staremo
tutti comodissimi», proclamò Rebecca, con il preciso scopo di chiudere il
discorso. Prima che Ryder potesse protestare, un salmodiare e un gridare
minacciosi vennero dalla numerosa folla trattenuta dalle guardie all'inizio
del molo, come il fragile muro di una diga davanti alle acque di
un'alluvione, e questo gli fornì una scusa quanto mai opportuna per evitare
un altro confronto con Rebecca: c'era un lampo inquietante nei suoi occhi
scuri, e il mento le si sollevava in segno di ribellione.
«Scusatemi, David. Dovrete scendere in cabina per conto vostro. Hanno
bisogno di me da un'altra parte.» Ryder li lasciò per correre alla passerella.
Quando si ritrovò di fianco al maggiore al-Faruk si rese conto che la folla
al di là della fila dei soldati ingrossava ogni minuto di più ed era sempre
più ingovernabile, tanto che alcuni già premevano contro la punta delle
baionette. In quel momento arrivava Monsieur Le Blanc, l'ultimo del corpo
diplomatico a imbarcarsi. Con una scelta a dir poco inadatta, vestiva un
ampio mantello da teatro e un cappello tirolese con un ciuffo di piume
nella banda, e gli teneva dietro una processione di servitori, ognuno
stracarico di bagagli. In più, sollevati in alto sulle spalle dei suoi portatori,
erano comparsi anche due bauli da viaggio con le membrature in ottone
che avevano ognuno le dimensioni del sarcofago di un faraone.
«Non porterete tutta quella robaccia a bordo, monsieur» gli disse Ryder
non appena le guardie lo ebbero fatto passare.
Le Blanc lo raggiunse con il sudore che gli gocciolava dal mento,
facendosi vento con un paio di guanti gialli. «Quella 'robaccia', monsieur,
come la chiamate voi, è il mio intero e insostituibile guardaroba. Non
posso partire senza.»
Ryder capì subito l'inutilità di mettersi a litigare con lui. Passò oltre e si
rivolse direttamente ai primi portatori di baule, nel momento in cui
traballando sotto il carico superarono il cordone di soldati.
«Mettete giù questa roba», ordinò, in arabo. Si fermarono e stettero a
guardarlo.
«Non ascoltatelo», strillò invece Le Blanc, e si precipitò indietro a
schiaffeggiarli con i guanti. «Avanti con i bauli, mes braves.» I portatori si
rimisero in moto, ma Ryder prese le misure dell'enorme arabo che
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palesemente doveva essere il loro capo, poi fece un passo avanti e gli
assestò un pugno sulla punta del mento. Il portatore cadde come fulminato
e il baule scivolò dalle spalle dei suoi compagni andando a fracassarsi sulle
pietre del selciato, col risultato che il coperchio si aprì e una piccola
valanga di abiti e di oggetti da toeletta si riversò fuori e finì sul molo. Per
gli altri portatori era più che sufficiente: subito lasciarono cadere il loro
carico e corsero a mettersi in salvo dalla furia del pazzo capitano ferenghi.
«Guardate adesso che cosa avete combinato!» gridò Le Blanc, e cadde in
ginocchio mettendosi a raccogliere a bracciate i suoi preziosi effetti
personali sparpagliati, nel tentativo di riempire di nuovo il baule. Ma alle
sue spalle la folla aveva intuito una possibilità e si era messa ancora di più
a premere in avanti, costringendo le guardie a retrocedere di qualche
passo.
Ryder afferrò Le Blanc per un braccio e lo tirò in piedi cercando di
trascinarlo verso la passerella. «Muovetevi, imbecille di un francese.»
«Se io sono un imbecille, allora voi siete un barbaro inglese», gli urlò in
tutta risposta Le Blanc, che tornò indietro per afferrare una delle massicce
maniglie di ottone del baule mentre Ryder lo strattonava con tutte le sue
forze cercando vanamente di fargli mollare la presa.
Dalle ultime file della folla lanciarono una grossa pietra mirando al capo
del maggiore al-Faruk, ma il colpo fallì e il sasso andò a finire sulla
guancia di Le Blanc il quale strillò di dolore e, lasciando la maniglia del
baule, si portò convulsamente tutte e due le mani alla faccia. «Sono ferito!
Gravemente!»
Dalla folla intanto cominciarono a volare altre pietre che cadevano in
mezzo ai soldati e rimbalzavano sul selciato. Una colpì un sergente
egiziano, che lasciò cadere il fucile e si appoggiò su un ginocchio
tenendosi la testa. I suoi uomini presero a indietreggiare e a guardarsi alle
spalle in cerca di una linea su cui attestarsi, mentre la folla guaiva come
una muta di cani e spingeva in avanti ancora più forte. Qualcuno aveva
raccolto il fucile caduto al sergente e mirava al maggiore al-Faruk. Vi fu
uno sparo e il proiettile andò a colpire di striscio la tempia del maggiore
che cadde, quasi tramortito. I suoi uomini allora ruppero lo schieramento e
mentre indietreggiavano andarono a calpestare la sagoma bocconi del loro
comandante: in un istante si erano trasformati da guardie in prigionieri.
Ryder intanto aveva raccolto Le Blanc, e si era messo a correre con il
delegato belga che scalciava, urlava e si dibatteva nelle braccia che lo
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stringevano, come un bambino in un attacco di stizza.
Ryder piantò il francese sul ponte e poi salì di corsa sulla plancia di
comando. «Mollate!» gridò all'equipaggio, proprio mentre la prima ondata
di folla tumultuante e metà degli ascari egiziani si arrampicavano a bordo.
I ponti rigurgitavano già di una tale massa di gente che l'equipaggio veniva
spinto via dalle proprie posizioni e non riusciva a raggiungere le cime di
ormeggio. E intanto sempre nuove ondate di gente scendevano di corsa al
molo e saltavano a bordo del vapore o si accapigliavano per entrare nelle
chiatte. Quelli già a bordo cercavano di respingerli con la forza e i ponti
erano letteralmente sepolti sotto una mischia di corpi che lottavano.
Saffron sbucò con la testa dalla cabina del capitano per osservare tutta
quell'agitazione, ma Ryder la prese al volo, la cacciò di peso nelle braccia
della sorella maggiore e le sospinse entrambe nella cabina. «Via di qui»,
gridò sbattendo la porta. Poi staccò una scure da pompiere dal supporto in
testa al corridoio delle cabine. Altre orde senza fine di folla in rivolta
stavano uscendo dall'oscurità.
Ryder si accorse che il ponte dell'Ibis oscillava sotto l'irregolare
distribuzione del peso. «Jock», gridò disperatamente. «Va a finire che
questi bastardi ci faranno capovolgere. Dobbiamo tirarla via dal molo.»
Aprendosi la strada in mezzo alla ressa, lui e Jock riuscirono a tagliare le
cime di ormeggio, mentre l'Ibis si stava già inclinando pericolosamente.
Quando Ryder fu di nuovo sulla plancia e aprì la valvola per dare
maggiore potenza, poté rendersi conto della spaventosa resistenza delle
chiatte stracariche di gente: allora si girò a guardare e vide che la più
vicina pescava così tanto che aveva meno di mezzo metro di bordo.
Cominciò a ruotare il timone verso l'entrata del porto.
L'Ibis era spinta da un motore Cowper, una potente unità a tre cilindri
frutto di un progetto moderno che incorporava una camera intermedia per
l'espansione composta del vapore e le permetteva di raggiungere in caldaia
una pressione più alta dei precedenti modelli: tutta questa potenza le
sarebbe stata quanto mai necessaria per riuscire a rimorchiare la fila di
chiatte cariche all'inverosimile in mezzo alla corrente più forte delle
cateratte. Ora, grazie alla spinta del Cowper, la velocità era aumentata e
sotto la prua di ciascuna chiatta sbocciava un'onda bianca di spuma;
aumentò ancora, e l'acqua cominciò ad arricciarsi entrando da sopra la
prua. Non appena i barconi presero a riempirsi d'acqua e ad abbassarsi
ancora di più sul livello del fiume, un coro di urla di disperazione si alzò
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dai passeggeri. Ryder allora ridusse la potenza e cercò di governare l'Ibis e
le chiatte che aveva al traino attraverso l'entrata del porto fino al fiume
aperto, dove avrebbe avuto più agio di manovrare; ma l'accresciuta
turbolenza della superficie non fece altro che aumentare il moto ondoso da
prua.
Ryder fu costretto a ridurre la velocità fino all'abbrivio minimo
sufficiente per governare il timone, ma la nave fu presa dalla corrente e
virò bruscamente mettendosi di traverso al canale, con le cime di traino
che si aggrovigliavano. Le chiatte investirono l'Ibis, e la prima
imbarcazione urtò contro la poppa con un colpo che fece vibrare tutto il
battello.
«Tagliate quelle cime!» strillava Le Blanc, con una voce resa così acuta
dal terrore che riusciva a sovrastare il frastuono. «Tagliate quelle cime!
Lasciatele indietro! È tutta colpa di quelle barche!»
Il groviglio delle imbarcazioni ancora legate insieme superò quasi alla
deriva le ultime case della città e poi finì nella vasta distesa dei due fiumi
che si incontravano. Ryder si rese conto che avrebbe dovuto mettersi
all'ancora per avere il tempo di regolare l'assetto delle chiatte e di riportarle
obbedienti al traino. Considerò anche la possibilità di tornare indietro e
sbarcare i passeggeri clandestini: così com'erano adesso avrebbero potuto
trovarsi in difficoltà nella gola di Shabluka, e anche se fossero riusciti a
superarla i passeggeri regolari non avrebbero potuto resistere al
sovraffollamento quando si fosse trattato di passare attraverso la fornace
del deserto della Madre delle Pietre. Ryder stava dando l'ordine di gettare
la più pesante delle ancore prima di essere trascinati oltre la protezione dei
cannoni del generale Gordon, quando si udì improvviso il grido di
avvertimento di Bashid.
«Ci vengono addosso delle barche! Barche dei dervisci dall'altra riva!»
Ryder accorse e vide che dalla direzione di Omdurman era apparsa, tanto
rapida quanto silenziosa, una flottiglia di decine e decine di piccole
imbarcazioni fluviali: erano feluche, nuggar e piccoli dau che uscivano
dall'oscurità per attaccarli. Tornò sulla plancia. La lampada da diecimila
candele fu montata sul battente del boccaporto della plancia e Ryder puntò
il suo luccicante fascio di luce bianca sui battelli in arrivo. Vide che erano
stipate di Ansar armati fino ai denti, e questa era la prova che i dervisci si
erano resi conto perfettamente dei loro piani di fuga e avevano teso
un'imboscata all'Intrepid Ibis: così, non appena ebbero circondato il
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vapore e la fila aggrovigliata di chiatte che lo seguiva, gli Ansar levarono
la loro terribile lode a Dio e brandirono le spade a due mani. Alla luce
della lampada le lunghe lame mandavano bagliori, e nei barconi i
passeggeri erano ormai in preda alle lacrime e al terrore.
«Alla battagliola!» gridò Ryder all'equipaggio. «Pronti a respingere
l'arrembaggio!»
L'equipaggio aveva capito bene che cosa doveva fare: aveva una lunga
pratica, perché nel Nilo Superiore non mancavano i pericoli e le tribù che
vivevano sulle sue rive e nelle paludi erano selvagge e feroci. Si misero a
lottare tra la folla per raggiungere i loro posti sulla fiancata della nave
dove avrebbero aspettato i nemici, ma i passeggeri erano così stretti tra
loro, quasi spalla a spalla, che era quasi impossibile aprirsi un varco. La
massa di corpi umani ondeggiò in avanti per la spinta degli uomini
dell'equipaggio, e alcuni di quelli più vicini al bordo furono gettati nel
fiume, dove si misero a urlare e a sguazzare finché non furono trascinati
via dalla corrente o sommersi dalle onde. Una giovane sposa che aveva un
neonato assicurato alla schiena fu rovesciata in acqua e, sebbene lei si
agitasse disperatamente per tenere sollevata la testa del bambino, entrambi
furono risucchiati all'indietro e finirono straziati dall'elica dell'Intrepid
Ibis.
I tentativi di salvare alcuni dei passeggeri caduti in acqua risultarono
inutili, e nemmeno c'era il tempo per gettare l'ancora perché le
imbarcazioni dei dervisci avanzavano rapidamente da ogni lato: appena
raggiunte le chiatte, i guerrieri Ansar lanciarono gli arpioni sulle fiancate e
cercarono di abbordarle, senza però riuscire a mettere saldamente piede sui
ponti affollati. Si misero allora a menare fendenti e stoccate con le spade
sui passeggeri in preda al panico per liberare dello spazio a bordo. Le
chiatte oscillavano paurosamente ed erano molti i corpi che cadevano nel
Nilo.
L'ondata successiva di barche investì l'Ibis dal lato di dritta. Ryder non
osava aprire la valvola e dare potenza al motore per paura di sommergere il
barcone di testa; c'era anche il rischio che lo strappo al cavo del traino
fosse troppo potente e che il barcone trascinasse con sé l'Ibis sott'acqua.
Ormai sfuggire ai dervisci era impossibile; bisognava respingerli con le
armi.
Jock McCrump e Bashid avevano già distribuito i Martini-Henry presi
dalla rastrelliera, ed erano armati anche alcuni degli ascari egiziani che
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avevano portato con sé a bordo le loro carabine Remington e si erano
appostati alla battagliola spalla a spalla con l'equipaggio. Ryder puntava il
faro sulle imbarcazioni che si accostavano, e in quel fascio di luce forte i
volti degli Ansar non rivelavano che ardore religioso e una feroce brama di
battaglia: sembravano esseri disumani, come una legione di diavoli uscita
dalle porte dell'inferno.
«Mirate!» gridò Ryder, e i suoi uomini puntarono i fucili.
«Un colpo solo. Fuoco!»
La grandinata di proiettili di piombo di grosso calibro squarciò la massa
compatta degli arabi nelle feluche, e Ryder vide un derviscio scagliato
all'indietro nel fiume, mentre la spada gli sfuggiva di mano avvitandosi in
aria e metà del cranio volava via in una nuvola di sangue e cervello,
scintille vermiglie nel fascio di luce; ma anche molti altri furono abbattuti
o scagliati fuori bordo dall'impatto dei proiettili da 450 sparati a distanza
così ravvicinata.
«Caricate», gridò ancora Ryder. Gli otturatori fecero un suono metallico,
una specie di nitrito, e i bossoli già esplosi saltarono via con un suono
secco. I fucilieri introdussero nuove cartucce nelle canne aperte, e chiusero
con uno scatto la leva di caricamento. «Un colpo solo. Fuoco!»
Prima che gli uomini nelle piccole barche si fossero ripresi dalla scarica
iniziale, furono spazzati da una seconda salva che li costrinse a invertire la
rotta.
Fu allora che Ryder udì la voce di David al di sopra dei lamenti e delle
urla degli altri passeggeri. «Dietro di voi, signor Courteney!» David era
salito sul tetto della cabina e vi si trovava in equilibrio con una delle sue
doppiette tenuta a portat'arm sul petto. Ryder scorse Rebecca al suo fianco.
Teneva in ciascuna mano uno dei revolver Webley di suo padre e li
maneggiava come se non avesse mai fatto altro. Dietro stavano le due
gemelle, ciascuna con una doppietta carica pronta da passare al padre. I
visi erano pallidissimi ma determinati. La famiglia Benbrook formava un
piccolo ma eroico manipolo al di sopra del frastuono e della confusione del
ponte, e Ryder provò per loro un moto di ammirazione.
La canna del fucile di David era puntata sopra la battagliola dell'altra
fiancata e così Ryder poté accorgersi che un'altra ondata di barche lo
stringeva anche da quel lato. Sapeva che i suoi uomini non sarebbero
riusciti ad attraversare il ponte affollato prima che gli assalitori salissero a
bordo, e comunque in questo caso avrebbe dovuto lasciare sguarnito il
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fianco di dritta. Ma ancora prima che lui potesse decidere e dare l'ordine,
David aveva preso in mano la situazione. Aveva alzato la doppietta Purdey
e lasciato partire due colpi a destra e a sinistra in mezzo alla ciurma della
barca più vicina. La rosa di pallini a quella distanza era più potente di un
singolo proiettile Boxer-Henry, e il macello che istantaneamente ne era
seguito aveva lasciato come tramortiti gli assalitori dervisci. Quattro o
cinque di loro erano caduti e si dibattevano sul ponte in mezzo a
pozzanghere del loro stesso sangue; altri erano stati gettati dal colpo oltre
la fiancata e come rottami venivano trascinati via dalla corrente.
E già Saffron faceva scivolare il secondo Purdey nelle mani di suo
padre, mentre Amber ricaricava quello che aveva sparato. Rebecca intanto
tirava con i revolver Webley dentro la feluca più vicina, e sebbene il
rinculo le spingesse quelle armi così pesanti in alto sopra la testa, il loro
effetto era tuttavia mortale. David sparò ancora, in una sequenza così
rapida che i due colpi sembrarono fondersi in una singola discordante
percussione. Quando questa tempesta di pallini di piombo e di proiettili di
revolver fioccò sulle barche e si accorsero che quell'uomo bianco così alto
sul tetto della cabina puntava un terzo fucile e li prendeva di mira, due dei
capitani di feluca diedero un colpo secco alla barra del timone e si
disimpegnarono, poco inclini ad accettare una simile punizione.
«Bravo!» urlò Ryder ridendo. «E brave anche le vostre belle signore!»
Le feluche dei dervisci avevano ormai abbandonato una preda che
reagiva in una maniera così pericolosa, ma ora si rivolgevano alle chiatte
stracariche di gente e praticamente indifese. Adesso che tutti gli assalitori
erano concentrati su di esse, il loro destino sembrava segnato, e gli Ansar
dervisci salivano a bordo aprendosi la strada a fendenti mentre i passeggeri
erano sospinti come sardine davanti a un barracuda verso il parapetto
opposto della loro imbarcazione così pesante e lenta. Ben presto la murata
di una delle chiatte venne spinta sotto dal loro peso combinato e il fiume si
precipitò all'interno e la sommerse. Imbarcò acqua e si capovolse, il suo
fondo tappezzato di erbe puntò per un istante verso la luna, e poi andò
sotto fino a sparire.
Immediatamente la chiatta sommersa agì come una pesantissima ancora
sulla cima di traino, e all'Intrepid Ibis fu crudelmente tirato il freno, tanto
da farlo apparire un cavallo che si impenna sulle cosce. La cima di traino
era stata fatta intrecciando tre normali gherlini, e quindi aveva una potenza
immensa, molto più grande di quella che avrebbe permesso al cavo di
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rompersi e lasciare la chiatta al suo destino. La poppa dell'Ite venne
trascinata irresistibilmente sotto e in un istante l'acqua allagò la parte
posteriore del ponte.
Ryder lanciò il fucile a uno dei fuochisti dell'Ite, prese da lui la pesante
ascia da pompiere, saltò giù sul ponte che si stava allagando e si aprì la
strada a spallate verso la poppa. Era già con le ginocchia nell'acqua che
scendeva a cascate sopra l'arcaccia; ben presto sarebbe arrivata nella sala
macchine e avrebbe spento il fuoco della caldaia. Ryder si concentrò, in
equilibrio sopra la cima di traino, che adesso era tirata e rigida come una
sbarra di ferro, fissata com'era al suo anello nel fasciame di poppa. Era
grossa come il polpaccio di un uomo grasso, e i suoi fili pieni d'acqua
avevano perso ogni elasticità.
Ryder alzò l'ascia con tutte le sue forze portandola più in alto che poteva
sopra la testa, e la calò troncando con uno schianto una dozzina di fili.
Alzò di nuovo l'ascia allo stesso modo e mise ogni grammo della sua forza
nel colpo successivo, e ancora una dozzina di fili se ne andarono, poi
continuò a roteare l'ascia, con un rantolo sordo a sottolineare ogni colpo,
finché gli altri fili del cavo non cominciarono a dipanarsi da soli e a saltare
sotto gli strappi feroci della chiatta sommersa e delle spinte dell'elica della
nave. Ryder saltò indietro appena prima che la cima si troncasse e lo
frustasse come un mostruoso serpente. Lo mancò di un soffio, ma se il
cavo che tagliava l'avesse preso in pieno, gli avrebbe spezzato tutte e due
le gambe.
Sentì sotto di sé l'Ibis dare un improvviso rollio, come se si fosse
liberata da un freno, e poi equilibrare il pescaggio con un balzo all'indietro;
sembrava scuotersi l'acqua dai ponti come fa uno spaniel quando ritorna a
riva stringendo in bocca un'anatra morta. Quindi fu la volta dell'elica di
mordere l'acqua con forza e l'Ite si impennò in avanti, con un movimento
improvviso che fece perdere l'equilibrio a Saffron appollaiata sul tetto
della cabina. Le braccia della bambina ruotarono come pale di un mulino e
Rebecca cercò di afferrarla, ma la sorella le sfuggì tra le mani e cadde
all'indietro con un urlo. Sarebbe andata a sbattere sul ponte d'acciaio della
nave, contro cui avrebbe potuto schiacciarsi la nuca, se non fosse
intervenuto Ryder, il quale gettò via l'ascia e con un tuffo sotto di lei
l'afferrò al volo. Per un momento la tenne contro il petto.
«Non sei di certo un uccellino, Saffy.» Le sorrise e la trascinò verso la
plancia, e sebbene la bambina cercasse di stringerglisi addosso, lui la
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mollò senza troppe cerimonie tra le braccia di Nazira. Poi, senza guardarsi
indietro, fu con un balzo al timone e aprì al massimo le valvole gemelle
della caldaia. Con un getto di vapore dagli scappamenti dei suoi pistoni
l'Ite partì a tutta forza, esultante per essersi liberata dal cavo del rimorchio,
e toccò rapidamente la velocità massima di dodici nodi. Il capitano le fece
disegnare uno stretto arco di 180 gradi a sinistra e poi la lanciò contro il
confuso groviglio di chiatte e feluche.
«Che cosa intendete fare?» gli chiese David, che nel frattempo era
comparso al suo fianco con ancora la doppietta a spalla. «Raccogliere i
naufraghi?»
«No», gli rispose il ghigno feroce di Ryder. «Voglio aggiungere altri
naufraghi, e non sottrarne, al loro numero.» La prua dell'Ite era rinforzata
da un doppio strato di piastre d'acciaio da un centimetro e mezzo per
reggere agli urti contro le rocce delle cateratte. «Voglio speronarli;
avvertite le ragazze che la botta sarà terribile e che devono afferrarsi ben
strette a qualcosa.»
Le imbarcazioni dervisce erano fitte come avvoltoi intorno alla carcassa
di un elefante. Ryder vide che alcuni Ansar stavano districando le cime di
traino che tenevano unite le chiatte e cercavano di far passare i cavi fino ai
dau, con la chiara intenzione di trascinarle una alla volta tra le secche della
sponda ovest del fiume dove avrebbero potuto completare in tutta
comodità la carneficina e il saccheggio. Tutti gli altri continuavano a fare a
pezzi senza remissione la gente che cercava invano riparo sui ponti
affollati, oppure erano chini sulle fiancate a infilzare gli sventurati che si
dibattevano in acqua e tra le urla imploravano misericordia: sotto il fascio
di luce del faro dell'Ite le acque del Nilo erano del colore del succo di
more, macchiate dal sangue dei morti e dei moribondi, e altro sangue
colava a rivoli dalle fiancate delle chiatte.
«Luridi assassini», proferì Rebecca in un sussurro. Poi, a Nazira: «Porta
le gemelle giù in cabina. Non voglio che vedano questo», ma sapeva che
era un comando vano e Nazira avrebbe avuto bisogno di ben altra forza per
staccarle dal ponte dove al riflesso della luce del faro i loro occhi erano
spalancati sul fascino dell'orrore.
Il barcone che si era capovolto adesso galleggiava a chiglia in su, ma
stava ormai affondando rapidamente: all'improvviso la poppa si innalzò
rivolta alla luna e poi la chiatta scivolò sotto la superficie dell'acqua per
scomparire definitivamente. Ryder intanto pilotava il battello verso tre
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grandi feluche vicine l'una all'altra, e che si trovavano fiancata contro
fiancata con la più vicina delle chiatte sopravvissute. Gli Ansar erano così
indaffarati nel loro sanguinario lavoro sul ponte che non sembrarono
nemmeno accorgersi dell'Ite che piombava su di loro, e solo all'ultimo
momento uno dei capitani dei dau alzò gli occhi e si accorse del pericolo.
Lanciò un grido di avvertimento, e nel momento in cui l'Ibis entrava in
collisione alcuni dei suoi compagni si stavano già inerpicando per tornare
sulle feluche.
Ryder manovrò la sua prua d'acciaio in mezzo a questa piccola flotta con
tale perizia che essa vi penetrò facendo a pezzi gli scafi di legno in rapida
successione, il fasciame che strideva ed esplodeva con il fragore di un
cannone mentre i battelli si capovolgevano o erano spinti sotto le acque
insanguinate. Nello speronamento l'Ibis toccò anche la fiancata della
chiatta, ma l'urto si limitò a deviarla e l'imbarcazione si allontanò girando
su se stessa.
Ryder si chinò a guardare i visi terrorizzati dei profughi che erano
sopravvissuti e sentì le loro pietose implorazioni di aiuto, ma non poteva
permettersi il lusso della compassione: doveva scegliere tra sacrificare tutti
o salvare pochi. Così li abbandonò al loro destino e fece descrivere all'Ite
un giro, ancora a tutto vapore, per poi puntare al gruppo vicino di vascelli
dervisci che galleggiavano indifesi e senza abbrivio lungo un'altra chiatta
alla deriva.
Ma ora gli Ansar si erano resi perfettamente conto del pericolo poiché
l'Ite piombava su di loro con il suo occhio fiammeggiante, da ciclope,
acceso ad abbagliarli. Alcuni si gettarono fuori bordo, ma pochi sapevano
nuotare e il peso dei loro scudi e degli spadoni li trascinò rapidamente
sotto. L'Ite si scaraventò a tutto vapore verso la prima feluca, la frantumò e
proseguì la sua corsa senza nemmeno una sosta: oltre infatti c'era il più
grande dei dau dervisci, lungo quasi come l'Ite stessa. La prua d'acciaio del
vapore vi penetrò a fondo, ma non fu in grado di tagliarne lo scafo. L'urto
la ricacciò indietro sollevandola di prua e alcuni di quelli che si trovavano
sul ponte furono proiettati fuori bordo insieme con la ciurma del dau.
Ryder manovrò indietro tutta, e mentre la sua nave si disincagliava dal
dau colpito a morte il faro venne puntato in ogni direzione. La maggior
parte delle imbarcazioni dervisce avevano riportato a bordo gli uomini
partiti all'arrembaggio dalle chiatte dove si trovavano, e di fronte al
furibondo assalto dell'Ite rinunciavano alla propria preda; ora alzavano le
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vele e dirigevano indietro verso la sponda occidentale del fiume. Le tre
chiatte sopravvissute non erano più legate insieme in un convoglio, perché
gli Ansar erano riusciti a tagliare le cime. Ormai libere l'una dall'altra, si
erano sparpagliate e andavano alla deriva anch'esse verso la sponda
occidentale, spinte dalla corrente oltre l'ampia ansa del fiume. Ryder
riusciva solo a scorgere alla luce potente del faro le orde dei dervisci in
attesa che le chiatte arrivassero a riva, pronte a completare il massacro, e
non gli restò altro che far descrivere all'Ite un largo giro nella speranza di
raggiungerne almeno una e di raccogliere di nuovo la cima di traino in
tempo per allontanarla dalla sponda nemica.
Mentre si dirigeva a tutta velocità verso le chiatte si accorse che quella
che conteneva il legname, più pesante delle altre, veniva trasportata più
lentamente dalla corrente. Le altre due invece ne erano ancora preda, con i
ponti affollati di morti e feriti e il sangue colato a macchiare le fiancate,
che luccicavano di rosso alla luce del faro. Presto sarebbero finite nelle
secche, dove l'Ite non poteva seguirle.
Ryder conosceva ogni bassofondo e ogni ansa del fiume così
intimamente come un amante conosce il corpo dell'amata. Ora strinse gli
occhi per concentrarsi e calcolò gli angoli e le velocità relative, ma con un
senso di costrizione alla bocca dello stomaco si rese conto che non ce
l'avrebbe mai fatta a raggiungerle in tempo per salvarle tutte. Consapevole
che il tentativo era inutile, continuò tuttavia a dirigere l'Ibis a valle
procedendo a tutto vapore: vide prima una chiatta, poi l'altra rallentare
bruscamente, e arrestarsi dopo essersi arenate su una secca. Dalla riva i
guerrieri dervisci in attesa si gettarono nel fiume e sguazzando con l'acqua
alla cintola le raggiunsero per completare la strage. Ryder fu costretto a
diminuire la velocità e a guardare impotente, pieno di orrore e pietà,
mentre gli Ansar si issavano a bordo e il loro sanguinario lavoro
ricominciava; invano diresse le scariche di fucileria dell'equipaggio contro
le orde dei dervisci che ancora guadavano il tratto di fiume fino alle due
imbarcazioni, perché la distanza era troppa e i proiettili avevano scarsa
efficacia.
Poi vide che il barcone con il legname galleggiava ancora, ormai slegato
dagli altri. Con un'azione rapida poteva forse recuperarlo prima che
anch'esso si incagliasse, quindi aprì di nuovo la valvola di regolazione e
manovrò a tutta velocità per intercettarlo. Era di importanza cruciale
recuperare quella scorta di legname per le caldaie, perché grazie a essa
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sarebbero potuti arrivare fino alla prima cateratta senza essere costretti a
scendere a terra per tagliare altra legna. Ryder diede voce a Jock
McCrump di preparare un'altra cima di traino, poi guidò l'Ibis lungo la
fiancata della chiatta, che riuscì a tenere ferma sul posto mentre Jock e un
gruppetto di marinai la abbordavano per assicurare il nuovo cavo.
«Più veloce che puoi, Jock», raccomandò Ryder alle sue spalle. «Si
rischia di toccare il fondo da un momento all'altro.»
Guardava con ansia alla costa dove c'erano i nemici, perché la deriva li
aveva portati a un tiro di pistola da loro, e proprio mentre pensava a questo
pericolo vide alcune fiammate dai fucili dei tiratori dervisci che aprivano il
fuoco dalla riva. Un proiettile andò a colpire la ringhiera della plancia e nel
rimbalzare passò così vicino all'orecchio di David che egli si abbassò
d'istinto per poi raddrizzarsi subito dopo, un po' imbarazzato. Il tono con
cui si rivolse a Rebecca non ammetteva repliche: «Porta subito giù le
gemelle, e accertati che ci stiano finché te lo dirò io».
Rebecca sapeva bene che non conveniva discutere con lui quando usava
quel tono. Prese con sé le gemelle e le allontanò dal ponte usando la voce e
l'espressione più severe, e anche Nazira non ebbe bisogno che le si facesse
premura e sgattaiolò sotto fino alla cabina davanti a loro.
Ryder puntò il faro lungo la riva nella speranza di fare un po' di paura ai
cecchini Ansar, o almeno di illuminarli in modo che il fuoco di risposta
dell'equipaggio fosse più preciso. Per rapido che fosse Jock a mettere in
opera la nuova cima di traino, sembrò quasi che passasse un'eternità con la
loro nave in una lenta deriva verso i bassifondi e il nemico in attesa. Alla
fine arrivò la voce potente di Jock: «Il cavo è a posto, capitano».
Ryder fece lentamente macchina indietro finché lo spazio tra le due
imbarcazioni fu così ridotto da permettere a Jock e alla sua squadra di
ritornare a bordo con un salto. Non appena i loro piedi si furono posati
sull'acciaio del ponte dell'Ibis gridò: «Virare, subito!»
Tirando un sospiro di sollievo Ryder aprì le valvole per avanzare e con
dolcezza prese a trainare dietro di sé la chiatta finché essa non si mise al
seguito, obbediente come un cane al guinzaglio. Aveva appena cominciato
a rimorchiarla al centro della corrente quando un sibilo violento riempì
l'aria e qualcosa gli passò così vicino sopra la testa da fargli volar via il
cappello. Quindi, dopo nemmeno un istante, fece seguito l'inequivocabile
rombo di un cannone da sei il cui rumore accompagnava la granata sparata
dalla riva ovest del fiume.
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«Ah, ecco che tirano in ballo uno dei loro pezzi di artiglieria», constatò
David con il tono di uno che conversa tranquillamente. «Mi meraviglia
solo che ci abbiano messo così tanto.»
Ryder non ci pensò due volte a spegnere il faro. «Non sparavano prima
per paura di colpire le loro barche», disse, e le sue ultime parole furono
coperte dal rombo del successivo colpo di cannone sopra di loro. «Questa
non era così vicina.» Teneva la mano destra pigiata sopra le leve della
valvola per spremere dal suo battello anche l'ultima goccia di velocità,
tuttavia il peso e il freno a cui lo sottoponeva la chiatta gli sottraevano
almeno tre nodi.
«Sono abbastanza vicini da inquadrarci a vista», disse David.
«Dovrebbero essere in grado di far meglio di così.»
«Lo saranno... oh, se ne sono sicuro!» Ryder guardò in su verso la luna,
nella speranza di vedere l'ombra di una nuvola che la coprisse, ma il cielo
brillava di stelle e la luna illuminava la superficie del Nilo come se fosse
un palcoscenico, e per gli artiglieri dervisci l'Ibis spiccava contro l'argento
delle acque come una rupe di granito.
Un'altra granata cadde così vicina lungo una fiancata che la plancia fu
spazzata dagli spruzzi come da una doccia e quelli che vi si trovavano ne
furono così inzuppati che le camicie si incollarono loro alla schiena. Ma
poi sempre più fiammate si accesero alle loro spalle dalle bocche dei
cannoni lungo la riva: erano quelli che gli artiglieri dervisci facevano
arrivare pezzo dopo pezzo e mettevano in batteria per aprire il fuoco
sull'Ibis.
«Jock», Ryder avvertì il suo macchinista. «Dovremo fare di necessità
virtù, e tagliare il cavo della chiatta.»
«Signorsì, capitano. Avevo il presentimento che mi avreste detto proprio
questo», e così dicendo Jock partì di corsa verso poppa con un'ascia in
pugno.
Un altro affusto dei dervisci fu portato al galoppo lungo la riva finché
non venne a trovarsi un po' avanti rispetto all'Ibis che arrancava sotto il
suo carico. Non lo sapevano né Ryder né David, ma il mastro artigliere che
comandava quella batteria montata era l'Ansar che il console aveva
soprannominato il Beduino Pazzo.
A cavalcioni del cavallo di testa del tiro, egli diede un secco comando e i
suoi uomini spinsero l'affusto finché non fu in linea con la bocca del
cannone che puntava sul fiume: poi lo staccarono. I serventi numero due e
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numero tre piantarono la pesante lastra d'acciaio che serviva da appoggio
sul terreno soffice della riva del fiume, e poi inserirono la punta della coda
dell'affusto nella fessura della lastra. Mentre lavoravano, il mastro
artigliere, in preda a una selvaggia eccitazione, non smetteva di urlare
ordini: in tutta la sua breve carriera non gli era mai venuto a tiro un
bersaglio così facile come quello che ora gli forniva la nave ferenghi. Era
quasi un fuoco di bordata, su un profilo che si stagliava netto contro le
acque luccicanti, e la nave era così vicina che poteva sentire le voci
terrorizzate dei passeggeri alzarsi in preghiere e suppliche, e anche i
perentori comandi del capitano che parlava nella lingua degli infedeli che
l'artigliere non capiva.
Usò un punteruolo a mano per brandeggiare il cannone spostandolo
lateralmente degli ultimi gradi e puntare la lunga canna direttamente sulla
nave. Poi azionò la manovella dell'alzo finché non inquadrò il bersaglio al
di sopra della tacca di ferro del mirino.
«In nome di Allah, portate i bombom!» urlò ai serventi, che vacillando
sotto il peso tolsero dal carro la prima cassa di munizioni e ruppero le
graffe che tenevano il coperchio. All'interno si trovavano quattro granate
nei loro alloggiamenti di legno, lisce e dai sinistri luccichii. L'artigliere,
che era un autodidatta dell'arte balistica, non aveva ancora penetrato
l'arcano principio dello scoppio ritardato. Con movimenti febbrili e usando
la brugola di Alien che portava legata al collo, regolò le spolette perché
esplodessero il più lontano possibile nella convinzione che questo
conferisse a ogni proiettile la massima potenza distruttiva. L'Ibis era a soli
trecento metri di distanza dalla riva, ma lui regolò le spolette a duemila.
«In nome di Dio. Avanti!» ordinò.
«In nome di Dio.» Il servente numero due spalancò con un gesto teatrale
la culatta del Krupp.
«In nome di Dio», intonò il numero tre, e fece scivolare una delle lunghe
granate nella camera di scoppio finché non fu perfettamente alloggiata
contro i pieni della rigatura; poi il numero due sigillò con forza l'otturatore.
«Dio è grande», disse il Beduino Pazzo, mentre strizzava l'occhio
attraverso il mirino per inquadrare meglio il bersaglio. Brandeggiò l'affusto
di quattro gradi a sinistra finché il pezzo non fu puntato alla base della
ciminiera dell'Ibis, quindi, con un balzo, fu dietro il cannone impugnando
il cordino.
«Non c'è altro Dio al di fuori di Allah», recitò in coro la squadra.
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«E Maometto e il Mahdi sono i suoi profeti.» L'artigliere diede uno
strattone al cordino, e il cannone Krupp rinculò all'indietro contro la
piastra di basamento. Lo scoppio assordò i serventi e li accecò con la
fiammata e la polvere sollevata.
Seguendo una traiettoria quasi rettilinea la granata urlò sopra il fiume e
colpì l'Ibis mezzo metro sopra la linea di galleggiamento, a mezza nave
appena verso poppa. Passò obliquamente attraverso lo scafo con la stessa
facilità di uno stiletto nella carne di un uomo ma, in virtù della regolazione
al massimo della spoletta, non esplose.
Se fosse passata dieci centimetri più sopra o più sotto non avrebbe
causato il minimo danno, niente che Jock McCrump non avrebbe saputo
riparare con il suo saldatore a gas nel giro di qualche ora. Ma non doveva
andare così, perché nel suo passaggio la granata aveva tagliato la condotta
principale del vapore che partiva dalla caldaia. Il vapore, che aveva
raggiunto due volte la temperatura dell'acqua bollente ed era sottoposto a
una pressione di qualcosa come venti chilogrammi per centimetro
quadrato, eruttò con un getto stridulo dalla rottura apertasi nella condotta,
e investì il fuochista più vicino mentre era chinato a gettare una fascina di
legna nel focolare aperto della caldaia. Eccetto che per un turbante e un
perizoma, a causa del calore l'uomo lavorava nudo, e il vapore pelò via dal
suo corpo grandi falde di pelle e di carne fino a esporre le ossa sottostanti.
L'agonia fu così terribile che egli non poté nemmeno emettere un suono, e
con la bocca spalancata in un urlo silente cadde contorcendosi sul ponte e
si cristallizzò in una scultura del dolore estremo.
È vapore riempì la sala macchine e ribollì in dense nuvole bianche dai
portelli della ventilazione per riversarsi sui ponti e velare l'Ibis in una
cortina impalpabile. La nave perse rapidamente potenza e pigramente si
girò opponendo la fiancata alla corrente. Il Beduino Pazzo e i serventi ai
suoi ordini urlavano di eccitazione e di trionfo mentre ricaricavano, ma la
loro preda era adesso oscurata dalla sua stessa nuvola di vapore e così,
sebbene i colpi delle batterie schierate lungo la riva finissero in acqua di
fianco alla nave, o squarciassero l'aria sopra la sua ciminiera come se ci
fosse un gigante a stracciare una vela maestra di tela, nessuna granata si
abbatté più sulla piccola Ibis.
Jock McCrump si trovava sulla plancia insieme a Ryder quando li
avevano colpiti. Afferrò un paio di pesanti guanti da lavoro dall'armadietto
di fianco all'argano a vapore di prua e se li infilò mentre ritornava di corsa
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verso il boccaporto della sala macchine. Il vapore che sortiva a folate
dall'apertura era ancora in grado di bruciargli la faccia e la pelle nuda delle
braccia, ma la sua fuoruscita dal tubo rotto aveva fatto cadere la pressione
nella caldaia. Strappò dalla grata il pesante telone che copriva il
boccaporto e sbraitò rivolto a Ryder: «Avvolgetemi, capitano!»
Ryder aveva capito al volo che cosa doveva fare. Sciorinò lo spesso
telone e lo avvolse intorno a Jock, coprendogli come con un mantello la
testa e ogni parte del corpo tranne le braccia.
«Il barattolo del grasso!» La voce di Jock giungeva soffocata dal viluppo
di tela. Ryder lo afferrò dal gancio vicino all'argano e prese manate di
spesso grasso nero da spalmare sopra le muscolose braccia di Jock, su tutta
la pelle che restava esposta.
«A posto», grugnì Jock, e aprì una fessura nella tela che gli copriva la
testa per trarre un ultimo profondo respiro. Poi si coprì la faccia e, con gli
occhi chiusi e trattenendo il respiro, si tuffò alla cieca giù per la scala di
boccaporto; il vapore però gli fece colare dalle braccia nude lo strato di
grasso nero e gli ustionò la pelle scoperta.
Jock conosceva alla perfezione ogni centimetro della sua sala macchine,
e non aveva certo bisogno di vederci per muoversi. Orientandosi con un
leggero tocco delle dita guantate su quelle macchine così familiari si
mosse rapidamente verso la condotta principale. Lo stridio lacerante del
vapore ad alta pressione che scappava dal guasto minacciava di fargli
scoppiare i timpani, le braccia se le sentiva cuocere come aragoste in
pentola e dovette reprimere l'impulso a gridare per non usare l'ultimo
soffio d'aria dei polmoni doloranti. Inciampò sopra il cadavere del
fuochista, ma riprese l'equilibrio e alla fine riuscì a trovare la condotta che
cercava. Era avvolta con filo di amianto per impedire la perdita di calore,
così poté fare scorrere le mani guantate per tutta la sua lunghezza fino a
trovare la rotella del rubinetto di arresto che controllava il flusso di vapore
nei tubi. Con fretta febbrile girò la rotella e di colpo si alzò il sibilo
altissimo del vapore che scappava, per poi spegnersi man mano che la
valvola veniva chiusa.
Ci voleva un dolore spaventoso per far piangere Jock McCrump, ma egli
singhiozzava come un bambino quando barcollando tornò ai piedi della
scala di boccaporto per trascinarsi penosamente fin sopra il ponte. Uscì
con passo incerto nell'aria della notte, che gli parve fredda al paragone
dell'atmosfera infernale della sala macchine, e Ryder lo prese nel suo
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abbraccio prima che cadesse al suolo. Il capitano fissò con orrore le
enormi vesciche che pendevano dall'avambraccio di Jock, ma poi si cosse
e prese altro grasso dal barattolo per coprire nuovamente pelle.
Fu Rebecca, apparsa improvvisamente, a spingerlo di lato. «È 1 lavoro
da donna, questo, signor Courteney. Badate alla nave e asciatelo a me.» Si
faceva luce con una lanterna controvento, ai cui flebili bagliori esaminò le
braccia di Jock: teneva le labbra increspate in segno di risolutezza. Posò la
lanterna sul ponte, si accovacciò vicino a Jock e si mise al lavoro intorno
alle sue ferite con tocchi abili e leggeri.
«Dio ti benedica, Jock McCrump, per quello che hai fatto per salvare la
mia nave.» Ryder si era trattenuto vicino a Jock. «Ma i dervisci sono
ancora là che ci sparano addosso.» Come a sottolineare la realtà, un'altra
granata Krupp era caduta con un tonfo nel fiume, così vicina a una fiancata
che gli spruzzi li avevano inzuppati come un acquazzone tropicale. «È
brutto il danno? Ce la facciamo a mettere in moto almeno uno dei motori e
a portarci fuori tiro dei cannoni sulla riva?»
«Non ci ho potuto vedere un bel niente là sotto, ma nel migliore dei casi
la caldaia principale non arriverà alla pressione di una scoreggia di
vergine.» Jock gettò uno sguardo a Rebecca. «Perdonatemi, figliola...» Ma
nel dirle questo soffocò un gemito di dolore perché Rebecca gli aveva
toccato una delle vesciche che gli pendevano dalle braccia e questa era
scoppiata.
«Scusate, signor McCrump.»
«Non è niente. Non datevi pena per me, donna.» Jock ritornò con lo
sguardo a Ryder. «Forse, ma proprio forse, potrei raccozzare alla svelta
quel po' di attrezzatura di fortuna che abbiamo e dare un minimo di
pressione ai cilindri. Dipende solo dal danno che c'è laggiù, ma anche a
essere ottimisti dubito che alla condotta potrà arrivare più di qualche libbra
di pressione.»
Ryder si raddrizzò per dare uno sguardo intorno. Non più di trecento
metri a valle del punto dove stavano a galla, impotenti, di fronte ai cannoni
dervisci, scorse la sagoma scura dell'isola Tutti. Quello che nel tiro
mancava ai dervisci in fatto di precisione, lo recuperavano in rapidità, e
anche solo a giudicare dalla quantità dei proiettili che venivano sparati
contro di loro non ci sarebbe voluto molto prima che li colpissero in pieno
un'altra volta.
Controllò ancora per un momento come cambiava la posizione dell'isola.
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«La corrente ci sta portando oltre l'isola, e se ci mettiamo all'ancora nel
lato sottovento ci farà da riparo ai cannoni.» Li lasciò sul ponte e si mise a
spingere per aprirsi la strada nella folla dei passeggeri, gridando nel
contempo per attirare l'attenzione di Bashid e del suo amico Abu Sinn.
«Toglimi dai piedi questa marmaglia... e al mio ordine, pronto a gettare
l'ancora.»
Con un salto furono ai loro posti dove tra calci e spintoni spostarono gli
ascari e gli altri clandestini in preda ormai alla confusione più completa e
si fecero un po' di spazio per lavorare. Bashid liberò il paranco di ritenuta
dall'anello della pesante ancora da pescatori appesa a prua, mentre Abu
Sinn era in piedi, già pronto con la mazza da due chili, sopra la catena
dove la si vedeva emergere attraverso l'anello del pozzetto.
Ryder intanto sorvegliava attentamente la costa dietro di loro,
osservando le fiammate che uscivano dalla bocca dei cannoni dervisci e
aspettando il momento opportuno. Trattenne il respiro per qualche minuto
quando sembrava che il fiume li avrebbe fatti incagliare, poi un mulinello
nella corrente li spinse in acque più profonde e finirono così vicini al lato
est dell'isola da trovarsi al riparo dalle batterie nemiche.
«Via», gridò Ryder ad Abu Sinn, che con una botta della mazza espulse
il perno del maniglione d'ancora. L'ancora cadde nel fiume con un tonfo
seguita dal rumore gracchiarne della catena che scendeva; trovato il fondo,
la catena smise di scorrere e Bashid l'assicurò. L'Ibis rispose come un
cavallo tenuto a briglie corte, e si girò su se stessa nella corrente, rivolta a
monte, sempre con la chiatta del legname legata dietro, al cavo. Il fuoco
dei cannoni dervisci intanto si affievoliva man mano che i vari artiglieri si
trovavano privi del loro bersaglio. Alcune granate passarono stridendo in
alto sopra di loro oppure scoppiarono senza far danno sui banchi di sabbia
dell'isola che li proteggeva, ma poi gli artiglieri si stancarono e scese il
silenzio.
Ryder trovò Jock seduto sulla cuccetta della cabina, assistito da tutte le
fanciulle Benbrook, e gli chiese premuroso come si sentisse.
«Non così male, capitano.» Indicò le sue braccia. «Queste belle ragazze
ci hanno fatto sopra un bel lavoro.» Rebecca aveva fasciato entrambe le
braccia con delle strisce che le gemelle avevano ricavato strappando uno
dei lisi lenzuoli di cotone; poi con lo stesso materiale aveva approntato una
fascia doppia ad armacollo. E ora stava preparando una tazza di tè per il
ferito sul fornello della minuscola cambusa lì di fianco. Jock sorrise. «A
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casa mia non stavo così bene. Sarà per quello che sono scappato.»
«Mi spiace di interrompere il congedo, ma ti posso disturbare per farti
dare un'occhiata al motore?»
«Proprio quando cominciavo a godermela», brontolò Jock, che però fu
subito in piedi.
«Vi porterò io la vostra tazza giù nella sala macchine, signor
McCrump», gli promise Amber.
«E io ne porterò una per te, Ryder», le fece eco Saffron.
Jock McCrump seguì Ryder in sala macchine. Mentre Bashid e Abu
Sinn spostavano il cadavere del fuochista, alla luce di un paio di lanterne
controvento i due uomini cominciarono a valutare il guasto. Ora che Jock
esaminava il suo amato motore più da vicino, poté tirare un sospiro di
sollievo, che però nascose dietro dei brontolii di amarezza. «Maledetti
pagani! Ci si può fidare di loro solo quando sono morti. Nessun senso della
decenza, fare questo al mio caro Cowper.» Tuttavia il colpo aveva
attraversato solo la condotta principale del piroscafo; il motore in sé era
intatto.
«Bene, non c'è niente che posso fare per la condotta del piroscafo
lontano dalla mia officina di Khartum. Per adesso provo ad aggiustare
qualcosa per far arrivare un filo di vapore al motore, ma prevedo che non
batteremo nessun record di velocità con questa vecchia ragazza.» Poi gli
mostrò le braccia fasciate. «Questa volta sarete voi a lavorare come un
asino, capitano.»
Ryder annuì. «E mentre ci siamo, voglio che Bashid faccia trasferire tutti
i passeggeri clandestini sulla chiatta. Servirà a correggere l'assetto e a
darmi la possibilità di manovrare e controllare meglio la direzione. E poi
l'equipaggio avrà più spazio quando dovrà fare le manovre sulla nave.»
Mentre si effettuava il trasbordo dei passeggeri, Ryder e il suo
macchinista cominciarono a riparare il guasto. Lavoravano svelti e precisi:
come prima cosa fecero uscire dalle caldaie tutto il vapore che vi rimaneva
e poi estrassero il combustibile dalle griglie e usarono dei rubinetti a
valvola in linea per isolare la sezione danneggiata della condotta. Fatto
questo, furono in grado di installare una linea di derivazione per far
arrivare il vapore alla motrice: dovettero misurare le lunghezze che
servivano e tagliare le nuove sezioni di tubo necessarie con una sega per
metalli, quindi le chiusero nella pesante morsa sul bancone di Jock e le
filettarono con la fresa a mano per inserirle ai capi dei tubi. Gli snodi
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vennero sigillati con filo di amianto, e poi i due uomini strinsero i gomiti e
i giunti appoggiandosi tutti e due insieme sul lungo manico della chiave
stringitubi. Il risultato finale era una sorta d'incubo di tubazioni
improvvisate e contorte.
Il lavoro aveva portato via il resto della notte, e quando furono pronti a
provare se resisteva, l'alba faceva già capolino attraverso i portelli della
sala macchine. Ci volle ancora un'ora per far riprendere i fuochi nelle
griglie e per riportare faticosamente a pressione la caldaia, e quando la
lancetta del manometro toccò la riga verde Jock cominciò ad aprire
cautamente il rubinetto della valvola del vapore. In piedi accanto a lui a
guardare pieno di ansia c'era Ryder, le mani ancora nere di grasso e le
nocche ammaccate e sanguinanti per le botte prese lavorando intorno ai
tubi d'acciaio; entrambi trattenevano il fiato mentre la lancetta del
manometro secondario si muoveva e insieme osservavano i nuovi giunti
della condotta per controllare anche il minimo segnale di una perdita.
«Tiene tutto», grugnì Jock, e si portò vicino alla valvola del motore. Con
un gorgoglio e un sibilo che annunciavano il passaggio del vapore, i grandi
pistoni tripli cominciarono a pompare su e giù nei loro cilindri, le bielle si
mossero come le gambe di un marciatore e l'albero di trasmissione si mise
a ruotare regolarmente nei suoi cuscinetti.
«La potenza c'è, e tiene.» Jock sorrise con l'orgoglio del vincitore. «Ma
non posso assumermi il rischio di dare tutto vapore. Bisogna prendere
quello che viene, capitano, e ringraziate il Signore e Jock McCrump, per
questo.»
«Sei un bel miracolo, Jock... un miracolo vivente. Spero che tua madre
fosse orgogliosa di te», lo adulò Ryder, che volendo asciugarsi il sudore
dalla fronte si stava facendo col dorso della mano una bella macchia nera.
«Adesso mi devi stare vicino e dare tutti i consigli che puoi; faccio levare
l'ancora e la fissiamo controbordo», gli disse mentre saliva di corsa la scala
della plancia. Abu Sinn lo seguì e corse ai comandi dell'argano a vapore.
Mentre l'Ibis con ogni cautela si muoveva in avanti controcorrente, la
catena dell'ancora ritornava su sferragliando attraverso l'occhio di cubìa.
Le punte si sollevarono dal fondo del fiume e Ryder poté aprire di più la
valvola, ma la risposta della nave fu così pigra che prese solo un piccolo
abbrivio contro i quattro nodi di velocità della corrente. Preso da un freddo
moto di delusione, Ryder guardò subito a poppa verso il barcone, che si
comportava con testarda riluttanza perché il peso del legname e dei
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clandestini lo stava tirando sotto. Decine e decine di sguardi patetici si
fissarono su di lui.
Per Dio, ho una mezza idea di lasciarvi alla mercé del Mahdi: questo
pensiero velenoso gli attraversò la mente, e fu soltanto con un certo sforzo
che riuscì a controllare la tentazione. Si rivolse invece a David che l'aveva
affiancato, in silenzio. «Non ce la farà mai a resistere nella gola di
Shabluka. In quella strettoia tutta la portata d'acqua dei due fiumi passa
insieme come in una condotta forzata e la corrente arriva quasi a dieci
nodi: si porterà via l'Ibis; con solo metà della sua potenza non potrà
cavarsela. Non possiamo correre il rischio di una collisione contro quelle
sponde rocciose.»
«Avete un'altra possibilità?»
«Nessuna, se non tentare il tutto per tutto e tornare a Khartum.»
David mostrò tutta la sua preoccupazione. «Le mie ragazze! Mi ripugna
l'idea di portarle indietro in quella trappola mortale. Per quanto tempo
Gordon ce la farà a resistere in città prima che i dervisci sfondino le sue
difese?»
«Speriamo il tempo sufficiente perché Jock finisca di riparare la nave;
solo allora potremo fare un altro tentativo di fuga. Ma adesso la nostra
unica speranza è tornare indietro nel porto.» Così dicendo Ryder mise
l'Ibis di traverso alla corrente e fece rotta per la sponda est: la sua idea era
di tenere la massa dell'isola Tutti tra il suo vapore e le batterie dervisce, ma
prima ancora che la nave giungesse a metà della traversata le prime
granate già miagolavano sopra il fiume. Ormai però, non senza un aiuto da
parte della corrente, Ryder aveva ampliato rapidamente la distanza dai
cannoni, e l'abilità del Beduino Pazzo e dei suoi camerati non era del
genere che serviva a centrare un bersaglio così piccolo com'era l'Intrepid
Ibis a più di un miglio, almeno senza un diretto intervento di Allah. Quel
giorno tuttavia nessuno ascoltò le loro preghiere e, nonostante alcuni colpi
incoraggianti mancati veramente di poco, l'Ibis seguita dal suo barcone
riuscì senza difficoltà ad attraversare il punto dove il fiume correva di più
e poi a piegare a sud verso la città, costeggiando da vicino la sponda del
canale, il più lontano possibile dalla gittata dei cannoni Krupp.
Intanto le feluche dervisce erano salpate dalla riva ovest del fiume in un
nuovo tentativo di intercettare il vapore ma, ora che il sole era alto,
l'artiglieria del generale Gordon schierata lungo il fiume a Khartum era
riuscita a dirigere un fuoco furibondo e assai preciso sulla flottiglia
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nemica, non appena era stata pienamente a tiro. Ryder vide quattro piccole
imbarcazioni fatte a pezzi da colpi diretti sparati con granate ad alto
potenziale esplosivo correttamente regolate, e anche teste e arti staccati
degli equipaggi nemici sbalzati per aria in mezzo alle nuvole gialle dei
fumi di liddite. Questo fu sufficiente a scoraggiare la maggior parte delle
barche, che tornò al punto di partenza; solo alcuni tra i capitani più
coraggiosi e temerari non rinunciarono all'attacco.
Tre delle imbarcazioni proseguirono l'inseguimento fino ad attraversare
il fiume, ma il vento soffiava forte da sud e la corrente nella stessa
direzione raggiungeva i cinque nodi; così due delle tre feluche furono
sospinte a valle e non riuscirono a tenere una rotta che potesse intercettare
l'Ibis. Solo una poté mantenere la sua direzione, ma Ryder ormai aveva
avuto tutto il tempo che gli bastava per preparare una degna accoglienza, e
aveva ordinato a tutti i passeggeri del ponte di mettersi carponi in modo da
non offrire un bersaglio agli attaccanti.
Così quando il vascello nemico puntò su di loro a gran velocità,
inclinato lateralmente per l'azione del vento e sospinto avanti dalla
corrente, Bashid e Abu Sinn erano già accovacciati sotto la murata di
dritta.
«Fateli avvicinare», li ammonì Ryder, che stava sulla plancia a valutare
il momento giusto. Poi, con tutta la forza dei suoi polmoni: «Ora!»
Bashid e Abu Sinn balzarono in piedi dal loro nascondiglio e puntarono
gli ugelli dei manicotti del vapore sullo scafo della feluca, che non aveva
ponte. Aprirono le valvole, e potenti getti di vapore appena uscito dalla
caldaia dell'Ibis avvolsero completamente i guerrieri che si affollavano
sulla nave nemica. Le loro truculente grida di guerra e le loro feroci
irrisioni si trasformarono in urla angosciate mentre le spesse nuvole di
vapore scorticavano pelle e carne dalla loro faccia e dal corpo. Lo scafo
della feluca andò a infrangersi pesantemente sull'acciaio dell'Ibis, e l'urto
le troncò di netto l'albero. La feluca grattò sulla fiancata d'acciaio del
vapore, poi finì priva di controllo nella sua scia e venne a trovarsi proprio
sulla rotta della chiatta stracarica. Gli Ansar, accecati dal vapore, non si
accorsero del sopraggiungere del barcone, che infatti speronò il fragile
vascello e lo spinse sotto la superficie. Nessuno degli uomini
dell'equipaggio riuscì a risalire.
«Ben vi sta», mormorò Ryder soddisfatto, e poi, con un sorriso forzato
rivolto a Rebecca: «Scusatemi se vi devo privare della comodità delle
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nostre cabine, ma stanotte dovrete proprio arrangiarvi con il vostro letto
del palazzo».
«È una difficoltà che intendo affrontare con la più stoica sopportazione,
signor Courteney.» Il sorriso della giovane era poco convinto, quasi quanto
il suo, ma comunque Ryder era meravigliato per come lei riuscisse a
mantenere la sua grazia anche nel mezzo della distruzione e dell'orrore che
avevano attraversato.
Il generale Charles Gordon era fermo a contemplare il travagliato arrivo
dell'Ibis sui gradini che dominavano l'entrata nel porto. Quando anche
Ryder dalla plancia lo poté scorgere, il suo sguardo era freddo e tagliente
come una scheggia di ghiaccio, senza la minima traccia di un sorriso né di
un accenno di partecipazione alle loro disavventure. Una volta che il
vapore fu ormeggiato al molo di pietra, Gordon si girò e scomparve alla
vista.
Restava il maggiore al-Faruk a dare il benvenuto ai passeggeri che
fradici, sporchi e barcollanti scendevano a terra dalla chiatta. Aveva la
testa fasciata da una benda bianca ma, nonostante questo, mentre andava a
pescare gli uomini che avevano disertato e tentato la fuga la sua
espressione era feroce: appena li aveva riconosciuti segnava il viso a ogni
colpevole con un colpo del curbascio che portava sempre con sé; poi
faceva un cenno alla squadra di ascari lì in fila dietro di lui e costoro non si
facevano pregare ad arrestare il disertore e a mettergli le manette ai polsi.
In seguito, quel pomeriggio, quando Ryder fu convocato a rapporto
nell'ufficio del generale nel palazzo del console, Gordon mantenne dei
modi freddi e scostanti. Ascoltò senza commentare quello che Ryder
doveva dire usando il silenzio come un chiaro segno di condanna, poi,
chinando la testa, parlò esprimendo tutto il suo disprezzo. «La colpa è mia
più che di chiunque altro. Ho caricato io le vostre spalle di una
responsabilità eccessiva. Dopo tutto non siete un soldato, siete solo un
mercante che si vende al miglior offerente.»
Ryder scattò subito per rispondere ma fu interrotto da una scarica di
fucileria che proveniva dal cortile sotto di loro e che lo costrinse a correre
alla finestra a guardar giù.
«È al-Faruk che sistema i disertori.» Gordon non si era nemmeno alzato
dalla sedia. Ryder vide i dieci uomini del plotone di esecuzione appoggiati
quasi con indifferenza ai loro fucili e in terra davanti a loro, contro il muro
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del cortile, una fila scomposta di cadaveri. Gli uomini giustiziati avevano
tutti la benda sul viso e i polsi legati dietro la schiena, e le camicie
inzuppate di sangue. Il maggiore al-Faruk, che ispezionava la fila con il
revolver d'ordinanza nella mano destra, si arrestò sopra un corpo che si
dibatteva in spasmodiche contrazioni e gli sparò un colpo solo nella testa
bendata. Alla fine della fila fece cenno a un secondo plotone di soldati che
arrivarono di corsa e caricarono i cadaveri su un carretto in attesa. Poi un
altro gruppo di condannati fu spinto su dalle celle nel cortile e allineato
lungo il muro, e mentre un sergente bendava loro gli occhi il plotone si
mise sull'attenti. «Spero, generale, che le figlie del console non vengano
obbligate ad assistere a queste esecuzioni», disse Ryder cupo. «Non è
spettacolo che delle giovinette come loro debbano vedere.»
«Ho fatto avvisare il console che le figlie si tengano nei loro
appartamenti. La vostra preoccupazione per quelle fanciulle vi fa onore,
signor Courteney. Nondimeno avreste recato loro un servizio ancora più
grande portandole a valle con il vostro battello fino a un luogo sicuro.»
«È mia intenzione farlo, generale, non appena sarò in grado di riparare il
guasto al mio vapore», gli assicurò Ryder.
«Potrebbe essere troppo tardi, signor Courteney. Proprio in queste
ultime ore ho ricevuto informazioni quanto mai affidabili che mi dicono
che l'emiro Osman Atalan della tribù dei Beja è già in marcia con le sue
schiere per unirsi alle forze del Mahdi che ci stanno assediando qui a
Khartum.» Mentre parlava il generale Gordon indicava fuori della finestra
al di là del Nilo Bianco, sulla riva del fiume dove si trovava Omdurman.
Ryder non riuscì a nascondere la sua espressione di allarme.
Con il famigerato Osman Atalan nello schieramento nemico, la natura
dell'assedio sarebbe cambiata, e qualsiasi tentativo di fuga da Khartum
sarebbe diventato spaventosamente più difficile.
Quasi a conferma di questi cupi pensieri vi fu lo schianto della carica
successiva, e immediatamente dopo Ryder udì un suono attutito di corpi
umani che cadevano senza vita sul terreno.
L'emiro Osman Atalan, prediletto del Divino Mahdi, scorrazzata in
piena libertà. Rispondendo alla chiamata del Mahdi che lo voleva a
Khartum, da parecchie settimane si trovava impegnato con il proprio
esercito in una marcia di risalita dalle colline del mar Rosso, ma il suo
spirito guerriero era insofferente del ritmo monotono e faticoso imposto
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dal grande addensamento di animali e uomini. La colonna dei bagagli con i
cammelli e gli asini, colonna degli schiavi e dei servitori, delle donne e dei
bambini si allungavano per oltre venti leghe e di notte l'accampamento era
simile a una città fatta di tende e di file di bestie. Ciascuna delle mogli di
Osman viaggiava in una portantina chiusa da tende sulla schiena di un
cammello, e di notte dormiva in una tenda spaziosa servita dagli schiavi
personali. Nell'avanguardia e nella retroguardia cavalcavano le legioni dei
quarantamila guerrieri al suo comando. Tutte le tribù asservite si erano
ammassate sotto il suo vessillo nero e scarlatto: gli Hamran, i Roofar delle
colline e gli Hadendowa del litorale del mar Rosso. Erano gli stessi
guerrieri che, nell'arco di pochi anni, avevano annientato due eserciti
egiziani, gli stessi guerrieri che a Tokar e El Teb avevano massacrato gli
uomini, in numero assai superiore, di Baker Pascià, lasciando una larga
scia di ossa sbiancate in mezzo al deserto, e quando il vento veniva da
ovest gli abitanti di Suakin, a venti miglia di distanza sulla costa, sentivano
ancora l'odore dei corpi insepolti.
Molte delle tribù al servizio di Osman Atalan avevano svolto un ruolo
importante nella battaglia di El Obeid, dove il generale Hicks e i suoi
settemila avevano trovato la morte. Erano il fior fiore dell'esercito
derviscio, ma per un uomo come Osman Atalan, nella loro moltitudine, si
muovevano troppo lentamente.
Osman sentiva il richiamo del deserto sterminato e del silenzio delle
terre più selvagge, e così aveva lasciato le brulicanti legioni alla loro
marcia verso la Città degli Infedeli e con una piccola banda di fidatissimi
aggagir si era messo a vagare a cavallo per dedicarsi allo sport più
pericoloso fra quelli noti presso le tribù più focose.
Ora, mentre tratteneva il proprio destriero sulla sommità di una lunga
cresta boscosa che sovrastava la valle del fiume Atbara, la figura di Osman
Atalan si stagliava come quella di un eroe romantico. Non indossava
turbante e i folti capelli neri con la scriminatura centrale erano raccolti in
una lunga treccia, che arrivava fino alla fascia di seta azzurra che cingeva
la vita della jibba ornata da motivi a riquadri. Sotto il ginocchio destro,
contro la sella, teneva stretto il fodero dello spadone, con la sua elsa di
squisita fattura di corno di rinoceronte rivestito come di una patina
d'ambra, e la lama intarsiata d'oro e d'argento. Sotto la stoffa preziosa della
morbida jibba si rivelava un corpo magro e nerboruto, con i muscoli delle
braccia e delle gambe simili ai tendini intrecciati della corda d'un arco.
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Quando con un balzo fu sceso dalla sella restò in piedi, alto, accanto alla
testa del cavallo, lo sguardo che attraversava l'ampia distesa sotto di lui,
per un primo, rapido avvistamento della preda. I suoi occhi erano grandi e
scuri, con le ciglia fitte e ricurve di una bella donna, ma i suoi lineamenti
sembravano scolpiti nell'avorio antico, carne solida e ossa ancor più solide:
era una creatura del deserto e delle lande selvagge, non vi era nulla di
morbido sul suo viso, e il sole gli aveva dorato, ma non annerito, la pelle.
Gli aggagir erano sopraggiunti dietro di lui ed erano smontati.
Il titolo d'onore di aggagir veniva riservato a quei guerrieri che
cacciavano la selvaggina più pericolosa a cavallo, armati della sola grande
spada a due mani. Erano uomini scolpiti nella stessa pietra del loro
signore. Allentarono i sottopancia delle selle ai propri animali e li legarono
all'ombra, li abbeverarono versando l'acqua dalle ghirbe in secchi di cuoio,
poi distesero stuoie di fronda di palma intrecciata davanti a loro e vi
deposero sopra un mucchietto di dhurra per il pasto. Loro invece non
bevvero né mangiarono, perché l'astinenza faceva parte della loro
tradizione di guerrieri.
«Se un uomo beve copiosamente e spesso, non impara mai a resistere
all'impeto del sole e della sabbia», dicevano gli anziani.
Mentre i cavalli riposavano, gli aggagir tolsero le spade e gli scudi che
erano legati alle selle, poi si sedettero al sole, in piccola, socievole
compagnia, e iniziarono ad affilare le lame sulla pelle di giraffa degli
scudi. La pelle di giraffa era quella più dura fra le specie selvagge, anche
se non così pesante come quella dell'ippopotamo o del bufalo. Gli scudi
erano rotondi, privi di ornamenti di figure o emblemi, con la sola traccia
della lama del nemico o dell'artiglio o della zanna di una belva. Affilare le
lame era un passatempo con cui riempivano il tempo dell'ozio, e faceva
parte della loro vita quanto lo era il respirare, più del mangiare e del bere.
«Avvisteremo la preda prima di mezzogiorno», disse Hassan Ben Nader,
il portatore di lancia dell'emiro. «Sia lodato il nome di Dio.»
«Nel nome di Allah», risposero gli altri armoniosamente, in coro.
«Non ho mai veduto un'orma simile a quella che questo capobranco
lascia sulla terra», continuò Hassan a bassa voce, in maniera da non
offendere il suo padrone o i jinn del deserto.
«È il re degli elefanti», concordarono gli altri. «Ci sarà da divertirsi per
un uomo, prima che sia calato il sole.»
Lanciarono un'occhiata obliqua a Osman Atalan, senza guardarlo
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direttamente negli occhi per mostrare il loro rispetto: era assorto in
profonda contemplazione, seduto a gambe incrociate con i gomiti puntati
sulle ginocchia e il mento rasato e liscio nella coppa delle mani.
Erano immersi nel silenzio, a eccezione del sussurrio dell'acciaio sul
cuoio: sospendevano quell'attività infinita unicamente per provare il filo
della lama con il pollice. Ciascuna era lunga poco più di un metro, a
doppio taglio, e gli arabi le avevano replicate dagli spadoni dei crociati
che, secoli prima, tanto avevano colpito i saraceni sotto le mura di Acri e
Gerusalemme. Le lame più preziose erano state forgiate con l'acciaio di
Solingen, e venivano tramandate di padre in figlio. La tempra meravigliosa
di quel metallo conferiva alla lama una potenza immensa, e le consentiva
di avere un filo tagliente come il bisturi di un chirurgo: bastava il colpo più
leggero per fendere pelo e pelle, carne e muscoli penetrando in fondo fino
all'osso. Un colpo vibrato con piena forza poteva tagliare il nemico alla
cintola, tranciandolo in due senza sforzo come si fosse trattato di un
melograno maturo. I foderi erano formati da due pezzi lisci di tenero legno
di mimosa, tenuti insieme e ricoperti dalla pelle di un orecchio di elefante,
fatta seccare e indurire come ferro. Sul lato piatto del fodero due
sporgenze di cuoio distanziate di circa trenta centimetri tenevano l'arma
sicuramente fissata sotto la coscia del cavaliere: persino con il cavallo
lanciato al galoppo non sbatteva e non rimbalzava alla goffa maniera delle
spade della cavalleria europea.
Gli aggagir riposarono, mentre il sole alto nel cielo si spostava di un
arco di tre dita, poi Osman Atalan si alzò in piedi con un unico movimento
agile e aggraziato. Senza una parola si alzarono anche gli altri, raggiunsero
le proprie cavalcature e allacciarono i sottopancia. Scesero giù per il
pendio della valle e attraversarono la savana aperta dove le maestose
acacie dalle cime appiattite si susseguivano lungo le rive del fiume Atbara.
Accanto a una delle profonde pozze verdi smontarono. Gli elefanti li
avevano preceduti. Si erano riempiti la pancia d'acqua, poi avevano fatto il
bagno, turbolenti, schizzando i getti potenti delle proboscidi gli uni sugli
altri e sulla sabbia tutt'intorno. Avevano raccolto enormi quantità di fango
nero e se lo erano applicato sulla testa e sul dorso come protezione dal sole
e dagli sciami di insetti molesti. Poi i tre bestioni si erano allontanati lungo
la riva, ma la sabbia e il fango che avevano lasciato ai bordi della pozza
erano così freschi da essere ancora umidi.
Gli aggagir bisbigliarono fra loro, in preda all'eccitazione, indicando le
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enormi orme rotonde del maschio più grosso. Osman Atalan appoggiò lo
scudo da guerra su una di esse: la sua circonferenza era superiore di un
dito rispetto a quella dello scudo di pelle di giraffa.
«Nel nome di Dio», mormorarono. «Questo è un animale possente, ben
degno del nostro acciaio.»
«Non ho mai veduto un maschio più grosso di questo», osservò Hassan
Ben Nader. «È il padre di ogni elefante mai vissuto.» Riempirono le ghirbe
e lasciarono che i cavalli si abbeverassero di nuovo, poi rimontarono in
sella e seguirono la pista all'interno della foresta aperta di acacia. I tre
maschi di elefante si spostavano contro la brezza leggera in modo da poter
fiutare qualunque pericolo davanti a sé; gli aggagir si muovevano
silenziosi e concentrati dietro di loro.
Il capobranco aveva lasciato cadere un mucchio di sterco giallo in una
radura: era striato di filamenti di corteccia biascicata, strappata alle acacie,
e pieno di bitorzoli - noccioli di palma doum. Un nugolo di farfalle
variopinte vi svolazzava sopra. L'odore era così penetrante che uno dei
cavalli sbuffò, innervosito. Il cavaliere dovette calmarlo con una carezza
rassicurante sul collo.
Continuarono a cavalcare, con Osman Atalan che li precedeva di una
lunghezza. La pista si vedeva con chiarezza anche a cento passi di distanza
o più, perché gli elefanti avevano strappato lunghe fasce di corteccia dai
tronchi delle acacie e le ferite chiare erano talmente fresche da luccicare
per la linfa che ne sgorgava, e che poi si sarebbe asciugata formando scuri
e appiccicosi grumi di preziosa gomma arabica.
L'emiro Osman si alzò sulle staffe e si riparò gli occhi per guardare
avanti: a circa mezzo miglio il ciuffo ispido di un'alta palma doum
spiccava sopra gli alberi più bassi della savana e sebbene la brezza fosse
così leggera da risultare quasi impalpabile, la cima distante della palma
sbatteva di qua e di là come la scrollasse un uragano.
Si voltò a guardare i compagni, con un cenno del capo. Questi sorrisero,
perché capivano a cosa avrebbero assistito. Uno degli elefanti aveva
appoggiato la fronte contro il tronco a forma di bottiglia della palma e la
scuoteva con tutta la sua enorme forza come fosse un alberello, sotto una
pioggia di noci di palma mature che gli cadevano sulla testa.
Tirarono le redini dei cavalli, portandoli al passo. Gli animali avevano
fiutato la preda e sudavano e tremavano dalla paura e dall'agitazione,
perché sapevano cosa sarebbe avvenuto subito dopo. Improvvisamente
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Osman appoggiò la mano sul garrese della propria cavalcatura, una
giumenta vellutata color panna. L'animale alzò la bella testa araba e
spalancò le narici larghe che erano la caratteristica della sua razza, ma poi
si fermò, obbediente. Si chiamava Hulu Mayya, Acqua Dolce, come la
sostanza più preziosa in quella terra assetata, e aveva sei anni, nel pieno
del vigore, veloce come un orice e dolce come una gattina, ma con il cuore
di una leonessa: nel clamore della battaglia e nella furia della caccia non
esitava mai.
Ora, come il suo cavaliere, fissava davanti a sé per scorgere la preda. E
all'improvviso, eccolo: uno dei maschi più piccoli stava separato dai
compagni, a sonnecchiare in piedi sotto i rami di un albero di mimosa. Le
ombre screziate ne confondevano la sagoma.
Osman fece un gesto con la mano destra e tutti insieme avanzarono, i
cavalli che procedevano cauti come se si aspettassero che un cobra si
drizzasse sotto i loro zoccoli. Quasi impercettibilmente i contorni degli
altri due elefanti spuntarono dal folto degli alberi. Uno, tormentato dalle
punture degli insetti, scrollò la testa con tanta violenza da far sbattere
fragorosamente le orecchie contro le spalle; le zanne brillavano opache
nell'ombra, annerite dalla linfa e dai succhi fino ad assumere il colore di
una pipa di schiuma macchiata di fumo di tabacco. I pilastri di avorio,
ricurvi e affusolati, erano talmente grandi che gli aggagir gemettero di
soddisfazione, toccando l'elsa delle loro spade. Il terzo animale era quasi
nascosto da una macchia di rovi di kittar, e da quella posizione era
impossibile giudicare quanto fossero grandi le sue zanne rispetto a quelle
dei compagni.
Adesso che Osman Atalan aveva localizzato la posizione di ciascun
elefante, gli era possibile preparare l'attacco. Innanzitutto dovevano
occuparsi di quello più vicino, perché se l'avessero superato mettendosi
sopravvento il loro odore sarebbe arrivato fino a lui: l'odore di un uomo e
di un cavallo potevano metterlo in fuga precipitosa tra barriti di allarme
rivolti agli altri, e solo una dura cavalcata li avrebbe riportati in prossimità
del branco. Con un sussurro più simile a un movimento delle labbra, ma
con un gesto eloquente delle mani, Osman Atalan impartì i suoi ordini agli
aggagir, ma sulla scorta di una lunga esperienza ciascuno di loro già
sapeva cosa ci si aspettasse da lui.
L'elefante sotto l'albero di mimosa era in diagonale rispetto a loro,
pertanto Osman, quando li guidò di nuovo in avanti, percorse un
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semicerchio verso destra per poi avvicinarsi più direttamente da dietro. A
paragone di quella di altri animali selvatici, come il babbuino o l'avvoltoio,
la vista dell'elefante è scarsa, ma la difficoltà di distinguere le forme è
compensata dalla prontezza con cui si accorge dei movimenti.
Osman non osò avvicinarsi oltre, mentre era a cavallo. Scivolò di sella e
si rimboccò l'orlo della jibba nella fusciacca azzurra, lasciando le gambe
coperte solamente dalle larghe brache. Strinse le cinghie dei sandali e
sguainò lo spadone, di cui istintivamente saggiò la lama con il dito per poi
succhiare la goccia di sangue che gli sgorgò dal polpastrello del pollice.
Lanciò a Hassan le redini di Acqua Dolce e iniziò ad avanzare verso la
massiccia sagoma grigia all'ombra dell'albero di mimosa. L'elefante aveva
la maestosità di una nave da guerra a tre ponti: pareva impossibile che una
bestia così possente potesse cadere sotto una lama tanto piccola.
Osman avanzava leggero e flessuoso con la grazia di un ballerino, la
spada impugnata nella mano destra; tuttavia l'aveva fasciata per dieci
centimetri oltre la traversa cruciforme dell'elsa con una striscia di pelle
dell'orecchio di un elefante ucciso di recente che, essiccata e conciata,
costituiva un punto di presa per la mano sinistra.
Mentre si accostava al grosso maschio udì il sommesso brontolio della
sua pancia; l'animale condivideva la soddisfazione e il godimento con i
compagni del branco, che non diversamente da lui sonnecchiavano nei
dintorni, intorpiditi dalla calura del mezzogiorno. L'elefante ondeggiava
dolcemente, schiaffeggiando pigro le mosche con la coda stopposa: il
ciuffo di peli ispidi alla sua estremità era quasi del tutto consumato dagli
anni. Le gigantesche zanne macchiate erano talmente lunghe e spesse che
l'animale ne appoggiava le punte smussate sul terreno cotto dal sole. La
proboscide segnata e raggrinzita penzolava fiacca in mezzo alle aste di
avorio, ma con la punta l'elefante accarezzava l'osso femorale sbiadito e
rinsecchito di un bufalo morto da lungo tempo e lo faceva rotolare fino alla
zampa anteriore, poi lo sollevava portandoselo alle labbra come per
assaggiarlo e lo strofinava in mezzo alle protuberanze carnose a forma di
dita ai due lati delle narici, come un antico sacerdote copto seduto
sognante al sole avrebbe potuto giocare con il suo rosario.
Osman cambiò la presa, raddoppiandola per il colpo fatale, e si mosse
lungo il fianco dell'animale standogli abbastanza vicino da toccarlo con la
punta della spada. La pelle grigia screpolata gli ricadeva in grappoli
attorno alle ginocchia e in molli falde sotto la pancia, come il vestito di un
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vecchio, troppo largo per il suo corpo avvizzito.
Gli aggagir guardavano il loro signore con ammirata venerazione: un
guerriero meno eccelso avrebbe scelto di sgarrettare la preda,
avvicinandosi alla bestia ignara da dietro per tagliarle con rapidi colpi a
due mani i tendini e le arterie principali dietro le zampe, sopra gli enormi
piedi rivolti all'infuori: una ferita che avrebbe consentito al cacciatore di
darsi alla fuga, ma che avrebbe azzoppato e immobilizzato l'animale fino a
che le arterie recise non gli avessero prosciugato la vita, in una morte lenta
che poteva durare anche un'ora. Ma tentare l'avvicinamento frontale come
stava facendo l'emiro moltiplicava per cento il pericolo. Osman si trovava
ora in pieno alla portata della zanna, capace di sferrare un colpo che gli
avrebbe mandato in frantumi fino all'ultimo osso del corpo, e poi quelle
enormi orecchie coglievano anche il minimo rumore, persino il respiro
controllato, e a una distanza tanto ravvicinata gli occhietti cisposi
avrebbero scorto anche il movimento più impercettibile.
Osman Atalan si fermò all'ombra dell'elefante e guardò in su, in uno di
quegli occhi: sembrava troppo piccolo per il testone grigio, ed era quasi
completamente schermato dalla spessa frangia di ciglia incolori che
l'animale sbatteva mezzo addormentato. La proboscide penzolante era pure
riparata dalle spesse zanne giallastre. Osman doveva sollecitare la bestia
ad allungarla verso di lui. Qualsiasi movimento sbagliato, qualunque
suono innaturale avrebbero scatenato una reazione devastante. Un colpo di
proboscide lo avrebbe abbattuto, oppure lo avrebbero calpestato i
polpastrelli delle enormi zampe, o ancora una zanna d'avorio lo avrebbe
trafitto e l'osso sporgente dalla fronte dell'elefante inginocchiato sopra di
lui lo avrebbe maciullato in una poltiglia sanguinante.
Osman rigirò delicatamente la lama nei pugni e con il metallo lucido
catturò uno dei solitari raggi di sole che attraversavano il baldacchino
frondoso sopra il suo capo. Orientò il raggio riflesso sull'orecchio
dell'elefante che dondolava dolcemente e poi, per gradi, lo diresse più
avanti fino a sparare un minuscolo spicchio di luce nell'occhio semichiuso
del bestione. L'elefante spalancò l'occhio, che brillò mentre cercava la
fonte di tale piccolo fastidio: non scorse alcun movimento tranne la
chiazza tremula di luce e allungò la proboscide verso di essa, senza
allarme, solo incuriosito.
Non fu necessario che Osman adattasse la doppia presa sull'elsa: la lama
descrisse nell'aria una curva scintillante, veloce come la picchiata di un
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falco pellegrino. Non vi erano ossa nella proboscide che potessero deviare
il colpo e la lama argentea la affettò di netto. Una metà cadde a terra.
L'elefante arretrò per lo spavento e il dolore. Osman fece un balzo
all'indietro nel medesimo istante e l'animale individuò il movimento
cercando di sferrare un colpo in quella direzione: ma la proboscide giaceva
per terra e mentre il moncone oscillava per aria, descrivendo un arco in
direzione di Osman, il sangue uscì dalle arterie recise con un potente
spruzzo cremisi che gli inzuppò la jibba.
Poi l'animale sollevò il moncone della proboscide amputata e barrì in
preda all'angoscia della morte, con il sangue che si riversava all'indietro
sulla testa e dentro gli occhi. Caricò addentrandosi nella foresta,
fracassando gli alberi e i rovi che gli bloccavano il cammino, e, strappati
con violenza dalla soglia del sonno da quei versi disperati, gli altri elefanti
fuggirono con lui.
Hassan Ben Nader avanzò tenendo Acqua Dolce alla briglia per
permettere a Osman di afferrare una ciocca della sua lunga criniera di seta
e balzare in sella senza lasciare l'elsa dello spadone.
«Lasciamo scappare il primo elefante», gridò. Il pulsare di quel cuore
possente avrebbe fatto sgorgare il sangue ancor più velocemente dalle
arterie aperte e la bestia si sarebbe indebolita crollando nell'arco di un
miglio. Sarebbero tornati dopo a occuparsene. Senza controllare la
proboscide, Osman superò il punto dove l'animale morente aveva cambiato
bruscamente direzione. Si sollevò sulle staffe per poter individuare con
maggiore chiarezza il percorso dei due elefanti da cacciare e li seguì fino a
che ebbero raggiunto le prime colline della vallata, dove essi si separarono.
Uno dei pachidermi prese la direzione sud lanciandosi in mezzo alla
foresta, mentre l'altro si inerpicò dritto su per il pendio roccioso, ma non
c'era tempo di esaminare le orme per decidere quale dei due fosse il più
grosso, e pertanto la scelta di Osman fu casuale.
Fece un segnale con la spada sollevata e gli aggagir si separarono
ordinatamente in due gruppi. Il primo inseguì a cavallo uno degli elefanti
su per la ripida scarpata, e Osman guidò il secondo gruppo
all'inseguimento dell'altro. La polvere della sua corsa era sospesa
nell'immobilità dell'aria calda, e non era dunque necessario rallentare per
decifrare le tracce dell'animale. Acqua Dolce continuò a volare per un altro
miglio fino a che, avanti di quattrocento passi, Osman individuò la
gibbosità scura della schiena del pachiderma che attraversava prepotente le
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macchie grigie e spinose di kittar, come una balena che salti fuori da un
mare turbolento. Ora che teneva la preda in vista, Osman fece rallentare
Acqua Dolce portandola al piccolo galoppo, per farle risparmiare le forze
in previsione dell'ultimo, disperato incontro; e persino a quel passo
continuavano a guadagnare terreno sull'elefante. Ben presto, la ghiaia e i
sassolini sollevati dalle enormi zampe dell'animale cominciarono a
picchiettare contro il suo scudo e a colpirgli le guance. Socchiuse gli occhi
e si portò ancora più sotto, fino a che l'elefante non si accorse della sua
presenza girandosi verso gli uomini con una agilità e una velocità
incredibili in un simile bestione. I cavalieri si sparpagliarono davanti alla
sua carica, ma uno degli aggagir non fu abbastanza rapido. Il pachiderma
allungò la proboscide e a pieno galoppo lo strappò dalla sella: lo spadone
con cui avrebbe potuto difendersi si sfilò dalla presa, spargendo riflessi
luminosi di sole prima di conficcarsi nel terreno indurito e restarvi a
oscillare come un metronomo. L'elefante girò la testa e con la proboscide
avvolta attorno al collo dell'aggagir sbatté l'uomo contro il tronco di una
palma doum con tale forza che la testa gli si strappò dal corpo: poi si
inginocchiò sopra il cadavere e lo trafisse con le zanne, rigirandole senza
sosta dentro le ferite.
Osman fece tornare indietro Acqua Dolce e, nonostante scuotesse la
lunga criniera per il terrore, la cavalla rispose alla pressione delle
ginocchia e al polso che stringeva le redini. La guidò in piena visuale
dell'elefante e lanciò un grido di sfida per attirare tutta l'attenzione
dell'animale. «Ah! Ah!» esclamò. «Vieni, progenie di Satana! Seguimi,
bestia degli inferi.»
Il pachiderma sobbalzò, con il cadavere che gli penzolava da una zanna.
Scrollò la testa e il morto fu scagliato lontano. Poi si gettò alla carica di
Osman: barriva infuriato scrollando la testa enorme con le orecchie che
sbattevano come la randa di un vascello di linea colta dal vento di prua.
Acqua Dolce correva come una lepre impaurita, trasportando veloce
Osman davanti alla bestia che caricava, ma egli la fece rallentare con una
carezza da amante sul morso. Stava sporto in avanti sul suo collo, ma
guardava indietro da sotto il braccio. «Piano, mia dolcissima.» Le moderò
l'andatura. «Dobbiamo stuzzicare il bestione, ora.»
L'elefante si rendeva conto di guadagnare terreno e li rincorreva
rombando come uno squadrone di cavalleria pesante. Protendendo la testa
allungò la proboscide, ma la cavalla volava come una rondine che passi a
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pelo dell'acqua di un lago per bere in volo, e Osman teneva sempre la sua
coda fluttuante a un braccio di distanza dalla punta della proboscide: con
uno sforzo l'elefante riuscì a correre a una velocità ancora maggiore, ma
proprio mentre stava per atterrare cavallo e cavaliere, Osman spinse Acqua
Dolce, con delicatezza, e la cavalla come un miraggio allungò il passo
appena fuori dalla portata del pachiderma. Osman le parlò con dolcezza
nell'orecchio e lei si voltò ad ascoltarne la voce.
«Sì, mia diletta. Arrivano.» Attraverso la polvere sollevata dall'elefante
in corsa poteva distinguere le sagome dei suoi aggagir che
sopraggiungevano. Osman offriva all'elefante se stesso e il proprio cavallo
come una muleta, per dare ai suoi uomini l'opportunità di avvicinarsi e di
colpire a morte. Il pachiderma era talmente assorto sul cavaliere davanti a
sé che non si accorgeva degli uomini che stavano arrivando dietro la sua
coda protesa. Osman guardò Hassan Ben Nader che balzava a terra
agilmente dalla sella, dritto alle calcagna rimbombanti del bestione, mentre
il compagno che cavalcava al suo fianco afferrava le redini sciolte e teneva
la testa della cavalcatura per l'istante di cui Hassan aveva bisogno.
Toccando terra, l'aggagir sfruttò l'impeto del galoppo del proprio
cavallo per scagliarsi in avanti e nel momento in cui l'elefante appoggiava
tutto il peso sulla zampa più vicina, con la corda del tendine che si
irrigidiva gonfiandosi sotto la spessa pelle grigia, Hassan vibrò la lama
sulla parte posteriore del nodello, qualche centimetro sopra il punto dove il
tendine teso era attaccato all'articolazione: il filo di acciaio luccicante
sprofondò fino all'osso, e il tendine principale si aprì con uno schiocco
gommoso che, sovrastando il fragore della caccia, giunse con chiarezza
all'orecchio di Osman. Nel medesimo istante Hassan Ben Nader strappava
di mano le redini al compagno e balzava di nuovo in sella. Il suo cavallo si
precipitò di nuovo al galoppo: una meravigliosa prova di destrezza
equestre. Con tre affondi si era riportato alla larga dalle zanne e dalla
proboscide.
L'elefante sollevò da terra la zampa ferita slanciandola in avanti per il
passo successivo, ma mentre il peso ricadeva sul piede la zampa si storse e
l'articolazione del nodello cedette. A differenza di altri quadrupedi,
l'elefante non è in grado di correre su tre zampe; pertanto la bestia fu
subito azzoppata e si bloccò dov'era. Gemendo per il dolore e la furia
brancolò cercando di protendersi verso chi la tormentava. Osman fece
compiere una piroetta ad Acqua Dolce e con i talloni la riportò indietro
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quasi sotto la proboscide allungata, gridando per mantenere su di sé
l'attenzione della preda tenendosi appena fuori della sua portata. Il
pachiderma cercò di dargli la caccia, ma incespicò pesantemente e quasi
affondò mentre la zampa ferita cedeva sotto il suo peso.
Nel frattempo Hassan aveva rifatto il giro e, ancora non visto
dall'animale che arrancava penosamente, ora gli si portava sotto la coda:
balzò di nuovo da cavallo e poi, questa volta per dimostrare coraggio,
lasciò che il proprio destriero proseguisse nella corsa e rimase da solo alle
calcagna del bestione. Attese un istante che tutto il peso cadesse sulla
zampa illesa e, quando il tendine spuntò orgoglioso sotto la pelle, lo recise
con l'abilità di un chirurgo: entrambe le zampe posteriori cedettero sotto il
peso e l'elefante affondò impotente sulle cosce, gridando il proprio terrore
al cielo impietoso e al trionfale sole d'Africa.
Hassan Ben Nader volse la schiena alla bestia che si dibatteva e si
allontanò senza fretta. Osman balzò di sella e corse ad abbracciarlo. «Hai
cavalcato come un uomo, ucciso come un principe», esclamò ridendo.
«Oggi stesso tu e io faremo il giuramento e mangeremo insieme il sale
della fratellanza.»
«Mi fai troppo onore», mormorò Hassan e cadde in ginocchio per
rendergli omaggio. «Perché io sono tuo schiavo e tuo figlio, e tu sei mio
padrone e mio padre.»
Fecero riposare i cavalli all'ombra abbeverandoli dalle ghirbe intanto che
osservavano gli ultimi sussulti della loro preda. Il sangue sgorgava dalle
arterie spaccate dietro le zampe della bestia, al ritmo del battito del suo
cuore. La terra sotto i piedi si era disciolta in un bagno di fango e sangue, e
sotto il suo peso le zampe storpiate scivolavano e sbandavano. Non ci
volle molto. Il flusso color vermiglio intenso si disseccò e il torpore che
precede la morte si impossessò di lui. Alla fine l'aria gli sfuggì dai polmoni
con un lungo, vuoto gemito e la bestia si rovesciò sul fianco, colpendo il
terreno con uno schianto che riecheggiò per le colline.
«Fra cinque giorni ti rimanderò qui con cinquanta uomini, Hassan Ben
Nader, per prendere le zanne», disse Osman accarezzando una delle
enormi sciabole d'avorio che si levavano al cielo sovrastando la sua testa.
Tanto sarebbe occorso prima che la cartilagine che le teneva nelle ossute
cavità del cranio, marcendo, si ammorbidisse in maniera che le grandi
zanne potessero essere sfilate senza i danni che colpi d'ascia imprecisi
potevano arrecare. Montarono in sella e in pieno agio ritornarono lungo le
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proprie tracce per ritrovare il primo elefante che Osman aveva attaccato: a
quell'ora anch'esso doveva essere morto dissanguato a causa della
tremenda ferita. E non sarebbe stato difficile rintracciare il punto in cui era
caduto seguendo il fiume di sangue che si era lasciato dietro.
Non avevano percorso mezza lega che Osman alzò un braccio per
ordinare di fermarsi e drizzò la testa, in ascolto. Il suono che lo aveva
allarmato ritornò da dietro la cresta rocciosa al di là della quale l'altro
gruppo di aggagir si era dato all'inseguimento del terzo elefante maschio.
Le colline che si frapponevano avevano certamente smorzato l'eco
impedendo loro di sentire prima, ma adesso il rumore era inequivocabile
per dei cacciatori esperti: era quello di un elefante infuriato, non azzoppato
o indebolito dalle ferite.
«Al-Noor non è riuscito a ucciderlo», esclamò Osman Atalan.
«Dobbiamo accorrere in suo aiuto.»
Li guidò su per il pendio al galoppo, e quando attraversarono la cresta i
suoni della lotta si fecero più forti e più vicini. Osman cavalcò in quella
direzione, e trovò un cavallo morto disteso dove era stato colpito, con la
spina dorsale fracassata da un colpo di proboscide, e con l'aggagir morto
sulla groppa. Li superarono senza fermarsi e incontrarono altri due uomini
morti. A Osman bastò un'occhiata per capire: uno era caduto disarcionato
davanti all'animale che caricava ed erano state le punte rosse, uncinate, dei
rovi di kittar a strapparlo di sella mentre cercava di sottrarsi alla carica.
L'altro morto era suo fratello di sangue, tornato indietro per salvarlo. Come
avevano vissuto, così erano morti, il sangue che si mescolava e i corpi a
pezzi intrecciati fra loro. I loro cavalli erano fuggiti.
L'elefante barrì di nuovo. Il grido era più vicino, ora, e più intenso.
Veniva da una foresta di kittar non molto distante. Affondarono i calcagni
nei fianchi dei cavalli e si lanciarono avanti al galoppo. Mentre si
avvicinavano alla foresta di kittar un uomo a cavallo emerse al galoppo
dalla barriera spinosa, venendo all'aperto. Era al-Noor sul suo cavallo
grigio, in preda al massimo terrore e allo sfinimento. Al-Noor era quasi
completamente nudo: la jibba gli era stata strappata via dal corpo dalle
spine e la pelle era lacerata come se fosse appena uscita di fra gli artigli di
una belva feroce. Il cavallo barcollava, a ogni passo sbatteva all'infuori gli
zoccoli come capitava, ed era troppo esausto per vedere ed evitare la tana
di formichiere gigante sul proprio percorso. Incespicò, e quasi cadde,
lanciando al-Noor in avanti, poi continuò a correre, abbandonando il
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proprio cavaliere frastornato nella traiettoria del grosso elefante maschio
che sbucava dirompente dalla foresta di rovi dietro di lui. Era il patriarca,
questo; erano sue le orme che per prime li avevano attirati e sbalorditi.
C'era del sangue su una delle zampe posteriori, ma troppo in alto e troppo
avanti perché il tendine fosse stato colpito: al-Noor aveva inflitto una ferita
nella carne che non rallentava né ostacolava l'animale. Mentre veniva
avanti, teneva la testa alta per non impigliare le lunghe zanne nei rovi o nel
terreno pietroso. Si estendevano dal labbro per una lunghezza doppia
rispetto alle braccia spalancate di un uomo di alta statura, ed erano spesse
come le cosce di una donna, quasi senza assottigliarsi da labbro a punta.
«Dieci qantar per parte!» gridò Hassan, sbalordito. Si trattava di un
animale da leggenda con almeno cento chili di avorio che uscivano ricurvi
da ogni lato del testone grigio. Ancora stordito, al-Noor si era tirato in
piedi barcollando e restava lì, a ondeggiare come ubriaco, con il sangue e
la polvere che gli impiastricciavano il volto. La schiena era rivolta al
pachiderma che caricava, e aveva perduto la spada. L'elefante lo vide,
emise un altro barrito e si arrotolò la proboscide contro il petto. Al-Noor si
voltò. Quando vide la morte calare su di lui alzò la mano destra, con il dito
indice allungato a indicare che moriva nell'Islam, e gridò: «Dio è grande!»
Era il suo momento di accettazione e restò in piedi ad aspettare la fine,
senza timore.
«Per me e per Allah!» gridò Osman alla sua giumenta, e Acqua Dolce
rispose attingendo alle sue ultime riserve di forza e velocità. Come un
fulmine si buttò sotto la cupola delle zanne, con Osman appiattito sul
collo. La proboscide dell'elefante era arrotolata, e non vi era bersaglio per
la lama; l'emiro poteva solo sperare di deviare la carica dall'uomo.
L'occhio dell'elefante era talmente concentrato su al-Noor che non si
accorse del cavallo e del cavaliere che sopraggiungevano dal fianco fino a
che questi non gli passarono accanto così vicini che la spalla di Osman
cozzò contro una delle zanne. E poi sparirono, come il volo guizzante di
un passero. Il bestione scartò, dimenticando l'uomo in piedi per seguire il
nuovo e più pressante oggetto della sua furia, e si diede a caricare il
cavallo.
«Oh, prediletto di Allah, che Dio possa perdonare tutti i tuoi peccati»,
gridò al-Noor pieno di gratitudine all'emiro che gli aveva salvato la vita.
Osman sorrise cupamente quando le parole lo raggiunsero al di sopra dei
barriti laceranti, dello scalpitare degli zoccoli e dello schianto dei rovi.
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«Che Dio mi conceda ancora qualche peccato prima di morire», gridò in
risposta trascinando l'elefante dietro di sé.
Hassan e gli altri aggagir cavalcavano nella sua scia, gridando e
fischiando per attirare l'attenzione dell'animale, ma questo continuava a
ostinarsi su Acqua Dolce. La cavalla aveva corso parecchio, ma non aveva
del tutto esaurito le forze. Osman si voltò a guardare sotto il braccio e vide
che l'elefante avanzava rapido, tanto rapido che né Hassan né nessun altro
poteva mettersi nella posizione adatta ad attaccargli le vulnerabili zampe
posteriori. Guardò davanti a sé e vide che stava per finire in una trappola,
perché Acqua Dolce nella sua corsa era arrivata in un angusto corridoio
aperto in mezzo a fitti boschetti di cespugli di kittar, ma ora il tragitto le
veniva sbarrato da un fitto muro di rovi. Osman sentì la cavalla arrestarsi
sotto di lui: la bestia voltò il muso per guardare l'amato cavaliere, come in
cerca di guida, e fece roteare gli occhi fino a mostrarne l'interno iniettato di
sangue. Dagli angoli della bocca uscivano bolle di schiuma bianca.
Poi cavallo e cavaliere si buttarono nei kittar, che si richiusero attorno a
loro in un'onda verde. Le spine uncinavano pelle e stoffa come artigli
d'aquila, e quasi immediatamente la corsa aggraziata di Acqua Dolce si
trasformò nel dibattersi di una creatura presa nelle sabbie mobili mentre
l'elefante piombava tonante su di loro, senza che i rovi di kittar
arrestassero il suo possente avanzare.
«Vieni, dunque, e facciamola finita», gridò in tono di sfida Osman,
mentre lasciava cadere le redini e con un calcio si liberava dalle staffe. Si
alzò in piedi, alto, sulla sella, girato all'indietro sulla groppa di Acqua
Dolce, con gli occhi sullo stesso piano di quelli dell'elefante. Uomo e
bestia si confrontavano al di là di una distanza che si assottigliava
rapidamente.
«Prendici, se sei capace», gridò Osman al pachiderma, sapendo che il
suono della sua voce lo avrebbe fatto infuriare. L'elefante appiattì le
orecchie ai lati del cranio, arrotolandone le estremità per segnalare la
propria furia aggressiva. Poi fece quello che Osman aspettava che facesse:
srotolò la proboscide, allungandola per afferrare l'uomo e sollevarlo dalla
groppa del cavallo.
Mantenendosi in equilibrio rispetto ai violenti allunghi e sobbalzi di
Acqua Dolce, Osman con la lunga lama bilanciata fra le mani aspettò che
la grigia proboscide dentellata stesse per richiudersi attorno al suo corpo, e
colpì. L'acciaio sibilò nel rapido movimento e parve dissolversi in
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un'argentea esplosione di luce: un colpo pieno, che sembrò non incontrare
resistenza, con l'acciaio a tagliare pelle, carne e nervi come fossero nebbia,
troncando la proboscide vicino al labbro con la precisione di una lama di
ghigliottina che stacca di netto la testa di un condannato.
Per un istante non vi fu sangue, solo il luccicare della carne appena
esposta e delle terminazioni nervose e il biancore dei tendini, poi il sangue
sgorgò a fiotti, avvolgendo la testa grigia in una nuvola vermiglia mentre
le arterie eruttavano. Il pachiderma barrì di nuovo, ma questa volta di
dolore e di sgomento, poi barcollò di lato, perdendo il senso dell'equilibrio
e della direzione. Osman si lasciò di nuovo cadere in sella e guidando
Acqua Dolce con le ginocchia la portò fuori dalla traiettoria della vista
annebbiata dell'elefante; e intanto che l'animale brancolava, descrivendo
un ampio incerto cerchio, Hassan gli si portò dietro a cavallo per
infliggergli il taglio dietro la zampa sinistra. Poi con un balzo fu di nuovo
in sella, lasciando il pachiderma immobile sulla gamba azzoppata mentre a
sua volta Osman, scivolato a terra dalla groppa di Acqua Dolce, con un
altro fendente della spada recideva il tendine destro.
Il sangue sgorgava a fiotti dalle tremende ferite delle zampe posteriori e
della proboscide, ma l'animale restò dritto per il tempo necessario a un
mullah a recitare una sura del Corano. Osman Atalan e i suoi aggagir
smontarono e restarono accanto alle teste dei loro cavalli per osservarlo
negli spasimi della morte e per pregare per lui, lodandone la possanza e il
coraggio. E alla fine la bestia si schiantò sul terreno pietroso. «Allah è
onnipotente. Infinita è la gloria di Dio», gridò Osman.
La voce passò come un lampo di vicolo in vicolo e di suq in suq, gridata
dai minareti e dai tetti. Al suo diffondersi una tetra atmosfera di morte calò
sulla città di Khartum e gli abitanti, bisbigliando dolenti nei loro incontri,
si precipitavano alla ricerca di una posizione vantaggiosa da cui poter
guardare al di là del fiume e contemplare il proprio destino.
Ryder Courteney era nell'officina del suo quartiere dietro l'ospedale e le
mura di fango rosso di forte Burri, quando un servitore gli portò un
messaggio da parte di David Benbrook, scarabocchiato su un foglietto
strappato dalla carta del consolato. Era dalle prime luci del mattino che
Ryder si dedicava a riparare l'Itrepid Ibis con Jock McCrump. Dopo aver
staccato la tubatura del vapore squarciata si erano infatti accorti che i danni
erano maggiori di quanto non avessero sospettato in un primo momento,
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dato che alcuni dei frammenti di metallo erano finiti nei cilindri e ne
avevano rigato le camicie: era sorprendente che ce l'avessero fatta a
ritornare al porto.
«Ho fatto un gran bene a non lasciarvi andare a tutto vapore», borbottò
Jock immusonito. «Lo avessi fatto, adesso saremmo proprio in un bel
guaio.»
Erano stati costretti a estrarre il pesante motore dallo scafo dell'Ibis e a
issarlo sul molo di pietra. Poi l'avevano trasportato al recinto dell'officina
su un carro trainato da buoi, facendo un ampio giro per evitare i vicoli
angusti. Ci lavoravano da dieci giorni ormai e le riparazioni erano quasi a
termine. Ryder si pulì le mani su una balla di cascame di cotone, poi gettò
un'occhiata al biglietto. Lo passò a Jock. «Vuoi venire a vedere la parata?»
Jock bofonchiò, perché in quel momento era impegnato a sollevare con
delle lunghe pinze un foglio incandescente di metallo dalla fornace e lo
stava portando all'incudine. «Come se non dovessimo farcene comunque
una spanciata, di quel bel signore orientale, il caro dannato Osman Atalan,
senza bisogno di correre a guardarlo adesso con gli occhi spalancati.»
Sollevò il pesante martello da fabbro e, sempre ignorando Ryder,
incominciò a battere il metallo per dargli forma e per poi infilarlo in un
mastello d'acqua: il metallo si raffreddò in una sibilante nuvola di vapore e
Jock gli prese le misure con occhio critico. Stava dando forma a una pezza
per uno dei buchi nello scafo dell'Ibis. Il risultato non lo soddisfaceva, così
tornò alla fucina fischiettando stonato; allora Ryder scoppiò in una risata e
andò alle stalle a prendere il suo cavallo.
Attraversò il canale sulla strada rialzata di terra battuta, e passando in
mezzo alla folla di gente che accorreva giunse ai cancelli del palazzo del
console. Sperava di evitare di finire in bocca al generale Gordon e fu lieto
di vedere il suo profilo inconfondibile nell'uniforme cachi sul parapetto
superiore di forte Mukran, attorniato da una mezza dozzina di membri del
suo stato maggiore egiziano. Ciascuno di loro aveva un telescopio o un
binocolo puntato sulla riva nord del Nilo Azzurro, quindi Ryder poté
superare il forte e raggiungere il consolato senza attirare la loro attenzione.
Consegnò il cavallo a uno dei mozzi ai cancelli delle scuderie e attraversò
di buon passo i giardini rinsecchiti per raggiungere l'entrata ufficiale del
palazzo, dove le sentinelle lo riconobbero immediatamente e si misero
sull'attenti mentre entrava nell'atrio di rappresentanza.
Gli corse incontro un segretario egiziano. Al pari di tutti gli altri,
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2005 - Il Trionfo Del Sole
anch'egli appariva nervoso e preoccupato. «Il console è in cima alla
torretta di guardia, signor Courteney», disse l'uomo. «Vi chiede di avere la
bontà di raggiungerlo lassù.»
Quando Ryder mise piede sul balcone, la famiglia Benbrook non si
accorse subito della sua presenza. Erano raggruppati attorno al grande
telescopio sul treppiede e adesso era il turno di Amber, la quale per
raggiungere la lente si era messa in piedi sopra una sedia con lo schienale
di bambù. Poi Saffron si guardò intorno e si lasciò sfuggire un gridolino di
felicità. «Ryder!» e corse ad afferrarlo per un braccio. «Devi venire a
vedere. È così eccitante.»
Ryder lanciò un'occhiata a Rebecca, e provò una stretta alla bocca dello
stomaco. La giovane non mostrava le ripercussioni negative del loro
recente, poco proficuo viaggio a valle: anzi appariva fresca come una rosa
anche sotto gli strati di sottogonna di georgette verde che si gonfiavano al
di sopra della crinolina. Attorno al suo cappello di paglia era avvolto un
nastro color giallo brillante, e i capelli le ricadevano in boccoli sopra le
spalle, riflettendo i raggi del sole.
«Non fatevi tormentare da quella monella, signor Courteney», gli disse
Rebecca con un sorriso discreto. «È così altezzosa fin dall'ora di
colazione.»
«Altezzosa significa regale e degna di una regina», la rimbeccò Saffron,
con aria saputa.
«Non è vero.» Amber la stava guardando dal telescopio. «Significa
insopportabile e presuntuosa.»
«Pace a tutte e due», ridacchiò Ryder. «L'amore fra sorelle è una cosa
bellissima.»
«Sono contento che siate venuto», gli gridò David. «Mi dispiace di
strapparvi al vostro lavoro, ma vale la pena vedere. Amber, basta con
questo telescopio. Adesso è il turno del signor Courteney.»
Ryder avanzò sul parapetto, ma prima di chinarsi in avanti per vedere
nella lente guardò al di là del fiume. Era uno spettacolo straordinario: fin
dove il suo occhio arrivava pareva che la terra avesse preso fuoco. Gli ci
volle un istante prima di rendersi conto che non era il fumo a dare al cielo
quell'aspetto scuro e fumante, ma la nuvola di polvere sollevata da
un'enorme massa in movimento, una massa di creature vive, uomini e
animali, che si allungava fino all'orizzonte a est.
Persino a quella distanza si udiva nell'aria un'eco sommessa, come il
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ronzio attutito di un alveare, o il mormorio del mare in una giornata senza
vento. Era il suono degli asini ragliami, delle greggi mugghianti, delle
pecore dalla grassa coda e delle migliaia di zoccoli, dei piedi in marcia,
dello scricchiolare dei carichi sui cammelli, e dello sferragliare delle ruote.
Erano gli scudi da guerra di pelle di giraffa che sbattevano, le lance e le
spade che tintinnavano nei foderi, era il rombo dei carri con i cannoni e la
carovana delle munizioni.
Poi, più nettamente, udì lo squillare degli ombeyya, i corni da battaglia
sudanesi ricavati da una sola zanna d'avorio, strumenti il cui richiamo
bellicoso si propagava per una distanza immensa nell'aria del deserto. E
come sottofondo si sentiva il basso, palpitante rullare di centinaia di
enormi tamburi di rame. Ciascun emiro cavalcava in testa alla propria tribù
con i tamburini, i trombettieri e i portabandiera davanti a lui, circondato da
vicino dai mulazemin, le guardie del corpo, i fratelli e i fratelli di sangue, e
gli aggagir. Sebbene adesso cavalcassero riunite nella santa jihad del
Divino Mahdi, la maggior parte di queste tribù recava il peso di spietati
conflitti centenari, e nessuna di esse si fidava dell'altra.
I vessilli erano delle sfumature dell'arcobaleno, ricamati con versetti del
Corano ed esaltazioni di Allah, e alcuni erano talmente grandi che per
tenerli in alto, mentre svolazzavano e frustavano la calda brezza del
deserto, occorrevano tre o quattro uomini. I vessilli e le jibba dei guerrieri,
con le loro pezze multicolori, formavano uno spettacolo grandioso sullo
sfondo incolore del paesaggio.
«Quanti stimate che siano?» chiese David, come se stesse parlando della
folla alle corse di Epsom Down.
«Questo lo sa il demonio», rispose Ryder scuotendo la testa dubbioso.
«Da qui non si riesce a vederne la fine.»
«Azzardereste un cinquantamila?»
«Di più», osservò Ryder. «Forse, molti di più.»
«Riuscite a distinguere il seguito di Osman Atalan?»
«Sarà nell'avanguardia, naturalmente.» Ryder appoggiò l'occhio al
telescopio e lo puntò avanti. Individuò gli stendardi neri e scarlatti.
«Eccolo là, il diavolo in persona. In testa a tutti!»
«Credevo aveste detto che non gli avevate mai posato gli occhi
addosso», osservò David.
«Non c'è bisogno di presentazioni. E' lui, vi dico.»
In tutto quel trambusto e quella baraonda la figura snella sul cavallo
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color panna era inequivocabile per dignità e presenza.
In quell'istante vi fu un'improvvisa ondata di agitazione in mezzo alla
vasta congregazione sulla riva opposta del fiume. Attraverso il telescopio,
Ryder vide Osman che si sollevava sulle staffe brandendo lo spadone. Le
prime file dei suoi mulazemin si lanciarono in una carica furibonda, e
Osman li guidò dritti in direzione di un piccolo drappello di uomini a
cavallo che andavano loro incontro provenienti da Omdurman.
Precipitandosi avanti le masse di cavalleria e soldati a dorso di cammello
scaricavano in aria raffiche di fuoco gioioso e il loro fumo azzurro si
mescolava alla nube di polvere, facendo luccicare come stelle nell'oscurità
le punte delle lance e le lame delle spade.
«A chi stanno correndo incontro?» chiese David, bruscamente.
Attraverso la lente, Ryder si concentrò sul piccolo gruppo di cavalieri, e
riconoscendo i turbanti verdi dei due che stavano in testa esclamò:
«Accidenti a me se quello non è proprio il Divino Mahdi con il suo
khalifa, il possente Abdullahi...» Ryder cercò di mantenere un tono di voce
sardonico e spregiativo, ma nessuno si lasciò ingannare.
«Con quell'allegra banda di tagliagole a sbarrarcela, la via per il nord è
definitivamente chiusa.» Nonostante David lo avesse dichiarato con
apparente spensieratezza, un'ombra gli attraversò gli occhi mentre si
posavano sulle sue tre figlie. «Non c'è più verso di fuggire da questo posto
disgraziato.» Qualunque commento che Ryder potesse fare sarebbe
suonato fatuo, e così osservarono in silenzio l'incontro degli uomini che
tenevano fra le loro mani lorde di sangue il destino della città e di tutti i
suoi abitanti.
Con la spada sguainata e la lunga treccia che picchiava contro la schiena,
Osman Atalan puntò direttamente verso la figura a cavallo del Mahdi. Il
profeta di Allah lo vide arrivare in un turbine di polvere in mezzo agli
squilli assordanti dei corni da guerra e al martellare dei tamburi; tirò le
redini al suo stallone bianco mentre il khalifa Abdullahi fermava il suo
cavallo qualche passo dietro al suo signore, ed entrambi attesero il
sopraggiungere dell'emiro.
Osman piombò su di loro al galoppo e fermò Acqua Dolce bruscamente,
in scivolata, agitando il suo spadone davanti al volto del Mahdi. «Fisban
Allah wa Rasulahu!» urlò. «Per Dio e il suo Profeta.» La lama che aveva
tolto la vita a uomini ed elefanti a centinaia era solo alla distanza di un dito
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dagli occhi del Mahdi, ma il profeta restava immobile in sella, le labbra,
dalle quali si mostrava la falya, atteggiate a un sorriso sereno.
Osman fece compiere un giro completo ad Acqua Dolce e ripartì al
galoppo seguito dalla sua guardia del corpo e dai portabandiera, tutti alla
stessa sfrenata velocità, tutti a sparare in aria con i loro fucili MartiniHenry. Dopo aver percorso almeno trecento passi Osman chiamò a
raccolta gli uomini, che si radunarono alle sue spalle. Levò in alto la spada
e di nuovo caricarono a falange compatta puntando in linea retta sulle due
figure isolate, e solo all'ultimo istante Osman tirò le briglie con una tale
violenza che la cavalla si impennò.
«La ilaha illallah! Non c'è che un solo Dio!» gridò a voce altissima.
«Mohamed Rasul Allah! Maometto è il profeta di Dio!»
Cinque volte i cavalieri si ritirarono e cinque volte ripeterono la loro
carica. Alla quinta Mohamed Ahmed, il Divino Mahdi, levò la mano destra
e parlò con voce pacata. «Allah Karim! Dio è generoso.»
Immediatamente Osman balzò dalla groppa di Acqua Dolce e baciò il
piede calzato di sandali del Mahdi, ancora nella staffa: un atto di umiltà
estrema, l'anima che si concedeva completamente a un'altra. Il Mahdi gli
rivolse il più dolce dei sorrisi: emanava un profumo particolare, una
mistura di sandalo e di essenza di rose, noto come Respiro del Mahdi. «Mi
compiaccio che siate venuti a unirvi alle mie schiere e alla jihad contro il
Turco e l'infedele. Alzati, Osman Atalan. Ti sei assicurato il mio favore e
puoi entrare con me nella città di Allah, Omdurman.»
Il Mahdi si trovava sul tetto piatto della sua casa, seduto a gambe
incrociate su un basso angareb, un divano coperto da un tappeto da
preghiera di seta, e disseminato di cuscini. Sopra la terrazza una
schermatura fatta con una stuoia di giunchi li proteggeva dal sole, ma i lati
erano aperti al fresco della brezza che veniva dal Nilo e regalavano un
panorama che arrivava fino alla città di Khartum, oltre l'ampia distesa del
Nilo Vittoria, dove spiccava la sgraziata mole di forte Mukran che
dominava le difese della città assediata. L'emiro Osman Atalan sedeva di
fronte al Mahdi, e una schiava inginocchiata davanti a lui reggeva un
bacile colmo d'acqua sulla quale galleggiavano alcuni petali di oleandro.
Osman vi intinse le dita e spruzzò qualche goccia d'acqua facendo le
abluzioni rituali, poi ordinò alla donna di allontanarsi con un cenno della
mano. Un'altra splendida schiava galla depose tra di loro un vassoio
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d'argento con tre coppe dal lungo stelo dello stesso metallo su cui erano
incastonati dei gioielli: erano i calici predati dalla cattedrale cattolica di El
Obeid.
«Rinfrescati, Osman Atalan. Il tuo è stato un viaggio lungo», gli disse il
Mahdi, con un invito a servirsi al quale Osman rispose con un elegante
gesto di rifiuto. «Vi ringrazio per la vostra ospitalità, ma ho già mangiato e
bevuto all'alba e non mangerò di nuovo fino al tramonto del sole.»
Il Mahdi annuì in segno di approvazione. La frugalità dell'emiro gli era
nota, ed era ben consapevole della speciale illuminazione religiosa e della
sensazione di scrupolo e di fermezza che derivavano dal digiuno e dalla
negazione dell'appetito. I ricordi della sua vita all'isola di Abbas erano
freschi come se la permanenza avesse avuto luogo non tre anni, bensì il
giorno prima. Alzò alle labbra una coppa d'argento ed esibì per un
momento la fessura in mezzo ai denti anteriori, il segno della sua divinità.
Naturalmente non prendeva mai bevande alcoliche, ma aveva una
predilezione per una bevanda di sciroppo di datteri e zenzero macinato.
Una volta era stato anche lui sottile e duro come questo fiero guerriero
del deserto, ma adesso non era più un eremita. Era il capo spirituale di una
nazione, che Dio aveva scelto. Una volta era stato un asceta scalzo, che si
era negato a tutti i piaceri dei sensi, e non era passato tanto tempo da
quando per tutto il Sudan si diceva lusingandolo che Mohamed Ahmed
non aveva mai conosciuto un corpo di donna. Ora invece non era più
vergine, e il suo harem custodiva tutte le primizie delle sue grandiose
vittorie perché era sua la prima scelta delle donne prese prigioniere, e ogni
sceicco ed emiro gli portava in dono le giovani più belle del suo paese; del
resto era un imperativo politico non rifiutare la loro generosità. Il numero
delle sue mogli e concubine superava già il migliaio e aumentava di giorno
in giorno: e lui si riteneva in obbligo di passare metà delle sue giornate in
mezzo a loro.
Erano abbagliate dal suo aspetto, dalla sua statura e dalla sua grazia, dai
tratti eleganti, dal segno alato della sua nascita, e dal sorriso angelico che
camuffava tutte le sue emozioni. Amavano il suo profumo e la fessura che
aveva tra i denti, erano inebriate dalla sua ricchezza e dal suo potere: la sua
stanza del tesoro, il Beit el Mal, conteneva oro, gioielli e milioni in monete
di metallo prezioso, le spoglie delle sue conquiste e del saccheggio delle
principali città del Nilo. Le donne cantavano: «Il Mahdi è il sole del nostro
cielo, e l'acqua del nostro Nilo».
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Posò la coppa d'argento e allungò la mano, e subito una delle giovani lì
pronte si inginocchiò per offrirgli un tovagliolo di seta profumato con il
quale sfiorare le labbra e ripulirle dalle tracce di sciroppo.
Alle spalle del Mahdi, su un altro angareb ricoperto di cuscini, sedeva il
khalifa Abdullahi. Era un bell'uomo, dai lineamenti quasi cesellati e con un
naso come il becco di un'aquila, ma la pelle era chiazzata come quella del
leopardo, con le cicatrici del vaiolo. E anche la sua natura era simile a
quella del leopardo, rapace e crudele. L'emiro Osman Atalan non temeva
uomo o animale, eccetto questi due uomini che adesso erano seduti di
fronte a lui: questi due uomini egli temeva fin nel profondo del cuore.
Il Mahdi alzò una mano elegante e affusolata per indicare al di là del
fiume, dove perfino a occhio nudo essi potevano riconoscere la figura
solitaria sugli spalti del forte Mukran. «Gordon Pascià, il figlio incarnato
di Satana.»
«Vi porterò la sua testa prima che inizi il Ramadan», disse il suo khalifa,
il successore.
«A meno che gli infedeli non lo raggiungano prima che tu vi riesca»,
suggerì il Mahdi, e la sua voce era morbida e piacevole all'orecchio. Si
rivolse poi a Osman. «I nostri esploratori ci riferiscono che l'esercito degli
infedeli è finalmente in partenza. Navigano sul fiume verso sud, imbarcati
su una piccola flotta di navi a vapore, per salvare i nostri nemici dalla mia
vendetta.»
«All'inizio si muoveranno col passo del camaleonte.» Era il khalifa, che
appoggiava le parole del suo signore. «Tuttavia, una volta che avranno
superato le cateratte e raggiunto l'ansa del fiume ad Abu Hamed, avranno
il vento del nord alle loro spalle e la forza della corrente diminuirà, e così
la velocità della loro avanzata aumenterà di sei volte. Raggiungeranno
Khartum prima della stagione del Nilo basso, e noi non possiamo prendere
d'assalto la città prima che il fiume si sia abbassato e abbia messo allo
scoperto le difese di Gordon Pascià.»
«Dovete mandare metà del vostro esercito a nord, al comando degli
sceicchi più fidati, e fermare gli infedeli sul fiume prima che arrivino ad
Abu Klea. Poi li distruggerete, come avete distrutto gli eserciti di Baker
Pascià e di Hicks Pascià.» Il Mahdi fissò in viso Osman, e l'animo di
Osman fu turbato. «Metterai nelle mie mani il mio nemico, Osman
Atalan?»
«Santo, presto sarà nelle vostre mani», fu la risposta di Osman. «In
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nome di Dio e con la benedizione di Allah, io metterò nelle vostre mani
quella città e tutti quelli che la abitano.» I tre guerrieri di Dio rivolsero lo
sguardo al di là del Nilo come ghepardi in caccia che contemplano branchi
di gazzelle al pascolo nella pianura.
Erano quarantotto minuti che il capitano Penrod Ballantyne aspettava
nell'anticamera del consolato di Sua Maestà Britannica al Cairo: l'aveva
appena controllato all'orologio sopra la porta che portava nell'ufficio del
console generale. Alla sinistra della massiccia porta intagliata era appeso
un ritratto a grandezza naturale della regina Vittoria il giorno del suo
matrimonio, pura e graziosa nel fiore della giovinezza e con la corona
dell'impero posata sulla testa. Il lato opposto della porta presentava un
ritratto equivalente del consorte, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo e
Gotha, avvenente e con dei meravigliosi favoriti.
Penrod Ballantyne scoccò un'occhiata al proprio riflesso nell'enorme
specchio incorniciato d'oro, alto fino al soffitto, che adornava la parete
laterale dell'anticamera e, con soddisfazione, notò quanto fosse somigliante
al giovane principe consorte, ormai morto e sepolto da parecchio, mentre
lui, Penrod, era giovane e pieno di vita. Le spalline di capitano e gli
alamari della giubba dell'uniforme erano di un oro luccicante nuovo di
zecca, gli stivali erano lustri da potercisi specchiare e l'eccellente cuoio da
guanto si arricciava attorno alle caviglie come i soffietti di una
fisarmonica. La sciabola dei cavalleggeri pendeva lungo la riga scarlatta
che profilava i calzoni pure da cavallerizzo, e il dolman buttato di traverso
alla spalla era allacciato alla gola da una catena d'oro. Sotto il braccio
destro era infilato il colbacco da ussaro. Sul petto, alla sinistra, era
appuntata la coccarda di seta viola damascata, con la croce di bronzo e
l'iscrizione «Al Valore» proveniente dalla fusione dei cannoni russi
catturati a Sebastopoli: non vi era onorificenza militare più alta,
nell'impero.
Il segretario di Sir Evelyn Baring entrò. «Il console generale vi riceverà
ora.»
Penrod era rimasto in piedi per non sciupare l'aspetto immacolato della
sua uniforme: avere pieghe ai gomiti, dietro la giubba e alle ginocchia era
decisamente sgradevole. Si risistemò in testa l'alto colbacco, lanciando
un'occhiata allo specchio per essere certo che fosse centrato in basso sulle
sopracciglia con la catenella che attraversava il mento, e poi marciò
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nell'ufficio entrando dalla porta intarsiata.
Sir Evelyn Baring era seduto alla scrivania, intento a leggere da un
faldone di dispacci che aveva di fronte a sé, e senza alzare gli occhi fece
un cenno a Penrod che si era messo sull'attenti e aveva fatto il saluto. Il
segretario richiuse la porta.
Ufficialmente Sir Evelyn Baring era il rappresentante del governo di Sua
Maestà Britannica in Egitto, nonché suo console generale al Cairo con
poteri da plenipotenziario. In realtà egli era il viceré, che comandava il
sovrano dell'Egitto: da quando l'esercito britannico e la flotta della Marina
reale nel porto di Alessandria avevano salvato il khedivè dalla plebaglia
ribelle, l'Egitto era diventato in tutto tranne che nel nome un protettorato
britannico.
Il khedivè Tawfig Pascià era un giovane debole, assolutamente non
all'altezza di Baring e del formidabile impero che questi rappresentava: era
stato costretto ad abdicare a tutti i suoi poteri, e in cambio gli inglesi
avevano dato a lui e al suo popolo la pace e la prosperità che non
conoscevano più dai tempi del faraone Tolomeo. Sir Evelyn Baring era
una delle menti più brillanti in servizio nelle colonie, noto e grandemente
apprezzato per le sue qualità dal primo ministro, William Gladstone, e dal
suo gabinetto; e tuttavia verso i suoi sottoposti aveva modi condiscendenti
e di superiorità che gli avevano meritato, dietro le spalle, l'appellativo di
Sir Over Bearing, il «signor despota».
In quel momento, ignorando Penrod, continuava a leggere e ad annotare
i documenti a margine con una penna d'oro. Finalmente si alzò dalla
scrivania, lasciando Penrod lì in piedi, per recarsi alle finestre che davano
sul fiume verso Giza e le nitide sagome delle tre possenti piramidi sulla
riva opposta.
«Quel maledetto idiota», mugugnò Baring fra sé e sé. «Ci ha cacciato in
questo bel pasticcio di pesce marcio.» Fin dall'inizio si era opposto alla
nomina di Gordon il Cinese; avrebbe preferito mandare Sam Baker, ma
Gladstone e Lord Harting, il ministro della Guerra, lo avevano scavalcato.
«È tipico della natura di Gordon provocare conflitti. Il Sudan andava
abbandonato. Il suo compito era di tirar fuori i nostri da quella terra
condannata, non di affrontare il Mahdi Pazzo e i suoi dervisci. È appunto
da questo che ho messo in guardia Gladstone; Gordon tenta di dettare le
condizioni e di obbligare il primo ministro e il gabinetto a inviargli un
esercito per riconquistare il Sudan. Non fosse per i disgraziati cittadini che
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ha cacciato in trappola insieme a lui e per l'onore dell'impero, faremmo
bene a lasciarlo bollire nel suo brodo, Gordon il Cinese.»
Mentre Baring si allontanava dalla finestra abbandonando la
contemplazione di quelle antichissime vestigia al di là del Nilo, gli occhi
gli caddero su una copia del Times di Londra aperta sul tavolo accanto alla
sua poltrona preferita: si accigliò ancor di più. «E poi dobbiamo anche
prendere in considerazione le opinioni sentimentali e disinformate delle
masse operaie, che si lasciano tanto facilmente manipolare dai meschini
potentati della stampa.»
Quasi era in grado di recitare l'articolo di fondo a memoria: «Sappiamo
che il generale Gordon è circondato da tribù ostili e isolato da ogni
comunicazione con il Cairo e Londra. In tali circostanze la Camera ha il
diritto di chiedere al governo di Sua Maestà se vi è l'intenzione di fare
qualcosa per soccorrerlo. Resteranno indifferenti davanti al destino
dell'unico uomo a cui si sono rivolti perché li districasse dai loro dilemmi,
lasceranno che se la sbrighi da solo, non compiranno il minimo sforzo per
lui?» Esattamente quello che Lord Randolph Churchill aveva dichiarato ai
Comuni, come riferito il 16 marzo 1885. Stramaledetto demagogo! stava
pensando in quel momento Baring mentre alzava gli occhi verso il
capitano degli ussari e gli si rivolgeva direttamente per la prima volta da
quando era entrato nella stanza. «Ballantyne, voglio che ritorniate a
Khartum.»
«Naturalmente, signore. Posso partire in meno di un'ora», rispose
Penrod. Sapeva che «sì» era la parola che il signore dell'Egitto amava
sentirsi dire più di ogni altra.
Baring lo degnò di un sorriso forzato, segno straordinario della sua
approvazione. Il sistema di spionaggio di cui disponeva era capillare e
assai esteso, con radici che penetravano a ogni livello della società
egiziana, da quelli più alti del governo e dell'esercito fino ai concili proibiti
dei mullah nelle loro moschee, ai vescovi nelle loro cattedrali e ai
monasteri copti. Aveva agenti nei palazzi del khedivè e negli harem dei
pascià, nei suq, nei bazar e nei bordelli delle principali città e dei villaggi
più sperduti.
Penrod non era nient'altro che un minuscolo girino nel putrido acquitrino
di intrigo dove Sir Evelyn Baring piazzava le lenze e calava le reti. Eppure
di recente si era decisamente incapricciato di quel ragazzo. Dietro il suo
bell'aspetto e l'atteggiamento da dandy, Baring aveva intuito una mente
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acuta e svelta, oltre a un'attenzione per il dovere che gli ricordava lui
stesso alla medesima età. Inoltre le parentele di Penrod Ballantyne erano di
tutto rispetto: il fratello maggiore era baronetto e possedeva vaste tenute
nella regione scozzese del Border e il ragazzo godeva di una rendita
significativa di un fondo familiare. Il nastro viola che aveva appuntato al
petto, poi, rendeva ampia testimonianza del suo valore e inoltre il giovane
segugio aveva mostrato una naturale attitudine al lavoro di spionaggio. In
verità si rendeva sempre più ingegnosamente prezioso; non indispensabile,
perché questo non lo era nessuno, ma prezioso. L'unica possibile debolezza
che Baring aveva individuato in lui fino a quel momento era lì, nei suoi
calzoni.
«Non vi darò alcun messaggio scritto, per le solite ragioni», gli disse.
«Naturalmente, signore.»
«C'è un messaggio per il generale Gordon, e un altro per David
Benbrook, il console britannico. I messaggi non vanno confusi. Potrà
sembrarvi che siano contraddittori, ma vi prego di non curarvene.»
«Sì, signore.» Penrod intuiva che Baring potesse fidarsi senza difficoltà
di Benbrook, per via della sua mancanza di sagacia, proprio come non si
fidava affatto di Gordon il Cinese per la ragione opposta.
«Questo è quanto dovrete comunicare loro.» Baring parlò per mezz'ora
senza consultare alcun appunto scritto, senza quasi fermarsi a prendere
fiato. «Avete capito, Ballantyne?»
«Sì, signore.»
Uno dei punti di forza di costui è il suo aspetto, pensò Baring. Nessuno
crederebbe facilmente che dietro quei favoriti e quei lineamenti tanto
piacevoli si nasconda una mente in grado di assimilare un messaggio così
lungo e complicato la prima volta che lo sente pronunciare, per poi
riferirlo accuratamente a distanza di un mese. «Molto bene», osservò
impassibile. «Ma dovrete inculcare nella testa del generale Gordon che il
governo di Sua Maestà non ha la benché minima intenzione di
riconquistare il Sudan. L'esercito britannico attualmente impegnato a
risalire il Nilo non è assolutamente un corpo di spedizione. Non è un
esercito di rioccupazione. È una colonna di soccorso dalla minima forza
indispensabile. L'obiettivo della Colonna del deserto è consentire
l'inserimento di un piccolo corpo di truppe regolari di prima linea nella
città di Khartum, che rinforzi le difese della città abbastanza a lungo da
completare l'evacuazione dei nostri concittadini. Una volta ottenuto questo,
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intendiamo abbandonare la città ai dervisci e andarcene.»
«Capisco, signore.»
«Non appena avrete consegnato i vostri messaggi a Benbrook e a
Gordon dovrete riportarvi a nord per unirvi alla colonna di soccorso di
Stewart. Farete da guida, e lo condurrete al di là dell'ansa del Nilo, a
Metemma, dove i battelli di Gordon li stanno aspettando, e poi risalirete
con loro il Nilo. Cercherete di tenervi in contatto con me. Usando i codici
consueti, ricordate.»
«Naturalmente, Sir Evelyn.»
«Molto bene, allora. Il maggiore Adams del seguito del generale
Wolseley vi attende al secondo piano. Mi sembra di capire che vi
conoscete.»
«Sì, signore.» Naturalmente Baring sapeva che Penrod si era meritato la
Victoria Cross portando in salvo Samuel Adams dal sanguinoso campo di
battaglia di El Obeid.
«Adams vi fornirà un resoconto più dettagliato, e vi consegnerà i
lasciapassare e gli ordini di requisizione che vi serviranno. Potrete
prendere il vapore di Cook questa sera ed essere ad Assuan martedì a
mezzogiorno. Da quel momento in poi sarete solo. Quanto impiegherete ad
arrivare a Khartum, Ballantyne? È un viaggio che avete fatto già parecchie
volte.»
«Dipende dalle condizioni nel deserto della Madre delle Pietre. Se i
pozzi tengono posso tagliare la grande curva a S del fiume ed essere a
Khartum in ventun giorni, signore», rispose Penrod con prontezza.
«Ventisei al massimo.»
Baring annuì con il capo. «Fatecela in venti piuttosto che in ventisei. E
ora andate.» Baring lo congedò senza offrirsi di stringergli la mano e
quando Penrod raggiunse la porta era già di nuovo immerso nei suoi
dispacci: non gli importava di piacere alla gente, gli importava che
facessero il proprio dovere.
Il maggiore Sam Adams fu lieto di rivedere Penrod. Adesso camminava
con un bastone solo. «I segaossa mi hanno promesso che entro Natale
giocherò di nuovo a polo.» Nessuno dei due accennò alla lunga cavalcata
dal campo di battaglia di El Obeid - tutto quel che c'era da dire in
proposito era stato detto molto tempo prima - e tuttavia Adams lanciò
un'occhiata piena di ammirazione alla croce di bronzo appuntata sul petto
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di Penrod.
Penrod preparò un telegramma cifrato per l'ufficiale dell'intelligence
distaccato presso l'avanguardia della Colonna del deserto che si stava
radunando a Uadi Halfa, ottocento miglia più su lungo il corso del Nilo.
L'aiutante di Adams lo portò ai telegrafisti al piano terra e ritornò con la
conferma che il testo era stato inviato e ricevuto. Poi il maggiore Adams
invitò Penrod a pranzo all'hotel Shephard, ma egli accampò come scusa un
impegno precedente e non appena gli furono consegnati i documenti di
viaggio se ne andò. Uno stalliere gli teneva pronto il cavallo al cancello e
in meno di mezz'ora, costeggiando il fiume, fu al Ghezira Club.
Lady Agatha lo aspettava nella veranda delle signore. Aveva vent'anni
appena compiuti, era la figlia minore di un duca e il visconte Wolseley,
comandante in capo dell'esercito britannico in Egitto, era il suo padrino.
Agatha godeva di un reddito di ventimila sterline all'anno, e a questo
bisognava aggiungere che era bionda, petite e squisita... nonché
tremendamente difficile, a detta di tutti.
«Preferirei beccarmi il mal francese piuttosto che Lady Agatha», aveva
detto un buontempone al bar dello Shephard, di recente, e Penrod che lo
aveva sentito era stato indeciso se ridere o chiamare fuori il tizio. Alla fine
gli aveva offerto da bere.
«Siete in ritardo, Penrod.» Quando lui salì gli scalini che venivano dal
giardino, Agatha era adagiata su una sedia di bambù e gli faceva il
broncio. Penrod le baciò la mano e poi lanciò un'occhiata all'orologio
appeso sopra l'ingresso sul giardino della sala da pranzo. Agatha notò il
gesto. «Dieci minuti possono essere un'eternità.»
«Il dovere, mia cara. La regina e la patria.»
«Che noia mortale. Portatemi un bicchiere di champagne.» A Penrod
bastò alzare gli occhi e come per miracolo un cameriere in lunga
galabiyya bianca e fez infiocchettato apparve come il genio della lampada.
Quando il vino arrivò, Agatha si mise a sorseggiarlo. «Grace Everington
si sposa sabato», disse.
«Un matrimonio a sorpresa?»
«No, in realtà, appena in tempo. Prima che si incominci a vedere.»
«Spero che la caccia le sia piaciuta.»
«Mi dice di no, per niente, ma suo padre è andato in bestia e dice che
deve farlo per forza. Ne va dell'onore della famiglia. Sarà una faccenda
pacata e discreta, naturalmente, ma ho un invito per voi. Potrete
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accompagnarmi. Credo che ci divertiremo a vederle fare la figura della
stupida, e farla fare a lui.»
«Mi rincresce dirvelo, ma a quell'ora sarò partito.»
Agatha si tirò su sulla sedia, dritta. «Oddio! No! Non un'altra volta. Non
così presto.»
Penrod alzò le spalle. «Non ho avuto scelta.»
«Quando partirete?»
«Fra tre ore.»
«Dove vi mandano?»
«Lo sapete che non dovete domandarmelo.»
«Non potete andare, Penrod. Il ricevimento all'ambasciata austriaca è
domani sera. Ho un vestito nuovo.» Penrod alzò di nuovo le spalle.
«Quando tornerete?»
«Questo lo sa il vento.»
«Tre ore», disse Agatha, alzandosi. Il movimento attirò gli sguardi di
tutti gli uomini presenti sulla veranda. «Andiamo!» gli ordinò.
«A pranzo?» chiese lui.
«Non credo proprio.» La famiglia di Agatha aveva una suite fissa allo
Shephard e Penrod cavalcò al fianco della sua carrozza aperta. Quando la
porta della suite si richiuse dietro di loro, Agatha gli saltò addosso come
un gattino su un gomitolo di lana, agile, giocherellona, e seria tutto d'un
tratto. Lui la sollevò senza sforzo fra le braccia e la portò in camera da
letto.
«Fate svelto», ordinò Agatha. «Ma non troppo svelto.»
«Sono un ufficiale della regina, e gli ordini sono ordini.»
Più tardi Agatha lo osservò che si rivestiva mentre lei stava coricata
lunga distesa, languida e sazia, a invitare un suo giudizio. «Non troverai
qualcosa di meglio di questo, Penrod Ballantyne...» Si portò le mani a
coppa sotto i seni chiari e grandi rispetto alla vita da adolescente. Si strizzò
i capezzoli. Penrod si fermò a guardarla. «Vedete? Vi piace, eccome.
Quando mi sposerete?»
«Ah! Non potremmo dedicarci a tale questione in un altro momento?»
«Siete una bestiaccia.» Agatha si passò le dita in mezzo ai ricci biondorossi alla base del ventre. «Dite che dovrei strapparmeli? Le ragazze arabe
fanno così.»
«Le vostre informazioni sull'argomento sono probabilmente più precise
delle mie.»
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«Ho sentito dire che le ragazze arabe vi piacciono.»
«Certe volte siete divertente, Lady Agatha. Certe altre volte no. Certe
volte vi comportate da signora, e certe altre volte per niente.» Penrod si
buttò il dolman sulle spalle e mentre si aggiustava la catena si avviò alla
porta.
Agatha balzò giù dal letto come un leopardo ferito, e lui ebbe solo il
tempo di voltarsi per difendersi. Gli aguzzi artigli di perla di Agatha
miravano ai suoi occhi, ma Penrod le afferrò i polsi. Allora lei cercò di
mordergli la faccia: i piccoli denti bianchi si chiusero a un centimetro dal
suo naso. Penrod la piegò all'indietro, per non farla arrivare a lui. Agatha
gli sferrò una ginocchiata all'inguine, ma il colpo lo raggiunse alla coscia.
L'aveva obbligata a girarsi e ora la teneva, impotente, nel cerchio delle sue
braccia con la schiena contro il suo petto. Agatha spinse le natiche sode e
rotonde contro di lui, lo sentì gonfiarsi e indurirsi, e si lasciò sfuggire una
breve risata, stanca ma trionfante. Smise di lottare, cadde in ginocchio e
sollevò in alto le due mezzelune gemelle delle natiche. Allargò le cosce,
dimenandosi, facendo spuntare in mezzo a esse il nodo di riccioli rosati.
«Vi odio», gridò.
Penrod si lasciò cadere dietro di lei, con addosso stivali e speroni, la
spada appesa al fianco. Si slacciò i calzoni e mentre la penetrava un grido
involontario le sfuggì dalle labbra. Quando lui si rialzò Agatha crollò ai
suoi piedi, ansimante. «Com'è possibile che sappiate sempre cos'è che
voglio farvi fare? Com'è che sapete sempre cosa dire e quando dirlo? Quel
nome orribile con cui mi avete chiamata un attimo fa è stato come una
spruzzata di chili su un mango dolce... mi ha tolto il respiro. Come fate a
sapere queste cose?»
«C'è chi potrebbe chiamarlo genio, ma io son troppo modesto per
pensarla così.»
Agatha alzò gli occhi verso di lui. Aveva i capelli scarmigliati, e le
guance erano soffuse di rosa. «Chiamatemi ancora in quel modo.»
«Per quanto ve lo meritiate in abbondanza, ora deve bastarvi una volta
sola.» Si avviò alla porta. «Quando tornerete?» «Forse presto, forse mai.»
«Mostro. Vi odio. Vi odio davvero.» Ma se n'era andato.
Tre giorni dopo Penrod scendeva dal veloce battello a vapore al molo di
Assuan. Indossava l'uniforme tropicale cachi senza decorazioni o mostrine
e al posto del colbacco portava un casco coloniale a larga tesa. Intorno a
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lui c'erano almeno altri cinquanta ufficiali e soldati vestiti praticamente
allo stesso modo, così non diede nell'occhio. Un facchino cencioso con in
testa un turbante sudicio gli afferrò lo zaino e scappò davanti a lui nel
labirinto di viuzze della città vecchia, tanto che per non perderlo di vista
Penrod dovette affrettare il passo sulle lunghe gambe.
Alla fine del percorso tortuoso nell'angusto vicolo giunsero davanti a un
anonimo muro di fango in cui si apriva un cancello; Penrod lanciò una
piastra al facchino e si riprese il sacco. Diede uno strattone alla corda e
restò in ascolto dei rintocchi familiari; dopo un po' udì dei passi al di là del
cancello, leggeri e incerti, e una voce tremula. «Chi chiama? Qui non c'è
niente, perché siamo povere vedove abbandonate da Dio.»
«Apri questo cancello, urì del paradiso», rispose Penrod, «e alla svelta,
prima che lo abbatta con un calcio.»
Vi fu un momento di silenzio sgomento, interrotto infine da uno scoppio
selvaggio di risa e da un armeggiare ai chiavistelli, che vennero poi tirati
all'indietro con fragore: scricchiolando, il cancello si aprì. Una testa
vegliarda, simile a quella di una tartaruga ma in parte coperta da un velo
vedovile, si sporse a scrutare attorno al montante. Il sorriso spalancato
mise in mostra due denti storti separati da una vasta distesa di rosea
gengiva. «Effendi!» squittì la vecchia, e il suo volto si increspò di rughe.
«Signore dalle mille doti.»
Penrod la abbracciò.
«Sei senza vergogna», protestò lei, deliziata. «Vuoi attentare alla mia
virtù.»
«Sono in ritardo di cinquant'anni per cogliere quel frutto.» La lasciò
andare. «Dov'è la tua padrona?»
La vecchia Liala lanciò un'occhiata significativa al di là del cortile. Nel
centro del giardino una fontana lasciava ricadere i suoi spruzzi in una
vasca in cui giravano tranquilli in cerchio pesci persici del Nilo. Attorno ai
bordi vi erano statue dei faraoni, Seti, Thutmose e il grande Ramses,
rubate dai ladri di tombe nella notte dei tempi: Penrod non smetteva mai di
stupirsi che simili tesori facessero mostra di sé in un contesto tanto umile.
Attraversò il cortile a lunghi passi, il cuore che gli batteva più forte: non
si era reso conto fino a quel momento di quanto avesse agognato rivederla.
Quando raggiunse la tenda di perline che copriva il vano della porta si
arrestò per riacquistare la propria compostezza, poi la tirò di lato ed entrò.
Dapprima non fu che una vaga, eterea presenza, ma poi i suoi occhi si
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adattarono e le forme di lei emersero dalla fresca penombra. Era sottile
come lo stelo di un giglio, ma la veste era striata di fili d'oro, e c'era oro ai
suoi polsi e alle sue caviglie. Mentre gli si avvicinava, i piedi nudi dipinti
di henné scivolavano silenziosi sulle piastrelle. Si fermò davanti a lui e gli
rese omaggio, portandosi la punta delle dita alle labbra e al cuore.
«Padrone!» sussurrò. «Padrone del mio cuore.» Poi abbassò la testa,
aspettando in silenzio.
Penrod sollevò il velo e le studiò il viso. «Sei bella, Bashida», le disse, e
il sorriso che sbocciò fra i lineamenti di lei accrebbe di cento volte la sua
bellezza. Bashida sollevò il mento e lo guardò, gli occhi così luccicanti da
sembrare che illuminassero gli angoli più bui della stanza.
«Sono stati solo ventisei giorni, ma mi è parsa tutta la vita», disse, la
voce tremula come corde di liuto al tocco di dita esperte.
«Hai contato i giorni?» chiese Penrod.
«E anche le ore.» Bashida annuì con il capo. Rose coloravano la cerea
perfezione delle sue guance e le lunghe ciglia le intrappolavano gli occhi
che cercavano di distogliersi dal suo sguardo, intimiditi, per poi ritornare
furtivi sul volto di lui.
«Sapevi che stavo arrivando?» fece, meravigliato. «Come potevi
saperlo, se non lo sapevo neppure io stesso?»
«Lo sapeva il mio cuore, come la notte sa quando viene l'alba.» Gli
toccò il volto, come fosse cieca e cercasse di ricordare qualcosa con la
punta delle dita. «Hai fame, mio signore?» «Ho fame di te.» «Hai sete, mio
signore?»
«Ho sete di te come un viaggiatore ha sete della pozza dopo aver vagato
per sette giorni nel deserto sotto il sole implacabile.» «Vieni», gli sussurrò,
prendendolo per mano. Lo condusse nella stanza. Il loro angareb era in
mezzo al pavimento e Penrod vide che la biancheria che lo copriva era
stata lavata, sbiancata e lisciata con un ferro caldo, fino a farla brillare
come la salina di Shokra. Si inginocchiò davanti a lui e lo spogliò
dell'uniforme. Quando Penrod fu nudo Bashida si alzò e indietreggiò per
ammirarlo. «Mi porti un immenso tesoro, signore.» Allungò le braccia per
toccarlo. «Uno scettro d'avorio con in punta il rubino della tua virilità.»
«Se questo è un tesoro, mostrami cosa mi rechi in cambio tu.» Il corpo
di Bashida, nudo, era pallido come la luna, e i suoi seni erano gonfi e
pesanti, i capezzoli grossi come uva matura, tumidi e color vino scuro.
Indossava solo una sottile catena d'oro attorno alla vita, e il suo ventre era
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arrotondato e liscio come il granito levigato delle cave sopra la prima
cateratta. Le mani e i piedi erano decorati di henné, a delicati motivi di
ghirlande di acanto.
Scosse le nere trecce dei capelli e andò a coricarsi accanto a lui sul
materasso. Con gli occhi e le dita Penrod gioiva di Bashida che si muoveva
dolcemente come le dettavano le mani di lui, sollevando i fianchi e
torcendo le spalle così che il petto cambiava forma e nessuna parte segreta
del suo corpo gli poteva restare nascosta.
«Il tuo sesso è tanto bello, tanto prezioso, che Allah avrebbe dovuto
incastonarlo nella fronte di un leone famelico: perché solo chi è valoroso e
degno può osare possederlo.» Penrod parlava con un tono di meraviglia
nella voce. «È come il fico maturo, scaldato al sole, che si apre e lascia
sgorgare dolci umori.»
«Banchetta col fico del mio amore fino ad avere il cuore sazio, mio
signore», sussurrò rauca Bashida.
Poi dormirono allacciati, con il loro stesso sudore a rinfrescarli. Infine la
vecchia Liala portò loro una ciotola di datteri e di melograni, e una brocca
di sorbetto di limone. Seduta a gambe incrociate sull'angareb di fronte a
lui, Bashida gli riferì quel che doveva. Aveva molto da riportare, notizie
importanti e terribili dal sud, dalla Nubia e da più lontano. Le tribù arabe si
trovavano tutte in uno stato di mutamento e di trasformazione, nuove
alleanze nascevano e legami vecchi di secoli si spezzavano. Al centro di
tutto questo sommovimento erano assisi il Mahdi e il suo khalifa, due
ragni velenosi al centro della loro ragnatela.
Bashida aveva tre anni più di Penrod. Era stata la prima moglie di un
ricco mercante di granaglie, ma non aveva saputo dargli un figlio. Suo
marito aveva preso una seconda moglie più giovane, una creatura ottusa
dai fianchi larghi, buoni per procreare. Dopo dieci mesi aveva dato alla
luce un figlio maschio e da tale posizione di potere coniugale aveva
iniziato a tormentare il marito. Questi aveva cercato di resisterle, perché
Bashida era intelligente e fedele e con il suo acume per gli affari gli aveva
fatto raddoppiare il patrimonio in soli cinque anni, ma alla fine, tuttavia, la
madre di suo figlio aveva avuto la meglio. Addolorato, il mercante aveva
pronunciato le parole tremende: «Talaq! Talaq! Talaq! Io ti ripudio!» E
così Bashida era stata cacciata nel terribile limbo del mondo islamico dove
abitavano soltanto le donne vedove e le donne ripudiate.
Le uniche strade che sembravano aperte per lei erano di trovarsi un
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marito vecchio con molte mogli a cui servisse una schiava senza doverne
pagare il prezzo, oppure vendersi come un trastullo agli uomini di
passaggio. Ma mentre serviva suo marito, Bashida aveva affinato l'astuzia
del mercante. Con le poche monete che aveva in serbo si mise a comprare
cocci di ceramica ed effigi sbeccate e danneggiate degli antichi dèi da
beduini e orfani che gironzolavano fra le rovine, i letti asciutti dei fiumi e i
nullah del deserto, per poi rivenderli ai turisti bianchi che sui battelli a
vapore risalivano il fiume dal delta.
Pagava un buon prezzo, si accontentava di un guadagno modesto e
manteneva la parola data, e così ben presto ladri e razziatori di tombe
avevano incominciato a portarle ceramiche e porcellane, statuette votive,
amuleti e scarabei sacri che dopo quattromila anni erano ancora
miracolosamente perfetti. Su questi reperti aveva imparato a decifrare i
geroglifici degli antichi sacerdoti, e la scrittura dei greci e dei romani
giunti molto tempo dopo di loro: Alessandro e la dinastia dei Tolomei,
Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. Con il passare del tempo la sua fama
si era ampliata; gli uomini arrivavano al suo piccolo giardino per
commerciare e per discorrere. Alcuni di loro giungevano lungo il grande
fiume da luoghi lontani come l'Equatoria e Suakin, portando con sé notizie
e informazioni altrettanto preziose delle merci e dei reperti. E spesso gli
uomini parlavano più di quanto non dovessero, perché Bashida era molto
bella e la desideravano, ma non potevano averla: non si fidava di nessun
uomo, dopo ciò che le aveva fatto l'uomo di cui si era fidata.
Bashida veniva a sapere quel che accadeva in ogni minuscolo villaggio
lungo il corso del grande fiume, e nei deserti che lo circondavano. Sapeva
quando lo sceicco degli arabi Jaalin razziava il Bishareen, e quanti
cammelli rubava. Sapeva quanti schiavi Zubeir Pascià inviava a Khartum
nei suoi dau, e quel che pagava al governatore egiziano della città per le
tasse e per corromperlo. Seguiva da vicino gli intrighi della corte
dell'imperatore Giovanni, il Negus, nell'alta Abissinia, e le note di carico
nei porti di Suakin e Aden.
Poi un bel giorno un piccolo monello cencioso era andato da lei con una
moneta avvolta in una pezzuola sudicia: una moneta che non aveva mai
veduto né prima né dopo di allora. Le aveva riempito la palma della mano
con il peso del suo oro zecchino. Davanti c'era il ritratto di una donna
incoronata, mentre il retro recava la figura di un auriga con in testa una
corona d'alloro. Le due superfici erano talmente intatte da sembrare
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coniate il giorno prima. Non le era stato difficile leggere cosa c'era scritto
sotto ciascun ritratto: la coppia della moneta rappresentava Cleopatra Thea
Filopatore e Marco Antonio. Bashida aveva tenuto la moneta e non l'aveva
mostrata a nessuno fino a che un giorno un uomo non era entrato nel suo
negozio. Era un «franco», un europeo, e per un poco Bashida era rimasta
ammutolita, perché in quel profilo aveva visto l'immagine di Antonio sulla
moneta. Quando aveva riacquistato la parola avevano conversato, Bashida
con il velo e la vecchia Liala seduta in stretta sorveglianza, come
chaperon. Lo straniero parlava un armonioso arabo poetico e ben presto
non le era sembrato più straniero: senza saperlo aveva incominciato a
fidarsi un poco di lui.
«Ho sentito dire che sei saggia e virtuosa, e che puoi avere oggetti da
vendere che sono belli e rari», le aveva detto infine.
Con un pretesto, Bashida aveva allontanato Liala e mentre versava un
altro bicchiere di denso caffè nero per il suo ospite era riuscita a far sì che
il velo le scivolasse un po', e che lui potesse scorgerle il viso: l'uomo era
sobbalzato, e non aveva smesso di fissarla fino a che il velo non era
tornato al suo posto. Avevano continuato a parlare, ma c'era qualcosa
nell'aria, che aleggiava come una promessa di tuono davanti alle prime
folate del khamsin.
Piano piano Bashida si era sentita travolgere dall'impulso di mostrargli
la moneta. Quando gliela aveva messa in mano, il forestiero aveva studiato
i ritratti serio, e poi aveva detto: «Questa è la nostra moneta. Tua e mia».
Lei aveva chinato la testa, senza parlare. «Perdonami, ti ho offesa», aveva
aggiunto allora il forestiero.
Bashida aveva alzato gli occhi, e si era tolta il velo per consentirgli di
guardare dritto dentro di essi. «Signore, tu non mi offendi», aveva
mormorato.
«Perché allora i tuoi occhi si riempiono di lacrime?»
«Piango perché ciò che hai detto è vero. E piango di gioia.»
«Desideri che me ne vada, ora?»
«No, desidero che tu resti fino a che il tuo cuore lo vorrà.»
«Questo può essere per un lungo tempo.»
«Se è la volontà di Dio.»
Negli anni successivi a quel primo incontro Bashida gli aveva donato
tutto quello che era in suo potere donargli, ma in cambio non gli aveva
chiesto nulla che lui non volesse concederle liberamente. Sapeva che un
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giorno lui l'avrebbe lasciata, perché era giovane e veniva da un mondo
dove lei non avrebbe mai potuto seguirlo. Non le aveva fatto promesse. Al
loro primo incontro aveva detto: «Può essere per un lungo tempo», ma non
aveva mai detto «sempre». E così Bashida non aveva cercato di strappargli
un accordo, e la certezza della fine donava al suo amore un'intensità dolce
come miele e amara come il melone selvatico del deserto.
Quel giorno, mentre sedeva con lui, gli raccontò tutto ciò che aveva
appreso dall'ultima volta che si erano parlati ventisei giorni prima. Lui
ascoltò e fece domande, e poi scrisse tutto per esteso su cinque pagine del
taccuino dei messaggi. Non aveva bisogno di consultare il codice cifrato
perché aveva imparato a memoria quello che gli aveva dato Sir Evelyn
Baring.
La vecchia Liala si coprì la testa con il mantello da vedova e scivolò nel
vicolo: portava il dispaccio infilato nella biancheria intima. Il sergente di
guardia alla base militare britannica, che si trovava ai diretti ordini
dell'ufficiale dell'intelligence della base e la conosceva come una
visitatrice regolare, la scortò personalmente all'edificio che ospitava il
quartier generale. Nel giro di un'ora il messaggio viaggiava lungo la linea
telegrafica alla volta del Cairo e la mattina seguente sarebbe stato decifrato
dall'esperto del consolato, così che il testo en clair potesse comparire sul
vassoio d'argento del console generale al suo ingresso in ufficio dopo
colazione.
Una volta mandata Liala alla base con le informazioni, Bashida tornò da
Penrod. Si inginocchiò accanto al suo sgabello e iniziò a spuntargli le
basette e i baffi: lavorando svelta con l'esperienza che le veniva da una
lunga pratica, gli ridusse ben presto i favoriti alla moda nei peli cenciosi di
un povero fellah arabo. Poi si dedicò ai fitti riccioli ondulati e le lacrime le
si riversarono sulle guance mentre li mutilava.
«Ricresceranno presto, mia colomba...» cercò di consolarla Penrod
mentre con la mano si ripassava gli ispidi spuntoni.
«È come ammazzare un figlio, per me», mormorò Bashida.
«Eri così bello.»
«E tornerò a esserlo», la rassicurò.
Bashida raccolse l'uniforme che giaceva in un angolo della stanza. «Non
la lascerò toccare neppure a Liala. La laverò io con le mie stesse mani», gli
promise. «Aspetterà che torni, ma non con la mia stessa ansia.»
Poi gli portò il sacco di stoffa in cui aveva conservato l'abbigliamento
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cencioso e sudicio del suo ultimo viaggio a sud, e gli avvolse il turbante
attorno ai capelli accorciati. Penrod si allacciò il borsello di cuoio alla
cintola e infilò il revolver di ordinanza nella leggera fondina di tela, poi
infilò la lama ricurva della daga nel fodero accanto alla Webley: non si
sarebbero visti sotto la sua sudicia galabiyya. Infine si infilò ai piedi un
paio di rozzi sandali di pelle di cammello e fu pronto a partire.
«Che Dio resti con te, mia onorata signora», disse inchinandosi
ossequiosamente. Bashida era stupefatta davanti alla facilità di quella
trasformazione da ussaro spavaldo a umile contadino, da effendi a fellah.
«Ritorna presto a me», gli sussurrò lei, «perché se morrai io morrò con
te.»
«Non morirò», le promise Penrod.
Il capitano del porto si limitò a dare una semplice occhiata al
lasciapassare militare prima di assegnare Penrod alla ciurma di stivatori sul
primo trasporto munizioni in partenza per il sud. Penrod si chiese
nuovamente se tutte le complicate precauzioni che prendeva per evitare di
essere riconosciuto fossero davvero necessarie. Poi si rammentò che non vi
era quasi un muso nero o colorato su quei moli brulicanti che non fosse un
simpatizzante dei dervisci. E inoltre sapeva di essere un uomo segnato: il
suo atto di eroismo a El Obeid era stato oggetto di ampia discussione, in
quanto unica macchia sulla vittoria altrimenti perfetta del Mahdi e del suo
khalifa. Bashida lo aveva messo in guardia: ogni volta che facevano il suo
nome nei suq del lungofiume, lo accompagnavano con un'imprecazione e
una smorfia accigliata.
Il carico del vapore era quasi interamente costituito da
approvvigionamenti per l'esercito che andava radunandosi a Uadi Halfa in
preparazione dell'offensiva verso l'alto fiume. Si continuò a caricare tutta
la notte e gran parte del giorno seguente; era parecchio tempo che Penrod
non si dava più a quelle estenuanti fatiche. Una sosta per raddrizzare la
schiena dolorante o anche solo la minima esitazione bastavano a invitare il
guizzo e lo schiocco del curbascio di uno dei sovrintendenti. Doveva fare
appello a tutto il proprio autocontrollo per strisciare sotto quei colpi senza
rivoltarsi agitando il pugno. La nave si abbassava sul pelo dell'acqua man
mano che le pile di pesanti casse di munizioni si alzavano sui ponti e al
tramonto, quando si staccò dal molo, entrò nel canale del fiume e spinse la
brutta prua arrotondata dentro la corrente, le restavano sessanta centimetri
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di bordo libero.
Penrod trovò uno spazio fra le alte cataste di cassoni e vi si allungò,
stringendosi le dita scorticate e dalle nocche spellate sotto le ascelle; gli
dolevano ogni muscolo e ogni giuntura. Per raggiungere il porto di Uadi
Halfa occorrevano circa venti ore di vapore contro la corrente: dormì per la
gran parte del viaggio e al suo arrivo, all'alba della mattina seguente, si
sentiva pienamente in forze. Quattordici battelli a vapore di dimensioni più
grandi erano ancorati nel centro del fiume. Il vasto accampamento, file di
tende di tela bianca e montagne di approvvigionamenti militari, era situato
sulla riva meridionale, mentre a bordo di nuggar e dau stracolmi le truppe
in elmetto venivano traghettate sulle navi a vapore.
Sir Evelyn Baring gli aveva illustrato la spedizione di soccorso nei
minimi dettagli. Questa era la Divisione fluviale dell'avanzata biforcuta
verso sud. La flottiglia si stava preparando a partire per l'itinerario tortuoso
che seguiva la grande ansa occidentale del fiume: sarebbero stati costretti a
superare tre pericolose cateratte andando in quella direzione e gli uomini
che salivano a bordo avrebbero dovuto trainare dalla riva i battelli a vapore
su lunghi cavi per aiutarli a passare attraverso quelle strettoie dalle acque
ribollenti dove affioravano le rocce.
Davanti a loro la Colonna del deserto avrebbe rapidamente attraversato
l'ansa del Nilo fino a Metemma, dove i quattro piccoli battelli a vapore di
Gordon il Cinese li aspettavano per trasferire a Khartum un piccolo
distaccamento di uomini scelti, allo scopo di rinforzare la città fino
all'arrivo della colonna di soccorso vera e propria.
Il trasporto munizioni attraccò contro l'argine del fiume e i facchini
vennero subito richiamati per iniziare le operazioni di scarico. Penrod fu
uno dei primi a mettere piede a terra e di nuovo il passaporto, mostrato al
sottufficiale incaricato di giornata, operò il suo piccolo miracolo: gli fu
consentito di passare. Così si incamminò per l'accampamento, costretto a
ignorare numerose provocazioni prima di raggiungere il posto di guardia
all'ingresso della zareba che conteneva la Colonna del deserto.
I quattro reggimenti che la componevano, al comando del generale Sir
Herbert Stewart, erano impegnati nelle esercitazioni sulla piazza d'armi in
preparazione della lunga marcia che avrebbe tagliato l'ansa del fiume: ma
potevano trascorrere settimane, per non dire mesi, prima che ricevessero
da Londra l'ordine definitivo di marciare.
Senza dubbio il sergente del corpo di guardia era stato avvertito in
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2005 - Il Trionfo Del Sole
anticipo dell'arrivo di Penrod: infatti non si mise a cavillare quando il
sudicio bracciante arabo gli si rivolse nell'idioma della mensa ufficiali
chiedendo di essere accompagnato alla tenda dell'aiutante di campo.
«Ah, Ballantyne! Ho ricevuto il telegramma dal maggiore Adams al
Cairo, ma non vi aspettavo prima di tre o quattro giorni. Avete fatto in
fretta.» Il maggiore Kenwick gli strinse la mano, ma si astenne dal
menzionare l'insolito abbigliamento del collega. Come la maggior parte
degli ufficiali superiori, anch'egli nutriva simpatia per questo giovane
briccone, benché gli invidiasse un poco le avventure galanti. Sembrava
proprio che avesse un fiuto speciale per spuntare fuori ogni volta che
fischiavano le pallottole e una promozione era nell'aria.
«Vi ringrazio, maggiore. Sapete per caso se i miei uomini sono qui?»
«Sì, dannazione! E quel vostro sergente si è preso cinque dei miei
migliori cammelli. Se non mi fossi impuntato se la sarebbe svignata con
una truppa al completo.»
«Allora mi metterò in viaggio, se vorrete scusarmi, signore.»
«Così presto? Speravo in effetti che avremmo potuto avere il piacere
della vostra compagnia a mensa per la cena, questa sera.»
Penrod vide che era divorato dalla curiosità per quella misteriosa visita.
«Sono piuttosto di fretta, signore.»
«Forse potremmo vederci a Khartum, allora?» continuò l'aiutante, deciso
a tutti i costi ad adescarlo.
«Oh, ne dubito, signore. Che ne dite di incontrarci al Long Bar del
Ghezira Club quando questa faccenduola sarà sistemata?»
Il sergente al-Saada lo attendeva alla fila dei cammelli. Molti occhi li
osservavano, e così il saluto fu freddo e poco appariscente, a sottolineare il
profondo abisso sociale che divideva il sergente di un reggimento della
regina e un comune fellah. Si addentrarono in mezzo alle dune, Penrod
dietro sulla sua cammella grigia. Il suo umore migliorò quando sentì la
bestia muoversi sotto di lui: era chiaro che al-Saada gli aveva scelto una
divoratrice
d'aria.
Non appena furono abbastanza
lontani
dall'accampamento al-Saada tirò le redini; e mentre Penrod gli si
affiancava, l'espressione intransigente che il sergente aveva in volto si aprì
in un sorriso abbagliante ed egli si batté il pugno serrato sul petto nel
saluto a cavallo. «Ti ho visto sul ponte del battello quando è passato da
Ras Indera. Hai viaggiato veloce, Abadan Riji.» Il nome significava
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«Colui che non si volta mai indietro». «L'ho detto a Yakub che saresti
arrivato qui in meno di cinque giorni.»
«Per veloce che io sia arrivato, dovremo andare ancora più veloci»,
incalzò Penrod.
Yakub li aspettava un miglio più avanti, dietro un affioramento di roccia
nera dove teneva gli altri cammelli accovacciati, le loro forme rese
grottesche dalle ghirbe che trasportavano come enormi escrescenze
cancerose sulla groppa. Ogni cammello era in grado di trasportare due
quintali e mezzo di acqua, ma nel deserto della Madre delle Pietre un
uomo aveva bisogno, se voleva sopravvivere, di quasi dieci litri d'acqua al
giorno. Smontarono e Yakub corse loro incontro per salutare Penrod;
piegò un ginocchio a terra e si toccò le labbra e il cuore. «Il fedele Yakub
ti ha aspettato fin da Kurban Bairam.»
«Finalmente, Prediletto di Allah», Penrod gli rispose con un sorriso.
«Ma non hai dimenticato il mio bagaglio, vero?»
Yakub assunse un'aria afflitta. Tornò indietro di corsa, slegò un involto
da uno dei cammelli e glielo riportò in modo che Penrod potesse srotolarlo
sulla terra cotta dal sole. Poté notare che gli avevano lavato di fresco la
galabiyya, la veste di lana pregiata che lo doveva proteggere dal sole e che
con movimenti rapidi sostituì ai suoi stracci. Poi si avvolse intorno al volto
il copricapo di cotone nero, alla foggia dei beduini, e si legò la fascia nera
intorno alla vita. Sul fianco destro vi infilò la daga ricurva e il revolver
Webley, mentre la sua sciabola da cavalleria completava l'armamento
dall'altro lato. Estrasse la sciabola dal disadorno fodero di cuoio e ne provò
la lama: pungeva come un rasoio a serramanico, e Yakub si meritò un
cenno di approvazione. Poi maneggiò il ferro di taglio e di punta, fece
alcuni affondi di prova, e la lama parve prendere vita nella sua mano. In
un'epoca come quella di fucili a retrocarica e di artiglieria pesante, Penrod
amava ancora usare l'arma bianca.
Quasi tutti gli arabi combattevano con lo spadone lungo, e Penrod aveva
potuto osservare che l'uso che ne facevano in battaglia era diverso dal suo.
La pesantezza dell'arma infatti non era adatta alla complessione fisica degli
arabi perché, a differenza dei crociati protetti dalle maglie di ferro dai quali
la pesante lama era stata imitata, essi non erano uomini grandi e robusti:
terrier, non mastini, degli autentici diavoli quando bisognava colpire di
taglio e di punta - e le ferite dello spadone potevano essere davvero
terribili - ma troppo lenti quando si trattava di rimettersi in guardia. Non
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capivano come parare i colpi, e quindi lo scudo rotondo di cuoio era quasi
la loro unica arma di difesa. Di fronte a uno spadaccino esperto erano
vulnerabili a una finta più alta rispetto alla linea naturale, e difatti la loro
risposta istintiva era di sollevare lo scudo, con la conseguenza di perdere
di vista la punta della spada dell'avversario e di non vedere l'affondo che
sarebbe arrivato fulmineo dopo la finta. A El Obeid, quando i dervisci,
rotto il quadrato, erano sciamati al suo interno, Penrod aveva usato questo
espediente e ne aveva uccisi cinque in altrettanti minuti. Mentre
rinfoderava la lama chiese a Yakub: «Si può passare dalla Madre delle
Pietre?»
«L'acqua è a Marbad Tegga.» Nel dialetto taka, il nome del pozzo
voleva dire Uccisore di Cammelli. «Scarsa e amara, ma può andar bene per
i cammelli.»
Yakub era un arabo jaalin che era stato cacciato dalle tende del suo
popolo a causa di una faida feroce nata da una contesa perché una sua
sorella era stata disonorata. Yakub era svelto e molto abile con la spada, e
l'uomo era rimasto ucciso, ma poiché era il figlio di un potente sceicco,
Yakub era stato costretto a fuggire per aver salva la vita.
Uno degli occhi di Yakub guardava in una direzione diversa dall'altro, i
riccioli che uscivano da sotto il suo turbante erano unti e quando sorrideva
a Penrod mostrava denti ingialliti e storti, ma conosceva e capiva il deserto
e le montagne con l'istinto di un asino selvatico. Prima che venisse
cacciato dalla sua tribù la ferita ricevuta da un coltello l'aveva lasciato
zoppo, e a causa di questa menomazione non era stato arruolato negli
eserciti della regina e del khedivè. Così per quell'arabo privo di una tribù e
di un padrone Penrod era tutto, e Yakub lo amava come un padre e come
un dio.
«E allora possiamo ancora tagliare il serpente?»
Quando Penrod poneva una domanda importante come questa Yakub
prestava tutto il suo rispetto e la sua attenzione. Perciò si infilò i lembi
della galabiyya tra le gambe e si accovacciò a terra. Con il pungolo dei
cammelli incise una grande S sul terreno, ma con la curva superiore più
piccola almeno di metà di quella inferiore. Era una rozza carta geografica
del corso del Nilo da dove si trovavano loro fino all'imboccatura della gola
di Shabluka. Seguire la riva del fiume percorrendo tutto questo
serpeggiante meandro voleva dire aggiungere al viaggio molte settimane:
questa, naturalmente, era la via che la flottiglia che trasportava la
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Divisione fluviale sarebbe stata costretta a percorrere. La Divisione del
deserto, composta di truppe cammellate, avrebbe tagliato la grande ansa e
riguadagnato la riva del fiume a Metemma, seguendo una scorciatoia che
era chiaramente segnata da secoli di carovane e dalle ossa imbiancate che
avevano lasciato dietro di sé. Lungo questa strada c'erano due pozzi che
fornivano al viaggiatore giusto l'acqua sufficiente per fare la traversata.
Poi, una volta raggiunta Metemma, potevano seguire il tratto superiore del
Nilo mantenendosi sempre in vista del fiume quando piegava di nuovo a
ovest, finché alla fine non si raddrizzava ancora nel suo corso meridionale
e si dirigeva a Khartum. Era una strada difficile, ma ce n'era una ancora
più difficile, che i capi delle carovane chiamavano «tagliare il serpente».
Yakub tracciò un taglio nitido con il pungolo disegnando una linea retta
che partiva dalla loro posizione e arrivava direttamente a Khartum. La
linea tagliava l'ansa a S del fiume esattamente a metà. Faceva risparmiare
centinaia di miglia di viaggio aspro ed estenuante, ma la pista non era
segnata e sbagliare una deviazione significava mancare l'unico pozzo
esistente, quello di Marbad Tegga, e trovare al suo posto una morte sicura
e spaventosa. Il pozzo si trovava ben addentro a quella fornace che era il
ventre della Madre delle Pietre, ed era così nascosto che non era difficile
passargli accanto di un centinaio di passi e non scoprire dov'era. I
cammelli ce la facevano a bere quell'acqua, ma i sali caustici che
conteneva potevano far impazzire un uomo. Una volta che avessero
abbeverato i cammelli a Marbad Tegga ci sarebbe voluto un altro centinaio
di miglia per giungere a Korti, sulla riva del Nilo, sotto la quarta cateratta,
ma già molto prima di toccare il fiume tutta l'acqua nei loro otri sarebbe
finita e potevano trascorrere ventiquattr'ore senza una goccia prima che
vedessero di nuovo il Nilo, anche di più forse, se i jinn del deserto non
erano propizi. Arrivati alla riva, dovevano poi attraversare il fiume. In quel
punto la corrente era rapida, il letto era largo un miglio ed era risaputo che
i cammelli non erano buoni nuotatori. Però alcuni conoscevano l'esistenza
di un guado, superato il quale - dopo aver attraversato il fiume, bevuto a
sazietà e riempito le loro ghirbe vuote - sarebbero stati costretti a lasciare
ancora il Nilo e ad affrontare il deserto di Monassir che si trovava sull'altra
riva, altre duecento miglia senza una goccia d'acqua. Mentre il suo
pungolo tracciava per terra le strade e le scorciatoie, Yakub ripeteva tutte
queste cose e Penrod lo ascoltava senza interromperlo: sebbene anche lui
avesse tagliato il serpente tre volte e ce l'avesse fatta ad arrivare al guado
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di Korti, c'era sempre qualcosa di nuovo da imparare da Yakub.
Quando ebbe finito di spiegare tutto quello che doveva spiegare, Yakub
proclamò: «Con l'intrepido e astuto Yakub a guidarti, e gli angeli a
proteggerti, forse potremo tagliare il serpente». Poi si mise a dondolarsi in
posizione accosciata in attesa che Penrod decidesse.
Penrod stava già soppesando l'azzardo del viaggio mentre ancora la sua
guida parlava. Senza Yakub non avrebbe mai tentato, mentre con lui a
indicare la strada il guadagno in termini di tempo e di distanze valeva
senz'altro il rischio che avrebbero corso; ma c'era anche un'altra e più
evidente considerazione.
Bashida gli aveva detto che il Mahdi e il suo khalifa sapevano benissimo
della spedizione inglese partita per salvare Gordon: non mancavano certo
le spie che li tenevano pienamente informati della concentrazione dei
reggimenti britannici e della flottiglia a Uadi Halfa. Inoltre il Mahdi aveva
ordinato a una dozzina degli emiri più importanti di lasciare l'assedio di
Khartum e di portare le loro tribù verso nord, seguendo il corso del fiume,
per contrastare la marcia e incontrare il nemico a Metemma, Abu Klea e
Abu Hamed. Bashida aveva anche aggiunto che entrambe le rive del fiume
da Khartum fino alla prima grande ansa erano già invase da sciami di
cavalieri arabi e di truppe a dorso di cammello.
«Il Mahdi sa che deve fermare i franchi prima che raggiungano la città»,
gli aveva anche spiegato usando il nome con il quale indicavano tutti gli
europei. «Sa che il loro esercito è poco numeroso e scarsamente
equipaggiato di cavalli e cammelli. Si dice che abbia mandato ventimila
uomini a nord incontro agli inglesi con il compito di resistere sulla linea
del fiume fino alla stagione del Nilo basso, quando gli sarà possibile
portare a termine la distruzione di Khartum e inviare la testa del generale
Gordon alla sua regina.» E infine gli aveva raccomandato di fare
attenzione perché avevano interrotto le linee telegrafiche verso nord e
sapevano che i generali del Cairo avrebbero inviato dei messaggeri a
Khartum per tenersi in contatto con Gordon. «Stai attento, mio dolce
signore. Il Mahdi si aspetterà che tu provi a penetrare nella città, e i suoi
uomini saranno già lì in attesa, pronti a sorprenderti.»
«Sì, certo, saranno lì a cercarci dove si attraversa la grande ansa, ma
sorveglieranno anche la strada per Marbad Tegga, mi chiedo?» rifletteva
Penrod ad alta voce, ma poi si accorse che Yakub scuoteva la testa perché
non sapeva una parola d'inglese. Così, passato all'arabo, rese nota la sua
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decisione: «In nome di Dio, mio coraggioso Yakub, portaci al pozzo
amaro dell'Uccisore di Cammelli».
Montarono sulle alte selle di legno. Penrod controllò il fucile nel fodero
sotto la gamba e la bandoliera delle munizioni assicurata alla traversa della
sella, poi pungolò la sua cammella grigia che prima mandò un gemito e
sputò, mai poi con qualche ondeggiamento si mise in piedi.
«In nome di Dio cominciamo», salmodiò al-Saada.
«Che possa aprire i nostri occhi perché trovino il cammino», echeggiò la
voce di Yakub. «E che noi possiamo scorgere chiaramente l'Uccisore di
Cammelli.»
«Dio è grande», concluse Penrod. «Non c'è altro Dio al di fuori di
Allah.»
Ognuno di loro conduceva un cammello da soma e l'acqua sciaguattava
dolcemente negli otri. Appena partiti, l'equipaggiamento non era ancora
assicurato bene e il passo dondolante dei cammelli era accompagnato da
scricchiolii e piccoli colpi, ma quasi subito i tre uomini provvidero a
rimettere in ordine le cinghie e i legacci che tenevano insieme il carico.
Una volta fecero anche una breve sosta per far uscire l'aria dagli otri in
modo che smettessero di gorgogliare. Ma più oltre ci fu solo silenzio, un
silenzio incantato e innaturale nel vuoto del calore e di insondabili
orizzonti. I cuscinetti spugnosi delle zampe dei cammelli ricadevano sulle
sabbie del deserto senza produrre un suono e gli uomini, dal canto loro, si
avvolsero la testa lasciando solo la fessura per gli occhi e smisero di
parlare. Afflosciati sulle alte selle di legno, si erano completamente
abbandonati all'andatura ritmata dei cammelli.
Seguivano l'antica strada carovaniera attraverso una distesa di sabbia
color arancio che splendeva alla luce del sole fino a far dolorare gli occhi
per il riverbero. La strada era appena segnata dagli ossi bianchi e dalle
carcasse disseccate di cammelli morti da tempo, preservate dal sole al
punto che alcune potevano trovarsi in quel luogo da secoli. L'aria che
respiravano scottava e irritava l'interno della gola mentre l'orizzonte
ondeggiava e si dissolveva nel lago argentato del miraggio. I cammelli e
gli uomini sembravano appesi nello spazio e, sebbene continuassero a
procedere silenziosi come spettri, pareva che non si muovessero mai
contro lo sfondo scintillante di luce. Il solo punto di riferimento era il
tracciato quasi invisibile della pista carovaniera, ma anche questo non dava
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l'impressione di essere ben saldo sulla terra, invece pareva quasi che
sorgesse davanti a loro come una spirale di fumo portata dal vento.
Penrod si era lasciato scivolare dentro la trance mesmerica del
viaggiatore del deserto. Il tempo era sospeso e perdeva ogni significato. La
mente vagava libera ed egli pensava a quanto sarebbe stato facile credere,
come facevano i beduini, nelle potenze soprannaturali che abitavano
questo paesaggio così lontano dal mondo. Sognava dei jinn, e dei fantasmi
di eserciti perduti che erano periti tra quelle sabbie, e Yakub, nonostante si
trovasse davanti neanche a un tiro di schioppo, delle volte gli sembrava
fosse distante come il miraggio e svolazzasse come un passero sulle ali
della sua veste. Altre volte invece gli pareva che spiccasse come un
gigante sulla schiena della sua bestia elefantiaca, rigonfia e allungata per
opera del gioco traditore della luce. Avanti, avanti, in silenzio.
Lentamente qualcosa cominciò ad apparire dinanzi a loro, una possente
piramide davanti alla quale scomparivano le grandi costruzioni che l'uomo
aveva eretto nel delta. Tremolava nel miraggio d'argento, staccata dalla
terra, appesa capovolta sull'orizzonte, in equilibrio sul vertice e con la base
piatta che riempiva il cielo a sud. Penrod la fissò sgomento, ma subito
dopo la possibilità che fosse una visione veritiera fu messa a dura prova,
quando in un baleno si ridusse e sparì in una macchia nera per poi
ricominciare a ingrandirsi, questa volta con il vertice appuntito in alto e la
base ancorata alla terra.
Man mano che la marcia continuava, la visione assunse la sua vera
forma, una collina conica e due più piccole vicino, alle sue spalle: in un
lampo di chiaroveggenza Penrod intuì che in passato elementi naturali
come queste colline erano stati forse il modello per quelle altre piramidi
costruite dall'uomo che avevano stupito il genere umano nel corso dei
secoli. La pista delle carovane correva diritta verso le tre colline, ma non
avevano ancora raggiunto la prima che Yakub con una deviazione piegò a
sinistra, ed essi si trovarono con la sola guida dell'arabo in una distesa che
non era più segnata dalla minima traccia dell'uomo o del suo passaggio.
Era questa la via segreta per Marbad Tegga.
Penrod si cullava appoggiato alla sella nell'ipnotica sospensione del
tempo e della coscienza, e mentre le ore passavano il sole giunse sul
mezzogiorno e cominciò la sua feroce discesa verso terra. Ballantyne si
riscosse, alla fine, perché la sua cammella aveva cambiato andatura, e gli
bastò un rapido sguardo all'intorno per accorgersi che il paesaggio era
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cambiato: la sabbia non era color arancio ma del grigio bruciato della
cenere, e tutto intorno fino all'orizzonte c'erano cumuli di cenere vulcanica
e di lava alti anche centinaia di metri, come se tutti i mondi dell'universo
fossero stati cremati e i loro resti abbandonati in questo infernale cimitero
e coperti da questi tumuli così minacciosi. Era il respiro di antichi vulcani
che aveva carbonizzato il deserto stesso. Non c'era alcuna traccia di
vegetazione o di una qualsiasi forma di vita; unica eccezione le figure in
cammino dei tre uomini e delle loro bestie.
Penrod capì perché il passo del suo animale era cambiato. Il terreno era
fittamente ricoperto di massi e di pietre, alcune grandi e perfette come
palle rotonde da cannone di grosso calibro, altre piccole come proiettili di
moschetto, ed erano come i resti di battaglie da lungo tempo dimenticate.
Ma Penrod sapeva che non erano munizioni da guerra; quelle rocce erano
le efflorescenze lasciate dall'eruzione dei vulcani: quando la lava liquida
era stata espulsa fino al cielo, era poi caduta in una pioggia mortale sul
terreno che l'aveva raffreddata e solidificata dandole simili forme. Su
questo terreno accidentato i cammelli erano costretti a cercarsi la strada, e
la loro velocità si era ridotta di molto.
Il sole tramontò, e nel momento in cui toccava la terra sembrò
un'eruzione di luce verde e cremisi, ma poi se ne andò per abbandonare il
mondo alla notte improvvisa.
«Dolce è la notte!» sussurrò Penrod con le labbra completamente
screpolate. «Benedetta sia la notte!» Fecero accucciare i cammelli e
diedero loro una piccola razione di dhurra triturata, poi controllarono le
briglie e le selle per vedere se trovavano tracce di irritazione o di
sfregamento. Mentre i suoi due compagni stendevano i loro tappeti da
preghiera e si prostravano verso la Mecca, Penrod si allontanò a
camminare un po' in quel luogo desolato per distendere i muscoli in preda
ai crampi e le giunture irrigidite. Si fermò ad ascoltare la notte, ma il solo
suono era la brezza della sera lungo le dune che sussurravano con le voci
dei jinn.
Quando ritornò, Yakub stava facendo il caffè su un minuscolo braciere.
Ne bevvero tre tazze ciascuno, e mangiarono dei datteri insieme con sottili
biscotti rotondi di dhurra. Unsero le labbra e la pelle che restava esposta al
sole con grasso di montone, per impedire che si squamasse e si
screpolasse, poi si coricarono di fianco ai cammelli e dormirono. Quando
Yakub, dopo un breve riposo di due ore, li svegliò, montarono di nuovo in
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sella e presero a sud viaggiando nella notte.
I cieli luccicavano di stelle con una tale profusione che era difficile
trovare le principali costellazioni in quel bagliore argenteo. L'aria era
fresca e di odore dolce, ma così secca che il muco nei condotti nasali di
Penrod si induriva formando palline dure come il piombo.
La marcia dei cammelli proseguì, ora dopo ora. A intervalli regolari
Penrod con un agile salto balzava giù di sella e si metteva a camminare a
fianco dell'animale, con lo scopo di farlo riposare e nel contempo di
sgranchirsi le gambe. Si fermarono ancora prima dell'alba, bevvero caffè
bollente e senza zucchero, dormirono per un'altra ora e poi si rimisero in
marcia con il sole che sorgeva alla loro sinistra. Quando i primi raggi li
colpirono, si avvolsero intorno alla testa i copricapi nel gesto di
sottomissione alla sua tirannia.
Il deserto non era mai lo stesso. Cambiava carattere e aspetto in forme
così sottili da essere degne di una splendida cortigiana, ma si manteneva
sempre pericoloso e ingannatore. Talvolta le dune erano morbide e
carnose, color avorio pallido come il petto e il ventre di una giovane
danzatrice, poi diventavano del colore delle albicocche mature e fluivano
come le onde lunghe dell'oceano, oppure si contorcevano insieme sinuose
come serpenti in amore per poi precipitare sopra scarpate frastagliate di
roccia.
Si lasciavano alle spalle le ore e le miglia. Quando si fermavano a
riposare all'ombra degli otri spesso faceva troppo caldo per poter dormire,
e allora restavano coricati ad ansimare come cani. Poi ripartivano. I
cammelli protestavano con qualche flebile brontolio quando venivano fatti
accovacciare e di nuovo quando erano costretti a rimettersi in piedi per
riprendere la marcia. Avevano le gobbe ormai avvizzite, e il quinto giorno
rifiutarono di mangiare la scarsa razione di dhurra che Yakub offriva loro
sulla stuoia di paglia.
«È il primo segno che sono vicini al limite delle forze», fu
l'avvertimento di Yakub. «Dobbiamo arrivare al pozzo prima del
crepuscolo di domani. Se no cominceranno a morire.»
Non era necessario ricordare le conseguenze per gli uomini, se i
cammelli fossero venuti meno. Il mattino seguente, mentre facevano una
sosta sul bordo di una profonda depressione, Penrod fece segno davanti a
loro: lungo il bordo opposto si stagliava quasi come un fregio il profilo di
alcune gazzelle. Erano piccole e delicate come le creature di un sogno, i
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colori della panna e del cioccolato al latte, le corna a forma di lira e la
maschera bianca sul muso. Dopo un momento sparirono tuffandosi dalla
parte opposta della cresta, silenziose come se non fossero mai esistite.
«L'acqua la bevono a Marbad Tegga. Adesso siamo vicini.» Erano le
prime parole di Yakub da molte ore. «Ci saremo prima del tramonto»,
disse lanciando strabiche occhiate di soddisfazione.
A mezzogiorno i cammelli rifiutarono di accucciarsi, e presero a
brontolare e a gemere scuotendo la testa. «Hanno sentito l'odore
dell'acqua. Vogliono arrivarci a tutti i costi», disse pieno di gioia Yakub.
«Ci guideranno al pozzo come cani da caccia alla selvaggina.» Non appena
gli uomini ebbero pregato e bevuto il caffè, rimontarono tutti e tre in sella
per riprendere la marcia.
I cammelli avevano sveltito l'andatura e mandavano gemiti di
eccitazione man mano che il profumo dell'acqua si faceva sentire più forte
alle loro narici. Alla sosta successiva, nel tardo pomeriggio, Penrod
riconobbe il terreno davanti a loro dall'ultima volta che ci era passato. Era
un fantastico assortimento di collinette scistose scolpite dal vento e dalle
epoche in una galleria di forme magiche e di rilievi immaginari: alcune
assomigliavano a eserciti in marcia di guerrieri di pietra, altre a leoni
accucciati, e c'erano anche draghi alati, gnomi e jinn. Ma sopra tutti questi
rilievi si stagliava una singolare e alta colonna di pietra che assomigliava a
una donna atteggiata a lutto in una lunga veste e in un velo da vedova.
«Ecco la Vedova di Ahab», disse Yakub, «la donna che guarda verso il
pozzo dove suo marito ha trovato la morte.» Spronò la sua cavalcatura con
il lungo pungolo e ripartirono, i cammelli ancora più bramosi dei loro
cavalieri.
«Aspettate!» gridò come una furia Penrod, e quando Yakub e al-Saada si
girarono a guardarlo li bloccò con un gesto che non ammetteva repliche;
poi deviò il cammello in un basso uadi che lo nascondeva completamente e
dove gli altri lo seguirono senza esitare. Dovettero lottare con gli animali
per costringerli ad accovacciarsi, e furono obbligati a lavorare di pungolo e
a torcere loro i testicoli prima che si mettessero giù tra mugghii di protesta;
dopo li impastoiarono con funi di cuoio grezzo per impedire loro di
rialzarsi. Al-Saada rimase di guardia presso le bestie per assicurarsi che
non cercassero di fuggire e di arrivare all'acqua. Penrod invece guidò
Yakub fino in cima alla cresta dove trovarono un punto panoramico in
mezzo alle colline; qui si coricò a pancia in giù e con il binocolo passò in
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rassegna in lungo e in largo il terreno accidentato intorno alla Vedova di
Ahab. Yakub si era allungato accanto a lui, orrendamente strabico mentre
cercava di aguzzare la vista nel crepuscolo. Dopo una lunga attesa
borbottò: «Non c'è niente se non sabbia e rocce. Hai visto un'ombra,
Abadan Riji. Nemmeno un jinn abiterebbe questo posto», e fece per
alzarsi.
«Giù, imbecille», scattò Penrod. Restarono silenziosi e immobili per
un'altra mezz'ora, poi Penrod passò a Yakub il binocolo. «Eccolo là il tuo
jinn.»
Yakub guardò bene attraverso le lenti, poi sussultò, e lanciò anche
un'esclamazione quando scorse in lontananza la figura di un uomo. Seduto
all'ombra ai piedi di uno dei monoliti scistosi, era pressoché invisibile e
solo la puntura di spillo della luce riflessa sulla lama che stava affilando
aveva avvertito Penrod della sua presenza. Adesso si era alzato in piedi ed
era uscito dall'ombra nella luce declinante del sole, una forma estranea nel
paesaggio che lo sovrastava.
«Lo vedo, Abadan Riji», ammise Yakub. «I tuoi occhi sono acuti. Porta
la jibba a toppe dei mahdisti. Ce ne sono altri?»
«Sta' tranquillo che ci sono», mormorò Penrod. «Non si viene da soli in
questo posto.»
«Una pattuglia di esploratori?» azzardò Yakub. «Forse spie mandate ad
aspettare l'arrivo dei soldati?»
«Sanno che il pozzo dell'Uccisore di Cammelli è troppo piccolo e la sua
acqua troppo amara per rifornire un reggimento. Sono lì per catturare i
messaggeri che portino dispacci a Gordon Pascià a Khartum. Sanno che
non c'è un'altra strada e che dobbiamo per forza passare di qui.»
«Sorvegliano l'acqua. Non possiamo andare avanti senza acqua per i
cammelli.»
«No», concordò Penrod. «Dobbiamo ucciderli. Non deve scappare
nessuno che possa avvisare quella gente del nostro passaggio.» Si alzò in
piedi e, al riparo della collinetta, tornò dove al-Saada aspettava con i
cammelli. Questa volta, mentre aspettavano che scendesse la notte, non
osarono farsi il caffè per timore che l'odore del fumo giungesse fino ai
nemici e tradisse la loro presenza; invece bevvero con parsimonia dagli
otri e, intanto che consumavano il pasto serale a base di datteri, affilarono
le lame. Poi i due arabi stesero i loro tappeti e pregarono.
L'oscurità si stese sulle colline calda e pesante come un mantello di lana,
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2005 - Il Trionfo Del Sole
ma Penrod aspettò finché Orione il Cacciatore non fu giunto allo zenit nel
cielo del sud per dare l'ordine di lasciare i cammelli e di avanzare a piedi,
lui in testa, con la Webley nella fascia alla cintola e la sciabola sguainata
nella destra. Non era la prima volta che lo facevano e sapevano come
muoversi separati ma tenendosi sempre in contatto. Penrod fece un giro
sottovento intorno al punto dove avevano visto per l'ultima volta il
derviscio di sentinella, e fu grato alla brezza della sera che copriva anche il
più piccolo rumore che potevano fare nella marcia di avvicinamento.
Prima sentì l'odore, il fumo del braciere, la puzza pungente dello sterco di
cammello che bruciava. Con un leggero schiocco delle dita avvertì Yakub
e al-Saada che obbedienti si schiacciarono al suolo, macchie nere nella
notte stellata alle sue spalle.
Riprese a strisciare, con il vento in faccia, tenendo il fumo direttamente
davanti a sé. Si fermò quando sentì il leggero brontolio e il rutto di un
cammello, si appiattì al suolo e scrutò in avanti aspettando con la pazienza
del cacciatore. I suoi occhi passarono lentamente in rassegna le scabrosità
del terreno individuando ogni roccia e ogni irregolarità, finché qualcosa
cambiò forma e il suo sguardo ne fu immediatamente attirato. La cosa era
piccola, scura e rotonda, avanti nemmeno venti passi, e quando si mosse
ancora Penrod vi riconobbe una testa umana, la testa di una sentinella
seduta proprio sopra il bordo di una di quelle depressioni poco profonde
che chiamavano nullah. Sebbene la mezzanotte fosse già passata l'uomo
era ancora sveglio e vigile. Penrod sentì l'odore di Yakub accanto a sé, una
puzza di sudore, tabacco e cammelli, e il fiato caldo dell'arabo all'orecchio.
«L'ho visto; per lui è giunta l'ora di morire.»
Penrod gli premette sul braccio in segno di approvazione, e Yakub
strisciò avanti come una vipera del deserto. Era un artista con la daga. La
sua figura si fuse con le rocce e le ombre delle stelle. Penrod, che guardava
la testa della sentinella, ne vide apparire improvvisamente un'altra alle sue
spalle e per un momento esse divennero un'unica macchia nera: poi
un'emissione di fiato quasi impercettibile ed entrambe le teste si
abbassarono e sparirono alla sua vista, senza che Penrod, in attesa, udisse
il minimo grido o segnale di allarme. Infine Yakub uscì dal nullah con il
suo caratteristico zoppicare da granchio per venire ad appiattirsi di fianco
al suo padrone.
«Ce ne sono altri cinque. Sono in fondo al nullah che dormono con i
cammelli.»
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«I cammelli hanno ancora i finimenti?» Una domanda inutile. Quegli
uomini erano guerrieri, sempre pronti a saltare in sella e a partire nello
stesso istante in cui si fossero svegliati.
«I cammelli sono sellati, e gli uomini dormono con le armi al fianco.»
«Non ci sarà un'altra sentinella?»
«Non ho visto nessuno.»
«Dov'è il pozzo?»
«Non sono stati così sciocchi da accamparsi vicino all'acqua. È a tre o
quattrocento passi in quella direzione.» Yakub indicò dove finiva il nullah,
a destra, un punto per loro invisibile. «Quindi vuol dire che se c'è un altro
uomo sarà là, a sorvegliare l'acqua.» Penrod rifletté per qualche istante, poi
schioccò di nuovo le dita e al-Saada venne ad acquattarsi accanto a loro.
«Io aspetterò tra il campo e il pozzo per controllare se c'è un'altra
sentinella. Voi due invece andrete giù a procurare un posto in paradiso a
questi figli del Mahdi.» Penrod diede a ognuno un colpetto sulle spalle,
come conferma e benedizione. Andavano meglio loro, per un lavoro
sporco come quello; lui non era mai stato capace di reprimere i suoi
scrupoli quando si trattava di uccidere qualcuno nel sonno. «Aspettate
finché non mi sarò appostato.»
Penrod si mosse rapidamente prendendo a destra. Raggiunse il margine
del nullah e lanciò uno sguardo di sotto scorgendo il corpo dell'uomo che
Yakub aveva ucciso steso proprio sotto il bordo: le ginocchia erano tirate
su contro il petto e Yakub gli aveva messo in testa il turbante perché
sembrasse che si era addormentato al suo posto di guardia. Più avanti gli
uomini e gli animali distesi sul fondo del nullah formavano un mucchio
confuso e scuro in cui egli non era in grado di distinguere gli uni dagli
altri, e pensò che se Yakub prima li aveva contati doveva essere strisciato
molto vicino al campo. Si appostò all'ombra di un masso da dove poteva
tenere d'occhio il nullah e nello stesso tempo sorvegliare se qualcuno si
avvicinava dalla direzione del pozzo.
Sentì un formicolio nei suoi nervi mentre prima Yakub e poi al-Saada si
infilavano nel nullah sotto di lui. Si mescolarono alla massa di uomini e
animali ed egli poté immaginare il cruento lavoro di coltello mentre si
spostavano svelti da un uomo addormentato all'altro. Poi,
improvvisamente, si udì un grido lacerante ed egli fu subito all'erta, con i
nervi tesi, perché uno dei due aveva mancato una pugnalata, e lui sapeva
che non era Yakub. Improvvisa si levò la confusione della massa di corpi
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che, dal riposo, esplodeva nella violenza dei movimenti e dei rumori: i
cammelli mugghiavano e tentavano traballanti di alzarsi, gli uomini a loro
volta gridavano e si udiva il cozzare dell'acciaio sull'acciaio. Vide un
uomo che con uno scatto saltava sulla groppa di uno degli animali e
fuggiva di corsa dal campo, superando il bordo più lontano del nullah. Un
altro derviscio si sottrasse alla mischia e scappò verso il fondo della
depressione, ma aveva percorso solo un breve tratto di strada che una
figura lo rincorse nell'inconfondibile stile del granchio che copre il terreno
con velocità ingannevole. I due sparirono quasi subito.
Penrod era pronto a precipitarsi nel nullah e a unirsi al combattimento,
quando sentì dei passi alle spalle che lo obbligarono a stare giù. La luce
delle stelle illuminava un'altra figura che correva verso di lui dalla
direzione della Vedova di Ahab: doveva essere la seconda sentinella dei
dervisci che arrivava con la spada nella destra e lo scudo sull'altro braccio.
Quando fu troppo vicino perché potesse sfuggirgli, Penrod con un balzo gli
tagliò la strada. Senza esitare il derviscio lo caricò facendo roteare la lunga
lama, ma Penrod parò il colpo facilmente, l'acciaio che risuonava contro
l'acciaio, e partì fintando una stoccata al capo. Il derviscio sollevò lo scudo
per contrastare il colpo, e istantaneamente Penrod andò a segno, una
classica stoccata diritta al centro del petto, in modo tale che la lama lo
attraversò senza ostacoli e uscì per venti centimetri dalle costole della
schiena. Quasi con lo stesso movimento liberò la lama, e il derviscio cadde
senza un grido.
Penrod lo lasciò lì e si precipitò giù fino in fondo al nullah. Vide alSaada chino sopra un corpo a terra, nell'atto di aprire la gola della sua
vittima con la daga; sangue nero sprizzò fuori dall'arteria recisa. Poi vide
che si raddrizzava e si guardava intorno, ma i suoi movimenti erano lenti.
C'erano tre corpi sul terreno dove avevano dormito.
«Dannazione! Due sono scappati», scattò come una furia Penrod.
«Yakub ne ha rincorso uno, ma l'altro è sul cammello. Dobbiamo andargli
dietro.»
Al-Saada fece un passo verso Penrod e la daga sporca di sangue gli
cadde di mano. Poi l'uomo si abbassò lentamente cadendo sulle ginocchia,
e la luce delle stelle fu sufficiente a Penrod per mettere a fuoco la sua
espressione di sorpresa.
«È stato troppo veloce», si scusò al-Saada, ma ormai si faceva fatica a
capire quello che diceva. Staccò la mano con cui si stringeva il petto e
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piegò leggermente la testa a guardare come il sangue,della ferita sotto le
costole gli scuriva la veste fino alle ginocchia. «Dagli tu la caccia, Abadan
Riji. Ti verrò dietro tra un momento», gli disse, e crollò a faccia in avanti.
Penrod ebbe solo un momento di esitazione mentre combatteva con
l'istinto di aiutare al-Saada, ma già poteva dire, da come era crollato senza
controllo, che non gli sarebbe più stato necessario il suo aiuto, e che se
permetteva al derviscio di fuggire le sue possibilità di raggiungere la città
assediata ne sarebbero uscite seriamente compromesse.
«Vai con Dio, sergente al-Saada», disse piano mentre si girava e
ripartiva. Corse al cammello più vicino e lo montò dopo aver tagliato con
la sciabola la cavezza che lo teneva fermo ai ginocchi. Il cammello si
drizzò in piedi e partì rapido in un galoppo che li fece arrivare subito al di
sopra del bordo del nullah. Poteva appena distinguere la figura vaga
dell'altro cammello che volava davanti a lui, simile a una falena alla luce
delle stelle. Nel giro di qualche centinaio di passi si adattò all'andatura
dell'animale che adesso montava e cominciò a fare uso della pressione del
corpo per spronarlo in avanti, come un fantino che corre al traguardo: era
un animale forte e di buona lena, e l'avevano ben dissetato e nutrito
durante l'attesa a Marbad Tegga. Una rapida occhiata alle stelle gli
confermò quello che già sapeva: il fuggiasco puntava direttamente a sud,
verso il punto più vicino del corso del Nilo.
Coprirono un altro miglio, poi Penrod si rese conto che il derviscio
aveva rallentato mettendo il suo cammello al trotto: o era stato ferito nello
scontro, o non sapeva di essere seguito, oppure stava risparmiando la sua
cavalcatura per il lungo e terribile viaggio che doveva affrontare se sperava
di raggiungere il Nilo. Penrod allora spinse il suo cammello alla massima
velocità e fece diminuire rapidamente la distanza che li separava.
Cominciava già a pensare che forse avrebbe potuto piombare addosso al
derviscio prima che si rendesse conto del pericolo, quando
improvvisamente vide il lampo pallido del volto dell'uomo che si girava
indietro e, nel medesimo istante in cui individuava Penrod, si metteva a
pungolare ferocemente e a incitare la sua cavalcatura con grida selvagge. I
due cammelli correvano come se fossero legati l'uno all'altro e insieme si
calarono in un arido uadi per poi risalire su per le creste pietrose dell'altra
sponda. Poi gradualmente il cammello di Penrod cominciò a imporre la sua
maggiore velocità e resistenza e ad avvicinarsi inesorabilmente. Penrod gli
fece descrivere un piccolo angolo mettendosi di traverso rispetto alla
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schiena del nemico, con l'intenzione di arrivargli addosso da sinistra: era
una scommessa azzardata sulla possibilità che l'uomo non fosse mancino e
che quindi da questo lato fosse meno capace di rintuzzare l'attacco.
Ma all'improvviso, del tutto inaspettatamente, il derviscio fece girare il
cammello ad angolo retto portandolo fuori della sua pista, poi lo fece
arrestare di colpo solo un centinaio di passi avanti a Ballantyne. Come
facendo perno su se stesso si girò sull'alta sella di legno, e solo allora
Penrod si accorse che teneva un fucile in mano e lo alzava per puntarlo
addosso a lui. Si era illuso che l'arabo avesse preso con sé solo la spada e
non aveva considerato la possibilità che ci potesse essere un'arma nel
fodero dietro la sella.
«Facciamola finita allora, mangiatore di porco!» gridò Penrod, e mise
mano alla Webley infilata nella fascia. La distanza era eccessiva per
l'arma, e la schiena di un cammello in corsa non era una piattaforma fissa
da cui sparare, ma doveva comunque fare il tentativo di guastare la mira
del suo avversario per giungere abbastanza vicino da usare la spada.
L'arabo sparò dalla schiena del suo cammello immobile, e Penrod
riconobbe subito dalla fiammata di polvere nera e dal caratteristico
rimbombo della detonazione che si trovava di fronte a una carabina
Martini-Henry, probabilmente una di quelle catturate a El Obeid o a
Suakin. Una frazione di secondo dopo il proiettile di piombo di grosso
calibro lacerò la carne del cammello, e Penrod lo sentì barcollare sotto di
lui. Il derviscio si voltò di scatto e si chinò sopra la carabina cercando di
inserire in canna un'altra cartuccia, ma Penrod ormai arrivava da sinistra a
velocità sostenuta, con la spada puntata come se stesse caricando con i
suoi ussari. L'arabo si accorse che non ce la poteva fare a ricaricare in
tempo e, lasciata cadere la carabina, allungò la mano dietro il collo per
estrarre lo spadone dal fodero che teneva a tracolla sulla schiena; intanto
alzò lo sguardo a squadrare Penrod ed ebbe un sobbalzo all'indietro sulla
sella, per la sorpresa di averlo riconosciuto.
«Io ti conosco, infedele!» gli gridò. «Ti ho già visto sul campo di El
Obeid. Tu sei Abadan Riji. Maledico te e il tuo vano Dio dalle tre teste», e
nel lanciare questo insulto tentò di assestare un tremendo fendente alla
testa del cammello di Penrod, che però all'ultimo momento riuscì a frenare
la corsa e a mandare a vuoto il colpo. La lama tuttavia arrivò a mozzare un
orecchio dell'animale rasente al cranio, e lo costrinse a uno scarto di lato.
Penrod ce la fece ancora a riportarlo diritto, ma ormai sentiva che l'animale
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vacillava perché il proiettile gli si era piantato nel petto e la ferita
cominciava a indebolirlo. Il derviscio intanto si teneva appena fuori della
portata della sciabola e Penrod, malgrado i suoi sforzi per tirargli delle
stoccate, non riuscì nemmeno a toccarlo. Dal cammello uscì un gemito:
improvvisamente le zampe davanti si piegarono e l'animale crollò in un
groviglio di arti.
Penrod con un calcio liberò le gambe e riuscì ad atterrare in piedi, in
posizione eretta. Ma quando fu di nuovo in equilibrio il derviscio sul suo
cammello era già un centinaio di passi più avanti e fuggiva di gran
carriera. Penrod allora strappò la Webley dalla fascia e vuotò il caricatore
dietro alle figure del cavaliere e del cammello che si perdevano sempre più
piccole nella notte, ma non sentì nemmeno il tonfo di un proiettile che
colpiva il bersaglio, e scoraggiato capì che si erano ormai dissolti
nell'oscurità: per quanto drizzasse la testa in ascolto non sentiva altro che il
sibilo del vento.
Il suo cammello lottava debolmente per rimettersi in piedi, ma poi
d'improvviso emise un verso rauco e rotolò sulla schiena tirando calci
convulsi al cielo con le sue enormi zampe. Poi crollò del tutto e rimase
allungato contro il terreno, la testa in avanti. Il respiro era affannoso e
Penrod vedeva due rivoli uguali di sangue sgorgare dalle narici ogni volta
che usciva il fiato: non gli restò altro da fare che ricaricare il revolver,
chinarsi sopra l'animale morente, puntargli la canna sulla nuca e sparargli
un unico colpo nel cervello. Ci volle poco poi per frugare nelle sacche
della sella in cerca di qualcosa che gli potesse interessare, ma al di là di
una copia sgualcita del Corano che egli tenne con sé, non c'erano mappe o
documenti. Trovò solo un sacco di carne secca e di biscotti di dhurra che
avrebbero arricchito le loro frugali razioni.
Abbandonò l'animale e ritornò indietro lungo la stessa pista verso
Marbad Tegga, ma non aveva ancora coperto mezzo miglio di strada che
scorse un altro cammello montato da un cavaliere venire di corsa verso di
lui. Si gettò subito dietro le punte frastagliate di un affioramento di roccia
nera mettendosi in ginocchio, in agguato, ma quando il cavaliere fu più
vicino riconobbe Yakub e lo chiamò.
«Sia lodato il nome di Allah!» si rallegrò Yakub. «Avevo sentito uno
sparo.»
Penrod si arrampicò dietro di lui sulla sella e insieme ritornarono a
Marbad Tegga. «Il mio uomo è fuggito», ammise. «Aveva un fucile, e mi
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ha ucciso il cammello.»
«Il mio uomo invece non è fuggito, ed è morto bene. Era un guerriero e
rendo onore alla sua memoria», disse Yakub con voce tranquilla. «Ma è
morto anche al-Saada. Ha sbagliato e ha meritato di morire.»
Penrod non rispose. Del resto sapeva che non era mai corso buon sangue
tra di loro: erano entrambi musulmani, ma al-Saada era egiziano, Yakub
invece un arabo jaalin.
Sulla riva del nullah, oltre il campo nemico, Penrod trovò una profonda
spaccatura nel terreno e vi depose il corpo di al-Saada, con la testa avvolta
nel mantello e sul petto il Corano trovato poco prima. Poi lo coprirono con
una pila di rocce scistose che erano sparse sul posto: un funerale semplice,
ma nel rispetto della sua religione; un lavoro che non richiese molto
tempo, eseguito senza che nessuno dei due parlasse.
Finito che ebbero, ritornarono in fretta al campo dei dervisci e si
dedicarono ai preparativi per continuare il viaggio. «Se corriamo,
dovremmo farcela a passare attraverso le linee nemiche prima che l'uomo
che mi è sfuggito diffonda l'allarme.»
I cammelli catturati ai nemici erano tutti grassi, erano stati ben
abbeverati e si erano riposati; così trasferirono le selle sulla loro groppa e
lasciarono liberi i loro animali esausti per il viaggio verso l'acqua di
Marbad Tegga; poi partirono verso il fiume lontano. Negli otri dei dervisci
avevano trovato più acqua del Nilo di quanto due uomini non avessero
bisogno e tra le provviste c'erano altri sacchi di dhurra, datteri e carne
secca.
«Adesso abbiamo scorte a sufficienza per farcela fino a Khartum»,
commentò soddisfatto Penrod.
In groppa a due animali freschi e tirandosene dietro altri cinque carichi
di otri gonfi d'acqua, si diressero a sud.
«Si aspetteranno che la nostra meta sia il guado del fiume a Korti, ma io
conosco un altro attraversamento più a ovest, sotto la cateratta», gli rivelò
Yakub.
Ogni giorno si riposavano nelle ore in cui il sole era più alto, coricati
sulla misera striscia d'ombra che facevano gli animali: i cammelli erano
invece accovacciati in pieno sole, senza mostrare il minimo segno di
disagio per temperature che avrebbero portato a bollire il sangue di
qualsiasi altro animale. Non appena veniva meno la tirannia del sole,
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riprendevano la marcia per buona parte della sera e della notte. All'alba del
terzo giorno, mentre l'eterna lampada della stella del mattino ancora
bruciava sopra l'orizzonte, Penrod lasciò Yakub con i cammelli e si
arrampicò sopra una collina di forma conica, il solo elemento distintivo in
un paesaggio desolato e calcinato dal sole.
Quando arrivò sulla cima si era ormai fatto giorno, e una vista
straordinaria lo aspettava. Due miglia davanti a loro c'era qualcosa di
bianco come il sale e di aggraziato come l'ala di un gabbiano che scivolava
attraverso questo oceano di sabbia sterile e di rocce, e lui si rese conto di
che cosa fosse ancora prima di portare agli occhi il binocolo. Si mise a
fissare la solitaria e gonfia vela latina che sembrava così fuori luogo sullo
sfondo che la circondava, e perse ancora un po' di tempo a godersi la
sensazione di sollievo e di riuscita che lo investiva davanti all'ala bianca
del dau in navigazione sopra le acque del Nilo.
Fu con la massima cautela che si avvicinarono al fiume perché, se le
paure della Madre delle Pietre erano alle loro spalle, davanti a loro poteva
sorgere da un momento all'altro una nuova minaccia: umana. Il dau era
sparito alla loro vista diretto a valle, e quando la raggiunsero la riva era
deserta e non rivelava segni di abitazioni. Solo uno stormo di aironi
bianchi volava a est in una formazione a punta di freccia, basso sopra le
acque color acciaio. Lungo tutt'e due le rive c'era una stretta frangia di
vegetazione: alcuni macchioni di canne, palme scheletriche e un magnifico
sicomoro che si ergeva solitario e quasi piantava le sue radici nella
fanghiglia proprio al bordo del fiume. Alla sua ombra era stata costruita
molto tempo prima una tomba in mattoni di fango, ma ormai l'intonaco era
tutto segnato dalle crepe e cadeva a pezzi formando dei mucchi all'esterno
delle pareti; nastri colorati sbiaditi dal sole svolazzavano dai rami che si
protendevano a coprirla.
«È l'albero del santo al-Maula, un eremita che viveva in questo posto
cent'anni fa», gli spiegò Yakub. «Sono stati i pellegrini a mettere quei
nastri in suo onore in modo che il santo si possa ricordare di loro e fare le
grazie che vengono a cercare. Il guado è due leghe a ovest, e il villaggio di
Korti si trova all'incirca alla stessa distanza a est.»
Si allontanarono dalla riva per non essere scorti dai marinai di un
qualche dau di passaggio e si diressero a ovest attraversando uadi e
collinette franate finché non ebbero raggiunto un alto precipizio di roccia
che dominava il fiume per un ampio tratto; qui, sul punto più alto del
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dirupo, si trattennero a vigilare per il resto di quella giornata.
Per quanto il Nilo fosse la principale arteria di commercio e di transito
per un'area più vasta dell'intera Europa occidentale, non passarono altre
imbarcazioni e non si vide alcun segnale di presenza umana lungo le rive
fin dove si spingeva il loro sguardo. Fu questo che riempì Penrod di una
sensazione di disagio: qualcosa doveva aver interrotto tutto il commercio
lungo il fiume, ed era quasi certo che fosse proprio da questo che Bashida
lo aveva messo in guardia, e che da qualche parte, ma non molto lontano,
fosse in corso un massiccio spostamento di truppe dervisce. L'idea lo
spingeva a gettarsi attraverso le vaste distese del deserto di Monassir il più
presto possibile e a tenersi ben lontano dalle rive finché non fosse arrivato
di fronte alla città di Khartum e con un ultimo sforzo non avesse potuto
entrare nella piazzaforte assediata di Gordon.
Quando il sole si fu alzato sull'orizzonte, i suoi raggi penetrarono
nell'acqua e fu visibile il profilo più scuro delle secche. Un vasto sperone
di roccia sommerso si spingeva fino a metà del letto e dalla riva opposta si
allungava fin quasi a incontrarlo un esteso banco di fango. Il canale tra i
due bassi fondali era di un verde che indicava le acque profonde, ma era
molto stretto, meno di centocinquanta passi. Penrod tenne a mente
accuratamente la sua posizione: usando gli otri vuoti come salvagenti
avrebbero potuto attraversare facendo nuotare i cammelli in
corrispondenza del punto più profondo. Naturalmente era un lavoro da fare
quando fosse sceso il buio; sarebbero stati terribilmente vulnerabili
sorpresi in piena luce in mezzo alla corrente, qualora ci fosse stata
l'apparizione inaspettata di un dau dei dervisci. Ma, una volta arrivati alla
riva opposta, avrebbero potuto riempire di nuovo gli otri e continuare il
viaggio nel deserto di Monassir.
Durante l'ultima ora di luce, Penrod lasciò Yakub con gli animali in
cima al burrone e scese da solo per cercare sulla riva eventuali tracce, ma
dopo un'attenta esplorazione sia in una direzione sia nell'altra concluse con
soddisfazione che non c'era stato un passaggio recente di truppe nemiche.
Al cadere del buio Yakub portò giù la fila di cammelli. Dopo aver
vuotato completamente gli otri dall'acqua li aveva gonfiati e tappati di
nuovo, così che ogni cammello ora portava assicurati ai fianchi un paio di
questi enormi palloni neri; a loro volta gli animali erano legati insieme in
due file, in modo che la forza della corrente non li separasse.
Al momento di entrare in acqua i cammelli si impuntarono, ma Penrod e
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Yakub lavorarono di pungolo per spingerli giù fino alla riva e poi per farli
entrare in acqua sullo sperone di roccia. Man mano che si dirigevano verso
il centro del letto, l'acqua si alzò fino a raggiungere il mento dei due
uomini che si dovettero aggrappare ai finimenti delle bestie. Il collo alto e
le lunghe gambe dei cammelli consentirono loro di fare la traversata fin
quasi dall'altra parte prima di perdere l'appoggio e di essere obbligati a
nuotare, con movimenti goffi e impacciati. Gli otri tuttavia li tenevano a
galla, e Penrod e Yakub nuotavano al loro fianco badando a incalzarli, a
tenere puntate le loro teste nella direzione giusta e a stare alla larga dalle
zampe anteriori che si agitavano sotto la superficie. Li fecero nuotare fino
al banco di fango della riva opposta, e quando ebbero riguadagnato un
punto di appoggio li guidarono sul terreno asciutto. In tutta fretta
riempirono ancora gli otri e fecero bere i cammelli, per l'ultima volta per
molti giorni a venire.
Il passaggio del fiume aveva richiesto molto più tempo di quanto Penrod
non si fosse aspettato, e prima che fossero pronti a lasciare il Nilo, una
volta riempiti e chiusi gli otri e abbeverati i cammelli fino a scoppiare, il
cielo a oriente stava già cominciando a impallidire. Prima di partire
cercarono di cancellare le tracce dalla riva, ma con tutti quei cammelli
carichi delle loro some e lavorando al buio fu quasi impossibile. Dovevano
sperare che il vento e le acque del fiume spazzassero via le orme che
avevano lasciato prima che le scoprissero gli esploratori dervisci.
Tuttavia mentre penetravano nel deserto di Monassir Penrod si sentiva le
spalle gravate da un'oscura premonizione di sventura, che dopo alcune ore
di viaggio divenne così soffocante da fargli sentire improvvisamente il
bisogno di ripercorrere la pista verso il Nilo, per assicurarsi che il loro
attraversamento non fosse stato scoperto. Adesso che conoscevano bene il
temperamento e le caratteristiche di ogni bestia, poté scegliere dalla fila il
cammello più rapido e volonteroso; quindi mandò avanti Yakub con gli
altri mentre lui tornava seguendo la pista che avevano appena percorso.
Ancora a qualche miglio dal fiume la lasciò per dirigersi a una linea di
basse colline che aveva notato prima e che dominavano il fiume dall'alto.
Si appiattì al suolo e mise alla pastoia il cammello al di sotto del profilo
dei monti, poi strisciò in avanti. Avvicinatosi alla cresta della collina si
lasciò cadere prono, scivolò dietro un gruppo di rocce e puntò lo sguardo
di sotto, sulla valle del Nilo. Il cuore gli saltò in gola e tutti i suoi nervi si
tesero spasmodicamente alla vista che lo aspettava.
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Una piccola pattuglia di esploratori dervisci era smontata sulla sponda
del Nilo dove lui si trovava, e sicuramente aveva scoperto le tracce lasciate
dai suoi animali quando erano usciti dall'acqua. Al binocolo li poté
studiare attentamente: erano in sei; uno di loro poteva essere l'uomo a cui
aveva dato la caccia a Marbad Tegga, ma non ne era del tutto sicuro, ed
erano tutti magri, arabi induriti dal deserto, probabilmente della tribù dei
Beja. Portavano la jibba a toppe dai vivi colori dei mahdisti, e avevano i
caratteristici piccoli scudi rotondi e le spade dal lungo fodero. Stavano
appoggiati all'asta delle lance e commentavano animatamente le tracce
trovate sulla riva. Uno di loro si era girato e indicava il sud seguendo la
direzione delle tracce degli animali; allora tutti guardarono in quella
direzione e sembrò che il loro sguardo si posasse proprio sul punto dove si
trovava Penrod.
Si acquattò dietro le rocce a fare il punto della situazione. Era evidente
che l'uomo che aveva vanamente inseguito a Marbad Tegga, anche se non
era tra gli altri laggiù, aveva raggiunto il fiume prima di loro e sicuramente
aveva comunicato l'allarme all'avanguardia del grosso dell'esercito
derviscio che scendeva lungo il fiume dal nord. Forse uno degli emiri che
lo comandavano aveva mandato avanti questa pattuglia di esploratori per
perlustrare i guadi del fiume e per intercettarli. Penrod poteva affermare al
primo sguardo che questi erano aggagir, i più valorosi tra i guerrieri
dervisci, e rispetto a lui e Yakub erano superiori di tre a uno, e poi erano in
stato di allerta: un combattimento era impensabile e la loro unica speranza
di salvezza era la fuga.
Adesso aveva rivolto la sua attenzione dagli uomini ai loro animali.
Ognuno cavalcava uno splendido cavallo e si tiravano dietro solo un
cammello da soma per trasportare sacche di cuoio con l'equipaggiamento
di marcia, cibo e munizioni, ma non c'erano otri. Era ovvio che fosse una
pattuglia di esploratori veloci, ma poiché non portavano acqua con sé
erano confinati alla stretta striscia di terreno che si estendeva per alcune
miglia da una parte e dall'altra del fiume, e non erano assolutamente
equipaggiati per una incursione in profondità nel deserto di Monassir. Per
intercettare la carovana di Penrod avrebbero dovuto fare una durissima
cavalcata intorno alla grande ansa del fiume e cercare di precederli sulla
riva di fronte a Khartum, un viaggio di quasi duecento miglia più lungo di
quello che dovevano affrontare lui e Yakub. Si sentì invadere da un grande
sollievo quando si rese conto che anche il più veloce dei cavalli non ce
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l'avrebbe fatta a tagliar loro la strada prima che raggiungessero la meta.
«Vi lascio alla misericordia di Allah», mormorò impartendo loro una
sardonica benedizione, e poi cominciò ad allontanarsi dalla cresta per
tornare al suo animale e raggiungere di nuovo Yakub. Tuttavia un
movimento inatteso tra gli uomini là sotto lo costrinse a fermarsi ancora e
a mettere rapidamente a fuoco il binocolo. Due aggagir erano tornati di
corsa al solo cammello che li accompagnava, l'avevano fatto inginocchiare
e poi avevano sciolto delle funi e tolto dalla schiena dell'animale parte
dell'equipaggiamento. Uno degli arabi si era accovacciato a gambe
incrociate con quella che gli sembrava una tavoletta da scrittura sul ventre,
e annotava qualcosa con grande diligenza e concentrazione.
L'altro uomo aveva tirato giù dal carico del cammello una piccola cesta e
tolto il cappuccio di cotone che la proteggeva. Aperta una piccola botola
sul coperchio, si mise a frugare dentro con tutte e due le mani. Penrod si
sentì quasi mancare quando vide che una testolina come di un uccello si
muoveva avanti e indietro e cercava di sgusciare tra le dita dell'uomo.
Quello che scriveva mise giù la penna, ripiegò attentamente il messaggio
e si alzò. L'altro uomo gli porse la creatura che teneva in mano, e per un
momento parvero entrambi indaffarati.
Poi il primo si tirò in disparte con un cenno di approvazione mentre
l'altro con entrambe le mani lanciò l'elegante piccione grigio alto nel cielo.
L'uccello partì in volo, le ali che battevano morbide mentre si alzava
sempre più in alto sopra il fiume. Gli arabi si erano fermati tutti a
guardarlo, gli occhi rivolti al cielo, e le loro grida di incoraggiamento
giungevano sia pure debolmente a Penrod anche a quella distanza.
«Vola, piccolo mio, sulle ali degli angeli di Dio!»
«Vai veloce, in seno al santo Mahdi!»
Il piccione era salito sempre più in alto, e poi aveva descritto una serie di
ampi cerchi nel cielo, un puntino contro l'azzurro, finché da ultimo, trovato
l'orientamento, aveva preso una linea retta, rapida, che correva a sud
tagliando l'ansa del fiume verso la città derviscia di Omdurman.
Penrod lo osservò che volava lontano, desiderando di scorgere la
silhouette slanciata di uno dei falchi sacri del deserto che lo sovrastasse e
incominciasse la picchiata mortale, ma nessun predatore apparve e il
piccione sparì alla vista.
Penrod rifece lo stesso percorso scendendo di corsa dalla collina e saltò
in sella al cammello. Volse il capo della bestia a sud, nella stessa direzione
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che aveva preso il piccione, e la spronò a un'andatura che potesse
mantenere per cinquanta miglia senza riposare. Ma il piccione avrebbe
raggiunto Omdurman prima di notte, mentre lui e Yakub dovevano ancora
percorrere duecentocinquanta miglia a dorso di cammello. Sapeva ora
quale terribile rischio dovevano ancora affrontare prima di raggiungere
Khartum e comunicare il dispaccio al generale Gordon.
Osman Atalan marciava nell'orda di fedeli verso la grande moschea di
Omdurman. Sopra la testa, trasportato da due dei suoi aggagir, gli
sventolava il vessillo personale, quello che gli aveva concesso il Mahdi,
istoriato da versi del Corano. Tutto attorno a lui pulsavano i mansur, gli
enormi tamburi di rame, e ai belati e ai ragli degli ombeyya le folle
gridavano lode a Dio, al Mahdi e al suo khalifa. La calura stringeva nella
sua morsa quella massa mobile di umanità, e la polvere sollevata da quei
piedi che pigiavano aleggiava sopra le loro teste. Man mano che si
avvicinavano alle mura esterne della moschea l'eccitazione aumentava
progressivamente: tutti sapevano che quel giorno il Mahdi, la luce
dell'Islam, avrebbe predicato la parola di Dio e del suo Profeta. Gli Ansar
cominciarono a danzare: un tempo si chiamavano dervisci, ma il Mahdi
aveva proibito come degradante l'uso di quel nome.
«Il Santo Profeta mi ha parlato in diverse occasioni e mi ha detto che
chiunque chiama dervisci i miei seguaci dovrà essere battuto sette volte
con rovi, e ricevere un flagello di scudisciate. Non ho forse dato un nome
orgoglioso e la promessa del paradiso ai miei fidati guerrieri che hanno
trionfato nella battaglia di El Obeid? Non ho decretato che essi siano noti
come Ansar, miei aiutanti e miei sostenitori? Che siano conosciuti
unicamente come Ansar, e gloria sia a quel nome.»
Gli Ansar danzavano alla luce del sole, piroettando come turbini di
polvere, sempre più veloci, roteando al punto che i piedi non sembravano
quasi toccare il suolo, e le file dei fedeli che si accalcavano attorno a loro
ululavano e gridavano i novantanove splendidi nomi di Allah: «Al-Hakim,
il Saggio. Al-Majid, il Glorioso. Al-Haqq, la Verità...» Uno alla volta i
danzatori, sopraffatti dall'estasi mistica, crollarono a terra con la bava alla
bocca in preda a spasmi, gli occhi rovesciati all'indietro nelle orbite fino a
mostrare il bianco.
Osman oltrepassò le porte della moschea, un recinto quadrato largo
ottocento passi, aperto verso il cielo e circondato da un muro di mattoni di
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fango alto sette metri: la vasta distesa di lato era stipata di schiere
inginocchiate di fedeli con indosso la jibba. All'estremità opposta della
moschea un'apertura era schermata da una fila di Ansar vestiti di nero, i
boia del Mahdi.
Osman avanzò lentamente in quella direzione, facendosi largo fra la
folla. Le schiere di uomini inginocchiati si aprivano al suo passaggio,
declamando le sue lodi, poiché egli era il primo fra tutti i grandi emiri.
Nella prima fila di fedeli i suoi aggagir gli distesero il tappeto per la
preghiera di fine lana colorata e accanto ammucchiarono le sei grandi
zanne che avevano preso durante la caccia nella valle dell'Atbara. Osman
si inginocchiò sul tappeto di fronte alla stretta apertura nella parete, che
conduceva al quartiere privato del Mahdi.
A poco a poco il selvaggio frastuono dei fedeli si ridusse a un brusio e
infine a un silenzio carico di aspettative, fino a quando non lo squarciò un
sonante squillo di ombeyya e al di là della soglia apparve una breve
processione, con i tre khalifa in testa. Nominando questi uomini come suoi
successori il Mahdi aveva semplicemente seguito il precedente posto dal
primo profeta Maometto.
Di khalifa avrebbe dovuto essercene anche un quarto, al-Senussi,
signore di Cirenaica. Costui aveva inviato un emissario in Sudan perché gli
riportasse informazioni su quest'uomo che sosteneva di essere il Mahdi, e
l'emissario era giunto quando il saccheggio della città di El Obeid era nel
suo pieno: aveva assistito pieno di orrore al massacro, alla razzia, alle
torture, ai bambini fatti a pezzi dagli Ansar. Non era rimasto per incontrare
il Mahdi ed era fuggito davanti a quella carneficina per riferire al proprio
signore gli atti disumani di cui era stato testimone.
«Questo mostro non può essere il vero Mahdi», al-Senussi aveva deciso.
«Non voglio commercio con lui.»
Così vi erano soltanto tre khalifa, e Abdullahi era il primo: al suo
confronto gli altri due non avevano alcuna importanza. Abdullahi li guidò
alle stuoie distese per loro sulla predella che era stata innalzata. Quando
ebbero preso posto vi fu un'altra pausa carica di attesa.
L'ombeyya squillò un'altra volta e il portatore di spada del Mahdi entrò
dalla porta, portando davanti a sé l'insegna del suo potere temporale, una
spada dalla lama straordinariamente lunga e lucente. L'elsa e la guardia
d'oro erano decorate di gioielli a forma di stelle e mezzelune e l'acciaio era
intarsiato d'oro con l'aquila a due teste del Sacro Romano Impero sotto cui
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vi era l'iscrizione Vivat Carolus: una reliquia non islamica che un tempo
doveva essere appartenuta a un crociato cristiano, un cimelio tramandato
nei secoli fino a diventare la spada del Mahdi. E dietro il portatore di spada
incedeva il profeta di Dio in persona.
Il Mahdi indossava una jibba di immacolata pulizia, decorata con toppe
splendide. In testa portava un elmo d'oro con guanciali di maglia a catena,
appartenuto forse a uno dei saraceni di Saladino. Iniziò ad avanzare
lentamente e pieno di dignità in mezzo alle file della congregazione dei
fedeli inginocchiati che si aprivano al suo passaggio; sceicchi, guerrieri,
sacerdoti ed emiri strisciavano verso di lui per baciargli i piedi e offrirgli
doni.
Protendevano verso di lui le mani ricolme di perle e di gioielli d'oro, di
pietre preziose e di argenti riccamente cesellati, deponevano ai suoi piedi
pezze di seta e ricami di oro puro e il Mahdi sorrideva con il suo angelico
sorriso e sfiorava le loro teste in accettazione di ogni dono. E mentre gli
Ansar lo seguivano e raccoglievano le offerte, il Mahdi predicava.
«Allah mi ha parlato numerose volte, e mi ha detto che vi è proibito
indossare abiti sontuosi e gioielli, poiché questa è vanagloria e orgoglio.
Dovrete vestire la sola jibba, che vi contrassegna come coloro che amano
il Profeta e il Mahdi. Pertanto è giusto e saggio che consegniate a me
questi orpelli e cianfrusaglie.»
Chi era abbastanza vicino da udire le parole le ripeteva gridandole a gran
voce perché tutti potessero sentire e conoscere la saggezza del Mahdi, e
altri più in là le ripetevano a propria volta, in maniera che alla fine esse
erano state gridate fino ai più lontani recessi della vasta recinzione e i
fedeli lodavano Dio perché aveva loro consentito di udire simili parole di
saggezza.
Sollevavano verso di lui bisacce di cuoio piene di monete d'oro e
d'argento e le rovesciavano ai suoi piedi, ammucchiando luccicanti talleri
di Maria Teresa, mohur d'oro e sovrane inglesi, la moneta d'Oriente e
d'Occidente. Osman Atalan avanzò lentamente verso di lui schiacciato
sotto il peso della più grande delle sei zanne, seguito dai suoi aggagir che
recavano doni simili. Il Mahdi sorrise a Osman e si chinò per abbracciarlo.
E la concessione di tanto favore provocò un mormorio di meraviglia fra
gli astanti.
«Sapete che queste ricchezze non possono acquistarvi un posto in
paradiso. Se un uomo trattiene per sé i suoi tesori e non me li porta
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liberamente e di sua volontà, Allah lo brucerà con il fuoco e la terra lo
inghiottirà. Pentitevi e obbedite alle mie parole. Restituite a me tutto
quello che avete preso per voi stessi. Il Profeta, gli sia resa grazia, mi ha
detto molte volte che l'uomo che ancora conserva i resti del bottino fra i
suoi possedimenti sarà distrutto. Credete alla parola rivelata del Profeta.»
I fedeli gridarono di nuovo di gioia all'udire la parola del Signore e del
suo Profeta e del Divino Mahdi, e aprendosi il varco a spintoni avanzarono
per consegnare i propri tesori.
Una volta terminato il giro della moschea, il Mahdi ritornò alla predella
e prese posto sul proprio tappeto da preghiera di seta; uno alla volta i tre
khalifa si inginocchiarono davanti a lui offrendo i loro doni. Uno batté le
mani e i suoi stallieri condussero uno stallone nero che luccicava sotto il
sole come ossidiana lavata: la sella era di ebano intarsiato, le briglie e le
redini di pizzo d'oro, con nappe fatte con piume di marabù e di aquila.
Il secondo khalifa gli offrì un regale letto angareb la cui intelaiatura era
abilmente scolpita in avorio e intarsiata d'oro.
Abdullahi era il khalifa che conosceva il padrone meglio di tutti: al
Divino Mahdi offrì una donna, ma non una donna qualsiasi. La condusse
nel recinto egli stesso. Era avvolta in un mantello dalla testa alle caviglie,
ma sotto la seta il suo profilo era aggraziato come quello di una gazzella, e
i suoi piedi nudi erano delicati ed eleganti. Il khalifa aprì il mantello sul
davanti, ma lo tenne in maniera da sottrarne la vista a tutti gli occhi tranne
a quelli del Mahdi: la donna era nuda sotto il mantello.
Il Mahdi si appoggiò su un gomito per guardarla. Era un'affascinante
figlia quattordicenne dei Galla, con gli occhi neri come pozze di petrolio e
la pelle levigata come burro. Si muoveva come una cerbiatta al risveglio. I
suoi seni erano infantili e piccoli, ma avevano la forma di fichi maturi, e
ogni pelo le era stato strappato dal sesso, in maniera tale che le punte rosee
delle piccole labbra, spuntando dalla piccola fessura rigonfia,
occhieggiavano timide verso di lui. Questo ne sottolineava ancor di più la
tenera età. Il Mahdi le sorrise, e lei chinò la testa, coprendosi la bocca con
una minuscola mano, e rise intimidita. Il khalifa Abdullahi richiuse il
mantello e il Mahdi fece un cenno di assenso con il capo. «Portatela al mio
alloggio.»
Poi si alzò, allargò le braccia e ricominciò a parlare.
«Il Profeta mi ha detto molte volte che i miei Ansar sono uomini scelti e
benedetti. Pertanto egli vi ha proibito di fumare e di masticare tabacco.
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Non berrete alcol. Non suonerete alcuno strumento musicale a eccezione
del mansur e dell'ombeyya. Non danzerete, se non per rendere lode a Dio e
al suo Profeta. Non fornicherete e non commetterete adulterio. Non
ruberete. Osservate il fato di coloro che disobbediscono alle mie leggi.»
Batté le mani e dalla porta secondaria i suoi boia introdussero un uomo
anziano. Era scalzo e indossava soltanto un perizoma, gli era stato
strappato il turbante, e i capelli non lavati erano di un colore bianco
sudicio. L'uomo, che aveva una corda attorno al collo, appariva confuso e
impotente. Una volta che fu in piedi davanti alla pedana, uno degli
aguzzini gli diede uno strattone e lo gettò a terra, poi altri quattro lo
circondarono con le fruste pronte.
«Quest'uomo è stato visto fumare tabacco. Dovrà subire cento colpi di
curbascio.»
«Nel nome di Dio e del suo Mahdi Vittorioso!» recitò in coro la
congregazione, mentre i boia iniziavano a colpirlo insieme.
La prima frustata scavò una piaga rossa di traverso alla schiena
dell'uomo, e la seconda fece sgorgare il sangue. La vittima si contorceva e
gemeva sotto gli altri colpi che calarono in rapida successione: alla fine
non si muoveva più e lo trascinarono fuori dal cancello da cui era entrato,
mentre la polvere dietro di lui restava bagnata di sangue.
Il secondo criminale venne condotto dentro legato a una corda, sotto lo
sguardo benigno e mite del Mahdi. «Quest'uomo ha rubato i remi dal dau
del suo vicino. Il Profeta ha decretato che gli vengano mozzati una mano e
un piede.»
Il boia che gli stava alle spalle vibrò con forza lo spadone verso il basso,
recidendo il piede destro all'altezza della caviglia. L'uomo crollò a terra
nella polvere e mentre protendeva una mano per ripararsi, il boia vi salì
sopra per inchiodarla a terra, poi vibrò un colpo che recise l'osso del polso.
Con rapidità e destrezza cauterizzarono i moncherini immergendoli in un
piccolo vaso di pece bollente preso dal braciere, poi legarono al collo
dell'uomo la mano e il piede mozzati e lo trascinarono all'esterno
attraverso la porta secondaria.
«Sia lode alla giustizia e alla misericordia del Mahdi», gridarono i fedeli.
«Dio è grande e non c'è nessun Dio all'infuori di Allah.»
Osman Atalan osservava dal proprio posto in prima fila nella moschea.
La saggezza e la capacità di intuire del Mahdi gli sembravano stupefacenti:
capiva d'istinto che i nuovi comandamenti religiosi non si ottenevano
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concedendo i piaceri del lusso, ma imponendo l'austerità morale e la
devozione alla parola di Dio. Nessun uomo che fosse testimone di come
questo profeta governava poteva dubitare che egli esercitasse l'autorità di
Dio.
Il Mahdi parlò di nuovo: «Il mio cuore è pesante come una pietra per il
dolore, perché in mezzo a noi vi è una coppia, un uomo e una donna,
sorpresi nell'adulterio».
La congrega si infiammò d'ira. «Devono morire! Devono morire!»
gridarono i fedeli agitando la mano sopra la testa.
Per prima condussero la donna. Era poco più di una bambina, una
figuretta derelitta dalle braccia e dalle gambe ossute. I capelli le erano
scesi in un groviglio sul volto e sulle spalle e gemeva da fare compassione
mentre la legavano per le braccia e le gambe al palo di fronte alla pedana.
Poi fecero entrare l'uomo. Era anch'egli giovane, però alto e orgoglioso.
«Abbi coraggio, amore mio», gridò alla donna. «Andremo insieme in un
luogo migliore di questo.»
Nonostante avesse una corda attorno al collo l'uomo cercò di avanzare
verso l'estremità della pedana come se volesse rivolgersi al Divino Mahdi,
ma il boia gli diede uno strattone. «Non avvicinarti, bestia immonda, che il
tuo sangue non possa insozzare le vesti del Vittorioso.»
«Il castigo per l'adulterio è che l'uomo subisca la decapitazione»,
dichiarò il Mahdi e le sue parole vennero ripetute e gridate da un capo
all'altro del vasto recinto. Il boia avanzò alle spalle della vittima e la toccò
dietro il collo con la lama della spada per segnare il bersaglio, poi prese lo
slancio e colpì, e la lama sibilò dolcemente nell'aria. La giovane legata al
palo gridò di disperazione mentre la testa del suo amante pareva spiccar
via dalle spalle: l'uomo rimase in piedi ancora un istante, mentre uno
schizzo vermiglio sprizzava nell'aria e gli ricadeva sul torso. Il Mahdi,
infastidito, indietreggiò, ma una goccia di sangue arrivò a colpire la gonna
bianca della sua jibba. Il corpo cadde in un groviglio disordinato di
membra e la testa rotolò ai piedi della pedana, sotto gli occhi della giovane
donna che, gemendo, si dibatteva fra i lacci per raggiungere l'amato.
«Il castigo per la donna sorpresa a commettere adulterio è la
lapidazione», dichiarò il Mahdi.
Il khalifa Abdullahi si alzò dal cuscino e andò dalla ragazza legata al
palo: con un gesto sorprendentemente tenero le tolse i capelli dal viso e
glieli legò dietro la testa, così che i fedeli potessero vedere la sua
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espressione mentre moriva. Poi ritornò al cumulo di pietre sistemate lì
accanto, ne scelse una che si adattava alla sua mano e si girò di nuovo di
fronte alla donna-bambina. «Nel nome di Allah e del Divino Mahdi, che
possano avere pietà della tua anima.»
Scagliò la pietra con la forza e la velocità di un soldato avvezzo alla
lancia, e colpì la giovane nell'occhio. Da dove era seduto, Osman Atalan
poté udire il bordo dell'orbita che si spaccava: l'occhio saltò fuori e le
penzolò sulla guancia attaccato al filamento del nervo, come un frutto
osceno.
Uno dopo l'altro i khalifa, gli emiri e gli sceicchi si fecero avanti,
presero una pietra dalla pila e la lanciarono: quando venne il turno di
Osman Atalan, la parte anteriore del cranio della giovane era sfondata e lei
ciondolava inerte legata alle funi che la tenevano. La pietra di Osman la
colpì alla spalla, ma lei non si mosse. Mentre il Mahdi finiva il proprio
sermone, la lasciarono là a penzolare.
«Il Profeta, che la vita e la grazia eterna siano su di lui, mi ha detto in
molte occasioni che chiunque dubiti che io sia il vero Mahdi è un apostata.
Colui che si oppone a me è un rinnegato e un infedele. Colui che mi
combatte perirà in questa vita e sarà distrutto e annientato nell'altro mondo.
Le sue proprietà e i suoi figli diventeranno proprietà dell'Islam. La mia
guerra contro i turchi e gli infedeli è per ordine del Profeta. Lui mi ha fatto
partecipe di molti terribili segreti e il più grande fra questi è che tutti i
paesi dei turchi, dei franchi e degli infedeli che mi sfidano e che sfidano la
parola di Allah e del suo Profeta saranno assoggettati dalla santa religione
e dalla santa legge. Essi diverranno come polvere e pulci e creature
meschine che strisciano nell'oscurità della notte.»
Quando Osman Atalan ritornò alla propria tenda, nel boschetto di palme
lungo le acque del fiume Nilo, e guardò al di là di queste verso la fortezza
degli infedeli, si sentì esausto nella carne come dopo una durissima
battaglia, eppure trionfante nello spirito come se la vittoria gli fosse stata
concessa da Allah e dal Divino Mahdi. Si sedette sul prezioso tappeto di
seta di Samarcanda e le sue mogli gli portarono una zucca scavata piena di
latte acido. Dopo che ebbe bevuto, la moglie principale gli sussurrò
nell'orecchio: «C'è un uomo che ti aspetta, mio signore».
«Che venga da me», rispose Osman. La persona che venne era un
vecchio, ma dalle membra dritte e con gli occhi accesi di un giovane.
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«Eccoti, maestro dei piccioni», lo salutò Osman, «e che la grazia di Allah
possa essere con te.»
«Ti saluto, potente emiro, e prego il Profeta di tenerti accanto al suo
cuore.» Così dicendo gli tese il piccione grigio che si premeva
delicatamente al petto.
Osman prese l'uccello, lo accarezzò sulla testa e questo si mise a tubare
piano, mentre egli slacciava il filo di seta che gli teneva legato alla zampa
rossa e squamosa un minuscolo rotolo di carta di riso. Poi si distese il
rotolo contro la coscia, e mentre lo leggeva e incominciava a sorridere
tutta la stanchezza gli abbandonò le membra: con cautela lesse di nuovo
l'ultima riga del minuscolo testo del messaggio.
«'Gli ho veduto il volto alla luce delle stelle. In verità è proprio quel
franco che è sfuggito alla tua ira sul campo di battaglia a El Obeid. Quello
conosciuto con il nome di Abadan Riji.'»
«Chiamate i miei aggagir e sellate Acqua Dolce. Partiamo per il nord. Il
mio nemico è giunto.» Tutti si affrettarono a eseguire i suoi ordini.
«Per grazia di Dio non dovremo frugare il deserto di Monassir in lungo e
in largo», disse rivolto a Hassan Ben Nader e ad al-Noor, in piedi fuori
della tenda insieme a lui mentre aspettavano che gli stallieri conducessero
loro i cavalli. «Sappiamo dove e quando ha attraversato l'ansa del fiume, e
non vi è che un luogo dove può essersi diretto.»
«Ci sono duecentocinquanta miglia fra il punto in cui ha attraversato e
quello dove intende raggiungere il fiume qui davanti a Khartum», osservò
al-Noor.
«Sappiamo che è un guerriero valoroso, perché tutti lo abbiamo veduto
ad El Obeid. Viaggerà veloce», continuò Ben Nader. «Sfiancherà a morte i
cammelli.»
Osman fece un cenno di assenso. Sapeva a che genere d'uomo stava
dando la caccia e Hassan aveva ragione, non si sarebbe fatto scrupolo di
ammazzare i cammelli di fatica. «Tre giorni, quattro al massimo, e finirà
nella nostra rete come un pesciolino.» Lo stalliere gli portò Acqua Dolce,
che nitrì riconoscendo Osman. L'emiro le accarezzò la testa e le diede una
ciambella di dhurra da masticare mentre le controllava briglia e
sottopancia. «Si terrà ben lontano dalla riva del fiume fino a che non sarà
pronto ad attraversare», pensava Osman ad alta voce, concentrato
sull'inseguimento. «Attraverserà a sud di Omdurman oppure a nord?»
continuò a rimuginare mentre tornava ad accarezzare la testa alla cavalla.
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Precedendo i compagni, si rispose da solo: «Non attraverserà a nord,
altrimenti appena entrato in acqua la corrente lo respingerebbe indietro,
allontanandolo dalla città. Attraverserà a sud, di sicuro, per farsi
trasportare verso Khartum dalla corrente del Bahr El Abiad». Era questo il
nome arabo del Nilo Bianco.
Un uomo tossì strascicando i piedi nella polvere. Osman gli lanciò
un'occhiata: solo uno dei suoi aggagir poteva osare contraddire le sue
parole. Si voltò pertanto verso il più fidato dei suoi. «Parla, al-Noor. Che
la tua saggezza ci delizi come il canto di un celeste cherubino.»
«Mi viene da pensare che questo franco è scaltro come uno sciacallo del
deserto. Può essere che ragioni come hai fatto tu adesso e, sapendo quello
che pensi, decida di fare il contrario. Potrebbe decidere di attraversare
molto a nord, per poi fare il giro largo verso le montagne e attraversare il
Bahr El Abiad piuttosto che il Bahr El Azrek.»
Osman scrollò il capo. «Come hai detto tu, non è uno sciocco e conosce
bene le insidie del territorio. E sa altrettanto bene che i pericoli non
vengono dal deserto, ma dai fiumi dove le nostre tribù si concentrano.
Credi che sceglierà di attraversare due fiumi anziché uno solo? No,
attraverserà il Bahr El Abiad a sud della città. Ed è lì che noi lo
aspetteremo.»
Si issò sulla sella con agilità, imitato dai suoi aggagir. «Andremo a
sud.»
Cavalcarono nella frescura della sera, mentre un lungo velo di polvere
rossa si dipanava dietro di loro: Osman Atalan era in testa, in groppa ad
Acqua Dolce che allungava il passo in un fluido galoppo, e dopo poche
miglia frenò la cavalla sollevandosi sulle staffe per scrutare il terreno
davanti a sé. Le cime delle palme che contrassegnavano il corso del fiume
si vedevano appena alla loro sinistra, ma a destra si apriva l'ampia distesa
vuota del Monassir, che dopo duemila miglia avrebbe lasciato posto alle
infinite vastità desolate del Sahara.
Osman balzò di sella e si acquattò accanto alla testa del cavallo. Subito i
suoi aggagir fecero altrettanto. «Abadan Riji compirà un largo cerchio a
ovest per tenersi bene alla larga dal fiume fino a che non sarà pronto per
attraversare. A quel punto uscirà dal deserto e cercherà di infilarsi
attraverso le nostre linee, di notte. E noi tenderemo la nostra rete in questo
modo.» Disegnò sulla polvere le linee dei suoi picchetti, mentre i
compagni guardavano e mostravano di avere compreso assentendo con il
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2005 - Il Trionfo Del Sole
capo. «Al-Noor, tu prenderai i tuoi uomini e andrai di qui. Tu, Hassan Ben
Nader, andrai di là, e io sarò qui nel centro.»
Penrod faceva marciare i cammelli a un ritmo che neppure il più
gagliardo fra gli uomini o gli animali poteva reggere a lungo: coprivano la
distanza alla velocità di otto miglia all'ora, mantenendola per diciotto ore
di fila senza riposo, ma questo spinse al limite anche la loro capacità di
resistenza e, quando decise di fare la prima sosta, oltre ai cammelli anche
tutti e due gli uomini erano esausti. Riposarono quattro ore del suo
orologio da taschino, ma quando cercarono di svegliare i cammelli per
ripartire, il più vecchio e debole rifiutò di alzarsi in piedi. Penrod gli sparò
un colpo lì dove si trovava, poi distribuirono fra gli altri l'acqua trasportata
dal cammello morto, montarono in groppa e ripartirono alla medesima
andatura di prima.
Alla fine delle successive diciotto ore di marcia, Penrod calcolò che
mancavano all'incirca altre novanta o cento miglia prima di raggiungere il
Nilo a sud di Khartum, e anche Yakub fu d'accordo con la stima, benché
l'avesse calcolata in base a criteri differenti. Ormai si erano messi alle
spalle il grosso del viaggio, ma a caro prezzo. Dopo trentasei ore di marcia
forzata e solo quattro ore di riposo, quando cercarono di dar da mangiare ai
cammelli gli animali rifiutarono la propria magra razione di dhurra.
Una volta che i sei animali furono accovacciati, Penrod andò a
controllare gli otri uno per uno, sollevandoli per valutare il contenuto
rimasto. Poi rifletté sull'equazione di pesi e distanze e lo stato in cui
ciascun animale si trovava, e decise di correre deliberatamente un azzardo.
Lo spiegò a Yakub, che sospirò, si sfregò il naso e sollevò le gonne della
galabiyya per grattarsi, tutte espressioni della sua perplessità. Ma alla fine,
mesto, fece cenno che sì, poteva andare, non osando dare voce alla sua
approvazione.
Scelsero i due cammelli più forti e li allontanarono dalla vista degli altri
quattro più deboli, poi li abbeverarono dagli otri versando l'acqua dolce in
secchi di cuoio: la sete degli animali pareva inestinguibile, e risucchiarono
un secchio d'acqua dopo l'altro, bevendo più di cento litri ciascuno. Il
cambiamento nelle loro condizioni fu repentino: li fecero riposare per
un'altra ora, poi diedero loro da mangiare tutte le razioni di dhurra che gli
altri avevano rifiutato e che le due bestie prescelte divorarono
ghiottamente, ritornando di nuovo forti e vigili, con una capacità di
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recupero che non smetteva mai di meravigliare Penrod.
Allo scadere delle quattro ore di riposo riportarono i due cammelli dove
gli altri quattro compagni stavano coricati, sfiniti, in preda all'apatia: li
obbligarono a tirarsi in piedi e iniziarono la fase successiva del viaggio con
i due animali rifocillati che non trasportavano nulla all'infuori delle loro
selle, mentre i quattro si dividevano tutta l'acqua e l'equipaggiamento che
restavano oltre ai due cavalieri. Due bestie crollarono dopo altre tre ore
infernali, e Penrod le finì con la pistola. Dalle ghirbe lui e Yakub bevvero
quanta acqua il loro ventre poteva contenere e poi distribuirono il resto fra
i due animali più forti.
Ripresero allo stesso passo, ma nel giro delle successive dieci miglia le
restanti bestie deboli crollarono in rapida successione: a metà della risalita
più ripida di una bassa duna uno cadde come se un colpo di pistola gli
avesse trapassato il cervello, e mezz'ora più tardi l'altro lanciò un grugnito
mentre le zampe posteriori cedevano. Si inginocchiò per morire,
richiudendo le spesse ciglia doppie sopra gli occhi annacquati. Penrod gli
si mise sopra con la Webley in pugno. «Grazie, vecchia signorina. Spero
che il tuo prossimo viaggio sia meno arduo.» E pose fine alle sue
sofferenze.
Penrod e Yakub consentirono ai cammelli superstiti di bere tutta l'acqua
che potevano ingurgitare e poi bevvero anch'essi, caricando di nuovo quel
che restava. I due cammelli erano forti, e volonterosi; Yakub, al loro
fianco, studiò il terreno che li aspettava, il profilo delle dune e la forma
delle colline in lontananza. «Otto ore da qui al fiume», giudicò.
«Se la mia schiena resiste così a lungo», si lamentò Penrod rimettendosi
in sella. Il corpo gli doleva fino all'ultimo muscolo e all'ultimo nervo, e si
sentiva i bulbi degli occhi escoriati e irritati dalla sabbia e dal riverbero del
sole. Si abbandonò al ritmo dell'andatura della bestia che aveva sotto di sé,
con le gambe penzoloni che ondeggiavano a tempo, facendolo oscillare e
rullare sulla sella. Il paesaggio desolato passava sotto i loro occhi e le dune
e le spoglie colline erano talmente monotone, tutte uguali le une alle altre,
che in certi momenti gli pareva di non avanzare affatto ma di ripetere lo
stesso giro all'infinito.
Aggrappato alla sella, Penrod sprofondò in un sonno pesante come
piombo e finì per scivolare di lato e quasi per cadere, ma Yakub gli si
affiancò per svegliarlo con uno scossone. Penrod alzò la testa con
espressione colpevole, e controllò l'altezza a cui si trovava il sole:
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cavalcavano soltanto da due ore.
«Ne abbiamo altre sei», osservò in preda alle vertigini, consapevole che
da un momento all'altro il sonno lo avrebbe colto di nuovo: allora si lasciò
scivolare a terra e si mise a correre a fianco del cammello fino a che il
sudore non gli fece bruciare gli occhi. A quel punto rimontò in sella e
seguì Yakub in mezzo al deserto abbacinante, ma dovette smontare e
mettersi a correre altre due volte per rimanere sveglio. Alla fine sentì che
l'animale sotto di lui aveva cambiato ritmo. «Hanno fiutato il fiume», gridò
in quell'istante Yakub.
Penrod gli si affiancò con il suo cammello. «Quanto dista?»
«Un'ora, forse poco più, prima che si possa prendere a est e indirizzarci
direttamente verso la riva senza correre rischi.»
L'ora passò lentamente, anche se l'andatura dei cammelli proseguì a
ritmo costante fino a che non videro spuntare dalla foschia di calore
un'altra cresta di scisto azzurrognolo che, sebbene a Penrod apparisse del
tutto simile a centinaia di altre già oltrepassate da quando avevano
attraversato l'ansa, risvegliò tuttavia l'interesse di Yakub. Indicandola,
scoppiò a ridere: «Quel posto io lo conosco!» Fece girare la testa al suo
cammello e la bestia accelerò il passo. Il sole era a metà strada verso
l'orizzonte occidentale e le loro ombre si allungavano in avanti sulla terra
arida.
Quando furono sulla sommità della cresta, Penrod si guardò avidamente
intorno alla ricerca di uno sprazzo di verde, ma la distesa desertica era
inesorabilmente uguale a prima. Yakub invece non pareva abbattuto, e
mentre i cammelli correvano per la pianura scuoteva i riccioli flosci
nell'aria calda.
Davanti a loro un'altra bassa cresta di scisto sembrava innalzarsi non più
su di una testa rispetto al terreno piatto: Yakub brandì il pungolo e lanciò
un'occhiata diabolica a Penrod, guardandolo di traverso. «Riponi la tua
fiducia in Yakub, il signore delle sabbie. Il coraggioso Yakub vede la terra
come un avvoltoio dall'alto. Il saggio Yakub conosce i luoghi segreti e i
sentieri nascosti.»
«Se si sbaglia, il coraggioso Yakub avrà bisogno di un collo nuovo,
perché io gli spezzerò quello su cui tiene in equilibrio il suo cranio di
zuccone», lo rimbeccò Penrod.
Yakub ridacchiò e spinse la propria cavalcatura in un goffo galoppo;
raggiunse la cima della cresta precedendo Penrod di una cinquantina di
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2005 - Il Trionfo Del Sole
passi, si fermò e indicò avanti a sé con gesto teatrale.
All'orizzonte videro una lunga fila di palme che attraversava il
panorama, anche se era difficile giudicarne la distanza in quella luce piatta
e incerta. I ciuffi delle fronde delle palme sulla sommità del lungo tronco
ricordavano a Penrod le acconciature elaborate dei guerrieri hadendowa. In
base alla sua stima, il primo boschetto era a meno di due miglia.
«Fai abbassare i cammelli», ordinò balzando a terra. Era sorpreso di
sentirsi forte e reattivo: gli era bastato scorgere il Nilo per scrollarsi di
dosso la stanchezza del viaggio. Portarono i cammelli dietro la cresta e li
fecero accovacciare per nasconderli alla vista dalla pianura fluviale.
«In che direzione si trova Khartum?» chiese Penrod.
Senza la minima esitazione, Yakub indicò alla sua sinistra. «Si vede il
fumo dei fuochi da cucina di Omdurman.»
Era talmente debole all'orizzonte che Penrod lo aveva scambiato per
polvere o foschia, ma adesso si rendeva conto che Yakub aveva ragione.
«E così siamo almeno cinque miglia a monte di Khartum», osservò.
Avevano raggiunto la posizione esatta che aveva in mente.
Avanzò con cautela e si acquattò sull'altura con il binocolo.
Capì subito che aveva sopravvalutato la distanza da lì alla riva del fiume,
e che probabilmente era di circa un miglio, e non di due. La pianura del
fiume non offriva copertura, piatta e informe com'era: sotto le palme
pareva vi fosse una qualche coltivazione, perché si poteva distinguere una
linea di un verde più scuro al di sotto delle fronde scompigliate. «Campi di
dhurra, probabilmente, ma nessuna traccia di villaggi», borbottò.
Controllò di nuovo l'altezza del sole: mancavano due ore al calar della
notte. Meglio correre al fiume prima del tramonto, oppure aspettare il
buio? Sentiva montare dentro di sé l'impazienza, ma riuscì a tenerla sotto
controllo. Mentre vagliava il da farsi non staccò gli occhi dal binocolo: la
riva del fiume poteva essere al di là dei primi alberi del boschetto, oppure
trovarsi esattamente al limitare.
Un movimento catturò la sua attenzione, e lì concentrò il suo sguardo:
una debole sfumatura di polvere chiara si alzava dalle palme, muovendosi
da sinistra a destra, nella direzione opposta a Omdurman. Forse era una
carovana che seguiva la strada costeggiando la riva del fiume, pensò. Ma
poi si rese conto che si muoveva troppo veloce: gente che cavalcava,
giudicò, su cammelli o in sella a cavalli. All'improvviso la nuvola di
polvere smise di muoversi, restò sospesa nel medesimo punto per qualche
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minuto e poi si depositò, lentamente. Si erano fermati nel boschetto,
esattamente fra lui e la riva del fiume: gli sconosciuti avevano deciso per
lui. Ora Penrod non aveva altra alternativa se non aspettare che calasse il
buio. Ritornò al punto dove Yakub stava seduto con i cammelli. «Uomini a
cavallo sulla riva del fiume. Dovremo aspettare il buio. Poi riusciremo a
sgattaiolare via senza farci scoprire.»
«Quanti?»
«Non ne sono sicuro. Un gruppo ben nutrito. A giudicare dalla polvere,
dovrebbero essere all'incirca una ventina.» Non restava che poca acqua
nelle ghirbe, qualche gallone tutt'al più. Ma con il fiume in vista potevano
permettersi il lusso di scialacquare, e così bevvero a sazietà l'acqua, che a
quel punto si era fatta viscida di alghe verdastre e aveva assunto il sapore
del cuoio mal conciato. Penrod tuttavia la bevve di gusto, e quello che non
riuscirono a consumare lo diedero ai cammelli.
Poi gonfiarono le ghirbe vuote. Un lavoro laborioso: tenevano la ghirba
fra le ginocchia soffiando nel beccuccio e quando prendevano fiato lo
chiudevano appoggiando la mano sull'apertura. Quando tutte le ghirbe
furono piene e ben tese, le tapparono e infine le assicurarono alle groppe
dei cammelli inginocchiati. Tutto era pronto per la traversata del fiume.
Yakub guardò Penrod. «Yakub l'instancabile farà la guardia mentre tu
riposi. Ti sveglierò al calar del sole.»
Penrod aprì la bocca per protestare, ma poi si rese conto che l'offerta era
sensata: ora che l'euforia lo stava abbandonando, Penrod capiva che senza
sonno era quasi al limite delle forze, e sapeva anche che Yakub era
praticamente infaticabile. Perciò gli consegnò il binocolo senza reclamare,
si allungò all'ombra del cammello, si avvolse la testa nella sciarpa e si
addormentò quasi di colpo.
«Effendi.» Yakub lo scrollava per svegliarlo. La sua voce era un rauco
mormorio e con una semplice occhiata Penrod capì che c'erano guai in
vista. L'occhiata strabica di Yakub era orrenda, un occhio fissava il volto
di Penrod, e l'altro roteava errabondo.
Penrod si tirò su a sedere, con la mano destra richiusa sull'impugnatura
della Webley. «Cos'è?»
«Gente a cavallo! Dietro di noi.» Yakub si voltò a indicare nella
direzione che avevano percorso. In lontananza sulla pianura seccata dal
sole un folto gruppo di cavalieri avanzava rapidamente. «Sono sulle nostre
tracce.»
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Penrod gli strappò il binocolo e si mise a guardarli. Indossavano la
jibba. Ne contò nove. Coprivano la distanza al piccolo galoppo e con il
capo si sporgevano dalle selle per scrutare il terreno davanti a sé.
«Ci aspettavano», esclamò Yakub. «E' stato il piccione a metterli
sull'avviso.»
«Sì! Il piccione.» Penrod era balzato in piedi. Diede un'ultima occhiata
all'altezza del sole che si stava accucciando stancamente sulla linea
dell'orizzonte: restava ancora un poco di luce. I cammelli erano pronti a
correre, bramosi d'acqua, e si tirarono in piedi non appena il pungolo li
sfiorò.
Penrod balzò in sella puntando la testa della propria cavalcatura verso la
lontana fila di palme. Servendosi del pungolo, la spinse rumorosamente al
galoppo. Da dietro, in lontananza, udì il sordo tonfo di un colpo di fucile e
una pallottola rimbalzò sul terreno pietroso in una piccola nuvola di
polvere e schegge, ma spostata a sinistra di una cinquantina di metri.
Chi sparava aveva di certo una brutta mira, soprattutto a una distanza
così lunga: ma i dervisci prediligevano la spada e la lancia al fucile e
consideravano l'abilità nell'uso delle armi da fuoco un segno di
effeminatezza e scarsa virilità. Un vero guerriero uccideva con la lama,
corpo a corpo.
Nel giro di pochi secondi i cammelli avevano attraversato il crinale e ora
l'argine di scisto li riparava da un eventuale altro fuoco nemico. Penrod
sapeva che sulla distanza breve i cammelli non sarebbero certo stati
all'altezza di un buon cavallo, e tuttavia spinse avanti il suo con grida di
incitamento, con il pungolo e il movimento brusco del suo corpo. Yakub
era più leggero e la sua cavalcatura gradualmente prese la testa.
Mentre correvano verso il limitare del boschetto di palme Penrod
scrutava davanti a sé alla ricerca di qualche traccia dei cavalieri che aveva
individuato prima, sperando che avessero proseguito la cavalcata verso
Omdurman e lasciato loro sgombra la strada che portava al fiume. Anche i
migliori hanno bisogno di un pizzico di fortuna, pensava, ma poi udì grida
di eccitazione, attutite, alle sue spalle: i nove cavalieri si stavano buttando
giù dalla cresta di scisto che loro avevano appena attraversato. Erano in
fila, ma avanzavano veloci. Seguirono altri colpi, ma non andarono a
segno e man mano che il boschetto di palme si avvicinava Penrod sentì
aumentare la propria sicurezza: la strada che portava alla riva del Nilo era
sgombra.
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«Vieni, Effendi... osserva Yakub e imparerai a cavalcare un cammello.»
Il piccolo Jaalin rise di felicità alla propria battuta di spirito. Entrambi i
loro cammelli erano distesi in pieno galoppo e Penrod era costretto a
schivare i sassolini che schizzavano sotto le zampe del cammello davanti a
lui e gli sibilavano accanto alle orecchie.
All'improvviso però il suono delle armi da fuoco cambiò, facendosi più
secco e più nitido, e la banda di cavalieri che aveva visto prima si precipitò
fuori dal palmeto: di certo si erano fermati a riposare in mezzo agli alberi,
ma ora erano stati messi in allerta dagli spari degli inseguitori. Tutti
indossavano la jibba dei dervisci ed erano armati di lancia, spada, scudo e
fucile: seguivano una traiettoria convergente, costeggiando da destra il
palmeto per tagliarli fuori dal fiume. Penrod strinse gli occhi per giudicare
la loro velocità e la distanza dal punto in cui si sarebbero incrociati.
Ce l'avrebbero fatta, ma di poco, decise. Proprio in quel momento una
pallottola Boxer-Henry calibro 45 prese il cammello di Yakub in testa
uccidendolo sul colpo. L'animale crollò sul naso e rotolò in avanti, con le
lunghe zampe che gli superavano la testa. Yakub venne sbalzato in alto e
poi ricadde pesantemente al suolo.
Di certo era morto o svenuto, Penrod lo sapeva. Non osava fermarsi per
soccorrerlo. I messaggi di Baring erano più importanti della vita di un
singolo uomo, eppure lo angosciava l'idea di lasciare Yakub in balia dei
dervisci: sapeva che lo avrebbero dato alle loro donne, per trastullarsi. Una
donna hadendowa sapeva castrare un uomo e scorticare ogni centimetro di
pelle del suo corpo senza fargli perdere conoscenza, costringendolo a
sopportare ogni sofisticato taglio inflitto dalla lama. «Yakub!» gridò a gran
voce, senza sperare troppo in una risposta. Con sua grande meraviglia,
tuttavia, Yakub si tirò in piedi tremante, guardandosi attorno frastornato.
«Yakub! Stai pronto.» Penrod si sporse dalla sella, di lato, e Yakub si
girò e si mise a correre nella medesima direzione, per attutire l'urto al
momento dell'incontro: un trucco in cui si erano esercitati molte volte, in
previsione appunto di un frangente simile sul campo di battaglia o durante
una battuta di caccia. Yakub guardava dietro di sé per giudicare quando
fosse il momento buono, e allorché il cammello gli passò di fianco allungò
le braccia e le agganciò a quelle di Penrod: si sentì di colpo sollevare da
terra, ma Penrod sfruttò lo slancio per farlo roteare dietro di sé, sulla
groppa del cammello.
Yakub lo afferrò attorno alla cintola e gli si appiccicò come una zecca a
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un cane. Il cammello continuava a correre senza freni, e nel momento in
cui Penrod fu sicuro che Yakub era ben saldo, si girò sulla sella e vide che
il derviscio più vicino a loro si trovava a soli duecento metri dal loro
fianco destro: cavalcava una splendida creatura color panna dalla fluente
criniera d'oro e, sebbene indossasse il turbante verde degli emiri, non era
un uomo attempato ma un guerriero nel fiore degli anni, che si muoveva
minaccioso come una lancia in agguato, sottile, flessibile e mortale.
«Abadan Riji!» Con sua estrema sorpresa, l'emiro lo aveva chiamato per
nome. «È da El Obeid che aspettavo che tornassi in Sudan.»
Allora Penrod si ricordò di lui: un viso e una figura difficili da
dimenticare. Quello era Osman Atalan, emiro dei Beja.
«Pensavo di averti ucciso là», gli gridò Penrod. L'emiro lo aveva
inseguito mentre egli trasportava Adams, ferito, via dal quadrato ormai
infranto, proprio mentre la carica dei dervisci si faceva travolgente. Osman
allora era su un altro cavallo, non in sella alla magnifica bestia di adesso,
mentre Penrod montava un grosso, robusto castrone; e sebbene avesse
anche il peso di Adams, Osman ci aveva messo un buon mezzo miglio
prima di raggiungerlo. Poi avevano cavalcato staffa contro staffa e spalla a
spalla, come volessero spintonarsi l'uno con l'altro via dalla palla in un
incontro di polo, Osman che menava colpi e fendenti con la grande lama
color dell'argento, e Penrod che rispondeva parandoli e arrestandoli, fino a
che non era venuto il suo momento: allora aveva finto un colpo diretto agli
occhi di Osman, il derviscio aveva sollevato di scatto lo scudo per bloccare
la punta, e Penrod aveva abbassato la mira e spinto la lama con forza sotto
il bordo inferiore dello scudo. Aveva sentito l'acciaio andare bene in
fondo; Osman poi era barcollato indietro sulla sella e il suo cavallo aveva
scartato di fianco, interrompendo così la prova di forza.
E quando si era voltato a guardare indietro da sotto il braccio, mentre
portava in salvo Adams, Penrod aveva visto che l'animale di Osman
rallentava la corsa e camminava, e che il suo cavaliere penzolava
all'indietro. Aveva quindi ritenuto di avergli inferto una ferita mortale.
Ma evidentemente le cose non erano andate così, perché ora Osman
gridava: «Giuro sul mio amore per il Profeta che oggi ti darò un'altra
opportunità di uccidermi!»
I suoi uomini cavalcavano subito dietro di lui e Penrod si avvide che
erano pericolosi come un branco di lupi. Uno degli aggagir puntò la
carabina e fece fuoco: il fumo nero eruppe dalla bocca e la pallottola
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fendette l'aria così vicino alla guancia di Penrod che questi si sentì sfiorare
dal suo bacio. Schivò il colpo, d'istinto, e dietro di sé udì Osman che
gridava: «Niente fucili! Solo spade. Lo voglio per la mia lama, perché ha
macchiato il mio onore».
Penrod guardava avanti, concentrato esclusivamente a spremere il
massimo dal cammello sotto di lui; ma anche se volavano in direzione del
palmeto, poteva sentire alle sue spalle il rombare degli zoccoli che andava
in crescendo, e mentre superava i primi alberi capì di essersi sbagliato:
quello non era un campo di dhurra ma una fitta distesa di palme nane di
seconda crescita. I lunghi aculei aghiformi potevano trapassare la pelle di
un cavallo, ma non quella di un cammello, quindi girò la testa alla propria
cavalcatura e puntò dritto al boschetto.
Sentì gli zoccoli più vicini dietro di sé e il respiro rauco di un cavallo
lanciato al galoppo, poi ai margini del suo campo visivo entrò la testa
dorata della cavalla di Osman.
«Adesso è la tua occasione, Abadan Riji!» gridò Osman spingendo la
cavalla a fianco del cammello. Penrod si sporse oltre il piccolo divario che
li separava cercando di colpire la testa avvolta nel turbante, ma Osman
indietreggiò, tenendo lo scudo in basso e sbeffeggiando Penrod al di sopra
di questo. «La volpe non cade mai due volte nella trappola», lo schernì.
«Impari presto», fu costretto ad ammettere Penrod, mentre con la propria
lama sottile intercettava la grande spada crociata e la deviava in alto, in
maniera da farsela passare sopra la testa. Premendogli le dita dei piedi
contro il collo, guidò il cammello nel folto spinoso di palme nane: la bestia
lo attraversò d'impeto, ma Osman deviò, preferendo interrompere l'attacco
piuttosto che azzoppare o ferire Acqua Dolce.
Lanciandosi in un galoppo furibondo l'emiro aggirò il boschetto mentre
il cammello vi passava attraverso, e quando gli ritornò dietro, aveva perso
almeno cento passi: doveva andare molto veloce per raggiungerlo.
Direttamente davanti ai suoi occhi, Penrod, la sciabola nella mano destra
e il pungolo e le redini nella sinistra, vide l'ampia distesa del Nilo, una
luminescenza intermittente nella luce del crepuscolo; sotto di lui il
cammello, vedendo anch'esso il fiume, balzò in avanti. «Yakub», sussurrò,
«prendi la mia pistola! E per amore di Allah, vedi di prendere bene la mira
e di sparare diritto, questa volta.»
Yakub gli passò una mano attorno al corpo e gli tolse la Webley dalla
fascia. «Il grande Yakub ammazzerà questo falso emiro con un sol colpo»,
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gridò mentre prendeva la mira con decisione e chiudeva entrambi gli occhi
prima di sparare.
Osman Atalan non batté ciglio quando il colpo esplose: continuò ad
avanzare velocemente, anche se aveva ormai visto quanto poca fosse la
distanza che li separava dalla riva del fiume, e lanciò la cavalla di traverso
verso la gobba del cammello alzandosi sulle staffe con la lunga spada
protesa.
Aveva cambiato tattica, pensò Penrod, e intendeva azzoppare il
cammello con una profonda ferita nei garretti. Con una botta del pungolo e
uno strattone alle redini spinse la spalla del cammello contro la cavalla: in
piedi sulle staffe, privo di equilibrio, Osman non riuscì a reagire con
sufficiente prontezza per ammortizzare la virata e i due animali si
scontrarono, sospinti dall'impeto dei propri pesi combinati. Al garrese il
cammello era alto quasi il doppio di Acqua Dolce, e come peso era una
volta e mezzo il suo: la giumenta piroettò e si piegò sulle ginocchia
anteriori, e Osman le finì sul collo.
Con l'equilibrio e la destrezza di un acrobata restò in sella, mantenendo
la presa sulla spada, ma mentre Acqua Dolce recuperava l'equilibrio il
cammello l'aveva ormai troppo distanziata perché riuscisse a raggiungerlo
prima della riva del fiume.
Mentre si precipitava in quella direzione Penrod non ebbe che un
secondo per valutare il fiume davanti a sé: la riva aveva un dislivello di
soli tre metri e l'acqua sotto di essa era verde e profonda. C'era almeno un
miglio di lì alla riva opposta e tre grosse isole di canne e papiro
galleggiavano in pomposa processione verso Khartum, a nord. Questo fu
tutto ciò che ebbe il tempo di osservare: incalzato da Osman e dai suoi
aggagir, spinse il cammello dritto sulla sponda.
«In nome di Dio», strillò disperato Yakub. «Non so nuotare.»
«Se vuoi che le donne dervisce ti strappino le palle, resta pure qui», gli
fece presente Penrod.
Yakub cambiò idea. «Ho imparato a nuotare.»
«Un uomo ragionevole, il nostro Yakub!» grugnì Penrod e, poiché il
cammello esitava, gli affondò il pungolo nel collo. La bestia fece un balzo
in avanti così repentino che Yakub si lasciò sfuggire di mano la Webley
per afferrare un appiglio sulla sella. Con le budella che si torcevano,
piombarono in acqua sollevando uno schizzo alto quanto la sponda al di
sopra delle loro teste. Gli aggagir tirarono le redini dei propri cavalli e
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restarono a girare in tondo sulla sponda, sparando in basso in direzione dei
due uomini che si dibattevano sulla superficie dell'acqua.
«Basta!» gridò infuriato Osman deviando la canna della carabina di alNoor, con un intervento tardivo, perché una pallottola esplosa da uno dei
suoi aveva colpito il cammello ferendolo alla spina dorsale: la bestia in
preda al panico nuotava disperatamente con le zampe anteriori, ma quelle
posteriori, paralizzate, la tenevano ancorata costringendola a muoversi in
piccoli cerchi, fra soffi e mugghi di terrore. Tuttavia, nonostante la ferita
che lo immobilizzava, il cammello continuava a muoversi alto sull'acqua,
tenuto a galla dalle ghirbe gonfie d'aria.
«Credi di avermi ingannato un'altra volta», gridò Osman sopra la distesa
del fiume. «Ma io sono Osman Atalan, e la tua vita mi appartiene.»
Dal tono di spacconeria dell'emiro, Penrod immaginò subito che come la
maggior parte degli arabi del deserto egli non sapesse nuotare e che,
nonostante tutto il suo coraggio sulla terraferma, non avrebbe mai esposto
se stesso e la sua splendida cavalcatura agli attacchi dei jinn e dei
mostruosi coccodrilli che infestavano le acque del Nilo: non avrebbe
inseguito il suo nemico nel fiume verde e rapido.
Per un momento ancora Osman lottò contro il proprio istinto
cavalleresco, il desiderio appassionato di un duello corpo a corpo, la voglia
di vendicarsi del nemico con la spada. Poi fece di necessità virtù e con il
taglio della mano destra fece l'eloquente, improvviso gesto di ammazzarli.
«Fateli fuori!» ordinò e subito i suoi aggagir balzarono al suolo per
schierarsi lungo la sommità della riva, e mirare da qui, una raffica dopo
l'altra, al gruppo di teste ondeggianti. Penrod afferrò Yakub per un braccio
e lo trascinò dietro il cammello che si dibatteva e faceva loro da scudo. La
corrente li portava rapidamente a valle, e gli aggagir li seguivano di corsa
lungo la sponda, scaricando loro addosso una gragnola di colpi di carabina,
nonostante che la corrente li trasportasse via dalla riva e la distanza
aumentasse: alla fine un colpo fortunato prese il cammello in testa,
facendolo rotolare su se stesso come un tronco d'albero trasportato dal
fiume.
Penrod estrasse la daga dalla fascia e tagliò il legaccio che assicurava
uno degli otri gonfi d'aria alla sella. «Attaccati qui, mio coraggioso
Yakub», ansimò, e l'arabo terrorizzato afferrò la corda di cuoio grezzo.
Abbandonarono il corpo del cammello, e Penrod si mise a nuotare
lentamente attraverso la corrente per portarsi con il compagno verso il
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centro del fiume.
Mentre l'oscurità piombava su di loro improvvisa come la notte africana,
le sagome dei dervisci sulla riva si dileguarono lasciando in vista
unicamente le bocche eruttanti dei loro fucili. Penrod nuotava piano alla
marinara, con entrambe le gambe che scalciavano e una mano che
muoveva l'acqua mentre l'altra era impegnata a trainare per la collottola
Yakub, aggrappato all'otre e tremante come un cucciolo mezzo annegato.
«In questo dannato fiume vivono coccodrilli abbastanza grossi da
inghiottire un bufalo con corna e tutto», diceva mentre i denti battevano e
una boccata d'acqua lo soffocava.
«In tal caso non si occuperanno di un piccolo Jaalin tutto pelle e ossa»,
lo confortò Penrod. Una gigantesca forma scura spuntata dal buio
piombava intanto su di loro: era una delle isole galleggianti di papiro e
canne. Mentre passava di fianco a loro, Penrod riuscì ad afferrare una
manciata di canne e vi si trascinò sopra insieme a Yakub, in mezzo a una
vegetazione talmente fitta e aggrovigliata che avrebbe sostenuto un branco
di elefanti. Attraversarono la zattera strisciando, sentendola ondulare sotto
i loro piedi, per raggiungere il lato più vicino a Khartum, poi vi si
accovacciarono per recuperare le forze e scrutare la riva orientale del
fiume.
Temendo, in una notte priva di luna come quella, di non riuscire a
vedere la città quando l'avessero raggiunta, Penrod si mise a frugare
l'oscurità fino a che gli occhi non cominciarono a fargli male: d'un tratto
credette di poter distinguere la brutta forma tozza di forte Mukran, ma i
suoi occhi gli tiravano dei brutti scherzi e, quando la fissò, la forma
scomparve. «Dopo un simile viaggio, sarebbe certo il massimo della
stupidità superare Khartum di notte e non accorgersene», bofonchiò. Ma i
suoi dubbi si sciolsero.
Da valle proveniva il fragore del fuoco d'artiglieria. Penrod fu in piedi
con un balzo, e scrutando in mezzo agli steli di papiro vide i lampi arancio
delle bocche di cannone che demarcavano il lato del fiume su cui sorgeva
Omdurman, nonché, qualche secondo più tardi, le granate che esplodevano
sulla riva orientale illuminando il lungofiume di Khartum. Questa volta
non ci si poteva sbagliare sul profilo nitido di forte Mukran e del palazzo
del console alle sue spalle. Penrod si ricordò del cannoneggiamento
notturno di quell'artigliere derviscio che David Benbrook aveva
soprannominato Beduino Pazzo e gli venne, sinistramente, da ridere.
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«Almeno non ha ancora esaurito le munizioni», esclamò e si mise a
spiegare a Yakub quel che dovevano fare.
«Qui siamo al sicuro», protestò Yakub. «Se restiamo qui il fiume prima
o poi ci spingerà sulla riva e potremo scendere a terra camminando come
uomini, senza nuotare come fossimo rettili.»
«Questo non avverrà fino a che non avremo raggiunto la gola di
Shabluka, dove di sicuro questa zattera finirà distrutta. Lo sai bene che
quella gola è la tana di tutti i peggiori jinn del fiume.»
Yakub vi rifletté sopra per qualche minuto, poi dichiarò: «Il valoroso
Yakub non teme i jinn, ma nuoterà ugualmente con te fino alla città per
proteggerti».
La ghirba si era sgonfiata quasi per metà, così mentre aspettavano che la
zattera raggiungesse il punto più vantaggioso vi soffiarono dentro di nuovo
per renderla tesa. La luna ormai era salita e, benché il bombardamento dei
dervisci si fosse esaurito, riuscirono a discernere con chiarezza la sagoma
della città, riconoscendo addirittura alcuni piccoli fuochi di cucina. Si
lasciarono scivolare nell'acqua: Yakub si faceva di minuto in minuto più
coraggioso e Penrod gli mostrò come doveva scalciare con le gambe e
aiutarlo a spingere la ghirba attraverso la corrente.
Dopo una nuotata faticosa sentì il fondo sotto i piedi: lasciò andare l'otre
e trascinò Yakub a terra. «L'intrepido Yakub sfida tutti i coccodrilli e i jinn
di questo fiumiciattolo», esclamò l'uomo pavoneggiandosi sulla riva e
indirizzando un gesto osceno al Nilo.
«Yakub farebbe meglio a chiudere la sua intrepida bocca», gli consigliò
Penrod, «prima che una delle sentinelle egiziane gli infili una pallottola nel
suo spavaldo didietro.» Voleva entrare in città in segreto. Al di là del
pericolo di beccarsi una pallottola dalle guardie, un qualsiasi contatto con
le truppe avrebbe sortito l'effetto di farlo finire immediatamente davanti al
generale Gordon, e gli ordini ricevuti da Sir Evelyn Baring dicevano di
consegnare il messaggio prima a Benbrook e di riferire a Gordon solo in
un secondo tempo.
Penrod aveva trascorso mesi a Khartum prima e dopo il disastro di El
Obeid, ed era pertanto perfettamente pratico della disposizione delle difese
e delle fortificazioni, concentrate nella zona del lungofiume. Tenendosi
ben all'esterno delle mura e del canale, fece rapidamente il giro delle
propaggini meridionali della città; quando fu all'incirca di fronte al tetto a
cupola del consolato francese si avvicinò alla sponda del canale e, dopo
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essersi accertato che la via era libera, lo guadò con l'acqua che arrivava a
lui e a Yakub soltanto fino al mento.
Una volta giunti dall'altro lato si misero al riparo nel palmeto ad
aspettare che la pattuglia passasse: prima ancora di vederli Penrod fiutò il
fumo di tabacco turco. Passarono indolentemente davanti a loro,
trascinandosi dietro i fucili lungo il sentiero. Il sergente fumava: un
comportamento sciatto, tipico delle truppe egiziane.
Non appena la pattuglia fu passata Penrod si lasciò cadere nella fossa di
scolo che portava alle mura esterne della città: la fanghiglia puzzava di
fogna, ma strisciando attraverso il tunnel superarono il muro posteriore del
consolato francese e furono dentro la città vecchia. Penrod era sconvolto
dalla facilità con cui erano riusciti a entrare: le difese di Gordon dovevano
essere tese al limite di rottura e, se all'inizio dell'assedio aveva ai suoi
ordini settemila egiziani, quel numero si era di certo assottigliato a causa
di malattie e diserzioni.
Si affrettarono per i vicoli deserti, aggirando le carogne rigonfie di
animali e uomini. Persino l'appetito di avvoltoi e corvi non era all'altezza
del compito di divorare una simile abbondanza, e il fetore della città sotto
assedio gli aggredì le narici: morte e putrefazione. Aveva sentito che lo
chiamavano il bouquet del colera.
Penrod si fermò per estrarre l'orologio da tasca dalla sua fodera e se lo
tenne all'orecchio, ma non era sopravvissuto all'immersione nel fiume.
Guardò la luna, giudicando che la mezzanotte fosse passata da un bel po', e
si affrettò senza che nessuno lo inseguisse per le vie deserte. Quando
raggiunse le porte del palazzo del console la luce era ancora accesa ad
alcune delle finestre, ma la sentinella della porta principale era
addormentata, accucciata nella garitta come un cane. Il fucile era
appoggiato contro la parete e Penrod lo prese prima di svegliare il soldato
a calci: ci vollero parecchio tempo e un'accesa discussione con il sergente
del corpo di guardia, ma alla fine, nonostante l'aspetto e la puzza di fogna
che esalava dai suoi indumenti, Penrod riuscì a convincerlo che era un
ufficiale dell'esercito britannico.
Quando fu condotto nello studio di David Benbrook, il console stava
leggendo alla luce della lampada. Mentre si toglieva gli occhiali dal naso e
si alzava, l'espressione sul suo viso parve irritata. Indossava una giacca da
casa di velluto, e si stava concentrando su un fascio di documenti. «Che
c'è?» domandò in tono sgarbato.
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«Buona sera, console», lo salutò Penrod. «Mi rincresce di disturbarvi a
quest'ora della notte, ma sono appena arrivato dal Cairo con dei messaggi
da parte di Sir Evelyn Baring.»
«Che Dio vi benedica! Ma voi siete inglese!» David fissava Penrod
sbalordito.
«Sì, signore. E ho già avuto il piacere della vostra conoscenza. Sono il
capitano Ballantyne del Decimo Ussari.»
«Ballantyne! Mi ricordo bene di voi. Anzi, parlavamo proprio di voi
qualche giorno fa. Come state, mio caro?» Dopo che si furono scambiati
una stretta di mano, David si portò il fazzoletto al naso. «Per prima cosa
dobbiamo procurarvi un bagno e degli abiti puliti.» Suonò il campanello
per chiamare i servi. «Non sono certo che ci sia acqua calda a quest'ora
della notte, ma non credo che ci vorrà molto a far partire il bollitore.»
E non solo riuscirono a fargli avere dell'acqua bollente, ma David
Benbrook fece addirittura saltar fuori una mezza saponetta profumata
proveniente da Parigi, e prestò a Penrod un rasoio. Mentre si radeva, David
sedette sul coperchio della comoda all'altro lato della stanza da bagno
rivestita di piastrelle; apparentemente dimentico della nudità del suo
ospite, prese a scribacchiare annotazioni in un piccolo libro rilegato di
marocchino, mentre Penrod ripeteva il lungo e involuto messaggio di
Baring. Poi iniziò a interrogarlo avidamente sui preparativi del generale
Stewart per la spedizione di soccorso. «Non ha neppure lasciato Uadi
Halfa, non ancora?» esclamò allarmato. «Per Dio, spero che ce la faremo a
resistere fino a che non sarà qui.»
David aveva circa la stessa corporatura di Penrod e persino un paio dei
suoi stivali gli calzavano a pennello come li avessero fatti apposta per lui;
il solo inconveniente fu che Penrod, decisamente meno largo in vita,
dovette stringere la cintura dei calzoni dopo avervi infilato la camicia
bianca stirata di fresco. Quando fu vestito, David lo riportò nel suo studio.
«Non posso neppure offrirvi un brandy per mandarlo giù», osservò mentre
un servitore metteva davanti al giovane ufficiale un elegante piatto di
Sèvres che conteneva una piccola porzione di ciambella di dhurra e un
bocconcino di formaggio di capra non più grande della prima falange del
suo pollice. «Mi dispiace, c'è penuria.»
«Molto nutriente, signore.» Penrod consumò la ciambella a piccoli
morsi.
«Sono dannatamente lieto di avere i vostri dispacci, Ballantyne. Qui è da
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mesi che brancoliamo nel buio. Quanto ci avete impiegato dal Cairo?»
«Sono partito da là il diciannove del mese scorso, signore.»
«Accidenti, che passo», commentò David con approvazione. «E adesso
ditemi cosa raccontano i giornali di Londra.» Era bramoso di qualunque
briciola di informazione Penrod potesse riferirgli.
«Parlano piuttosto liberamente del cattivo sangue che corre fra il
generale Gordon e il signor Gladstone, signore, e l'opinione pubblica è
nettamente dalla parte del generale Gordon. Vogliono che Khartum sia
liberata, il generale tratto in salvo e che a questi selvaggi si insegni a
badare a come si comportano.»
«E voi cosa ne pensate, capitano?»
«In quanto ufficiale in servizio, non mi permetto di intrattenere
un'opinione su simili questioni, signore.»
«Molto saggio.» David sorrise. «Ma in quanto parte dell'opinione
pubblica, ritenete che il primo ministro abbia fatto mostra di mancanza di
decisione?»
Penrod esitò. «Posso parlare con franchezza, signore?»
«È esattamente quello che vi invito a fare. Qualunque cosa diciate
resterà fra noi, avete la mia parola.»
«Credo che il signor Gladstone non abbia fatto mostra né di codardia né
di indecisione nel rifiutarsi di inviare un esercito fin quassù per salvare il
generale Gordon, come ritiene la maggior parte dell'opinione pubblica
britannica. Il generale doveva semplicemente imbarcarsi su uno dei suoi
battelli e tornare a casa. Reputo che il primo ministro non si sia sentito in
diritto di coinvolgere la nazione in una serie di operazioni costose e
rischiose qui nel cuore del Sudan semplicemente per vendicare l'onore
personale di un uomo.»
David trasse un profondo respiro. «Mio Dio! Ho chiesto la vostra
opinione e l'ho avuta, perbacco! Ma ditemi, Ballantyne, non credete che vi
sia del risentimento personale a Whitehall per un ufficiale che con le sue
azioni avventate e incontrollate si è attirato tanto odio?»
«Sarebbe sorprendente il caso contrario. È chiaramente dimostrato nei
dispacci di Sir Evelyn che vi ho consegnato.»
David studiò Penrod con serietà. Non solo era un bell'uomo, ma aveva
anche una testa pensante sulle spalle. «Dunque voi vi opporreste all'invio
dell'esercito di Wolseley in nostro aiuto?»
«Giammai!» scoppiò a ridere Penrod. «Sono un soldato, e i soldati ci
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sguazzano nella guerra. Spero di capitarci nel bel mezzo, anche nel caso in
cui non abbia molto senso, il che è evidente, e anche se le cose volgeranno
al brutto, il che è altamente probabile.»
David si unì alla sua risata. «È raro che la guerra abbia senso»,
concordò. «Fa piacere che lo dica un militare. Ma perché Gladstone ha
cambiato idea e ha acconsentito a inviare un esercito?»
«Il desiderio manifesto dell'intera nazione è una forza a cui il signor
Gladstone ha sempre aderito. E al primo ministro era stato suggerito che
una sola brigata sarebbe stata necessaria per la spedizione, questo me lo ha
detto Sir Evelyn Baring. Solo in seguito, quando aveva già preso la
decisione con riluttanza, e l'aveva annunciata alla nazione, il ministero
della Guerra ha richiesto una forza molto superiore. A quel punto era
troppo tardi per capovolgere la decisione, e così l'esercito di soccorso non
è stato più di una sola brigata bensì di diecimila uomini.»
Le ore trascorsero veloci intanto che i due uomini parlavano, fino a che
l'orologio del nonno dal suo angolo batté di nuovo le ore. «Le due, per
Dio!» esclamò David pieno di meraviglia. «Bisogna che vi concediamo
qualche ora di sonno prima dell'incontro con Gordon. Immagino che ve la
vedrete bella con lui.» I servitori lo aspettavano alzati, ma David li
congedò accompagnando personalmente Penrod in uno degli appartamenti
degli ospiti. La notte era talmente afosa e lui era così stanco che non pensò
neppure di infilarsi la pesante camicia da notte di flanella che David gli
aveva procurato: si spogliò nudo e prima di infilarsi sotto l'unico lenzuolo
sistemò la daga sotto il cuscino. Poi si spense come una candela al vento.
Si svegliò senza cambiare ritmo al respiro, rendendosi immediatamente
conto di non essere da solo nella stanza. Mentre fingeva di dormire, cercò
di ricordarsi dove si trovava. Attraverso le ciglia vide che le tende erano
tirate e che la luce nella stanza era debole: era ancora mattina presto. Con
lentezza infinita spinse la mano sotto il cuscino fino a che le dita non si
arricciarono attorno all'elsa della daga: poi aspettò di colpire, come una
vipera arrotolata.
Sentì un passo leggero accanto al suo letto, e qualcuno che tossiva piano,
nervosamente. Quel flebile rumore gli indicò la direzione e a quel punto
Penrod si lanciò giù dal letto: atterrò l'intruso, tenendolo per la gola con
una mano e premendogli addosso la punta della daga con l'altra. «Se ti
muovi ti ammazzo», bisbigliò feroce in arabo. «Chi sei?»
Poi si rese conto che il suo prigioniero profumava di boccioli di rosa e
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che la gola che stringeva era calda e liscia come seta; il corpo sotto di lui
era avvolto in un corpetto e in gonne di taffettà e dietro la stoffa delicata
sentiva protuberanze e cavità celestiali. Lasciò andare la presa e balzò in
piedi, poi, mentre il prigioniero si tirava su a sedere, lo osservò con stupore
e costernazione. Gli ci volle una manciata di secondi per capire che aveva
assalito e minacciato una giovane donna dalla chioma bionda e luccicante,
e che, seduta sul pavimento con le gonne in disordine, gli occhi
esattamente all'altezza del suo inguine nudo, questa fissava lo sguardo su
un punto che, casualmente, apparteneva a una sua componente anatomica
di rado esposta al pubblico scrutinio.
Senza lasciare la daga, Penrod si girò in gran fretta per afferrare il
lenzuolo dal letto, ma prima che se lo potesse avvolgere attorno si rese
conto di avere offerto alla giovane donna il panorama del suo didietro: la
fretta lo rendeva goffo, e armeggiò non poco prima di poterla guardare di
nuovo in faccia, una volta per tutte pudicamente coperto.
«Sono mortificato, signorina Benbrook. Non avevo idea che foste voi.
Mi avete fatto trasalire.»
Lentamente le guance pallide le si stavano accendendo di rosa, però la
giovane non aveva ancora smesso di ansimare alla ricerca di fiato, come se
avesse corso una lunga distanza, e l'effetto che ciò produceva su quel che
stava dentro il corpetto era incantevole. «Se io vi ho fatto trasalire, signore,
non avete idea di come voi abbiate allarmato me. Chi siete e che cosa
fate...» La mano le volò alla bocca nel momento in cui, a dispetto della
nuova, poco lusinghiera acconciatura, lo riconobbe. «Capitano
Ballantyne!»
«Servo vostro, signora.» L'inchino riuscì in parte compromesso dalla
necessità di non perdere la presa di daga e lenzuolo. La signorina
Benbrook si tirò in piedi a fatica, lo fissò ancora un istante a occhi sgranati
e poi fuggì dalla stanza. Penrod si era dimenticato di quale piacere fosse
quella giovane per gli occhi, una qualità che il suo stato di sgomento e
confusione di certo non aveva guastato. Scoppiò a ridere. «Fosse solo per
questo, ne è valsa la pena di fare il viaggio», disse fra sé e sé.
Fischiettando si rasò e si vestì, poi, guardandosi nello specchio, si strizzò
l'occhio dichiarando ad alta voce: «Forse la prossima volta mi riconoscerà
anche prima, ora che ha un elemento in più per ricordarsi di me». E detto
questo si avviò giù per le scale.
David era già seduto al tavolo della colazione, solo, a eccezione dei
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servitori nelle loro lunghe vesti bianche. «Prendetene un po'.» Mise una
cucchiaiata di un'amorfa sostanza verdina sul piatto di Penrod. «Il sapore è
assolutamente esecrabile, ma so da fonte assai autorevole che questa roba è
molto nutriente.»
Penrod la esaminò sospettoso. Sembrava formaggio verde. «Che cos'è?»
«Mi si dice che si tratti di ricotta di papiro ed erbe di palude,
confezionata dalle mie figliole. Ne mangiamo parecchia. Anzi, da quando
le razioni ufficiali sono state ridotte a una tazza di grano di dhurra al
giorno, mangiamo poco d'altro.»
Penrod se ne infilò in bocca con diffidenza un piccolo boccone. «I miei
complimenti alle vostre figlie. È assai appetitosa», osservò cercando di
risultare convincente.
«In effetti non è così male. Provatela con la salsa Worcester o un po' di
Gendeman's Relish. Vi abituerete ben presto. E ora, che ne dite di andare a
far visita al generale Gordon?»
Il generale Gordon si voltò dalla finestra da dove stava osservando le
postazioni nemiche al di là del fiume. Salutò Penrod fissandolo con gli
sconcertanti occhi azzurri. «Riposo, capitano. Immagino che abbiate fatto
il viaggio dal Cairo a tempo di record.»
Come faceva a saperlo? si chiese Penrod, ma poi la cosa gli fu chiara:
grazie alle vanterie dell'intrepido Yakub.
In silenzio il generale Gordon ascoltò il rapporto e i messaggi che recava
da Sir Evelyn; quando Penrod ebbe finito di parlare, il generale non
rispose immediatamente. Si mise a passeggiare su e giù per la lunga
stanza, fermandosi infine per osservare la carta in grande scala del Sudan,
distesa sulla scrivania sotto le finestre. La vista che si godeva da queste era
priva di impedimento: i vetri erano stati spazzati via dai frammenti di
granata dell'artiglieria derviscia al di là del fiume, ma Gordon non aveva
fatto nulla per fortificare il proprio quartier generale o per proteggere la
propria persona. Sembrava preoccuparsi unicamente della sicurezza della
città e del benessere dei suoi abitanti.
«Immagino che dovremo essere grati al primo ministro per il suo
intervento di soccorso alla popolazione, anche se ciò avviene con parecchi
mesi di ritardo», osservò Gordon alla fine, alzando gli occhi verso Penrod.
«La mia unica consolazione è che avrò finalmente un ufficiale britannico
nel mio stato maggiore.»
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A quelle parole Penrod sentì un primo brivido di sgomento gelargli la
schiena. «Gli ordini del generale Stewart, signore, sono che io ritorni a
Uadi Halfa non appena consegnati i messaggi a voi. Sono distaccato al
nuovo Carnei Corps, le truppe cammellate, con ordini di assistenza nel
guidarle al di là dell'ansa del Nilo per l'assalto a Metemma.»
Gordon ci pensò su un istante, poi scrollò il capo. «Se il generale
Stewart non ha ancora lasciato Uadi Halfa, ci vorranno mesi prima che
arrivi a Metemma. Sarete più utile qui piuttosto che seduto a Uadi Halfa. E
inoltre ci saranno di sicuro centinaia di altre guide in grado di
accompagnare il Carnei Corps al di là dell'ansa. Quando la colonna di
soccorso raggiungerà Abu Hamed, ci ripenserò. Ma nel frattempo ho
bisogno di voi qui.»
E lo disse con tale determinazione che Penrod capì che discutere era
inutile. I suoi sogni di gloria e di azione erano in frantumi, e invece di
entrare in città a cavallo alla testa del corpo d'armata, dopo essersi aperto
la strada combattendo da Metemma a lì, ecco che veniva condannato alla
tetra monotonia dell'assedio.
Bisognava aspettare e scegliere il momento opportuno, decise, e non
lasciò trasparire sul volto quali erano i suoi veri sentimenti. «Sarà un onore
servire ai vostri ordini, generale, ma vi chiederei di farmi avere queste
disposizioni per iscritto.»
«Le avrete», promise Gordon, «ma ora devo aggiornarvi sulla situazione
di qui, e sui nostri problemi più immediati e urgenti. Sedetevi,
Ballantyne.»
Gordon parlò rapidamente, quasi con agitazione, passando da un
argomento all'altro e fumando una dopo l'altra le sigarette che prendeva da
una scatola d'argento. Lentamente Penrod iniziò a comprendere l'enorme
pressione sotto cui lavorava e a farsi un'idea della tremenda solitudine del
comando che gli era assegnato. Intuì che prima del suo arrivo non c'era
nessuno con cui Gordon potesse fidarsi a dividere parte di quel fardello,
perché, se Penrod non era uguale a lui per rango, era quanto meno un
ufficiale di un reggimento britannico di prima linea, e in quanto tale valeva
tutto un dau pieno di ufficiali di stato maggiore egiziani.
«Vedete, Ballantyne, qui ho la responsabilità e il dovere senza il pieno
controllo. Quotidianamente mi affliggono non solo l'incompetenza degli
ufficiali egiziani ma anche il loro comportamento senza coscienza e
l'assoluta mancanza di moralità e di senso del dovere. Disobbediscono agli
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ordini a loro capriccio, se credono di potersi sottrarre alle conseguenze;
trascurano le proprie incombenze e trascorrono la maggior parte del tempo
in compagnia delle loro concubine. A meno che io non mi infuri, quasi mai
si prendono la briga di andare a controllare le difese di prima linea. So
perfettamente che cospirano e si accordano segretamente coi dervisci nella
speranza di ottenere qualche vantaggio quando la città cadrà, come è loro
ferrea convinzione. Derubano i loro stessi uomini. Le truppe crollano
addormentate nelle proprie postazioni, e a loro volta derubano la
popolazione. Ho il sospetto che grandi quantità di dhurra siano state
sottratte ai granai; le donne e i bambini della città mi sputano addosso e mi
insultano per la strada ogni volta che mi vedo costretto a ridurre
ulteriormente le razioni. Ormai siamo arrivati a una tazza di grano a testa
al giorno.» Si era acceso un'altra sigaretta e la fiamma del fiammifero
guizzò nella coppa delle sue mani. Aspirò, rapidamente, e poi sorrise a
Penrod con freddezza. «Potrete dunque immaginare che la vostra
assistenza sarà estremamente gradita. Tanto più per il fatto che siete un
buon conoscitore della pianta della città.»
«Naturalmente potete far conto su di me, generale.» Nonostante quello
sguardo freddo e quasi messianico, Penrod si chiese quanto egli fosse
vicino al punto di rottura.
«Ho intenzione di delegarvi le seguenti responsabilità da subito. Fino a
ora il maggiore al-Faruk è stato incaricato delle provviste e della
distribuzione del cibo, con capacità che nella migliore delle ipotesi
definirei pateticamente inadeguate. Ho il sospetto, benché non possa
provarlo, che non sia all'oscuro del grano mancante. Lo sostituirete
immediatamente. Voglio che mi facciate avere al più presto un inventario
di tutte le scorte disponibili. Secondo la legge marziale avete potere di
requisire e di confiscare qualunque scorta vi serva. Le trasgressioni
andranno trattate con la massima severità; potrete frustare e fucilare chi
saccheggia e chi vende alla borsa nera senza chiedere la mia
autorizzazione. Le truppe e la popolazione devono accettare per forza le
leggi anche se sono sgradevoli... toccherà a voi far comprendere loro che
l'alternativa è anche peggiore. Mi capite?»
«Certamente, generale.»
«Conoscete un certo Ryder Courteney?»
«Solo di sfuggita, signore.»
«E' un mercante e uomo d'affari che lavora in questa città. Sono stato
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costretto a requisirgli un carico di dhurra e, poiché è un mercenario senza
una sola goccia di altruismo nelle vene, se ne è risentito. Possiede un suo
quartiere all'interno della città, e si comporta come se fosse indipendente
rispetto a ogni autorità. Voglio che gli chiariate qual è la sua vera
posizione.»
«Capisco, signore», rispose Penrod, mentre pensava, amareggiato: ecco
che ora non sono più un ussaro ma un poliziotto e un furiere.
Gordon stava osservando la sua espressione e vide la reazione, pur
continuando a parlare imperturbato. «Fra le sue altre attività, costui
possiede e guida un grosso battello fluviale. Al momento si trova in
riparazione nella sua officina. Una volta che sarà tornato a funzionare
potrà essere utile per future operazioni militari e per l'eventuale
evacuazione dei nostri civili, se la colonna di Stewart dovesse mancare di
arrivare in tempo. Courteney dispone anche di cavalli e cammelli, e di
molto altro che potrà esserci di vitale importanza quando i dervisci ci
stringeranno il cappio attorno al collo.» Gordon si alzò in piedi per
segnalare che il colloquio era terminato. «Cercate di scoprire cosa sta
combinando, e cosa ne sa della dhurra scomparsa, Ballantyne. E poi
riferitemelo.»
Penrod conosceva la reputazione di Ryder Courteney: David Benbrook
gliene aveva parlato e persino Sir Evelyn Baring si era accorto di lui. A
quanto pareva era un personaggio formidabile e pieno di risorse, e se
Penrod doveva eseguire gli ordini di Gordon, non avrebbe ottenuto nulla
marciando fino all'ingresso del recinto di Courteney per annunciare se
stesso e le proprie intenzioni. Prima, pensò, si richiedeva un piccolo giro di
perlustrazione.
Uscì dai giardini del palazzo dall'accesso che dava sul fiume. Era
incustodito, e ne prese nota. Poi si mosse rapido lungo il fiume in maniera
da impedire che la notizia del suo arrivo lo precedesse. Alla prima ridotta
delle difese le sentinelle erano sdraiate, a riposarsi membra e occhi stanchi.
Penrod aveva sentito parlare della giustizia sommaria di Gordon, e non
desiderava accelerare il massacro e la decimazione della guarnigione
egiziana; pertanto ricorse a bastone e stivali per far presente quale fosse il
loro dovere.
Continuò poi lungo la linea delle fortificazioni e delle piazzole dei
cannoni che erano state erette dopo la sua ultima visita alla città: era
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evidente che le aveva progettate il generale Gordon da com'erano disposte,
con l'occhio del soldato che si intendeva della natura del terreno. Ispezionò
i cannoni da campagna e sebbene non fosse esperto di artiglieria si accorse
delle manchevolezze nella manutenzione e nell'uso delle armi in dotazione.
La scarsità di munizioni balzava dolorosamente agli occhi. Alle sue
domande gli artiglieri risposero che non erano autorizzati al fuoco
indipendente ma che dovevano attendere gli ordini degli ufficiali prima di
poter mandare anche una sola granata al di là del fiume, mentre i dervisci
di fronte a loro non si trovavano sottoposti a simili limitazioni e mattina e
sera si scatenavano in un disinvolto fuoco di fila che compensava con
l'entusiasmo ogni mancanza di precisione. Invece la parte centrale della
giornata, quando entrambi gli eserciti riposavano sottraendosi alla calura
del sole, era solitamente calma e pacifica.
Penrod si spostò rapidamente oltre il porto, dove notò un battello bianco
privo di quasi tutte le sue parti meccaniche, disposte sul molo di pietra per
essere riparate. Lo scafo e le strutture del ponte erano tempestati di colpi di
shrapnel. Una squadra di operai arabi era affaccendata a rattoppare e a
dipingere i punti danneggiati, sotto la sorveglianza di un tecnico europeo il
quale incoraggiava la ciurma con un coro di imprecazioni e bestemmie che
propagavano nettamente sull'acqua i toni e gli accenti degli scaricatori di
porto di Glasgow. Era evidente che sarebbero passate settimane se non
addirittura mesi prima che il battello potesse salpare di nuovo. Penrod
procedette lungo il lato della città prospiciente il Nilo Azzurro in direzione
di forte Burri e dell'arsenale.
Mentre avanzava per i vicoli, quasi impraticabili a causa delle macerie
delle granate e dei rifiuti, volti scuri lo guardavano dall'alto delle finestre e
degli sgangherati balconi che praticamente si sfioravano sopra la sua testa.
Le donne sollevavano i loro piccoli nudi per mostrargli le protuberanze e i
lividi dello scorbuto, le membra scheletriche. «Moriamo di fame, Effendi.
Dacci del cibo», lo supplicavano. Le loro grida misero in allerta i
mendicanti, che si trascinarono fuori dai recessi più bui dei vicoli per
tirargli i lembi dei vestiti, e Penrod li allontanò con qualche colpo ben
assestato del suo bastone.
I cannoni sui parapetti di forte Burri coprivano la riva settentrionale del
Nilo Azzurro e le antistanti fortificazioni dervisce. Penrod si fermò per
esaminarle, e si avvide che il nemico prendeva ben poche precauzioni:
alcune donne dervisce lavavano i panni sulla riva del fiume e li stendevano
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ad asciugare in piena vista di forte Burri, sicure com'erano che la riserva di
pallottole e granate di Gordon fosse pericolosamente al minimo.
Alle spalle di forte Burri si alzavano le brutte e tozze casematte
dell'arsenale e il deposito delle munizioni. Il generale Gordon ne aveva
fatto il granaio della città: vi erano sentinelle all'ingresso e a ogni
contrafforte che sosteneva le mura in rovina. Stando a quanto gli aveva
riferito Gordon, persino quelle guardie e le riparazioni ai muri non erano
bastate a contrastare l'astuzia di Ryder Courteney o degli ufficiali egiziani,
o di chiunque fosse colpevole di avere depredato il granaio. E tuttavia
quello non era il momento di far visita all'arsenale per una verifica delle
scorte; a questo avrebbe pensato dopo. Penrod si stava dirigendo verso il
complesso degli edifici che si allargavano nel quartiere recintato di Ryder
Courteney, poco più a nord di lì, quasi sul canale che difendeva la città da
un attacco proveniente dal deserto del sud.
Mentre si avvicinava vide che sulle sponde del canale dietro le mura del
recinto una insolita attività era in corso e, dal momento che questo lo
meravigliava, Penrod abbandonò la strada e seguì l'alzaia che correva
lungo il terrapieno. Dapprima pensò che i molti uomini al lavoro nel
canale stessero costruendo una specie di fortificazione, ma poi si accorse
che erano donne, che si allontanavano dal terrapieno trasportando dei fasci
sulla testa ed entravano nella porta sul retro del recinto di Courteney.
Si avvicinò ancora e vide che una enorme zattera di erbe di fiume
bloccava quasi interamente il canale. Era simile all'ammasso di
vegetazione su cui lui e Yakub erano sfuggiti a Osman Atalan il giorno
prima. Decine di arabi sciamavano sopra la zattera, vestiti unicamente del
perizoma e armati di falci e falcetti: tagliavano il papiro e le erbe di fiume
e li legavano in fastelli che poi le donne trasportavano via.
Che diavolo combinavano? Penrod ne era fortemente incuriosito. E
quella zattera di erbe come aveva fatto a entrare nel canale piazzandosi in
maniera tale da facilitare il raccolto proprio a Courteney? Poi gli sovvenne
una risposta. Ma certo! L'aveva senza dubbio catturata e agganciata con
delle cime nella corrente principale, e poi l'aveva fatta trascinare su per il
canale a forza di braccia. Mi avevano avvertito della sua ingegnosità,
pensò Penrod.
Gli operai lo salutarono rispettosamente, invocando la benedizione di
Allah sopra di lui, e restarono colpiti quando egli restituì il saluto in
fluente arabo parlato. Benché non indossasse l'uniforme, sapevano che il
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2005 - Il Trionfo Del Sole
suo nome era Abadan Riji, e che era sfuggito a Osman Atalan e ai suoi più
famosi aggagir per raggiungere Khartum: ci aveva pensato Yakub a
informare la città dei loro atti di eroismo.
Quando Penrod seguì la fila di donne sudanesi attraverso l'ingresso
secondario, nessuno gli intimò di fermarsi e si ritrovò pertanto in un'ampia
recinzione circondata da mura, brulicante di attività: le donne
accatastavano le loro fascine al centro e ritornavano al canale per il nuovo
carico, un'altra squadra era seduta, a gruppi, e chiacchierava mentre
passava al vaglio gli steli tagliati dividendoli in mucchi. Scartavano quelli
vizzi e rinsecchiti, scegliendo solo quelli ancora verdi e succulenti che poi
dividevano secondo le varie specie di piante. Il mucchio più grande
comprendeva il papiro comune, ma vi erano anche giacinti d'acqua e tre
altri tipi di erbe e canne. La ninfea era ovviamente la pianta più pregiata, e
non veniva dunque accatastata per terra in mezzo alla polvere come il
papiro e il giacinto, ma veniva avvolta con cura in sacchi e trasportata via
perché ne estraesse la polpa un'altra squadra di donne. Queste erano al
lavoro a una lunga fila di mortai utilizzati di solito per trasformare la
dhurra in farina. Le donne lavoravano all'unisono, pestando il pesante palo
di legno che usavano come pestello nel mortaio a forma di ciotola, per
ridurre in poltiglia le ninfee insieme a un poco d'acqua, ondeggiando e
dondolando al ritmo dei pali oscillanti.
Una volta che il contenuto dei mortai era ridotto a una spessa pasta
verde, un'altra squadra di donne lo raccoglieva in grossi pentoloni neri di
argilla e li trasportava attraverso il cancello di accesso a un'altra
recinzione. Interessato, Penrod le seguì ma non aveva ancora messo piede
al di là del cancello che per la prima volta qualcuno lo fermò con un acuto
perentorio: «Chi siete e cosa ci fate qui?»
Penrod si vide affrontare da due giovani esponenti del sesso femminile,
nessuna delle quali arrivava più su della fibbia della sua cintura. Una era
castana, mentre l'altra era biondo oro. Una aveva gli occhi del colore del
caramello sciolto, l'altra, più piccola, li aveva di un azzurro vivace come
petali di petunia. Ed entrambe lo guardavano da sotto in su con espressione
severa e labbra imbronciate. La ragazzina più alta teneva i pugni sui
fianchi in atteggiamento combattivo. «Non siete autorizzato a entrare qui.
Questo è un posto segreto.»
Ripresosi dalla sorpresa, Penrod si sollevò il berretto, con galanteria, e
fece un profondo inchino. «Vi chiedo perdono, signore, non intendevo
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commettere una violazione. Vi prego, vogliate accettare le mie scuse e
consentitemi di presentarmi. Sono il capitano Penrod Ballantyne del
Decimo Ussari Reali di Sua Maestà. Attualmente parte dello stato
maggiore del generale Gordon.»
Anche se non gli toglievano gli occhi di dosso, l'espressione su entrambi
i visi si era addolcita: non erano abituate a sentirsi rivolgere parole tanto
cortesi, e in più, come la maggior parte delle altre donne, non erano
insensibili al fascino di Penrod.
«Io sono Saffron Benbrook, signore», disse la ragazzina più alta, con
una riverenza, «ma potete chiamarmi Saffy.»
«Al vostro servizio, signorina Saffy.»
«E io sono Amber Benbrook, ma certe persone mi chiamano La
Piccolina», spiegò quella bionda. «Non è che questo nome mi piaccia
troppo, ma immagino di essere un tantino più bassa di mia sorella.»
«Sono perfettamente d'accordo. Non è un nome adatto per una signorina
tanto affascinante. Se me lo consentirete, mi rivolgerò a voi chiamandovi
signorina Amber.»
«Piacere.» Amber rispose al suo inchino con una riverenza, e quando si
raddrizzò scoprì di essersi innamorata per la prima volta: una sensazione di
calore e oppressione nel petto, un poco fastidiosa ma non del tutto
spiacevole. «Io so chi siete», continuò con il fiato un po' corto.
«Davvero? E, di grazia, come è possibile?»
«Ho sentito Ryder che parlava di voi con papà.»
«Suppongo che papà sia David Benbrook. Ma chi è Ryder?»
«Ryder Courteney. Ha detto che avete i favoriti più belli di tutta la
cristianità. Ma dove sono andati a finire?»
«Ah!» esclamò Penrod, improvvisamente gelido in viso. «Deve essere
un famoso comico.»
«È un grande cacciatore, e molto, molto intelligente», si precipitò a dire
Saffron, accorrendo in sua difesa. «Sa il nome di tutti gli animali e di tutti
gli uccelli al mondo; i nomi latini», continuò con espressione solenne.
Amber era decisa a riconquistare l'attenzione di Penrod per sé,
strappandola alla gemella. «Ryder dice che le signore vi trovano
affascinante e galante.» Penrod sembrò un poco più compiaciuto, ma solo
fino a quando Amber, innocentemente, aggiunse: «E che voi concordate di
tutto cuore con la loro opinione».
Penrod cambiò argomento. «Chi comanda qui?»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Noi», risposero in coro le gemelle.
«Cosa state facendo? Sembra assai interessante.»
«Facciamo la ricotta di piante per nutrire la nostra gente.»
«Vi sarei estremamente grato se poteste spiegarmi il procedimento.» Le
gemelle non si fecero ripetere l'invito e, in una gara accesa per conquistarsi
la sua attenzione, cominciarono a contraddirsi e a interrompersi a ogni
minima occasione. Ognuna afferrò una delle mani di Penrod per
trascinarlo nel cortile interno.
«Quando le foglie più succulente sono triturate, bisogna filtrarle.»
«Per eliminare il bianco della buccia e le schifezze.» Ormai nessuno
pensava più a proteggere il segreto.
«Le filtriamo con della tela che vende Ryder nei suoi magazzini.»
«Dobbiamo torcerla per far uscire tutto il buono.»
Donne sudanesi, in coppia, versavano la polpa verde in tagli di stoffa
stampata, e poi li torcevano. Il sugo colava negli enormi pentoloni neri di
ferro appoggiati su dei treppiedi sopra a fuochi da cucina alimentati da
braci.
«Misuriamo la temperatura», spiegò Saffron brandendo un termometro
con importanza.
«E quando raggiunge i settanta gradi», si intromise Amber, «la proteina
si coagula...»
«Tocca a me dirlo», la rimbeccò Saffron furibonda. «Sono io la più
vecchia.»
«Solo di un'ora», rispose Amber farfugliando il resto della spiegazione.
«Poi setacciamo la ricotta, formiamo delle barrette e le facciamo seccare al
sole.» E a queste parole indicò trionfalmente le lunghe tavole poggiate su
cavalletti cariche di barrette quadrate disposte in bell'ordine. Era questo
che Penrod aveva mangiato la mattina a colazione, e si ricordò
dell'avvertimento di David che non c'era granché d'altro.
«La chiamiamo torta verde. Potete assaggiarne un po' se volete.» Amber
ne staccò un pezzetto e si sollevò in punta di piedi per infilarglielo fra le
labbra.
«Prelibato!» esclamò Penrod inghiottendo virilmente.
«Prendetene ancora.»
«Eccellente, ma basta per ora. Vostro padre dice che è anche più
appetitoso accompagnato dalla Worcester», si affrettò a osservare per
impedire che arrivasse a destinazione la consegna successiva, già in
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viaggio nella manina sporca di Amber. «Quanta torta verde producete al
giorno?»
«Non a sufficienza per dar da mangiare a tutti. Basta solo per noi e i
nostri.»
L'efficacia della torta verde era evidente: a differenza del resto degli
abitanti malnutriti, nessuna delle persone nel recinto mostrava i segni della
denutrizione. Anzi, le gemelle erano fiorenti. Penrod si rammentò del
rapido incontro con la sorella maggiore, quella mattina. Non vi era nulla
che non andasse nemmeno in lei. Sorrise al ricordo, e le due bambine,
scambiandolo per un cenno di approvazione, sorrisero con lui.
Penrod si rese conto di poter contare su due fide alleate nella roccaforte
di Courteney. «Siete davvero due signorine molto intelligenti», disse. «Vi
sarei molto obbligato se mi voleste far visitare il resto di questo luogo. Mi
hanno detto che qui si trova ogni genere di cose affascinanti.»
«Vorreste vedere gli animali?» gridò Amber.
«Le scimmie?» la incalzò Saffron.
«I bongo?»
«Tutto quanto», acconsentì Penrod. «Mi piacerebbe vedere tutto.»
Gli fu presto evidente che le gemelle erano le preferite di tutti, lì, e che
avevano mano libera nel quartiere di Courteney. Alì, il guardiano degli
animali, era il loro amico particolare e fu solo con enorme difficoltà che il
vecchio si trattenne dal sorridere di gioia non appena le vide
sopraggiungere: accompagnarono Penrod di gabbia in gabbia, chiamando
gli animali per nome e dando loro da mangiare dalle mani quando questi si
avvicinavano.
«All'inizio la torta verde non gli piaceva affatto, quando abbiamo
cercato di nutrirli in quel modo, ma adesso tutti la adorano. Basta guardare
come la inghiottiscono», indicò Amber.
Penrod gettò l'amo: «E la dhurra? Senz'altro piace anche quella agli
animali?»
«Oh, immagino di sì», si intromise Saffron, «ma non ce n'è abbastanza
neppure per la gente, figuriamoci per gli animali,»
«Ne possiamo avere solo una tazza al giorno», confermò Amber.
«Credevo che il vostro amico Ryder avesse un bel po' di dhurra e che la
vendesse.»
«Oh, sì, ne aveva il battello pieno. Ma il generale Gordon gliel'ha portata
via tutta. Ryder era furibondo.»
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Penrod fu lieto che le innocenti rivelazioni delle ragazzine in pratica gli
garantissero che, nonostante i sospetti del generale, Courteney non era
colpevole del furto del grano dall'arsenale: non che Penrod avesse
particolari ragioni di affetto verso quell'uomo, specialmente dopo i
commenti sui suoi favoriti e sull'alta opinione che aveva di sé, ma era pur
sempre un inglese e sarebbe stato sgradevole per lui dover confermare i
sospetti di Gordon. «Mi piacerebbe molto incontrare il vostro amico
Ryder», buttò lì in maniera diplomatica. «Me lo presentereste?» «Oh, sì.
Venite con noi.»
Lo trascinarono via dal serraglio e, attraversato un cortile interno, furono
davanti a una porticina sul lato opposto. Le gemelle gli lasciarono andare
le mani e corsero per vedere chi arrivava prima alla porta. La spalancarono
ed entrarono a precipizio nella stanza. Penrod, subito dietro, arrivò
anch'egli sulla soglia e da lì esaminò la stanza rapidamente.
Era chiaro che si trattava sia dell'ufficio sia dell'abitazione privata del
padrone del complesso. Alla parete opposta era appesa una coppia di
gigantesche zanne di elefante, le più grandi che Penrod avesse mai visto.
Le altre pareti erano ricoperte di tappeti persiani dalla tessitura
meravigliosa, e da dozzine di fotografie ingiallite nelle loro cornici di
legno scuro. Sul pavimento erano distesi altri tappeti e in un angolo
protetto da tende si vedeva un grande angareb con sopra pelli di leopardo
dorate chiazzate di rosette nere. Le sedie e la massiccia scrivania erano di
tek locale levigato. Le librerie contenevano file di giornali e riviste rilegati
in pelle, oltre a libri scientifici su flora e fauna. Una fila di fucili e di
mortai ad avancarica era sistemata in una rastrelliera tra le curve delle
grosse zanne gialle. Lo sguardo di Penrod scivolò sopra quella disordinata
esposizione per inchiodarsi sulla coppia in piedi nel centro della stanza.
Persino le turbolente gemelle erano rimaste raggelate da quella vista
sconvolgente.
Un uomo e una donna erano avvinghiati in un abbraccio appassionato,
dimentichi di tutto e di tutti quelli che li circondavano. Fu Saffron a
rompere il silenzio con un gemito carico di accusa: «Lo bacia! Becky è qui
che bacia Ryder sulla bocca!»
Ryder Courteney e Rebecca Benbrook si separarono con un balzo, con
aria colpevole, e poi rimasero impalati a fissare il gruppetto sulla porta.
Rebecca era smunta come ghiaccio e mentre guardava Penrod pareva che
il suo volto fosse solo occhi. «Ci incontriamo di nuovo così presto,
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signorina Benbrook», la salutò lui in tono di ironico apprezzamento.
Rebecca abbassò gli occhi sul pavimento e le sue guance assunsero il
colore violento dei carboni accesi; la mortificazione fu così intensa da farle
girare la testa e mancare l'equilibrio. Poi, con uno sforzo enorme, raccolse
le energie e, senza guardare nessuno dei due uomini, si precipitò avanti e
afferrò le sorelline per i polsi: «Orribili bambine che non siete altro!
Quante volte vi ho detto che si bussa prima di entrare in una stanza?»
Le trascinò all'aperto, mentre la voce di Saffron si affievoliva in
lontananza. «Lo stavi baciando. Ti odio. Non ti rivolgerò mai più la parola.
Stavi baciando Ryder.»
I due uomini restarono l'uno di fronte all'altro come se non avessero
sentito le accuse di tradimento fra le due sorelle. «Il signor Courteney,
suppongo. Mi auguro che la mia visita non sia giunta nel momento
sbagliato.»
«Capitano Ballantyne, signore. Ho saputo che siete giunto in questa
amena città la scorsa notte. La vostra fama vi precede.»
«Così pare», gli concesse Penrod. «Benché davvero non sappia come ciò
sia possibile.»
«È molto semplice, ve lo assicuro.» Ryder si sentiva sollevato all'idea
che non ci sarebbe stata alcuna fastidiosa battuta sull'episodio romantico di
cui Ballantyne era stato testimone, e che avrebbe potuto sfociare in una
apertura delle ostilità. «Il vostro compagno di viaggio, Yakub dei Jaalin, è
intimo amico della cameriera delle gemelle Benbrook, una brava ragazza,
colonna portante della casa, di nome Nazira. E si dà il caso che la lingua
mai ferma risulti essere uno dei suoi difetti più evidenti.»
«Ah! Ora capisco. E magari aspettavate la mia visita.»
«In effetti non giunge troppo di sorpresa», Ryder ammise. «Mi pare di
capire che il generale Gordon, che tutte le sue imprese possano trionfare,
ha delle domande da pormi riguardo alla dhurra che manca dall'arsenale.»
Penrod chinò la testa in assenso. «Vedo che vi tenete bene informato.»
Mentre si beccavano, esaminava Ryder Courteney con uno sguardo a cui
non sfuggiva nulla, camuffato da un sorriso disarmante.
«Cerco di tenermi al passo con gli affari», rispose Ryder per niente
impressionato dal sorriso. Anche il suo sguardo non era meno acuto. «Ma
vi prego, entrate, caro amico. Forse è un po' presto, ma potrei offrirvi un
sigaro e un bicchiere di cognac di prim'ordine?»
«Ero persuaso che tali meravigliosi beni non esistessero più in questo
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capriccioso mondo.» Penrod si avvicinò alla sedia che Ryder gli indicava.
Quando i sigari ebbero preso, i due si studiarono al di sopra dei bicchieri
stracolmi. Fu Ryder a fare il brindisi. «Congratulazioni per il vostro veloce
viaggio dal Cairo.»
«Vorrei essere già sulla via del ritorno.»
«Khartum difficilmente può essere scambiata per un luogo di
villeggiatura», concordò Ryder. Poi sorseggiando il brandy conversarono
in maniera guardinga, per sondarsi reciprocamente. Ryder conosceva
Penrod di vista e di fama, e pertanto non c'erano vere sorprese ad
attenderlo.
Penrod dal canto suo imparò in fretta che le informazioni che aveva
erano corrette: Ryder era un personaggio formidabile, duro, veloce,
elastico. Era anche di bell'aspetto, sebbene in maniera ruvida e senza
orpelli: non c'era da meravigliarsi che la deliziosa signorina Benbrook si
fosse mostrata sensibile al suo corteggiamento. Sarebbe stato divertente
mettere alla prova quanto gli fosse affezionata, in un corpo a corpo e da
uomo a uomo, per così dire. Penrod sorrise civilmente, mascherando il
lampo di acciaio negli occhi. Amava pazzamente la competizione,
misurare le proprie abilità e il proprio cervello contro quelli di un altro,
specie se in palio c'era un bel premio. E in più c'era dell'altro. La tresca
della nubile signorina Benbrook con Ryder Courteney dava un tocco
nuovo alla forte attrazione che aveva già sentito verso di lei. Pareva
proprio che nonostante le apparenze la ragazza non fosse fatta di ghiaccio
e che sotto la superficie si celassero abissi affascinanti da esplorare - una
metafora che Penrod si compiacque di avere scelto.
«Avete accennato alla dhurra mancante», esclamò Penrod tornando
sull'argomento.
Ryder annuì. «Ho un interesse personale per quel carico. Un tempo ne
ero il proprietario. L'ho trasportato sostenendo grandi spese e con non poca
fatica per parecchie centinaia di miglia lungo il fiume, per poi farmelo
requisire - qualcuno direbbe rubare - dal leggendario Gordon il Cinese,
l'istante preciso in cui l'ho sbarcato sano e salvo a Khartum.» A quel punto
Ryder tacque, rimuginando sull'ingiustizia subita.
«Naturalmente non avrete la più vaga idea di quel che ne è stato una
volta che ha lasciato le vostre mani...» gli suggerì Penrod con tatto.
«Ho fatto qualche indagine», ammise Ryder. Dietro suo ordine Bashid
aveva dedicato a questo parecchie settimane; persino quelle conigliere che
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erano gli antichi edifici e i vicoli di Khartum non potevano nascondere
all'infinito l'enorme quantità di cinquemila ardeb di grano.
«Amerei conoscere i risultati di tali indagini.»
Ryder osservò la punta del sigaro con un moto di irritazione. La
mancanza di umidità nell'aria del deserto disseccava la foglia di tabacco e
la faceva bruciare come fuoco d'erba. «Avete saputo se, per puro caso, il
buon generale abbia offerto una ricompensa per chi restituisce la dhurra
scomparsa? Sa Dio quanto poco l'ha pagata al primo acquisto! Sei scellini
al sacco!»
«Il generale Gordon non mi ha parlato di alcuna ricompensa», rispose
Penrod scrollando il capo, «ma glielo voglio suggerire. Riterrei che sei
scellini al sacco di ricompensa potrebbero di sicuro portare a qualche
indizio in più, non credete?»
«Forse no. Tuttavia ritengo che un'offerta di dodici scellini al sacco
produrrebbe quasi sicuramente dei risultati.»
«Gliene parlerò alla prima occasione», acconsentì Penrod. «Anche se la
cosa mi sembra un tantino ardua.»
«E che non si tratti di uno dei suoi pagherò», lo ammonì Ryder. «È
risaputo da tutti che il khedivè gli ha concesso diritti di prelievo dal tesoro
del Cairo per duecentomila sterline. Qualche sovrana d'oro canterà meglio
di tutti i canarini di carta che potrebbero sbucar fuori dalla foresta.»
«Un sentimento espresso con poesia, signore», lo encomiò Penrod.
Rebecca sedeva nel suo posto segreto, in un angolo appartato degli spalti
del palazzo consolare. Era nascosta da un antico cannone da cento libbre,
un relitto mastodontico ricoperto di ruggine che probabilmente non aveva
mai sparato un colpo nel loro secolo, e che certamente non avrebbe mai
più sparato. Si era coperta il capo e la camicia da notte con un mantello di
lana scura, e sapeva che nemmeno le gemelle avrebbero saputo trovarla in
quel luogo.
Guardava in alto al cielo notturno e poteva capire dall'altezza della
Croce del Sud sull'orizzonte del deserto che la mezzanotte era già passata
da un pezzo, ma sentiva anche che non sarebbe più riuscita a prendere
sonno. In un solo giorno la sua intera esistenza era stata gettata nella
confusione più totale. Si sentiva come un uccello selvatico in gabbia che
batteva le ali contro le sbarre, sanguinante e pieno di spavento, e che
cadeva sul pavimento della gabbia con il cuore che batteva all'impazzata e
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il corpo tremante, solo per lanciarsi di nuovo contro le sbarre in un altro
inutile tentativo di fuga.
Non capiva che cosa le stesse accadendo. Perché si sentiva così? Non
c'era niente che quadrava. La sua mente continuava a volare indietro a
quella mattina quando, subito dopo aver controllato che le gemelle si
fossero lavate e vestite, lei aveva cominciato la sua settimanale ispezione
domestica. Appena entrata nella Camera Azzurra degli ospiti aveva visto
la strana figura che occupava il letto a baldacchino. Il personale non
l'aveva informata dell'arrivo di un ospite e Khartum sotto assedio era
l'ultimo posto che poteva attirare un visitatore occasionale; di conseguenza
lei, che lo sapeva bene, avrebbe dovuto lasciare immediatamente la stanza
e dare l'allarme. Che cosa invece l'aveva fatta avvicinare al letto Rebecca
non l'avrebbe mai saputo dire. Quando si era chinata sopra la figura che si
intravedeva sotto il lenzuolo, essa le era balzata addosso con l'improvvisa
violenza del leopardo che si lancia da un albero sulla preda, e lei si era
trovata schiacciata sul pavimento da un uomo completamente nudo con
una daga in mano.
Ricordando quel terribile momento chinò la testa e si coprì la faccia con
le mani. Non era la prima volta che vedeva il corpo di un uomo. Quando
aveva compiuto sedici anni i suoi genitori l'avevano presa con sé per un
viaggio nelle capitali europee, e lei e sua madre erano andate a visitare il
David di Michelangelo che l'aveva impressionata con la sua bellezza quasi
divina ma che nel suo freddo marmo bianco non aveva sollevato in lei
nessuna sensazione di imbarazzo. E senza arrossire era stata capace di
discuterne con sua madre.
Sua madre spesso parlava di sé come di una donna emancipata, e a
quell'epoca Rebecca pensava che questo volesse alludere solo al fatto che
fumava sigarette turche nel suo boudoir e parlava con franchezza
dell'anatomia umana e delle sue funzioni. Ma dopo il suo suicidio aveva
scoperto che la parola aveva un significato più profondo. Al funerale al
Cairo le era capitato per caso di sentire alcune signore di una certa età che
mormoravano tra loro, e una aveva fatto notare acida che Sarah Benbrook
aveva fatto «becco» David più volte di quante non gli avesse mai preparato
la colazione. Rebecca sapeva che sua madre non preparava mai la
colazione, tuttavia era andata a cercare la parola «becco» sul dizionario di
suo padre. Le ci era voluto un po' per comprendere il suo vero significato,
ma dopo aveva deciso che non voleva assolutamente essere emancipata
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come sua madre e che invece sarebbe stata fedele a un uomo per tutta la
vita.
Rebecca aveva visto ancora il corpo maschile l'anno precedente. David
si era fatto accompagnare da lei e dalle gemelle in una visita ufficiale nel
tratto superiore del Nilo Vittoria, dove gli uomini delle tribù dei Dinka e
degli Shilluk che abitavano le rive del fiume non portavano alcun tipo di
vestito. Le ragazze si erano riprese dalla prima sorpresa quando il padre
aveva osservato che per quegli uomini adottare lo stato di natura era solo
questione di abitudine e di tradizione, e che non bisognava pensarci più di
tanto. Da quel momento in poi Rebecca aveva giudicato quelle enormi
appendici nere come una forma di ornamento piuttosto sgradevole, del tipo
delle labbra e delle narici forate che aveva visto sulle illustrazioni delle
tribù della Nuova Guinea.
Tuttavia quando quella mattina Penrod Ballantyne le era balzato addosso
l'effetto era stato devastante. L'episodio infatti, lungi dal lasciarla
indifferente o disgustata, aveva sollevato nel suo animo emozioni e
sentimenti di cui non aveva mai nemmeno immaginato, fino a quel
momento, che potessero irrompere violentemente nella sua coscienza.
Anche adesso, nell'oscurità, con il mantello tirato sulla testa e il viso
coperto dalle mani, arrossiva fino a sentirsi il viso bruciare.
Non penserò mai più a quello, si riprometteva. «Quello» era tutto quanto
consentiva a se stessa per descrivere ciò che aveva visto. Mai. Mai più. Al
secondo tentativo riuscì ad astenersi anche da quella descrizione, ma
subito dopo si trovò a pensarci più intensamente che mai.
Dopo quella lontana visita in Europa, le era capitato di ascoltare
casualmente una discussione sull'argomento tra sua madre e uno dei suoi
amici, ed entrambi avevano convenuto che una donna allo stato di natura
era qualcosa di bello, mentre un uomo non lo era, eccetto il David di
Michelangelo, naturalmente.
«Non era brutto od osceno», Rebecca contraddiceva l'ombra di sua
madre. «Era... era...» Ma non era sicura di che cosa fosse stato, tranne che
l'aveva molto turbata, affascinata e resa inquieta. E quello che era accaduto
dopo tra lei e Ryder Courteney era collegato con questo episodio
precedente in una maniera che non riusciva a capire del tutto.
Nei mesi trascorsi lei e Ryder erano a poco a poco diventati amici; lui
era un uomo forte, intelligente e simpatico, e lei se ne era resa conto.
Aveva un patrimonio inesauribile di racconti meravigliosi e, come Saffron
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aveva spesso fatto notare, era bello e sapeva di buono. Lei andava sovente
a cercare la sua compagnia, che si era dimostrata una sicurezza e un
conforto nei giorni dell'assedio, quando la città sembrava nella presa della
morte, delle malattie e della fame. Come aveva osservato suo padre, Ryder
Courteney era un uomo arrivato. Aveva costruito una fiorente impresa
commerciale e la teneva in piedi anche se il mondo sembrava andare in
pezzi. Inoltre ci teneva in modo particolare alla sua gente e ai suoi amici, e
aveva mostrato loro come fare la torta verde, e sapeva farla ridere e farle
dimenticare le sue paure per qualche ora. Quando era con lui si sentiva al
sicuro. Era normale che una volta o due vi fossero stati dei contatti fisici
tra di loro; un leggero tocco sul braccio mentre stavano parlando, oppure la
mano di Ryder che sfiorava la sua mentre passeggiavano insieme. Ma lei si
era sempre ritratta. Sua madre l'aveva spesso messa sull'avviso riguardo
agli uomini: vogliono solo prenderti con la forza e poi lasciarti disonorata
per sempre, tanto da non poter più trovare un marito. Era una cosa già
brutta di per sé ma, peggio ancora, la violenza era dolorosa e,
nell'esperienza di sua madre, solo il parto lo era ancora di più.
Ma proprio quella mattina, dopo l'orribile incontro nella Camera Azzurra
che aveva sollevato in lei quella tempesta di emozioni, era andata da sola
al quartiere di Ryder. Non l'aveva mai fatto prima, e si era sempre portata
dietro almeno una delle gemelle a farle da chaperon. Ma quella mattina era
così confusa, e si sentiva colpevole per i suoi strani e ambigui pensieri sul
capitano Penrod Ballantyne, che aveva perfino il terrore di aver ereditato
da sua madre il seme cattivo. Aveva bisogno di essere confortata.
Come sempre Ryder aveva dimostrato di gradire la sua visita, e aveva
ordinato a Bashid di mettere a bollire un pentolino del suo prezioso caffè.
Avevano chiacchierato per un po', dapprima parlando delle gemelle e delle
loro lezioni che, da quando era cominciato l'assedio, erano state
miseramente abbandonate. Ma poi all'improvviso, e in maniera del tutto
inaspettata, anche per lei, Rebecca aveva cominciato a singhiozzare come
se il cuore le si spezzasse. Ryder l'aveva fissata stupito, dato che non la
conosceva come una ragazza piagnucolosa, ma poi l'aveva circondata con
le braccia e l'aveva stretta a sé. «Che cosa vi accade? Non vi ho mai vista
così. Siete da sempre la ragazza più coraggiosa che abbia mai conosciuto.»
Rebecca era rimasta sorpresa dalla sensazione di piacere di
quell'abbraccio. «Scusate», aveva sussurrato, pur senza fare alcuno sforzo
per sottrarsi alla stretta. «Mi sto comportando da sciocca.»
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«Non siete sciocca. Capisco», le aveva detto, nel tono pacato e profondo
che usava quando si trattava di confortare un animale spaventato o un
bambino che si era fatto male. «Sta diventando troppo anche per tutti noi.
Ma presto sarà tutto finito. La colonna di soccorso sarà qui prima di
Natale, ricordate quello che vi dico.»
Lei aveva scosso la testa. Voleva dirgli che non erano la guerra,
l'assedio, i dervisci o il Mahdi Pazzo, ma lui le aveva accarezzato i capelli
e lei si era calmata, e aveva schiacciato il viso contro il suo petto, il suo
calore e la sua forza, e il suo profumo di ricchezza. «Ryder», gli aveva
sussurrato, e l'aveva guardato in viso per spiegargli come si sentiva. «Caro,
caro Ryder.» Ma prima che potesse aggiungere altro lui l'aveva baciata
sulle labbra. Era rimasta così sorpresa che non aveva più saputo muoversi,
e anche quando si era ripresa a sufficienza per togliersi dalla sua stretta,
non aveva voluto. Era qualcosa di così nuovo e diverso che aveva deciso di
abbandonarvisi per qualche altro istante.
I pochi istanti erano diventati alcuni minuti e quando alla fine aveva
aperto la bocca per protestare, era successo qualcosa di incredibile: la sua
protesta era stata spenta dalla lingua di Ryder che scivolava tra le sue
labbra. La sensazione che l'aveva colta era così coinvolgente che la forza
delle ginocchia aveva minacciato di abbandonarla e si era dovuta
aggrappare a lui per tenersi in piedi. Il corpo muscoloso di Ryder era
premuto in tutta la lunghezza contro il suo, e la sua protesta era uscita
come un miagolio, come il pianto di un gattino appena nato che cerca il
latte della madre. Poi con sua grande costernazione, aveva sentito crescere
qualcosa di mostruosamente duro dove i loro corpi si incontravano in
basso, qualcosa che sembrava animato da vita propria. Si era spaventata,
ma non era riuscita a muoversi e la sua voglia di scappare era svanita.
Una voce acutissima aveva staccato di colpo le catene che la tenevano
prigioniera e l'aveva liberata: «Lo bacia! Becky è qui che bacia Ryder sulla
bocca!»
Ripensando ora a quel momento, si mise a parlare ad alta voce
nell'oscurità sotto la mole del cannone: «Adesso anche Saffy mi odia, e
anch'io mi odio. Ho combinato un tale pasticcio! Vorrei morire».
Non si rese conto di quanto lontane fossero giunte le sue parole finché
non udì una voce risponderle dall'oscurità: «Allora sei qui, al-Jamila». AlJamila voleva dire «la Bella».
«Nazira, mi conosci troppo bene», mormorò Rebecca quando le
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apparvero le familiari rotondità della donna.
«Sì, ti conosco bene e ti amo ancora di più di quanto non ti conosca.»
Nazira si sedette accanto a lei sull'affusto del cannone, e l'abbracciò.
«Quando mi sono accorta che il tuo letto era vuoto, sapevo già che ti avrei
trovata qui.» Rebecca appoggiò il capo sulla spalla di Nazira e sospirò.
Nazira era morbida e calda come un materasso di piuma e profumava di
essenza di rose, e si era messa a cullarla adagio. Dopo un po' le chiese: «E
adesso vuoi ancora morire?»
«Non volevo che tu mi ascoltassi», le rispose mestamente Rebecca. «No,
non voglio morire, almeno per un po' di tempo. Ma qualche volta la vita è
difficile, non è vero Nazira?»
«La vita è una buona cosa. Sono gli uomini che il più delle volte la
rendono difficile», disse Nazira.
«Bashid e Yakub?» la stuzzicò improvvisamente Rebecca. Gli
ammiratori di Nazira non erano un segreto per la famiglia. «Perché non
scegli uno di loro, Nazira?»
«E tu perché non fai la tua scelta, al-Jamila?»
«Non capisco cosa vuoi dire.» Rebecca si tirò via il mantello dalla testa
e fissò Nazira, gli occhi grandi e scuri alla luce delle stelle.
«E invece credo di sì. Come mai il giorno che il bel capitano torna a
Khartum tu corri a rifugiarti da al-Sakhawi, e quando scopri che lui non ti
considera più soltanto una vecchia amica, decidi che vuoi morire?»
Rebecca si coprì di nuovo il viso: Nazira sapeva praticamente tutto,
aveva intuito il resto, e con poche parole l'aveva aiutata a far luce dentro il
tumulto del suo cuore. Continuando a cullarla, Nazira intonò una
filastrocca, una vecchia melodia con delle parole nuove: «Chi dei due
sarà? Come sceglierai e chi sarà?»
«Lo fai sembrare un gioco da bambini, Nazira», finse di rimproverarla
Rebecca.
«Oh, ma lo è. La vita è appunto un gioco da bambini. Ma spesso i giochi
dei bambini, come quelli dei grandi, finiscono in lacrime.»
«Come per la povera piccola Saffy», osservò Rebecca. «Dice che mi
odia e che non mi rivolgerà più la parola.»
«Crede che le hai rubato il suo amore. È gelosa.»
«È tanto piccola.»
«No. Presto sarà una donna, e almeno sa quello che vuole.» Nazira le
sorrise con tenerezza. «A differenza di certe donne più grandi di lei che io
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conosco.»
«Dodici scellini?» insisté Ryder Courteney. «Niente equivoci?»
«Dodici scellini. Parola di ufficiale e di gentiluomo.»
«La definizione si potrebbe discutere», mugugnò Ryder.
«Non porterete un'arma con voi?»
«Sì.» Ryder sollevò la pesante mazza di legno durissimo.
«Intendevo un'arma da fuoco o da taglio», osservò Penrod sfiorando il
revolver nella fondina e la sciabola nel fodero che gli pendeva dal
cinturone.
«Al buio non sarà facile distinguere l'amico dal nemico. Preferisco
ammaccare le zucche con un pugno o una randellata. Sono meno
irrevocabili.»
Si stavano affrettando, affiancati, lungo una delle sordide viuzze del
quartiere indigeno della città; entrambi indossavano vestiti scuri. Il sole era
tramontato da poco più di un'ora, ma faceva già buio; era rimasto solo quel
minimo di luce tardiva che consentiva loro di farsi strada. Bashid li
aspettava accanto alla Torre d'Avorio, uno dei bordelli più malfamati nella
parte più pericolosa della città. Fischiò delicatamente per attirare la loro
attenzione e poi fece segno di seguirlo in mezzo alle rovine di un edificio
distrutto dalle cannonate dei dervisci provenienti dall'altra parte del fiume.
I tre trovarono da sedersi sui cumuli di mattoni e di travi spezzate. La
brace intermittente del sigaro di Penrod spargeva luce appena sufficiente a
distinguere i lineamenti dei loro volti.
«Aswat è già arrivato?» chiese Ryder in arabo.
«Sì», rispose Bashid. «È arrivato un'ora fa, al tramonto.»
«Chi è?» si informò Penrod. «Chi è responsabile di questa faccenda?»
«Non ne posso ancora essere certo. Bashid ha sentito i suoi uomini che
lo chiamavano Aswat, ma indossa una maschera per tenersi ben nascosto il
volto. Comunque, io ho i miei sospetti. Lo sapremo con certezza prima che
la notte sia finita.» Ryder si rivolse a Bashid. «Quanti uomini ha con sé?»
«Ne ho contati ventisei. Incluse sei guardie armate. Lavoreranno fino a
tardi, questa notte. Fanno sempre così. C'è molta dhurra, e i sacchi sono
pesanti da spostare. Aswat li divide in due gruppi di circa dodici uomini
l'uno. Quando inizia il coprifuoco e le strade sono deserte, portano i sacchi
ai clienti in altre parti della città. Due degli uomini di Aswat che
conoscono la parola d'ordine della notte vanno avanti rispetto al loro
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gruppo, per essere sicuri che per strada non ci siano pattuglie. Altri due
uomini stanno in coda per accertarsi che nessuno li segua. Aswat a quanto
pare preferisce non correre rischi per strada.»
«Quanti sacchi distribuisce ogni sera, Aswat?» chiese Ryder.
«Circa centoventi.»
«Dunque fino a ora ne ha venduti alcune migliaia», calcolò Ryder. «È
probabile che nel magazzino gliene restino meno di tremila. Sai quanto fa
pagare al sacco?»
«All'inizio erano cinque sterline egiziane, ma adesso ha alzato il prezzo
a dieci. E prende solo oro, niente banconote», gli spiegò Bashid.
Ryder scosse il capo. «Gordon il Cinese farà un altro affare. La cifra
attuale è dieci sterline e lui mi offre soltanto dodici scellini di
ricompensa.»
«Domani piangerò per voi», gli promise Penrod. «Aswat dove tiene il
grano rubato?»
«In fondo a questa strada», spiegò Bashid. «Si serve di una conceria
abbandonata.»
«Chi hai lasciato di guardia all'edificio?» gli domandò Penrod.
«Il tuo uomo, Yakub. È uno Jaalin, lui. La tribù più perfida che c'è.
Persino quei serpenti viscidi lo hanno cacciato dal nido. Non mi fido
affatto di Yakub. Non ha nessun senso dell'onore, specialmente con le
donne», osservò amareggiato Bashid. La rivalità fra loro due per i favori
della vedova Nazira era cosa risaputa.
«Ma se c'è da combattere è bravo, no?» lo difese Penrod.
Bashid alzò le spalle. «Sì, basta non voltargli la schiena. Sta aspettando
dietro la conceria, sulla riva del canale. I miei uomini sono nascosti nel
cortile della Torre d'Avorio. La padrona della casa è un'amica.»
«Ci credo», borbottò asciutto Ryder. «Sei uno dei migliori clienti.»
Bashid ignorò quel commento frivolo. «Ho scelto di aspettare qui perché
da queste finestre potremo tenere d'occhio il vicolo.» Fece cenno con il
capo in direzione delle luci vuote delle finestre: i vetri erano andati in
frantumi con l'esplosione delle granate, e i serramenti li avevano rubati per
farne legna da ardere. «È l'unica maniera per raggiungere la conceria.»
«Bene», disse Ryder. «Due dei tuoi uomini migliori devono pedinare la
banda. Voglio i nomi dei commercianti coinvolti. Appena li avremo,
andremo in conceria a far visita a Effendi Aswat.»
In quel momento udirono uno scalpiccio soffocato. Bashid si precipitò
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fuori dal buco aperto da un proiettile nella parete posteriore, pronto a
eseguire gli ordini di Ryder. Penrod spense il sigaro e lo avvolse nel
fazzoletto, poi raggiunse Ryder alla finestra vuota. Se ne stavano nascosti
nell'ombra, per non essere riconosciuti dalla strada. Sagome nere, sospette,
passarono davanti alla finestra. Le prime a comparire furono le due
guardie: portavano l'uniforme egiziana color cachi e un fez simile a un
vaso da fiori. Avevano il fucile ad armacollo con la baionetta inastata. Li
seguivano i facchini, curvi sotto i pesanti sacchi di dhurra. A breve
distanza da loro venivano i due uomini armati della retroguardia.
«Ecco perché non mi avete lasciato portare nessuno delle truppe di
guarnigione», osservò Penrod appena quelli sparirono, «e avete insistito
per usare solo i vostri arabi: gli egiziani di Gordon ci sono dentro fino al
collo...»
Ryder lo corresse: «Peggio, fin sopra i capelli...»
Nel giro di pochi minuti i facchini, senza più carico, e le loro scorte
tornarono in fretta sulla strada verso la conceria.
Bashid riapparve più veloce del genio della lampada. «Alì Mohamed
Acrani», raccontò, «che ha una casa dietro l'ospedale, ha comprato tutti i
ventiquattro sacchi della prima consegna.» Aspettarono il passaggio della
spedizione successiva davanti alla finestra. Solo dopo la mezzanotte i
facchini, curvi sotto il loro carico, uscirono dalla conceria per la sesta volta
e procedettero barcollando lungo la strada.
«Sarà la loro ultima consegna», disse Bashid a Ryder. «In nome di Dio,
è giunta l'ora di catturare lo sciacallo mentre ingoia i polli!»
«In nome di Dio, l'ora è giunta!» ripeté Ryder.
Quando uscirono dal retro del palazzo bombardato, trovarono la banda
di Bashid ad aspettarli all'ombra della parete posteriore: erano armati di
spadoni e lance. Nessuno aveva armi da fuoco. Ryder li guidò
silenziosamente giù per la via, rasentando le costruzioni buie su entrambi i
lati. Il profilo della conceria si stagliava contro il cielo stellato del deserto.
Era un edificio di tre piani, scuro e abbandonato, che segnava la fine del
vicolo.
«Molto bene, capitano Ballantyne. Credo sia tempo di andare a cercare il
vostro uomo, Yakub...»
Durante l'attesa nel palazzo distrutto avevano discusso gli ultimi dettagli
dell'assalto, così ora non c'era posto per esitazioni o incomprensioni. Dal
momento che era affare di Ryder, avevano accettato che fosse lui a
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prendere le decisioni e dare gli ordini. Tuttavia Yakub era un uomo di
Penrod, e avrebbe obbedito solo a lui.
Penrod batté sulla spalla di Ryder in segno d'intesa e puntò di corsa
verso il muro di cinta del cortile. La porta era chiusa con un catenaccio.
Penrod rinfoderò la sciabola e spiccando un salto afferrò un appiglio in una
crepa della parete. Infine si tirò su con un agile movimento, spinse le
gambe oltre la cima del muro e sparì alla vista.
Ryder gli lasciò pochi minuti per allontanarsi, poi condusse Bashid e il
resto del manipolo alla porta principale. Conosceva la pianta dell'edificio:
prima dell'assedio aveva mandato quasi tutta la pelle presa in Equatoria
quaggiù, perché fosse trattata dal vecchio tedesco padrone della fabbrica. Il
conciatore poi era fuggito da Khartum con il primo esodo di profughi.
Ryder sapeva che la porta conduceva allo spiazzo di carico. Provò ad
aprirla, ma la trovò chiusa dall'interno. Era di legno secco e crepato, senza
vernice. Tirò fuori il coltello, che affondò nell'uscio come fosse burro.
Ryder fece scorrere la lama lungo la fessura, tra il bordo della porta e lo
stipite, fino a trovare dov'era il chiavistello dall'altra parte. Indietreggiò di
un paio di passi, prese una breve rincorsa e colpì la porta con la pianta
dello stivale destro. Le viti che fissavano il chiavistello saltarono via dal
legno e la porta si spalancò.
«Ora, veloci! Seguitemi!» In mezzo al cortile c'era una piattaforma
sopraelevata di carico, su cui davano le porte principali del magazzino. Era
qui che aveva scaricato i mucchi di pelli grezze per l'essiccazione e aveva
poi ritirato il prodotto finito. Un carro guasto era ancora fermo davanti alla
piattaforma. Il posto puzzava di cuoio semiconciato. Barlumi di luce
filtravano dagli spiragli tra le assi che sbarravano le finestre del
pianterreno, e da sotto le porte principali.
Ryder salì i gradini della piattaforma e raggiunse di corsa l'ingresso
principale, mettendo in fuga dei sorci. Si fermò ad ascoltare e sentì delle
voci attutite dal legno: allora con il peso del corpo spinse delicatamente la
porta, che si aprì di pochissimo, e sbirciò dalla fessura. Un uomo,
appoggiato all'infisso, gli stava dando la schiena. Portava la lunga tonaca
nera dei preti copti e un cappuccio sulla testa. Si voltò di colpo e fissò
Ryder con aria esterrefatta.
«Ah, Effendi Aswat!» lo salutò il mercante, brandendo la mazza di
legno e ferro. «Hai della dhurra da vendermi?» Roteò l'arma, facendo
forza sulle larghe spalle e mirando al capo coperto. Avrebbe voluto
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spaccargliela sul cranio, ma il colpo si schiantò sulla cornice della porta,
sopra la testa, con una violenza tale che gli indolenzì il polso. La mazza gli
sfuggì di mano e colpì di striscio la spalla dell'uomo incappucciato,
facendolo barcollare all'indietro con un urlo di dolore.
«All'armi! All'armi! Il nemico è arrivato!» strillò il prete fuggendo nel
vasto magazzino.
Ryder perse qualche secondo per recuperare la mazza rotolata contro il
muro, quindi diede un'occhiata a quella specie di antro: era illuminato da
una dozzina o più di lampade a olio appese all'inferriata del ballatoio, che
correva tutto intorno ai muri alti, appena sotto le travi del tetto. Nella luce
fioca si accorse che Bashid aveva sottovalutato la forza del nemico:
almeno altri venti uomini erano sparsi per il magazzino. Alcuni erano
schiavi, nudi a parte il turbante e il perizoma; altri portavano l'uniforme
cachi e il fez rosso delle truppe di guarnigione egiziane. Tutti erano rimasti
impietriti nella posa in cui li aveva sorpresi l'urlo del prete.
Gli schiavi stavano ammassando montagne di sacchi al centro del
magazzino e l'odore della dhurra matura si mescolava al vecchio puzzo di
pelle grezza e tannino. Un tenente egiziano e tre o quattro sottufficiali
sovrintendevano ai lavori. Impiegarono qualche istante per riprendersi,
guardando spaventati Ryder che avanzava verso di loro roteando la mazza.
Allora dall'ingresso fecero irruzione Bashid e i suoi arabi con grida
bellicose.
A questo punto i sottufficiali egiziani si riscossero e si precipitarono alla
parete dove avevano appoggiato i fucili. Prima di subire l'attacco di Bashid
e della sua banda armata di spade e lance, il tenente riuscì a estrarre la
pistola dalla fondina e a sparare un colpo. Il magazzino diventò un
putiferio di urla, imprecazioni e fendenti. Uno schiavo si gettò ai piedi di
Ryder e gli afferrò le ginocchia, implorando pietà. Ryder, spazientito,
cercò di cacciarlo via a calci, ma quello restava attaccato come una
scimmia a un albero di banane.
Dall'altra parte del lungo edificio Aswat stava fuggendo, i lembi della
tunica che svolazzavano dietro di lui. Saltò sopra una pila di sacchi di
dhurra e si precipitò su una delle scale di ferro che portavano al ballatoio.
Quando cominciò a salire, le falde dell'abito sbatterono contro le gambe
intralciandogli i movimenti; ciononostante, si inerpicava con agilità.
Intanto continuava a incoraggiare ed esortare i suoi uomini urlando:
«Uccideteli! Nessuno deve scappare! Uccideteli tutti!»
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Ryder colpì con la mazza lo schiavo, che lasciò la presa e si afflosciò a
terra. Poi saltò sopra il suo corpo inerte e raggiunse la scala. Infilata la
mazza nella cintura, balzò sui primi scalini all'inseguimento del falso prete
e ben presto guadagnò terreno. Ora sotto la tunica di Aswat
s'intravedevano stivali da equitazione, lucidi e provvisti di speroni, e
pantaloni da cavallerizzo color cachi.
L'egiziano raggiunse il ballatoio e si aggrappò alla ringhiera, ansimante,
poi si voltò giù a guardare la scala. Quando scorse Ryder avvicinarsi
sempre di più, preso dal panico lanciò un grido stridulo: «Fermatelo!
Uccidetelo come un cane!» Ma i suoi uomini erano troppo impegnati negli
scontri per ascoltarlo. Allora scostò i lembi della tunica cercando di tenerli
sollevati per prendere l'arma che spuntava dal suo fianco, ma non riusciva
a estrarla. Ryder l'aveva quasi raggiunto: Aswat lasciò perdere la spada e
afferrò una lampada a olio appesa alla ringhiera. La sollevò sopra la testa.
«Fermati! In nome di Dio, fermati o ti brucio vivo!»
Il cappuccio della tunica si abbassò mostrando l'uniforme cachi
dell'esercito egiziano, con le spalline e le mostrine porpora da maggiore
sulle spalle. L'uomo aveva riccioli neri e ondulati, lustri di brillantina.
Ryder annusò una zaffata di acqua di colonia. «Maggiore al-Faruk, ma che
bella sorpresa!» esclamò in tono ameno.
L'espressione di al-Faruk era terrorizzata. «Ti avevo avvertito!» gli urlò,
e scagliò la lampada con entrambe le mani addosso a Ryder, che si appiattì
contro i pioli della scala. La lampada passò oltre la sua spalla e, come una
meteora, tracciò nell'aria una scia luminosa di petrolio infiammato. Andò a
sbattere contro la scala d'acciaio vicino a terra ed esplose, liberando una
fiammata sul mucchio più vicino di sacchi di dhurra, che, essendo asciutti,
erano le micce ideali: presero subito fuoco e bruciarono luminosi come
candele, tra guizzi di lingue azzurre.
«Ti avverto!» urlò al-Faruk. «Non avvicinarti!» Tolse la seconda
lampada dal gancio e Ryder, che se l'aspettava, estrasse la mazza dalla
cintura. Il maggiore lanciò la lampada con tutte le sue energie, gemendo
per lo sforzo. Ryder, che se la vide arrivare dritto in faccia, ne deviò la
traiettoria: la lanterna roteò giù, al centro del magazzino, andando a
esplodere sopra un altro mucchio di dhurra. Il grano si incendiò.
Al-Faruk si voltò per scappare, ma Ryder raggiunse il ballatoio e lo
afferrò per la caviglia. L'egiziano gridava e cercava di liberarsi a calci, ma
l'inglese resistette agevolmente e tirò verso il bordo. Al-Faruk si aggrappò
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alla ringhiera con tutte le sue forze, urlando come un maiale trascinato al
macello.
In quel momento un proiettile, sparato dal basso, sfiorò la spalla di
Ryder e colpì in pieno la scala d'acciaio a una spanna dai suoi occhi,
lasciando una nitida striscia di piombo. Il colpo fu così secco e inaspettato
che Ryder allentò la presa sulla caviglia di al-Faruk, che se ne accorse e
scalciò all'indietro. La stella dello sperone dell'altro stivale ferì alla tempia
Ryder, e gli fece perdere l'equilibrio: lasciò andare la gamba per afferrare
il piolo davanti ai suoi occhi, e al-Faruk ne approfittò per fuggire con
strepito lungo il ballatoio.
Un altro proiettile proveniente dallo spiazzo sibilò oltre la testa di Ryder
andando a conficcarsi nel muro, facendo ricadere una pioggia di polvere di
gesso e cemento. L'inglese guardò giù appena in tempo per assistere al
ritorno delle guardie egiziane che avevano scortato l'ultima consegna di
grano: dovevano aver visto le fiamme e sentito gli spari. Cominciarono a
far fuoco all'impazzata sugli uomini di Bashid, colpendoli anche con le
baionette e le spade. L'uomo che aveva sparato a Ryder ricaricò la
carabina, puntò in alto la canna mozza e mirò contro di lui. Senza potersi
muovere, Ryder vide il lampo sprigionarsi dalla bocca del fucile, seguito
dal fumo nero della polvere da sparo: il proiettile si infranse sulla piastra
d'acciaio appena al di sopra della sua testa. Allora, spronato all'azione,
continuò ad arrampicarsi: mancavano ormai pochi scalini al ballatoio. Lo
guadagnò d'un balzo e si mise a correre dietro al-Faruk.
L'egiziano era sparito da una porticina all'altro capo del ballatoio. Ryder
la raggiunse aspettandosi altri proiettili dal cecchino di sotto, ma quando
guardò giù lo vide annaspare sul pavimento, come un pesce gatto appena
catturato che agonizza sul fondo della barca. Bashid gli stava sopra, un
piede appoggiato sulla gola, e cercava di estrargli dal petto la punta di una
lancia. In quel momento un uomo si precipitò verso di lui: Bashid diede
l'ultimo strattone, recuperò la lancia e la scagliò contro il nuovo
aggressore.
Ryder si accorse che da basso i suoi uomini erano in pesante inferiorità
numerica e, benché lottassero come leoni, presto sarebbero stati sopraffatti.
Stava per lasciar scappare al-Faruk e tornare indietro da loro, quando altri
due uomini entrarono nel magazzino dalla porta sul retro.
«Lunga vita al glorioso Decimo!» esultò quando riconobbe, pugnali alla
mano, Penrod Ballantyne e Yakub. Penrod schivò la baionetta del tenente
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egiziano diretta alla sua faccia, e per tutta risposta gli infilzò con
precisione la gola: la lama d'argento squarciò le vertebre e uscì dalla nuca
macchiata di sangue chiaro. Penrod estrasse agilmente la lama e il tenente
cadde a terra, battendo convulsamente i talloni sul pavimento negli spasmi
dell'agonia. Penrod trovò allora il tempo per fare un saluto a Ryder, che
stava per lanciarsi verso la porta in fondo al ballatoio.
«Era al-Faruk!» urlò Ryder a Penrod. «È fuggito di qua. Cercate di
tagliargli la ritirata!» Solo questo riuscì a dire, e non sapeva neanche se il
capitano avesse sentito, e tanto meno capito. Le fiamme strepitavano come
un'imponente cascata, e l'intero contenuto del magazzino stava bruciando:
il fuoco aveva attaccato le travi di legno asciutto che reggevano le pareti e
il tetto.
Addio ricompensa, pensò amaramente Ryder, e tossendo in mezzo al
fumo si diede a inseguire al-Faruk. Facendo capolino dalla porticina che
dava sull'esterno inspirò una profonda boccata d'aria fresca e, con le
lacrime agli occhi per il fumo, vide che sotto di lui una scala scendeva
lungo la parete posteriore della conceria verso l'alzaia del canale.
Al-Faruk era ancora sugli ultimi scalini, alle prese con i lembi della
tunica, ma quando vide la testa di Ryder riprese a scendere e fece gli ultimi
due metri con un salto, atterrando sulle mani e le ginocchia. Cadde senza
alcun danno e fulminò l'inglese con lo sguardo. «Sta' indietro!» gli urlò.
«Non cercare di fermarmi!» Tentò ancora di sollevare gli orli del vestito e
questa volta riuscì a raggiungere la fondina alla cintola. Estrasse la pistola
e la puntò su Ryder. Dalle finestre sul retro della conceria, la luce delle
fiamme illuminava l'alzaia: Ryder si accorse che la mano del maggiore
tremava. Gocce oleose di sudore gli scendevano lungo le guance e
stillavano dal doppio mento. L'egiziano sparò due colpi in rapida
successione, ma colpì il muro ai due lati della porta. Ryder ritrasse la testa
e sentì i passi di al-Faruk allontanarsi lungo l'alzaia.
Se raggiunge il vicolo riuscirà a fuggire, pensò Ryder sgusciando fuori
dalla porta e girandosi per appoggiare i piedi agli ultimi pioli della scala di
sicurezza. La discese a perdifiato e quando giunse a tre metri d'altezza
saltò, atterrando con una violenza tale che si morse la lingua. Mentre
sputava sangue si accorse che al-Faruk aveva un vantaggio di almeno
cento metri: era quasi arrivato all'angolo dell'edificio.
Portando sempre con sé la mazza, Ryder si lanciò all'inseguimento, ma
l'egiziano girò l'angolo e sparì. Alcuni secondi dopo arrivò anche lui
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all'angolo, ma l'uomo era già a metà del vicolo: filava a una velocità
incredibile per un fisico così massiccio. Continuò a rincorrerlo. Una volta
arrivato in fondo alla via, al-Faruk sarebbe scomparso nel labirinto
contorto dei vicoli. Non si farà catturare, se la squaglierà da Khartum
stanotte, pensò amaramente Ryder. All'alba sarà dall'altra parte del fiume e
si trasformerà nel suddito più devoto del Mahdi. Quanti danni potrebbe
farci allora!
Ryder stava cominciando a guadagnare terreno. Purtroppo non
abbastanza in fretta, pensò.
Ma non appena al-Faruk giunse in fondo alla strada, una figura elegante
sbucò dal vano scuro di una porta e gli fece uno sgambetto. L'egiziano
rovinò a terra con una violenza tale da restare senza fiato. Tuttavia si
dibatté sul ventre grassoccio nel tentativo di recuperare la pistola
scivolatagli di mano nella caduta: le dita erano già sull'impugnatura
quando Penrod gli calpestò con forza il polso, bloccando la mano.
Ryder, sopraggiunto in quel momento, si fermò sopra al-Faruk e lo colpì
sulla nuca con la mazza. L'egiziano si abbatté con un grugnito nella
polvere.
«Un aggancio perfetto!» si complimentò Ryder con Penrod. «Senza
dubbio messo a punto sui campi da rugby di Eton.»
«Non Eton ma Harrow, caro mio. Non confondiamo le scuole», lo
corresse Penrod. Quando Yakub apparve al suo fianco, passò con
disinvoltura all'arabo. «Legalo ben stretto. Gordon Pascià sarà contento di
scambiare quattro chiacchiere con lui.»
«Credi che mi permetterà di assistere all'esecuzione?» chiese Yakub
speranzoso, mentre sfilava la cintura al prigioniero e la usava per legargli
le braccia dietro la schiena.
«Mio caro Yakub», rispose Penrod, «sono sicuro che avrai un posto
speciale in prima fila.»
Il cielo e i tetti della città erano illuminati a giorno dall'incendio della
conceria. Lasciarono al-Faruk a Yakub e tornarono all'ingresso principale.
Il calore delle fiamme era così intenso che i soldati erano costretti ad
abbandonare l'edificio, e man mano che uscivano dalle porte o saltavano
giù dalle finestre trovavano ad aspettarli Bashid con la sua banda. Ci
furono urla e grida feroci, tintinnare di lame e qualche sparo, ma pian
piano la maggior parte dei ribelli della guarnigione egiziana fu catturata.
Alcuni riuscirono a fuggire per i vicoli, e fu Yakub a lanciarsi al loro
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inseguimento.
Il sorgere del sole vide i superstiti procedere in catene e sotto scorta fino
all'entrata di forte Mukran. Il generale Gordon li vide arrivare dall'alto
delle merlature e mandò a chiamare Penrod. La sua espressione calma si
mutò in gelida furia quando venne a sapere della perdita di tremila sacchi
della sua preziosa dhurra. «Avete lasciato a un civile il comando
dell'incursione?» chiese a Penrod, con gli occhi azzurri fiammeggianti. «A
Courteney? Quel trafficante del mercato nero? Quello squallido individuo
senza uno straccio di patriottismo o coscienza civile?»
«Vi chiedo scusa, signor generale, ma Courteney si è impegnato nel
recupero del grano scomparso tanto quanto noi. Di fatto, sono stati i suoi
uomini a scoprire dov'era nascosto», fece notare discretamente Penrod.
«Il suo impegno è arrivato a dodici scellini a sacco, non un penny più in
là. Se il comando l'aveste preso voi, questo fiasco si sarebbe potuto
benissimo evitare.» Gordon si alzò in punta di piedi per fulminarlo con lo
sguardo. Penrod, irrigidito sull'attenti, si sforzava di non rispondere per le
rime.
Con un evidente sforzo Gordon riprese la calma. «Bene, almeno siete
riuscito a catturare il capobanda. Non mi stupisce sapere che è il maggiore
al-Faruk. Mi servirà da esempio per tutto il resto della guarnigione. Lui e i
suoi complici verranno sparati dalla bocca di un cannone.»
Penrod sbatté le palpebre: si trattava di una pena particolarmente feroce,
prevista dalle usanze militari soltanto per i crimini più gravi. Per quanto ne
sapeva, era stata eseguita l'ultima volta quasi trent'anni prima, in India,
contro i Sepoy catturati dopo la repressione della rivolta.
«E non verserei neppure una lacrima se anche a quella canaglia di
Courteney dovesse toccare la stessa fine.» Il piccolo generale si avvicinò a
grandi passi alla finestra del suo quartier generale e si accigliò volgendo lo
sguardo alle linee nemiche, oltre il fiume. «In ogni caso, non credo che si
possa fare una cosa del genere a un inglese», disse in tono di rammarico.
«Purtroppo... Ma troverò qualcosa che non gli lasci nessun dubbio su
quello che penso realmente del suo comportamento e del suo valore
morale. Sarà qualcosa che riguarderà le sue tasche. Del resto è lì che
risiede la sua coscienza.»
Penrod sapeva che la migliore tattica era il silenzio. Il buon Dio sa che
non nutro grande simpatia per Ryder Courteney, pensava. Senza dubbio
sarebbero presto venuti ai ferri corti per conquistare i favori di una giovane
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donna di loro comune conoscenza. Eppure era difficile soffocare una
strisciante ammirazione per l'ingegno e il coraggio di quell'uomo.
Gordon si girò ed estrasse dalla tasca l'orologio d'oro. «Le otto. Voglio
che per le cinque di oggi pomeriggio quel bastardo di al-Faruk e i suoi
scagnozzi siano processati, condannati e preparati per l'esecuzione. Voglio
che il tutto si svolga pubblicamente nel maidan, per impressionare il più
possibile la popolazione. Non tollero il mercato nero in una città dove la
maggior parte degli abitanti muore di fame. È compito vostro, Ballantyne,
e desidero che lo svolgiate a regola d'arte.»
È finito tutto bene, si disse Penrod, passeggiando sulla terrazza del
palazzo consolare prima di ritirarsi a dormire. Raggiunse un imponente
albero di tamarindo, i cui rami ombreggiavano metà dello spiazzo, e si
appoggiò al tronco. Stava fumando il sigaro cubano offertogli da Ryder
Courteney al momento della separazione. Courteney aveva rifiutato l'invito
ad assistere alle esecuzioni. «Non lo biasimo. Anch'io avrei preferito
essere destinato a un altro incarico», mormorò.
Adesso, quando ci pensava, si sentiva un po' turbato. Trasse una lunga e
profonda boccata dal sigaro. Alle cinque di quel pomeriggio la guarnigione
di Khartum, quasi al gran completo, si era schierata nel maidan per
assistere alla punizione. Solo il minimo indispensabile era stato lasciato a
presidiare le fortificazioni della città. Benché nessuno gliel'avesse
ordinato, sembrava che anche l'intera popolazione civile avesse circondato
il perimetro del terreno della parata, disponendosi in tre, quattro file. Gli
otto cannoni Krupp erano allineati ruota contro ruota, e puntavano ad alzo
massimo verso Omdurman e le orde dei dervisci assediami. Le munizioni
erano così scarse che non ci si poteva permettere di sprecare neanche
quelle otto palle, per cui, dopo la loro principale opera di distruzione,
avrebbero proseguito nella loro traiettoria fino oltre il fiume per esplodere
fra le legioni degli assediami e, con un po' di fortuna, avrebbero ucciso
anche qualche altro nemico.
I primi a essere portati fuori erano stati i trafficanti del mercato nero e i
commercianti della città sorpresi in flagrante con le provviste di grano di
al-Faruk. Alì Mohamed Acrani era in testa alla fila. Perquisendo le sue
proprietà dietro l'ospedale, Penrod aveva trovato seicento sacchi nascosti
nelle celle dei capanni degli schiavi.
I prigionieri erano stati messi in riga dietro i cannoni. Il generale Gordon
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aveva imposto loro di assistere alle esecuzioni; in più tutti i loro beni,
compresa la dhurra di contrabbando, erano stati confiscati. Infine
sarebbero stati espulsi dalla città e la loro sorte rimessa alla clemenza del
Mahdi e dei suoi Ansar dall'altra parte del fiume. Penrod rifletté sul loro
destino: potendo scegliere, avrei preferito il bacio mortale del cannone,
pensò.
La sua mente tornò allo spettacolo di quel pomeriggio nel maidan. Dopo
che tutto il pubblico si era radunato, Penrod aveva dato l'ordine che il
maggiore al-Faruk e gli altri sette condannati fossero condotti fuori dalle
celle di forte Mukran. Erano in alta uniforme. Ognuno si era fermato
sull'attenti davanti al pezzo d'artiglieria al quale era stato assegnato. Il
sergente maggiore aveva letto l'accusa e la condanna con una voce
stentorea, sentita chiaramente da ogni singolo spettatore. La folla aveva
teso il collo per afferrare le ultime, tremende parole: «... verranno lanciati
dai cannoni». Un brusio di trepidazione si era levato dalla ressa. Nessuno
di loro aveva mai assistito a una scena del genere. Sollevarono i bambini e
i ragazzi perché vedessero meglio e guardarono il sergente maggiore
arrotolare il foglio con la sentenza e passarlo a una staffetta, che lo portò
dove si trovavano Gordon Pascià e il capitano Ballantyne. Il soldato salutò
e porse il rotolo al generale. «Molto bene.» Gordon ricambiò il saluto. «Si
esegua la sentenza.»
Il sergente maggiore marciò con fare inflessibile lungo la fila dei
condannati: si fermava davanti a ognuno, strappava con un gesto solenne i
gradi dalle loro spalle, i distintivi al merito e le pettorine delle uniformi.
Gettava poi a terra nella polvere corone d'oro, galloni, medaglie.
Dopo che gli otto uomini, degradati e disonorati, furono rimasti con i
vestiti laceri, venne impartito un altro ordine. Furono accompagnati uno
alla volta davanti ai cannoni che li attendevano e fatti sistemare a gambe e
braccia divaricate sopra l'imboccatura. Le grandi bocche da fuoco erano
puntate al centro del petto, le braccia dei condannati legate lungo i lati
della canna nera e scintillante. In quell'abbraccio grottesco avrebbero
ricevuto il bacio mortale dei cannoni. Al-Faruk si gettò a terra nella
polvere dello spiazzo: strepitava, piangeva, pestava i piedi. Alla fine i
soldati lo trascinarono al suo cannone.
«Pronti per eseguire la sentenza!» urlò il sergente maggiore.
«Si proceda!» replicò seccamente Penrod, volto e voce impassibili.
Il sergente maggiore sguainò la spada e sollevò la lama. Il tamburino al
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fianco alzò le bacchette fino all'altezza della bocca, poi le lasciò cadere
sulla pelle del tamburo in un lungo rullo. Il sottufficiale abbassò la spada e
il tamburino si fermò di colpo. Ci fu un momento di silenzio. Penrod
riprese fiato. Poi il primo cannone tuonò.
La vittima sparì per un attimo in una densa nuvola grigia di polvere e di
fumo. Le parti separate del suo busto stavano roteando in cielo. Allo sparo
seguì un silenzio sordo, poi gli spettatori scoppiarono in un applauso
spontaneo quando la testa ricadde a terra e rotolò nel fango seccato dal
sole.
Il sergente maggiore alzò di nuovo la spada. Il tamburo rullò, e di nuovo
s'interruppe di colpo. Un'altra botta assordante. Questa volta la gente
conosceva già l'esito e agli applausi sfrenati si mischiarono sonore risa. AlFaruk era l'ultimo della fila e quando si avvicinò il suo turno cominciò a
implorare perdono. La folla prese a scimmiottarlo. Il ventre dell'egiziano si
svuotò rumorosamente e i pantaloni s'imbrattarono di feci liquide. L'ilarità
degli spettatori esplose in un boato quando il tamburo rullò per l'ottava e
ultima volta. La testa di al-Faruk volò più in alto di tutte le altre.
Penrod fissò il mozzicone del sigaro: si accorse a malincuore che non
avrebbe potuto dare un altro tiro senza bruciarsi le dita. Lo gettò sulle
piastrelle della terrazza e lo schiacciò sotto il tallone. Era tardi, aveva
terminato l'ispezione notturna delle difese, ma prima di andare a letto lo
aspettava un mucchio di pratiche da smaltire. La mattina, per prima cosa,
Gordon avrebbe richiesto tutti i suoi elenchi e rapporti. Il piccolo despota
non si curava degli inconvenienti dell'assedio e del pesante carico che gli
aveva già messo sulle spalle. «Mio caro Ballantyne, noi dobbiamo
continuare a resistere e a dare il buon esempio.»
Almeno non risparmia neanche se stesso, sì consolò Penrod. Si stava
staccando dall'albero, pronto per salire all'appartamento assegnatogli da
David Benbrook, quando un leggero movimento su un balcone del primo
piano richiamò la sua attenzione. Alzò la testa e scorse una portafinestra
aperta, da cui si poteva vedere dentro la stanza. Una lampada a olio, posata
su una toletta, illuminava l'interno dove si distinguevano le aste e il
baldacchino di un letto. La tappezzeria era a motivi di rose rosse e rami di
piante.
Una snella figura femminile apparve sulla soglia, illuminata da dietro
dalla lampada, che spandeva intorno alla sua testa un'aureola dorata come
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quella delle madonne medievali. Benché non riuscisse a vederla in viso,
riconobbe subito Rebecca. Indossava una veste di una stoffa lucente con
un riflesso azzurrino, forse crespo di Cina. L'abito era aderente e metteva
in risalto i fianchi e la vita, lasciando scoperte le braccia sotto i gomiti.
Uscì sul balcone e la luce della luna aggiunse delicate tonalità argento al
chiarore dorato dietro di lei.
La ragazza gettò un'occhiata giù nel giardino e sulla terrazza, ma non lo
vide: in parte lo coprivano le fronde del tamarindo. Raccolse i lembi del
vestito, e, dondolando con un movimento aggraziato il suo corpo delizioso,
si sedette sul parapetto. Era scalza, le gambe scoperte fino alle ginocchia. I
polpacci erano torniti, i piedi piccoli, da fanciulla. Penrod era ammaliato
dalla loro eleganza. Adesso la luce della lampada la investiva di profilo
lasciando l'altra metà del viso in una misteriosa ombra lunare. In una mano
teneva una spazzola d'avorio, i lunghi capelli biondi erano sciolti. Se li
stava lisciando, a partire dalla scriminatura chiara al centro della testa per
finire al fondo della schiena dove la capigliatura ondeggiava, danzava.
Aveva un'espressione serena e dolce.
Penrod desiderò essere abbastanza vicino da poter esaminare ogni
angolo e particolare del viso di lei e magari catturare una traccia del suo
profumo. Nonostante i guanti, le maniche lunghe e il cappello di paglia a
larghe tese che portava abitualmente durante il giorno, la pelle delle
braccia e delle gambe di Rebecca non era, secondo la moda, candida, ma
lievemente dorata. Il collo era lungo e delicato, la testa chinata in modo
accattivante. Cominciò a canticchiare in sordina. Penrod non riconobbe il
motivo, ma non poté resistere alla malia di quel canto. Si avvicinò al
balcone con l'accortezza del cacciatore: al termine di ogni colpo di
spazzola lei chiudeva gli occhi per un attimo e lui ne approfittava per fare
un piccolo passo in avanti. Adesso poteva udire il respiro della ragazza alla
fine di ogni battuta della melodia e gli pareva quasi di sentire il calore e la
morbidezza delle labbra di lei fra le sue. Se le immaginava dischiudersi
tremanti per fargli assaporare la squisita fragranza di mela della bocca.
Alla fine Rebecca posò la spazzola, raccolse i capelli in una treccia
spessa e l'arrotolò sopra la testa. Dal risvolto dell'abito prese una lunga
forcella tempestata di gioielli a un'estremità, e la usò per fissare
l'acconciatura. In quel momento volse il capo e Penrod ne approfittò per
muovere altri passi.
Rebecca s'immobilizzò come la gazzella che avverte l'avvicinarsi del
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leopardo. L'uomo era fermo e tratteneva il fiato. Allora lei si voltò fino a
trovarsi di fronte a Penrod; i suoi occhi si spalancarono. Per un attimo
guardò in basso, verso di lui, poi ritrasse le gambe dal parapetto e scattò in
piedi. Le sue labbra formularono un'accusa silenziosa: «Mi stavate
spiando!»
La ragazza si dileguò chiudendo la portafinestra dietro di sé con uno
scatto silenzioso della maniglia, come se non volesse essere udita da altri.
Come se il fatto che lui l'avesse spiata dovesse restare un segreto fra loro
due. A Penrod stava scoppiando il cuore, il suo respiro era affannoso.
Rimpiangeva di averla fatta fuggire. Avrebbe voluto osservarla più a
lungo, ma anche così era riuscito a carpire qualche segreto dal suo viso
incantevole.
Il capitano lasciò la terrazza e, mentre saliva la scala del palazzo in
direzione del suo alloggio, il suo istinto predatore, cui per un breve
intervallo era subentrata una specie di timore reverenziale, si risvegliò.
Sorrise. Almeno adesso, pensò, sappiamo dove trovare il boudoir di
mademoiselle, qualora si presentasse la necessità.
A differenza della sua gemella, Amber era rimasta imperturbabile di
fronte a ciò che entrambe avevano visto quando avevano sorpreso la
sorella maggiore con Ryder. Fu l'unica delle sorelle Benbrook che tornò al
quartiere di Courteney il giorno dopo. Arrivò alla solita ora, con Nazira al
seguito, e subito si occupò del gruppo di una trentina di donne sudanesi
che stavano preparando la preziosa torta verde. Era contenta di non dover
condividere la sua autorità con Saffron.
All'officina del porto, Bashid trovò il suo padrone e gli riferì in un
bisbiglio quello che doveva.
Ryder sollevò lo sguardo dal fumaiolo dell'Ibis, che stava saldando
insieme a Jock McCrump. «E le altre due sorelle?» chiese. «La signorina
Saffron e la signorina Rebecca?»
Bashid scosse la testa. «Solo la signorina Amber.» Ryder non aveva
intenzione di mettere a parte di quella conversazione Jock McCrump e i
fuochisti e lubrificatori dell'Ibis. Indicò la porta e il suo uomo lo seguì
fuori.
Erano già a metà del cammino per tornare al suo quartiere, quando
Ryder aprì bocca. «Cosa è successo, Bashid?» L'altro sembrava
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sinceramente non capire, ma Ryder era sicuro che la notte prima avesse
diviso il materasso con Nazira e conoscesse ogni dettaglio di ciò che era
trapelato nelle ultime ventiquattr'ore dalle stanze delle signore nel palazzo
consolare di Sua Maestà Britannica.
«Raccontami quello che sai», insistette.
«Io sono un uomo semplice. Conosco solo cavalli e cammelli, le
cateratte e le correnti del Nilo. Che ne so del cuore di una donna?» Scosse
la testa. «Su questi misteri dovresti interrogare qualcuno molto più esperto
di me.»
«Chiamami Nazira.» Ryder trattenne un sorriso. «La aspetto alle gabbie
delle scimmie.»
Nazira provava simpatia per Ryder Courteney. Naturalmente il suo
sguardo era scialbo, come quello della maggior parte dei ferenghi, e i suoi
occhi avevano una tonalità innaturale e sconcertante di verde, ma l'aspetto
e l'età di un uomo contano poco se egli è generoso con la sua famiglia. Le
sue spose non avrebbero mai patito la fame: era un uomo forte nel corpo e
nella mente, e avrebbe sempre protetto quelli che amava. C'era della
dolcezza in lui. Non avrebbe mai picchiato le sue donne, a meno che i loro
comportamenti non l'avessero richiesto. Sì, provava simpatia per lui.
Peccato che finora al-Jamila non avesse mostrato lo stesso buon senso.
Nazira giunse al recinto degli animali e sussurrò al vecchio Alì che
poteva restare, ma a una distanza tale da non ascoltare. Lei poteva anche
essere una vedova di quasi quarant'anni, ma era una donna devota e
rispettabile. Era convinta che nessuno all'infuori di lei fosse a conoscenza
della sua amicizia discreta con Yakub e Bashid.
Salutò Ryder, invocando su di lui la benedizione del Profeta, si toccò il
cuore e la bocca e si accovacciò educatamente a una certa distanza da lui.
Coprì la parte inferiore del volto con lo scialle e aspettò che l'uomo
cominciasse a parlare.
Ryder s'informò della sua salute e lei gli rispose che stava bene. Poi le
chiese della salute delle sue protette. «Al-Jamila sta benone.»
«Sono contento di saperlo. Ero preoccupato. Oggi non è venuta ad
aiutare le donne.»
Nazira chinò un po' la testa, ma tacque. «Nazira, dimmi, al-Jamila è
arrabbiata con me?» La donna fece un sospiro di disapprovazione. La
domanda mancava del benché minimo tatto e non andava certo gratificata
di una risposta. Tuttavia questa volta gli avrebbe concesso delle attenuanti:
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dopo tutto lui era un infedele.
«Al-Jamila pensa che ti stai approfittando della sua buona fede. Lei ha
bisogno di conforto e consiglio ed è venuta da te come amica, invece tu ti
sei comportato come vecchio libidinoso.»
Bashid vide la faccia di Ryder contrarsi in una smorfia di stupore.
«Io, un vecchio libidinoso? Ma si sbaglia! Nutro per lei grande rispetto e
affetto. Io non sono un vecchio libidinoso!»
Nazira stava camminando sul filo del rasoio della lealtà. Non poteva
raccontargli che la vera offesa per Rebecca stava nel fatto che, oltre alle
gemelle, li aveva scoperti anche il bel capitano. Ma Ryder le stava
simpatico e così gli diede una piccola parola di conforto. «Le voglio bene
come fosse mia figlia, ma è ancora una ragazzina e ignora tutto del suo
cuore. Cambia con la luna, il vento e la corrente, proprio come un dau
privo di guida. Quando dice di non volere mai più vedere una persona,
intende al massimo fino a mezzanotte... ma probabilmente non fino al
mezzogiorno seguente.»
Ryder soppesava quelle parole, e intanto infilava un pezzetto di ricotta
vegetale tra le sbarre della gabbia di Lucy, un cercopiteco verde. Doveva
partorire da un momento all'altro. La bestia afferrò il suo polso e leccò le
briciole dalle dita. «Cosa devo fare, Nazira?»
La donna scosse la testa. Gli uomini erano proprio dei bambini!
«Qualunque cosa tu faccia ora, peggiorerà la situazione. Non fare nulla. Le
dirò io quanto stai soffrendo. La maggior parte delle ragazze ama sentirsi
dire queste cose. Quando verrà il tempo, le parleremo di nuovo.»
Ryder fu molto contento di questa offerta di aiuto. «E Saffron? Perché
non è venuta ad aiutare Amber?»
«Filfil sta male a causa del tuo comportamento con sua sorella
maggiore.» Filfil in arabo significa «pepe» ed era il soprannome di
Saffron. «Ha anche espresso l'intenzione di non parlarti mai più. Dice di
voler morire.»
Ryder tornò a preoccuparsi. «Per un bacio, e anche piuttosto casto! Tutto
qua! E vuole morire?»
«Già da tempo ti ha scelto come suo futuro sposo. Ha anche discusso i
particolari con me. E ti avverto che non ti permetterà di avere più di una
moglie...»
Ryder scoppiò in una risata incredula. «Ah, che bambina dolce e
simpatica... ma è pur sempre una bambina!»
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«Però tra qualche anno sarà in età da marito.» Nazira non sorrideva. «E
coltiva progetti ben precisi...»
Ryder rise di nuovo, ma questa volta con una certa apprensione.
«Nazira, io non voglio illuderla, ma neanche ferirla. Le puoi portare il mio
messaggio? Le puoi dire che c'è un importante lavoro che l'aspetta e che ho
bisogno di lei?»
«Glielo dirò, Effendi.» Nazira si alzò in piedi e fece un inchino. «Ma le
servirà un incoraggiamento ben più grande perché perdoni la tua infedeltà.
Ora devo andare ad aiutare al-Zahra.» Il nome arabo di Amber significava
«il Fiore». «Non cuciniamo mai abbastanza ricotta per nutrire tutte quelle
bocche affamate...»
Dopo che la donna se ne fu andata, Ryder rimase ancora qualche minuto
vicino alla gabbia della scimmia, a considerare la delicata situazione.
Lucy, appoggiata alle sbarre, la pancia gonfia tra le ginocchia, si lasciava
accarezzare la testa. Le piaceva farsi grattare dietro le orecchie e farsi
togliere i parassiti dalla pelliccia. Alla fine Ryder sospirò e fece per
andarsene, ma l'animale gli afferrò la mano, cercando di trarla a sé
attraverso le sbarre, e affondò i denti bianchi e aguzzi nel pollice.
«Bestiaccia!» La schiaffeggiò. Lucy urlò come se avesse un male atroce
e si rifugiò in cima alla gabbia, da dove strillò furiosamente contro di lui.
«Maledizione a te e a tutte le astuzie femminili!» imprecò Ryder, e
succhiandosi il pollice lasciò il recinto per tornare giù al porto. Jock
McCrump sperava di terminare in giornata le riparazioni allo scafo e al
motore, e stava già pensando a un'uscita di collaudo per l'Ibis.
Penrod era in piedi sul parapetto dell'avamposto presso la sponda,
davanti all'isola di Tutti. Stava calpestando i sacchi di sabbia per saggiarne
la compattezza. Aveva fatto riempire i sacchi vuoti delle provviste di
dhurra e li aveva collocati nei punti deboli delle fortificazioni. «Va bene!»
dichiarò al sergente egiziano incaricato dell'operazione. «Ora ci serve
qualche trave in più per le feritoie.» Su ordini del generale Gordon, Penrod
aveva fatto smantellare gli edifici abbandonati e recuperare il legname per
rafforzare i baluardi difensivi.
Passeggiò lungo la cima del muro difeso dai sacchetti di sabbia,
fermandosi ogni cinquanta o cento passi per scrutare la riva in basso.
Aveva piazzato dei paletti di segnalazione nella striscia di terra fangosa tra
la base del muro e l'inizio dell'acqua. Un mese prima il Nilo sciabordava a
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un metro dalla sommità del muro; due settimane dopo soltanto pochi
centimetri di fango lambivano la base della fortificazione. Ora la riva era
larga quasi due metri. Ogni giorno il fiume si ritirava sempre più: nei
prossimi mesi sarebbe subentrato il regime del Nilo basso, ed era proprio
quello che stavano aspettando i dervisci. Allora le ampie sponde si
sarebbero asciugate offrendo un sicuro approdo ai dau che avrebbero
traghettato le truppe al di là del fiume, e garantendo una solida base per
lanciare l'assalto finale alla città.
Il capitano saltò giù sulla riva e spostò i paletti verso il margine del
fiume in ritirata. In certi tratti c'erano quattro, sei metri di terreno scoperto.
Certo, avranno bisogno di un po' più di terra per compiere un attacco su
vasta scala, pensò, ma il fiume sta diminuendo rapidamente. Alla testa
dell'esercito del Mahdi vi erano generali astuti ed esperti, uomini come
Osman Atalan. Presto avrebbero cominciato a saggiare le difese del
nemico con incursioni e sortite notturne. Da dove inizieranno a colpirci? si
chiedeva. Costeggiando il perimetro cercava di individuare i punti deboli,
quelli dove ci si poteva aspettare i primi assalti. Incamminandosi verso
forte Mukran ne aveva scoperti almeno due.
Trovò il generale Gordon in uno dei suoi posti d'osservazione preferiti,
sul parapetto del forte. Era seduto sotto una tenda di paglia, a un tavolo
pieghevole cosparso di binocoli, taccuini e mappe. «Sedetevi, Ballantyne.
Avrete sete.» Gli indicò sul tavolo una brocca di terracotta piena d'acqua.
«Grazie, signore.» Penrod si riempì un bicchiere.
«Potete stare certo che è stata bollita per un'intera mezz'ora!» Era una
battuta non priva di sottintesi pungenti. Minacciando punizioni corporali il
generale aveva ordinato a tutta la guarnigione di bollire l'acqua in quel
modo. Aveva imparato l'utilità di quella precauzione durante le campagne
in Cina. I risultati erano stati notevoli, anche se all'inizio Penrod aveva
pensato che si fosse trattato di un altro dei capricci che il generale aveva da
quando era diventato un fervente devoto. Il colera infuriava invece tra la
popolazione civile, che, sprezzante delle disposizioni di Gordon, riempiva
gli otri direttamente dal fiume e dal canale, dove si scaricavano le fogne
della città. Nelle truppe della guarnigione, invece, si erano registrati solo
tre casi: si scoprì che avevano disobbedito e bevuto acqua non bollita.
Tutti e tre erano morti. «Che maledetta fortuna!» aveva osservato Penrod
con David Benbrook. «Se fossero sopravvissuti, Gordon li avrebbe fatti
fucilare...»
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«La morte del cane, così la chiamano. Fiotti caldi dei propri escrementi,
vomito, ogni muscolo e ogni tendine contratto da crampi atroci, al posto
del corpo uno scheletro rinsecchito, la testa ridotta a un teschio!» David
era rabbrividito. «No, tante grazie... non fa per me. Mi berrò la mia acqua
bollita!»
Al pensiero di quella così dettagliata descrizione, Penrod sentì la pelle
d'oca. Ma anche la sete poteva uccidere altrettanto velocemente. Il caldo e
l'aria del deserto succhiavano l'umidità dal corpo e la gola diventava riarsa.
Sollevò il bicchiere apprezzando il lieve odore di brace, prova che era
acqua sicura e la vuotò in quattro lunghi sorsi.
«Bene, Ballantyne, che mi dite della riva nord?» Gordon non perdeva
mai tempo in convenevoli.
«Mi sono segnato una serie di punti deboli lungo la linea.» Penrod
dispiegò la sua mappa sul tavolo e ne fermò un angolo con la brocca. La
esaminarono insieme. «Qui e qui... sono i punti peggiori. Il livello del
fiume sta diminuendo sensibilmente: altri tre pollici da mezzogiorno di
ieri. Ogni giorno che passa ci esponiamo sempre di più. Dovremo
rafforzare quelle posizioni.»
«Il cielo sa quanto siamo a corto di uomini e materiale per mantenerci al
passo...» Gordon alzò su Penrod uno sguardo sornione. «Avete
suggerimenti?»
«Be', signore, come dite voi, non possiamo sperare di mantenere
inespugnabile tutta la linea...» Gordon si accigliò. Non sopportava quelli
che definiva «soggetti pessimisti». Ma Penrod si affrettò a spiegarsi per
evitare un aspro rimbrotto. «...Così ho pensato che potremmo lasciare di
proposito qualche varco nelle nostre difese più esterne per spingere i
dervisci ad attaccare...»
«Ah!» La fronte accigliata si distese. «Dei doni avvelenati!»
«Esattamente. Lasciamo un varco, dietro cui tenderemo una trappola. Li
attiriamo in un vicolo cieco, che investiremo con il fuoco d'infilata delle
Gatling.»
Con aria assorta Gordon si fregò la barbetta argentea sul mento.
Possedevano solo due mitragliatrici Gatling, avanzo della spedizione di
Hicks che si era rifiutato di prenderle con sé durante la marcia verso El
Obeid perché le aveva ritenute troppo ingombranti. Ogni arma era montata
sul proprio pesante affusto, un asse solido con due ruote ferrate, e per
essere trasportata aveva bisogno di un tiro di almeno quattro buoi. Il
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meccanismo era fragile e si inceppava spesso; inoltre Hicks aveva più
fiducia nel fuoco di fila dei quadrati di fanteria che in quello proveniente
da una sola postazione visibile. Poteva convenire che le Gatling tornassero
utili in una strategia difensiva statica, ma era convinto che non ci fosse
posto per loro in una colonna offensiva estremamente rapida. Perciò,
quando si era messo in marcia per andare a distruggere El Obeid, aveva
lasciato le due mitragliatrici e circa centomila pallottole delle speciali
munizioni calibro .58 nell'arsenale di Khartum.
Penrod le aveva trovate relegate in un angolo buio del deposito, sotto
teloni impolverati. Conosceva bene le Gatling. Aveva addestrato due
gruppi dei più promettenti soldati egiziani ai suoi ordini, e in una settimana
aveva insegnato loro a usare quelle armi. Benché il congegno di sparo
fosse complicato, quelli avevano imparato subito. Le cartucce calibro .58
rivestite di rame venivano inserite, sfruttando la gravità, da una tramoggia
in cima all'arma. L'artigliere girava una manovella a mano e sei pesanti
canne d'ottone ruotavano su di un asse centrale. Ciascuna pallottola,
quando cadeva dalla tramoggia, si infilava in uno dei sei otturatori azionati
da una camma, era bloccata nella culatta, e quindi sparata ed espulsa
sempre usando la forza di gravità. La velocità di sparo dipendeva dal
vigore con cui l'artigliere girava la manovella; erano necessarie forza e
resistenza per mantenere un fuoco intenso più di qualche minuto. Nelle
esercitazioni Penrod aveva contato per ogni mitragliatrice circa trecento
pallottole in mezzo minuto. Naturalmente, però, quando si scaldavano
s'inceppavano spesso; tutte le mitragliatrici che conosceva avevano questo
difetto.
In una cosa Hicks aveva ragione: le Gatling non erano facilmente
trasportabili. Penrod aveva capito che, in caso di un attacco notturno
improvviso, sarebbe stato impossibile spostarle rapidamente da una
postazione all'altra lungo le sei miglia del sistema difensivo cittadino.
Penrod riassunse il piano: «L'idea è attirarli nei finti punti deboli verso le
Gatling, signore, e poi farli a pezzi».
«Ottimo!» esultò Gordon. «Mostratemi di nuovo dove intendete disporre
le trappole.»
«Bene, signore, pensavo che qua sotto il porto potrebbe essere il punto
più naturale.» Gordon fece un cenno di assenso. «L'altro punto dovrebbe
essere qua, di fronte all'ospedale.» Penrod picchiettò la mappa con l'indice.
«Dietro entrambe le postazioni si apre un dedalo di vicoli stretti. Li
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bloccherò con mucchi di calcinacci e travi di legno, poi piazzerò le Gatling
dietro dei muri di mattoni resistenti...» Discussero il piano per oltre un'ora
prima che finalmente Gordon lo congedasse. «Molto bene, Ballantyne,
potete procedere.»
Penrod salutò e prese la rampa che si allontanava dal parapetto del forte. A
metà strada si arrestò per scrutare a nord. Soltanto degli occhi aguzzi come
i suoi potevano distinguere il minuscolo puntino nero nel cielo azzurro e
limpido. All'inizio gli sembrò un falcone che planava da nord sulle distese
del deserto di Monassir; di recente aveva scoperto una coppia di quegli
splendidi volatili nidificare sotto il cornicione dell'arsenale. Osservò la
sagoma avvicinarsi, poi scosse la testa. «Non è il battito d'ali del falco...» Il
puntino aumentò di dimensioni e alla fine Penrod esclamò: «Un piccione!»
Di colpo gli venne in mente il suo ultimo viaggio da nord, quando con
Yakub aveva attraversato l'ansa del Nilo. Seguì l'avvicinarsi dell'uccello
con estremo interesse: quando raggiunse il fiume, cominciò a tracciare
nell'azzurro acciaio del cielo un ampio cerchio, al cui centro era la città di
Omdurman.
«Sta tornando alla piccionaia.» Riconobbe la manovra. Quasi sempre i
piccioni cominciavano un lungo volo con un certo numero di rotazioni per
orientarsi, e terminavano alla stessa maniera prima di scendere verso casa.
L'uccello volteggiò ampiamente sopra il fiume, poi passò dritto sulla testa
di Penrod.
«Ecco un altro dannato messaggero dei dervisci...» Aveva intravisto il
piccolo rotolo di carta di riso legato alla zampa. Tirò fuori di tasca
l'orologio e controllò l'ora. «Le quattro e diciassette minuti.» Aveva
comprato quell'orologio dal console Le Blanc a un prezzo esorbitante, per
rimpiazzare quello rovinato dall'acqua durante l'attraversamento del fiume.
Osservò il piccione roteare in un altro cerchio che lo portò all'altezza del
palazzo consolare, e poi iniziare la lunga discesa obliqua attraverso le
vaste acque del Nilo. L'ultima immagine del volatile fu la sua picchiata
verso la cupola imbiancata della piccola moschea alla periferia sud di
Omdurman.
Rimise in tasca l'orologio. Si sentiva osservato, e cominciò a guardarsi
attorno. La testa del generale faceva capolino sul parapetto. «Che c'è,
Ballantyne?»
«Non ne sono sicuro, generale, ma scommetterei una sovrana d'oro
contro un pizzico di guano d'uccello che il Mahdi sta utilizzando
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regolarmente i suoi piccioni viaggiatori per comunicare con l'esercito del
nord...»
«Se è vero, darei anche più di una sovrana d'oro per mettere le mani su
uno di quei messaggi...» Lo sguardo torvo di Gordon puntò oltre il fiume,
verso la moschea dove era atterrato il volatile. Ormai era quasi un mese
che Penrod era giunto in città. Da allora non avevano più avuto notizie dal
Cairo; non c'era modo di sapere cosa fosse successo al generale Stewart e
alla sua colonna. Avevano iniziato la marcia? Erano stati respinti? Poteva
anche darsi che fossero a pochi giorni di distanza.
«Ballantyne, come riuscireste a procurarmi uno di quei piccioni?» gli
chiese Gordon, glaciale.
Il pomeriggio successivo, un po' prima delle quattro, Penrod era sulla
terrazza del palazzo consolare: il naso all'insù, scrutava il cielo a nord.
«Appena in tempo!» esclamò all'apparire di un puntino in cielo,
leggermente a est rispetto alle sue previsioni. Appena passò sopra di lui
socchiuse gli occhi e calcolò l'altezza e la velocità dell'uccello. «Mmm...
circa duecento piedi, e va come se avesse la coda in fiamme. Non sarà
facile!» mormorò. «Ma non c'è vento, e ho beccato dei fagiani molto più in
alto...» Si lisciò i baffi, che stavano riacquistando il loro vecchio
splendore.
Quella sera la cena al consolato fu molto formale. C'era una dozzina di
invitati, tutto quello che restava del corpo diplomatico e degli
amministratori del khedivè al Cairo. Come sempre, Rebecca faceva da
padrona di casa. David aveva mandato un invito a Ryder Courteney senza
consultare lei o Saffron, che, se avessero potuto, avrebbero certamente
posto un veto.
Ryder aveva allevato una giovane bufala con l'intenzione di rivenderla a
caro prezzo quando la città fosse stata liberata dall'assedio. Ma la speranza
di salvarsi si affievoliva ogni giorno di più, e il vorace appetito della bufala
era sempre più arduo da saziare. Quando arrivò l'invito di David, Ryder
macellò l'animale e ne mandò un quarto con due bottiglie di cognac alle
cucine del console.
Rebecca riconobbe nel dono un'offerta di pace, e ciò la pose in un
terribile imbarazzo: poteva rifiutarlo, sapendo che sarebbe stato la vera
attrazione della serata? Accettarlo, però, avrebbe voluto dire riconoscere
l'esistenza di Ryder, cosa cui non era ancora preparata. Risolse il problema
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facendogli pervenire per mano di Amber un biglietto in cui diceva di
gradire il dono a nome del padre. Sapeva che era una debolezza da parte
sua, ma si mise la coscienza a posto non facendo, in quel messaggio,
neppure un cenno alla partecipazione di Ryder alla cena.
Il mercante, come d'abitudine, arrivò per ultimo. Appariva così elegante
nel suo smoking e sembrava così a suo agio con se stesso e con il mondo,
che la rabbia di Rebecca si acuì.
Nazira mi ha mentito, pensò mentre lo osservava con la coda dell'occhio
conversare affabilmente con suo padre e il console Le Blanc. Il minimo
che si potesse dire era che non sembrava afflitto.
In quel momento si sentì anche lei osservata. Si guardò intorno con
attenzione e vide che il capitano Ballantyne la studiava dall'altro capo della
stanza, con un sorriso d'intesa che cominciava a irritarla. È sempre lì a
spiare, pensò, prima di riprendere la calma e guardare altrove, ma poi notò
che i capelli e i baffi dell'uomo erano cresciuti in maniera veramente
incantevole. Sentì una vampata alle gote, e quella conturbante sensazione
al basso ventre. Allora girò la testa verso Imran Pascià, ex governatore di
Khartum, ora alle dipendenze del generale Gordon.
Dieci minuti dopo tornò a guardarsi furtivamente in giro per vedere se il
capitano Ballantyne la stava ancora spiando, e avvertì un moto di
irritazione quando si accorse che l'uomo era alle prese con le due gemelle,
o loro con lui. Amber e Saffron sghignazzavano in maniera proprio
volgare. Si pentì di aver ceduto alle loro lusinghe accordando il permesso
di partecipare alla cena: avrebbe dovuto farle mangiare in cucina con
Nazira... Riportò una piccola vittoria riuscendo a far sedere Saffron
accanto a Ryder Courteney: la ragazzina avrebbe avuto enormi difficoltà a
tener fede al suo voto di non parlargli mai più! Il capitano Ballantyne,
invece, venne sistemato il più lontano possibile, all'altro capo della tavola,
vicino a suo padre.
Il quarto di bufala era di un bellissimo rosa al centro, e navigava nel
sugo. Gli invitati lo divorarono in religioso silenzio. Prima che i piatti
venissero tolti il capitano Ballantyne sussurrò qualche parola al padre di
Rebecca, si alzò, le fece un inchino e uscì dalla stanza. Lei aveva di meglio
da fare che aspettarsi una spiegazione per quell'uscita. Dopo tutto erano in
guerra e lui era responsabile della difesa della città. Tuttavia le dispiaceva
non avere più occasioni per snobbarlo.
Guardò in fondo al tavolo, verso il secondo oggetto del suo biasimo, e si
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accorse che Saffron, naturalmente, aveva perdonato Ryder. All'inizio della
cena l'uomo aveva ignorato la freddezza della ragazzina, concentrando
tutte le sue attenzioni alla sua destra, su Amber. Saffron si era quasi messa
a piangere dalla gelosia. Allora Ryder aveva cambiato strategia, usando
tutto il proprio fascino con lei. Saffron non se l'aspettava proprio. «Saffron,
lo sai che Lucy ha avuto i piccoli?» Prima ancora di accorgersi della
trappola lei pendeva completamente dalle sue labbra: le raccontò che Lucy
aveva dato alla luce due gemelli, di nome Billy e Lily. Assomigliavano
alla madre, che ne era molto fiera.
«Oh, Ryder, posso venire a vederli domani?... ti prego!»
«Ma, Saffy, Nazira mi ha detto che non stavi bene.»
«Sì, ieri. Mi sentivo malaticcia.» Ryder intuì che «malaticcia» era una
delle sue parole nuove. «Ma oggi sto meglio. Io e Amber verremo da te
domani mattina alle sette.» Il confronto di volontà si era concluso con una
capitolazione completa da parte sua.
Rebecca fece una piccola smorfia di fronte all'ingenuità della ragazzina e
rivolse la sua attenzione al console Le Blanc. Aveva sentito per caso suo
padre dire a Ryder che quell'uomo era strano come un'anatra con quattro
zampe. Peccato che non avesse il coraggio di chiedere a Ryder cosa
volesse dire. Suonava intrigante e lui sapeva tutto. Credo che dovrò
perdonarlo prima o poi, pensò, ma non adesso.
Il dolce era un pasticcio di ricotta, accompagnato da salsa calda al miele:
su istigazione di David Benbrook, Bashid aveva derubato l'alveare che uno
sciame di api in libertà aveva fatto sul tetto del palazzo. Gli era stato
ordinato severamente di limitarsi a un solo favo; David era goloso di dolci
e aveva la tendenza a monopolizzare i prodotti delle api. Anche questo
piatto fu accolto con entusiasmo, e le scodelle di porcellana di Limoges
vennero letteralmente ripulite.
«Non cenavo così dalla mia ultima visita a Le Grand Véfour,
nell'ottantuno...» confessò Le Blanc a Rebecca.
Avrà anche quattro zampe, come anatra, ma sembra proprio un caro
vecchio asino, pensò lei. Con questa nuova, più benigna disposizione
d'animo guardò Ryder, attirò la sua attenzione, gli fece un cenno e sorrise.
Le piaceva molto la spontanea docilità di quell'uomo. Sto diventando
leggera? si chiese. Non sapeva di preciso cosa implicasse l'essere leggera,
ma suo padre disprezzava le donne leggere... o almeno, così diceva.
Dopo che tutti gli invitati se ne furono andati, i Benbrook salirono
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l'ampia scala a chiocciola verso le camere da letto. Suo padre le cinse la
spalla con un braccio, la strinse e le disse che era molto fiero di lei, e che
stava diventando una donna deliziosa.
Allora non pensa che sono leggera, si disse Rebecca, ma si sentiva lo
stesso stranamente insoddisfatta. Mentre si preparava per andare a letto
mormorava: «C'è qualcosa che mi manca. Perché mi sento così infelice?
La vita è breve. Forse domani il Mahdi distruggerà la città e tutto finirà e
io non avrò vissuto...»
Come se il mostro i avesse sentita e si fosse risvegliato nella sua tana,
dall'altra parte del Nilo arrivò il rombo dell'artiglieria. Rebecca udì un
sibilo sopra la sua testa, poi ci fu un'esplosione nel quartiere popolare
vicino al canale. Con i capelli sciolti sulle spalle in una nuvola d'oro,
s'infilò in fretta la veste da camera di seta, appoggiò la lampada a terra e
aprì la portafinestra del balcone. Esitava, si sentiva insicura e colpevole.
Non ci sarà nessuno, si diceva. È passata mezzanotte. Se lui è ancora
sveglio, sarà sul lungofiume con le Gatling.
Uscì sul balcone e prima di potersi frenare gettò un'occhiata in basso, ai
rami folti del tamarindo. Quando capì di aver ragione, ebbe un moto di
sgradevole disappunto: in effetti non c'era nessuno. Sospirò, appoggiò i
gomiti sul parapetto e guardò oltre il fiume.
Il Beduino Pazzo è andato a letto presto, pensò. Dal tramonto si era
registrata solo quella cannonata, ora tutto taceva. Osservava i pipistrelli
volteggiare e scendere in picchiata alla luce della luna: erano a caccia di
insetti sui rami più alti del ficus in fondo alla terrazza. Passò qualche
minuto. Sospirò di nuovo e si raddrizzò. È tardi; non ho sonno, ma dovrei
andare a letto, si disse.
Un fiammifero brillò nell'ombra sotto il tamarindo, e il suo cuore ebbe
un sussulto. La fiamma diventò un bagliore giallo e Rebecca vide la faccia
di Penrod illuminarsi come fosse un ritratto in un cammeo, mentre il resto
del corpo restava avvolto nelle tenebre. Aveva un lungo sigaro nero tra i
denti, ne teneva la punta contro il fiammifero e aspirava profondamente.
La fiamma si ravvivò. Gesù, quant'è bello! Pensò quello sproposito prima
di riuscire a calmarsi. Lui continuò a tenere il fiammifero acceso davanti al
viso e guardò in alto verso di lei. Rebecca ricambiò lo sguardo. Li
separavano parecchi metri, eppure lei era ipnotizzata, come un uccellino
davanti al cobra.
Il capitano spense il fiammifero e l'immagine della sua faccia svanì.
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Rimase solo il barbaglio del sigaro, a ogni boccata prima luminoso e poi
evanescente. Rebecca tornò preda di un dolore intenso e spossante, finché
perse definitivamente il controllo delle sue emozioni. Come in trance si
voltò piano, tornò in camera e uscì nel corridoio. Oltrepassò la porta della
suite di suo padre e i suoi piedi nudi volarono più rapidi sulla moquette
setosa verso la scala. Scese giù di corsa e all'improvviso la colse il timore
che mentre raggiungeva la terrazza lui se ne sarebbe potuto andar via.
Armeggiò convulsamente con la serratura della porta d'ingresso: le sembrò
passasse un'eternità prima che si aprisse. Corse per il prato, poi si fermò di
colpo quando vide la sagoma nera di lui esattamente dove l'aveva lasciata.
Penrod si tolse il sigaro di bocca, lo gettò a terra e attese. I piedi di
Rebecca si mossero di nuovo per conto loro, prima lentamente, poi più in
fretta. «Non so... non posso...» balbettò.
«Non parlare...» le intimò. E lei sentì una profonda gratitudine, anche se
non ne capiva il motivo. Si gettò fra le sue braccia, e le sue braccia si
chiusero su di lei. Perse ogni contatto con la realtà. La bocca di Penrod
sapeva di fumo e muschio pregiato, un distillato virile di ambra grigia, un
raro elisir d'amore. Si sentiva terrorizzata e indifesa, ma anche al sicuro e
protetta come se fosse stata portata in un castello fatato.
La veste di seta e la camicia di cotone leggero non furono d'ostacolo.
Sotto, la pelle di Rebecca era calda, ma le abili dita di lui accesero fuochi
ancora più intensi e profondi dentro di lei. La ragazza chiuse gli occhi,
rovesciò il capo e si arrese alle sue mani. Poi le mancò il respiro e i suoi
occhi si spalancarono davanti a una sensazione quasi troppo forte da
sostenere. Il groppo lancinante alla bocca dello stomaco esplose lasciando
il posto a una nuova, meravigliosa sensazione che si diffuse per tutto il suo
corpo. Guardando giù si accorse di avere la camicia slacciata fino
all'ombelico e la bocca di Penrod premuta sul seno. Sentì i suoi denti sui
capezzoli, e le sembrò che quel morso potesse arrivare fino al cuore.
Si sentì senza peso quando lui la prese fra le braccia e l'adagiò sul prato;
l'erba sotto la schiena era fresca e morbida. Le sollevò le gonne e l'aria
della notte le accarezzò le cosce e il ventre. Sentì il peso di Penrod
stendersi sopra di lei. La stava toccando dove non era mai stata toccata. Le
sue cosce si schiusero.
Il cannone oltre il fiume tuonò. Rebecca sentì il sibilo del proiettile che
si avvicinava, e le sue gambe si chiusero come le lame di un paio di
forbici. La granata volò sopra di loro, così vicino da toglierle addirittura il
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fiato per urlare. Andò a schiantarsi sull'ala est del palazzo e scoppiò in una
nuvola di fiamme, polvere, gesso e mattoni.
Rebecca respinse con tutta la sua forza Penrod e si divincolò. Saltò in
piedi e con le sue lunghe gambe pallide fuggì come una cerbiatta colta di
sorpresa nella foresta, attraverso la terrazza e su per le scale. In preda al
terrore raggiunse la stanza delle gemelle, accanto alla suite del padre. La
porta non era mai chiusa a chiave. Entrò di corsa, si precipitò dalle sorelle
e le abbracciò forte. Stava singhiozzando, contenta di averle trovate sane e
salve e di essere riuscita a scappare. «State bene, piccole mie? Oh, Gesù,
grazie di averci salvati!» Le strinse ancora di più, ma le gemelle erano
assonnate e scontrose.
«Ma perché ci hai svegliate?» chiese Saffron.
«Cos'hai, Becky? Perché gridi?» domandò Amber, sbadigliando e
stropicciandosi gli occhi. «Perché fai la sciocca?»
Prima che lei potesse rispondere, il padre entrò in camera con una
lanterna in mano. «Tutto bene, ragazze?»
«Ma che cosa è successo? Cos'è tutto questo trambusto?» si indispettì
Saffron.
«Non vi ha svegliate, eh?» David rise. «Il Beduino Pazzo si offenderà.
Sono mesi che prende di mira il palazzo. E la prima volta che riesce a
colpirlo voi dormite come se niente fosse. Dico io, non avete proprio
rispetto!»
«Oh, ma quella era un'esplosione?» chiese Amber. «Credevo fosse un
sogno...»
«E dove ci ha colpiti, papà? Dove?»
«Nell'ala est. Per fortuna era stata evacuata. Nessun ferito. Nessun
incendio. Tutto salvo.»
Le gemelle si riaddormentarono prima che Rebecca le lasciasse. Tornata
nel suo letto, la ragazza non riuscì a prendere sonno. Provò a pregare. «Oh
buon Gesù, mite e dolcissimo, grazie per aver vegliato su papà e le
gemelle. Grazie per avermi salvata da...» Non credeva che fosse necessario
scendere nei dettagli: Egli sapeva tutto. «...Per avermi salvata da un
destino peggiore della morte.» Aveva letto quell'espressione da qualche
parte e ora le sembrava venuto il momento di usarla. «Ti prego, proteggimi
dalle tentazioni!» Ma la preghiera non sembrava confortarla. In realtà non
si sentiva salvata; anzi, si sentiva come dolorosamente privata di qualcosa
di grande valore, qualcosa di prezioso quanto la vita stessa.
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Ripensò a come era stata toccata e cominciò a sentire dolore là dove lui
aveva messo le dita. Timidamente, allungò una mano per assicurarsi di non
essere ferita. Ebbe un moto di paura perché le sembrò di sanguinare in quel
punto, tanto era caldo e bagnato. Scostò la mano e la sollevò al chiaro di
luna che entrava dalla finestra. Le dita erano sì umide, ma non di sangue.
Rimise la mano là sotto e sentì il dolore crescerle dentro. Stava ansimando
e immagini terribili le balenavano dietro le palpebre serrate: Penrod
Ballantyne nudo, sopra di lei, con un coltello in mano. Immaginava che al
posto delle sue dita ci fossero quelle dell'uomo.
Sentì dentro di sé un'esplosione formidabile, e il dolore svanì. Avvertì
un meraviglioso senso di gioia e libertà. Ebbe l'impressione di precipitare
attraverso il materasso affondando nell'oscurità di un sonno caldo e
protettivo. Quando Nazira la svegliò, la luce del sole stava entrando dalla
portafinestra aperta del balcone.
«Che ti è successo, Becky? Sei radiosa come una pesca matura sul ramo
in mezzo ai raggi del sole mattutino.»
L'arabo è una lingua così romantica, pensò Rebecca. Si adatta
perfettamente al mio animo. «Cara Nazira, è come se questo fosse il primo
mattino della mia vita...» rispose nella stessa lingua e si stupì che Nazira
sembrasse di colpo turbata.
Penrod comprendeva la riluttanza di David a separarsi anche per poche
ore dai suoi preziosi fucili calibro dodici, a doppia canna, della ditta James
Purdey e Figli, i migliori di Londra. Armi eccezionali... Dovevano essere
costate per lo meno cinquanta sterline a pezzo, suggerì. «Centocinquanta»,
lo corresse Benbrook. «Solo lo zar di tutte le Russie Alessandro e il Kaiser
di Germania Guglielmo possiedono fucili identici ai miei!»
«Vi assicuro che servono a una nobile causa. Vi do la mia solenne parola
d'onore che me ne prenderò personalmente cura come fossero i miei figli»,
lo lusingò Penrod.
«Spero che li tratterete ancora meglio! È sempre possibile generare figli
balordi... I miei Purdey sono tutta un'altra cosa!»
«Forse è opportuno che vi spieghi perché ho bisogno di prenderli in
prestito...» suggerì Penrod.
David ascoltò con attenzione. Più Penrod andava avanti e più il suo
interesse cresceva. Alla fine sospirò rassegnato: «Va bene, ma a una
condizione: che le gemelle vadano con loro». Quando vide l'espressione
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perplessa di Penrod, continuò: «Sono le mie caricatrici, ho insegnato loro a
portare il dovuto rispetto ai miei fucili».
Le due fanciulle furono felici di partecipare alla missione. Molto più
Amber di Saffron: per lei era l'occasione di stare un po' di tempo con il suo
eroe. Un'ora prima dell'appuntamento fissato erano già pronte sulla
terrazza del palazzo, in trepidante attesa.
Quando Penrod arrivò, pretesero che si allenasse a maneggiare e passare
i fucili. Il capitano si accorse subito di quanto seriamente avessero preso il
loro compito: per assecondarle faceva finta di essere inesperto e rivolgeva
domande stupide: «Dove si mettono le pallottole?»
«Non sono pallottole, ma cartucce, scioccone!» spiegava Amber con aria
di superiorità. Era lei l'istruttrice in capo. Aveva discusso della questione
con Saffron la notte prima, quando le luci erano spente e gli altri
credevano che stessero dormendo. Alla fine Amber aveva risolto il
problema: «Saffy, tieniti pure Ryder, ma ricordati che il capitano
Ballantyne è mio!»
Quando si venne al passaggio dei fucili, Penrod si finse goffo e lento, in
modo da non togliere a Amber il piacere di correggerlo.
«Capitano Ballantyne, quando vi passo il fucile, dovete ricordarvi di
tendere la mano sinistra con la palma in alto, così vi posso mettere
l'estremità anteriore in mano.»
«Così, signorina Amber?» Riusciva a mantenere una faccia impassibile,
mentre rifletteva che più o meno alla stessa età della ragazzina gli era stato
permesso di partecipare per la prima volta alla grande battuta di caccia di
famiglia a Clercastle, nei Borders, e di prendervi posto in prima linea come
un vero uomo.
«Non dovete tenere la mano così in alto, capitano! Sennò non riesco a
raggiungerla.» La ragazzina odiava richiamare l'attenzione sulla grande
differenza di statura, ma alla fine fu soddisfatta. Elogiò anche i suoi
progressi. «Sapete una cosa, capitano Ballantyne? Imparate in fretta.»
«Credo che voi e io saremo un'eccellente squadra, signorina Amber», le
rispose seriamente, e a Amber vennero le vertigini dalla gioia.
«Sì, ma quante volte avete sparato prima di adesso?» Saffron si sentiva
esclusa: una sensazione a cui non era abituata.
«Un paio di volte...» la rassicurò Penrod.
«Il babbo è uno dei migliori tiratori d'Inghilterra», lo informò sussiegosa
Saffron.
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«Sono sicura che il capitano Ballantyne farà del suo meglio.» Amber
mostrò un'espressione contrariata alla sua gemella: non poteva starsene
zitta, una volta tanto?
«Bene, vedremo», concluse Saffron sprezzante.
Tutti e tre aspettarono impazienti sulla terrazza; le gemelle facevano a
gara a chi avrebbe avvistato il piccione per prima. Lo videro nello stesso
istante e si misero a gridare tutte emozionate. La punta delle Alì era di un
bianco sporco. Le piume rilucevano al sole. Quando arrivò dal fiume, era
già alto, e quando passò sopra le loro teste lo era fin troppo: i Purdey
tacevano perché avevano pallottole efficaci a una distanza di sessanta
metri, mentre il volatile era a quasi cento metri da terra.
«Perché non gli sparate?» chiese Saffron quando l'uccello volò sopra di
loro.
«Non è a tiro», rispose Penrod. «Se lo ferisco soltanto e lui riesce a
tornarsene alla piccionaia, i dervisci potrebbero capire le nostre intenzioni
e allora non manderebbero più piccioni. Dobbiamo assolutamente
ucciderlo.»
«Papà l'avrebbe preso.»
«Guardate, sta tornando!» Amber cercava di impedire alla sorella di
infastidire il capitano.
L'uccello compì un ampio giro sopra gli edifici di Omdurman, poi tornò
indietro oltrepassando il Nilo e piegò verso il lungofiume, perdendo
gradualmente quota.
«Ecco, adesso dovrebbe andare bene...» mormorò Penrod, e imbracciò il
fucile. Il gesto fu calmo, quasi casuale. Il braccio sinistro era disteso per
quasi tutta la lunghezza delle canne, la guancia destra premeva contro lo
spigolo del calcio. Puntò l'uccello da dietro la coda e lo seguì nel suo
tragitto. All'ultimo momento, quando l'indice era già sul grilletto, diede al
fucile un colpetto supplementare in avanti. Quindi sparò, e la canna si alzò
per il rinculo. Riprese la mira senza fretta, mantenendo le mani, le spalle e
la testa nella stessa posizione di prima. Il fucile tuonò ancora e sobbalzò
con un fiotto di fumo nero dalla bocca di destra.
«Mancato!» urlò Saffron.
Il piccione era così in alto che c'era un lasso di tempo percettibile tra il
suono degli spari e il momento in cui le pallottole lo raggiungevano: il
volatile sbandò, vacillò. Le zampe si distesero inerti.
«Colpito!» esultò Amber.
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In quel momento il secondo colpo raggiunse l'uccello ferito e si sentì il
rumore dei pallini contro le piume. Uno lo raggiunse sotto il mento e il
piombo perforò il cervello. Il piccione rovesciò il capo all'indietro.
«Morto!» strillò Amber. «Morto stecchito in aria! Neanche papà avrebbe
saputo far meglio!»
Le Alì si chiusero e il piccione precipitò a terra, ma aveva ancora lo
slancio del volo e piegò verso il Nilo.
«Sta cadendo nel fiume!» urlò allarmato Penrod, e passò il fucile a
Amber. La mossa la sorprese, ma riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a
terra. L'uomo corse giù per il prato verso la riva e lei lo seguì, appesantita
dall'arma.
Per un attimo sembrò che l'uccello dovesse finire sulla terraferma, ma
poi un soffio di vento lo spostò. Penrod si precipitò sulla striscia di terra
fangosa davanti all'acqua e vide con sgomento che il piccione galleggiava
una trentina di metri al largo, in un cerchio di increspature concentriche e
di piume azzurre staccate dal petto.
«Un coccodrillo!» gridò Amber alle sue spalle. A un centinaio di metri
dal piccione Penrod intravide una testa mostruosa solcare la superficie. La
pelle era tutta rughe e nodi come la corteccia di un vecchio olivo. «È
enorme!» urlò Amber.
«Vuol mangiarsi il piccione!» esclamò Saffron.
Il capitano non esitò un attimo: si tolse gli stivali, li scaraventò via, e
corse in avanti strappandosi di dosso la camicia con una foga tale che i
bottoni volarono come chicchi di grano durante la semina. Toccò poi ai
pantaloni, tolti i quali restò con un indumento intimo in seta di un vivace
color cremisi. Avanzò nell'acqua verdastra fino alla vita, poi unì le mani
sopra la testa e si tuffò. Quando la testa riemerse, incominciò a nuotare con
potenti bracciate alla marinara. Il coccodrillo fu attirato da tutta
quell'agitazione, e sbatté la grande coda da una parte all'altra per spingersi
verso Penrod.
«Tornate indietro!» gli urlava Amber. «Lasciate perdere quello stupido
uccello!»
Penrod nuotava come un forsennato, sbattendo con forza entrambe le
gambe per fendere l'acqua. Il coccodrillo, molto più veloce, stava nel suo
elemento naturale ma aveva da fare il triplo della strada. Penrod raggiunse
il corpo del volatile, prese la testa del piccione in bocca, si girò e tornò
indietro. «Più veloce!» gli urlava Amber. «Vi sta raggiungendo! Più
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2005 - Il Trionfo Del Sole
veloce, più veloce!»
Il grosso sauro aveva concentrato tutte le sue attenzioni sulla possibile
preda. Anziché immergersi nuotava in superficie e la lunga coda si
muoveva da una parte all'altra, lasciando dietro di sé una scia di bolle.
Ormai era così vicino che si intravedevano le opache biglie gialle dei suoi
occhi. Le lunghe zanne sporgevano dalle labbra squamose in due file
serrate. Si stava avvicinando alle gambe di Penrod.
«Lo prende!» Amber era impazzita di paura. Non aveva ricaricato il
fucile, ma ora fece scorrere il carrello e aprì il caricatore. Prese un paio di
cartucce dalla borsa di cuoio che portava al fianco, ne infilò una dentro
l'arma, ma l'altra la fece cadere nel fango. Non c'era tempo per recuperarla
o cercarne un'altra, così chiuse il caricatore di scatto. Avanzò nell'acqua,
che le raggiunse prima le ginocchia, poi i fianchi, e infine il costato.
Penrod era proprio davanti a lei, che si dibatteva nell'acqua come un
pazzo, sollevando molta schiuma dietro di sé. Impietrita dal terrore, Amber
guardava il mostro guadagnare sempre più terreno. All'improvviso il
coccodrillo si alzò fuori dall'acqua, e spalancò le mascelle. L'interno della
bocca e della gola era di un civettuolo giallo-ranuncolo. Era così vicino
che la ragazzina vide nitidamente in fondo alla gola il lembo di pelle che
chiudeva l'apertura dell'esofago per impedire all'acqua di inondare i
polmoni. Le zanne erano affilate e seghettate. Sentì il fiato mefitico uscire
dalle fauci. L'animale stava per avventarsi sulle gambe di Penrod.
Amber sollevò il fucile e, con il pollice, tirò indietro il cane decorato. In
qualsiasi altra occasione avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani per
spingere la pesante molla dell'otturatore, ma adesso era come esaltata. Il
calcio era troppo lungo per posarlo sulla spalla, così se l'infilò sotto
l'incavo dell'ascella destra. Prese la mira tenendo gli occhi ben aperti,
come le aveva insegnato suo padre, e premette il grilletto posteriore. Se
avesse premuto quello anteriore, il martelletto sarebbe scattato su una
camera vuota. David le aveva insegnato proprio bene.
Il fucile sobbalzò, tuonando e sparando il proiettile pochi centimetri
sopra la testa di Penrod che rimase assordato dalla detonazione. Il rinculo
fece volare all'indietro Amber e l'arma. La ragazzina sparì tra i mulinelli
del fiume.
Il colpo prese il coccodrillo proprio dentro la gola. Le enormi mascelle si
chiusero con un rumore di porta sbattuta e il corpo si inarcò in uno spasmo
di acuto dolore. Il muso, nero e luccicante, arrivò quasi a toccare la coda.
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L'animale, emerso per metà, fece una capriola all'indietro, poi si tuffò
sott'acqua e fuggì in un ampio vortice di flutti verdi.
Adesso Penrod toccava il fondo e si stava dirigendo dove Amber era
caduta. Le orecchie gli ronzavano dolorosamente per lo scoppio e, mentre
scrollava la testa per riprendersi, la carcassa fradicia del piccione, che
aveva ancora fra i denti, gli sbatteva contro le guance.
Vide i capelli sciolti di Amber galleggiare come una graziosa pianta
acquatica. Ne afferrò qualche ciocca e riuscì a tirare la testa in superficie.
La ragazzina sputava e tossiva, ma teneva ancora stretto il Purdey del
padre. Penrod cambiò presa, riuscendo ad afferrarla sottobraccio e ad
avanzare a fatica verso la riva insieme a lei, in un imbarazzante groviglio
di gonne fradicie, capelli e membra scaldanti.
«Mettetemi giù!» ansimava. «Vi prego!»
La posò a terra. «Tossite, sputate fuori tutto!» le ordinò. «Non
inghiottite!» La batté in mezzo alle scapole. Le fogne della città
scaricavano nel fiume a monte di quel punto. Non aveva intenzione di
perdere quella piccina per la furia cieca del colera.
David e la maggior parte del personale di palazzo avevano seguito tutto
dalla terrazza e ora si stavano precipitando sulla riva. Prima del loro arrivo
Penrod s'inginocchiò davanti a Amber. «Tutto bene adesso?»
«Adesso sì», ansimò, «anche se il fucile di papà è bagnato...»
«Siete una ragazza fantastica e molto coraggiosa!» Penrod la abbracciò
forte. «Vi dovrei scegliere per ogni mia missione!» Quando arrivò il padre
trafelato, il capitano si alzò in piedi e cinse la spalla di Amber con un
braccio. «Signore, perdonatemi l'ardire, ma debbo la mia vita a questa
giovinetta.»
«Proprio vero, capitano! Lasciatemela baciare!»
Ma prima che ciò potesse accadere arrivarono Nazira e Rebecca.
«Che fiume schifoso!» Rebecca evitò gli occhi di Penrod e allontanò
Amber da lui. «Nazira, portiamola a fare un bel bagno disinfettante.»
In bagno, mentre Rebecca e Nazira le toglievano il vestito sudicio e
infangato e Saffron versava un altro secchio d'acqua calda nel semicupio di
porcellana, Amber era in estasi. «Hai sentito quello che ha detto, Becky?
Ha detto che dovrebbe scegliermi per ogni missione.»
Rebecca, che evitava di proposito di risponderle, si avvicinò alla vasca e
versò una quantità abbondante di Lysol nell'acqua bollente.
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Saffron, invece, non era così silenziosa. «Secondo me speri che diventi il
tuo spasimante», scherzava.
«Certo che lo sarà, un giorno! Aspetta e vedrai!» Amber si mise le mani
sui fianchi nudi e fissò la gemella.
«Non essere sciocca, nanerottola», la rimproverò Rebecca. «Il capitano
Ballantyne potrebbe essere tuo padre... Vieni qua ed entra nella vasca.»
Nazira sentì una stretta al cuore quando vide Amber immergersi
nell'acqua. Nel suo corpo di bimba sembravano essere avvenuti dei
cambiamenti. Presto, dove tutto era piatto e anonimo, sarebbero apparse
curve e rotondità femminili.
«Sto perdendo le mie bambine...» si lamentò la balia fra sé e sé.
Finito che ebbe di allacciarsi i pantaloni, Penrod si mise a esaminare il
piccione. Era un esemplare di notevoli dimensioni, con il piumaggio color
bronzo e la punta delle Alì bianca, probabilmente una femmina, perché
erano i migliori viaggiatori. Il messaggio che portava era stato arrotolato
ben stretto e infilato dentro un bastoncino non più grande della prima
falange di un mignolo, quindi fissato alla zampa con un sottile filo di seta.
Il capitano tagliò con il suo coltellino il filo: avrebbe poi portato l'animale
in cucina. Avvolse il rotolo di carta nel suo fazzoletto, per togliere più
umidità possibile, poi calzò gli stivali, lasciò David a lamentarsi per il
fucile pieno d'acqua e si recò al quartier generale di Gordon, nell'ala
occidentale del palazzo.
«So che ve la siete cavata con il fucile», lo salutò il generale. «Sulla riva
c'era grande trambusto.»
«Sono riuscito ad abbattere un piccione, signore: portava un
messaggio.»
«E avete recuperato quel messaggio?» gli chiese impaziente Gordon.
«Sì... ce l'ho, ma si è bagnato nel fiume. Non ho osato aprirlo perché la
carta di riso potrebbe disfarsi.»
«Diamogli un'occhiata. Posatelo qui.» Penrod obbedì. Depose il
fazzoletto appallottolato sulla scrivania e lo aprì con cautela. Si misero a
esaminare il sottile rotolo di carta.
«Molto bene, non si è sfasciato...» mormorò Gordon. «Vi siete
guadagnato il diritto ad aprirlo!»
Penrod pizzicò il filo di seta con la punta del temperino. La carta di riso
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era così delicata che, quando cercò di aprirla, si strappò lungo le pieghe,
ma poiché il rotolo era stato legato molto stretto la parte più interna era
rimasta quasi del tutto asciutta. L'inchiostro però si era sbavato, e in
corrispondenza delle chiazze le parole erano illeggibili.
«Ci vuole un libro», disse Penrod, «per tenere pressata la carta mentre
finisce di asciugarsi.»
Gordon gli porse la sua copia rilegata in pelle della Bibbia.
«Siete proprio sicuro?»
«Un libro importante per un'occasione importante!»
Penrod aprì la Bibbia e, con estrema cura, adagiò il foglio umido in
mezzo a due pagine, poi chiuse e premette sulla copertina con la palma
della mano. Gordon non stava più nella pelle. Camminava su e giù per la
stanza fumando nervosamente una delle sue sigarette turche, finché sbottò:
«Adesso sarà asciutta quella maledetta carta!»
Sempre facendo attenzione, Penrod riaprì la Bibbia. Il foglio era ancora
intatto, lisciato dalla pressione. Sembrava che non si fosse sciolto altro
inchiostro. Gordon gli consegnò una grossa lente d'ingrandimento. «I
vostri occhi e la vostra conoscenza dell'arabo sono probabilmente migliori
dei miei.»
Penrod spostò il libro sotto la finestra, dove c'era più luce. Cominciò a
esaminare il foglio, e dopo un po' prese a leggere ad alta voce la scrittura
piccola e svolazzante: «'Io, Abdullah Sayid, figlio di Fahl, emiro di
Baggara, saluto il vittorioso Mahdi, che è la luce dei miei occhi, e invoco
su di lui la benedizione di Allah e del suo profeta Maometto...'»
«Formula convenzionale di saluto», borbottò Gordon.
Penrod proseguì: «'Fedele agli ordini del vittorioso Mahdi, sorveglio il
Nilo ad Abu Hamed, e i miei soldati controllano tutte le vie da nord. Il
franco infedele e lo spregiato turco avanzano per due strade diverse. I
battelli dei franchi hanno superato oggi la cateratta a Korti'».
Il generale sbatté la palma della mano sulla scrivania. «Sia lodato Iddio!
Questa è la prima informazione importante in sei settimane! Se i battelli a
vapore di Wolseley sono arrivati a Korti, potrebbero raggiungere Abu
Hamed prima della fine del Ramadan.»
«Be', certo...» lo assecondò Penrod, anche se non ne era così sicuro.
«Avanti; andate avanti!»
«Qua è un po' difficile da leggere, l'inchiostro si è sciolto malamente, ma
dovrebbe essere più o meno così: 'I reggimenti cammellati dei franchi sono
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accampati alle sorgenti di Gakdul da ormai ventotto giorni'.»
«Ventotto giorni? Ma a che diavolo di gioco pensa di giocare Stewart?»
esclamò Gordon. «Se solo avesse un briciolo di buon senso avrebbe già
tolto le tende. Potrebbe raggiungerci in dieci giorni...»
Ecco il tipico stile di Gordon il Cinese: l'impresa audace, il bel gesto,
pensò Penrod, ma si mantenne impassibile. «Anche Stewart è un
ardimentoso, ma dovrà attendere i rifornimenti per compiere il balzo finale
verso la città.»
Il generale si alzò di scatto e gettò il mozzicone dalla finestra aperta.
«Con duemila soldati britannici di prima linea di Stewart, potrei tenere la
città finché il deserto non diventasse di ghiaccio! E invece quello resta a
perder tempo a Gakdul...» Girò sui tacchi e fu di nuovo di fronte a Penrod.
«Su andate avanti, Ballantyne, che altro c'è?»
«Non molto, signore.» Si chinò sul pezzetto di carta rovinato. «'In nome
del vittorioso Mahdi e con la benedizione di Allah, incontreremo gli
infedeli ad Abu Hamed e li annienteremo.'» Penrod alzò la testa. «Questo è
tutto. Sembra che Sayid abbia finito lo spazio a disposizione...»
«Magra consolazione», osservò Gordon. «Intanto il Nilo sta calando...»
«Con una coppia di mehari di Ryder Courteney, io e Yakub saremmo
alle sorgenti di Gakdul in tre giorni», dichiarò Penrod. «Potrei portare il
vostro messaggio a Stewart.»
«Non vi lascio scappare così, Ballantyne.» Gordon fece una risata
ironica, una specie di breve latrato. «Non adesso. Continueremo a seguire
il procedere delle colonne di soccorso intercettando i piccioni viaggiatori.»
«Per uno o due piccioni persi i dervisci potrebbero pensare all'attacco
dei falchi», obiettò Penrod, «ma non dobbiamo insospettirli uccidendo tutti
quelli che arrivano.»
«Certo, avete ragione. Ma io devo avere informazioni. Facciamo così:
colpirete un piccione ogni quattro che ne arrivano.»
Mohamed Ahmed, il vittorioso Mahdi, passeggiava al fresco della sera
lungo la riva del Nilo, accompagnato dal suo khalifa e dai cinque emiri più
fidati. Camminando, elencava i novantanove nomi di Allah e dopo
ciascuno di essi il suo seguito mormorava la risposta.
«Al-Ghafur, il correttore degli sbagli.»
«Dio è grande!»
«Al-Wail, l'amico dei giusti.»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Sia lode a Dio!»
«Al-Qawl, il forte.»
«Possa la sua parola trionfare!»
Giunto alla tomba del santo al-Rabb, il Mahdi si sedette all'ombra
dell'albero che la sovrastava con i suoi rami. Radunati i suoi generali,
chiese a ognuno di descrivergli il suo ordine di battaglia e ragguagliarlo
sulle truppe che comandava. Uno alla volta s'inginocchiarono davanti a lui
e fecero rapporto sulle truppe al loro comando. Il Mahdi apprese che aveva
settantamila uomini raccolti davanti alle mura di Khartum; altri
venticinquemila si trovavano ad Abu Hamed, duecento miglia a nord,
all'ansa del fiume, in attesa dell'arrivo dei due eserciti britannici. Quegli
Ansar erano tra i migliori: il loro ardore religioso e la loro devozione alla
jihad erano incrollabili. Il Mahdi era convinto che nessun esercito di
infedeli potesse contrastarli.
Sorrise a Osman Atalan. «Dimmi cosa sappiamo del nemico», gli
ordinò.
«Potente e vittorioso signore, amato da Dio e dal suo Profeta, sappiate
che ogni giorno Abdullah Sayid, emiro di Baggara, manda un piccione dal
suo accampamento ad Abu Klea, sull'ansa del Nilo. Alcuni uccelli non
hanno raggiunto la piccionaia, perché hanno incontrato falchi o altri
pericoli sul loro cammino, ma la maggior parte è pervenuta a
destinazione.»
Il Mahdi fece un cenno. «Dimmi, Osman Atalan, quali notizie ci portano
questi uccelli sulle manovre nemiche.»
«Sayid ci informa che i battelli degli infedeli, sette in tutto, superando
l'ultima cateratta a sud di Korti, si sono lasciati alle spalle il più arduo
cammino e ora avanzano di buon passo. Procedono di quasi cinque volte
più spediti. Hanno molti uomini e grandi cannoni.»
«Dio li consegnerà nelle mie mani e io li distruggerò!» proclamò il
Mahdi.
«Dio è grande!» replicò Osman Atalan. «La seconda colonna di infedeli
ha raggiunto le sorgenti di Gakdul e colà si è fermata. Ignoriamo il motivo.
Credo che non abbiano più foraggio da dare ai cammelli, i quali stanno
sostenendo una grandissima fatica. Così aspettano a Gakdul di ricevere
altre provviste da Uadi Halfa.»
«Quanti soldati infedeli ci sono a Gakdul?»
«Mio divino, Sayid ha contato più di mille franchi e quasi lo stesso
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numero di cammellieri, guide e servitori.»
«Ma sono impazziti?» chiese stupito il Mahdi. «Come pensano di
sconfiggere i miei centomila Ansar?»
«È probabile che stiano aspettando rinforzi», suggerì timidamente
Osman.
«Quegli infedeli verranno annientati comunque. Nessun mortale può
contraddire la volontà di Dio! È stato Dio a dirmi tutte queste cose!»
«Allah vede e sa tutto!»
«Sappiate che per diverse notti Allah è venuto da me sotto forma di
aquila di fuoco e mi ha confidato molti importanti segreti, troppo
pericolosi per le orecchie dei comuni mortali», proclamò il Mahdi nella
sua voce bassa, melliflua, e tutti si inchinarono davanti a lui.
«Sia benedetto il Mahdi, il solo che ascolta e capisce le parole di Allah!»
salmodiò il khalifa Abdullahi.
«Allah mi ha detto che, prima di poter cacciare per sempre gli infedeli, i
franchi e i turchi dal Sudan dal regno terrestre di Allah e dall'Islam, è
necessario sconfiggere il mio nemico Gordon Pascià. Allah mi ha rivelato
che egli è l'angelo nero, il Satana, sotto forma d'uomo.»
«Possa essere maledetto in eterno e non vedere mai la faccia di Dio!»
urlarono.
«Allah, che tutto sa, mi ha rivelato che il nobile guerriero dell'Islam che
mozzerà la testa di Gordon Pascià dal suo tronco, come un frutto amaro e
cattivo, e la depositerà ai miei piedi, sarà benedetto in eterno e avrà un
posto speciale in paradiso alla destra di Dio. Inoltre riceverà potere e
ricchezza in questo mondo terreno.»
«Dio è misericordioso! Dio è grande!» salmodiarono tutti.
«Allah mi ha parlato e mi ha detto il nome del servitore che mi porterà la
testa dell'infedele», sentenziò solennemente il Mahdi e tutti si prostrarono
davanti a lui.
«Fate che sia io!»
«Se sarò io, non chiederò altri onori in questa vita o nell'altra!»
Il Mahdi alzò le mani e tutti tacquero. «Osman Atalan dei Beja,
avvicinati a me», disse. Osman, aiutandosi con le mani e le ginocchia,
strisciò ai suoi piedi. «Allah mi ha detto che sarai tu il prescelto!»
Lacrime di gioia rigarono le guance dell'emiro, che chinò il capo sui
piedi del Mahdi per lavarglieli con quelle lacrime. Poi srotolò il turbante e
con i suoi lunghi riccioli neri asciugò i piedi del profeta eletto da Dio.
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«Il Nilo sta calando», dichiarò Osman Atalan, «e Dio e il Mahdi ci
hanno assegnato una missione.» Gli aggagir si strinsero intorno al bivacco
e fissarono la sua faccia alla luce del fuoco. «Ci hanno scelto fra tutti i
guerrieri di Allah. Siamo benedetti sopra gli altri uomini poiché a noi è
concessa l'ineffabile occasione di morire per la gloria di Allah e del suo
Mahdi!»
«Lasciaci accogliere il generoso dono di Allah! Guidaci, grande
signore!» lo supplicarono gli aggagir.
Osservò con orgoglio le loro facce fiere. Non erano uomini, erano leoni
affamati di carne. «La nostra sacra missione sarà recare al Divino Mahdi la
testa di Gordon Pascià, perché l'onnipotente Allah ha decretato che solo
quando noi avremo compiuto ciò l'infedele sarà cacciato per sempre da
questa terra e l'Islam regnerà su tutto il mondo!»
«Dovremo forse aspettare il tempo del Nilo basso, per trovare un solido
punto d'appoggio sulla riva della città e un passaggio tra le mura?» chiese
al-Noor.
«Più giorni aspettiamo e più le forze di Satana si avvicinano da nord. I
loro battelli, carichi di uomini e armi, stanno solcando il fiume. Sì, il Nilo
è ancora alto, ma Dio ci ha indicato la strada!» Osman batté le mani: un
vecchio si avvicinò zoppicando alla luce del fuoco e si inginocchiò davanti
a lui. «Non aver paura, Dio ti ama. Nessuno ti farà del male. Racconta a
questi uomini quello che sai.»
«Sono nato e ho vissuto tutta la mia vita nella Città della Proboscide
d'Elefante, Khartum. Ma da quando il vittorioso Mahdi l'attaccò
cingendola d'assedio, la maledizione di Allah si è abbattuta su di essa. Gli
infedeli e i turchi, che hanno deciso di opporsi alla sua saggezza e alla sua
verità, hanno cominciato a soffrire come nessuno mai prima di allora. Le
loro pance vuote s'attaccano al filo della schiena, i bambini sono divorati
dal colera, gli avvoltoi s'ingozzano dei loro cadaveri putrefatti, i padri
abbattono quegli uccelli e li mangiano mezzo crudi, con i gozzi ancora
pieni della carne dei loro stessi figli.» Gli aggagir si agitavano
nervosamente, ascoltando quel racconto: quale orrore, mangiare della
carne di uccelli che avevano divorato i propri figli! «E chi non è ancora
spossato dalla fame lascia la città maledetta, e ogni giorno le difese sono
sempre più deboli e sguarnite. Io sono tra quelli che sono fuggiti. Come
voi, desidero vedere l'infedele cacciato per sempre dal Sudan e il figlio di
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tutti i mali, Gordon Pascià, annientato. Solo allora potrò tornare a casa con
la benedizione del Mahdi.»
«Che Allah te lo conceda!» mormorarono. L'uomo era anziano e debole,
ma aveva uno spirito degno di ammirazione.
«Le malattie, la fame e la diserzione hanno a tal punto decimato i turchi
alleati di Gordon Pascià che gli infedeli non riescono più a difendere le
mura, e così lui ha messo al loro posto dei pupazzi di paglia, come
spaventapasseri, per tenere lontani quelli più pavidi fra di voi.»
«Che cos'è questa storia degli spaventapasseri?» chiese Hassan Ben
Nader. «È la verità?»
«Sì», confermò Osman. «Mi sono avvicinato all'imboccatura del porto, a
bordo del dau di questo coraggioso vecchio. C'è un punto nella difesa dove
un ruscello si getta nel fiume attraverso una porta di pietra: si tratta del
principale deflusso delle fogne cittadine. Gordon Pascià ha fatto presidiare
quella porta e le mura da entrambi i lati con soldati-pupazzo, per sostituire
quelli morti o scappati. Solo la testa si affaccia ai parapetti. Ogni tanto
qualche vecchia li muove, così che visti dalla riva sembrano veri. Nessuno
potrà resistere alla nostra furia. Con un unico attacco penetreremo in quel
varco e allora la città e tutti i suoi abitanti saranno nostri!»
«Dentro ci dev'essere una immensità d'oro e di gioielli», pensò ad alta
voce al-Noor.
«Ci sono donne, centinaia di donne! I turchi hanno scelto come loro
mogli, concubine e schiave le più belle del Sudan e dei territori confinanti.
A ciascuno di noi ne toccherà almeno una dozzina!» Gli occhi di Hassan
Ben Nader brillavano alla luce del fuoco. «Le donne dei franchi hanno
capelli di seta gialla e la loro pelle è come panna...»
Osman li rimproverò per la loro cupidigia. «Dimenticate l'oro e le
schiave! Noi combattiamo per la gloria di Allah e del suo Mahdi! Noi
combattiamo per il nostro onore e per un posto in paradiso!»
«Quando attaccheremo quei pupazzi?» chiese al-Noor, ridendo di
eccitazione. «Sono stato adagiato troppo a lungo nel mio harem, e sto
ingrassando... è tempo di combattere!»
«Fra tre notti la luna si oscurerà e allora potremo attraversare il fiume.
All'inizio approderemo sulla spiaggia con duecento uomini, non v'è spazio
per un numero maggiore. Una volta aperta una breccia, ne arriveranno
mille e poi altri mille ancora. All'alba sarò sui parapetti di forte Mukran
con la testa di Gordon Pascià fra le mani, e la profezia si sarà compiuta.»
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Osman si alzò e impartì ai suoi uomini un segno di benedizione. «Prima di
attraversare il fiume assicuratevi che le vostre spade siano affilate e che le
vostre mogli siano gravide!»
«Il vecchio pescatore, lo zio di Yakub, ha dato il segnale», riferì Penrod
a Gordon il Cinese. «Quello che Yakub stava aspettando: una manciata di
zolfo gettata nelle fiamme della cucina, uno sbuffo di fumo giallo.»
«Ci possiamo fidare di quel tipo... come si chiama, Yakub? A me
sembra una canaglia...»
«Mi sono fidato di lui nelle situazioni più pericolose e sono ancora vivo,
signor generale.» Penrod tratteneva a stento la collera.
«E ditemi: è in grado di informarci su quando attaccheranno i dervisci,
sempre che lo facciano?»
«No, signore, questo lo ignoriamo», ammise Penrod, «ma credo che
approfitteranno della luna nuova.»
Mentre Gordon consultava l'almanacco delle fasi lunari, il terzo uomo
nella stanza, David Benbrook, dava una sua valutazione sulle possibilità di
successo. «È un uomo coraggioso, lo zio di Yakub. Lo conosco bene: è al
mio servizio da quando sono a Khartum. Le sue informazioni sono sempre
state attendibili.» David era seduto su una sedia vicino alla finestra. In quei
giorni lui e il generale erano stati molto tempo insieme. Erano improbabili
come amici, ma quando le lamentele di Gordon aumentavano sembrava
che lui riuscisse, a suo modo, a placarle.
Senza dare nell'occhio Penrod studiava la faccia di Gordon mentre
parlava con David: anche quando era tranquillo, un nervo gli pulsava sulla
palpebra destra. Questo era l'unico indizio visibile di quanto fosse teso. Un
altro segnale chiaro e significativo arrivava dal suo comportamento, ed
erano gli eccessi di crudeltà. A Penrod sembrava che diventassero ogni
giorno più selvaggi, come se con il curbascio, i plotoni di esecuzione e le
impiccagioni si potesse ritardare la caduta della città. Deve rendersi conto
che la nostra battaglia sta volgendo al termine e che la popolazione ha
perso ogni speranza e interesse, pensava Penrod. Crede di poterli
obbligare, convincendoli che le conseguenze della loro disobbedienza
saranno di gran lunga peggiori di qualsiasi cosa possa fare loro il Mahdi?
Penrod studiava la faccia di Gordon mentre parlava con David Benbrook.
Almeno Benbrook è una persona non priva di umanità, pensò. La sua
influenza su Gordon non può che essere positiva.
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Mise da parte queste considerazioni non appena Gordon si alzò e
d'improvviso si rivolse a lui. «Orsù, Ballantyne... andiamo al porto a
vedere i vostri preparativi per affrontare l'imminente attacco!»
Penrod sapeva che non era prudente per Gordon mostrarsi sulle mura
dove si aspettava l'assalto: molte spie sorvegliavano ogni sua mossa, e i
dervisci erano troppo astuti per non sospettare che stesse preparando
qualcosa contro di loro. Ma sapeva anche che era ancora meno prudente
contraddire quel piccolo uomo.
Ma l'apprensione di Penrod era immotivata: Gordon era una volpe
troppo astuta per portare i suoi cacciatori fino all'entrata della tana. Prima
di lasciare il palazzo, infatti, si tolse il fez e calzò un sudicio turbante che
arrivava a nascondergli mezza faccia; poi coprì l'uniforme con una sporca
e ordinaria galabiyya. Da lontano sembrava un qualsiasi abitante di
Khartum.
Quando giunsero al porto, il generale non si mostrò sui parapetti;
tuttavia fu molto meticoloso e accurato nella sua ispezione. Sbirciò da ogni
feritoia che si apriva sulle mura degli edifici abbandonati, affacciati sulle
fetide acque di scarico del ruscello. Si fermò dietro una Gatling e passò in
rassegna le scintillanti canne multiple da un lato all'altro. Ma non era
contento che ci fosse una zona morta esattamente sotto le bocche da fuoco.
Lasciò il nido della Gatling, scese nella fanghiglia del ruscello e si piazzò
sulla linea di fuoco, quindi si avvicinò all'avamposto.
«Tenete il pezzo puntato contro di me», ordinò.
Il mitragliere abbassò il mirino, ma poi scosse la testa esasperato. «Siete
troppo vicino, signor generale. Adesso è impossibile!»
«Capitano Ballantyne, se i dervisci raggiungono questo punto saranno
fuori dal campo di fuoco.» Gordon sembrava compiaciuto di avere colto
Penrod in fallo.
Il capitano capì che non era una scusa per sovraccaricarlo di
responsabilità: molto più semplicemente, aveva peccato di negligenza. Si
redarguì in silenzio. Una svista così madornale è grave quanto far mancare
alle armi le munizioni, si disse amaramente. Ordinò agli zappatori di
abbattere il muro di sacchetti di sabbia e di ricostruirlo con una base più
bassa.
«La seconda Gatling dove l'avete piazzata?» chiese Gordon. Ora Penrod
era sulla difensiva. Stava accusando il colpo.
«Nell'avamposto di fronte all'ospedale. È il secondo punto debole lungo
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il perimetro. Non oso lasciare indifeso quel varco e scommettere tutto che i
dervisci attaccheranno qui. Sono in grado di portare due attacchi
simultanei a entrambe le postazioni.»
«Attaccheranno qui», sentenziò Gordon in tono solenne.
«Concordo che in questo la probabilità sia più elevata. Per questo ho
fatto preparare un altro nido di mitragliatrici qua sopra, in modo da coprire
la spiaggia e tenere sotto il fuoco entrambe le sponde del ruscello. Non
appena il nemico sferrerà l'attacco, potrò trasportare la seconda
mitragliatrice dall'ospedale fin quaggiù. Parimenti, se ci siamo sbagliati e
l'attacco sarà all'ospedale, potrò spostare questa lassù in modo da coprire
quella posizione.»
«E quanto impiegate a spostare le mitragliatrici?» chiese Gordon.
«Credo circa dieci minuti.»
«Voi non dovete credere, Ballantyne! Ordinate un'esercitazione, e
cronometratela!»
Al primo tentativo la squadra di mitraglieri incontrò un mucchio di
mattoni caduti sulla strada dietro il porto. Dovettero sgombrarla prima di
far passare il pesante carico. Il secondo tentativo fu condotto meglio:
impiegarono dodici minuti a portare la Gatling e a sistemarla nella
postazione destinata a coprire la spiaggia e le sponde del ruscello.
«L'attacco sarà al buio», osservò Gordon. «La squadra deve essere in
grado di operare a occhi chiusi.»
Penrod fece provare la manovra fino a tarda notte. Liberarono le strade e
i vicoli di tutti gli ostacoli provocati dalle esplosioni e interrarono buche e
canali di scolo. Penrod, inoltre, studiò un nuovo sistema di paranchi per
consentire a venti uomini alla volta di tirare la mitragliatrice.
La mattina del secondo giorno avevano ridotto il tempo di trasporto a
sette minuti e mezzo. Tutto ciò dovette essere eseguito al buio dopo il
coprifuoco: se i dervisci avessero saputo che si stavano esercitando a
spostare le Gatling da un punto all'altro del perimetro, avrebbero sospettato
una trappola. Penrod non era sicuro che sapessero dell'esistenza delle due
mitragliatrici: durante la giacenza nell'arsenale erano rimaste lontano da
occhi indiscreti ed erano state probabilmente dimenticate. In ogni caso i
dervisci nutrivano un profondo disprezzo per le armi da fuoco. Era da
escludere che avessero mai visto le Gatling in azione, e quindi non
potevano immaginarne il potenziale distruttivo. Finora Penrod era stato
molto attento a far esercitare la squadra di artiglieri in luoghi dove non
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2005 - Il Trionfo Del Sole
potevano essere osservati dalla sponda nemica del Nilo. Provavano le armi
solo nella zona deserta del perimetro meridionale della città, e quando non
le usavano le coprivano con dei teloni.
«Con il vostro permesso, signor generale, vorrei installare un
alloggiamento permanente qui al porto. Voglio essere sul posto, quando il
nemico attaccherà. Allo stato attuale, potrebbe essere tutto finito nel lasso
di tempo che mi occorre per venire dal palazzo fino a qui.»
«Molto bene», disse Gordon. «Ma se le spie dervisce scoprono che avete
un quartier generale permanente al porto, il nostro piano sarà
compromesso.»
«Ho pensato anche a questo, signor generale, e credo di essere in grado
di dissimulare la mia posizione senza destare sospetti.»
Si garantirono la collaborazione di David Benbrook, ma nascosero a tutti
gli altri, comprese le sorelle Benbrook e il personale del console, il suo
trasferimento al porto. Era stata diffusa la notizia che aveva abbandonato
la città in gran segreto, su ordine del generale Gordon, per recare un
messaggio alla colonna inglese di soccorso ferma alle sorgenti di Gakdul.
Penrod trovò il suo nuovo alloggio lontano mille miglia dallo sfarzo
della sua suite al palazzo. Sistemò il suo angareb in un'angusta nicchia nel
muro posteriore della postazione della Gatling. Non c'erano zanzariere e
passava gran parte delle notti a schiacciare gli insetti, che al tramonto si
alzavano in nugoli dal ruscello. Prima le irrisorie provviste di cibo del
palazzo erano state incrementate dall'ingegnosità delle sorelle Benbrook,
di Nazira, del personale della cucina e naturalmente dall'abilità di tiro di
David Benbrook; ora, nel suo nuovo quartier generale, Penrod riceveva la
stessa razione dei suoi uomini. Gordon era stato costretto a ridurre le
quantità di dhurra per cercare di combattere la fame, ma la carestia era uno
spettro implacabile. Yakub riusciva a sottrarre da casa di suo zio lische e
teste di pesce essiccate, che finivano in una casseruola che Penrod
divideva con i suoi artiglieri. Alcuni egiziani mangiavano il midollo delle
palme e bollivano le strisce di cuoio dei loro angareb. Ora rimpiangeva
quelle razioni di torta verde che aveva sempre disprezzato, portate
regolarmente a casa dalle sorelle Benbrook dal quartiere di Ryder
Courteney.
Non potendo rischiare di essere visto in città, Penrod doveva
assolutamente starsene al porto. Quella segregazione volontaria era ancora
più fastidiosa dell'alloggio ristretto e del mangiare immondo. L'unico
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2005 - Il Trionfo Del Sole
sollievo gli veniva dai preparativi per lo scontro imminente, su cui
concentrava tutte le energie.
Il piano era diviso in due parti. Innanzitutto bisognava far sì che i
dervisci risalissero il fossato di scolo del muro esterno fino al ruscello. Poi
doveva assicurarsi che non avessero via d'uscita, almeno non da vivi.
Gordon limitò i giri di ispezione alle ore del coprifuoco. Penrod non si
aspettava mai elogi dal Cinese, ma si adoperò almeno per non esporsi ad
altre critiche.
Una volta completati i preparativi, Yakub si mostrò molto più
soddisfatto di Gordon. «Con l'aiuto dell'astuto Yakub hai costruito un
mattatoio», sghignazzò. «Un macello per quei porci di Ansar!»
Istintivamente l'arabo toccò l'elsa del suo pugnale, mentre contemplava la
barricata che avevano innalzato. Gli uomini stavano ammucchiando il
legname secco ricavato dai palazzi abbandonati per formare dei falò,
allestiti, secondo gli ordini di Penrod, lungo entrambe le rive del ruscello.
Aveva fatto molta attenzione a prevedere che, una volta accesi,
illuminassero il nemico senza abbagliare serventi e fucilieri. Ogni sera, al
calare del buio, i falò venivano cosparsi di petrolio: in questo modo
l'accensione sarebbe stata immediata.
L'improvvisa e misteriosa scomparsa di Penrod causò varie reazioni di
sgomento e preoccupazione tra le sorelle Benbrook. Quella che soffrì
meno fu Saffron. Si trovò semplicemente privata di un pretesto per
tormentare la sua gemella. Non c'era più gusto a irridere Amber per il suo
spasimante, se questi era sparito. Inoltre l'angoscia di Amber, ogni volta
che si affrontava l'argomento, diminuiva la gioia di Saffron: prenderla in
giro era divertente, farla soffrire no.
Rebecca, invece, era abilissima a celare i suoi veri sentimenti, per cui
Saffron non riusciva a capire quanto quell'uomo mancasse effettivamente
alla sorella. L'avesse saputo, avrebbe trovato pane per i suoi denti.
Quando Amber si era quasi convinta che non avrebbe più rivisto il
capitano Ballantyne e l'unica soluzione era porre fine alla propria infelice
esistenza con il suicidio, Yakub le salvò la vita. Non si trattò di un atto
deliberato di carità, ma del soddisfacimento degli istinti più bassi di
quell'uomo.
Il duro isolamento in compagnia del suo padrone presso le fortificazioni
del porto, sopra il ruscello infestato da zanzare, non era acconcio a Yakub.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Negli ultimi mesi si era abituato a una vita molto più comoda. Ogni sera
Nazira gli aveva portato una scodella del cibo che mangiavano il console
generale e la sua famiglia. Certo non era una leccornia, ma superava di
gran lunga il pappone acquoso della truppa, che odorava e sapeva di pesce
marcio e pelle essiccata.
Comunque l'aspetto più sgradevole di questa nuova vita era che ogni
notte doveva vegliare ai piedi dell'angareb del suo padrone, in attesa che i
dervisci attaccassero, preda di angosciosi dubbi sulla fedeltà di Nazira.
Quei tormenti sembravano più che legittimi, visto che già in precedenza la
condotta di lei non era stata delle più specchiate. Rimuginava sul fatto che
il perfido Bashid, figlio illegittimo di un uomo beja e di una lussuriosa
danzatrice galla, non avesse limitazioni ai suoi movimenti notturni. Il
pensiero di Bashid che s'infilava nel suo adorato angareb gli toglieva il
sonno con un'efficacia maggiore di tutte le zanzare del ruscello. Una notte
si alzò silenziosamente, facendo come per andare a prendere il bugliolo.
Una sentinella lo fermò all'ingresso del porto, ma lui conosceva la parola
d'ordine.
Amber, insonne, era affacciata alla finestra della camera da letto. Il
capitano Ballantyne era scomparso da tre giorni. L'angosciava l'idea che
fosse stato catturato dai dervisci e lo immaginava prigioniero del Mahdi.
Aveva sentito della sorte di chi era caduto nelle mani insanguinate di quel
mostro e sapeva che quella notte lei non avrebbe chiuso occhio.
Sotto la finestra qualcuno si stava muovendo nelle ombre del cortile. Si
ritirò di colpo: poteva essere un assassino inviato dal diabolico Mahdi, ma
quando l'uomo alzò la testa verso la finestra lei riconobbe il suo sguardo
strabico. «Yakub!» bisbigliò. Ma non doveva essere con Penrod, in
cammino verso le sorgenti di Gakdul? Yakub era l'ombra di Penrod:
dovunque andasse il capitano, lui lo seguiva.
Una meravigliosa certezza la illuminò: se Yakub era lì, allora anche
Penrod non poteva trovarsi lontano. Non era andato a Gakdul. Solo da
poco aveva trovato il coraggio di pensare a lui come Penrod e non come
capitano Ballantyne.
La malinconia e i brutti presentimenti sparirono. Sapeva dove stava
andando Yakub. Si alzò di scatto dalla panca sotto la finestra, corse al
guardaroba e sopra la camicia da notte mise un mantello nero. Fece una
pausa abbastanza lunga per assicurarsi che Saffron stesse dormendo,
sgusciò fuori dalla stanza e scese in silenzio al piano di sotto, facendo
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attenzione al dodicesimo scalino, che scricchiolava sempre e avrebbe
potuto svegliare suo padre. Uscì dalla porta laterale della cucina e
attraversò il cortile della stalla, diretta alle abitazioni della servitù.
La finestra di Nazira era rischiarata da una lampada. Amber si rifugiò in
una delle stalle vuote, e si mise in attesa. Passò le ore seguenti a cercare di
immaginare cosa ci trovassero Yakub e Nazira a stare insieme per così
tanto tempo. Rebecca le aveva detto che i due facevano l'amore. Amber
non era sicura di cosa implicasse quel fatto: tutte le più accurate indagini
non avevano migliorato la sua conoscenza dell'argomento. E sospettava
che anche Rebecca, nonostante il suo fare navigato, fosse ignorante quanto
lei.
«È quando le persone si baciano», le aveva spiegato Rebecca in tono di
superiorità, «ma non sta bene parlare di queste cose...» Amber comunque
aveva trovato la risposta insoddisfacente. La maggior parte dei baci che
aveva osservato erano alquanto fugaci e di solito impressi sulla guancia o
sul dorso della mano, cosa che li rendeva un trastullo abbastanza insulso.
L'unica evidente eccezione era il contatto tra Ryder e Rebecca cui avevano
assistito lei e Saffron, che aveva provocato tutto quel putiferio. Quello sì
che era stato interessante! A entrambi i partecipanti era palesemente
piaciuto, ma era durato meno di un minuto. Al contrario, Yakub e Nazira
ci stavano mettendo metà della notte.
Chiederò a Nazira... si disse Amber, ma poi le venne un'idea migliore:
«Anzi, appena scopro dov'è, lo chiedo a Penrod. E' un uomo, deve sapere
come si fa».
Poco prima dell'alba la lampada nella stanza di Nazira si spense, e
qualche istante dopo Yakub sgusciò fuori dalla porta e s'inoltrò nel buio
delle vie silenziose con una fretta colpevole. Amber lo seguì da lontano
fino al porto e udì una sentinella fermarlo. Lei doveva ritornare al palazzo,
prima che si accorgessero della sua assenza.
«Mi sa che qui gatta ci cova...» insinuò Saffron. L'esuberanza di Amber
era una novità talmente singolare rispetto alla tristezza dei giorni
precedenti, che più tardi, quando si ritrovarono nel quartiere di Ryder
Courteney a lavorare fianco a fianco tra i calderoni per la ricotta, non poté
fare a meno di sondarla.
Amber le rispose con un sorriso grazioso ma enigmatico. Non voleva
sbilanciarsi.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Quella sera, un'ora dopo il coprifuoco, Penrod Ballantyne si stupì di
riconoscere la voce di Amber che parlava con le sentinelle all'ingresso del
suo quartier generale, presso la postazione della Gatling. Si precipitò fuori
di corsa, allacciandosi il cinturone. «Che bambina sciocca!» la rimproverò
severamente. «Lo sapete che c'è il coprifuoco! Vi possono sparare!»
Amber aveva sperato in un'accoglienza più calorosa. «Vi ho portato
della ricotta verde. Immaginavo che avreste avuto fame.» Aprì il piccolo
fagotto che aveva con sé. «E' una camicia pulita di papà. Quella che avete
indosso ha una puzza...»
Penrod stava per chiederle come avesse saputo della sua nuova
sistemazione quando, alla luce della lanterna, le vide negli occhi delle
lacrime di mortificazione. Ma lei le ricacciò indietro e lo affrontò a testa
alta: «Inoltre, capitano Ballantyne, ci tengo a dirvi che non sono una
bambina sciocca».
Ballantyne si placò subito. «Certo che no, signorina Amber... ma mi
avete sorpreso. Non me l'aspettavo. Vi prego di perdonarmi.»
Lei si rincuorò: «Se mi date la vostra camicia sporca, ve la porto a
lavare!»
Penrod si trovò nel mezzo di un dilemma. Con la minaccia di un
imminente attacco dei dervisci al porto, non poteva permetterle di
trattenersi un minuto di più. Per lo stesso motivo, però, non osava lasciare
la postazione per accompagnarla al palazzo, e non poteva lasciarla vagare
per la città da sola dopo il coprifuoco. Avrebbe potuto mandare con lei
Yakub, ma aveva bisogno di lui al suo fianco. Non c'era nessun altro di cui
potesse fidarsi. Scelse il male minore.
«Credo che dovrete passare la notte qui», borbottò. «Non posso
permettere che violiate il coprifuoco e torniate a casa da sola.»
Il viso di Amber s'illuminò di gioia. Quel colpo di fortuna superava di
gran lunga le sue migliori aspettative. «Potrei prepararvi la cena», suggerì.
«Non c'è molto da cucinare qua... Perché invece non ci dividiamo la
vostra ricotta, così generosamente offerta?»
Si sedettero sull'angareb nella nicchia. Non c'erano tende, così gli
artiglieri fecero involontariamente da chaperon mentre loro
sbocconcellavano il cibo e parlavano a voce bassa. Era la prima volta che
lui trascorreva un po' di tempo con Amber e si accorse subito che era una
piacevole compagnia. Aveva un senso dell'umorismo pungente e un modo
pittoresco di esprimersi che Penrod gradì molto. Descrisse i diversi viaggi
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2005 - Il Trionfo Del Sole
fatti con suo padre, da Città del Capo al Cairo, fino a Khartum. Poi, di
colpo, tacque, appoggiò il mento su una mano e si mise a osservarlo
pensierosa. «Capitano Ballantyne, ora che siamo diventati amici, sareste
così gentile da rispondere a una domanda che mi tormenta da tempo?
Sembra che nessuno sappia la risposta...»
«Sono onorato che mi consideriate vostro amico.» Penrod era
commosso. Quella fanciulla era così adorabile. «Sarò lietissimo di darvi
tutto l'aiuto che posso.»
«Come si fa l'amore?» lei gli chiese.
Penrod rimase senza parole, né fiato per poterne pronunciare. «Ah!»
esclamò e si lisciò i baffi per guadagnare tempo. «Credo che ci siano vari
modi... Non mi risulta ve ne sia uno fisso...»
Amber era delusa. Da lui si aspettava qualcosa di più. Evidentemente ne
sapeva tanto quanto Rebecca. «Io credo che ci si baci come abbiamo visto
fare a mia sorella con Ryder. È così che si fa?»
«Ma certo!» Si aggrappò con sollievo a quel suggerimento. «Sì, è
esattamente così!»
«Secondo me dopo un po' diventa noioso...»
«Però pare che piaccia...» rispose Penrod. «Sapete, tutti i gusti sono
gusti!»
Amber cambiò argomento ancora una volta, con una velocità
sconcertante.
«Lo sapevate che Lucy, la scimmia di Ryder, ha avuto dei cuccioli?»
«Ah, lo ignoravo! Maschi o femmine? E come sono?» La assecondò
volentieri su un terreno più sicuro.
Pochi minuti più tardi gli occhi di Amber si chiusero, lei si abbandonò
sulla spalla di Penrod e in un baleno si addormentò come una cucciola.
Non si svegliò neppure quando lui la depose sull'angareb ricoprendola con
una coperta lisa. Il capitano era di buon umore: la lasciò sorridendo e
iniziò l'ispezione notturna delle difese del porto. Per una volta tutte le
sentinelle egiziane erano perfettamente sveglie. A tener loro gli occhi
aperti era la vicinanza del nemico, o forse era il sapersi esposti in una
posizione avanzata; o la fame.
Penrod trovò da sedersi in un punto tranquillo sulla piattaforma di tiro
avanzata e si mise ad ascoltare il suono dei tamburi al di là del fiume. Quei
ritmi monotoni erano soporiferi, e a un certo punto la sua testa cominciò a
ciondolare. Si risvegliò sentendosi in colpa: se Gordon il Cinese lo avesse
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2005 - Il Trionfo Del Sole
scoperto, sarebbe finito dritto davanti al plotone d'esecuzione. Fece un giro
lungo il parapetto, poi tornò indietro. Si concesse di rilassarsi fino quasi a
prendere sonno, ma ogni pochi minuti riapriva gli occhi. Si era esercitato a
camminare senza cadere su quel filo teso. Poi, dall'altra parte del fiume, i
tamburi tacquero.
Riaprì gli occhi e guardò in alto. Il rosso Marte, dio della guerra, stava
andando a caccia per il quadrante meridionale di un cielo illune, con il
cane Sirio al guinzaglio. Era l'ora più buia e solitaria della notte. Stava per
addormentarsi, ma riuscì a tenere gli occhi aperti.
«Penrod!» Delle dita fredde sfiorarono la sua guancia. «State
dormendo?» Si voltò. Sentirsi chiamare per nome da lei l'aveva commosso.
La fanciulla doveva veramente considerarlo suo amico. «No, io no, ma voi
dovreste...»
«Ho sentito delle voci...» sospirò Amber.
«Sarà stato un sogno. Non ci sono voci.»
«Ascoltate!»
Sentì un debole latrato sulla riva occidentale, e un altro in risposta
dall'isola di Tutti, a valle. In città non c'erano più cani. L'ultimo era stato
ucciso e mangiato qualche mese prima.
«Niente...» Scosse la testa scettico, ma lei gli afferrò un braccio, e le sue
unghie sottili e affilate lo punsero dolorosamente.
«Ascoltate, Pen... ascoltate!»
Sentì tutti i suoi nervi tendersi all'improvviso, come una lenza agli
strappi di un grosso pesce su una mosca lanciata in profondità. Era un
sussurro così debole, così immateriale nella brezza notturna, che solo delle
giovani orecchie molto sensibili potevano averlo colto. Arrivava da un
punto lontano del fiume. Il suono corre sull'acqua, pensò Penrod, e si alzò
di scatto, in silenzio. Aveva sentito una parola araba, flebile come la
brezza tra le fronde delle palme. «Waqqaf!» Era l'ordine tradizionale di
ammainare e arrotolare la vela latina del dau quando si torna agli ormeggi.
Ora che stava tendendo l'udito al limite delle sue forze, Penrod sentì uno
sbattere leggero di piedi nudi su un ponte di legno, e il fruscio della vela.
Qualche secondo dopo sopraggiunse lo scricchiolio attutito della barra,
poiché il timone del dau veniva sollevato. «Sono arrivati...» sussurrò e si
mosse in fretta lungo la piattaforma di tiro per porre tutti i suoi uomini in
all'erta. «In piedi! Ai fucili! I dervisci sono arrivati! Non sparate fino a mio
ordine!»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Il sergente mitragliere scoprì la Gatling. La dura incerata del telone
frusciò leggermente, e Penrod impose il silenzio con un sibilo. Guardò
nella tramoggia per le munizioni alla sommità dell'arma lucida. Era piena
fino all'orlo: seicento colpi. Sollevò i coperchi delle cassette delle
munizioni di scorta: erano tutte aperte. Sulla collina di Isandlwhana,
allorché gli impi zulu avevano sfondato il quadrato inglese, le cassette di
scorta erano chiuse, e l'ufficiale che aveva la chiave a brugola, occorrente
per aprirle, era andato in perlustrazione a cavallo. Quel giorno tutti i
soldati bianchi dell'accampamento erano morti sotto gli assegai degli Zulu.
Ryder Courteney gli aveva raccontato che anche suo fratello maggiore
aveva subito la stessa sorte. Quella sera, invece, le cassette erano aperte e i
quattro serventi egiziani vi stavano ritti accanto per tener sempre piena la
tramoggia.
Penrod corse verso il fondo della postazione di fuoco. Il caporale dei
segnalatori, con un distaccamento di quattro uomini, aveva aperto le
cassette e allestito una fila di dieci razzi illuminanti, pronti a partire dai
supporti di lancio, le ogive puntate al cielo. «Alla prima raffica accendete
un razzo. Deve bruciare nel cielo finché non terminano i colpi. Voglio che
illumini tutta l'area a giorno», ordinò il capitano.
Non c'era tempo per altro. Penrod tornò alla postazione di tiro per
prendere il comando lì: non si fidava degli egiziani, che, in preda
all'agitazione, avrebbero potuto sparare al primo apparire delle
imbarcazioni nemiche, senza aspettare che i dervisci fossero sbarcati sulla
spiaggia e caduti in trappola.
Inciampò in Amber, che gli stava alle calcagna. «Dio mio! Mi ero
dimenticato di voi!» La prese per un braccio e la trascinò all'entrata
posteriore dell'avamposto. «Scappate!» le ordinò. «Dovete andarvene, qui
non è posto per voi. Le strade sono sicure. Correte, Amber, e non
fermatevi finché sarete a casa!» Le assestò uno spintone per mandarla via e
ritornò al suo posto, senza aspettare per controllare se obbediva o no.
Amber fece qualche passo nel vicolo, poi si voltò e tornò di nascosto
all'ingresso. Vide Penrod sparire nel buio. «Sono stufa di essere trattata
come una bambina», mormorò. Esitò un attimo e poi lo seguì.
Si muoveva con molta cautela, tenendosi nascosta dietro il parapetto per
non attirare l'attenzione dei soldati che presidiavano le feritoie. Sono
troppo occupati per accorgersi di me, pensò. Il coraggio crebbe in lei, e si
affrettò a cercare Penrod. E se lui avesse bisogno di me? Non gli sarò certo
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2005 - Il Trionfo Del Sole
utile standomene comoda nella mia stanza di palazzo, rifletté. Più in là,
intravide la sua alta figura.
Penrod era in piedi al parapetto che dominava la spiaggia. I manichini di
paglia erano stati tolti e ora artiglieri in carne e ossa si affacciavano alle
postazioni di tiro, scrutando in basso lungo la sponda buia. Il capitano
teneva la spada affilata nella mano destra. Amber avvertì un moto
d'orgoglio. E' così nobile e coraggioso, pensò. Si nascose in un angolo del
muro retrostante, rannicchiandosi. Da lì riusciva a vederlo. Un silenzio
teso, nervoso, immobilizzava tutti gli uomini alle postazioni di tiro.
All'improvviso Amber capì che erano molto pochi. Sparpagliati lungo il
muro, a venti passi l'uno dall'altro, non sembravano in numero sufficiente
per fermare le orde di dervisci.
Un soldato, che si trovava vicino a dove era inginocchiata, sussurrò così
sommessamente che lei riuscì appena a sentirne le parole: «Arrivano...» La
voce gli tremava dalla paura. Fece scattare l'otturatore del suo MartiniHenry per mettere un colpo in canna. Si appoggiò l'arma alla spalla, ma
prima che premesse il grilletto una mano aperta lo schiaffeggiò in pieno
viso.
Penrod lo afferrò per il bavero - l'uomo aveva perso l'equilibrio - e gli
sussurrò all'orecchio: «Spara senza un mio ordine e ti faccio squartare dal
cannone!» L'esecuzione di al-Faruk aveva impressionato molto gli egiziani
che vi avevano assistito. Penrod ricacciò il soldato al suo posto di
combattimento e tutti tornarono ad aspettare.
Per un attimo Penrod restò con il fiato mozzo. La prima barca derviscia
scivolò verso la spiaggia. Non appena toccò terra, un'orda scura di Ansar
scese nell'acqua alta fino alla cintola e avanzò verso la sottile striscia di
fango sotto le mura. Tenevano le spade all'altezza delle spalle e si
muovevano senza fare rumore. Dalle acque nere dietro di loro apparve una
flottiglia di piccoli dau e feluche, ognuno pieno zeppo di uomini.
«Non sparate!» Penrod andava su e giù per il parapetto, cercando di
tenere sotto controllo il suo esiguo drappello con il suo rabbioso
mormorio. Le feluche e i dau smisero di attraccare solo quando la spiaggia
fu gremita di centinaia di Ansar. Non c'era posto per tutti sulla terraferma,
quindi le retroguardie erano ancora nell'acqua fino alla cintola. I più
avanzati cominciarono ad abbattere la barricata che ostruiva l'ingresso al
ruscello della rete fognaria.
«Calma! Calma!» sussurrava Penrod.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Una parte della barricata crollò e i dervisci si precipitarono dentro. Il
loro grido di battaglia si alzò al cielo: «Non c'è altro Dio che Allah!»
«Fuoco!» urlò Penrod, e i fucili tuonarono. I dervisci continuarono a
correre in una pioggia di proiettili. I primi razzi saettarono in alto,
mostrando le orde dei nemici che come file di formiche sciamavano sotto
la loro luce verdastra. I tiratori sparavano in basso, ma i nemici erano così
numerosi che le pallottole ottenevano pochi risultati. Le prime file
raggiunsero il muro del porto e cominciarono ad arrampicarsi, con l'aiuto
di quelli dietro che li spingevano da sotto. Appena giunti in cima, venivano
respinti dalle baionette dei difensori.
Penrod camminava lungo il muro, sparando a bruciapelo con la sua
Webley sulle facce barbute. Nella mano destra impugnava la sciabola.
Quando la pistola fu scarica, incominciò a fendere e sfregiare con quella
lama. Gli Ansar morti e feriti cadevano sui compagni che salivano dietro
di loro, ma la linea egiziana era troppo scarna per tenerli a bada a lungo: i
gruppi di dervisci stavano guadagnando terreno. Le loro spade da crociati
impugnate a due mani fischiavano nell'aria come Alì di pipistrello. Un
egiziano indietreggiò dal parapetto barcollando, il braccio destro tranciato
di netto sopra il gomito. Alla luce dei razzi il sangue aveva il colore
dell'inchiostro.
«Ripiegate sulla seconda linea!» urlò Penrod. Pur terrorizzata, Amber
restò stupita di come la voce del capitano risuonasse su tutto quel
frastuono. I suoi uomini si organizzarono velocemente in fronte di
battaglia, con le baionette puntate, e indietreggiarono lungo la sommità del
muro. Per pochi, terribili secondi la ragazzina credette di rimanere
indietro, poi scattò in piedi e corse come una lepre sorpresa dai cacciatori.
L'istinto le diceva che la postazione della Gatling era il punto più sicuro
della difesa, e fuggì là.
Arrivò prima di Penrod e dei suoi uomini, arrampicandosi fino in cima
al muro di sacchetti di sabbia. Quando arrivò, qualcuno la afferrò per il
braccio e la trascinò via. Adesso era faccia a faccia con il suo salvatore, il
quale puzzava di pesce marcio e la fissava con due occhi strabici, la faccia
verde sotto la luce dei razzi. «Nazira ti ucciderà con le sue stesse mani, se
scopre che sei qui!» La spinse brutalmente nella nicchia ricavata nel muro
posteriore, proprio mentre Penrod arrivava con i suoi uomini.
«Mitragliere! Fuoco!» Penrod aveva scelto l'uomo addetto alla
manovella della mitragliatrice in base alla forza e al vigore. Il sergente
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Khaled era un gigante nero di una tribù nubiana dell'Alto Egitto. Uomini
come lui erano i migliori soldati dell'esercito del khedivè. Ora si mise al
lavoro muovendosi a scatti, come una marionetta. Le canne brunite
girarono come i raggi della ruota di un cocchio. Il bagliore tremolante dei
lampi delle bocche da fuoco illuminò il parapetto come fosse un
palcoscenico.
Con il rumore di un titano che lacera un rotolo di tela pesante, una
pioggia ininterrotta di pallottole si abbatté sulle file di Ansar che
avanzavano. I proiettili di piombo colpivano la carne viva e stridevano
quando rimbalzavano sui muri, riuscendo quasi a coprire le grida
dell'esercito derviscio. Da un punto all'altro del campo di fuoco la Gatling
crivellò i corpi dei nemici, che in breve si ammucchiarono lungo il fronte
del muro. Quelli dietro si arrampicavano sui cadaveri e si aggrappavano
alle canne dei fucili puntati contro di loro dalle feritoie, cercando di
strappare le armi fumanti dalle mani dei difensori. I soldati infierivano sul
nemico con le baionette, urlando la propria furia guerriera, e i dervisci a
loro volta gridavano di dolore per l'acciaio che penetrava nei loro corpi.
Poi le canne della Gatling tornavano su di loro e li spazzavano via, come il
vento khamsin. Gli ultimi dervisci caddero fuori dal muro, in mezzo al
mucchio di cadaveri, o si trascinarono lungo la macchia nera del letto del
ruscello.
Il sergente Khaled si raddrizzò e la mitragliatrice tacque. La sua faccia
nera era attraversata da un feroce, bianco sorriso, e il suo ampio torace,
fradicio di sudore, luccicava alla luce verde dei razzi.
«Rii-caricate!» urlò Penrod, mentre riempiva il tamburo della sua pistola
con le munizioni della cintura. «Pronti per la prossima ondata!»
I caricatori giunsero in fretta con i secchi di lucide cartucce rivestite di
rame, che finirono nella tramoggia della Gatling. Altri assistenti corsero
lungo il parapetto, distribuendo i pacchetti di munizioni Boxer-Henry agli
artiglieri. Li seguivano i portatori d'acqua, che inumidivano le labbra riarse
dei soldati direttamente dalle imboccature degli otri.
«State pronti! Non li abbiamo battuti. Torneranno all'attacco dal
ruscello.» Penrod parlava ai suoi uomini, muovendosi lungo il parapetto. Il
soldato che aveva perso il braccio era morto dissanguato. Adagiarono il
suo cadavere contro il muro e gli gettarono sopra una coperta. Penrod
tornò alla Gatling per infondere coraggio al sergente Khaled e ai suoi
artiglieri: ma passando davanti al suo alloggio intravide un visino bianco
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abbassarsi. «Amber! Credevo ve ne foste andata...»
La ragazzina, ora che era stata scoperta, decise di dar fondo a tutta la sua
faccia tosta: «Sapevo che non volevate davvero mandarmi via. In ogni
caso, ormai è troppo tardi. Devo rimanere...»
Penrod stava per affrontare la questione, quando dal letto del ruscello si
alzò lo spaventoso coro delle grida di guerra dei dervisci. Le orde si
riversavano dalla spiaggia in una marea che riempì il letto da una sponda
all'altra.
Penrod estrasse la Webley dalla fondina e la aprì di scatto per controllare
se era carica. Chiuse la culatta. «Sono sicuro che la sapete usare. Vi ho
vista esercitarvi con vostro padre.» Le porse l'arma dall'impugnatura.
«Tornate nella nicchia. Mettetevi sotto il letto e state lì finché tutto sarà
finito. Sparate a chiunque si avvicini. Questa volta dovete obbedire. Via,
andate!» Penrod tornò di corsa al parapetto.
Duecento fucilieri egiziani non aspettarono il suo segnale per riaprire il
fuoco. Le loro raffiche finirono nel letto del ruscello, la Gatling sparò
assordante e una pila lucente di bossoli si ammucchiò a terra, sotto
l'affusto. Una sequenza di razzi colorati esplose in alto sopra la sabbia,
illuminando con luce abbagliante i dervisci che avanzavano in mezzo al
fango fetido. Le loro file erano così compatte che quasi ogni proiettile
faceva centro. Essendo mortali, gli uomini non potevano che soccombere
sotto una simile tempesta, eppure avanzavano, arrampicandosi sui corpi
lacerati e sussultanti dei loro compagni, le jibba multicolori sporche di
fango nero e puzzolente; non si tiravano mai indietro, ognuno lottava per
raggiungere le prime file incurante della morte, bramoso di trovarla tra le
bocche fumanti dei fucili.
Ma c'era una linea, ai piedi del muro, che neppure loro avevano il
coraggio di oltrepassare. La Gatling li arrestava lì, come se sbattessero
contro una parete di vetro su cui si ammassavano cataste sempre più alte di
morti. Ondata dopo ondata i guerrieri aggiungevano i propri corpi ai
mucchi in rapida crescita. In breve il ruscello si era trasformato in un
macabro ossario. Poi l'attacco perse impeto e anche il fuoco della Gatling
cessò.
«Capitano! Si è bloccata!» urlò il sergente Khaled. «La mitragliatrice...
si è inceppata!» Quando i soldati egiziani sentirono queste parole, il terrore
s'impossessò delle loro facce sotto la luce dei razzi. Nel momento in cui si
resero conto della gravità del fatto il fuoco scemò, diventò balbettante,
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tacque. Anche gli Ansar nel ruscello udirono quell'annuncio. Una strana
quiete innaturale scese sul campo di battaglia, appena rotta dai rantoli e
dalle urla dei feriti. Ma durò solo qualche secondo.
Poi risuonò una voce. «La ilaha illallah! C'è un solo Dio!» Penrod la
riconobbe. Guardò giù, nel torrente degli orrori, e vide Osman Atalan alla
testa dell'orda. Gli occhi dei dervisci si serrarono. Poi il grido di battaglia
si levò da centinaia di gole e l'attacco riprese. Come se il muro di vetro che
li aveva finora fermati si fosse frantumato, si fecero strada verso
l'avamposto, sulla riva scoscesa e infida del ruscello.
I tiratori egiziani voltarono la testa per cercare una via di fuga. Penrod
conosceva bene quel gesto. L'aveva già visto, il giorno terribile della
capitolazione a El Obeid. Era il preludio alla fuga, e alla disfatta.
«Ucciderò il primo di voi che rompe le file!» urlò, ma uno lo ignorò.
Mentre il soldato si voltava per fuggire, Penrod avanzò e gli trafisse il
ventre. La lunga lama della sciabola penetrò come se fosse stata lubrificata
e la punta fuoriuscì dalla schiena dell'uniforme cachi. L'uomo cadde in
ginocchio, stringendo con le mani la sciabola. Penrod sfilò dalle sue dita
l'acciaio affilato come un rasoio, lacerandogli pelle, carne e tendini.
L'uomo urlò e cadde all'indietro.
«Mantenete la posizione e continuate a sparare!» Penrod sollevò in alto
la lama umida di sangue. «O canterete la stessa canzone di questo
codardo!» I soldati tornarono alle feritoie a scaricare i fucili contro la
massa di dervisci che stava salendo.
Il sergente Khaled stava battendo i pugni sul meccanismo della culatta,
spellandosi le nocche sui bordi di metallo acuminato. Penrod lo afferrò per
una spalla e lo spostò. Sotto la luce dei razzi si riusciva a vedere il bossolo
schiacciato che aveva inceppato uno dei sei otturatori. Si era bloccato il
numero tre, il più difficile da pulire, ma c'era un trucco che Penrod aveva
appreso in anni di dure esperienze. Strappò la baionetta dalla cintura del
sergente e cercò di sbloccare le ganasce dell'otturatore facendo leva con la
punta della lama.
Intanto i dervisci si arrampicavano sui muri, veloci come scoiattoli sul
tronco di una quercia. I fucili Martini-Henry tacquero quando gli
aggressori sgusciarono tra le feritoie e cominciarono a lottare corpo a
corpo con gli egiziani che avevano mantenuto la posizione. L'otturatore
della Gatling era ancora inceppato. Penrod alzò lo sguardo: il destino della
città e dei suoi abitanti dipendeva da lui.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Uno dei molti miti sulla figura del generale Gordon era che la sua voce
potesse sovrastare il chiasso di qualsiasi campo di battaglia. Penrod la udì
nel tumulto di quell'inevitabile disfatta. «Pezzo numero due! Fuoco!» Mai
si sarebbe aspettato di accogliere con gioia quel tono rude e dispotico.
Veniva distintamente dalla postazione di rincalzo, fatta costruire in
previsione di un momento come questo. Penrod sentì le ginocchia
sciogliersi dal sollievo. Si fece coraggio e tornò a pensare all'otturatore
inceppato.
Insonne, in attesa sugli spalti delle fortificazioni dell'ospedale, Gordon
aveva sentito le raffiche della battaglia e visto i razzi salire dal porto nel
buio del cielo. E aveva dato la sveglia ai suoi tiratori, che avevano
assicurato la seconda Gatling all'avantreno e l'avevano trasportata di corsa
per i vicoli e le scorciatoie della città. Avevano impiegato otto minuti e
mezzo per raggiungere il porto, staccare dall'avantreno la mitragliatrice e
collocarla nel luogo stabilito. Fedele alla sua natura, Gordon aveva
cronometrato il tempo. Facendo un cenno di assenso, aveva rimesso in
tasca l'orologio.
«Pezzo numero due! Fuoco!» gridò; e il pauroso frastuono delle sei
canne rotanti coprì le feroci urla di guerra dervisce. Una scia di fuoco batté
senza sosta il ruscello di scolo. Da quella postazione colpiva i dervisci sul
fianco sinistro e alle spalle. Li abbatteva dai muri come il vento scuote le
mele mature da un albero. La maggior parte, precipitando, perdeva le armi.
Quelli che si rialzavano venivano spinti avanti dalla pressione dei corpi
che continuavano a salire dal ruscello, e restavano bloccati ai piedi delle
fortificazioni.
«Indietro! Tornate indietro! E' finita!» urlavano quelli in prima linea.
«Avanti!» gridavano quelli che sopraggiungevano dalla spiaggia. «In
nome di Dio e del suo vittorioso Mahdi!» Il corso d'acqua era talmente
ingombro di corpi ammassati che i morti erano tenuti ritti dai loro
compagni.
Penrod, alle prese con l'otturatore inceppato, non poteva assistere a
questo spettacolo. Alla fine spinse la punta della baionetta dietro la
camma, battendo sull'impugnatura con la palma. Ignorando il dolore urlò
al sergente Khaled: «Gira la manovella all'indietro!» Il militare obbedì,
manovrando il meccanismo in senso antiorario e riducendo così la
pressione della camma. Di colpo l'ingranaggio si sbloccò con fracasso, e
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con una violenza che avrebbe tranciato il pollice di Penrod, se questi non
l'avesse tolto subito. Il bossolo schiacciato e deformato schizzò via.
Quando Khaled lasciò la manovella, la pallottola successiva scese dalla
tramoggia e si inserì docilmente nella culatta. L'otturatore si caricò con un
rumore dolce, quasi musicale.
«Pezzo numero uno carico e pronto, sergente!» Penrod diede una pacca
sulla spalla di Khaled. «Riprendere a sparare!» Khaled si mise alla
manovella, Penrod afferrò la doppia impugnatura e abbassò le canne per
puntarle in basso, nella bolgia infernale degli Ansar imbrattati di fango.
Nelle sue mani la mitragliatrice sussultava, sobbalzava, martellava.
Neppure i più coraggiosi potevano resistere al fuoco combinato delle
due Gatling, che li fece indietreggiare finché si trovarono assiepati
all'ingresso del tunnel di scolo, e poi li decimò, ammucchiando i cadaveri
come fascine di legna sulla stretta lingua di sabbia. Le raffiche sollevavano
schiuma dall'acqua attorno ai sopravvissuti, che barcollavano nel buio
verso le barche. Mentre salivano a bordo, le pallottole scheggiarono il
legno dei ponti e colpirono gli equipaggi acquattati sottocoperta. Il sangue
sgocciolava dai fori dei proiettili colando lungo l'esterno degli scafi come
vino rosso straripante dal calice di un ubriacone.
Alle prime luci del giorno i dau, con il loro carico di corpi dilaniati sul
ponte, si ritirarono sul fiume. Come l'ultima nave uscì dalla baia, le
Gatling posero fine al loro atroce fragore. Il silenzio dell'alba era interrotto
solo dai pianti delle vedove dall'altra parte del fiume, sulla sponda di
Omdurman.
Penrod si allontanò dalla mitragliatrice: le canne scottavano come se
fossero appena uscite dalla fucina di un fabbro. Si guardò intorno e gli
sembrò di essersi svegliato da un incubo. Non si stupì di trovare Yakub al
suo fianco. «Ho visto Osman Atalan in prima fila», gli riferì.
«Anch'io, mio signore.»
«Se è ancora su questa riva del fiume, dobbiamo trovarlo», ordinò
Penrod. «Se è vivo, lo voglio. Se è morto, manderemo la sua testa al
vittorioso Mahdi, così forse gli passerà la voglia di attaccare di nuovo!»
Prima di lasciare l'avamposto, Penrod chiamò il sergente Khaled.
«Occupati dei feriti... mandali in ospedale.» Ma sapeva che era inutile: i
due medici egiziani avevano abbandonato il reggimento di Gordon mesi
prima, dopo avere rubato e rivenduto tutte le scorte di farmaci.
All'ospedale alcune vecchie levatrici continuavano a curare i feriti con erbe
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e pozioni tradizionali. Gli avevano detto anche che Rebecca aveva provato
a insegnare a qualche donna sudanese un modo più scientifico di occuparsi
dei malati, ma mancava lei stessa di un'adeguata preparazione medica.
Poteva fare ben poco oltre a tentare di arrestare le emorragie e assicurarsi
che i feriti avessero acqua bollita da bere e delle razioni supplementari di
dhurra e torta verde.
Prima che altre parole gli uscissero di bocca, Penrod sentì un grido.
Guardò nella direzione da cui veniva e vide una donna, vestita di nero,
china su un derviscio ferito. Le donne arabe e nubiane della città
possedevano una sensibilità istintiva per la morte e la razzia. Arrivavano
sempre prima dei corvi e degli avvoltoi. Il derviscio ferito si contorceva
terrorizzato mentre la donna lo minacciava con la punta di un piccolo
pugnale. Poi, con una mossa esperta, che partì da sotto l'orecchio e
continuò attraversando la gola, gli aprì la carotide e la giugulare, e intanto
balzò indietro per non macchiarsi con gli schizzi di sangue. Penrod aveva
imparato a non interferire con questo genere di affari. Le donne arabe
erano peggiori degli uomini: questa, per esempio, non si peritava per nulla
di nascondere ciò che stava facendo. Penrod si girò dall'altra parte.
«Sergente, mi servono prigionieri per gli interrogatori. Procuratemene
quanti più potete.» Poi si voltò verso Yakub. «Vieni, mio saggio Yakub,
cerchiamo l'emiro Osman Atalan. L'ultima volta che l'ho visto, era sulla
spiaggia, intento a radunare i suoi uomini che correvano verso le barche.»
«Pen, aspettatemi! Vengo con voi!» Amber era uscita dal suo alloggio.
Ancora una volta si era scordato della sua presenza. Aveva i capelli
scarmigliati, gli occhi azzurri segnati da occhiaie color prugna, e il vestito
giallo sporco di fumo e polvere. La pistola era troppo grande per stare
nella sua mano. «Non mi libererò mai di voi, eh? Dovete tornare a casa!»
le disse. «Non è posto per voi, e mai lo è stato!»
«Le strade non sono sicure», rispose Amber. «Non tutti i dervisci sono
fuggiti sui battelli. Ne ho visti un centinaio scappare per di qua.» Agitò la
Webley con un vago gesto sopra la spalla. «Mi staranno aspettando per
violentarmi o per tagliarmi la gola.» «Violentare» era una di quelle parole
nuove di cui non conosceva esattamente il significato.
«Amber, qui ci sono cadaveri e persone in fin di vita, non è il luogo
ideale per una donna.»
«Ho già visto dei morti, io», replicò dolcemente la fanciulla, «e poi non
sono ancora una donna, ma solo... una ragazzina. Mi sento sicura solo con
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2005 - Il Trionfo Del Sole
voi.»
Penrod rise in maniera un po' fredda. A battaglia finita si sentiva sempre
stordito e come staccato dalla realtà.
«Ragazzina? Nella figura, forse, ma avete tutte le astuzie di una perfetta
rappresentante del vostro sesso. Devo capitolare. Su, venite.»
Scesero scivolando giù per la sponda fino al ruscello. I primi raggi del
sole indoravano i minareti della città, e la luce aumentava a ogni minuto.
Penrod e Yakub si muovevano con cautela tra i corpi crivellati degli
Ansar. Qualcuno era ancora vivo e Yakub, pugnale alla mano, si era
chinato su uno di questi.
«No!» strillò Penrod.
Yakub sembrava offeso. «Ma è un gesto pietoso aiutare questa povera
anima a raggiungere i cancelli del paradiso!» Tuttavia Penrod indicò
Amber e scosse la testa ancora più energicamente. Yakub scrollò le spalle
e proseguì.
Penrod cercava il turbante verde di Osman Atalan. Quando uscì sulla
spiaggia fangosa da sotto l'arco di pietra del canale, lo riconobbe: era sulla
testa di un cadavere che galleggiava sul ventre a faccia in giù, sballottato
da piccole onde nei pressi della sponda. Tra le pieghe fradicie della jibba
vide che il corpo era snello e atletico. Nella schiena c'erano i fori di due
proiettili. Le Gatling infliggevano ferite spaventose: in quei buchi si
sarebbe potuto infilarci il pugno. Alcuni persici del Nilo stavano intorno ai
brandelli sfilacciati di carne che penzolavano dalle ferite. Un lembo del
turbante galleggiava, ondeggiando come un'alga marina in mezzo alla
corrente. I lunghi capelli neri di Osman Atalan erano attorcigliati alla
stoffa.
A Penrod vennero i brividi. E pensare che qualche minuto prima era
tanto eccitato: ora era in collera, si sentiva ingannato. Non poteva finire
così. Aveva avuto la sensazione che il suo destino e quello di Atalan
fossero legati. Quello non era il modo per far finire tutto: non c'era
soddisfazione nel trovare il proprio nemico che galleggiava come la
carogna di un paria nello scolo di una fogna, a farsi mangiare dai pesci.
Penrod rinfoderò la sciabola e s'inginocchiò davanti al corpo
galleggiante. Con un gesto di singolare rispetto prese il braccio del morto e
girò il corpo a faccia in su nell'acqua poco profonda. Lo fissò stupito. Si
trattava di un volto più vecchio, meno nobile, con sopracciglia
animalesche, labbra grosse e denti rotti, macchiati dal fumo dell'hascisc.
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«Osman Atalan è fuggito...» esclamò a voce alta, risollevato. Fu colto da
un presentimento. Non era finita. Il destino l'aveva legato ad Atalan come
una liana sinuosa avvolge due grandi alberi. Ancora molto doveva
succedere. Se lo sentiva nel cuore.
Dietro di sé udì un suono leggero, ma non si allarmò. Pensò a Yakub o a
Amber. Stava studiando le fattezze di quell'emiro morto, quando Amber
urlò: «Pen! Dietro a voi, giratevi!» Lei era alla sua destra. Quando si girò,
si rese conto che non veniva dalla ragazzina il suono che aveva sentito. Ma
troppo tardi. Forse, dopo tutto, è giusto che finisca qui, sulla striscia di
fango lungo il grande fiume, pensò.
Si voltò con la mano destra sull'impugnatura della sciabola, e si alzò
sulle ginocchia: ma sapeva che non avrebbe potuto rialzarsi in piedi e
snudare l'arma in tempo. Diede solo una rapida occhiata al suo assassino.
Era un derviscio che aveva finto di essere morto: era uno dei loro trucchi.
In agguato come un serpente velenoso, aveva atteso quel momento. Penrod
era caduto nella trappola: gli aveva dato le spalle e aveva rinfoderato la
sciabola. Il nemico aveva tratto indietro lo spadone come un boscaiolo
pronto a sferrare il primo colpo al tronco di un albero. Tutta la sua
corporatura muscolosa era tesa per lo sforzo. Stava prendendo la mira su
un punto poco sopra il bacino di Penrod.
Il capitano vide l'enorme lama d'argento disegnare una curva, e gli
sembrò che il tempo si fosse rallentato. Era come un insetto intrappolato in
una goccia di miele, i suoi movimenti erano torpidi. Si rese conto che la
lama avrebbe tagliato il tessuto molle all'altezza della vita fino a spezzargli
la colonna vertebrale sopra la zona pelvica. Ma la spina dorsale non
l'avrebbe fermata. L'intera circonferenza del suo corpo avrebbe opposto
poca resistenza, non più del tronco flessibile di un banano. Un solo colpo
di spada l'avrebbe tagliato in due di netto.
Il colpo arrivò dalla sua destra, un suono secco, la caratteristica
detonazione di una Webley 44. Benché non l'avesse vista, Penrod sapeva
che la piccola figura ai margini del suo campo visivo era Amber. Aveva
impugnato la pistola con entrambe le mani, a braccia tese, ma il forte
rinculo gliela spinse sopra la testa.
L'assassino era un giovane dalla barba leggera e incolta, la pelle
butterata color caramello. Penrod lo vide in faccia quando il proiettile della
Webley gli colpì la tempia sinistra, perforandogli il cranio dietro gli occhi.
Le sue fattezze vennero deformate quasi fossero di gomma. Le labbra si
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torsero e si allungarono, le palpebre sbatterono come Alì di farfalla. Gli
occhi schizzarono dalle orbite, e la pallottola uscì dalla tempia destra in
una nube di frammenti ossei e tessuti.
A metà del colpo di spada, le dita si aprirono meccanicamente e l'arma
sfuggì dalla mano. Roteò davanti all'anca di Penrod, mancandola per una
spanna e conficcandosi nella sabbia fangosa. L'assassino fece un passo
indietro, poi piegò le gambe e cadde.
Con la destra attorno all'elsa della sciabola estratta per metà, Penrod si
girò a guardare Amber, ammirato. La ragazza gettò la pistola e si mise a
piangere. Lui le andò vicino, recuperò la Webley, la rimise nella fondina e
la richiuse. Amber singhiozzava come se le avessero spezzato il cuore.
Tremava tutta, e balbettò convulsamente mentre cercava di dirgli qualcosa.
Penrod le mise un braccio sulle spalle e l'altro dietro le ginocchia e la
sollevò come fosse una bambina piccola. Lei gli si aggrappò al collo con le
braccia esili.
«Direi che per un giorno solo è abbastanza», le disse delicatamente.
«Questa volta vi porto a casa io stesso.»
Quando risalì, Penrod trovò Gordon ad aspettarlo alla postazione delle
Gatling. «Ottimo lavoro, Ballantyne. Adesso il Mahdi ci penserà una o due
volte prima di tornare, e la popolazione si tranquillizzerà.» Si accese una
sigaretta: la mano era ferma. «Getteremo i cadaveri dei dervisci nel fiume,
sarà il nostro monito galleggiante per i loro compagni. Forse qualcuno
verrà anche trascinato giù per le gole fino alle nostre truppe, alle sorgenti.
Così sapranno che stiamo tenendo duro. Potrebbe incoraggiarli ad
affrettarsi.» Poi fissò Amber, che era ancora in lacrime. Il suo corpo era
scosso dal pianto, ma gli unici suoni erano dei piccoli singulti. «Assumerò
io il comando qui. Voi potete riportare la ragazza alla sua famiglia.»
Penrod portò in strada Amber, che piangeva piano. «Sfogatevi, se la
cosa vi fa sentire meglio», le sussurrò, «ma, per Dio, non ho mai
conosciuto un uomo coraggioso quanto voi, che siete ancora così piccina!»
La fanciulla smise di piangere ma si strinse ancora più forte al suo collo.
Mentre Penrod la riportava da Rebecca e Nazira, lei fra le lacrime si
addormentò. Dovettero staccare le sue braccia dal collo del capitano.
Il generale Gordon sfruttò quella piccola vittoria per infondere un po' di
coraggio agli abitanti della città, sempre più apatici per la disperazione.
Fece raccogliere i cadaveri dei nemici, duecentosedici in tutto, li dispose in
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diverse file sul molo e invitò la popolazione a vederli. Le donne sputavano
su di loro, gli uomini li prendevano a calci e li insultavano, invocando la
maledizione di Allah e le pene atroci dell'inferno. Urlarono di gioia quando
i cadaveri vennero gettati nel fiume, dove i coccodrilli li ghermirono e li
trascinarono sott'acqua.
Gordon diffuse bollettini ufficiali in ogni angolo e suq della città, in cui
annunciava che le colonne inglesi di soccorso stavano marciando a pieno
ritmo e quasi certamente sarebbero arrivate a giorni. Comunicò anche la
lieta notizia che i dervisci erano così demoralizzati per la schiacciante
disfatta e l'avvicinarsi delle truppe nemiche che un gran numero di loro
aveva abbandonato la bandiera nera del Mahdi e stava marciando nel
deserto per tornare alle proprie tribù. Era vero che c'era un ampio
movimento di dervisci sulla riva nemica, ma Gordon sapeva che erano in
procinto di essere inviati a nord, in assetto di battaglia, proprio per
fronteggiare i rinforzi britannici.
Ancora più graditi furono i bollettini che annunciavano la decisione del
generale Gordon di distribuire doppia razione di dhurra dalle provviste
conservate nell'arsenale. Lo stesso bollettino informava la popolazione che
le rimanenti scorte di grano erano più che sufficienti a sfamare la città fino
all'arrivo dei rinforzi. Si promise, inoltre, alla gente che i battelli a vapore,
quando fossero attraccati in porto, avrebbero scaricato migliaia di sacchi di
granaglie.
Quella notte Gordon fece accendere dei falò sul maidan. La banda suonò
fino a mezzanotte e i fuochi d'artificio illuminarono il cielo.
Il mattino dopo, di buon'ora, indisse una più severa riunione nel suo
quartier generale: vi parteciparono solo due persone, David Benbrook e
Penrod Ballantyne.
Gordon fissò per primo Penrod. «È pronto l'ultimo inventario delle
provviste di grano?»
«È stato piuttosto veloce, signore. Ieri notte alle dieci restavano
quattromilanovecentosessanta sacchi. La distribuzione della doppia
razione di ieri ha richiesto cinquecentosessantadue sacchi. Agli attuali
livelli di consumo, abbiamo dhurra sufficiente per i prossimi quindici
giorni.»
«Fra tre giorni dovrò di nuovo dimezzare la razione», disse Gordon, «ma
non è il caso di informarne gli abitanti.»
David sembrava stupito. «Ma, signor generale, la colonna di soccorso
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sarà qua fra due settimane. Lo assicuravano i vostri bollettini.»
«Devo proteggere la gente dalla verità», replicò Gordon.
«Ma qual è, allora, la verità?» chiese David.
Prima di rispondere Gordon osservò la cenere sulla sua sigaretta. «La
verità, signore? La verità non è scolpita nella pietra. È come una nuvola in
cielo, cambia continuamente forma. A seconda del punto di vista, presenta
aspetti nuovi...»
«Questa definizione ha un grande valore letterario, non ci sono dubbi,
ma nella circostanza ci è di poco aiuto.» David sorrise tetro. «Per quando
possiamo aspettarci l'arrivo della colonna di soccorso?»
«L'informazione che sto per riferirvi non deve uscire dalle quattro mura
di questa stanza.»
«Certo.»
«Sei dervisci sono stati catturati al porto.»
«Credevo che fossero di più.» David aggrottò le sopracciglia.
«Era così, infatti...» Gordon scrollò le spalle. David preferì non
approfondire l'argomento. In Oriente vigevano altri sistemi, e la tortura
durante l'interrogatorio rientrava tra questi. «I sei sono stati interrogati dal
sergente Khaled. Abbiamo ottenuto molte informazioni interessanti,
nessuna rassicurante. Pare che i battelli a vapore della Divisione fluviale
siano stati bloccati a Korti...»
«Dio mio! Ma avrebbero già dovuto essere ad Abu Hamed!» esclamò
David. «E cosa li trattiene?»
«Non lo sappiamo. Ogni congettura è inutile...»
«E la Divisione del deserto di Stewart?»
«Sempre la stessa storia... Sono ancora accampati alle sorgenti di
Gakdul.»
«Ma è impossibile che una di quelle divisioni riesca a raggiungerci
prima della fine del mese...» rimuginò David; quindi si volse agli altri con
la speranza di essere contraddetto. Ma nessuno rispose.
Fu Gordon a rompere il silenzio. «Qual è lo stato del fiume,
Ballantyne?»
«Ieri è sceso di cinque pollici. Ogni giorno il ritmo del riflusso
aumenta.»
«Si può usare il termine 'riflusso' per l'abbassamento delle acque
fluviali?» interloquì David, come per alleviare le importanti implicazioni
di quel dato.
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Gordon giudicò inutile la domanda e la ignorò. «I prigionieri avevano
anche altre informazioni. Il Mahdi ha richiamato da nord venticinquemila
soldati scelti per rinforzare l'esercito. Ora ci sono cinquantamila dervisci
riuniti ad Abu Hamed.» Fece una pausa, come se non volesse continuare.
«Stewart ha duemila soldati. Il che significa che il Mahdi è venticinque
volte più forte. I dervisci sanno benissimo quale strada deve percorrere per
raggiungere il fiume. Sceglieranno con cura il terreno, prima di attaccare.»
«Stewart è un ottimo ufficiale.» David cercò di mostrarsi fiducioso.
«Sì, uno dei migliori», confermò Gordon, «ma venticinque a uno è una
differenza eccessiva.»
«In nome di Dio, dobbiamo avvertirlo del pericolo!» «Sì, è quanto
intendo fare.» Gordon gettò un'occhiata a Penrod. «Sono in procinto di
inviare il capitano Ballantyne alle sorgenti di Gakdul per avvertire Stewart
e guidarlo fin qui.»
«Ma come disporrete il viaggio, signor generale? Per quel che ne so io,
non ci sono più cammelli in città. Se li sono mangiati tutti. C'è un solo
battello a vapore, l'Intrepid Ibis di Ryder Courteney, ma il motore è ancora
guasto. È del tutto improbabile che un dau possa superare le linee
dervisce...»
Gordon sorrise freddamente. «Ho scoperto che il signor Courteney è
proprietario di una mandria di almeno venti ottimi cammelli da corsa. È
stato abbastanza saggio da non portarli in città, dove avrei potuto
confiscarli, e li ha mandati nel deserto, in una piccola oasi a sud, distante
due giorni di viaggio. Pascolano laggiù, accuditi da qualche suo
scagnozzo.»
David ridacchiò. «Le frecce all'arco di Ryder Courteney sono più
numerose delle pulci su una scimmia.»
«Per chi ha criticato di recente il mio linguaggio, questa è l'immagine
più magnificamente contorta in cui ci si possa imbattere in anni di
ricerca!» Penrod sorrise con lui.
«Quando gli è stato chiesto dei cammelli, all'inizio ha negato di averli.»
Gordon non stava ridendo. «Poi ha negato di volermeli tenere nascosti e ha
detto che dipendeva semplicemente dalla disponibilità di pascoli per gli
animali. Glieli ho requisiti sui due piedi. Se fosse stato sincero fin
dall'inizio, forse glieli avrei anche pagati...»
«Ryder Courteney potrebbe non piegarsi ai vostri ordini», replicò David.
«Ha uno spirito indipendente.»
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«E un istinto vorace», aggiunse Gordon. «Ma in questo caso sarebbe
estremamente imprudente a contraddirmi. Vedete... anche sotto legge
marziale si può esitare a fucilare un suddito della regina, tuttavia lui
possiede diversi magazzini pieni di avorio e un ricco serraglio di animali
esotici ma commestibili.» Gordon sembrava compiaciuto. «La mia logica
persuasiva ha vinto. Courteney ha inviato un messaggio ai suoi pastori
all'oasi, ordinando di riportargli i cammelli. Mi aspetto che siano a nostra
disposizione posdomani.»
«Non avevo idea della gravità della situazione...» mormorò David.
«L'avessi saputo, avrei impedito a mia figlia di organizzare i
festeggiamenti per la vostra vittoria al porto. Ha progettato una serata per
domani. Purtroppo le nostre cucine non possono più preparare cene
raffinate; comunque, vi saranno dei pezzi al pianoforte e delle canzoni. Se
credete che tutto ciò sia fuori luogo, signor generale, chiederò a Rebecca di
annullare la serata.» «No, no.» Gordon scosse la testa. «Anche se io non
potrò parteciparvi, sono sicuro che la festa della signorina Benbrook
servirà a tenere alto il morale. Si deve fare, eccome.»
Amber e Saffron inaugurarono il programma musicale con un duetto di
Greensleeves al piano. Poco importava che il pianoforte a coda del palazzo
consolare avesse un dannato bisogno di essere accordato: le gemelle
compensavano con l'entusiasmo le carenze in altri aspetti.
Quella sera Rebecca fu una padrona di casa allegra e vivace, e a suo
padre non sfuggì quel cambiamento di umore. L'ultima settimana era stata
triste e avvilita, ora invece si mise a cantare Dame spagnole con Ryder
Courteney; poi la sua voce sovrastò quella dell'uomo per finire in un assolo
La mia bella è di là dall'oceano. L'esibizione fu molto bene accolta. In
particolare Saffron la applaudì con entusiasmo.
Amber trascinò Penrod in pista. «Dovete cantare anche voi! Tutti hanno
cantato o fatto qualcosa!»
Lui si arrese garbatamente. «Potete suonare Cuor di quercia}» le chiese,
e la fanciulla corse al piano. La voce del capitano sorprese e scosse tutti i
presenti: era cristallina, commovente e sincera.
Coraggio, ragazzi! Venite!
È verso la gloria che andiam,
a questo magnifico anno
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
ancora dell'altro aggiungiam...
Al termine della canzone, Rebecca, cercando di trattenere le lacrime,
annunciò allegramente: «Il rinfresco sarà servito prima del prossimo atto!»
Venne offerto del caffè abissino, molto forte, in graziose tazzine di
porcellana di Limoges. Mancavano il latte e lo zucchero. Mentre serviva il
capitano Ballantyne, Rebecca si confuse e macchiò di caffè bollente gli
stivali lucidi dell'uomo.
Suo padre dall'altro capo della stanza la vide arrossire come un
pomodoro, e quel turbamento gli sembrò insolito come il suo imbarazzo.
Allora capì a cosa erano dovuti. Il bel soldatino l'ha invischiata nella sua
rete, pensò. Quando lui è nel raggio di cinquanta passi, Becky è tutta
confusa e agitata. Se scompare, lei si strugge, e ora che c'è, ha le vertigini
dalla gioia. David aggrottò la fronte e si cacciò le mani in tasca. Ma lei non
sa che fra due giorni sparirà di nuovo, pensò. Non sopporterei di vederla
ferita... è mio compito avvertirla. Ci rifletté un attimo. E forse lo farò...
dopo tutto l'identità del padre dei miei nipoti è affar mio.
Rebecca si riprese e batté le mani per richiamare l'attenzione. «Signore e
signori, stasera ho un regalo speciale per voi. Direttamente da Madrid,
dove ha danzato per il re e la regina di Spagna e per altre teste coronate
d'Europa, Esmeralda Lòpez Conchita Montes de Tète de Singe, la famosa
ballerina di flamenco!» Un breve e stupito scroscio di applausi salutò
l'ingresso da dietro le tende di una signora spagnola grassoccia, in mantilla
di pizzo, che entrò nella stanza a braccetto di Ryder Courteney, in un
tintinnio di braccialetti e orecchini. Una volta al centro della sala si lasciò
andare a una profonda riverenza, poi si rialzò in piedi con una grazia
insolita per una donna così corpulenta. Fece schioccare le nacchere sopra
la testa, e quando Rebecca attaccò le note d'apertura della Marcia dei
toreador, la senora Tète de Singe cominciò a battere i tacchi con uno
strepito simile a un rullare di tamburi.
David sghignazzò: era stato il primo a riconoscere dietro l'alta parrucca e
il trucco pesante il console Le Blanc. Quindi tutta la stanza scoppiò in una
risata fragorosa, che cessò solo allorché Le Blanc s'inginocchiò di nuovo in
maniera teatrale, con il trucco ormai sfatto.
Nella confusione che seguì David andò da Rebecca e la prese per un
braccio. «Che trovata brillante, mia cara! Le Blanc era superbo. Adoro le
imitazioni!»
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Rebecca era così felice che, quando lui la condusse verso la
portafinestra, lo seguì senza protestare.
«Ah!» esclamò lui. «Il mio regno per una boccata d'aria fresca!»
Passeggiarono sulla terrazza. «Certo, Ryder Courteney ha una bella voce.
Un uomo con molte qualità. Un marito così renderà felice la propria
donna.»
«Oh, padre... come siete perspicace!» Gli batté la spalla con il ventaglio.
«Non so di che stai parlando... Ma devo confessarti che sono rimasto
colpito dal capitano Ballantyne. Anche lui ha una voce straordinaria.»
Rebecca si fermò e guardò altrove.
«Peccato che debba partire, questa volta per davvero, e probabilmente
non avremo mai più il piacere di sentirlo di nuovo...»
«Che dite, papà?» La voce della ragazza era debole.
«Tesoro, non avrei dovuto farmi scappare questa cosa. Gordon sta per
inviarlo a nord con dei dispacci per il Cairo. Lo sai come sono fatti questi
militari. Vanno e vengono tutti quanti, temo, non si può contare su di
loro...»
«Ora, padre, credo che dovremmo tornare a intrattenere gli ospiti.»
Rebecca si guardò allo specchio della toletta. La faccia era così magra
che gli zigomi vi proiettavano ombre. In quei giorni nessuno era grasso a
Khartum. Persino il console Le Blanc era pelle e ossa. Sorrise a
quell'esagerazione e notò con piacere che il sorriso l'abbelliva. Devo
cercare di non fare il broncio, si disse. Intinse il piumino della cipria nella
boccia di cristallo e, delicatamente, si coprì le borse sotto gli occhi.
«Meglio, molto meglio», sussurrò. Era magra, ma sotto la pelle scorreva
ancora la linfa della giovinezza. «Almeno papà crede che io sia bella.
Chissà se lo crede anche lui...» Il pensiero di Penrod le accese un fuoco
sulle gote. «Chissà se è ancora qua fuori.» Guardò verso le finestre del
balcone. «Non devo andare a vedere. Se c'è, penserà che lo incoraggio.
Crederà che sia una ragazza facile, e io non lo sono!»
Lasciò cadere a terra l'abito che indossava e andò verso la veste da
camera di crespo di Cina. Prima di indossarla scorse la sua immagine nello
specchio. D'impulso attraversò la camera da letto e chiuse la porta a
chiave. Aveva congedato Nazira, e non voleva che si ripresentasse
all'improvviso. Tornando allo specchio, si sfilò le spalline della sottoveste
e la lasciò cadere a terra accanto al vestito. Guardò il suo corpo nudo nello
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2005 - Il Trionfo Del Sole
specchio. Le costole affioravano sotto la pelle bianca e le ossa del bacino
erano sporgenti. Il ventre era concavo come quello di un levriero. Si tastò i
seni. Nazira diceva che gli uomini non amano i seni piccoli. «Saranno
troppo piccoli?» si chiese.
Allora ricordò la sensazione delle labbra di lui sui capezzoli, lo sfregare
dei baffi e i morsi dei denti. Mentre si fissava allo specchio, i capezzoli si
inturgidirono e si scurirono per la vampa che si sentiva dentro. Di colpo
sentì ancora quell'umidità, calda come sangue, sprigionarsi lentamente
dall'interno delle cosce. Dal petto le dita scesero giù, ma appena sfiorarono
il leggerissimo cespuglio di peli biondi alla base della cavità del ventre,
ritirò di scatto la mano. «Non lo devo fare più!» si disse.
Indossò la veste da camera di crespo di Cina e se l'allacciò intorno alla
vita. Guardò ancora il balcone. «Non devo uscire. Spegnerò la lampada e
andrò a letto.» Attraversò a passi lenti la stanza e si fermò davanti alla
portafinestra. «È stupido e pericoloso. Lo sa il cielo dove andrò a finire.
Prego solo che non ci sia!»
Posò la mano sulla maniglia e fece un lungo respiro, come se dovesse
tuffarsi in un lago ghiacciato. Girò la maniglia e uscì sul balcone. I suoi
occhi puntarono subito ai piedi del tamarindo.
Lui era lì, appoggiato al tronco. Si raddrizzò e guardò in alto verso di lei.
La faccia era in ombra, perciò Rebecca si appoggiò al parapetto per vedere
meglio. Stavano tutti e due in silenzio, fissandosi. La ragazza si sentiva
soffocare: ogni respiro era uno sforzo. Si sentiva la pelle calda e molto
sensibile. Tutto il corpo era contratto, ogni nervo a fior di pelle. I lunghi
tendini delle cosce erano tesi come funi. Voltò la testa e fissò un ramo del
tamarindo. Si dipartiva dal tronco curvandosi come un pitone, grosso come
il suo giro vita, e si sporgeva sul parapetto del balcone, proprio accanto a
dove stava lei adesso. Le gemelle lo usavano come scala e come sedile. La
corteccia, nel punto in cui scivolavano, era levigata. Ora Rebecca vi
appoggiò una mano e guardò in basso, verso Penrod.
Non lo sto adescando, si disse con decisione. Questo non è un invito.
Non deve pensare che lo sia.
Lui era alla base del tamarindo. Cominciò ad arrampicarsi. Oh no! pensò
lei. Non deve farlo, non voglio!
Fu allarmata dalla rapidità dell'ascesa. Lui raggiunse il ramo, e invece di
attaccarsi in maniera goffa, con le gambe penzoloni, si alzò in piedi su di
esso e lo superò di corsa, come fosse una passerella. Era a sei, sette metri
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2005 - Il Trionfo Del Sole
da terra, e lei aveva il terrore che potesse scivolare e cadere, ma l'atterriva
ancor di più l'eventualità che arrivasse al balcone sano e salvo: cosa
sarebbe successo allora?
Si precipitò in camera da letto e chiuse la portafinestra dietro di sé.
Aveva le mani sulla maniglia, ma le dita non le obbedivano. Indietreggiò
fino al centro della stanza. Sentiva i passi di lui sul balcone. Il respiro le si
fece più affannoso. Il battente si schiuse. Strinse i pugni sui fianchi: voleva
dirgli di andarsene, di lasciarla in pace. Ma nessun suono uscì dalla sua
bocca.
Lui aprì la finestra lentamente. Lei voleva gridare, ma la stanza del
padre era allo stesso piano e quella delle gemelle ancora più vicina: non
doveva svegliarli.
Penrod mosse qualche passo dentro e chiuse la portafinestra con estrema
calma. Lei lo fissava, gli occhi grandi e sbigottiti nel viso magro e pallido.
L'uomo si avvicinò lentamente, con una mano aperta come se lei fosse una
puledra selvaggia da domare. La ragazza cominciò a tremare.
Con la mano le sfiorò una guancia. «Sei un incanto...» le sussurrò, e a
Rebecca quasi venne da piangere. Lui le mise le mani sulle spalle rigide e
si piegò delicatamente su di lei. Era ipnotizzata dai suoi occhi: alla luce
della lampada erano verdi, con pagliuzze e puntini d'oro intorno all'iride.
Poi la bocca di Penrod toccò la sua. Aveva le labbra calde e lisce. Le mani
scesero lungo le spalle e si fermarono alla vita. Rebecca aveva le braccia
distese sui fianchi come una bambola di pezza. Lui la trasse contro di sé, e
Rebecca non si oppose. Le labbra di Penrod si aprirono sulle sue, e l'odore
e il sapore dell'uomo la travolsero. La lingua si aprì un varco, ed ella
staccò le braccia dai fianchi e gliele gettò al collo. Lui la strinse più forte,
quasi brutalmente. Rebecca sentì di nuovo quella cosa dura che cresceva là
in basso, tra i loro corpi. I suoi succhi proruppero come un fiotto dai
recessi più intimi, lei cercò di fermarli serrando le gambe e le natiche, ma
il loro flusso le bagnò le cosce.
Lui indietreggiò bruscamente e lei si sentì abbandonata, come se il
contatto fra loro si fosse spezzato. Il suo corpo cercava di seguire quello di
lui. Penrod le slacciò la cintura, aprendole la veste. Intimidita, la ragazza
tentò di coprirsi, ma lui le afferrò i polsi e osservò con un'espressione
estasiata il suo corpo pallido. «Sei di una bellezza indescrivibile...» le
sussurrò, con la voce incrinata.
Il calore di quel complimento sciolse la sua ritrosia. D'istinto spinse il
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2005 - Il Trionfo Del Sole
petto in avanti. I suoi seni erano appuntiti, sfrontati. Dallo sguardo di
Penrod capì che lui non li considerava piccoli. I capezzoli erano duri come
sassi. Rebecca bramava di sentire di nuovo la sua bocca sul petto. Era
posseduta da un'inebriante impudicizia. Alzò le braccia ad afferrargli la
nuca con entrambe le mani, infilò le dita fra i riccioli della folta chioma e
gli attirò il capo verso di sé.
Le mancò il respiro quando la bocca di Penrod si chiuse sulla sua. Non
avrebbe mai immaginato che da un gesto così semplice potessero scaturire
tante sensazioni. Sulla pelle il fiato di lui era ora freddo ora caldo, a
seconda che inspirasse o espirasse; le labbra, all'inizio ferme e asciutte, ora
erano morbide e umide. La lingua guizzava come un'anguilla, poi
cominciò a leccare come fa il gatto con un piattino di latte. Sembrava che
la succhiasse, tirando e mordendo, e lei sentiva quella sensazione
moltiplicarsi dentro di sé come un'eco.
Quando Rebecca raggiunse la soglia del dolore, Penrod si fermò di
colpo, la sollevò e la portò sul letto. Ve la depose come fosse un oggetto
fragile e prezioso, poi indietreggiò. Si sbottonò la camicia, si girò verso la
lampada sulla toletta, mise una mano a coppa sul tubo di vetro e trattenne
il fiato per spegnere la fiamma.
Rebecca si rialzò di scatto. «No!» esclamò. «Non spegnerla. Tu mi hai
veduta, e adesso io voglio vedere te.» Non riusciva a credere di aver
parlato così arditamente. Lui si voltò e si mise davanti a lei. Senza fretta si
tolse la camicia. La pelle era liscia come avorio, intatta nelle parti non
esposte al sole. I muscoli del petto erano piatti e duri, plasmati
dall'equitazione e dalla scherma. Reggendosi in perfetto equilibrio su un
piede si levò uno stivale. Lo posò senza farlo cadere, e lei gli fu grata per
questa attenzione. Poi fece lo stesso con l'altro stivale. Infine, si slacciò la
cintura e si sfilò i pantaloni. Lei l'aveva già visto nudo una volta e si era
convinta che avrebbe portato con sé quell'immagine per sempre. Ma non
l'aveva visto bene come adesso. Si morse il labbro per non gridare di
sorpresa. Penrod salì sul letto e s'inginocchiò accanto a lei. «Ti prego, non
farmi male», lo implorò.
«Preferirei morire», lui le disse. Le sfuggì un lamento quando lo sentì
sulla soglia della propria intimità. Sapeva che qualcosa doveva rompersi o
cedere, e si accinse a soffrire. Sentiva una barriera dentro di sé.
Non deve succedere, pensò, ma di colpo si ritrovò incurante delle
conseguenze. Spinse in alto i fianchi per andargli incontro e lo sentì
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2005 - Il Trionfo Del Sole
penetrare. Il dolore fu acuto, ma momentaneo. Penrod scivolò sempre di
più dentro di lei, fino in fondo. La sofferenza svanì e Rebecca si sentì
trascinare nel vuoto: all'inizio ne fu terrorizzata, poi le parve di salire,
come se stesse scalando una enorme montagna. Raggiunta la cima, il
bisogno di gridare il suo trionfo fu così forte che dovette premere la bocca
aperta sull'incavo del collo di Penrod per tacere.
«Resta con me», lo scongiurò poi, quando lui si alzò per rivestirsi. «Non
lasciarmi così presto.»
«Sai che non posso fermarmi. È tardi. L'alba si approssima, e fra un po'
tutti si sveglieranno.»
«Quando partirai?»
Penrod restò fermo nell'atto di riabbottonarsi la camicia. «Chi ti ha detto
che parto?» le chiese brusco. Lei scosse la testa. «È una notizia scottante,
Becky. Se il nemico lo scopre, potrebbe costarmi la vita, e anche peggio.»
«Non lo dirò ad anima viva», gli rispose lei malinconicamente. «Però mi
mancherai.» Si aspettava che la rassicurasse, che le dicesse che sarebbe
tornato. Papà aveva detto: «Questi militari vanno e vengono tutti quanti,
temo... non si può contare su di loro». Sperava che Penrod non fosse così.
Lui non rispose, ma scrollò le spalle nella sua uniforme cachi.
«Promettimi che tornerai», lo implorò. Penrod si chinò sul letto e la
baciò sulla bocca. «Promettimelo», insistette.
«Non faccio mai promesse che forse non potrò mantenere», le rispose
lui, e se ne andò.
Rebecca si sentiva le lacrime agli occhi, ma cercò di trattenerle. «Non
sarò mai una piagnona.» E, nonostante l'affanno, il sonno la avviluppò
come una valanga scura.
Si svegliò al suono delle armi: le cannonate stavano cadendo nei pressi
del porto, dove era stato respinto l'attacco. I dervisci stavano sfogando il
loro dispetto. Le tende erano aperte e la stanza era inondata dalla luce del
sole.
Nazira si muoveva visibilmente agitata per la stanza. «Sono le otto
passate, al-Jamila. Le gemelle sono alzate da due ore», le disse, mentre
Rebecca, assonnata, sollevava la testa dal cuscino. «Ho riempito due
secchi d'acqua calda e preparato la tua gonna blu.»
La ragazza sgusciò fuori dal lenzuolo ancora mezzo addormentata. La
balia la fissò con stupore, e lei cercò di sdrammatizzare: «Oh, Nazira,
sembra che abbia veduto un jinn! Mi hai visto nuda un sacco di volte!» Si
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2005 - Il Trionfo Del Sole
precipitò in bagno e versò uno dei secchi bollenti nella tinozza rivestita di
metallo.
Nazira la seguì con lo sguardo, poi increspò le labbra. Sollevò le coperte
e guardò sgomenta: c'era una macchia di sangue secco sul lenzuolo di
sotto. Escluse subito le mestruazioni: al-Jamila aveva avuto il ciclo solo
dodici giorni prima, era troppo presto perché si ripresentasse. Quello era
sangue chiaro, puro, di vergine.
Oh, la mia bambina! Hai compiuto la traversata e ora ti trovi su un lido
nuovo, strano e pericoloso, pensò la balia. Si piegò sul letto per
interpretare quella macchia. Era grande come la sua mano aperta, ma
aveva la forma di un uccello in volo.
Un avvoltoio? Quello sarebbe stato di malaugurio, un uccello di morte e
dolore. No. Respinse il pensiero. Una delicata colomba? Un falco, bello e
crudele? Un vecchio gufo saggio? Solo il futuro ce lo dirà, concluse, e
tolse le lenzuola. Le avrebbe lavate con le sue stesse mani, in gran segreto.
Nessun altro doveva vedere quel segno. Poi si fermò, con la sensazione
che al-Jamila la stesse spiando dalla fessura della porta del bagno.
Gettò a terra le lenzuola appallottolate e andò verso di lei. Si inginocchiò
accanto alla vasca e prese in mano la luffa. Sapone, non ce n'era: avevano
finito l'ultimo pezzo una settimana prima. Rebecca raccolse i capelli con la
mano, piegandosi in avanti. Nazira iniziò a strofinarle la schiena: era un
rituale familiare.
Dopo un po' le chiese sussurrando: «Chi era?»
«Non capisco la domanda...» Rebecca non la guardava in faccia.
«Chi si è arrampicato sul tamarindo ieri notte?»
Fingendo di avere dell'acqua negli occhi, la ragazza se li coprì con
entrambe le mani.
«Non può essere stato Abadan Riji, quel simpatico soldato. Ha già una
donna», disse Nazira.
Rebecca abbassò le mani e la fissò. «Sei una bugiarda!» replicò a voce
bassa, ma con una tremenda ferocia. «La tua è una bugia crudele e
dolorosa!»
«Ah, così era il soldato... Per te è meglio quell'altro. Lui non potrà mai
farti felice!»
«Ma io lo amo, Nazira. Cerca di capirmi, ti prego!»
«Anche lei. Si chiama Bashida...»
«No!» Rebecca si tappò le orecchie. «Non voglio sentirlo!»
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Nazira tacque. Prese il braccio di Rebecca e lo sfregò con la luffa.
Quando arrivò alle dita, le aprì e le lavò una alla volta.
«Bashida è un nome arabo?» le domandò infine, ma Nazira non parlò.
«Rispondimi!» insistette.»
«Tu non volevi ascoltare...»
«Mi stai torturando. È un'araba? È molto bella? Lui la ama?»
«Lei è della mia gente e del mio Dio. Non l'ho mai vista, ma dicono che
sia bella, ricca e intelligente. Se lui la ami, lo ignoro. Ma un uomo come
Abadan Riji potrà mai amare una donna con lo stesso slancio con cui lo
ama lei?»
«Lui è un inglese e lei un'araba.» Rebecca sospirò. «Come può amarlo?»
«Lui è sempre un uomo e lei sempre una donna. Ecco come può
amarlo.»
«Nazira, io un'ora fa ero felice. Adesso la felicità è volata via...»
«Forse è meglio essere infelici oggi che per tutta la vita», osservò Nazira
mestamente. «È per questo che ti ho raccontato di Bashida.»
Due ore dopo l'inizio del coprifuoco i quattro uomini lasciarono la città.
Penrod e Yakub portavano i turbanti e le jibba degli Ansar, perché
avrebbero dovuto cavalcare a nord, oltre le linee dervisce. Ryder e Bashid
indossavano semplici galabiyya, come uomini comuni, in quanto loro
sarebbero tornati in città.
Nonostante quella tenuta, non furono fermati quando attraversarono il
canale dietro il quartiere di Ryder Courteney. La guardia era stata avvisata
di lasciarli passare. Carichi di armi e di borse di sisal, puntarono verso il
deserto. Nessuno parlava e tutti si muovevano con prudenza, mantenendo
fra loro una certa distanza, ma restando in vista gli uni degli altri.
Bashid guidava la comitiva. Non rallentò mai il passo, neppure quando
la sabbia arrivava alle caviglie. Camminarono per due ore prima di salire
su una cresta scistosa che spiccava pallida come fosse di ghiaccio sotto la
luce della luna. Uno degli uadi che scavavano il versante opposto era
invaso da una massa amorfa e nera di sterpaglie spinose. Bashid si fermò e
posò a terra il suo fardello. Scambiò con calma qualche parola con Ryder
Courteney. Lui gli porse un sacchetto di cuoio pieno di talleri e Bashid
avanzò da solo. Gli altri tre si accovacciarono in attesa. Da lontano lo
sentirono emettere il grido solitario e straziato del cacciatore, il piviere
notturno del deserto. Dallo uadi si levò la risposta.
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Così al-Mahtum è qui. È un brav'uomo. Mi fido di lui», disse Ryder
soddisfatto.
«Andiamo a raggiungerli!» Penrod Ballantyne si alzò impaziente.
«Sedetevi!» gli intimò Ryder. «Bashid tornerà a prenderci. Al-Mahtum
non permette che uno straniero veda la sua faccia. Conduce una vita
pericolosa. Una volta consegnati i cammelli a Bashid, sparirà nel deserto
come una volpe.»
Un'ora più tardi il piviere cantò di nuovo e Ryder si alzò. «Ora», disse
Ryder, e guidò avanti Penrod e Yakub. C'erano quattro cammelli
accucciati nella sterpaglia. Bashid era accovacciato accanto a loro, ma di
al-Mahtum nessuna traccia. Penrod e Yakub si avvicinarono a ogni
animale per controllarne la bardatura e il carico. C'erano pagnotte di
dhurra e datteri secchi nei tascapane, e un cammello portava il foraggio.
Le ghirbe erano piene per meno di un quarto.
Penrod lo fece notare.
«Al-Mahtum dice di riempirle durante la traversata del fiume. Non ha
senso portare più del necessario. Dovreste raggiungere il Nilo a Gutrahn
prima della mezzanotte di domani. Non cercate di attraversare prima.
Prima di Gutrahn i dervisci sono più numerosi delle mosche tse-tse.»
Acido, Penrod rispose: «Io e Yakub abbiamo già percorso questa strada,
comunque mille grazie per l'ottimo consiglio!» Passò da una bestia
all'altra, battendo sulle gobbe. Erano imbottite di grasso. Poi controllò gli
arti, ripassando con le mani la spalla e la coscia, giù fino al nodello.
«Forti», sentenziò. «Sono in buone condizioni.»
«Non ne troverete di più forti», replicò amaramente Ryder. «Sono
gimal, i migliori cammelli da corsa. Valgono cinquanta sterline l'uno. Il
vostro signore della guerra, Gordon il Cinese, me li ha rubati...»
«Li tratterò come fossero miei figli», promise Penrod.
«Lo so», rispose Ryder, «anche se quelli che vi chiamano l'assassino dei
cammelli, e sono molti, stenterebbero a credervi.»
Penrod e Yakub montarono in arcione. Penrod salutò Ryder con una
battuta: «Porterò i vostri omaggi alle signore del Long Bar al Ghezira
Club». Sapeva che Ryder non ne era socio. Un'altra piccola smagliatura
nel ruvido tessuto del loro rapporto.
Eppure Ryder non era molto contento di vederlo partire. Il capitano
Ballantyne perlomeno non era un tipo uggioso. Insieme a Bashid, guardò
la piccola comitiva sparire nella notte.
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Bashid grugnì e sputò. Era evidente che non nutriva gli stessi sentimenti
del suo padrone. «Quei due se ne vanno insieme perché sono due canaglie
e due porci, svelti con il coltello e il fucile come lo sono con le loro
voglie...»
Ryder rise. «Dovresti essere contento che Yakub se ne sia andato.
Adesso potrai godere un po' di più della compagnia di Nazira...» Si mise il
fucile ad armacollo.
«Anche tu dovresti essere felice di vedere le loro schiene.» Il tono di
Bashid era duro. «Benché il leopardo sia già stato nel kraal della capra,
almeno così ho sentito...»
Ryder si arrestò e cercò di scrutare l'espressione del servo alla luce delle
stelle. «Quale leopardo e quale capra?»
«Ieri mattina Nazira ha cambiato le lenzuola nelle stanze da letto del
palazzo. Ha dovuto lavarne un paio in acqua fredda.» Era un'allusione
abbastanza lontana, ma Ryder la colse. L'acqua calda toghe la maggior
parte delle macchie, ma non il sangue. Per quello, era necessaria l'acqua
fredda.
Non parlarono più, finché non attraversarono il canale per entrare in
città. Ryder era ancora incredulo, si sentiva tradito. Raggiunse il suo
quartiere e si diresse verso il suo alloggio. Conosceva la fama di
dongiovanni di Penrod Ballantyne, ma Rebecca Benbrook... Impossibile.
Era una fanciulla di buona famiglia, dall'educazione rigida. Il rispetto e
l'affetto nei suoi confronti l'avevano portato ad aspettarsi da lei determinati
comportamenti, quelli che un uomo pretende dalla sua futura moglie.
Si sa che Bashid e Nazira sono due pettegoli, non devo ascoltarli, si
disse. Poi, di colpo, gli venne in mente una frase di suo fratello maggiore,
Waite, che una volta aveva detto: «La moglie del colonnello e Katie
O'Grady sono pur sempre donne, in fin dei conti. In certe circostanze non
ragionano con il cervello, ma con i loro organi riproduttivi». Allora Ryder
aveva riso, ma adesso quelle parole lo disgustavano.
Si sentì meglio solo quando si fece la barba e trangugiò due scodelle di
caffè, praticamente l'ultimo della provvista accumulata. Ma anche quando
sedette alla scrivania fece fatica a concentrarsi sui libri contabili. Immagini
violente e inquietanti lo assillavano. Provò un vero sollievo quando segnò
l'ultima voce nel libro mastro, chiuse il grosso volume rilegato in pelle, e
uscì per compiere la sua ispezione mattutina.
Quando entrò nel recinto degli animali, Saffron gli andò incontro. Aveva
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sulla spalla la scimmia Lucy. Imperturbato, il cucciolo sopravvissuto era
aggrappato con tutte e quattro le zampe alla peluria del ventre materno,
intento a succhiare il latte. Lucy aveva perso l'altro piccolo a causa di una
malattia che neppure Alì era riuscito a curare. La ragazzina gli saltellava
accanto, riferendogli soavemente ogni informazione e perla di saggezza
che il vecchio guardiano le aveva confidato quel mattino.
«Vittoria ha la diarrea.»
«Stai parlando del bongo femmina, o della regina d'Inghilterra e
imperatrice delle Indie?» scherzò Ryder.
«Oh, non fare lo sciocco! Sai benissimo di chi sto parlando.» Saffron
rise. «Alì dice che le foglie di acacia non le fanno bene. Oggi le
somministreremo la medicina che sta preparando; è quella che dà ai
cavalli.»
Ryder si sentì un po' risollevato dal suo cattivo umore. La compagnia di
Saffron era sempre divertente e salutare. «Perché non stai aiutando Amber
in cucina con la ricotta?» le chiese, mentre si dirigevano alle ultime
gabbie.
«Mia sorella è barbosa, così prepotente e dispotica. Non è venuta per
settimane, poi ricompare e dà ordini come fosse una duchessa...»
Camminarono tra le file di donne sudanesi che schiacciavano i fasci di
fogliame fresco nei mortai di legno. Ryder le salutava per nome e faceva
delle domande, a dimostrazione di un genuino interesse. Loro
ridacchiavano soddisfatte, e alcune delle ragazze più giovani facevano le
smorfiose: Ryder era il loro beniamino. Il modo migliore per ottenere il
massimo da questa gente era fare in modo di riuscire simpatici. Saffron
partecipò agli scherzi delle donne: apprezzava quell'innato senso del
divertimento, e loro adoravano il suo brio. Ormai il buon umore era raro in
città; terrore e fame avevano trasformato gli abitanti in bestie selvagge.
Dobbiamo ringraziare questa ricotta verde, ci mantiene tutti sani e umani,
pensò Ryder.
Lui non lo dava a vedere, ma era ansioso di entrare nel cortile più
interno, da dove si levava il fumo di una fila di calderoni a tre gambe.
Arrivati, trovarono Rebecca, Amber e cinque ragazze arabe che pesavano
la torta verde e la confezionavano in cestini intrecciati per distribuirla a chi
ne aveva più bisogno. La decisione non era facile, perché non ce n'era
abbastanza per tutti. Rebecca leggeva le misure, pronunciandole a voce
alta, e Amber prendeva nota dei dati.
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«Questo è il nostro giorno migliore, Ryder. Centotrentotto libbre!»
comunicò con orgoglio Amber, quando lui si avvicinò.
«Ottimo. Signore, avete lavorato magnificamente!» Ryder si girò verso
Rebecca. Portava una gonna lunga e un cappello di paglia a larghe falde,
per proteggersi dal sole già alto e rovente.
«Signorina Benbrook, spero stiate bene.» Si accorse che era dimagrita, a
tal punto che avrebbe potuto cingerle la vita con le mani. Ma l'idea di
toccarla lo turbò, e indietreggiò di un passo.
Lei gli fece il primo sorriso diretto da quando il loro bacio era stato
scoperto, ma mancava della solita grazia e verve. Sembrava triste e
depressa. «Sì, grazie, signor Courteney. Per un certo periodo sono stata
indisposta, ma ora mi sono ripresa.» Si scambiarono qualche altro
complimento formale, mentre Saffron, ignorata da Ryder, teneva il
broncio.
«Vogliate scusarci, dobbiamo tornare al lavoro.» Rebecca pose fine alla
conversazione. «Amber, abbiamo finito con la bilancia, puoi riportarla al
capanno. Saffron, stai amorevolmente uccidendo Lucy e il suo piccolo. Va'
a rimetterli in gabbia. Ci serve il tuo aiuto.»
Saffron fece una smorfia ma poi obbedì alla sorella maggiore,
lasciandola sola con Ryder.
«Indossate un abito arabo», gli fece notare Rebecca. «Strano per voi...»
«Non del tutto. Lo porto sempre durante i miei viaggi nel deserto. È più
fresco e comodo per cavalcare o camminare. La mia gente mi preferisce
così: mi fa sembrare uno di loro, e mi sento meno estraneo.»
«Oh... E io che credevo che fosse perché voi e Bashid siete andati a
prendere i cammelli per il capitano Ballantyne e Yakub...»
«E chi ve lo ha detto?»
«Io lo so, a voi scoprirlo...»
«Nazira è una chiacchierona. Non dovreste ascoltare quello che dice.»
«Siete già alle conclusioni, signor Courteney? Comunque ho sempre
trovato estremamente attendibili le informazioni di Nazira.»
Se solo conoscessi l'ultimissimo bollettino di Nazira, pensò Ryder. Lei
proseguì: «E ditemi, signore... il capitano Ballantyne è partito senza
pericoli?»
La domanda era molto chiara, e lei conosceva già la risposta. Ryder la
valutò con attenzione. Era evidente che la partenza di Penrod gli aveva
lasciato campo libero. Ma lui, d'altra parte, desiderava veramente il
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giocattolo abbandonato dall'avvenente soldatino?
«Ebbene?» Rebecca esigeva una risposta. «A me non interessa, ma
Nazira vuole avere notizie di Yakub. Sapete, lui è il suo amico speciale...»
Ryder fece una smorfia di fronte alla delicata descrizione del rapporto
tra la balia e quell'uomo. Chissà se Rebecca considera il soldatino il suo
amico speciale, si chiese, e poi rispose: «Non credo sia opportuno
discutere di questioni militari legate alla sicurezza della città».
«Oh, suvvia, signor Courteney! Non sono una spia del Mahdi! Se non
volete dirmelo, lo chiederò a mio padre. Però pensavo che mi avreste
risparmiato la fatica...»
«E va bene. Del resto non vedo nessun serio motivo per cui non dobbiate
saperlo. Il capitano Ballantyne è partito insieme a Yakub poco dopo
mezzanotte. Sono diretti a nord, e con ogni probabilità attraverseranno il
Nilo Azzurro stanotte. Contano di unirsi all'esercito mahdista che sta
marciando lungo il fiume verso Abu Hamed.»
Rebecca impallidì. «Contano di viaggiare in compagnia dei dervisci? Ma
è una follia!»
«Orbene, si chiama nascondersi sotto gli occhi di tutti. Essi lo faranno
sotto quelli dell'esercito nemico.» La rassicurò: «Non dovete preoccuparvi,
il capitano Ballantyne è un esperto di travestimenti. Può mutare aspetto
come un camaleonte». E pensò: Se vuole, può prenderlo come un
avvertimento.
«Oh, allora non mi preoccuperò, vi giuro.» Ma la menzogna era
evidente: sembrava che dovesse scoppiare in lacrime da un momento
all'altro.
Non rimane alcun dubbio che Nazira abbia detto la verità, Ballantyne
l'ha presa come sua amante... e allora? rifletté Ryder. Non è mai stata mia,
e non la amo, almeno non ora che è un frutto guasto. Eppure quei pensieri
gli suonavano falsi. Doveva cercare di essere più onesto con se stesso.
Dunque la amo? si chiese, ma non si sentiva di affrontare la questione.
«Vi lascio ai vostri lavori, signorina Benbrook», mormorò, e si voltò
verso la porta del capanno. «Amber!» esclamò. Lui e Rebecca erano stati
così presi dalla discussione da non accorgersi che la ragazzina era tornata.
«Da quant'è che sei qua ad ascoltare?» domandò Rebecca.
Anziché rispondere Amber chiese: «I dervisci cattureranno Penrod?»
«Oh... ma sicuramente no! Non essere sciocca!» Rebecca si girò verso di
lei. Le due sorelle stavano per piangere. «A ogni modo, non sta bene
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origliare e chiamare per nome il capitano Ballantyne. Su, vieni qua e
aiutami a riempire i calderoni.»
Ma Amber le diede uno spintone e fuggì fuori dai cancelli del quartiere,
correndo giù per le strade verso il palazzo consolare.
Povera piccina, pensò Ryder... ma verranno giorni difficili per tutti noi.
Ogni mattina di buon'ora, appena le campane della vecchia missione
cattolica suonavano la fine del coprifuoco, nugoli di donne uscivano dalle
macerie, dalle capanne e dai tuguri, e si precipitavano all'arsenale per la
distribuzione giornaliera di grano. Di fronte al cancello si ritrovavano ad
aspettare in molte migliaia, formando una fila che arrivava quasi fino al
porto. Erano un concentrato di miseria: nessuno sfuggiva alle sferzate della
fame e della malattia, che, come inesorabili cavalieri dell'Apocalisse,
imperversavano per ogni quartiere. Tutte quelle creature disgraziate,
macilente e cenciose, alcune addirittura incapaci di tenersi in piedi, con i
neonati legati alla schiena o attaccati alle mammelle vuote e secche,
stringevano in mano un vecchio piatto e il libretto sbrindellato delle
razioni, distribuito dal segretariato del generale Gordon.
Presidiava i cancelli dell'arsenale un capitano egiziano al comando di
una ventina di soldati. I sacchi di dhurra venivano trascinati fuori dal
granaio uno alla volta. Nessun cittadino poteva entrare: Gordon non voleva
che la popolazione vedesse in che misero stato erano ridotte le scorte.
Per ogni donna che si presentava, un sergente controllava che il libretto
non fosse falso, poi ci scarabocchiava sopra la data e la firma. La razione
quotidiana veniva versata nel piatto con una paletta di legno. Due aiutanti,
armati di bastoni, sostavano ai lati dell'ingresso per scoraggiare qualsiasi
tentativo di disturbo. Quella mattina un supplemento di venti soldati armati
era disposto in doppia fila su entrambi i lati. Avevano le baionette inastate,
l'espressione cupa e seria. Le donne avevano imparato, sulla propria pelle,
cosa preannunciasse quella esibizione di forza. Cominciarono a
innervosirsi e a tumultuare, insultandosi e urtandosi. I bambini, che
avvertivano la tensione, piagnucolavano.
Quando il generale Gordon arrivò a grandi passi al cancello, proveniente
dal forte, le donne sollevarono i figli per mostrargli i corpi malconci e
deformi, gli arti scheletrici, semiparalizzati, e gli fecero vedere anche i loro
capelli ridotti a una misera lanugine rossiccia, tutti segni sicuri della fame,
dello scorbuto e del beriberi.
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Gordon ignorò quelle manifestazioni di dolore, le imprecazioni e le
suppliche delle madri, e prese posto alla testa del drappello. Fece cenno al
capitano di procedere. Il giovane ufficiale srotolò il proclama, stampato dal
torchio del consolato, e cominciò a leggere: «'Con la presente, io, generale
Charles George Gordon, in forza all'autorità conferitami dal khedivè
d'Egitto, di governatore della provincia di Kordofan e della città di
Khartum, ordino, con effetto immediato, che la razione giornaliera di
grano, distribuita a ogni cittadino di questa città venga ridotta alla quantità
di trenta decilitri per diem'». Il capitano non riuscì a proseguire: i fischi e
le urla di protesta coprirono la sua voce. La folla vibrava e ribolliva come
una medusa nera, i pugni e le braccia delle donne si agitavano in aria.
Gordon diede un ordine secco. I soldati abbassarono le baionette,
formando una siepe irta d'acciaio contro la massa che avanzava. Le donne
sputavano, urlavano e battevano sui piatti di metallo come fossero tamburi.
Il capitano sguainò la spada. «Indietro! State indietro!»
Quelle parole le fecero infuriare ancora di più.
«Volete farci crepare di fame! Apriremo le porte della città! Se il
khedivè e Gordon Pascià non riescono a nutrire i nostri figli, ci affideremo
alla clemenza del Mahdi!»
Quelle in prima fila afferravano le lame delle baionette e, tenendole fra
le mani insanguinate, spingevano i soldati indietro.
Gordon, impassibile, impartì un altro ordine al giovane capitano. Si sentì
un rumore di otturatori: erano stati caricati i fucili. «Compagnia,
presentat'arm! Puntare!» I militari scrutavano nei mirini di ferro le facce
contorte della folla. «Fuoco!»
I fucili tuonarono, sparando accortamente sopra la testa delle donne. Il
fumo della polvere nera le avvolse in una nuvola densa e, stordite, fecero
qualche passo indietro barcollando.
«Ricaricate!» La folla ondeggiava davanti alla minaccia dei fucili
spianati, ma un nuovo suono irruppe: le donne avevano cominciato un
acuto lamento, che spronava e infiammava il risentimento della folla.
«Aprite il granaio! Dateci tutta la razione!»
«Sfamateci!» urlavano, ma i soldati sembravano di pietra.
Una donna staccò mezzo mattone da un muro danneggiato dagli spari e
lo lanciò contro la schiera dei fucilieri. Non fece danni, ma spinse tutte le
altre a precipitarsi al muro per afferrare mattoni, pietre e frammenti di vasi.
La folla si era trasformata: non era più un'accozzaglia di esseri umani, ma
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un unico mostruoso organismo, un'ottusa ameba di violenza e distruzione.
Una grandine di pietre e mattoni si riversò sulle file serrate dei soldati. Il
giovane capitano fu colpito in pieno viso. Il fez rosso gli volò via, la spada
gli cadde di mano e lui crollò in ginocchio. Sputò un dente. La bocca
rigurgitava di sangue. Le donne si gettarono avanti, e nel tentativo di
raggiungere il sacco di grano aperto travolsero il capitano.
Gordon prese il suo posto. Le donne intravidero il lampo azzurro degli
occhi del generale. «Gli occhi del demonio!» gli urlarono in faccia.
«Shaytan! Uccidiamolo!»
«Dacci il pane per i nostri figli! Dacci da mangiare!»
I mattoni andavano a infrangersi sui soldati. Un altro uomo cadde.
«Puntate!» La voce di Gordon si alzò nitida come uno squillo di tromba.
«Fuoco!»
La raffica falciò la folla a bruciapelo, le donne caddero a terra e si
misero a urlare come scrofe al macello. Chi era rimasto in piedi vacillava e
i capibanda cercavano di radunarli.
«Baionetta!» ordinò Gordon. «Avanti!» E i soldati avanzarono
prontamente, spianando le lame scintillanti. La folla indietreggiò, girò su
se stessa e si disperse. Lasciarono cadere pietre e mattoni, abbandonarono i
piatti e fuggirono per i vicoli.
Gordon fermò i suoi uomini e li ricondusse indietro all'arsenale. Quando
il cancello si chiuse, le sopravvissute uscirono dai nascondigli nel dedalo
dei quartieri. Cercavano i loro morti, i feriti, i bambini sperduti. All'inizio
erano timorose, terrorizzate, poi una donna prese una pietra grossa come
un pugno e la scagliò contro il cancello sprangato dell'arsenale. «I soldati
sono grassi. Hanno le pance piene. Se imploriamo del cibo, ci sparano
come fossimo cani.» La donna era una megera alta e ossuta, tutta vestita di
nero. In piedi davanti al cancello, alzava le braccia scarne al cielo. «Che
Allah li punisca con la peste e il colera! Che mangino carne di rospo e
avvoltoio come noi!» La sua voce era un urlo lancinante.
Tutte le altre donne si affollarono intorno a lei. Ricominciarono a
lamentarsi, schioccando la lingua in modo che la saliva schizzasse fuori
durante l'emissione di quel terribile strido.
«Anche i franchi hanno il cibo!» strillava la donna in nero.
«Nei loro palazzi s'ingozzano come pascià!»
«La residenza di al-Sakhawi, l'infedele, è piena di bestie grasse. Le sue
dispense sono ricolme di sacchi di grano.»
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«Dateci il cibo per i nostri figli!»
«Shaytan si è alleato con al-Sakhawi. Gli ha insegnato la stregoneria. Gli
ha insegnato a preparare la manna del diavolo con l'erba e le spine, e la sua
gente ci banchetta!»
«Distruggiamo la tana di Shaytan!»
«Noi siamo i figli di Allah! Perché l'infedele banchetta mentre i nostri
figli muoiono di fame?»
La folla ondeggiava, incerta. Allora la donna vestita di nero ne prese la
guida. Corse verso la strada che conduceva all'ospedale e alla residenza di
Ryder Courteney. «Seguitemi! Vi mostro io dove trovare il cibo!»
Proruppe in una danza strascicata, barcollando e urlando, e le donne
sciamarono dietro di lei, riempiendo lo stretto vicolo con una marea umana
esaltata e danzante.
Gli uomini sentirono il baccano e uscirono dai nascondigli in mezzo alle
rovine. Gli ululati delle donne li spinsero in preda alla follia. Chi aveva
delle armi le brandì. Si unirono alla tumultuosa processione ed eruppero
nei loro canti di guerra tribali.
Ryder e Jock McCrump erano nell'officina principale. Avevano subito
molte battute d'arresto: era la terza volta in quei mesi che smontavano
dallo scafo il motore dell'Ibis e saldavano con cura i condotti del vapore.
Avevano scoperto che i supporti dell'albero motore erano rimasti
danneggiati e battevano rumorosamente a ogni minima evoluzione. Jock
aveva fatto delle sostituzioni: da un blocco di metallo aveva forgiato e
limato a mano i pezzi di ricambio. Era stata un'incredibile prova di
maestria e pazienza. Alla fine, dopo tutti quei mesi di lavoro meticoloso, le
riparazioni erano complete. Ora stavano assemblando le parti per un
controllo finale, prima di trasferirle al porto e installarle nella sala
macchine del battello.
«Bene, capitano, stavolta andrà a posto, me lo sento.» Jock indietreggiò,
i gomiti sporchi di lubrificante nero e i capelli radi incollati dal sudore al
cuoio capelluto. «Stavolta la vecchia Ibis ci porterà fuori da questo buco
dimenticato da Dio. C'è uno spaccio di whisky ad Assuan, gestito da una
tale di Glasgow, una signora di mia conoscenza. Vende whisky di puro
malto dell'isola di Islay. Sarei proprio contento di sentire di nuovo quel
sapore in bocca. È il vero nettare di Dio, e non è una bestemmia,
credetemi!»
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«Pagherò il primo giro», promise Ryder.
«E anche il resto!» replicò Jock. «È dall'anno scorso che non mi
pagate!»
Ryder stava per protestare per l'ingiusta accusa, quando da fuori giunse
un rumore di passi affrettati insieme agli strilli affannosi di Saffron:
«Ryder! Vieni di corsa!»
Ryder si avviò all'ingresso: «Che c'è, Saffron?»
La fanciulla teneva la gonna sollevata e il cappello le pendeva per il
nastro sulla schiena. La faccia era infuocata. «Sta succedendo qualcosa di
terribile! Rebecca mi ha mandato a chiamarti. Vieni!» Gli afferrò la mano
e lo portò con sé. Corsero al cortile dei calderoni.
«Lo senti?» Saffron si fermò e alzò la mano. «Ora lo senti?» Era uno
stormire, un murmure sommesso, come il vento tra gli alberi o una cascata
lontana.
«Sì, ma cos'è?»
«Le nostre donne dicono che è una folla enorme. Viene dall'arsenale.
Dicono che le razioni di grano sono state ancora ridotte e ci sarà un
terribile tumulto. Si sono spaventate e stanno scappando.»
«Saffron... vai a prendere Rebecca e Amber.»
«Amber non è qui. È al palazzo, con il broncio. Da quando ha saputo
che il capitano Ballantyne se n'è andato, non esce più di casa.»
«Bene. Là sarà al sicuro. Lascia andare le donne, se è questo che
vogliono. Porta al fortino Rebecca, Nazira e chi vuol restare. Sai come
chiudere le finestre e sbarrare le porte. Sai anche dove si trovano i fucili.
Tu e Rebecca armatevi e aspettatemi là.»
«E tu, dove andrai?»
«A chiamare rinforzi. E ora basta con le domande! Via di corsa!»
Proprio in previsione di simili disordini, Ryder aveva fortificato il suo
quartiere. Le mura erano alte e solide, e irte di pezzi di vetro. Aveva
concepito l'interno del complesso come una serie di cortili, ciascuno dei
quali poteva essere difeso e dare accesso al successivo in caso di
invasione. Al centro si trovava un fortino che racchiudeva il suo alloggio
privato, la tesoreria e l'arsenale. Porte e finestre erano protette da pesanti
imposte. Le mura avevano delle feritoie per i fucili e il tetto di canne era
coperto da uno spesso strato di argilla di fiume per renderlo a prova
d'incendio.
La prima linea di difesa era costituita dal muro esterno, con robuste
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porte anteriori e posteriori. Ryder mandò Jock con tre uomini a barricare il
retro e a montare la guardia. Poi Ryder prese Bashid e cinque dei suoi
aiutanti più fidati e li collocò all'entrata anteriore, che dava sul vicolo.
Erano tutti armati di lunghi bastoni di legno. Ryder si assicurò che le porte
fossero sprangate e le pesanti sbarre di legno fossero nelle loro sedi. Per
abbatterle serviva un ariete. Nel muro a fianco dell'ingresso principale si
apriva una porticina per la quale passava un uomo alla volta. Ryder la
varcò. La strada era deserta, con l'unica eccezione di alcune donne
provenienti dalle cucine della torta verde. Stavano scappando come galline
spaventate, e sparirono in pochissimi secondi.
Ryder aspettò. Di proposito, non portava nessun'arma più letale di un
bastone di legno. Un fucile sarebbe stato del tutto controproducente di
fronte a una folla. Un colpo poteva ferirne uno, ma avrebbe fatto infuriare
tutti gli altri, che si sarebbero precipitati su di lui prima che potesse
ricaricare. Un modo sicuro per finire fatto a pezzi, pensò, e si appoggiò
distrattamente al bastone assumendo una posa calma e rilassata. Adesso il
rumore della folla era più vicino, e aumentava sempre più. Conosceva il
significato di quelle furiose voci femminili: stavano aizzando
forsennatamente se stesse e i loro uomini.
Si mise in piedi, solo, davanti all'ingresso. Il suono diventò un frastuono
sordo, scendendo giù fino a lui come le acque scatenate di un fiume in
piena. Di colpo nel vicolo comparve la testa del corteo, a duecento passi da
Ryder. Lo videro, e la folla oscillò. Il chiasso diminuì lentamente e una
strana calma scese su di loro. Lo conoscevano bene, aveva una reputazione
formidabile.
Mi venga un colpo se non riesco a gordonizzarli! Ryder rise fra sé.
Gordon il Cinese era noto per il potere ipnotico che riusciva a esercitare su
una tribù di selvaggi ostili. Si diceva che li domasse con la forza della sua
personalità e lo sguardo dei suoi occhi di ghiaccio.
Ryder si raddrizzò fino a ergersi in tutta la sua statura, e lanciò l'occhiata
più torva e feroce che potesse. Per loro gli occhi verdi o azzurri erano gli
occhi del diavolo. La calma diventò silenzio. Era una situazione di stallo.
Bastava un nonnulla perché evolvesse nell'uri senso o nell'altro.
Camminò verso di loro. Ora impugnava il bastone con aria minacciosa e
avanzava con studiata fierezza. La folla indietreggiò. Uno si guardò alle
spalle. Stavano per disperdersi.
All'improvviso una figura femminile, alta e magra, sbucò nella via. I
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suoi lineamenti erano emaciati per la fame. Le labbra si erano ritratte e
mostravano dei denti biancastri, troppo grossi per le gengive rosa, infestate
da ulcere aperte. Avvolta in una veste nera, era un'arpia dei racconti
mitologici. Avanzò quasi danzando verso Ryder, le gambe sotto la gonna
sottili come le zampe di un airone, i piedi enormi che sbattevano come
pesci gatto neri. Rovesciò la testa all'indietro gridando come
un'indemoniata. La folla alle sue spalle rumoreggiò e la seguì, riempiendo
la via.
Ryder alzò la mano destra in segno di pace: «Vi darò tutto quello che
volete. Fermatevi!»
Le selvagge urla della megera coprirono la sua voce: «Siamo venuti a
prendere quello che ci spetta e uccideremo chiunque si porrà sulla nostra
strada!»
Lentamente Ryder alzò la mano sinistra e fece il segno del malocchio.
Lo rivolse alla faccia della megera, che quando riconobbe il gesto sbatté le
palpebre. La donna incespicò, si fermò, poi si riprese e balzò ancora in
avanti. Ryder vedeva la follia nei suoi occhi e sapeva che era troppo fuori
di sé per reagire anche alla più nefasta stregoneria.
Ryder rimase immobile finché la donna quasi non lo raggiunse. Allora
fece un passo in avanti per andarle incontro e le spinse la punta del bastone
contro lo stomaco, appena sotto la cassa toracica. La malaria aveva
ingrossato la milza della maggior parte degli abitanti del fiume. Un colpo
come quello poteva spappolare l'organo, uccidendo o facendo molto male.
L'arpia cadde come un mucchio di stracci scuri, e la folla vicina si
precipitò sul suo corpo. L'uomo in prima fila brandì uno spadone sulla
testa di Ryder, che si ritirò in fretta nella porticina. Bashid la chiuse e la
sprangò. Sentivano l'urto della folla che spingeva dall'altro lato.
«Lasciamoli passare uno alla volta, così potremo spaccargli la testa
appena entrano», propose Bashid.
«Sono troppi...» Ryder scosse la testa. «Salirò in cima alla porta e
cercherò di trattare con loro.»
«Ma non puoi trattare con un branco di cani rabbiosi!»
Qualcuno lo tirava insistentemente per i lembi del vestito e Ryder cercò
di allontanarlo, ma infine si voltò. «Credevo di averti detto di restare nel
fortino!» esclamò furioso.
«Ti ho portato questo...» Saffron sollevò un cinturone con un revolver
nella fondina e le file di cartucce d'ottone ben allineate.
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«Brava fanciulla!» Ryder si assicurò il cinturone alla vita. «Ma ora torna
al fortino e restaci!» Non la guardò andar via, ma si volse subito a Bashid.
«Va' a prendere la scala grossa in officina.»
Piazzarono la scala contro il muro. Gradino dopo gradino, Ryder
raggiunse la cima e guardò in basso nella via. Formicolava di gente.
Riconobbe la megera che aveva fatto cadere: era in piedi, piegata in due, e
zoppicava, ma la sua voce era stridula e sgradevole come prima. Stava
incitando la folla a raccogliere dalle case lungo la strada tutto quello che si
potesse bruciare. Radunavano travi di legno, fronde secche di palma,
vecchi mobili, spazzatura, e li ammucchiavano contro le porte del
complesso.
«Cittadini di Khartum, ascoltatemi!» urlò Ryder in arabo. «Che la pace e
la saggezza di Dio vi guidino! Vi darò spontaneamente tutto quello che c'è
fra queste mura!»
La folla, esitando, alzò lo sguardo verso di lui, che stava in bilico in
cima alla scala.
«Ecco il discepolo di Shaytan!» gridò la megera. «L'infedele!
Guardatelo, colui che mangia carne di suino! Il cuciniere della manna
infernale!» Improvvisò a fatica una danza. Dietro di lei la folla
rumoreggiava. Lanciarono contro di lui pietre e mattoni, ma il muro era
alto, e la distanza era notevole. Gli oggetti colpivano la parete e
rimbalzavano indietro, echeggiando nella strada polverosa.
«Quella che chiami manna del diavolo non è che erba e canne bollite. Se
la darete ai vostri figli, torneranno forti e sani.»
«Mente! È il diavolo a mettergli in bocca queste menzogne! Sappiamo
che mangiate pane e carne, altro che erba! Dentro quelle mura avete
dhurra e carne. Dateceli! Dacci i tuoi animali! Dacci la dhurra che avete
nei magazzini!»
«Ma io non ho dhurra.»
«Mente!» strepitava l'arpia. «Portate il fuoco, bruceremo lui e la sua tana
sacrilega e malvagia!»
«Aspettate!» urlò Ryder. «Ascoltatemi!»
Ma il rumore della folla copriva la sua voce. Una donna attraversò la
strada affollata. Portava una torcia accesa, un fascio di stracci impregnati
di pece e legati a un manico di scopa. Le fiamme spandevano un fumo
nero, denso e catramoso. Porse la torcia a un uomo, che con essa corse fino
alla porta del complesso. Ryder guardava in basso preoccupato, perché il
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mucchio di spazzatura addossato contro il portone principale era molto
alto. L'uomo gettò la torcia sopra il falò. La fiaccola rotolò giù per metà
del cumulo, poi si fermò. Nell'aria asciutta del deserto, le fiamme
attecchirono subito e guizzarono alte. Le porte erano rimaste sotto il sole
per anni: anche se Ryder le faceva dipingere regolarmente, il legno si
asciugava e s'incrinava a un ritmo superiore alla manutenzione, e ora la
vernice secca bruciò e si alzarono le fiamme, quasi incolori nell'accecante
luce del sole. Ryder stava pensando se ordinare a Bashid e ai suoi uomini
di formare una catena di secchi per domare le fiamme prima che potessero
intaccare le porte, ma poi capì che non c'erano uomini e secchi a
sufficienza, che il fiume e il pozzo erano troppo lontani, e il fuoco stava
già guizzando più in alto della sommità del muro. Il calore era intenso e
Ryder scese giù dalla scala.
«Bashid, potremmo combattere qui... ma non voglio spari e cadaveri.»
«Sono d'accordo, Effendi, ma non voglio neppure essere ucciso», ribatté
l'uomo. «Questi sono bestie, bestie inferocite.»
«È la fame a spingerli a tanto...»
«Perché non inviamo un uomo con un messaggio per Gordon, in modo
che ci Mahdi dei soldati?» chiese Bashid, speranzoso.
Ryder sorrise amaramente. «Gordon non è un amico. Ci valuta in base
alla nostra dhurra e ai nostri cammelli. Se inviassimo un uomo, la folla qui
fuori lo farebbe a pezzi. Credo che dovremo sbrigarcela senza l'aiuto di
Gordon Pascià.»
«Che facciamo?» domandò Bashid, diretto.
«Dobbiamo ripiegare nel recinto interno. Non potranno bruciare quella
porta. E possiamo far arrivare l'acqua fin là.» Doveva alzare la voce per
sovrastare le grida della folla in strada e il crepitio delle fiamme. «Vieni!
Seguimi!» La vernice all'interno della porta si stava già carbonizzando.
Indietreggiò verso la porta interna e ordinò di preparare la pompa
d'acqua e l'idrante. Lungo la sommità del muro interno c'era una
postazione per la fucileria, e Ryder a malincuore distribuì i Martini-Henry
a chi sapeva usarli. A parte Rebecca e Jock, aveva fatto esercitare solo
cinque dei suoi uomini, compreso Bashid. Gli arabi avevano scarso
interesse, e ancor meno attitudine, per le armi da fuoco. Rebecca era senza
dubbio più abile della maggior parte di loro. Lasciò le donne al fortino con
Jock, di guardia alle feritoie.
Dal parapetto della piattaforma, Ryder vide la porta principale cedere
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lentamente e poi crollare in un'esplosione di scintille e schegge
infiammate. La folla tra gli urti si precipitò dentro, calpestando gli avanzi
ancora in fiamme della porta. Una delle donne più anziane incespicò e
cadde nel fuoco, che attecchì subito all'ampia veste. Le sue grida di agonia
furono ignorate, e morì in pochi istanti. Un nauseante tanfo di carne
bruciata raggiunse Ryder dietro il parapetto.
Una volta all'interno, i capibanda avanzarono lentamente. Si trovavano
in un territorio sconosciuto, e si guardavano intorno con curiosità. Quando
intravidero la fila di teste lungo il parapetto, ricominciarono i canti di
guerra. Poi presero d'assalto la porta interna come un branco di cani
selvaggi. Ryder lasciò che facessero metà della strada, poi sparò sulla terra
battuta di fronte a loro. Il proiettile sollevò una nube di polvere e ghiaia, e
rimbalzò sopra le loro teste. Si fermarono di colpo, indecisi sul da farsi.
«Non vi avvicinate!» urlava Ryder. «Il primo lo uccido!» Qualcuno
cominciava a voltarsi e ad andarsene senza farsi notare. Allora la megera
avanzò zoppicando, e si lanciò ancora una volta nella sua danza grottesca.
Aveva recuperato da qualche parte un frustino di coda di vacca e
agitandolo scagliava le sue minacce e imprecazioni agli uomini sul
parapetto.
«Stupida, dannata strega...» mormorava Ryder, disperato e impotente.
«Non mi obbligare a ucciderti...» Sparò ai suoi piedi, e quando la pallottola
sollevò del fango da terra, lei fece un salto in aria, sbattendo i lembi neri
del vestito come una cornacchia che spicca il volo. La folla urlò di nuovo.
La vecchia saltellò e puntò dritta verso il muro interno. Ryder spinse
un'altra pallottola nell'otturatore e fece fuoco. La megera saltò ancora e gli
uomini alle sue spalle la imitarono, ridendo. Quella risata aveva una nota
oscena e indecente, minacciosa come le urla di rabbia precedenti.
«Fermati!» mormorava Ryder. «Ti prego, fermati, vecchia baldracca...»
Sparò di nuovo, ma la folla aveva capito che lui non aveva intenzione di
uccidere e così perse ogni timore. Avanzarono compatti dietro quella
figura saltellante. Raggiunsero la porta e cominciarono a percuoterla con le
armi che avevano, e a mani nude.
«Prendete altra legna!» strillava la megera. Andarono a recuperarla e
l'ammucchiarono come prima davanti all'ingresso.
«Azionate la pompa!» ordinò Ryder a due uomini, che afferrarono le
impugnature e le spinsero su e giù. Il tubo di tela, sgonfio e allungato nel
cortile, s'ingrossò e s'indurì con l'aumento della pressione. Un potente
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getto d'acqua di fiume eruppe dall'imboccatura. I due uomini lo puntarono
sulla legna, colpendola con tale violenza che la catasta si sfasciò.
Ryder indicò la vecchia arpia. «Mirate a lei!» Il getto la raggiunse in
pieno petto e la respinse indietro. Piombò a terra sulle scapole, ruzzolando.
Il tubo la seguiva. Ogni volta che si rialzava veniva nuovamente sbattuta a
terra. Alla fine strisciava sulle mani e le ginocchia, fuori di sé dalla rabbia.
Ryder rivolse l'acqua contro gli uomini in testa alla folla e li disperse.
Allora quelli si sparpagliarono per perquisire gli edifici del quartiere fuori
della cerchia fortificata. Dopo pochi minuti Ryder sentì provenire dai
magazzini un martellante rumore di colpi.
«Stanno sfondando le porte del deposito dell'avorio!» urlò Bashid.
«Dobbiamo fermarli!»
«E come? Loro sono migliaia e noi dieci...» Ryder non seppe dire altro.
«Ma l'avorio?... le pelli?» Bashid aveva diritto a una piccola parte dei
profitti e al pensiero della perdita la sua faccia diventò una maschera di
disappunto.
«Meglio che si piglino i denti d'elefante e le pelli d'animali che i miei
denti e la mia pelle...» tagliò corto Ryder. «Comunque non potranno
mangiare l'avorio. Forse quando non troveranno la dhurra lasceranno
perdere.»
Ma era una speranza vana, e lui lo sapeva. Non passò molto che gli
uomini, sospinti dalle urla selvagge delle donne, tornarono indietro.
Portavano con sé grosse zanne d'elefante e mucchi di pelli di animali
essiccate al sole. Ammassarono tutto il bottino ai piedi del muro. Lo scopo
era chiaro: volevano costruire una specie di rampa per scalarlo. Ryder non
perse tempo e ordinò agli addetti all'idrante di indirizzare l'acqua sulla
catasta, ma le zanne e i pesanti involti erano molto più solidi del ciarpame
usato prima, e non cedevano alla violenza degli spruzzi. Allora cercarono
di allontanare i rivoltosi, ma, benché il getto si abbattesse violentemente su
di loro, la maggior parte restava in piedi e aggiungeva sempre più zanne
alla rampa improvvisata. Quando uno cadeva, altri tre correvano a
prendere il suo posto. Continuarono ad ammassare materiale finché il
mucchio non fu vicino alla sommità del muro. Poi si radunarono nel cortile
esterno, fuori della portata dell'idrante. La megera si agitava in mezzo a
loro.
«Avresti dovuto colpirla più forte», protestò Bashid, torvo. «O, meglio
ancora, piantarle una pallottola in quella testa malvagia. Ma non è troppo
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tardi...» Alzò il Martini-Henry e lo posò sopra il bordo del parapetto.
«Se le spari tu, non corre alcun pericolo...» motteggiò Ryder. Malgrado
le tante ore di addestramento, Bashid non era affatto un buon tiratore.
Sembrò contrariato per la battuta e abbassò il fucile. «Vedi? La strega sta
scegliendo gli uomini migliori per scalare il muro.»
Bashid aveva ragione. Era riuscita, in un modo o nell'altro, a non perdere
mai il frustino, neanche quando l'acqua l'aveva colpita in pieno: lo teneva
assicurato al polso con un laccio di cuoio. Ora si muoveva tra la folla e
indicava i prescelti sferzandoli in viso. In breve ne individuò trenta o
quaranta tra i più giovani e forti. Molti erano armati di spadoni e asce.
Incoraggiate dalla megera, le donne ripresero la loro orrida litania. La
squadra d'assalto brandì le armi e si diresse contro il muro. Il getto d'acqua
colpì quelli in prima fila, che però intrecciarono le braccia fra loro per
resistere.
«Lasciaci sparare, Effendi!» implorava Bashid. «Sono così vicini che
neanch'io posso sbagliare!»
«Non ci giurerei...» mormorò Ryder. «Ma non sparare. Basta che ne
uccidiamo uno e daranno in escandescenze, sarà una carneficina.» Il suo
pensiero andava alle donne nel fortino. Nulla poteva stargli più a cuore.
Gli assalitori, benché disturbati dall'idrante, stavano salendo
rapidamente fino al parapetto, ma lì Ryder e i suoi uomini li fermarono
colpendoli alla testa con mazze e bastoni. Avevano il vantaggio
dell'altezza. Nessuno poteva opporsi al getto d'acqua scagliato da pochi
passi, e i lunghi bastoni impedivano di avvicinarsi abbastanza per usare le
spade. Se qualcuno si scoraggiava e scendeva dal mucchio di pelli e zanne,
la megera da basso era pronta ad andargli incontro per sferzarlo e
insultarlo. Qualcuno si era ritirato tre volte, e tre volte la vecchia l'aveva
rimandato avanti.
«Stanno cedendo!» esclamò a un certo punto Bashid, ansimando. «Sono
scoraggiati!»
«Spero che Allah ti ascolti», disse Ryder, e stampò il bastone sulla
tempia dell'uomo che aveva di fronte. Quello rotolò giù per la rampa e
restò a terra immobile. Neppure le furiose frustate della vecchia valsero a
rianimarlo.
A un certo punto, uno si fece largo in mezzo alla folla di donne
inferocite. Avanzava con l'andatura a braccia penzoloni di un gorilla
maschio di montagna. La testa era rotonda, calva e lustra come una palla di
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cannone. La pelle era color antracite e l'aspetto era quello dei nubiani:
labbra grosse e spesse, naso camuso. Indossava soltanto un perizoma. I
muscoli del petto pulsavano sotto la pelle unta d'olio e si gonfiavano come
una borsa di seta nera piena di pitoni. «Quello io lo conosco!» gracchiò
Bashid. «È il famoso lottatore di Dongola! Lo chiamano lo Schiacciaossa.
È pericoloso!»
Il nubiano scalò la catasta con un'agilità impressionante. Ryder si spostò
lungo il camminamento per affrontarlo, ma quello era già sul parapetto. Si
ergeva in tutta la sua statura, in perfetto equilibrio come un colosso
d'ebano.
Ryder si infilò l'impugnatura del bastone sottobraccio, come una lancia,
e attaccò. L'estremità appuntita colpì il nubiano in pieno petto, lacerando la
carne. Ryder spinse con tutto il suo peso e il lottatore vacillò, il corpo
s'inarcò all'indietro, le braccia mulinarono all'impazzata.
Bashid raggiunse Ryder e i due concentrarono il peso dei propri corpi
sul bastone. Il nubiano crollò come una frana di roccia nera. Travolse
cinque uomini alle sue spalle, e insieme precipitarono giù per la ripida
rampa in un guazzabuglio di braccia e gambe.
Il lottatore cadde sulla terra riarsa battendo la nuca pelata, e l'impatto
echeggiò come la caduta di un albero di mogano colpito dal fulmine.
Giacque inerte, a bocca aperta, la gola risonante di grugniti. La megera
balzò sul suo petto e lo frustò in faccia.
Il nubiano aprì gli occhi e si rialzò. Scacciò la donna con un
manrovescio e scosse la testa confuso. Allora vide Ryder e Bashid che
sorridevano beffardi. Rovesciò all'indietro la testa, muggì come un bufalo
in trappola, cercò a tentoni la spada, barcollò e si lanciò di nuovo su per la
rampa.
«Buon Dio!» esclamò Ryder. «Sta tornando!» Alzò il bastone e, appena
il nubiano raggiunse la cima della rampa, lo affondò con violenza contro di
lui. Con un colpo di lama il gigante lo accorciò di mezzo metro. Ryder
affondò ancora, questa volta dal capo dell'impugnatura. Il nubiano menò
un fendente a due mani lasciando Ryder con un moncone non più lungo
del suo braccio. Glielo lanciò contro, centrandolo nel mezzo della fronte
sfuggente. Il lottatore sbatté le palpebre e diede un altro ruggito: poi,
brandendo la spada, saltò sul parapetto.
«Al fortino!» urlò Ryder, mentre schivava un fendente.
Ma si accorse di essere rimasto solo. Gli altri avevano prevenuto il suo
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ordine, fuggendo a gambe levate. Scese d'un balzo in cortile dalla scala
malferma, e corse verso la porta. Sentiva il fiato del nubiano sul collo e il
sibilo della spada che gli sfiorava i capelli corti e sudati sulla nuca.
«Corri, Ryder! E' dietro di te!» strillava Saffron da una feritoia.
«Sparagli! Ti ho ridato la pistola! Perché non gli spari?» In teoria era un
buon consiglio, ma se lui avesse perso anche un solo secondo per slacciare
la fondina, il nubiano gli avrebbe spiccato la testa dalle spalle. Per fortuna
trovò una riserva di velocità e cominciò a guadagnare terreno su Bashid e
gli altri arabi.
«Più veloce, Ryder, più veloce!» anelava Saffron. Ryder sentiva dietro
di sé il respiro rauco del gigante. Davanti, gli altri si erano già infilati nella
porta del fortino.
Rebecca la teneva aperta per lui. Puntò il fucile e sembrò che mirasse
dritto alla sua testa. «Non posso sparare, colpirei lui...» si lamentò, e
abbassò l'arma. «Avanti, Ryder, ti prego, sbrigati!» Per quanto la
situazione fosse disperata, sentirsi chiamare per nome da lei gli diede un
dolce brivido che gli mise le Alì ai piedi. Si precipitò oltre la porta, che
Rebecca e Saffron richiusero subito. Dall'altra parte, i colpi del nubiano
fecero tremare il telaio.
«La scardinerà!» ansava Rebecca. Sentivano il gigante menar fendenti e
pedate.
«Porta d'acciaio, telaio d'acciaio», la rassicurò Ryder, afferrando il fucile
che Saffron gli porgeva. Aprì l'otturatore e controllò le munizioni. «Qui
dentro saremo al sicuro.»
Salì alla feritoia e Rebecca prese posto accanto a lui. Attraverso quella
fessura avevano una visuale del cortile: da una parte fino alla porta
dell'officina, e dall'altra fino al serraglio. Apparve loro la gigantesca
schiena sudata del nubiano. Aveva rinunciato ad assaltare il fortino, e ora
attraversava il cortile in direzione del portone d'ingresso sprangato.
Quando lo raggiunse, Ryder lo vide sollevare le pesanti sbarre di tek e
gettarle via. Poi indietreggiò e, con un solo calcio, scardinò la serratura
d'ottone. I battenti si aprirono, e la prima a entrare nel cortile fu la megera,
seguita dalla folla esagitata.
La vecchia puntò subito verso il fortino e tutti le tennero dietro. Era uno
spettacolo da far paura: come se le porte dell'inferno si fossero aperte di
colpo e avessero fatto irruzione le legioni dei morti e dei dannati. I volti
erano deturpati dalle malattie e dalla fame, gli occhi troppo grandi per le
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teste smunte e avvizzite, labbra e palpebre erano tumefatte e tempestate di
pustole e ulcere purulente. La fame e le malattie emanano un caratteristico
odore, allorché il corpo divora se stesso e la pelle libera umori di
putrefazione e degrado: mentre quei disgraziati si affollavano intorno alle
feritoie, il tanfo si diffondeva nello spazio afoso, asfittico, saturandolo con
un lezzo di tomba scoperchiata. Era un miasma irrespirabile. I visi stravolti
si contorcevano gettando occhiate nelle fessure. «Cibo! Dov'è il cibo?»
Allungavano le braccia in avanti. Le membra erano sottili e nodose come
rami avvizziti. Le palme delle mani erano pallide come il ventre dei pesci
morti.
«Gesù, abbi pietà di noi!» ansimava Rebecca, stringendosi a Ryder e
cercando istintivamente la sua protezione. Lui le cinse le spalle con un
braccio e questa volta lei non lo respinse. «Cosa ci succederà?»
«Qualunque cosa accada, io resterò con voi», le rispose; e la ragazza si
strinse ancor di più contro di lui.
L'arpia stava urlando ordini alla folla. «Cercate dappertutto! Troveremo
la dhurra che hanno nascosto! Distruggeremo i vasi dove conservano la
manna del diavolo! È una malvagità e un'offesa agli occhi di Dio! Per
questo la sciagura si è abbattuta sulla città, e la peste e la disgrazia ci
perseguitano! Trovate dove tengono le bestie. Oggi banchetteremo con
carne fresca!» La voce stridula li scuoteva fin nell'intimo dei loro corpi
affamati. Obbedendole con una specie di devozione cieca e ipnotica, si
staccarono dalle feritoie e Ryder poté tornare a vedere. Ora lui e Rebecca,
che premevano il volto sulla stessa apertura, ripresero a respirare un'aria
più pura e osservarono la massa defluire verso la porta del serraglio, sotto
la guida del gigante nubiano e della vecchia.
«Bene... i vostri bongo non cagheranno più sulla mia nave, capitano»,
dichiarò Jock McCrump in tono lugubre. Poi si ricordò delle buone
maniere e toccò la falda del suo berretto all'indirizzo di Rebecca. «Se le
signore perdonano il mio linguaggio.»
«Che ne sarà di loro Jock?» La voce di Saffron tremava.
«Finiranno tutte in casseruola, 'ste bestie, signorina Saffy...»
Saffron corse alla porta e cercò di sollevare le spranghe. «Lucy! Devo
salvare Lucy e il suo piccolo!»
In modo dolce ma fermo, Ryder l'afferrò per un braccio e la attirò verso
di sé. «Saffron», le sussurrò con voce roca, «non possiamo fare niente per
Lucy.»
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«Ma non li puoi fermare? Te ne supplico! È vero che li fermerai,
Ryder?»
Ma a quella disperata domanda non c'era risposta. Ryder stringeva le due
ragazze - Saffron da una parte, Rebecca dall'altra - che si aggrappavano a
lui, mentre vedevano la folla ammassarsi sulla porta del serraglio e cercare
di sfondarla. Ma era solida e resisteva agli assalti. Allora il nubiano si fece
largo a spallate, si concentrò e cominciò a scuotere la porta finché non si
sentì vibrare il telaio. Ma non cedeva ancora. Il gigante indietreggiò,
raccolse le forze e si scaraventò contro con la spalla possente. I cardini
saltarono dal telaio e la porta si spalancò.
Apparve Alì, il vecchio guardiano, in piedi, con in mano una spada
arrugginita.
«Alì, vecchio pazzo!» gemette Ryder, cercando di allontanare le ragazze
perché non vedessero quello che sarebbe successo da lì a poco. Ma loro
resistettero e, ceree in volto, osservarono dalla feritoia.
Alì sollevò la spada sopra la testa. «Andatevene! Non entrerete qua!» La
voce era acuta e tremula. «Non vi lascerò toccare le mie creature!»
Zoppicò verso il nubiano, minacciandolo con l'arma spuntata. Lo
Schiacciaossa protese un braccio muscoloso e afferrò il polso levato del
vecchio. Lo scosse come un cane scuote un sorcio, e si sentì l'osso
dell'avambraccio spezzarsi. La spada arrugginita cadde ai suoi piedi nella
polvere. Usando il braccio rotto come un'impugnatura, lo Schiacciaossa
sollevò sopra la propria testa il corpo che si divincolava e lo sbatté contro
lo stipite, con una tale violenza che le costole si spezzarono come legna
secca. Poi lo gettò a terra e lo calpestò. La folla lo seguì di slancio, e nel
passare colpiva la testa di Alì con spade e bastoni.
Un boato bramoso e famelico si alzò dal serraglio quando la folla vide le
file di gabbie con gli animali terrorizzati.
«Cibo! Carne!» urlò la vecchia arpia. «Vi ho promesso un banchetto di
carne fresca: eccolo!» Si precipitò verso la gabbia più vicina e spalancò lo
sportello. Era piena di pappagalli grigio-porpora. Si scatenò un gracchiare,
un turbinio di Alì. Lei si avventò su di loro con la frusta, sbattendoli a terra
e schiacciandoli sotto i piedi callosi.
La folla seguì il suo esempio, aprì le gabbie delle scimmie e percosse
con i bastoni gli animali spaventati che saltavano qua e là. Poi assalirono i
recinti delle antilopi.
Nel fortino si sentiva tutto quello che stava succedendo. Tra il fracasso
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delle gabbie rotte e lo strepito della folla, Saffron riusciva a distinguere i
versi di terrore dei suoi animali preferiti: le strida dei pappagalli, gli urli
delle scimmie.
«Questa è Lucy! La mia povera Lucy!» ripeteva singhiozzando. «Non
possono mangiarla! Ditemi che non la mangeranno!» Ryder la
abbracciava, ma non sapeva come confortarla.
Poi si udirono gli animali più grandi lanciare belati selvaggi e gridi di
dolore.
«È Vittoria, il mio bongo!» sussultò ancora Saffron. «Lasciatemi andare!
Devo salvarla!»
Il bongo femmina uscì correndo dalla porta del serraglio, dove il
cadavere del vecchio Alì giaceva nella polvere insanguinata. Quando la
folla aveva sfondato il suo recinto era riuscita a scappare. Non sembrava
ferita.
«Scappa, Vittoria!» le urlava Saffron. «Corri, piccola mia!»
Una decina di uomini e donne, armati di lance e spade, la stavano
inseguendo. La grossa bestia dai colori brillanti - il manto liscio e lucido
era color castano scuro con strisce color panna - vide il portone aperto e
deviò in quella direzione, le orecchie dritte, gli occhi grandi e scuri nella
testa graziosa sgranati per il terrore. Era quasi arrivata all'uscita quando
uno degli inseguitori ruotò le spalle, puntando la mano sinistra verso
l'animale, e tendendo all'indietro la destra, che impugnava la lancia. Portò
il peso in avanti e scagliò l'arma, che descrisse un ampio arco e andò a
colpire il bongo. La punta della lancia si conficcò nel dorso.
Doveva aver spezzato la spina dorsale, perché le zampe posteriori
cedettero come paralizzate, e la bestia rimase ferma su quelle anteriori.
I cacciatori lanciarono un grido di trionfo e si accalcarono intorno
all'animale ferito. Non pensarono minimamente a porre fine alle sue
sofferenze, anzi, si misero a tagliare lembi di carne viva. Arrivò il nubiano,
che con un fendente della spada aprì il ventre come se fosse una borsa. La
pallida sacca dello stomaco e il groviglio delle viscere si riversarono dal
taglio. Si trattava di leccornie, e la folla le strappò avidamente per
divorarle lì, sui due piedi. Il contenuto giallastro e lurido dell'intestino si
mischiava con sangue e mentre gli affamati masticavano sgocciolava da
labbra e da fauci.
A quella vista, Rebecca fu scossa dai conati di vomito e si voltò, ma
Saffron continuò a guardare finché il bongo non morì e la folla non fece
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ressa sul suo cadavere come uno stormo di avvoltoi, nascondendolo alla
vista. Altri ancora uscivano dalla porta del serraglio con pezzi
sanguinolenti di carne e carogne martoriate di uccelli e scimmie.
Cercavano di affrettarsi prima che altri arrivassero dalla città. Ma era tardi,
e scoppiarono dispute con violenti tafferugli. Saffron vide un bambino
avventarsi su un pezzo di carne. Se lo ficcò in bocca e cercò di inghiottirlo,
ma la donna a cui era caduto gli diede addosso, e a calci e pugni lo
costrinse a sputarlo. Prima che potesse raccoglierlo da terra, però, un altro
lo afferrò e fuggì via, con la donna all'inseguimento.
Un altro gruppo abbatté la porta del capanno dove si trovava la
produzione giornaliera di torta verde. La raccolsero nelle camicie, ma non
riuscirono a svignarsela, perché furono raggiunti dall'arpia. Lei sembrava
essersi elevata al di sopra della comune necessità di procurarsi cibo, e si
precipitò contro di loro colpendo alla rinfusa con la sferza e gridando:
«Questo è il veleno di Shaytan! Gettatelo nel fuoco! Gettatelo nelle latrine
dove è il suo posto!» Qualcuno riuscì a fuggire con il bottino, ma la
maggior parte fu costretta dalla vecchia a buttare la sua parte nei fuochi
della cucina o nelle buche per gli escrementi.
«Quella strega ha distrutto ogni cosa. Che disastro!» Rebecca piangeva
sgomenta. «E ora sta distruggendo anche i nostri calderoni. Moriremo tutti
di fame!»
Ryder guardò la vecchia con un senso di impotenza. Conosceva la
pericolosità di quella delirante demagoga, che in qualsiasi momento
avrebbe potuto innescare una nuova esplosione di furia assassina. Tuttavia
la gran parte della folla era sparita e sembrava che la rivolta fosse lì lì per
spegnersi da sé.
Anche se i danni subiti erano considerevoli, Ryder trovò una piccola
consolazione nel fatto che non erano riusciti a portargli via l'avorio, troppo
pesante, e che la maggior parte dei suoi beni di valore era custodita nella
camera blindata del fortino. Non appena l'Intrepid Ibis fosse tornata in
acqua, avrebbe caricato quello che restava e se ne sarebbe andato via a
tutto vapore.
La megera si aggirava ancora nel cortile, fermandosi ogni tanto per
agitare la frusta verso il fortino e lanciare maledizioni e insulti a quelle
facce bianche che la spiavano dalle feritoie. Ryder non si mostrò molto
preoccupato, quando la vide arrestarsi sulla porta dell'officina. Già prima
qualche saccheggiatore era entrato, ma se n'era andato subito: non c'era
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niente da mangiare, niente che avesse un'importanza così evidente da
essere rubato. Tuttavia, la strega restò nell'officina qualche minuto, poi
uscì e chiamò a gran voce il lottatore nubiano. Come un gorilla
addomesticato che risponde al domatore, il gigante attraversò il cortile con
la sua goffa andatura barcollante. La vecchia lo condusse dentro. Il
nubiano riapparve con un carico che per il gran peso gli faceva piegare le
gambe.
«Guardate!» strillò Jock, incredulo. Quel fardello, che il lottatore stava
portando da solo, e che di solito avrebbe richiesto la forza di cinque
uomini normali, era il fumaiolo principale dell'Intrepid Ibis. Lo scozzese ci
aveva lavorato per mesi, e ora era pronto per essere installato sul battello.
La megera urlava contro il fortino: «Credete di sfuggire all'ira del
Mahdi? Credete di poter scappare sulla vostra carretta? Getteremo questo
tubo nel Nilo. Quando il Mahdi arriverà, troverà i vostri cadaveri bianchi e
lebbrosi putrefatti per le strade di Khartum! Neppure gli avvoltoi li
mangeranno!» Guidò il gigante come un bue verso l'uscita.
«Non potrà portarlo da solo fino al fiume!» esclamò Ryder. Ma la
vecchia ordinò a squarciagola ad altri di aiutarlo. Un gruppo accorse subito
in suo aiuto.
«Vi giuro solennemente che non porterà il fumaiolo da nessuna parte!»
schiumò Jock. Imbracciò il Martini-Henry e la detonazione del colpo,
rimbombando nella stanza angusta, per un attimo li assordò. Il fucile
rinculò e l'odore dolciastro della polvere nera punse loro le narici.
Il nubiano aveva raggiunto la porta. Era a meno di sessanta metri dalla
feritoia. Il pesante proiettile di piombo lo colpì appena dietro l'orecchio e
deviò verso il cervello. Esplose fuori dall'orbita oculare destra, in una
nuvola rosa di tessuti organici. Il lottatore crollò sull'argilla riarsa, il corpo
immobilizzato sotto il fumaiolo.
«L'hai ucciso!» esclamò Ryder, che non credeva ai suoi occhi.
«Ho mirato a lui, no?» ribatté Jock bruscamente. «Sicuro che l'ho ucciso,
quel bastardo.» Con il pollice calloso spinse un altro proiettile
nell'otturatore. «E ucciderò chiunque si avvicini al mio fumaiolo!»
Di colpo nel cortile scese un silenzio di tomba. I rivoltosi si erano quasi
dimenticati dei bianchi asserragliati nel fortino. Fissarono intimoriti
l'enorme cadavere seminudo.
La megera era l'unica che continuava a smaniare. Strappò un'ascia dalle
mani dell'uomo più vicino a lei e si avventò sul fumaiolo. Uno dei compiti
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principali di una donna sudanese è tagliare la legna per la propria famiglia:
quando il primo colpo di scure risuonò sul fumaiolo, Jock capì di avere
davanti un'esperta. La vecchia sollevò l'ascia e colpì ancora, esattamente
nello stesso punto. Mirava a una delle saldature fatte dallo scozzese. Lì il
metallo temprato dal calore della fiamma si stava già deformando. Altre
due o tre botte e si sarebbe squarciato. Già riparare i danni fatti finora
avrebbe richiesto un paio di giorni: se non si faceva qualcosa per fermarla,
non ci sarebbe stato più rimedio.
«Adesso la facciamo finita con queste stupidaggini», mormorò Jock.
Ryder lo vide sollevare di nuovo il fucile. «Non sparare!» gli urlò.
«Jock, non le spartirei»
«Troppo tardi», disse Jock, senza il minimo pentimento nella voce. Per
la seconda volta il Martini-Henry tuonò e rinculò nelle sue mani.
Il proiettile colpì la megera in pieno petto, la sollevò da terra e la scagliò
contro il muro. Restò inchiodata lì, la bocca spalancata, l'urlo strozzato in
gola. Poi scivolò lungo la parete lasciando sulla calce una lunga striscia
lucida.
I rivoltosi rimasti guardarono attoniti i cadaveri dei loro due capi. Il
castigo si era abbattuto fulmineo e inaspettato. Quando sarebbe arrivato il
prossimo colpo? E chi sarebbe caduto? Un fremito di paura si propagò e
tutti si precipitarono verso l'uscita.
«Facciamoli scappare, allora!» A Ryder non restava che sfruttare al
massimo l'azione temeraria di Jock. Afferrò in fretta e furia il suo fucile e
sparò sopra le teste dei fuggiaschi. In pochi minuti il cortile si svuotò:
rimasero soltanto la megera e il nubiano.
Ryder aprì con cautela la porta del fortino e disse a Rebecca: «Voi e
Saffron restate qui finché non vi diremo noi di uscire». Con i fucili carichi
e spianati, pronti a sparare all'istante, gli uomini ispezionarono il
complesso per assicurarsi che non nascondesse altri pericoli. Jock corse
subito al fumaiolo e s'inginocchiò per ispezionarlo. Osservò ansiosamente i
segni dell'ascia sul metallo, si tolse il berretto ammaccato e bisunto per
pulire delicatamente la superficie rovinata, infine se lo rimise e valutò i
danni. Trasse un sospiro di sollievo. «Non è troppo malconcio!» Sollevò il
fumaiolo da terra con la stessa facilità del nubiano e lo riportò
amorevolmente in officina.
Ryder si avvicinò ai due cadaveri. La vecchia era seduta con la schiena
contro il muro, gli occhi e la bocca spalancati, l'espressione interrogativa.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Spinta da Ryder con la punta dello stivale, cadde faccia a terra. Il profondo
foro del proiettile tra le scapole avrebbe potuto contenere un pugno chiuso.
Non era necessario esaminare anche il nubiano: la sua testa giaceva in un
lago di sangue e materia cerebrale.
«Non approvo, ma debbo riconoscere che hai una buona mira, Jock»,
borbottò Ryder, e poi ordinò a Bashid: «Gettali nel fiume. Se ne
occuperanno i coccodrilli. Non è il caso di fare rapporto, Gordon Pascià è
molto impegnato, e noi di certo non gli daremo altri grattacapi». Aspettò
che Bashid e i suoi aiutanti arabi trascinassero i corpi fuori dal cortile e
imboccassero la via del canale, quindi tornò al fortino e aprì la porta.
«Potete uscire... è tutto sotto controllo.»
Saffron sfrecciò davanti a lui e corse al serraglio. Il vecchio Alì giaceva
rannicchiato accanto al pilastro d'ingresso. Era stato suo amico. Amava gli
animali come lei, e le aveva insegnato a prendersi cura di loro.
S'inginocchiò davanti al corpo. In tutti quei mesi dall'inizio dell'assedio
aveva conosciuto la morte in molte delle sue forme più orribili: ma adesso,
di fronte al cadavere del suo amico, aveva le vertigini e lo stomaco le si
rivoltava. Gli esagitati gli avevano percosso la testa fino a renderla
irriconoscibile, non più umana.
«Povero Alì», mormorò. «Sei morto per i tuoi animali. Dio ti
ricompenserà.» Gli coprì la faccia con il turbante insanguinato. «Riposa in
pace», gli disse in arabo.
Lo lasciò ed entrò nel serraglio. Si bloccò di nuovo. Lì dentro regnava la
devastazione. Si sentì mancare. Tutte le gabbie erano state forzate e gli
animali erano spariti. Nugoli azzurri di mosche ronzavano sulle
pozzanghere del sangue che si stava seccando e rapprendendo al sole del
deserto. A stento riuscì a farsi coraggio e andò verso le file di gabbie
vuote.
«Lucy! Billy!» gridava; e camminando imitava quella specie di
cinguettio che era il richiamo delle scimmie. «Billy! Billy, tesoro, dove
sei?» Saffron arrivò davanti alla gabbia di Lucy. La porta era stata divelta,
e l'interno era vuoto. Aveva le lacrime agli occhi. Non ricordava
chiaramente il momento della morte di sua madre, ma era convinta di non
aver mai sofferto tanto come adesso.
«Perché l'hanno fatto? Sono stati troppo crudeli!» Sapeva che se si fosse
trattenuta oltre avrebbe cominciato a piangere a dirotto e suo padre non
sarebbe stato fiero di lei. Restava un altro posto da controllare nel
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2005 - Il Trionfo Del Sole
serraglio. Si diresse in fondo al recinto, verso il capanno del mangime.
«Lucy! Billy!» gridava. «Billy, piccolino, dove sei?» Scrutò nel buio.
«Billy!» Riprovò con il cinguettio scimmiesco, e da dietro una balla di
paglia sbucò una figurina scura, che d'un sol balzo le piombò su un fianco
e si arrampicò fino alla spalla, pigolando in risposta.
«Oh, Billy!» mormorò Saffron. «Sei salvo!» Si abbassò fino a terra e
strinse al petto il corpicino peloso. Nonostante tutte le raccomandazioni di
suo padre, si mise a piangere come una fontana.
L'indomani mattina, prima dell'alba, allorché le campane della missione
suonarono la fine del coprifuoco, Ryder sentì in cortile delle voci
femminili, seguite dallo sbattere della porta del capanno della torta verde.
Con l'asciugamano tolse la schiuma dalla lama del rasoio e si dedicò
all'ultima passata, dalla sporgenza del pomo d'Adamo fino alla base della
Mahdibola. Esaminò allo specchio portatile il suo riflesso glabro e fece un
brontolio di rassegnazione. Malgrado il bacio del rasoio, la sua mascella
restava scura. Non a tutti toccavano dei favoriti come quelli del bel
soldatino! Chiuse il rasoio e lo ripose con cura nel fodero di velluto
dell'apposito astuccio di pelle. Lasciò il suo alloggio e uscì in cortile.
Guardando verso l'ingresso del serraglio fu colto da un'ondata di rabbia e
di dolore per l'insensato massacro dei suoi animali. Ancora non aveva
trovato il coraggio di entrare nel recinto. Per fortuna Bashid aveva preso il
corpo di Alì e l'aveva seppellito prima del tramonto, secondo la legge
islamica.
Ora il fedele aiutante, insieme ai suoi uomini, stava sgomberando il
muro dalla catasta di zanne per riportarle nel magazzino. Ryder lo chiamò
in disparte, e si recarono a ispezionare l'ingresso principale. Era rimasta
solo qualche asse carbonizzata. «Dovremo abbandonare il recinto esterno»,
dispose Ryder. «Ci sposteremo all'interno del muro fortificato. Le porte
sono solide e resistenti. Saremo in grado di difenderle.» Lasciò Bashid a
eseguire i suoi ordini.
Nell'ultima mezz'ora aveva sentito dall'officina di Jock il rumore del
martello sull'incudine, ma adesso c'era silenzio. Andò all'officina e infilò il
capo nel vano della porta. Jock McCrump aveva appena acceso il cannello
ossiacetilenico della fiamma ossidrica e si stava mettendo gli occhiali
protettivi dai vetri affumicati. Alzò la testa verso Ryder. «Quella vecchia
strega maneggiava l'ascia come un boscaiolo, e ci dava dentro come John
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2005 - Il Trionfo Del Sole
L. Sullivan in persona! Ci vorranno due o tre giorni per ripararlo. E adesso,
via di qui.» Si chinò sul fumaiolo danneggiato e puntò la fiamma sul taglio
del metallo.
«Oggi siamo di un canchero d'umore, eh?»
«Non c'è niente da ridere. Dovevate lasciarmi sparare prima che quella
baldracca combinasse 'sto disastro.»
Ryder ridacchiò. Erano insieme da molto tempo, e l'uno conosceva le
manie dell'altro. Lasciò Jock proseguire nel suo lavoro e andò al capanno.
Vi trovò Nazira e le tre sorelle Benbrook. Indossavano il grembiule e i
guanti da lavoro che si erano confezionate, e stavano cercando di rimettere
in ordine la cucina devastata.
«Buon giorno, Ryder!» gli sorrise Rebecca. L'uomo restò colpito dal
saluto affettuoso e dal fatto che lo chiamasse ancora per nome.
«Buon giorno, signorina Benbrook!»
«Sarei molto lieta se d'ora in poi mi chiamaste per nome. Dopo il
coraggio con cui avete difeso me e mia sorella, non abbiamo più bisogno
di cerimonie.»
«Ho compiuto solo il mio dovere.»
«Mi ha fatto piacere soprattutto vedere come vi siete limitato nell'uso
della forza. Un uomo meno saggio avrebbe trasformato la rivolta in un
massacro. Avete l'umanità di capire che quella povera gente è trascinata
agli eccessi dalle tremende angustie in cui versa. Nondimeno, voglio
esprimervi tutto il mio cordoglio per le dolorose perdite che avete subito.»
Saffron aveva ascoltato con impazienza la sorella maggiore. Non le
piaceva quella rinnovata simpatia tra Rebecca e Ryder. Lei mi ha detto di
disprezzarlo, ma ora sta tubando con lui come una colombella, pensò.
«Avreste dovuto ucciderli tutti, non solo due!» rimbeccò acida la
ragazzina. «Così Lucy si sarebbe salvata.»
«Almeno Billy non sembra messo male.» L'espressione arcigna di
Saffron si addolcì e Ryder ne approfittò subito. «Come lo nutrirai? Non è
ancora svezzato», le chiese con premura.
«Nazira ha trovato una donna che ha perso il suo neonato per il colera.
La paghiamo per allattare Billy e lui le succhia il latte come un
porcellino!» fu la risposta di Saffron.
Rebecca arrossì. «Sono sicura che Ryder non ha intenzione di ascoltare
tutti questi sgradevoli dettagli», rimbrottò freddamente la sorella minore.
«Se fosse così, non mi avrebbe fatto la domanda», obiettò Saffron con
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molta logica. «A ogni modo, Becky, tutti quanti sanno cosa mangiano i
neonati, non è il caso di diventare rosse...»
Ryder si guardò intorno per cercare una via di fuga e la trovò subito.
«Buon giorno, Amber! Ieri ti sei persa una giornata emozionante!»
Ma Saffron non voleva assolutamente rinunciare alle attenzioni di Ryder
per concederle all'altra sorella. «Non farci caso», intervenne. «Da quando
il capitano Ballantyne se n'è andato, è diventata scontrosa.» Prima che
Amber potesse replicare, proseguì noncurante: «Tutte le donne sudanesi
sono fuggite e non torneranno più a lavorare qui. Qualche farabutto in città
le ha minacciate, dicendo loro che preparare la ricotta è opera del
demonio...»
Ryder guardò Rebecca sconcertato. «È vero?»
«Temo di sì. Erano troppo spaventate per venircelo a raccontare, ma
una, correndo un serio rischio, è andata da Nazira e le ha riferito che i
simpatizzanti dei dervisci hanno scoperto l'importanza della ricotta
vegetale per la nostra sopravvivenza, e ora stanno cercando in tutti i modi
di ostacolarci. La vecchia e il lottatore nubiano che hanno guidato la
rivolta erano due mahdisti.»
Ryder annuì. «Questo spiega molte cose... Ma ora che pensate di fare?»
«Proseguiremo da sole», rispose laconicamente Rebecca.
«Voi tre?»
«Quattro, con Nazira. Lei non ha paura. Noi Benbrook non ci
arrendiamo facilmente! Abbiamo trovato due calderoni intatti e la nostra
prima partita di torta verde sarà pronta per stasera!»
«Tritare le piante è molto faticoso», osservò Ryder.
«In tal caso è meglio che ci lasciate proseguire!» replicò Rebecca. «Ora,
perché non andate ad aiutare il signor McCrump?»
«Un uomo sa quando non è desiderato in cucina!» Ryder si sfiorò la
falda del cappello e si affrettò a ritornare da Jock.
Poco dopo mezzogiorno quest'ultimo si alzò gli occhialoni da saldatore
sulla testa e, per la prima volta nella giornata, sorrise. «Bene, capitano,
questo è il massimo che ho potuto fare. Speriamo che resista alla pressione
senza sbuffare e inondarci di nuovo di vapore. Ora possiamo solo pregare
l'Onnipotente.»
Caricarono l'albero motore e il fumaiolo su un carretto e li coprirono con
un telone, per nasconderli alla vista degli informatori dei dervisci durante
il trasporto per le vie della città. Gli animali da tiro erano spariti, morti di
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2005 - Il Trionfo Del Sole
fame o divorati dagli abitanti. Ryder si mise alla stanga del carretto con
Jock, Bashid e gli arabi, e insieme lo spinsero al pontile, dove era
ormeggiata l'Intrepid Ibis. Lavorarono in sala macchine per tutta la sera,
alla luce delle lanterne. Quando anche Jock cedette stremato, si stesero
sulle piastre d'acciaio del ponte e dormirono qualche ora.
Si svegliarono che era l'alba. Poiché la sporta del cibo era quasi vuota,
Ryder ordinò a Bashid di distribuire per colazione piccole porzioni di
datteri e pesce affumicato. Poi tornarono al lavoro in sala macchine. A
metà mattina giunsero al porto Saffron e Amber, con due piccoli panetti di
torta verde appena fatta nascosti nella scatola dei colori di Saffron.
«L'abbiamo messa qui dentro perché vogliamo che nessuno sappia cosa
stiamo facendo. Questa è la nostra prima infornata!» annunciò Saffron
orgogliosa. Alzò le mani. «Guarda!» Amber seguì il suo esempio.
Ryder vide che le loro palme erano coperte di vesciche. «Oh, le mie due
eroine!» esclamò.
C'erano solo pochi bocconi a testa, ma bastarono a ritemprare le ormai
scarse energie degli uomini. Saffron e Amber si sedettero con Ryder sul
bordo del ponte, le gambe penzoloni, e lo guardarono mangiare. Lui
rimase colpito dalla soddisfazione femminile che mostravano, alla loro
verdissima età, nel dar da mangiare a un uomo. Osservavano ogni boccone
entrargli tra le fauci proprio come faceva sua madre tanti anni prima.
«Mi dispiace, ma è tutto qua...» disse Saffron, quando Ryder finì.
«Domani ne faremo di più.»
«Era squisita», replicò lui. «La migliore che ho mangiato sinora!»
Saffron sembrava compiaciuta. Raccolse le ginocchia sotto il mento, e si
strinse al petto le gambe lunghe e magre. «Che disgusto se penso a tutti
quegli orribili dervisci, laggiù, che mangiano a quattro palmenti...» Si alzò
con riluttanza, e si spazzolò la gonna. «Andiamo, Amber! Dobbiamo
tornare, o Becky ci sgriderà.»
Molto tempo dopo che le gemelle se n'erano andate e gli uomini avevano
ricominciato a lavorare per inserire il lungo albero motore nei supporti
all'interno della sala macchine, Ryder prese a considerare quella frase
buttata là da Saffron.
A metà pomeriggio Jock annunciò di nutrire un cauto ottimismo sulla
possibilità che questa volta il motore funzionasse come Dio e i suoi
costruttori avevano previsto. Insieme all'equipaggio accese la caldaia, e
mentre tutti aspettavano che la pressione del vapore aumentasse, Ryder
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divise uno dei suoi ultimi sigari con lo scozzese. Si appoggiarono alla
battagliola della plancia, stanchi e pensosi.
Ryder trasse una lunga e profonda boccata dal sigaro e lo passò a Jock.
«Il Mahdi ha centomila soldati accampati di là dal fiume. Dimmi, Jock...
come pensi che li sfami?»
Lo scozzese trattenne il fumo nei polmoni fino a diventare paonazzo.
Alla fine lo espulse di botto. «Dunque... per prima cosa hanno razziato
migliaia di capi di bestiame, poi credo che prendano della dhurra a valle,
dall'Abissinia.»
«Con i dau?»
«Certo, e con che altro?»
«Di notte?» insistette Ryder.
«Chiaro. Con la luna si vedono le vele. C'è molto traffico sul fiume, di
notte.»
«Jock McCrump, voglio che questa bagnarola vada a pieno regime per
domani sera, al più tardi! E se è possibile anche prima!»
Jock lo fissò di sbieco e sorrise. I denti erano irregolari e seghettati come
quelli di un vecchio squalo tigre. «Se non vi conoscessi così bene,
capitano, direi che state tramando qualcosa...»
Nel cielo del deserto non c'era uno straccio di nube a fornire una tela su
cui il sole al tramonto potesse dipingere la sua discesa. Il grosso disco
rosso calò sotto l'orizzonte come una pietra e quasi subito, sulle distese
stordite dalla calura, sopraggiunse la notte. Ryder attese che la sponda
opposta del fiume scomparisse nelle tenebre, quindi ordinò a Bashid di
mollare gli ormeggi.
Tramite il telegrafo di macchina comunicò un «avanti lentissimo», e fece
scivolare l'Intrepid Ibis fuori dell'imboccatura del porto, nella corrente
principale del fiume. Appena sentì la forza delle acque, orientò la prua e
comandò a Jock di sotto di procedere a medio regime. Aumentarono la
velocità contro il flusso della corrente e Ryder tese ansiosamente l'orecchio
allo scoppiettio del motore. Sentì lo scafo oscillare sotto i suoi piedi, ma
non erano vibrazioni violente. Mantenne la nave a quella velocità, finché
non ebbero superato la prima ansa del Nilo Azzurro e davanti a loro si aprì
un lungo tratto di acque tranquille.
Respirò a fondo e poi lanciò un «avanti a tre quarti». L'Ibis rispose con
una foga degna di un torero che incede nell'arena. Ryder si lasciò andare a
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un lungo sospiro di sollievo. «Tieni il timone, Bashid... vado
sottocoperta.»
Percorse il corridoio d'accesso alla sala macchine. Jock stava
illuminando l'albero motore con la lanterna, e Ryder gli si avvicinò. Lo
osservarono girare nei suoi nuovi supporti, poi Jock abbassò la lampada e
presero a esaminare con cura la struttura della colonna argentea, alla
ricerca delle minime vibrazioni, o del tremolio dovuto a una deformazione.
L'albero, come un giroscopio, ruotava così regolarmente da sembrare
fermo.
Jock sollevò la testa. «Sentite questo suono, capitano?» Alzò la voce al
di sopra dello stantuffo assordante dei cilindri. «Più dolce di Lily
McTavish!»
«E chi è costei?»
«L'ostessa del Bull & Bush.»
Ryder scoppiò in una fragorosa risata. «Ah, Jock, non ti facevo un fine
intenditore d'opera!»
«Non posso certo dire di saperne molto, capitano, ma so riconoscere un
bel paio di tette!»
«Posso portare l'Ibis a tutta?»
«Credo non abbia paura di niente! Proprio come Lily McTavish!»
«Mi piacerebbe conoscere questa Lily...»
«Allora, capitano, dovrete mettervi in coda dietro di me!»
Continuando a ridere, Ryder tornò sulla plancia e riprese il timone.
Quando comunicò per telegrafo «avanti tutta», l'Ibis accelerò sfidando la
corrente.
«Dodici nodi!» esclamò Ryder con entusiasmo. Sentì un gran peso
sollevarglisi dalle spalle: non era più prigioniero della pestilenziale città di
Khartum. Ancora una volta era tornato padrone di tutte le tremila miglia
del Nilo, la sua strada maestra verso libertà e ricchezza.
Tirò indietro la leva del telegrafo di macchina su «avanti a mezza» e
proseguì lungo il fiume. Prima di raggiungere l'ansa successiva, aveva già
contato cinque punte di vele: erano tutti dau mercantili stracarichi,
provenienti dalle alture abissine e diretti a Omdurman. Virò per rimettersi
in fretta nel senso della corrente. Poi, dal tubo, gridò in sala macchine:
«Jock, vieni su...
ti devo parlare».
I due uomini si appoggiarono alla battagliola della plancia. «Dopo
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quello che è successo ieri al nostro quartiere, non posso più rischiare.
L'umore popolare è pessimo... anzi, pericoloso. La città pullula di agenti e
simpatizzanti del Mahdi. Domattina sapranno che l'Ibis è ancora
funzionante. Ci dobbiamo aspettare un tentativo di sabotaggio. D'ora in
avanti, monteremo di guardia armata a bordo ventiquattr'ore su
ventiquattro.»
«Io lo sto già facendo, a modo mio», replicò Jock. «Ho spostato il letto e
la coperta a bordo, e dormo con la pistola sotto il materasso. I miei
fuochisti faranno turni di guardia.»
«Eccellente, Jock. Ma a parte questo, appena ci sarà un po' più di luce,
voglio che porti l'Ibis nel canale e la ormeggi al molo dietro il nostro
quartiere. Là sarà molto più al sicuro, e sarà più facile da caricare.»
«Pensate al vostro avorio?»
«E a che altro?» Ryder sorrise. «Ma voglio anche essere in condizione di
fuggire, se la situazione precipitasse. Dunque aspetterò te e l'Ibis nel
canale alle prime luci.»
«Che cos'è tutto questo baccano?» Ryder era stato svegliato
dall'energico bussare di Bashid alla porta del fortino.
«C'è un ufficiale egiziano con un messaggio di Gordon Pascià.»
Ryder ebbe un sussulto: le notizie di Gordon il Cinese non erano mai
buone. Prese i pantaloni e gli stivali e li indossò.
L'egiziano aveva due occhi neri e il labbro inferiore tumefatto e coperto
di croste.
«Che cosa è vi successo, capitano?» chiese Ryder.
«Quando il generale ha ridotto le razioni di cibo, è scoppiata una rivolta
all'arsenale. Mi hanno colpito in faccia con una pietra.»
«Ho sentito che i vostri uomini hanno fucilato venti rivoltosi.»
«Non è esatto!» si accalorò il soldato. «Per ripristinare l'ordine il
generale ne ha dovuti far fucilare solo dodici!»
«Quale moderazione...» mormorò Ryder.
«Anche voi avete avuto dei problemi con i rivoltosi, e avete sparato, se
non erro», osservò il capitano.
«Sì, ma ne ho uccisi due, e prima avevano trucidato uno dei miei
uomini.» Ryder si sentì sollevato per la conferma della sparatoria
all'arsenale: Gordon non avrebbe più potuto puntare l'indice accusatore
contro di lui. «Mi dicono che avete un messaggio per me da parte di
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Gordon Pascià.»
«Il generale desidera vedervi a forte Mukran appena possibile. Vi
scorterò io. Vi prego di prepararvi a partire subito.»
Ecco lo scolaro chiamato nell'ufficio del preside, pensò sarcasticamente
Ryder. Prese il cappello dal piolo nel muro. «Molto bene, sono pronto!»
Dietro il telescopio, nella sua consueta postazione sugli spalti del forte,
Gordon stava scrutando a valle in direzione della gola di Shabluka. Due
bandiere dai colori vivaci sventolavano sull'asta della torre di guardia:
quella rossa, bianca e nera dell'Egitto, sormontata da quella rossa, bianca e
blu del Regno Unito.
Gordon si drizzò e vide la faccia di Ryder volta verso l'alto. «Quando le
truppe di soccorso risaliranno il fiume, la prima cosa che vedranno saranno
queste bandiere. Così sapranno che la città è ancora nelle nostre mani e che
abbiamo resistito alle forze del male e delle tenebre.»
«E tutti sapranno, signor generale, di cosa è stato capace un inglese solo
e in pratica senza aiuti. Sarà una pagina memoranda negli annali
dell'impero.» Ryder avrebbe voluto fare dell'ironia, ma suo malgrado si
trovò a dire sul serio. Doveva riconoscere, per quanto a malincuore, di
ammirare quell'odioso piccoletto. Non avrebbe mai provato il minimo
affetto per lui, eppure si sentiva in soggezione.
Gordon, in segno di gratitudine per il complimento a denti stretti di un
avversario, si limitò ad alzare il sopracciglio grigio sotto cui brillava un
freddo occhio d'acciaio. «Ho saputo che ieri notte avete provato il vostro
battello, e con successo», dichiarò laconicamente.
Ryder annuì con circospezione. Al vecchio demonio non sfugge nulla,
pensò. Si ritrovò a detestare quell'uomo più che mai.
«Spero che ciò non significhi che state progettando una fuga prima
dell'arrivo dei rinforzi!»
«Ci avevo pensato...»
«Signor Courteney, nonostante il vostro spirito mercenario, voi avete
dato, forse involontariamente, un importante contributo alla difesa della
città. La produzione delle vostre disgustevoli quanto nutrienti torte verdi è
stata di grande aiuto. Ora, avete a disposizione altre risorse che possono
salvare delle vite.» Gordon lo fissò.
Ryder guardò a sua volta in quegli occhi di zaffiro e rispose: «Signor
generale, credo di aver fatto tutto quello che potevo. Comunque ho il
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presentimento che cercherete di farmi cambiare idea...»
«Ho bisogno che restiate in città. Non vorrei essere costretto a
sequestrare il vostro vapore, ma non esiterò a farlo, se mi provocherete.»
«Ah!» esclamò Ryder. «Che argomento convincente! Posso proporre un
compromesso, signor generale?»
«Sono un uomo ragionevole.» Gordon piegò la testa. «Sempre pronto a
dare ascolto al buon senso altrui.»
Su questo non tutti sono d'accordo, pensò Ryder, ma rispose
pacatamente: «Se vi proporrò un buon affare, mi permetterete di salpare da
Khartum quando vorrò, con il carico e i passeggeri che avrò scelto, e senza
restrizioni?»
«Oh, ma certo! Mi dicono che siete diventato amico delle figlie di David
Benbrook.» Gordon sorrise senza alcun calore. «E che avete nei magazzini
molte tonnellate di avorio. Saranno quelle le vostre passeggere, e questo il
vostro carico, dico bene?»
«David Benbrook e le tre ragazze saranno tra coloro che inviterò a
partire con me. Sono sicuro che tutto ciò non contrasta con il vostro senso
cavalleresco.»
«Cosa mi offrite come controparte?»
«Un minimo di dieci tonnellate di dhurra, sufficienti a sfamare la
popolazione fino all'arrivo dei rinforzi e a prevenire qualsiasi altra rivolta.
Me la pagherete dodici scellini al sacco, in contanti.»
La faccia di Gordon si adombrò. «Ho sempre sospettato che possedeste
una riserva nascosta di grano.»
«E invece non la possiedo! Ma rischierò la mia vita e la mia nave per
averla. In cambio voglio la vostra parola d'onore di gentiluomo e di
ufficiale della regina che alla consegna delle dieci tonnellate mi pagherete
il prezzo pattuito e mi lascerete salpare da Khartum. Vi faccio notare che è
un affare vantaggioso, e non avete proprio nulla da perdere.»
Ryder aveva steso un telone nero sulla sovrastruttura bianca dell'Ibis e
aveva ricoperto lo scafo, sopra la linea di galleggiamento, con fango scuro
di fiume. Utilizzando lunghi pali di bambù, spinsero il piroscafo lungo le
acque basse del canale fino al Nilo. Così mimetizzato, si confondeva tanto
bene con il buio che anche alla luce delle stelle risultava invisibile a una
distanza superiore ai cento metri. Quando esso prese la corrente e i lunghi
pali non toccarono più il fondo, Ryder ordinò a Jock in sala macchine di
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procedere a mezza. Virò controcorrente e puntò a est, lungo il Nilo
Azzurro. Evitò di proposito il braccio principale del Nilo Bianco, poiché le
batterie di artiglieria derviscia erano concentrate sugli accessi
settentrionali. Era evidente che si aspettavano l'arrivo delle cannoniere
inglesi da quella parte. Tuttavia, disponendosi così, avevano lasciato
scoperti gli altri bracci a est e a sud, e prima che si accorgessero dell'errore
l'Intrepid Ibis avrebbe avuto migliaia di miglia di fiume aperto davanti a
sé.
Tutti i dau che scendevano il Nilo Azzurro dovevano essere abissini. Al
pari di Ryder, si trattava di commercianti onesti e laboriosi, che vendevano
il grano al migliore offerente. Naturalmente il punto dolente era che il loro
principale cliente era il Mahdi.
Ryder diresse l'Ibis mimetizzata attraverso il fiume. Per ovvie ragioni, i
capitani dei dau si tenevano vicini alla riva opposta a Khartum. Ryder e
Bashid guardavano avanti, cercando di riconoscere il primo baleno della
tela o il riflesso delle stelle su una vela latina tessuta con la fibra delle
canne. I polmoni di Ryder reclamavano un buon sigaro, ma la riserva stava
terminando. L'astinenza rende il cuore più vulnerabile, pensò con tristezza.
Potrei finire a fumare tabacco nero turco in un narghilè. Come siamo
caduti in basso!
Bashid gli batté su un braccio. «Ecco il primo pesciolino che scivola
nella nostra rete», sussurrò.
Ryder vide un battello materializzarsi sulle acque buie e borbottò con
tono di rammarico: «Piccolo peschereccio. Procede alto sull'acqua. Niente
carico a bordo. Lasciamolo andare». Girò il timone e cambiò rotta.
Dalla piccola imbarcazione giunse una voce tenue: «In nome di Dio, chi
siete?»
Bashid rispose: «Andate in pace, che Allah vi benedica!» Proseguirono.
Appena raggiunta la prima grande ansa del fiume, due miglia a nord della
città, quasi per magia, un altro scafo sbucò dalla notte. Si stavano
avvicinando così rapidamente che Ryder ebbe solo pochi secondi per
decidere. Era un dau grosso e capace, molto basso nell'acqua. Aveva solo
trenta centimetri di bordo libero. L'onda di poppa spumeggiava alla luce
delle stelle, quasi riversandosi sopra la murata.
«Questo è carico», dichiarò Ryder, con pacata soddisfazione. «Questo è
dei nostri.» Puntò deciso verso il bersaglio, e mentre si avvicinavano si udì
il grido di allarme dell'uomo al timone. Quando lo scafo d'acciaio urtò con
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decisione la fiancata in legno del dau, dall'Ibis vennero sparati tre pesanti
rampini che colpirono rumorosamente il ponte con le estremità appuntite
agganciandosi dietro le murate, e incatenando insieme le due imbarcazioni.
Dando vapore e virando con decisione a sinistra, Ryder costrinse la prua
del dau a ruotare, privando la nave del vento sulla vela e facendola
sbandare. La ciurma sciamò alla battagliola.
Prima di capire quello che stava succedendo i marinai del dau si
ritrovarono in condizione di non nuocere. Ryder balzò sul ponte proprio
mentre il capitano usciva dalla cabina di poppa. Lo riconobbe subito. «Ras
Hailu!» esclamò; quindi lo salutò in amarico: «Vedo che stai bene».
L'abissino lo fissò con stupore, poi lo riconobbe a sua volta. «alSakhawi! Sei diventato un pirata!»
«No, no... ma tu sì che hai trattato con un pirata. Ho sentito che il Mahdi
ti sta ingannando sul prezzo della tua dhurra.» Lo prese per un braccio.
«Su, vieni a bordo del mio battello. Berremo un caffè insieme e parleremo
d'affari...»
Jock mantenne le due imbarcazioni al centro della corrente mentre i due
si accomodavano nella cabina dell'Ibis. Dopo un adeguato scambio di
complimenti, Ryder affrontò di petto la questione: «Com'è che tu, devoto
cristiano e principe della casata di Menelik, ti abbassi a trattare con un
fanatico che sta combattendo una jihad contro la tua Chiesa e i tuoi
compatrioti?»
«Mi vergogno profondamente», confessò Ras Hailu, «ma, cristiano o
musulmano, il denaro è sempre il denaro e i profitti son sempre i profitti.»
«Quanto ti paga il perfido Mahdi?»
Ras Hailu sembrava contrariato, ma i suoi occhi ebbero un lampo di
astuzia alla luce della lampada. «Otto scellini al sacco, consegna a
Omdurman.»
«Da cristiano a cristiano, e da amico ad amico, che prezzo mi faresti se ti
pagassi in talleri d'argento?»
Entrambi adoravano contrattare, perché ce l'avevano nel sangue, ma il
tempo era troppo poco per goderne appieno. Mancavano poche ore all'alba.
Raggiunsero un accordo per nove scellini, che soddisfece tutti e due. Jock
rimorchiò il dau fuori dalla corrente principale in una zona tranquilla, nota
come la laguna del Pesciolino. Protetti dai papiri, tutti gli uomini furono
occupati a trasbordare il carico di dhurra nel battello a vapore.
Impiegarono una giornata intera, perché il dau era pieno zeppo.
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Scesa la notte, Ryder e Ras Hailu si abbracciarono calorosamente e si
congedarono. Il dau, sfruttando la brezza serale, si avviò per il Nilo
Azzurro verso il confine abissino. Ryder condusse l'Ibis a valle verso
Khartum; la nave era tanto carica che dovettero rimorchiarla dalla sponda
del canale fino al suo ormeggio sul retro del quartiere di Courteney.
Finito il coprifuoco, Ryder mandò Bashid con un messaggio dal
generale Gordon. Un'ora dopo il generale era sulla banchina del canale.
Scortato da un centinaio di soldati egiziani, dispose subito una catena di
uomini per scaricare la dhurra. Il lavoro procedette alacremente, con
Ryder a fianco che contava ogni sacco e prendeva appunti sul suo libretto
rosso. «Secondo i miei calcoli, signor generale, è molto più
dell'ammontare previsto...» Scorse la colonna di numeri con la rapidità di
un contabile. «Anche concedendo un dieci per cento di sottopeso, siamo
sempre più intorno a dodici tonnellate che a dieci.»
Il generale scoppiò a ridere: un fatto insolito, giacché Gordon il Cinese
non era fatto per le frivolezze. «Oh, quindi mi state suggerendo di
restituire l'eccedenza al Mahdi, dico bene, signor Courteney?»
«No, signore. Vi faccio solo presente che il sovrappiù va pagato.»
Gordon smise di ridere. «Ci sarà un limite alla vostra avidità!»
«Bene, ho dato a Cesare...» Gordon aggrottò la fronte davanti alla
citazione biblica, ma Ryder proseguì imperturbabile, «e ora gradirei
prendere una tonnellata di dhurra per le mie necessità. La mia residenza è
stata saccheggiata dai rivoltosi e i miei uomini rischiano di morire di fame,
come il resto della cittadinanza. Ho il dovere di provvedere a loro, se li
considero la mia famiglia. E questo non conta come avidità, a casa mia.»
Contrattarono a lungo, ma alla fine Gordon alzò le mani. «Va bene.
Prendete duecento sacchi per voi e ringraziate la mia munificenza. Potete
salire al forte a prendere i vostri trenta denari di Giuda...» E se ne andò
verso l'arsenale, calcando i passi. Voleva vedere il suo prezioso grano al
sicuro dietro le mura, ma c'era un altro motivo per la sua brusca partenza:
non voleva che Ryder Courteney cogliesse in lui una qualche simpatia o
un'ombra di sorriso negli occhi. Che peccato rinunciare a una giovane
canaglia come questa, pensò; l'avremmo preso volentieri nell'esercito,
sarebbe diventato un eccellente ufficiale, ma ormai è troppo tardi, le
lusinghe di Mammona l'hanno rovinato.
Quel filo di pensieri lo condusse a pensare a un altro giovane non
dissimile: raggiunto l'ingresso dell'arsenale, si fermò e guardò a nord.
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Ballantyne era partito già da quindici giorni. Certamente deve aver
raggiunto l'accampamento di Stewart alle sorgenti di Gakdul e avergli
portato il mio messaggio, pensò Gordon. Sento che Dio non permetterà
che tutti i miei sforzi siano vani. Mio Signore, concedimi la forza di
resistere ancora un po'.
Ma era sfinito, fino al midollo delle ossa.
Da cinque giorni avanzavano in quell'affollata carovana di uomini e
animali che procedeva lentamente nel deserto verso nord. Penrod
Ballantyne si girò sulla sella del cammello per guardare indietro. La
polvere sollevata da quella moltitudine in marcia giungeva all'orizzonte e
saliva fino al cielo.
Provò a fare un'ipotesi: cinquantamila guerrieri? Non lo sapremo mai,
pensò, nessuno può contarli. Ecco gli emiri di tutte le tribù meridionali
insieme ai loro guerrieri; questo Mohamed Ahmed deve esercitare un
enorme potere per riuscire a radunare una massa di tali dimensioni,
formata da tribù che per cinquecento anni si sono combattute con faide e
vendette di sangue.
Poi tornò a guardare davanti a sé, a nord, la direzione cui puntava tutta
l'immensa schiera. Stewart ha solo duemila uomini da opporgli, rifletteva:
e quando mai, nella storia delle umane battaglie, una parte così inferiore di
numero ha prevalso?
Accantonò quel pensiero e cercò di capire a che distanza si trovassero lui
e Yakub dall'avanguardia della formidabile cavalcata. Senza dare
nell'occhio, avrebbero dovuto avanzare pian piano verso le prime file. Solo
giunti a quel punto avrebbero potuto staccarsi e compiere lo scatto finale
fino a Gakdul. I dervisci tenevano i loro cammelli al passo per evitare che
arrivassero stremati allo scontro finale. Il fatto che avanzassero così
lentamente, senza precipitarsi a battaglia, rassicurò Penrod sul fatto che
Stewart fosse ancora accampato laggiù.
Attraversarono lentamente un'altra formazione sfrangiata di dervisci.
Erano uomini delle tribù del deserto, uomini duri, con le spade e gli scudi
appesi alla schiena. La maggior parte era montata su cammelli, e ognuno
guidava una fila di cammelli da soma legati l'uno all'altro, carichi di tende,
casse di munizioni, pentole, provviste di cibo e ghirbe piene d'acqua.
Dietro di loro venivano i mercanti e i piccoli trafficanti di Omdurman, con
i cammelli a loro volta carichi di prodotti e mercanzie. Dopo la battaglia,
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con gli Ansar impegnati nel saccheggio, avrebbero combinato ottimi affari.
Alla testa del manipolo cavalcava un piccolo gruppo di Ansar su
eleganti destrieri arabi, strigliati così a puntino che la pelle brillava alla
luce del sole come metallo polito. Le lunghe, seriche criniere fluivano
sciolte, adorne di nastri colorati. Le bardature e i finimenti erano in cuoio
dipinto e decorato. I cavalieri sedevano in groppa con l'altezzosa, studiata
arroganza dei guerrieri.
«Aggagir!» mormorò Yakub, quando fu loro vicino. «Gli uccisori di
elefanti.»
Penrod si mise il lembo del turbante sulla bocca e sul naso, lasciando
scoperti solo gli occhi, e si portò con il cammello a una distanza di
sicurezza per superare il gruppo. Quando si affiancarono, videro i cavalieri
scrutarli con attenzione: stavano discutendo animatamente sui due estranei.
«Maledetto Ryder Courteney con il suo gusto per la carne di cammello!»
Per la prima volta da quando avevano lasciato Khartum, Penrod si lamentò
della qualità dei loro animali. Si trattava di magnifiche bestie, più adatte a
un califfo o a un ricco emiro che a un membro qualsiasi di una tribù.
Anche in una schiera così affollata, le loro caratteristiche di animali di
razza non passavano inosservate. Quando Yakub incitò il suo cammello ad
aumentare l'andatura, Penrod lo rimproverò duramente: «Mio buon Yakub,
non fare il temerario. Abbiamo i loro occhi addosso. Quando i topi
corrono, il gatto li insegue».
Yakub frenò l'animale e proseguirono a un passo più calmo: ma non
bastò. Due aggagir si staccarono dal gruppo e andarono loro incontro.
«Sono della tribù dei Beja», disse Yakub con la voce roca, «e non
promettono nulla di buono...»
«Astuto e disinvolto Yakub, ora sta a te ingannarli con la tua lingua
svelta.»
Sopraggiunse l'aggagir più autorevole, frenando la sua cavalla baia fino
a procedere al passo. «Stranieri, che la benedizione di Allah e del suo
vittorioso Mahdi scendano su di voi. A quale tribù appartenete, e chi è il
vostro emiro?»
«Che Allah e il Mahdi, la grazia scenda su di lui, ti possano sempre
sorridere», rispose Yakub, con voce calma e chiara. «Io sono Hogal alKadir dei Jaalin e cavalchiamo sotto la bandiera dell'emiro al-Salida.»
«Io sono al-Noor della tribù dei Beja, e il mio comandante è il famoso
emiro Osman Atalan, sul quale scendano tutte le benedizioni di Allah.»
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«È un uomo potente, amato da Allah e dal sempre vittorioso Mahdi, che
possa vivere a lungo e felicemente.» Penrod si toccò il cuore e la fronte.
«Io sono Suleimani Iffara, persiano di Gedda.» Alcuni persiani avevano i
capelli biondi e gli occhi chiari, e Penrod aveva scelto quella nazionalità
per spiegare le sue fattezze. Ciò avrebbe anche giustificato le lievi
sfumature e inflessioni forestiere della sua parlata.
«Hai fatto un lungo viaggio da Gedda, Suleimani Iffara.» Al-Noor si
avvicinò e lo fissò con attenzione.
«Il Divino Mahdi ha dichiarato la jihad contro i turchi e i franchi»,
replicò Penrod. «Tutti i veri fedeli debbono ascoltare i suoi ordini e
affrettarsi a unirsi a lui: non importa quanto duro o lungo sia il viaggio.»
«Siete i benvenuti nella nostra schiera, ma se marciate sotto il vessillo
dell'emiro al-Salida dovete cavalcare più in fretta per raggiungerlo.»
«Ci preoccupiamo per i cammelli», spiegò Yakub. «Ma seguiremo il tuo
consiglio e accelereremo il passo.»
«Sono degli animali splendidi», osservò al-Noor, senza smettere di
fissare Penrod, invece del suo cammello. Poteva vedergli solo gli occhi,
che gli sembravano straordinariamente familiari, simili a quelli di un jinn.
Ma ordinargli di scoprire il volto sarebbe stata un'offesa imperdonabile. «Il
mio padrone Osman Atalan mi ha mandato per sapere se desiderate
venderne uno. Vi farebbe un buon prezzo, in monete d'oro.»
«Ho il massimo rispetto per il vostro potente padrone», replicò Penrod,
«ma preferirei vendere il mio primogenito.»
«L'ho già detto e lo ribadisco ora: sono animali splendidi. La tua risposta
rattristerà il mio padrone.» Al-Noor alzò le redini per tornare indietro, poi
si fermò. «C'è un che di familiare in te, Suleimani Iffara... nei tuoi occhi o
nella tua voce. Ci siamo già incontrati?»
Penrod scrollò le spalle. «Forse nella moschea di Omdurman?»
«Forse...» ripeté al-Noor in tono dubbioso, «ma se ti ho già visto, ti
rammenterò. Ho una buona memoria.»
«Andiamo avanti, a cercare il nostro comandante!» intervenne Yakub.
«Possano i figli dell'Islam trionfare nella battaglia che li attende!»
Al-Noor si voltò verso di lui. «Prego che le tue parole arrivino alle
orecchie di Dio. La vittoria è dolce, ma la morte è il compimento della
vita, è la chiave per il paradiso! Se la vittoria ci sarà negata, possa Allah
garantirci un glorioso martirio!» Si toccò il cuore in segno di saluto.
«Andate, con la benedizione di Allah!» E galoppò via per raggiungere i
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suoi uomini.
«L'emiro Atalan...» sussurrò Yakub, con timore. «Cavalchiamo nella
stessa masnada del tuo mortale nemico. È come avere un cobra in seno.»
«Però al-Noor ci ha dato il permesso di staccarci da loro», gli ricordò
Penrod. «Affrettiamoci a obbedire.»
Spronarono i cammelli con il pungolo e li lanciarono al trotto.
Mentre si allontanava, Penrod si voltò verso il gruppo sempre più
distante di aggagir. Ora che sapeva dove guardare, riconobbe la figura
elegante di Osman Atalan, in una jibba biancastra con toppe a colori vivaci
che attiravano gli occhi come fossero gemme. Cavalcava alcune lunghezze
davanti ai suoi uomini, su una giumenta chiara. Stava fissando Penrod, e
anche a quella distanza il suo sguardo era inquietante.
Al-Noor, dietro il suo capo, tolse il fucile dalla custodia sotto il
ginocchio e lo puntò verso il cielo. Penrod intravide la nuvola di fumo
azzurra pochi secondi prima che la detonazione gli giungesse all'orecchio.
Allora prese il suo fucile e contraccambiò il feu de jote. Poi proseguì con
Yakub.
Quel giorno non mancarono di attirare l'attenzione più volte. La bellezza
dei cammelli e la loro fretta li faceva spiccare anche fra quell'enorme
massa di animali e uomini. Quando chiedevano notizie della bandiera
rossa dell'emiro al-Salida dei Jaalin, ricevevano come risposta: «Guida
l'avanguardia», e venivano mandati avanti. Penrod procedeva veloce: dopo
l'incontro con al-Noor non si sentiva sereno.
Si fermarono ancora una volta. Un mercante al seguito dell'esercito li
chiamò mentre passavano. Gli si affiancarono per esaminare la merce:
aveva fette di pane di dhurra arrostito con burro di cammello e semi di
sesamo; mostrò anche albicocche e datteri secchi, e formaggio di capra il
cui intenso aroma faceva venire l'acquolina in bocca. Riempì le loro
bisacce e Penrod pagò un prezzo carissimo in talleri di Maria Teresa.
Il mercante li guardò partire, e quando furono abbastanza lontani da non
sentire chiamò suo figlio, che si occupava degli asini da soma. «Conosco
bene quell'uomo. Marciava con Hicks Pascià verso El Obeid, all'inizio
della jihad. Gli ho venduto un pugnale damascato d'oro, e lui si era messo
a contrattare scaltramente. Non potrei mai confonderlo con un altro. È un
effendi franco, un infedele. Si chiama Abadan Riji. Figlio, recati dal
grande emiro Osman Atalan e raccontagli queste cose. Digli che un
nemico marcia tra le file dei guerrieri di Allah.»
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Il sole stava calando sull'orizzonte a ovest e le ombre dei cammelli,
allungandosi, fluttuavano sulle dune giallo-arancio quando Penrod vide
sventolare davanti a sé, tra i nuvoloni di polvere, il rosso vessillo
dell'emiro al-Salida.
«Ecco la testa dell'esercito», confermò Yakub. Il fedele aiutante
cavalcava alla destra di Penrod, molto vicino, per evitare di alzare la voce:
c'erano altri cavalieri che potevano sentire. «Molti sono Jaalin. Ne ho
riconosciuti due che hanno una faida contro di me. Appartengono alla
famiglia che mi ha scacciato dalla mia tribù, rendendomi un reietto. Se mi
capitano di fronte, sarò obbligato, per questioni d'onore, a ucciderli.»
«Allora sarà meglio allontanarci.»
Il Nilo era alla loro sinistra, a un solo miglio di distanza. L'esercito si era
messo a seguirne il corso, una volta che l'aveva raggiunto a Berber. A
quell'ora tarda del giorno molti viaggiatori stavano abbeverando gli
animali sulla riva, ma erano troppo occupati per notare la presenza dei due
stranieri. Nondimeno, Penrod riuscì a tenersi alla larga.
Il pascolo nei pressi del fiume era ubertoso e ricco. L'erba arrivava alle
ginocchia dei cammelli. All'improvviso un turbinio di Alì si scatenò di
sotto le zampe anteriori del cammello di Yakub e uno stormo di quaglie si
levò strepitando. Si trattava della specie siriana azzurra, più grande della
quaglia comune e molto ricercata per la carne. Yakub si girò sulla sella e
con uno scatto della mano destra scagliò il pungolo, che roteò in aria
andando a colpire la quaglia. L'uccello cadde in un balenare di piume blu,
oro e marrone.
«Ammira! Sono un grande cacciatore!» esultò Yakub.
Il resto dello stormo volò sotto il naso del cammello di Penrod, il quale
non volle essere da meno. Il suo pesante pungolo da cammello mozzò la
testa al maschio che guidava lo stormo e proseguì quasi senza cambiare
direzione, andando a colpire una giovane femmina grassoccia e
spezzandole un'ala. La quaglia precipitò e sparì tra l'erba alta.
Penrod smontò e la inseguì. La quaglia correva a zigzag e cercava di
alzarsi in volo sbattendo le Alì, ma lui l'afferrò al volo. Tenendola per il
capo, le spezzò il collo con un colpo del polso. Quindi recuperò il pungolo
e il corpo del maschio, tornò al cammello e montò in sella. «Ecco
Suleimani Iffara, l'umile viaggiatore di Gedda, che non si vanta mai delle
sue prodezze!»
«E allora non lo metterò più in imbarazzo parlandone io», disse
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mestamente Yakub.
Scesero al fiume. Centinaia di cavalli e cammelli stavano abbeverandosi,
sparsi lungo la riva. Altri brucavano la vegetazione ai bordi. Gli uomini
riempivano gli otri e qualcuno si bagnava nell'acqua bassa.
Penrod individuò un punto della sponda lontano da tutta quella gente.
Impastoiarono i cammelli, lasciandoli bere, mentre loro facevano provvista
d'acqua e tagliavano mazzi di erba fresca. Allentarono le pastoie per fare
pascolare le bestie e costruirono un piccolo bivacco. Arrostirono le tre
quaglie, dorate e sugose. Poi Yakub si avvicinò al cammello femmina,
munse una scodella di latte, lo scaldò e lo bevvero come
accompagnamento a un pezzo di pane di dhurra con una fetta di
formaggio, che era molto più fetido della capra da cui era stato ricavato.
Finirono la cena con una manciata di datteri e albicocche. Era un pasto
molto più saporito di quelli assaggiati da Penrod nel ristorante del Ghezira
Club.
Dopodiché si coricarono sotto le stelle, con le teste vicine. «Quanto
manca alla città di Abu Hamed?» chiese Penrod.
Con due dita divaricate Yakub indicò una porzione di cielo.
Penrod convertì l'angolo in tempo. «Due ore. Abu Hamed è il luogo
dove dobbiamo lasciare il fiume per attraversare la conca fino alle sorgenti
di Gakdul.»
«Da Abu Hamed è un viaggio di due giorni.»
«Ma una volta sorpassata l'avanguardia dei dervisci, potremo procedere
più speditamente.»
«Sarà un vero peccato uccidere questi cammelli...» Yakub si alzò su un
gomito e li guardò pascolare lì vicino. Fischiò piano e la femmina color
panna si avvicinò, frenando a causa della pastoia. Lui le diede una delle
pagnotte di dhurra e mentre la bestia la masticava le accarezzava
l'orecchio.
«O pietoso Yakub, tagli la gola di un uomo con la stessa facilità con cui
puoi fare un peto, ma poi soffri per una bestia nata per morire?» Penrod si
girò sulla schiena e allargò le braccia come un crocifisso. «Tu monterai il
primo turno di guardia, e io il secondo. Ci riposeremo finché la luna sarà
allo zenit, e poi partiremo.» Chiuse gli occhi e cominciò quasi subito a
russare piano.
Quando Yakub lo svegliò, il freddo notturno era già penetrato attraverso
la coperta di lana. Penrod fissò il cielo. Era ora. Yakub era pronto. Si
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alzarono e senza parlare andarono ai cammelli, sciolsero le pastoie e
montarono in sella.
Li guidarono i fuochi dei bivacchi dei guerrieri addormentati. Il fumo,
che si addensava in una fitta nebbia lungo gli uadi, nascose i loro
movimenti. Le zampe dei cammelli non facevano rumore, e i bagagli erano
stati legati con grande attenzione in modo che non cigolassero o
sbattessero. Nessuna sentinella li fermò quando passarono vicino ai vari
accampamenti.
Come aveva previsto Yakub, in due ore giunsero ad Abu Hamed.
Nonostante si tenessero a debita distanza, il loro odore destò i cani del
villaggio, i cui petulanti guaiti si placarono solo quando i due lasciarono il
fiume per imboccare la vecchia via carovaniera che tagliava la grande
conca del Nilo. Alle prime luci dell'alba avevano già distanziato di
parecchio l'esercito derviscio.
A metà pomeriggio fecero riposare i cammelli all'ombra di una collinetta
vulcanica e li sfamarono con il foraggio raccolto sulla riva del fiume.
Malgrado la durezza della marcia, gli animali mangiarono voracemente. I
due uomini li esaminarono mentre erano a riposo, e non trovarono gonfiori
sospetti sugli arti né tagli da scisti alle zampe.
«Hanno marciato molto bene, ma la parte più faticosa deve ancora
venire...»
Penrod montò di guardia per primo, salendo in cima al colle in modo da
dominare il tratto di pista già attraversato. Spaziò con il cannocchiale
lungo tutto l'orizzonte a sud, in direzione di Abu Hamed, ma non notò
nessuna nube di polvere né altri segni di inseguimento. Per non essere
visibile in quella posizione così esposta, si costruì con rocce vulcaniche un
muricciolo alto fino alle ginocchia, dietro il quale poté sistemarsi
comodamente. Per la prima volta da quando avevano lasciato il Nilo, si
sentiva più tranquillo. Aspettò il fresco della sera, e prima del tramonto si
alzò e scrutò di nuovo l'orizzonte meridionale.
Solo uno sbuffo di polvere gialla, minuto ed effimero, apparve per
qualche minuto, quasi con ritrosia; poi si dissolse e svanì come se fosse
stato un miraggio, uno scherzo dell'aria surriscaldata. Poi si materializzò di
nuovo, tremolando nella calura, come un uccellino giallo. Sulla
carovaniera, più o meno lungo il nostro tragitto, la polvere si alza sopra il
terreno meno duro, e scende di nuovo quando il sentiero attraversa tratti
scistosi o lavici, pensò. In questo modo si spiegò la comparsa intermittente
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delle masse di polvere. Pare che alla fine ad al-Noor sia tornata la
memoria. Eppure quelli non possono essere cavalieri. Qui non c'è acqua, e
gli unici animali che possono sopravvivere in queste condizioni sono i
cammelli. I dervisci non hanno cammelli che possano inseguirci. Le nostre
bestie sono le più belle e veloci.
Scrutò nelle lenti del cannocchiale, ma sotto la polvere non riusciva a
distinguere niente. Ancora troppo lontani, si disse. Erano a sette, otto
miglia di distanza. Scese di corsa dalla collina.
Yakub lo vide arrivare e dalla sua fretta intuì che c'erano guai in vista. I
cammelli erano già sellati e carichi. Penrod balzò in groppa, e il suo
cammello si alzò barcollando, gemendo e sputando. Il capitano fece girare
il capo all'animale verso nord e lo lanciò al trotto.
Yakub gli si affiancò. «Che cosa hai visto?» «Polvere sul sentiero.
Cammelli.» «Come fai a dirlo?»
«Quale cavallo può sopravvivere così a lungo senz'acqua?» «Quando gli
aggagir sono alle calcagna di elefanti o uomini, usano sia i cammelli sia i
cavalli. All'inizio della caccia montano i cammelli, che portano anche
l'acqua. In questo modo possono risparmiare i cavalli, che poi usano per
l'inseguimento finale, non appena avvistano la preda. Hai visto di quali
nobili cavalli dispongano. Nessun cammello può tener loro testa in
velocità.» Yakub si guardò indietro, oltre le sue spalle. «Se sono gli
aggagir di Osman Atalan, ci avvisteranno domani all'alba.»
Cavalcarono per tutta la notte. Penrod non si preoccupò di conservare
l'acqua nelle ghirbe. Prima di mezzanotte si fermarono un po' per dare agli
animali due secchi d'acqua a testa. Penrod si distese a terra e usò una
scodella per il latte rovesciata come cassa di risonanza per individuare la
propagazione del suono degli zoccoli lontani. Quando vi appoggiò
l'orecchio non sentì nulla, ma la cosa non lo tranquillizzò. Solo vedendo i
loro inseguitori, all'alba, avrebbero potuto calcolare la distanza che li
separava. Non perdettero altro tempo e si rimisero in marcia per quella
landa desolata e silenziosa.
Quando il profilo del paesaggio cominciò a delinearsi alla prima, tenue
luce del sole, Penrod si fermò di nuovo. Ancora una volta fu molto
generoso con l'acqua: ordinò a Yakub di dare ai cammelli altri due secchi e
quello che restava del foraggio.
«Di questo passo, entro stasera le ghirbe saranno vuote...» borbottò
Yakub.
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«Stasera, o saremo alle sorgenti di Gakdul o saremo morti. Lasciali bere
e mangiare. Così sentono meno il carico e hanno più forza nelle gambe.»
Tornò indietro di un centinaio di metri e usò ancora una volta la scodella
come cassa di risonanza. Per qualche minuto non sentì nulla. Sbuffò di
sollievo, ma poi il suo sesto senso lo fece indugiare. E ora lo udì: come un
tremito d'aria contro il timpano, ma così lieve che avrebbe potuto essere
uno scherzo della brezza mattutina che lambisce le rocce. Si bagnò l'indice
e lo tenne alzato. Non c'era vento.
Appoggiò nuovamente la testa alla scodella, mise le mani a coppa
attorno all'orecchio e chiuse gli occhi. Silenzio. Inspirò profondamente e
trattenne il fiato. Tendendo al massimo l'udito si poteva cogliere un sibilo,
come sabbia sottile agitata piano in una zucca secca, o il fiato della donna
amata che ti dorme accanto nelle veglie notturne. Nonostante la tensione
irruppe nella sua mente un'immagine di Rebecca, così giovane e delicata, a
letto accanto a lui, i capelli sparsi su entrambi come una coltre d'oro.
Allontanò quel quadro, si alzò in piedi e ritornò ai cammelli. «Sono dietro
di noi», dichiarò con calma.
«A che distanza?» gli domandò Yakub.
«Alle prime luci li potremo vedere chiaramente.» Entrambi si volsero a
est. Il sole cingeva la cima di una collina lontana con una specie di aureola,
come se fosse stata la testa arruffata di un vecchio santo.
«Ma anche loro ci avvisteranno...» La voce di Yakub era roca. Si schiarì
la gola.
«Quanto distano le sorgenti di Gakdul?» domandò Penrod.
«Più di mezza giornata di viaggio. Troppo lontane... Con i loro cavalli ci
raggiungeranno molto prima.»
«Quali terre ci attendono adesso? Ci sarà un posto dove possiamo
nasconderci e sfuggire loro?»
«Siamo vicini a Tirbi Kebir.» Yakub indicò avanti. «E non è un caso che
si chiami così, il Grande Cimitero...» Si trattava di uno degli ostacoli più
difficili nell'attraversamento della conca. Era una salina larga venti miglia.
La superficie era liscia come vetro smerigliato, senza la minima
ondulazione o irregolarità, a eccezione dell'ampio solco della carovaniera,
sui cui lati giacevano scheletri di uomini e cammelli morti nel corso dei
secoli. Il sole di mezzogiorno, riflettendosi sui cristalli di sale, illuminava
il cielo con un bagliore visibile da ogni direzione per molte leghe. Un
cammello, al centro di quella grande distesa bianca, poteva essere
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facilmente riconosciuto dai margini della salina. Il sole implacabile,
riflesso e potenziato da quella superficie lucida, arrostiva a fuoco lento
uomini e bestie.
«Non c'è altra strada. Dobbiamo proseguire.» Volsero gli animali alla
traversata. Ritemprati dalle abbondanti bevute d'acqua e da tutto il
foraggio mangiato, i cammelli si misero a marciare di buon passo. Con
l'aumentare della luce del giorno, il cielo in alto diventò rovente, come uno
scudo di metallo portato a incandescenza nella fucina di Vulcano.
All'improvviso si trovarono fuori dalla zona di dune e ondulate colline di
ghiaia, e furono nella salina. Con teatrale tempestività, il sole si alzò dalle
colline orientali e li colpì in faccia con la sua sferza accecante. Penrod si
sentì prosciugare gli umori dalla pelle, strinare le cervella. Frugò nella
bisaccia e ne trasse un pezzo di avorio ricurvo in cui aveva intagliato due
fessure per gli occhi, così strette da schermare gran parte degli abbacinanti
riflessi. L'aveva copiato da un'illustrazione contenuta nel libro sulla
traversata artica di Clavering e Sabine, in cui era raffigurato un eschimese
della Groenlandia con un oggetto simile, ricavato da un osso di balena e
usato per proteggersi dal riverbero della neve.
Sotto i pungoli i cammelli si lanciarono in un'andatura detta dagli arabi
«bere il vento», un trotto a grandi passi che divorava velocemente le
miglia. Ogni poche falcate Penrod o Yakub si voltavano per scrutare il
barbaglio scintillante alle loro spalle.
Quando il nemico sopraggiunse, lo fece con una rapidità inattesa. Un
momento prima la salina dietro di loro era deserta e bianca, senza il
minimo segno di uomini o animali, e subito dopo la colonna dei dervisci si
riversò dalle colline di ghiaia lanciandosi sulla distesa bianca. Il sole
faceva strani scherzi creando una prospettiva fasulla, che riduceva le
distanze. Nonostante fossero ancora ad alcune miglia da loro, sembravano
così vicini che a Penrod parve di riuscire a distinguere le fattezze dei
singoli.
Come Yakub aveva previsto, stavano cavalcando cammelli, cammelli da
soma: gli aggagir sedevano davanti a grosse ghirbe, che sembravano
palloni. Ogni cavaliere aveva con sé il proprio cavallo, legato a una lunga
briglia. Osman Atalan era in testa. Le pieghe del suo turbante verde
coprivano la parte inferiore del viso, ma il portamento in sella era
inconfondibile, la testa alta e le spalle fiere. Al suo fianco cavalcava alNoor. Dietro la coppia Penrod contò altri sei aggagir in fila indiana. Nello
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stesso istante si avvidero gli uni degli altri. Anche se gli inseguitori
avessero gridato, l'urlo non avrebbe raggiunto il capitano per la troppa
distanza.
Senza eccessiva fretta gli aggagir smontarono dai cammelli. Due uomini
si occuparono delle bestie e raccolsero le redini. Osman e i suoi presero
ognuno un cavallo e lo abbeverarono. Strinsero i sottopancia e montarono
in sella. Tali operazioni si protrassero per il tempo che un pescatore di
perle del mar Rosso impiega, trattenendo il fiato sott'acqua, a riempire la
rete con le ostriche staccate dalla barriera corallina. I cavalieri si
radunarono e partirono sullo specchio salato a un passo paurosamente
sostenuto.
Penrod e Yakub si chinarono in avanti e con movimenti decisi dei
fianchi lanciarono le loro bestie alla massima velocità. I cammelli si
distesero in un galoppo ad ampie falcate. I due gruppi galopparono per un
miglio e poi un altro, senza aumentare o diminuire la velocità. Poi Acqua
Dolce, la giumenta chiara di Osman, si staccò dagli altri e proseguì, la
criniera e la lunga coda dorata che fluttuavano al vento, come uno spettro
pallido sull'accecante distesa di sale.
Penrod vide subito che nessun cammello avrebbe potuto tenere a
distanza quel cavallo e comprese la tattica di Osman: raggiungerli e
azzoppare i loro cammelli. Cercò di elaborare a sua volta un contro-piano.
Non poteva affidare la sua sorte a un proiettile fortunato che abbattesse la
cavalla. Forse avrebbe fatto meglio a lasciarla avvicinare per poi voltarsi
repentinamente, sorprendendo Osman, e usare tutto il peso e l'altezza del
cammello contro la giumenta. Così forse avrebbe provocato una collisione
tale da ferire seriamente la cavalla, bloccandone la corsa. In realtà sapeva
che un'azione del genere aveva pochissime probabilità di riuscita: la
cavalla, oltre a essere veloce, era anche agile, e il suo avversario era forse
il miglior cavallerizzo di tutta l'armata derviscia. Qualsiasi goffa carica
contro di lui sarebbe stata solo fonte di irrisione, e se per un
improbabilissimo colpo di buona sorte fosse riuscito ad azzoppare la
giumenta, un attimo dopo gli altri aggagir beja gli sarebbero stati addosso
con le spade sguainate.
La coda del turbante verde era volata via dalla faccia di Osman, e adesso
era così vicino che Penrod poteva distinguerne i tratti. Il vento prodotto
dalla corsa della cavalla spingeva indietro i riccioli della barba crespa. Il
suo sguardo era fisso su Penrod.
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«Abadan Riji!» lo chiamò Osman. «È giunto il nostro momento! Era
scritto!»
Penrod estrasse la carabina Martini-Henry dal fodero sotto il ginocchio e
fece un mezzo giro sulla sella. Se si fosse voltato completamente per
affrontare il nemico, appoggiando il fucile sulla spalla, avrebbe fatto
perdere l'equilibrio al cammello. Tenne l'arma con la mano destra come se
fosse stata una pistola, e cercò di inquadrare il suo bersaglio. Sotto di lui il
cammello ondeggiava e sussultava, e la canna descriveva cerchi bruschi e
imprevedibili. I muscoli del braccio destro, completamente disteso,
cominciarono subito a dolergli. Non poteva tenere la mira troppo a lungo,
quindi sparò. Il rinculo gli scosse il polso, facendogli sbattere la guardia
del grilletto contro le dita. La mira era stata così casuale che non riuscì
neppure a seguire la traiettoria del colpo. La risata di risposta di Osman fu
spontanea e tranquilla. Era così vicino che la sua voce sovrastò il rumore
degli zoccoli e il soffio del vento.
«Lascia la pistola! Siamo guerrieri di spada, tu e io.» La cavalla correva,
adesso era così vicina che Penrod vedeva la bava bianca volare via dal
morso tra le fauci. Il fodero dello spadone di Osman era infilato sotto il
ginocchio sinistro. L'emiro ne estrasse la spada, poi la alzò in tutta la sua
scintillante lunghezza affinché Penrod la vedesse. «Questa è un'arma da
uomini!»
Penrod fu tentato di rispondere alla sfida e affrontarlo con la lama, ma
sapeva che c'era in gioco ben altro che il suo onore e la sua gloria. Il
destino di un esercito di connazionali, della città di Khartum e di chi era
asserragliato entro le sue mura - compresa Rebecca Benbrook - dipendeva
dall'esito della sua fuga. Il dovere gli imponeva di evitare qualsiasi gesto
eroico. Tolse il bossolo vuoto dall'otturatore e sfilò un altro proiettile dalla
bandoliera. Chiuse l'otturatore ma, prima che potesse voltarsi per sparare
di nuovo, si sentì chiamare insistentemente da Yakub. Si girò e lo vide teso
sulla sella: stava indicando avanti, e agitava le braccia sopra la testa,
urlando come un ossesso.
Seguì la direzione del dito di Yakub e il suo cuore ebbe un sobbalzo. In
fondo al luccichio bianco della salina era apparsa una squadra montata su
cammelli, che puntava diritto su di loro. Le loro intenzioni erano
chiaramente bellicose. Quanti saranno? si chiese Penrod. Impossibile
calcolarne il numero in quei nuvoloni di polvere bianca... comunque
stavano avanzando, fila dopo fila. Un centinaio, se non di più, valutò... ma
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chi erano? Non arabi, questo era sicuro... Un barlume di speranza. Nessuno
portava la jibba e le facce erano sbarbate.
Mentre continuavano ad avvicinarsi gli uni agli altri a gran velocità,
Penrod riconobbe le uniformi cachi e la tipica forma del casco coloniale.
«Inglesi!» esultò. «Esploratori del Carnei Corps di Stewart!»
Si voltò sulla sella per guardare indietro. Osman si era alzato in piedi
sulle staffe e stava scrutando il gruppo in rapido avvicinamento. Dietro di
lui gli aggagir avevano frenato il galoppo e giravano in tondo confusi.
Penrod guardò di nuovo avanti e vide che il comandante dello squadrone
aveva ordinato l'alt. I soldati stavano smontando, e facevano accucciare i
cammelli per formare il classico quadrato. L'operazione fu eseguita con
grande precisione. Gli animali si inginocchiarono in una barriera continua,
e dietro a ciascuno di essi si rannicchiò il cavaliere, puntando sopra la sua
groppa il fucile con la baionetta inastata. Le facce bianche, ma abbronzate
dal sole, apparivano ben rasate e tranquille. Penrod sentì uno straordinario
moto d'orgoglio. Quegli uomini erano suoi commilitoni, il fior fiore del
miglior esercito del mondo.
Si sciolse il turbante per mostrare il volto, poi agitò la tela sopra la testa.
«Non sparate!» gridò. «Sono inglese!» Vide l'ufficiale ritto dietro la prima
fila di soldati, con la spada sguainata, fare un passo in avanti e lanciargli
un lungo sguardo indagatore. Ormai era a centocinquanta passi dal
quadrato. «Sono un ufficiale inglese!»
L'uomo fece un gesto inequivocabile con la spada e Penrod udì l'ordine
ripetuto dai sergenti e dai sottufficiali: «Non sparate! Attenzione, guardie!
Non sparate!»
Penrod si voltò indietro e vide che Osman era molto vicino. Benché i
suoi aggagir fossero ancora incerti sul da farsi, si era lanciato da solo
contro il fronte del quadrato inglese.
Penrod imbracciò la carabina e mirò alla cavalla dell'emiro. Sapeva che
era l'unico modo per farlo fuggire. Ora li separavano non più di tre
lunghezze, e anche dalla groppa instabile di un cammello al galoppo l'arma
di Penrod costituiva una minaccia mortale. Tuttavia, anche se avesse
puntato il fucile contro di lui, Osman non si sarebbe spaventato. Ma
l'inglese aveva imparato abbastanza su di lui per essere sicuro che non
avrebbe mai lanciato la sua cavalla dritta contro un fucile.
Osman frenò, la faccia stravolta dalla rabbia. «Mi ero sbagliato sul tuo
conto, sei un codardo!» urlò.
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A sua volta Penrod si sentì avvampare di sdegno. «Ci sarà un'altra
occasione!» gli promise.
«Prego Dio che ci sia!» Poi, a sessanta metri dal quadrato inglese,
Osman fece voltare la cavalla, ripartì tranquillamente al trotto e si
allontanò per raggiungere i suoi aggagir.
Il quadrato si aprì per far entrare i fuggiaschi, che si avvicinarono
all'ufficiale in comando.
«Buon giorno, maggiore.» Penrod smontò e fece il saluto a Kenwick,
che lo fissava incredulo.
«Ballantyne... spuntate sempre quando uno meno se l'aspetta. Avete
rischiato di farvi sparare.»
«Comunque, siete giunti in un momento quanto mai opportuno.»
«Vi ho visto in un bel guaio. Che diavolo ci facevate, là in mezzo?»
«Porto un dispaccio da parte del generale Gordon, per il generale
Stewart.»
«Allora siete fortunato. Noi siamo l'avanguardia. Il generale Stewart è
con la colonna principale di soccorso, appena un'ora dietro di noi.» Guardò
i cammelli e i soldati inginocchiati sulla prima linea del quadrato.
«Andiamo per ordine. Chi era il derviscio che vi inseguiva?»
«Uno dei loro emiri. Un individuo di nome Osman Atalan, capo della
tribù Beja.»
«Perbacco! Ne ho sentito parlare. È proprio un pessimo cliente. Faremo
meglio a sbarazzarci di lui.» Cavalcò verso il fronte del quadrato.
«Sergente maggiore! Sparate a quell'uomo.»
«Sissignore!» Il sergente maggiore era un uomo corpulento, con
magnifici baffi. Scelse due dei suoi migliori tiratori. «Webb, Rogers...
sparate a quel derviscio.»
I due soldati si appoggiarono sul dorso dei loro cammelli accovacciati e
presero la mira. «Fate con calma!» raccomandò loro il sergente maggiore.
Penrod si rese conto di trattenere il respiro. Aveva parlato a Kenwick
della posizione di Osman e del suo grado con l'intento di scoraggiare una
mossa del genere: aveva la vaga speranza che lo spirito cavalleresco
avrebbe dissuaso Kenwick dallo sparare all'emiro. A Waterloo, Wellington
non avrebbe mai ordinato ai suoi tiratori di mirare a Bonaparte.
Uno dei soldati sparò, ma Osman si allontanava cavalcando ad andatura
costante, ed era ormai a oltre cinquecento metri di distanza. Il proiettile
doveva averlo sfiorato perché la cavalla diede un colpo di coda, come per
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scacciare una mosca tse-tse. Eppure Osman Atalan non si degnò nemmeno
di voltarsi. Anzi, rallentò ostentatamente la corsa. Il secondo soldato sparò.
Questa volta videro alzarsi la polvere. Di nuovo il proiettile lo mancò di
pochissimo. Osman continuò ad allontanarsi lentamente. I tiratori
spararono ancora due volte, ma ormai la cavalla era fuori tiro.
«Cessate il fuoco, sergente maggiore!» ordinò Kenwick. «Quel
maledetto ha una fortuna sfacciata», disse sottovoce a Penrod voltandosi e
aggiunse con un lieve sorriso: «Ma il sangue freddo che ha esibito è
ammirevole».
«Di sicuro avremo occasione di vederne ancora, di esibizioni così
notevoli», osservò Penrod.
Kenwick lo guardò e colse un tono di rimprovero. «Un sentimento da
vero sportivo, Ballantyne. Ma non bisogna accordare troppo rispetto ai
nemici. Siamo qui per ucciderli.»
E viceversa. Ma Penrod non lo disse ad alta voce.
Osservarono in lontananza Osman Atalan riunirsi ai suoi aggagir e
cavalcare verso sud, in direzione di Abu Hamed.
«Bene... forse ora il generale Stewart sarà contento di vedervi», osservò
Kenwick.
«E io altrettanto, signore», replicò Penrod, stavolta manifestando il suo
pensiero.
Kenwick fece uno scarabocchio sul registro dei dispacci, strappò il
foglio e lo porse a Penrod. «Se andate in giro vestito così, rischierete di
farvi scambiare per una spia e sparare addosso. Sarete accompagnato dal
giovane Stapleton. Vi prego, informate il generale Stewart che stiamo
procedendo bene e che, a eccezione di questo Atalan, non abbiamo avuto
altri contatti con il nemico.»
«Maggiore... vi prego di non illudervi che questa favorevole situazione
possa protrarsi a lungo. Ho viaggiato per alcuni giorni in compagnia di una
formidabile orda di dervisci. Vengono diretti in questa direzione.»
«Quali sono le dimensioni dell'armata?» chiese Kenwick.
«Difficile dirlo con certezza, signore. Sono troppi per contarli. Direi
comunque fra i trenta e i cinquantamila.»
Kenwick si stropicciò le mani con gusto. «Quindi, tutto sommato, ci
aspettano giornate interessanti», disse.
«Direi proprio di sì, signore.»
Kenwick chiamò un giovane alfiere, il grado più basso fra gli ufficiali.
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«Stapleton, tornate indietro con il capitano Ballantyne e accompagnatelo
attraverso le linee. Non fatevi sparare.»
Percival Stapleton fissò Penrod con ammirazione. Aveva da poco
compiuto i diciassette anni, ed era imberbe ed entusiasta come un cucciolo.
I due inglesi e Yakub tornarono sulla vecchia carovaniera. Durante le
prime miglia Percy appariva in soggezione. Si sentiva onorato di cavalcare
al fianco di una Victoria Cross come il capitano Ballantyne: era l'apogeo
dei suoi sedici mesi trascorsi sotto le armi. Nelle miglia seguenti, tuttavia,
si fece coraggio e rivolse rispettosamente al capitano qualche domanda e
qualche osservazione. Lusingatissimo per il tono amichevole con cui
Penrod gli rispondeva, Percy si rilassò e si sentì libero di chiacchierare.
L'altro capì che il giovane ufficiale era un'ottima fonte d'informazioni e lo
incoraggiò a parlare liberamente. In breve fu ragguagliato su tutte le
vicende del reggimento. Le parole di Percy vibravano di orgoglio
reggimentale, nonché di un'impazienza quasi delirante di entrare in azione
per la prima volta.
«È universalmente noto che il generale Stewart è un bravo soldato, uno
dei migliori dell'esercito», disse il giovane con fierezza. «Tutti gli uomini
sotto il suo comando sono stati scelti dai reggimenti di prima linea di
guardie e fucilieri. Io sono del Secondo Granatieri.» Parlava come se non
credesse alla propria fortuna.
«È per questo che il generale Gordon aspetta da tanto tempo il vostro
arrivo a Khartum?» Penrod punzecchiava il giovane con la perizia di un
chirurgo.
Percy si infastidì. «Il ritardo non è colpa del generale. Tutti gli uomini
della colonna sono smaniosi e pronti a combattere.»
Penrod alzò un sopracciglio. Il ragazzo continuò animatamente.
«È stata la fretta dei politici di Londra a costringerci a lasciare Uadi
Halfa. Ma non avevamo altra scelta che aspettare a Gakdul l'arrivo dei
rinforzi. Eravamo mille uomini scarsi, e i cammelli erano malati e deboli
per mancanza di foraggio. Non eravamo in condizione di affrontare il
nemico.»
«Ora com'è la situazione?»
«I rinforzi sono giunti da Uadi Halfa solo due giorni or sono. Ci hanno
rifornito di foraggio, cammelli e viveri. Il generale ha ordinato subito
l'avanzata. Ora abbiamo uomini a sufficienza», concluse Percy con la
straordinaria fiducia propria dei giovani.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Cosa intendete per 'a sufficienza'?» volle sapere Penrod.
«Quasi duemila.»
«Sapete quanti sono i dervisci?» domandò Ballantyne con interesse.
«Oh, un bel po', suppongo... ma noi siamo inglesi, no?»
«Certo!» sorrise Penrod. «Non v'è altro da aggiungere, giusto?»
Raggiunsero la cima del rilievo successivo, e sul pianoro pietroso
dinanzi a loro apparve il grosso della colonna. Avanzava compatto, in
quadrato, con i cammelli nel centro. Sembravano molti più di duemila
uomini. Si avvicinarono di buon passo, e fu evidente che erano sotto un
comando saldo e capace.
Con il giovane Percy a fare strada, le sentinelle li fecero penetrare nel
quadrato in marcia. Un gruppo di ufficiali a cavallo procedeva dietro la
prima linea. Penrod riconobbe il generale Stewart: lo aveva visto a Uadi
Halfa, ma nessuno li aveva mai presentati. Era un bell'uomo, alto e dritto
sulla sella; emanava un'aria di sicurezza e padronanza della situazione.
Penrod conosceva meglio l'uomo accanto a lui: il maggiore Hardinge,
l'ufficiale superiore dell'intelligence dei corpi cammellati.
Questi indicò Penrod e disse qualcosa al generale Stewart, che guardò
nella sua direzione e annuì.
Hardinge si avvicinò. «Ah, Ballantyne... il classico uccello del
malaugurio.»
«In questo caso, almeno, un piccione viaggiatore, signore. Ho una
comunicazione da parte del generale Gordon da Khartum.»
«Veramente, perbacco? Ma allora siete un'aquila reale. Venite. Il
generale Stewart sarà lieto di vedervi.» E si diressero verso il gruppo.
Il generale Stewart fece cenno a Penrod di affiancare il suo cammello.
Penrod lo salutò. «Capitano Penrod Ballantyne, Decimo Ussari, con un
dispaccio del generale Gordon da Khartum.»
«È ancora vivo Gordon?»
«Eccome, signore.»
Stewart lo scrutò attentamente «Bene. Potete consegnare il dispaccio a
Hardinge.»
«Signore, il generale Gordon non ha voluto mettere nulla per iscritto
nell'eventualità che fossi caduto nelle mani del Mahdi. Ho soltanto una
comunicazione verbale.»
«In tal caso, dite direttamente a me. Hardinge può prender nota.
Parlate.»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Per prima cosa devo informarvi dell'ordine di battaglia del nemico,
signore, per quanto ci è dato sapere.»
Stewart ascoltò Penrod con attenzione, chinandosi leggermente in avanti
sulla sella. Aveva i lineamenti sottili e dorati dal sole, lo sguardo sicuro e
intelligente. Non lo interruppe mentre descriveva lo stato dei difensori di
Khartum. Penrod terminò la prima parte del rapporto in modo conciso. «Il
generale Gordon stima di poter resistere altri trenta giorni, ma le riserve di
viveri sono ridotte ormai sotto il livello di sopravvivenza. Il Nilo cala
rapidamente, mettendo a repentaglio le nostre difese. Mi è stato chiesto di
sottolineare, signore, come la situazione si faccia ogni giorno più
precaria.»
Stewart non si sforzò di giustificare i ritardi. Era un uomo d'azione, non
uno che dovesse rendere conto delle sue azioni. «Capisco», disse
semplicemente. «Vi prego di continuare.»
«Il generale Gordon farà sventolare giorno e notte la bandiera dell'Egitto
e quella della Gran Bretagna dalla torre di forte Mukran fino a quando la
città avrà ancora un presidio. Con un cannocchiale, le bandiere sono
visibili fino alle alture della gola di Shabluka.»
«Spero di verificarlo presto di persona», fece Stewart con un cenno del
capo.
Sebbene non si lasciasse sfuggire una parola di Penrod, il suo sguardo si
spostava di continuo sull'ordinata formazione a quadrato che si dirigeva a
passo sostenuto verso sud.
«Il mio viaggio dalla città mi ha portato ad attraversare le formazioni
nemiche. Se lo ritenete utile, generale, posso riferirvi l'idea che mi sono
fatto del loro esercito.»
«Vi ascolto.»
«Il comandante dell'avanguardia derviscia è l'emiro al-Salida, della tribù
Jaalin. Sotto il suo stendardo rosso guida circa quindicimila guerriglieri. I
Jaalin sono la tribù più settentrionale del Sudan; al-Salida è più vicino ai
settanta che ai sessant'anni, ma ha una grandissima reputazione. Il
comandante del centro invece è l'emiro Osman Atalan dei Beja.» A quel
nome, Stewart strinse gli occhi. Evidentemente lo conosceva. «Osman ha
distaccato circa ventimila uomini dall'assedio a Khartum. Dispongono di
fucili Martini-Henry presi agli egiziani, e di una vasta riserva di munizioni.
Come ben saprete, signore, i dervisci preferiscono il combattimento
ravvicinato e l'uso della spada.»
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«Artiglieria?»
«Nonostante a Omdurman abbiano mitragliatrici Nordenfelt, Krupp e
un'ampia scorta di munizioni, non ho visto nessun pezzo trasportato a nord
con quest'ala dell'esercito.»
«Da vecchio combattente contro gli arabi, ditemi, Ballantyne: dove
pensate che ci affronteranno?»
«Credo che vorranno impedirvi l'accesso all'acqua, signore», rispose
Penrod. Nel deserto, presto o tardi tutto si riduceva a quello. «La prossima
fonte sono le sorgenti di Abu Klea. L'acqua è scarsa e impura, ma si
adopereranno per non farvela raggiungere. Si arriva ai pozzi da una gola
rocciosa. Immagino che sarà lì che vi bloccheranno, mentre uscite allo
scoperto.»
Hardinge aveva pronta la mappa. Stewart la prese e la dispiegò sulla
sella. Penrod si avvicinò per poterla leggere anche lui.
«Indicatemi il punto dove pensate che possano attaccare», ordinò
Stewart.
Penrod glielo indicò e Stewart studiò brevemente la posizione. «Per
stanotte avevo previsto di bivaccare sul lato nord di Tirbi Kebir.» Segnò il
punto con il dito. «Tuttavia, alla luce di queste informazioni sarebbe
meglio forzare la marcia per raggiungere l'imbocco della gola prima che
cali il sole. Al mattino potremo muoverci meglio.»
Penrod non commentò. La sua opinione non era stata richiesta. Stewart
arrotolò la mappa. «Grazie, capitano. Credo che sareste più utile
all'avanguardia del maggiore Kenwick. Volete tornare indietro e mettervi
sotto il suo comando?»
Penrod salutò. Mentre si allontanava, Stewart lo apostrofò: «Prima di
unirvi al maggiore Kenwick, andate dal furiere e procuratevi un'uniforme
decente. Da qui sembrate un maledetto derviscio. Rischiate di finire sotto
il tiro di uno dei nostri».
Alle prime luci dell'alba, Osman Atalan e al-Salida stavano seduti in
cima alle colline bruciate di Abu Klea, da dove dominavano una profonda
gola. Erano seduti sopra un prezioso tappeto di lana posato sul bordo di
una cresta di roccia nera basaltica. Una cresta pressoché identica e fatta
della stessa roccia scura si ergeva davanti a loro sull'altro lato della
spaccatura, che misurava circa quattrocento passi nel punto più stretto.
L'emiro al-Salida dei Jaalin conosceva Osman da quando era un ragazzo
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di diciassette anni. A quei tempi, Osman aveva cavalcato nel territorio dei
Jaalin arrivando da est con i predoni del padre. Avevano ucciso sei
guerriglieri di al-Salida e messo in fuga sessantacinque dei suoi migliori
cammelli. Proprio allora Osman aveva ucciso per la prima volta un uomo.
I Beja avevano anche rapito dodici ragazze jaalin, ma agli occhi di alSalida questa perdita era insignificante a confronto di quella dei cammelli.
Nei dodici anni seguenti, la loro lotta era proseguita sanguinosa e spietata
attraverso il deserto.
Solo da quando il Divino Mahdi aveva chiamato tutte le tribù del Sudan
a unirsi nella sacra jihad contro gli infedeli Osman e al-Salida avevano
preso a sedersi intorno al medesimo fuoco e a fumare insieme. Durante la
jihad le faide erano sospese; tutti dovevano unirsi contro il nemico
comune.
Una giovane schiava posò l'hookah tra i due. Prese un carbone ardente
dal braciere di terracotta con un paio di pinze d'argento e lo depose con
cura sul tabacco nero pressato nel fornello. Quindi la giovane aspirò dal
bocchino d'avorio finché il fumo non si diffuse liberamente. Tossì con
grazia, a causa del fumo forte, e poi passò il bocchino ad al-Salida in segno
di rispetto per l'anzianità. Quando egli aspirò, delle bolle azzurre mossero
l'acqua nel lungo recipiente di vetro. Al-Salida trattenne il fumo nei
polmoni e passò il bocchino a Osman. Il Mahdi aveva proibito l'uso del
tabacco, ma ora era lontano, a Omdurman. Fumarono in tranquillità
discutendo sui piani di battaglia. Quando nel fornello non rimase che
cenere, si inginocchiarono entrambi per la rituale preghiera mattutina.
La ragazza preparò di nuovo il narghilè mentre uno a uno, a intervalli
regolari, gli sceicchi salivano per riferire i movimenti del nemico e lo
schieramento dei propri reggimenti.
«In nome di Dio, lo squadrone dello sceicco Harun è in posizione», riferì
uno di essi.
Al-Salida guardò Osman da sotto le palpebre socchiuse, che il sole
aveva spruzzato di efelidi. «Harun è un buon combattente, e ha duemila
uomini sotto il suo comando. Gli ho fatto prendere posizione nello uadi
dove l'avvoltoio si è posato ieri sera. Da lì sarà in grado di rastrellare la
retroguardia del nemico quando uscirà allo scoperto.»
Poco dopo un altro giovane sceicco salì il ripido pendio. «In nome di
Dio e del vittorioso Mahdi, gli infedeli hanno distaccato le loro vedette.
Una pattuglia di sei soldati ha raggiunto l'imboccatura della gola.
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Attraverso le loro lunghe lenti hanno osservato il palmeto attorno ai pozzi
e sono tornati indietro. Come avevi ordinato, emiro, li abbiamo lasciati
andare.»
Il rapporto finale arrivò un'ora dopo l'alba e in quel momento tutte le
forze dervisce erano nelle posizioni loro assegnate.
«Novità sugli infedeli?» domandò al-Salida con la sua voce acuta e
stridula.
«Non hanno ancora lasciato l'accampamento.» Il messaggero indicò la
punta della lunga gola. Osman offrì il braccio ad al-Salida, suo mortale
nemico, e aiutò il vecchio ad alzarsi. Le articolazioni erano nodose per
l'artrite, ma una volta in sella al-Salida era in grado di cavalcare e
maneggiare la spada come un giovane guerriero. Facendo attenzione a non
stagliarsi contro il cielo del primo mattino, Osman lo condusse
premurosamente fino all'orlo dello strapiombo per guardare in basso.
L'accampamento degli infedeli era ben visibile a meno di due miglia di
distanza. La sera prima i soldati avevano eretto intorno al suo perimetro
una zareba di sassi e rami spinosi. L'accampamento era quadrato come
sempre. Avevano piazzato una mitragliatrice Nordenfelt a ciascuno dei
quattro angoli, in modo da poter sparare d'infilata lungo le pareti esterne
della palizzata.
«Che cosa sono quegli ordigni?» Al-Salida non aveva mai combattuto
contro gli europei. I turchi li conosceva bene, avendone scannati a
centinaia con le proprie mani, ma questi uomini grossi e dalla faccia rossa
erano di un'altra razza. Non sapeva niente delle loro usanze.
«Quelli sono fucili che sparano molto velocemente. Possono fare campi
interi di morti, come l'erba sotto la falce, finché non si scaldano troppo e si
inceppano. Bisogna ingozzarli di cadaveri, per tappar loro la bocca.»
Al-Salida scoppiò a ridere. «Oggi li ingozzeremo a dovere.» Fece un
ampio gesto. «La festa è pronta. Non ci resta che aspettare i nostri
onorevoli ospiti.»
Le colline, le valli e le anguste gole apparivano aride e deserte, ma in
realtà brulicavano di decine di migliaia di cavalli e uomini seduti sui loro
scudi, in attesa con la pazienza del cacciatore.
«Ora che cosa fanno gli infedeli?» domandò con curiosità al-Salida,
mentre la sua attenzione tornava a concentrarsi sul campo del nemico.
«Si stanno preparando per il nostro attacco.»
«Sanno che siamo qui ad aspettarli?» chiese al-Salida. «E come fanno a
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saperlo?»
«Abbiamo avuto una spia tra di noi. Un ufficiale ferenghi. Un infedele
scaltro e astuto. Egli parla la nostra dolce lingua materna, e può essere
facilmente scambiato per un figlio del Profeta. Da Berber ha cavalcato
verso nord con le nostre schiere. Senz'altro ci ha contati, ha compreso le
nostre intenzioni, ed è ritornato tra gli infedeli.»
«Qual è il suo nome? Come fai a sapere tante cose di lui?» «Si chiama
Abadan Riji. Rischiai di morire sotto la sua spada a El Obeid. È il mio
nemico giurato.»
«Perché non l'hai ucciso in quella circostanza?» domandò al-Salida in
tono ragionevole.
«È scivoloso come un'anguilla di fiume. Due volte mi è sgusciato dalle
mani», disse Osman. «Ma questo è accaduto ieri. Oggi è oggi, e conteremo
i morti al tramonto di questo giorno.»
«Non è detto che gli infedeli oggi ci daranno battaglia», gli fece notare
al-Salida.
«Guarda!» Osman passò il suo cannocchiale ad al-Salida. Il vecchio lo
impugnò al contrario, guardando nella lente grande. Nonostante non
vedesse nulla se non il vasto cielo azzurro, fece finta di niente. Osman
sapeva che lui conosceva ben poco dei giocattoli degli infedeli, quindi per
evitare di metterlo in imbarazzo gli descrisse la scena nell'accampamento
britannico.
«Vedi come i furieri distribuiscono munizioni?»
«In nome di Dio, hai ragione», disse al-Salida inclinando il cannocchiale
di diversi gradi nella direzione sbagliata.
«Vedi che portano le mitragliatrici Nordenfelt?»
«Nel nome del santo Mahdi, hai ragione!» Al-Salida picchiò la fronte sul
telaio d'ottone del cannocchiale e lo abbassò per strofinarsi il punto
contuso.
«Vedi come si raggruppano gli infedeli, e odi lo squillo della tromba che
chiama all'avanzata?»
Al-Salida alzò lo sguardo e per la prima volta, senza più l'impaccio della
lente, vide chiaramente il nemico. «Nel nome del beato Mahdi, hai
ragione!» disse. «Eccoli che si muovono in forze!»
E così videro i britannici lasciare l'accampamento assumendo
immediatamente la temuta formazione a quadrato per inoltrarsi nella gola
in un'unità compatta. La disciplinata esattezza delle loro manovre faceva
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impressione anche a uomini forgiati nel fuoco come Osman e al-Salida.
«Non hanno via di scampo. Dovranno combattere per arrivare all'acqua,
o perire inghiottiti dal deserto come gli eserciti prima di loro.»
«Non li lascerò arrivare al deserto», dichiarò al-Salida. «Li
distruggeremo con le nostre spade.» Si voltò verso Osman.
«Abbracciami, mio amato nemico, poiché sono vecchio e stanco. Oggi
sembra un bel giorno per morire.»
Osman lo abbracciò e gli baciò le guance incartapecorite. «Quando sarai
in punto di morte, che sia con la spada in mano.» Si separarono e scesero il
versante posteriore della cresta per raggiungere i lancieri che tenevano i
loro cavalli.
Penrod guardò lassù, verso le pareti nere e desolate della montagna che
svettavano ad ambo i lati. Erano aride come mucchi di cenere dell'inferno.
Mentre si facevano strada nel ventre della gola, le rocce comprimevano le
formazioni deformandole. Tuttavia il quadrato proseguì compatto. Penrod
scrutò attentamente le rocce. Non vi era segno di vita, ma sapeva che era
soltanto un'illusione. Rivolse lo sguardo a Yakub. «Osman Atalan è qui»,
disse.
«Sì, Abadan Riji.» Yakub sorrise e l'occhio destro andò per conto suo.
«È qui. Si sente nell'aria il dolce profumo della morte.» Inspirò a fondo.
«Mi piace ancor di più del profumo della farfallina.»
«Soltanto tu, lascivo e sanguinario Yakub, puoi unire nello stesso
pensiero amore e battaglia.»
«Ma, Effendi... sono la medesima cosa.»
Continuarono lungo la stretta gola. La paura e l'eccitazione scorrevano
nelle vene di Penrod come vino inebriante. Vide le facce schiette e sincere
dei soldati e si sentì orgoglioso di essere tra loro. Gli ordini e le risposte
venivano scambiati sottovoce negli accenti familiari della patria, così
differenti da sembrare lingue diverse: le cadenze degli Highlands scozzesi
e del West Country, del Galles e dell'Irlanda, di York e del Kent, di
Newcastle e dei quartieri popolari di Londra, e poi le raffinate intonazioni
delle scuole di Eton e di Harrow.
«Ci attenderanno dall'altra parte del passo», disse Yakub. «Osman e alSalida vorranno far combattere i loro cavalieri in campo aperto.»
«Al-Salida è l'emiro della tua tribù, perciò conosci bene il suo modo di
agire», replicò Penrod.
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«Sì, è stato il mio emiro... cavalcavo con il suo gruppo di predoni e
mangiavo con lui intorno allo stesso fuoco. Fino al giorno in cui il suo
primogenito violentò la mia sorella minore. Li accoltellai entrambi, poiché
era stata lei a provocarlo. Ora tra me e al-Salida vi è del sangue. Se non
sarà lui a uccidermi prima, un giorno lo ucciderò io.»
«Oh, paziente e vendicativo Yakub... Forse quel giorno è giunto.»
Cavalcarono nello stretto canale della gola finché i lati si aprirono come
le fauci di un mostro. Eppure non videro alcun segno di vita fra le colline
bruciate, morte: né un uccello né una gazzella. La tromba squillò a
comandare l'alt e il quadrato sghembo dello schieramento si fermò
bruscamente.
I sergenti cavalcarono lungo i lati per ripristinare la formazione.
«Chiudete sulla destra!» «Mantenete la distanza.» «Allineatevi a sinistra.»
Tempo qualche minuto, la formazione ritornò inappuntabile. Gli angoli
erano meticolosamente retti, e gli intervalli precisi. Le file di baionette
scintillavano sotto il sole implacabile: i volti degli uomini in attesa erano
rossi e sudati ma neanche uno di loro staccò la borraccia per bere. Bere
senza aver ricevuto l'ordine di farlo era un crimine passibile di corte
marziale. Dalla groppa del suo cammello, Penrod studiò il terreno davanti
a lui. Oltre l'imbuto delle colline si apriva una pianura vasta e piatta. Il
terreno era coperto di sassolini di quarzo bianco e tempestato di cespugli
salati anneriti dal sole. All'estremità di questa distesa sorgeva un piccolo
palmeto che sembrava ormai fossile per la vecchiaia.
Ottimo territorio per la cavalleria, pensò Penrod, e rivolse di nuovo
l'attenzione alla trappola delle colline su entrambi i lati. Apparivano senza
vita, ma nello stesso tempo gravide di minaccia. Tremolavano nei miraggi
della calura come segugi che si siano fermati di colpo per l'odore della
selvaggina, e aspettino soltanto di essere liberati dal guinzaglio per correre
con la lingua penzoloni.
Le rocce erano spaccate da gole e uadi, pendii sassosi e rientranze
profonde. Alcuni punti erano soffocati da massi e ghiaione, altri ricoperti
di sabbia come il suolo di un'arena per la corrida. Yakub ridacchiò
sommessamente e con la punta del pungolo da cammello indicò uno di
questi ultimi. Non c'era bisogno di parole. Le impronte di mille cavalli
segnavano la superficie della sabbia. Erano talmente fresche che ogni
segno di zoccolo era nitidamente delineato, e l'angolatura bassa del sole le
definiva con una netta ombra azzurra.
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Penrod alzò lo sguardo e vide le cime frastagliate delle colline.
Erano appuntite come zanne di un vecchio coccodrillo contro un cielo di
un azzurro delicato come un guscio d'uovo. In quel momento qualcosa tra
le rocce si mosse, e l'occhio di Penrod vi balzò sopra. Era un punto
minuscolo, e il movimento non era più appariscente di una pulce tra il pelo
del ventre di un gatto nero.
Penrod estrasse il suo piccolo cannocchiale dalla bisaccia di cuoio e lo
mise a fuoco su quel punto. Scorse il capo di un uomo che li guardava
dall'alto. Aveva il turbante nero e la barba nera, che ben si mimetizzavano
con la roccia. Era troppo lontano perché potesse distinguerne i lineamenti.
L'uomo girò la testa, forse per dare un ordine a quelli che erano dietro di
lui. Dopo di che apparve un'altra testa, e poi un'altra, finché lungo
l'orizzonte ci fu tutta una linea di teste umane, come perline attaccate a un
filo.
Penrod abbassò il cannocchiale e prima che potesse aprire la bocca per
dare l'allarme sentì l'aria pulsare dell'angosciante battito dei tamburi di
guerra dei dervisci. Gli echi rimbalzarono dalle rocce e con miracolosa
subitaneità l'esercito del Mahdi sbucò da tutte le cornici, le gallerie e le
creste del passo. La figura centrale si stagliava sulla vetta più alta. La sua
jibba luccicava candida nel sole, il turbante era di uno scuro verde
smeraldo. Alzò il fucile con una mano puntandolo verso il cielo. Nell'aria
si alzò un fumo grigio come il respiro di una balena seguito dal rumore
degli spari. Un urlo potente salì dai ranghi serrati dei dervisci: «La ilaha
illallah! Esiste un solo Dio!»
Gli echi risposero: «Dio! Dio! Dio!»
La tromba al centro del quadrato britannico emise una nota stridula e
penetrante, alla quale le truppe reagirono con precisione ed efficienza
consumate. I cammelli si abbassarono, inginocchiandosi in linee ordinate e
formando in un istante le mura esterne della fortezza vivente. Gli animali
da soma e i loro conducenti indietreggiarono e si accovacciarono in una
massa compatta al centro. Rappresentavano il cuore dello schieramento.
Svelti, gli artiglieri presero dai cammelli da soma le mitragliatrici
Nordenfelt e le trasportarono barcollando in direzione dei quattro angoli,
da dove avrebbero potuto sparare d'infilata lungo il fronte di ciascun muro
esterno del quadrato. Il generale Stewart e il suo stato maggiore presero
posto appena dietro la linea più avanzata. Le staffette si misero in
ginocchio accanto a loro, pronte a correre verso qualsiasi angolo del
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quadrato per trasmettere gli ordini del generale.
Un silenzio mortale si posò su quel consesso di guerrieri. Le schiere dei
dervisci guardavano dall'alto, e sembrava che il tempo si fosse fermato.
Poi un cavaliere derviscio, solo uno, uscì dall'imboccatura rocciosa dello
uadi principale. Si fermò al limite del tiro dei fucili, rivolto verso il
quadrato. Alzò in aria lombeyya, il ricurvo corno da guerra d'avorio, il cui
suono echeggiò nitido e profondo tra le rocce.
Dall'apertura di ogni uadi e di ogni comba dilagò allora l'esercito
derviscio, schiera dopo schiera, a mille a mille, con cammelli e cavalli.
Continuavano a uscire, mulinando in formazioni approssimative,
schierandosi di fronte al piccolo quadrato. Pochi erano vestiti o armati
nella stessa maniera: brandivano lance e giavellotti, asce e scudi rotondi di
cuoio, fucili, jezail e i temutissimi spadoni. I tamburi suonarono di nuovo,
un battito lento e ritmico. Le schiere dei dervisci avanzarono.
«Aspettateli, ragazzi.» I sergenti camminavano senza fretta dietro il
fronte del quadrato.
«Ragazzi, non sparate.»
«Non c'è fretta. Ce n'è per tutti.» Le voci erano calme, quasi scherzose.
I rulli di tamburo si fecero più forti e le linee dei dervisci cominciarono a
correre al trotto, e gli Ansar più avanzati a urtarsi per arrivare primi a
contatto con il quadrato. Accelerarono ancora, e ormai le fitte orde di
fanatici sembravano riempire la valle. Fra un crescendo di tamburi e un
rimbombar di zoccoli la polvere si alzò in un miasma soffocante.
Risuonarono le grida di guerra.
«Fermi, ragazzi, fermi!» Tranquille voci inglesi in risposta agli ululati
pagani.
«Non sparate, ragazzi!» Penrod riconobbe la voce chiara e fanciullesca
di Percy Stapleton che gridava al suo plotone, trattenendo a fatica la voglia
di combattere: «Calmi, Blues!»
Questo monello si crede a una gara di canottaggio. Penrod sorrise fra sé.
Il rullo dei tamburi aumentò mentre gli ombeyya stridevano e ululavano. I
cavalieri dervisci spronavano verso il quadrato come flutti da una diga
infranta.
«Pronti a sparare! Fuoco di fila, ragazzi!» urlarono i sergenti.
«Secondo il manuale, ragazzi. Ricordatevi le esercitazioni.»
«Fuoco di fila! Non sprecate nessun colpo.»
Penrod si era messo a osservare uno sceicco che montava uno slanciato
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cammello fulvo. Si era spinto ben oltre la prima linea della carica quando
spalancò la bocca nel grido di guerra, lasciando intravedere uno spazio
pronunciato tra gli incisivi. Arrivò a cento metri dal quadrato, poi a
settanta, poi a cinquanta, lanciato in un galoppo sfrenato.
Dolce e acuta, la tromba squillò.
«Fuoco di fila! Prima fila, fuoco!»
Ci fu quella breve pausa, tipica delle truppe perfettamente addestrate,
mentre ogni uomo prendeva la mira. Penrod individuò lo sceicco con i
denti separati. Si sentì una scarica assordante di fucileria che centrò in
pieno la prima ondata di nemici alla carica: l'uomo di Penrod si prese una
pallottola in pieno petto e cadde all'indietro dalla sella. Il suo cammello
invertì la corsa andando a scontrarsi con due cavalli che arrivavano da
dietro e abbattendosi a terra con uno di essi.
«Seconda fila, fuoco di fila. Fuoco!» I fucili tuonarono ancora. Il rumore
delle pallottole che colpivano la carne sembrava quello dell'argilla bagnata
scagliata contro un muro di mattoni. La carica dei dervisci vacillò, perse
impeto.
«Terza fila, fuoco di fila», urlarono i sergenti. «Fuoco!»
Le pallottole mandarono in confusione i dervisci. Si videro animali
senza cavaliere scartare e imbizzarrirsi, guerrieri barbuti che imprecavano
e lottavano per liberarsi il cammino, cadaveri e feriti calpestati e scalciati
dagli zoccoli. In quel momento si assommò al fragore il crepitio
implacabile delle Nordenfelt. Il loro fuoco disintegrò la massa,
scompaginandola in piccoli gruppi isolati come un barracuda che
attraversa un branco di sardine.
«Prima fila, fuoco di fila. Fuoco!» Gli ordini si ripetevano. Le
compagnie ricaricavano, miravano e sparavano con la precisione di una
macchina. La carica si interruppe, si spezzò e i sopravvissuti rifluirono
verso le rocce come una marea. Ma prima che le raggiungessero, i tamburi
chiamarono e gli ombeyya squillarono: «Tornate! Per Allah e per il Mahdi,
tornate alla battaglia!»
Nuove orde uscirono di fra le rocce per rafforzare le schiere decimate: si
ricompattarono invocando Dio a una voce e caricarono di nuovo,
irrompendo sul terreno tormentato dove giacevano molti loro compagni,
per lanciarsi a infrangere il quadrato britannico.
Ma il quadrato britannico non si infrangeva. I sergenti scandivano il
tempo delle raffiche. Le canne delle mitragliatrici Nordenfelt
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cominciavano a essere incandescenti come ferri di cavallo in una fucina.
Osman Atalan aveva detto ad al-Salida che bisognava ingozzarle di
cadaveri per tappar loro la bocca.
Le Nordenfelt si ingozzarono di carne umana fino a che non fu troppo, e
l'una dopo l'altra si incepparono. Appena cessò il loro crepitio, i cavalieri
dervisci arrivarono a ridosso della schiera di luccicanti baionette. Ma il
fuoco di fila continuava a massacrarli: si batterono, ma furono falciati
finché anche il loro coraggio e la loro tenacia si esaurirono, e dovettero
ripiegare verso le rocce.
Dall'alto, al-Salida contemplava il quadrato ancora intatto.
«Questi non sono uomini», disse, «sono jinn. Come può un uomo
uccidere un demonio?»
«Con il coraggio e la spada», replicò Rufaar, il maggiore dei suoi figli
ancora in vita. I primi due erano rimasti uccisi, l'uno durante una guerra
tribale, l'altro in un duello per una donna. La morte di quest'ultimo non era
ancora stata vendicata.
Rufaar aveva trentatré anni e discendeva da una schiatta di guerrieri.
Aveva ucciso con la spada più di cinquanta uomini. Era come suo padre
alla sua età: di insaziabile ferocia. Dietro di lui c'erano tre dei suoi fratelli
minori. Erano della stessa stirpe, e anche in loro il sangue di al-Salida non
mentiva.
«Permetti ch'io guidi la prossima carica, riverito padre», pregò Rufaar.
«Lasciami fare a pezzi questi mangiatori di maiale. Ch'io cicatrizzi questa
ferita aperta nel cuore dell'Islam.»
Al-Salida lo guardò: era una bella vista agli occhi di un padre.
Scosse la testa. «No!» Quell'unica parola di rifiuto penetrò più a fondo
di qualunque lama del nemico. Rufaar fece una smorfia di dolore. Si
inginocchiò a baciare il piede impolverato di suo padre. «Non chiedo altra
benedizione. Permettimi di guidare la carica.»
«No!» Al secondo diniego di al-Salida, Rufaar si fece scuro in volto.
«Non ti consentirò di guidarla, ma potrai cavalcare al mio fianco.»
L'espressione di Rufaar si rasserenò. Balzò in piedi e abbracciò suo padre.
«Che ne sarà di noi?» chiesero in coro gli altri tre figli. «Che ne sarà di
noi, amato padre?»
«Voi fanciulli potrete cavalcare alle nostre spalle.» E al-Salida rivolse ai
figlioli uno sguardo truce per celare il suo affetto. «Forse Rufaar e io vi
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getteremo gli avanzi della festa. Ora, riportatemi il mio cammello.»
«Portaferiti!» Il richiamo risuonò in vari punti della prima linea del
quadrato, dove le truppe erano state investite dal fuoco dei dervisci. I feriti
furono trasportati velocemente al centro e la formazione si richiuse. I
medici operarono tra la polvere e le mosche, con le maniche arrotolate fino
ai gomiti. I feriti ancora in grado di reggersi in piedi tornarono alle loro
posizioni nel quadrato.
«Borracce!» Il grido si trasmise lungo la formazione. Le staffette
percorsero il perimetro riempiendo d'acqua le borracce vuote ricoperte di
feltro.
«Munizioni!» I furieri si mossero lungo i lati del quadrato distribuendo i
pacchetti di cartone.
I serventi armeggiavano con le mitragliatrici per liberare gli ingranaggi,
bagnando nel frattempo di preziosa acqua le canne per raffreddarle.
L'acqua evaporava sibilando, il metallo schioccava e cigolava. Gli
ingranaggi però erano saldamente bloccati e non si smuovevano nemmeno
prendendoli a strattoni e martellate.
A un tratto, nel mezzo di tutta quell'attività frenetica, la tromba squillò di
nuovo. «Pronti!» urlarono i sergenti.
«Stanno tornando!» La cavalleria derviscia sbucò da dietro la roccaforte
delle colline. Come una grande onda che monta dietro la spuma, si
disponeva di fronte al quadrato lungo la base delle alture.
«Ecco il tuo nemico», mormorò Penrod a Yakub. Lo stendardo rosso
ondeggiava al centro dello schieramento, trasportato da due giovinetti
dervisci.
«Sì», annuì Yakub. «Ecco al-Salida col suo turbante blu. Quello scarno
sciacallo che gli cavalca al fianco è suo figlio, Rufaar. Devo uccidere
anche lui. I due che recano la sua bandiera sono altri suoi mocciosi. Non
trarrò alcun onore dall'ucciderli, niente di più che schiacciare una pulce
con le unghie... ma deve essere fatto.»
«Quindi ci resta ancora molto da lavorare», sorrise Penrod mentre
lacerava un altro pacchetto di proiettili, riempiendo le tasche della sua
bandoliera.
«Al-Salida è uno sciacallo vecchio e scaltro», mormorò Yakub. «Per il
dolce respiro del Profeta, impara presto. Ha visto come abbiamo fermato le
loro prime cariche. Guarda! Ha rafforzato il centro.»
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Penrod capì cosa voleva dire. Al-Salida aveva modificato la formazione.
La linea non era disposta uniformemente. I fianchi erano profondi due sole
file, ma al centro aveva formato un nucleo possente, come un martello di
sei file compatte.
Dall'altro lato dello schieramento, il generale Sir Herbert Stewart studiò
l'emiro con il cannocchiale. «Sembra molto vecchio e fragile.»
«È vecchio... ma non fragile, signore», osservò Hardinge. «Guidò alla
testa di soli cinquanta uomini la carica che distrusse gli egiziani di
Valentine Baker, a Suakin. È accaduto meno di due anni fa. Il vecchio
cane ha ancora denti.»
«Quindi dovremo cavarglieli», mormorò Stewart. «Sta arrivando,
signore.» «Eccome, sta arrivando», convenne Stewart. Le schiere dei
dervisci procedevano con i cavalli al trotto e i cammelli a un passo
sostenuto; gli uomini li montavano brandendo le armi e cantando i loro
gridi di guerra. Una tempesta di polvere si alzò alle loro spalle. Superata la
metà della distanza, passarono al piccolo galoppo. Le linee erano strette
come un pugno. Il terreno antistante era seminato dei loro stessi morti, che
giacevano fitti come fiori di ciliegio sparpagliati dal vento in un frutteto.
Le loro jibba variopinte recavano macchie fresche più scure delle toppe
ornamentali, e uno sciame blu di mosche si levò quando la terra fu scossa
dal fragore della carica. Gli zoccoli della prima linea calpestarono i
cadaveri seminando nuovo strazio tra i corpi insanguinati e procedendo
oltre, senza riguardo.
Al centro, al-Salida si chinò in avanti sulla sella del suo cammello
grigio. Aveva ancora il fucile nel fodero sotto il ginocchio, ma brandiva il
pesante spadone come se fosse un giocattolo. Non lanciò nessun grido di
guerra, risparmiando il poco fiato che aveva per lo scopo più importante.
Aveva un'espressione estatica, e un rivolo gli scorreva dagli occhi iniettati
di sangue scivolandogli per le guance fino alla barba argentea. Costituiva
un vistoso bersaglio per i fucili che lo aspettavano. La prima scarica si
abbatté sulla cavalcata spazzando via uomini e animali, ma al-Salida e i
suoi figli proseguirono illesi. Altri guerrieri vennero spinti avanti dalle
retrovie a colmare i vuoti appena in tempo per ricevere la scarica
successiva, e quella dopo ancora. Ma al-Salida avanzava sempre.
Sul fianco sinistro, una mitragliatrice Nordenfelt cominciò a sparare
tagliando letteralmente a fette l'impeto dei dervisci. Poi, quasi subito, si
inceppò di nuovo e tacque. Ma i Martini-Henry facevano fuoco
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all'unisono, senza mai perdere quel loro ritmo incessante, terribile. I
cammelli colpiti mugghiavano abbattendosi al suolo. I cavalli
s'impennavano, retrocedevano e crollavano schiacciando i cavalieri sotto il
loro peso. Ma nel centro della formazione di al-Salida, nuovi guerrieri
galoppavano avanti alimentando la forza della carica. Il vecchio
comandante giunse a sei metri dalla linea dello schieramento britannico, il
punto dove i precedenti attacchi si erano arenati senza speranza. Il
ginocchio di Rufaar toccava il suo, e gli altri figli lo seguivano quasi
altrettanto da vicino. Anche se già tre linee del centro derviscio erano state
fatte a pezzi, altri valorosi si precipitavano avanti senza freno, per dar peso
al martello nel momento in cui si abbatteva contro il fragile muro del
quadrato.
«Questa volta spezzeremo quei cani», rise Rufaar.
Ma il quadrato britannico non si spezza mai. Persino ora ebbe un lieve
cedimento, come si può piegare una spada d'acciaio di Damasco, ma non si
frantumò. Come l'onda si frange su una salda barriera corallina, i nemici
invasero la prima linea. Corpi in divisa cachi cadevano sotto il mulinare
delle spade brandite e i proiettili sparati dai dervisci dall'alto dei cammelli.
Ma a poco a poco il martello di al-Salida perse la sua potenza. Rallentò, si
fermò, e alla fine esaurì tutta la forza, tutta la sua furia contro la seconda
linea del piccolo quadrato. I grandi uomini nelle giubbe cachi madide di
sudore prima ressero all'urto, e poi li ricacciarono.
La cavalleria dei dervisci fece dietrofront, e fuggì in direzione delle
rocce.
Al-Salida vacillava sulla sella. Una baionetta gli era penetrata a fondo
nel corpo, sopra l'anca. Sarebbe forse caduto se Rufaar non lo avesse
raggiunto e sorretto con un braccio intorno alle spalle, guidandolo al riparo
dello uadi. «Sei gravemente ferito, padre.» Cercò di sollevarlo per farlo
smontare.
«La battaglia è appena cominciata.» Al-Salida allontanò la mano del
figlio. «Aiutami a fasciare questa scalfittura, poi torneremo indietro a
terminare il compito che Dio e il Mahdi ci hanno affidato.»
Con il suo lungo turbante blu, bendarono la ferita del vecchio così stretta
che il flusso di sangue si fermò; e le fasce gli bloccarono la schiena in
modo da permettergli di ergersi di nuovo sulla sella.
«Suonate i tamburi», ordinò al-Salida. «Suonate l'ombeyya.
Torniamo in battaglia!»
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Osman Atalan si fece avanti in sella a Hulu Mayya, Acqua Dolce. La
sua divisione di Beja attendeva di riserva, pronta a intervenire nel
momento in cui al-Salida e i suoi Jaalin avrebbero aperto la breccia.
«Riverito e grande guerriero, hai fatto più di qualunque altro uomo prima
di te... ora permettimi di guidare i miei Beja a finire il lavoro che hai così
ben cominciato.»
«Sarò io ad aprire la breccia», gli rispose severamente al-Salida. «Tu
puoi seguirmi, come abbiamo stabilito.»
Osman guardò quel volto fiero e capì che discutere non sarebbe servito a
nulla. Se avessero aspettato ancora un minuto, la giornata sarebbe stata
persa; ma il muro britannico era quasi abbattuto. Attaccando di nuovo nel
medesimo punto, senza dar tempo al nemico di raccozzare le difese, forse
potevano farcela.
«Allora avanza, nobile emiro. Ti seguirò da presso.»
L'esercito derviscio al completo, due divisioni intere, dilagò per la terza
volta dalle colline contro l'esigua schiera dei britannici. La figura emaciata
cavalcava fra le avanguardie, avvolta in una jibba insanguinata, a capo
scoperto, i capelli grigi che le coprivano le spalle. Gli occhi scintillavano
febbrili, come quelli di un santo o di un pazzo.
Stewart si rivolse al suo stato maggiore. «Signori, sposteremo la nostra
posizione per andare incontro a questi bravi ragazzi. Non mi aspettavo un
attacco così pesante al nostro muro posteriore. Tuttavia, sembra che non ne
abbiano avuto abbastanza.»
Si allontanarono in gruppo mentre arrivava Hardinge a far rapporto. «I
dervisci ci hanno provocato non pochi danni con la loro ultima carica,
signore. Abbiamo perso cinquantacinque uomini, fra morti e feriti. Tre
ufficiali caduti: Elliot, Cartwright e Johnson. Altri due sono stati feriti.»
«Le munizioni?»
«Ancora in abbondanza, ma tutte e quattro le Nordenfelt sono fuori
uso.»
«Dannati catenacci. Avevo richiesto delle Gatling! Che mi dite
dell'acqua?»
«Sta terminando. Dobbiamo raggiungere i pozzi prima che sopraggiunga
la notte.»
«Sarebbe questa la mia intenzione.» Poi Stewart indicò la massiccia
cavalleria derviscia dispiegata ai piedi delle colline. «Sembra proprio che
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stiano per attaccare con tutte le forze. Un ultimo, disperato azzardo. Voglio
che passiate l'ordine agli altri tre muri di tenere un uomo su quattro di
riserva, nel caso quelli riuscissero a entrare.»
«Oh, ma non entreranno mai, signore.»
«Certo che no... ma in ogni caso, formate la riserva: un uomo ogni
quattro.»
Durante la battaglia i dervisci avevano martellato il lato settentrionale
del quadrato. Gli uomini degli altri tre muri avevano affrontato solo la
prima carica; in seguito, avevano avuto soltanto una piccola parte nella
battaglia. Erano irrequieti e delusi. Ora, di fronte a questa nuova minaccia,
i sergenti percorsero le file comunicando l'ordine agli uomini prescelti. Se
il nemico fosse riuscito a forzare un muro, bisognava evitare lo
sfondamento del quadrato. Gli altri tre muri dovevano restare fermi,
mentre un soldato ogni quattro della loro forza sarebbe accorso a colmare i
vuoti e a chiudere la breccia nello schieramento. Prima che fossero pronti,
i tamburi di guerra cominciarono il loro frenetico rullio e si udirono gli
squilli striduli degli ombeyya. La cavalleria derviscia si catapultò di nuovo
avanti.
Senza truppe al suo diretto comando, Penrod ebbe il tempo di alzare
verso il sole gli occhi socchiusi. È già passato mezzogiorno, pensò con
stupore. Sono più di tre ore che siamo in ballo.
Vicino a lui, Yakub scalpitava. «Se al-Salida non viene nella mia
direzione, qualcun altro lo ucciderà prima di me.»
«Speriamo che non finisca così, caro Yakub.» Penrod sollevò il suo
casco, si asciugò la fronte con un fazzoletto e si rimise il copricapo sulle
ventitré, poi guardò davanti a sé mentre il frastuono degli zoccoli e il
vociare degli arabi innalzavano un'assordante sinfonia bellicosa.
«Prima fila, fuoco di fila. Fuoco!» I sergenti iniziarono la loro litania, e a
intervalli regolari tuonarono i fucili. Le orde a cavallo vacillarono e
rallentarono sotto le scariche, ma non cedettero, trascinandosi per gli
ultimi metri fino a entrare in contatto con il muro per la seconda volta.
Come tori scatenati, i due eserciti nemici si scornarono, scartarono e
spinsero, trafissero e menarono fendenti.
I britannici cedettero appena, ma si ripresero. I soldati bianchi erano
valenti con le baionette inastate ai fucili, armi più lunghe e insieme più
maneggevoli rispetto agli spadoni. Per la seconda volta in quella giornata,
la divisione di al-Salida diede segno di cedere. I soldati lavorarono di
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baionetta corpo a corpo, e alcuni cedettero sotto le pesanti lame da crociati,
ma i rimanenti non mollarono la presa e i dervisci persero terreno più
rapidamente.
In quel momento giunse Osman Atalan, cavalcando alla testa delle sue
riserve. Si unì ad al-Salida lanciandosi con tutta la sua potenza nella
mischia. I suoi Beja erano una valanga inarrestabile.
«Sono entrati!» Lungo le file britanniche si alzò un grido terribile.
L'impensabile era accaduto. Il quadrato britannico era rotto. I dervisci vi
penetrarono esultanti. Ricacciarono indietro la linea cachi e il caos regnò
sovrano sulla moltitudine di uomini che combattevano.
Uno a uno, i soldati britannici cadevano morti sotto le lame dei dervisci
e gli zoccoli delle cavalcature.
«Esiste un solo Dio!» gridavano gli aggagir uccidendo senza
remissione.
In breve, i militari dell'infranto muro settentrionale si trovarono ridotti in
piccoli gruppi di tre o quattro uomini a reggere la foga degli aggagir di
Osman Atalan. Mentre venivano respinti indietro, Penrod corse per
raggiungerli, raggruppando sotto il suo comando alcuni di quelli che erano
rimasti isolati. «Qui attorno a me, ragazzi. Schiena contro schiena, spalla
contro spalla», gridò.
Gli uomini riconobbero la sua autorità e il suo carisma, e lottarono per
raggiungerlo. Insieme formarono un'unità compatta, come un riccio
spinoso di baionette nella furia della battaglia.
Anche gli altri ufficiali cercavano di radunare i dispersi. Hardinge aveva
messo insieme una dozzina d'uomini e i due gruppi si unirono. Non erano
più due piccoli ricci, bensì un feroce istrice dagli aculei d'acciaio.
Un arabo in sella a un alto cammello nero si scagliò contro di loro, e
prima che potessero bloccarlo conficcò la lancia nel ventre di Hardinge.
Hardinge lasciò cadere la sua spada e afferrò l'asta della lancia con ambo
le mani. L'arabo ne teneva ancora l'estremità e Hardinge con un solo
slancio lo rovesciò dalla sella. I due caddero insieme, in un groviglio.
Penrod afferrò la spada che Hardinge aveva lasciato cadere e la piantò tra
le scapole del derviscio. Hardinge tentò di alzarsi, ma ormai la punta della
lancia gli era penetrata in profondità nei visceri. Provò a estrarla, ma non
vi riuscì. Cadde di nuovo, si accasciò e chiuse gli occhi, ancora afferrando
l'asta con tutt'e due le mani.
Penrod rimase ritto sopra di lui per proteggerlo, mentre i suoi uomini
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chiudevano i varchi a entrambi i lati. Sentì il piacere di avere di nuovo tra
le mani una bella sciabola: la lama era meravigliosamente bilanciata e
temprata, e nelle mani di Penrod prese vita. Un altro derviscio lo attaccò
mulinando uno spadone sopra la testa. Penrod con la sciabola incrociò la
pesante lama all'apice della traiettoria, deviandola di fianco alla sua spalla.
Il fendente tagliò la stoffa della manica, ma non lo ferì. Prima che il
derviscio riprendesse l'equilibrio, Penrod lo uccise piantandogli la lama
nella gola. Ebbe un attimo per guardarsi intorno: il suo piccolo gruppo non
cedeva di un passo. Le lame delle loro baionette erano smussate, le braccia
nere per i grumi di sangue arabo. «Avanti, ragazzi!» chiamò Penrod.
«Turate la breccia!»
«Presto, ragazzi! Leviamoci di torno questi signori!» La voce che gridò
queste parole a Penrod suonò familiare. Era quella di Percy Stapleton, ora
accanto a lui. Aveva perso il casco e i capelli ricciuti erano scuri di polvere
e sudore, ma sorrideva come una scimmia demente mentre squarciava e
infilzava un altro derviscio, per poi finirlo con un colpo netto allo sterno.
Penrod capì subito che Percy era uno spadaccino nato. Quando un
derviscio fece per colpirlo alle ginocchia, Percy evitò la lama con un agile
salto e raggiunse l'arabo al collo, quasi mozzandogli la testa. Il derviscio
lasciò cadere lo spadone e cercò di afferrarlo alla gola, ma Percy lo abbatté
con un veloce affondo.
«Ben fatto, signore.» Penrod era lievemente impressionato.
«Siete troppo gentile, signore.» Percy si scostò con la mano i capelli
dagli occhi. I due si guardarono intorno in cerca del prossimo avversario.
Ma d'un tratto, in maniera quasi subitanea, l'assalto dei dervisci perse
vigore, rallentò, esitò: si sospinse in avanti un'altra volta, ma solo per
scontrarsi con la massa di cammelli accovacciati delle salmerie britanniche
e fermarsi lì. Le due parti avverse parvero incastrarsi e immobilizzarsi nel
corpo a corpo, come pugili stanchi alla decima ripresa, troppo esausti per
sferrare un altro pugno.
«Riserva! Avanti!» In quel momento delicato e cruciale, il generale
Stewart prese il comando di un soldato su quattro dei tre muri più saldi. La
sua riserva lo seguì di corsa. Spada in pugno, avanzò sulle sue lunghe
gambe da fenicottero e guidò la controffensiva attorno al baluardo dei
cammelli inginocchiati, assalendo sul fianco sinistro i dervisci bloccati. I
gruppi esausti e sparsi di soldati britannici, vedendoli arrivare, si
rianimarono e si gettarono di nuovo nella mischia. Il quadrato ferito
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incominciò a contrarsi e a riparare la lacerazione nel tessuto esterno.
Osman Atalan sapeva con la sicurezza del guerriero quando una
battaglia era perduta. Girò il cavallo e insieme ai suoi aggagir si aprì
combattendo un varco per sfuggire prima che la trappola si chiudesse su di
loro. Galopparono via per trovare riparo fra le colline, abbandonando alSalida e i suoi figli nell'inferno del quadrato britannico.
Al-Salida era ancora in groppa al suo cammello, ma la ferita sopra l'anca
si era riaperta e il sangue gli colava lungo la gamba. Aveva il volto giallo
come fango di una fonte sulfurea, e la spada gli era caduta dalla mano
tremante. Alle sue spalle, Rufaar si sporse per cingergli con un braccio la
vita e tenerlo eretto, malgrado le impennate del cammello atterrito. AlSalida era debilitato dalle ferite e sconvolto, perché aveva visto morire i
suoi figli più giovani trafitti dalle baionette britanniche. Li cercava con gli
occhi smarriti di un bambino, ma i loro corpi straziati erano finiti chissà
dove, calpestati da zoccoli impietosi.
Yakub scorse uno spazio tra le file dei dervisci che si voltavano per
sostenere l'urto delle riserve di Stewart. «Ho degli affari privati da
sbrigare, Effendi», urlò in direzione di Penrod, il quale non lo vide
allontanarsi perché, al fianco di Percy Stapleton, era alle prese con altri tre
dervisci inferociti.
Mentre correva verso il cammello di al-Salida, Yakub sfilò uno spadone
dalla mano di un arabo morto. Il cammello scalciava e s'impennava. Yakub
evitò gli zoccoli che percuotevano l'aria e avrebbero potuto ucciderlo con
un sol colpo, e, impugnando lo spadone con due mani, recise i tendini di
una delle zampe posteriori. L'animale muggì e si scagliò in avanti su tre
zampe, ma Yakub lo colpì un'altra volta, recidendo il garretto dell'altra
zampa posteriore. La bestia si accasciò all'indietro disarcionando al-Salida
e Rufaar. Rufaar, che sorreggeva ancora suo padre, si adoperò per attutire
il colpo mentre cadevano ai piedi di Yakub. Rufaar alzò lo sguardo e lo
riconobbe. «Yakub bin Affar!» sibilò con la voce inasprita da un odio
amaro. Non poteva difendersi, avendo entrambe le mani occupate a
sostenere il padre.
«Il mio nemico!» dichiarò semplicemente Yakub, e lo uccise,
piantandogli lo spadone nel petto fino all'elsa. Poi estrasse il pugnale,
afferrò al-Salida per la barba argentea e gli rovesciò la testa scoprendo la
gola. Non trafisse la trachea, ma passò la lama affilata lungo il lato del
collo flaccido del vecchio. Gli recise di netto la carotide sotto l'orecchio,
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senza fare nulla per evitare che il getto di sangue vivo gli sprizzasse sul
volto e sulle mani.
«Ora ella è vendicata», bisbigliò Yakub mentre si aspergeva la fronte
con il sangue. Non pronunciò il nome della sorella, poiché si era condotta
come una baldracca, e molti valorosi erano morti per causa sua. Lasciò
andare la barba di al-Salida, il cui volto ricadde nella polvere. Lì lo lasciò,
disteso accanto al figlio, e ritornò da Penrod.
La breccia nel quadrato britannico si richiudeva sui dervisci come la
bocca di un anemone di mare con i pesci intrappolati nei tentacoli. Ma gli
arabi non chiesero pietà. Il martirio era l'unica strada per la vita eterna
tanto desiderata. Gli uomini di Stewart sapevano che non si sarebbero mai
arresi: come un serpente velenoso ferito, avrebbero colpito anche la mano
pietosamente tesa ad aiutarli.
I soldati colpivano senza remissione con baionette e spade. Era un
lavoro pericoloso e sanguinario, poiché dovevano circondare i dervisci e
ucciderli uno a uno. Finché in loro c'era vita, lottavano. Il bagno di sangue
continuò tutto il pomeriggio: prima furiosamente, poi via via con meno
accanimento.
Anche quando sembrava tutto finito, non era così. Tra i mucchi di corpi
alcuni Ansar si fingevano morti, pronti ad attaccare i soldati più incauti. I
britannici persero una decina di uomini a causa di questi furtivi assassini,
prima che il generale Stewart ordinasse l'avanzata. Fecero i conti delle loro
perdite, che erano state ingenti. Portarono con loro novantaquattro feriti e
settantaquattro cadaveri avvolti nelle coperte, nella marcia verso il limitare
della piana, fino al palmeto che segnalava i pozzi di Abu Klea.
Eressero una zareba tra le palme e seppellirono i loro morti, deponendo
con rispetto le file di cadaveri nella fossa comune frettolosamente scavata
nella sabbia. Era ormai sera quando Penrod andò a cercare Hardinge
all'ospedale da campo. «Sono qui per restituirvi la vostra spada», gli disse
poi, porgendogli la magnifica arma.
«Grazie, Ballantyne», rispose Hardinge con un filo di voce. «È un dono
di mia moglie.» Il suo viso era pallido come cera. La barella su cui giaceva
era stata spostata accanto al fuoco perché si era lamentato del freddo. Tese
a stento la mano e toccò la lama, come fosse un addio. «Comunque, credo
che non mi servirà più. Tenetela voi, e usatela come avete fatto oggi.»
«Non l'accetto, signore. Voi marcerete con noi su Khartum», gli assicurò
Penrod, ma Hardinge si accasciò nuovamente sulla barella.
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«Non credo», mormorò. Aveva ragione: morì prima dell'alba. Gli altri
erano troppo esausti per continuare. Benché lo tormentasse il pensiero del
grande uomo che li aspettava da solo a Khartum, Stewart non avrebbe
potuto farli proseguire nelle condizioni in cui si trovavano. Decise di
concedere loro la notte e la mattina seguente per riprendere le forze.
Riposarono fino a mezzogiorno nella scarsa ombra offerta dalle palme
intorno ai pozzi. L'acqua era sudicia e salata quasi come quella marina. La
fecero bollire con del tè nero e l'ultimo zucchero rimasto.
Nella calura snervante del mezzodì, Stewart non osò più aspettare e
diede l'ordine di riprendere la marcia. Caricarono i feriti più gravi sui
cammelli e, quando la tromba squillò per l'avanzata, si misero
faticosamente in marcia su quella terra ardente. Marciarono per tutto il
resto della giornata, e poi di notte. Quando si fermarono, poco prima
dell'alba, avevano percorso ventitré miglia. Ma non potevano più
continuare. Erano sfiniti. Restava solo qualche tazza d'acqua per ogni
uomo. I cammelli erano stremati: nonostante sentissero l'odore del fiume
davanti a loro, non potevano continuare. I feriti erano in condizioni
disperate; Stewart sapeva che sarebbero morti quasi tutti se non avessero
raggiunto l'acqua. Fece chiamare Penrod da un portaordini. «Ballantyne,
mi occorre rifarmi alla vostra conoscenza della zona. Quanto dista il
fiume?»
«Siamo molto vicini, signore. Circa quattro miglia. Lo si potrà
intravedere dalla prossima collina.»
«Quattro miglia...» mormorò Stewart. Guardò la sua armata esausta.
Quattro miglia per loro era come dir cento. Fece per commentare, ma
Penrod lo prevenne.
«Guardate laggiù, signore.»
Sulla sommità dell'altura che li divideva dal fiume apparve una piccola
banda di una cinquantina di dervisci. Gli ufficiali estrassero i cannocchiali.
Attraverso la lente Penrod riconobbe subito lo stendardo di Osman Atalan,
e al centro della banda individuò la sua figura longilinea in sella alla
giumenta chiara.
«Non sono molti», osservò Sir Charles Wilson, vicecomandante di
Stewart, ma in un tono dubbioso. «Dovremmo riuscire a evitarli senza
difficoltà. Non credo che oseranno attaccarci dopo la lezione che gli
abbiamo dato.»
Penrod stava per contraddirlo. Voleva spiegare che Atalan era molto
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astuto: aveva fatto ritirare i suoi uomini dalla battaglia ad Abu Klea prima
che venissero annientati. Le sue vedette dovevano avere osservato il
malconcio quadrato britannico il giorno prima e durante la notte,
aspettando il momento in cui la forza e la resistenza dei soldati britannici e
dei loro cammelli si sarebbe esaurita. Si trattenne a stento.
«Volete dire qualcosa, Ballantyne?» Stewart non abbassò il
cannocchiale, ma percepì la reazione di Penrod.
«L'uomo sulla giumenta chiara è Osman Atalan in persona. Credo che
quel gruppo non viaggi isolato: ad Abu Klea hanno avuto relativamente
poche perdite. Le sue divisioni sono pressoché intatte.»
«Probabilmente avete ragione», concordò Stewart.
«Sulla destra si vede della polvere», notò Penrod. Tutti i cannocchiali si
spostarono in quella direzione. Proprio allora, un'altra orda di centinaia di
cavalieri dervisci apparve sulla sommità. Videro polvere anche a sinistra.
In un baleno il numero dei nemici aumentò da una cinquantina ad alcune
migliaia. Le loro orde erano schierate proprio sulla strada del Nilo.
Stewart abbassò il cannocchiale e lo richiuse con forza. Guardò negli
occhi Sir Charles Wilson. «Propongo di far accampare le salmerie e i feriti
in una zareba e lasciare cinquecento uomini validi a proteggerli. Quindi
formeremo una colonna di otto o novecento fra i nostri migliori soldati, e
punteremo verso il fiume.»
«I cammelli sono sfiniti, signore», disse Wilson. «Non ce la faranno
mai.»
«Me ne rendo conto», ribatté seccamente Stewart. Nutriva la segreta
convinzione che il suo secondo in comando fosse uno che trovava sempre
il pelo nell'uovo. «Lasceremo qui i cammelli con i feriti e procederemo a
piedi.» Ignorò le espressioni di stupore del gruppo e guardò Penrod.
«Quanto tempo stimate necessario per condurci al fiume, Ballantyne?»
«Senza i feriti e le salmerie... due ore, signore», rispose Penrod, con una
sicurezza che in realtà non provava.
«Bene. I comandanti di compagnia dovranno scegliere i loro uomini più
forti e robusti. Ci metteremo in marcia tra quaranta minuti, alle quindici in
punto.»
«Che specie d'uomini sono quelli?» chiese al-Noor con meraviglia. In
sella ai loro cavalli, osservarono quello che restava del quadrato britannico
assumere la formazione e marciare fuori dalla zareba. «Non hanno né
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animali né acqua, eppure proseguono. Nel santo nome di Dio, chi sono
quegli uomini?»
«Sono i discendenti di quelli che ottocento anni fa lottarono contro il
nostro antenato, il Saladino, di fronte a Gerusalemme», rispose Osman.
«Sono gli uomini con la Croce Rossa, come i crociati di un tempo. Ma
sono solo uomini. Guardateli e ricordatevi la battaglia di Hattin.»
«Dovremo sempre ricordarci di Hattin», convennero i suoi aggagir.
«A Hattin, il Saladino intrappolò un esercito sfinito e assetato di uomini
come questi e lo distrusse in un sol colpo. Tanto gravi furono le perdite
subite dagli infedeli che il Saladino strappò dalle loro mani insanguinate
l'intero regno di Gerusalemme, che essi avevano rubato ai credenti nella
vera Fede e tenuto per ottantotto anni.» Osman Atalan si alzò sulle staffe e
puntò la lama del suo spadone verso gli uomini in marcia, così piccoli e
insignificanti su quella piana grigia tutta rocce. «Questo è il nostro campo
di Hattin. Prima che scenda il sole distruggeremo quell'esercito. Nemmeno
uno giungerà vivo al fiume. Per la gloria di Allah e del suo Mahdi!»
Gli aggagir brandirono le spade gridando: «La vittoria è di Dio e del suo
Mahdi!»
Mentre il quadrato britannico arrancava sul modesto pendio, i dervisci
sparirono dietro la sommità. I britannici continuarono a salire. Ogni cento
metri si fermavano per ricomporre il quadrato e recuperare quelli che si
erano attardati. Non potevano lasciarli ai dervisci e al coltello per castrare.
Poi riprendevano la marcia. In una delle pause, Stewart fece chiamare
Penrod. «Cosa c'è dietro la cima? Descrivete il tipo di terreno che ci
aspetta», ordinò.
«Dalla sommità dovremmo vedere il villaggio di Metemma, sulla nostra
sponda», gli spiegò Penrod. «Troveremo una striscia larga circa mezzo
miglio di macchia fitta e dune, poi la riva ripida del Nilo.»
«Dio, vi prego, fate che dalla sommità ci appaiano anche i vapori di
Gordon in attesa lungo le rive del fiume per portarci a Khartum», mormorò
Stewart. Ma mentre parlava, il crinale davanti a loro ebbe una
trasformazione. Di colpo, biancheggiò per tutta la sua lunghezza di
nuvolette di polvere da sparo, come un campo di cotone con i baccelli
maturi che si spaccano sotto il sole cocente. I proiettili Boxer-Henry
sibilarono attorno a loro, arando la terra rossa e scheggiando le rocce di
quarzo bianche.
«Non dovremmo rispondere agli spari, signore? E sgombrare quella
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cresta prima di continuare?» chiese Wilson.
«Non c'è tempo. Dobbiamo continuare l'avanzata», disse Stewart
bruscamente. «Chiamate la mia cornamusa.»
La cornamusa personale del generale Sir Herbert Stewart era un uomo
degli Highlands, come il suo capo. Il suo tartan era lo Stewart da caccia, e
portava il glengarry sulle ventitré con i nastri che gli penzolavano sulle
spalle.
«Suonaci una bella marcia», ordinò Stewart.
«La strada delle Isole, signore?»
«Tu le conosci le mie preferite, è vero, Patrick Duffy?»
Il suonatore marciò venti passi davanti al fronte del quadrato, con il kilt
che ondeggiava e la piva che urlava quella musica trascinante e selvaggia
che accende l'animo guerriero in tutti gli uomini che la ascoltano. I
proiettili continuavano a saettare intorno ai britannici: ogni minuto, un
uomo veniva colpito e cadeva al suolo. I camerati lo rialzavano e lo
sorreggevano. Davanti a quella risoluta avanzata, i cecchini dervisci si
ritirarono finché, finalmente, la sommità rimase silenziosa e deserta. Il
quadrato marciava.
D'un tratto i tamburi nascosti dietro il crinale cominciarono a battere,
cupi e profondi, da far tremare l'aria. Anche il suolo sembrò vibrare
all'unisono. In un frastuono di zoccoli, la cavalleria beja sciamò
sull'orizzonte.
Il quadrato si fermò e serrò i ranghi. L'orda a cavallo andò a scontrarsi
con la prima scarica di colpi e dovette arretrare. La seconda e la terza la
decimarono. A quel punto fece dietrofront e fuggì al galoppo.
I soldati raccolsero i camerati feriti e continuarono la loro avanzata. La
successiva carica dei Beja fu un tuono all'orizzonte: i tamburi rullarono e
squillarono gli ombeyya. I britannici lasciarono al suolo feriti e morti e
riformarono l'impenetrabile muraglia, sulla quale la carica s'infranse e
come un'onda si ritirò di nuovo. Ricominciò la marcia estenuante. I soldati
camminavano sui dervisci caduti, e per prevenire gli attacchi a tradimento
dei guerrieri che si fingevano cadaveri trafiggevano con le baionette i
corpi, vivi o morti. Ed ecco, la prima linea raggiunse il crinale. Un grido
roco proruppe dalle gole aride e i sorrisi distesero le labbra spaccate e
sanguinanti. Di fronte a loro scorreva il vasto Nilo. La superficie del fiume
divideva i raggi del sole in miriadi di riflessi scintillanti come monete
d'argento. E laggiù, ormeggiati all'altra sponda, videro i piccoli, eleganti
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vapori di Gordon in attesa di portarli a Khartum.
Alcuni caddero in ginocchio, ma i loro camerati li fecero rialzare in piedi
e li sorressero. Uno dei più giovani ansimò: «Acqua, buon Dio, acqua», ma
la sua voce fu soffocata dalla lingua gonfia, violacea.
«Le borracce sono vuote, ma laggiù c'è acqua a volontà. Tieniti forte,
ragazzo», rispose il caporale che sosteneva il giovane. «Andiamo a
prendercela subito, non c'è moro che ce lo possa impedire.»
«Non fermatevi, figlioli», gridò il sergente maggiore. «Non prima di
esservi lavati via la puzza di sudore in quel ruscello.»
Chi ne era ancora in grado rise. Poi, con un nuovo vigore nel passo
stanco, scesero verso il Nilo. Davanti a loro una serie di basse dune
ondulate costituiva l'ultima barriera prima del fiume. La sabbia era di mille
colori: cannella e castagno, cioccolato e testa di moro. Gli avvallamenti tra
le dune erano folti di rovi e cespugli. Più oltre, lungo l'argine del fiume,
sorgeva il labirintico villaggio di Metemma, fatto di vicoli stretti e tortuosi,
di capanne e tuguri ammassati sulla sponda del fiume. Sembrava
silenzioso e deserto come una necropoli.
«Il villaggio è una trappola, signore», disse Penrod. «Potete scommettere
che brulica di dervisci. Se gli uomini entrano in quei vicoli saranno fatti a
pezzi.»
«Avete ragione, Ballantyne», grugnì Stewart. «Dirigetevi verso la
striscia di terreno aperto al di sotto del villaggio.» Nel frattempo, gli spari
molesti dei dervisci continuavano a giungere dalle cime delle dune e dalla
fitta macchia negli avvallamenti. Stewart fece un passo avanti, poi un giro
su se stesso: era stato colpito in pieno da una pallottola. Si accasciò al
suolo. Penrod si chinò e vide che il proiettile lo aveva raggiunto
all'inguine, frantumandogli la grossa articolazione del femore. Schegge
d'ossa spuntavano dalla carne straziata, e apparvero bolle di sangue. Una
ferita a cui nessun uomo sarebbe potuto sopravvivere.
Stewart si pose a sedere e piantò il pugno ben stretto nell'ampio varco
che aveva nelle carni.
«Sono stato colpito», esclamò affannosamente rivolto a Sir Charles
Wilson. «Prendete il comando e guidate il reggimento verso il fiume.
Spazzate via ogni ostacolo. Dovete raggiungere il fiume a tutti i costi.»
Penrod cercò di sollevarlo e di sorreggerlo. «Maledizione, Ballantyne.
Fate il vostro dovere, lasciatemi qui. Continuate con loro! Dovete aiutare
Wilson a farli arrivare al fiume.»
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Penrod si alzò. Due soldati robusti accorsero verso il generale.
«Buona fortuna, signore», disse Penrod, e lo lasciò. Allungò il passo per
raggiungere la prima linea e guidò gli uomini nella discesa tra le dune.
Non sembrava possibile che un'intera squadra di cavalleria si fosse
nascosta nella macchia eppure, mentre scendevano, dai cespugli
spuntarono cavalli e figure in jibba variopinte. Nello spazio di qualche
secondo le due schiere si trovarono avvinghiate in un nuovo abbraccio
frenetico e sanguinoso. Quando i soldati respingevano i dervisci con le
loro raffiche, quelli serravano le file e tornavano all'attacco. Alcuni uomini
della martoriata prima linea caddero sfiniti per il caldo e la sete terribile:
furono risollevati dai loro compagni e fatti proseguire.
Il sudore seccava formando croste di sale sulle loro giubbe; i corpi non
riuscivano più neanche a traspirare. Barcollavano come ubriachi
trascinando i fucili con quello che restava delle loro forze. La vista di
Penrod era appannata e tremula. Sbatté le palpebre per vederci meglio.
Ogni passo richiedeva uno sforzo titanico.
Proprio quando sembrava che fossero giunti al limite che nessun mortale
può sopportare, la folta macchia si ravvivò per l'ennesima volta e ne
uscirono altri cavalieri. A guidare la carica era la familiare figura dal
turbante verde. Il manto latteo della sua giumenta era opaco per il sudore,
la lunga criniera una massa aggrovigliata. Osman Atalan riconobbe Penrod
nella prima fila del quadrato, fece voltare la cavalla con un colpo di
ginocchia e puntò dritto verso di lui.
Penrod cercò di rimettersi bene in equilibrio, ma le gambe gli cedevano
e la leggera carabina da cavalleria ora sembrava di piombo. Se la appoggiò
alla spalla con immane fatica. Sebbene lo separassero ancora cinquanta
passi da Osman Atalan, l'immagine del suo nemico pareva riempire il suo
distorto campo visivo. Penrod sparò. I rumori erano attutiti, e tutto intorno
a lui sembrava rallentato, come in un sogno. Vide il proiettile colpire la
giumenta alla fronte, appena sopra i suoi bellissimi occhi scuri. La bestia
rovesciò la testa all'indietro e stramazzò rotolando in una nube di sabbia, le
gambe che scalciavano spasmodicamente. Poi si fermò, con il collo storto
sotto il corpo.
Mentre la giumenta cadeva, Osman sfilò i piedi dalle staffe con grazia
felina e atterrò agilmente in posizione eretta. Guardò Penrod con
un'espressione di odio mortale. Penrod tentò di ricaricare, ma aveva perso
la sensibilità nelle dita e si muoveva troppo lentamente. Gli occhi di
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Osman catturarono i suoi come in un sortilegio ipnotico. Osman si chinò
per raccogliere da terra lo spadone e corse verso il suo nemico. Finalmente
Penrod riuscì a inserire la cartuccia e chiudere l'otturatore. Sollevò l'arma,
ma poi vacillò. Cercò disperatamente di prendere la mira e quando, per un
istante, il mirino fu proprio sul petto di Osman, sparò. Vide la pallottola
sfiorare il braccio che brandiva la spada lasciando una striscia di sangue
sul bicipite, ma l'emiro non fece una piega, non allentò la stretta sull'arma
e proseguì senza cambiare passo. I soldati vicino a Penrod puntarono i
fucili su Osman. Le pallottole sibilarono intorno a lui sollevando la sabbia
e schioccando nella macchia. Ma la vita di Osman sembrava protetta da un
incantesimo.
«Uccidete quell'uomo!» gridò Wilson, con voce stridula, nervosa.
I cavalieri arabi avevano visto cadere il loro emiro, e la schiera si sfaldò.
Uno degli aggagir volse il cavallo verso la figura isolata di Osman.
«Arrivo, padrone.»
«Lasciami stare, al-Noor. Non ho ancora finito», gli gridò Osman.
«Può bastare, per oggi. Torneremo a combattere.» Senza rallentare, alNoor si protese dalla sella, intrecciò le braccia con quelle di Osman e lo
issò dietro di sé.
Mentre veniva portato via tra la fitta macchia, Osman si voltò per
rivolgere a Penrod uno sguardo minaccioso. «Non finisce qui. Nel nome di
Dio, non è finita!» E scomparve. Il resto della cavalleria derviscia si
dileguò altrettanto velocemente e un inquietante silenzio ricadde sul
campo. Alcuni soldati si accasciarono al suolo, le gambe prive di forza.
Ma le urla dei sergenti li rianimarono bruscamente: «In piedi, ragazzi! C'è
un fiume di fronte a voi!»
La cornamusa riprese a suonare, e Scotland the Brave stridette nell'aria
del deserto. Gli uomini si misero le armi in spalla e raccolsero i loro morti.
Il quadrato riprese ad avanzare. Barcollando in prima linea, Penrod si
leccò il sale e il sangue secco dalle labbra screpolate. Le ultime gocce di
sudore gli bruciarono gli occhi rossi mentre scrutava la macchia davanti a
loro alla ricerca della successiva ondata di cavalieri selvaggi.
Ma i dervisci se n'erano andati, soffiati via come fumo. I britannici
sbucarono sull'argine del Nilo e lanciarono grida di saluto ai battelli al di là
del fiume. Erano aggraziati come le barchette che affollano la Serpentine
di Londra nelle mattine domenicali di sole.
Avevano vinto. Avevano raggiunto il fiume e centocinquanta miglia più
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2005 - Il Trionfo Del Sole
a sud, a Khartum, il generale Charles Gordon resisteva ancora.
Osman Atalan aspettava nel villaggio di Metemma che le divisioni
scompaginate dei suoi alleati jaalin si riunissero e che i loro sceicchi
venissero a porsi sotto il suo comando, ma il loro emiro al-Salida e tutti i
suoi figli maschi erano morti. Così valorosi quando egli li guidava, ora non
erano che bambini senza padre. Allah li aveva abbandonati: la causa era
perduta. Sparirono di nuovo nei loro rifugi nel deserto, e Osman attese
invano.
Alle prime luci dell'indomani, l'emiro convocò l'addestratore di piccioni.
«Portami tre dei tuoi uccelli più veloci», ordinò. Scrisse di proprio pugno
un messaggio in tre copie per il Mahdi: ciascun uccello ne avrebbe portato
una copia. Se uno o due fossero stati attaccati dai falchi o avessero avuto
altre disgrazie, almeno uno dei messaggi avrebbe raggiunto il sant'uomo a
Omdurman.
Per il Mahdi Mohamed Ahmed, che Allah possa proteggerlo e
aver cura di lui. Tu sei la luce dei nostri occhi, il respiro nei nostri
corpi. La mia vergogna e la mia tristezza giacciono come macigni
nel mio ventre, poiché sappi che gli infedeli ci hanno vinto in
battaglia. L'emiro al-Salida è morto e le sue divisioni sono
distrutte. Gli infedeli hanno raggiunto il Nilo all'altezza di
Metemma. Faccio ritorno in tutta fretta con la mia divisione a
Omdurman. Prega per noi, santo e potente Mahdi.
L'addestratore legò i messaggi alle zampe dei piccioni, li rimise nelle
loro ceste e li portò sull'argine del fiume. Osman camminava davanti a lui.
L'uomo gli porse i piccioni a uno a uno. Prima di lanciarli in aria, Osman
tenne ciascuno tra le mani e lo benedisse. «Vola veloce e in linea retta,
piccolo amico. Che Allah ti protegga.» Liberava l'uccello in aria, e questo
roteava attorno al piccolo villaggio di Metemma, si orientava e con rapidi
colpi di Alì si dirigeva verso sud. Prima di lanciare il successivo Osman
attendeva, per evitare che formassero uno stormo attirando i rapaci. Subito
dopo aver lasciato andare l'ultimo piccione, Osman tornò al villaggio e salì
sulla cupola di fango della moschea. Dal balcone più alto della torre di
preghiera, da dove il muezzin chiamava i fedeli alle loro devozioni, vedeva
entrambe le rive del fiume. La flottiglia di piccoli vapori bianchi era
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2005 - Il Trionfo Del Sole
ancorata a valle, nella pozza dei Coccodrilli. Erano fuori tiro, dato che non
aveva artiglieria. Rivolse allora la sua attenzione all'accampamento
britannico. A occhio nudo riuscì a scorgere gli uomini dentro le mura della
loro improvvisata zareba. Non avevano ancora nemmeno cominciato a
caricare sui battelli gli uomini o le salmerie. Si domandò il perché di quella
strana inazione, così diversa dall'energia e dalla premura che avevano
dimostrato fin lì. Se il loro obiettivo era raggiungere e liberare Khartum al
più presto possibile, avrebbero dovuto lasciare i feriti sull'argine del fiume,
imbarcare gli uomini validi e salpare senza indugio verso sud.
«Forse Allah non ci ha ancora abbandonati. Forse mi aiuterà a
raggiungere la città prima di questi uomini imprevedibili», mormorò.
Scese dalla torre e raggiunse il punto appena fuori dal villaggio dove lo
attendevano i resti della sua divisione. I cavalli e i cammelli erano già stati
sellati e i basti assicurati. Al-Noor teneva per le briglie il suo nuovo
corsiero: un grande stallone nero. Era l'animale più forte tra quelli di alNoor. Osman gli accarezzò la stella bianca che aveva sulla fronte. Il suo
nome era al-Buq, cioè Tromba di Guerra.
«Sei privo di ogni difetto, al-Buq», bisbigliò, «ma non sarai mai
all'altezza di Hulu Mayya.» Guardò le dune dove la giumenta era caduta.
Gli avvoltoi e le cornacchie stavano ancora volando attorno al crinale.
Nascerà mai una bestia nobile come lei? si domandò. Una nera ondata di
rabbia dilagò nel profondo del suo essere. Abadan Riji, tu hai molto da
espiare.
Balzò in sella e alzò il pugno chiuso. «In nome di Allah, cavalchiamo
verso Omdurman!» gridò.
Dagli aggagir al suo seguito il saluto si levò come un tuono.
Khartum giaceva nel torpore della disperazione, fiaccata dalle epidemie
e dalla carestia. Le voci delle ragazze si levarono in uno stridente contrasto
con il silenzio attorno.
«Eccone uno che arriva», gridò Saffron.
«Lo so. L'ho visto prima io», cantilenò Amber.
«Bugiarda! Non l'hai visto!»
«L'ho visto sì, invece!»
«Smettete di bisticciare, voi due», ordinò David Benbrook.
«Indicatemelo.» Ormai la loro vista era più acuta della sua.
«Laggiù, papà. Sopra l'isola Tutti.»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«A sinistra di quella nuvoletta.»
«Ah, certo!» disse David. Spostò il calcio del fucile da caccia sotto
l'ascella e prese di mira il volatile. «Vi stavo solo mettendo alla prova.»
«Non è vero!»
«Ehi... un po' più di rispetto, angelo mio.»
Nazira sentì le loro voci. Stava tornando in cucina: portava con sé una
caraffa d'acqua appena presa dal pozzo vicino alla stalla. Avrebbe dovuto
farla bollire e filtrarla, ma fu distratta dalle loro voci. Appoggiò la caraffa
sul tavolo di fianco alla porta d'ingresso, vicino ai bicchieri che aveva
messo sul vassoio di argento; poi attraversò la sala da pranzo e guardò
fuori dalla finestra sopra la terrazza. Il console stava in mezzo al prato
bruno, riarso, a guardare il cielo. Niente di strano. Erano settimane che
passava i pomeriggi sulla terrazza cercando con lo sguardo qualche uccello
che arrivasse nella direzione del suo fucile. Nazira si voltò e uscì dalla
stanza, ma distrattamente lasciò sul tavolo con i bicchieri la caraffa di
acqua non bollita. Alle sue spalle sentì il tuono del fucile e le risate delle
gemelle. Sorrise affettuosamente e chiuse la porta della cucina dietro di sé.
«L'hai preso, papà!»
«Bravo, pater familias!» Era l'ultima aggiunta al vocabolario di Saffron.
Il piccione viaggiatore sobbalzò in aria, mentre i pallini gli strappavano
un ciuffo di piume dal petto. Le Alì sbatterono mentre cadeva giù giù, fin
tra i rami più elevati dell'albero di tamarindo vicino alle camere da letto
del palazzo, rimanendo incastrato a una decina di metri dal suolo. Le
gemelle fecero a gara per arrivare alla base dell'albero, e vi si
arrampicarono tra battibecchi e spintoni.
«State attente, diavolette!» gridò ansiosamente David. «Così vi farete
male.»
Saffron fu la prima a raggiungere l'uccello. Fra le due, era il
maschiaccio. Si bilanciò sul ramo, si infilò il piccione ancora caldo nel
corpetto, e iniziò la discesa.
«Sei la solita prepotente», l'accusò Amber.
Saffron accettò volentieri il complimento, saltò giù e corse verso il
padre. «Porta un messaggio!» squillò. «Porta un messaggio, proprio come
gli altri.»
«Caspita, è vero!» convenne David. «Che fortuna. Vediamo che cosa
hanno da dire i signori al di là del fiume.» Saltellando, le gemelle lo
seguirono mentre portava in casa il piccione morto. David appoggiò il
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2005 - Il Trionfo Del Sole
fucile al muro, si frugò nelle tasche per trovare il pince-nez e se lo fissò sul
naso. Con un temperino tagliò il filo che tratteneva il piccolo rotolo di
carta e lo spiegò con cura sul tavolo, accanto alla caraffa e ai bicchieri.
Mosse in silenzio le labbra cercando di decifrare la scrittura araba. A poco
a poco la sua espressione bonaria mutò, e assunse un fare attento e
pragmatico.
«Questa è una notizia meravigliosa. La colonna di soccorso ha
sgominato l'esercito derviscio nel nord. Arriveranno a giorni. Devo portare
questo messaggio al generale... subito», disse alle gemelle. «Voi andate da
Nazira e chiedetele di prepararvi il bagno. Mi tratterrò un po', ma farò in
tempo a darvi la buonanotte.» Si mise il cappello e uscì, diretto al quartier
generale di Gordon.
Saffron afferrò il fucile prima che Amber potesse mettervi su le mani.
Lo sollevò con aria trionfante; un'altra conquista da sventolare sotto il naso
di sua sorella.
«Non è giusto, Saffy. Tu fai sempre tutto.»
«Non fare la bambina.»
«Non faccio la bambina.»
«Invece sì. E basta con i soliti capricci.»
Saffron attraversò l'atrio portando il fucile nella stanza delle armi.
Amber restò con i pugni sui fianchi a guardare la sorella che si
allontanava. Aveva il viso arrossato, Amber, e i capelli sudati le si erano
appiccicati alla fronte. Notò la caraffa sul tavolo dove Nazira l'aveva
lasciata. Irritata, la prese e si versò un bicchiere d'acqua; bevve, e fece una
smorfia. «Ha un sapore strano», si lagnò. «E poi... non faccio la bambina e
non faccio i capricci. Sono solo un po' arrabbiata.»
Ryder Courteney sapeva che la sua permanenza a Khartum stava per
concludersi. Anche se i rinforzi fossero arrivati prima della caduta della
città e fossero riusciti a mettere tutti in salvo, Khartum sarebbe comunque
rimasta in mano ai dervisci. Ryder stava levando le tende: era pronto ad
andarsene alla prima occasione. Rebecca si era offerta di aiutarlo a
redigere l'inventario e le bolle relative a tutto il carico dell'Intrepid Ibis.
Pian piano Ryder si era reso conto dello stato confusionale di Rebecca.
L'incertezza stava logorando tutti, man mano che la situazione in città si
deteriorava. La minaccia della potente armata dei dervisci era sempre più
pressante e la volontà della popolazione intrappolata si affievoliva. L'attesa
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2005 - Il Trionfo Del Sole
dei rinforzi era interminabile. Da dieci mesi Khartum era assediata dal
Mahdi: troppo tempo da vivere sotto la minaccia di una morte orrenda.
Ryder non ignorava che su Rebecca gravava la responsabilità di badare
alle sue giovani sorelle, e che suo padre in questo non era stato di grande
aiuto. Era un uomo amabile e affettuoso ma, come le gemelle, si affidava a
lei con una fiducia che rasentava il candore. Nessuna donna sudanese era
tornata al lavoro dopo l'invasione del quartiere di Ryder, e ora la
produzione della ricotta verde gravava interamente su Rebecca. Le gemelle
erano aiutanti volonterose, ma il lavoro richiedeva troppa forza e
resistenza per loro. L'ammirazione e l'affetto che Ryder nutriva nei
confronti di Rebecca aumentavano quanto più la vedeva faticare per la sua
famiglia. Ad appena diciotto anni, era già costretta a sobbarcarsi questa
responsabilità. Capiva il suo isolamento e la sua solitudine, e si sforzava di
esserle di aiuto. Tuttavia, riconosceva che il suo comportamento indiscreto
aveva compromesso la fiducia che la ragazza aveva in lui. Doveva stare
attento a non spaventarla di nuovo, ma allo stesso tempo desiderava
stringerla tra le braccia, confortarla e proteggerla. Aveva la sensazione di
aver fatto notevoli progressi nel medicare i loro rapporti, da quando
Penrod Ballantyne era partito da Khartum. Ora Rebecca sembrava molto
più a suo agio con lui, le loro conversazioni erano assai più rilassate, e non
lo evitava più come prima.
Erano nel fortino, seduti alla scrivania l'uno di fronte all'altra. Contavano
le monete d'argento raggruppandole in mucchi da cinquanta, avvolgendole
in rotoli di pergamena e impacchettandole nelle cassette del caffè prima
che fossero caricate sull'Ibis. Con la coda dell'occhio Ryder la guardò
scostare graziosamente una ciocca dei suoi bei capelli lisci. Il cuore gli si
strinse per la pena nel vedere le sue mani callose, e le rughe di ansia e
sofferenza intorno agli occhi. Un incarnato come il suo era senz'altro più
adatto al clima mite dell'Inghilterra che al sole cocente del deserto. Quando
sarà finita questa storia, potrei vendere tutto e riportarla in Inghilterra,
pensò.
All'improvviso Rebecca alzò lo sguardo e incrociò il suo. «Che cosa
avremmo fatto senza di te, Ryder?» gli disse.
Ryder restò stupito per quelle parole, per il «tu» e per il tono con cui
erano state dette. Ricambiò la confidenza. «Mia cara Rebecca... Sono certo
che riusciresti a cavartela in ogni circostanza. Non posso prendermi io il
merito per la tua forza e la tua determinazione.»
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Non sono stata gentile con te», disse, ignorando il suo diniego. «Mi
sono comportata come una bambina. Specialmente con te... avrei dovuto
essere più gentile. Se non ci fossi stato tu, saremmo periti da tempo.»
«Ma adesso sei gentile. Questo compensa tutto», lui le disse. «La torta
verde è soltanto uno dei doni di valore che hai fatto alla mia famiglia. Non
esagero se dico che ci hai salvato la vita. È grazie a te se siamo sani e forti
in mezzo a tanta fame e tanta morte. Non potrò mai sdebitarmi.»
«La tua amicizia è l'unico compenso al quale posso aspirare.»
Rebecca gli sorrise, e le piccole rughe svanirono. Ryder voleva dirle
quanto era bella, ma si trattenne.
Rebecca allungò il braccio sulla scrivania rovesciando un mucchio di
monete e gli prese una mano. «Sei un buon amico, Ryder Courteney... e
una brava persona.»
Per la prima volta Rebecca studiò con uno sguardo diretto le fattezze di
lui. Non era bello come Penrod, pensò, ma aveva un viso onesto e forte. È
un viso, questo, che non mi stancherei mai di guardare. Lui non mi
lascerebbe come ha fatto Penrod. Non ci sarebbero ragazze arabe nascoste
in una stanza sul retro. È un uomo di sostanza... non uno che ostenta, non è
pretenzioso. Ci sarà sempre pane sul suo tavolo. È solido come la roccia ed
è in grado di proteggere la sua donna...
La mano che teneva la sua era forte e indurita dal lavoro. Il braccio nudo
teso verso di lei era come la colonna portante di una casa, le sue spalle
sotto la camicia erano larghe e squadrate. Era un uomo, non un bambino.
Poi, all'improvviso, Rebecca ricordò dove si trovavano e il suo sorriso si
ridusse a una smorfia. La precarietà della loro vita si abbatté su di lei. Cosa
sarebbe successo se Ryder fosse salpato con l'Ibis lasciando lì lei e le sue
sorelle? Cosa sarebbe successo quando il Mahdi e la sua armata di
assassini avessero espugnato la città? Sapeva bene cosa facevano alle
donne che catturavano. Le lacrime le inondarono gli occhi impregnando le
ciglia. «Ryder... cosa sarà di noi? Moriremo in questo luogo orribile?
Moriremo ancor prima di avere vissuto?» Nel suo cuore di donna sapeva
che esisteva un solo modo per legare a sé per sempre un uomo come lui.
Era pronta per un simile passo?
«No, Rebecca, sei stata così coraggiosa e forte, per tanto tempo. Non
arrenderti ora», le rispose. Poi si alzò e girò velocemente attorno al tavolo.
Quando fu in piedi accanto a lei Rebecca lo guardò, e le lacrime scesero
sulle sue guance. «Abbracciami, Ryder. Abbracciami!» lo supplicò.
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Non voglio offenderti ancora.» Ryder esitò.
«Ero una bambina allora... una fanciulletta stupida. Ora sono una donna.
Abbracciami come una donna.»
Lui la fece alzare in piedi e la prese dolcemente fra le sue braccia. «Sii
forte!» disse.
«Aiutami», lo pregò Rebecca stringendosi a lui, affondando il viso nel
suo petto e aspirando il suo profumo. Paure e dubbi sparirono lasciando il
posto alla fiducia. Sentì la forza scorrere dentro di lei e si aggrappò a
Ryder con quieta disperazione. Poi, lentamente, si rese conto che una
nuova, piacevole sensazione promanava dal centro del suo essere. Non era
la divina e struggente follia che aveva evocato in lei Penrod Ballantyne.
Sembrava piuttosto un luminoso calore. Poteva fidarsi di quest'uomo.
Tra le sue braccia si sentiva protetta. Sarebbe stato facile fare quello che
aveva pensato.
È una cosa che non devo fare solo per me stessa, ma anche per la mia
famiglia, pensò. In silenzio prese la decisione, poi disse: «Baciami,
Ryder». Alzò il viso verso di lui. «Baciami come facesti quella volta.»
«Rebecca, mia dolce Becky... sei sicura di quello che stai dicendo?»
«Se devi parlare solo per farmi domande sciocche», gli sorrise, «allora
taci. Baciami.»
La bocca di Ryder era calda, i loro fiati si unirono, e la lingua di Ryder
dischiuse le morbide labbra di Rebecca. Nel passato questo l'aveva confusa
e spaventata, ma ora gustava ogni sensazione. Sarà mio, pensò. Respingerò
l'altro e prenderò Ryder Courteney. Con questa convinzione si lasciò
vincere dalle emozioni. Ogni riserbo l'abbandonò mentre avvertiva una
stretta nel profondo del ventre. Era una sensazione così intensa da
sembrare quasi dolore. La sentiva pulsare dentro.
È il mio grembo, comprese con stupore. Ryder aveva stimolato il centro
della sua femminilità. Spinse l'inguine contro quello di lui cercando di
alleviare il dolore... o forse di esacerbarlo, non sapeva. La prima volta che
Ryder l'aveva abbracciata non aveva capito cosa avesse sentito gonfiarsi e
indurirsi. Adesso lo sapeva, e non si spaventò. Aveva addirittura dato un
nome segreto a quel coso degli uomini. Lo chiamava tammy, dall'albero di
tamarindo dinanzi alla sua camera da letto su cui Penrod si era arrampicato
quella prima notte.
Il suo tammy sta suonando per la mia farfallina, e a lei piace questa
musica... Era stata sua madre, l'emancipata Sarah Isabel Benbrook, a
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2005 - Il Trionfo Del Sole
insegnarle quell'altra parola.
«Potrebbe essere l'ultimo giorno della nostra vita. Non sprechiamolo»,
sospirò Rebecca. «Cogliamo questo momento, non lasciamocelo sfuggire.»
Ma Ryder era diffidente. Rebecca dovette prendergli le mani e posarsele
sul seno. I capezzoli sembrarono inturgidirsi e ardere al contatto.
Con una mano Rebecca affondò le dita nei capelli sulla nuca di lui per
spingerlo giù, e con l'altra si aprì i ganci del corsetto. Liberò uno dei seni e
glielo spinse contro la bocca. Gemette al voluttuoso dolore dei suoi denti
sulla pelle morbida. L'eccitazione montò dentro di lei fino a traboccare.
Fu travolta da un disperato senso di premura. «Presto, Ryder, sto
morendo... Non lasciarmi morire. Salvami.» Sapeva di balbettare cose
senza senso, ma non se ne curò. Strinse entrambe le braccia intorno al
collo di lui e cercò di arrampicarglisi sopra. Lui con due mani le afferrò da
dietro l'orlo della gonna e la sollevò. Non portava nulla sotto. Nella
penombra della stanza le sue natiche erano bianche e tonde come due uova
di struzzo. Le prese tra le mani e la sollevò.
Rebecca strinse le cosce intorno ai suoi fianchi e lo sentì insinuarsi nel
serico nido di ricci tra le sue gambe. «Presto! Non posso vivere ancora un
minuto senza averti dentro di me.» Si abbassò con impeto, stralunando gli
occhi per lo sforzo, e ogni resistenza nei confronti di Ryder la abbandonò.
Affondò le unghie nella schiena di lui e si spinse ancora più in basso. E poi
nient'altro al mondo ebbe più importanza: tutte le sue ansie, tutte le sue
paure si dissolsero non appena egli le scivolò dentro, penetrandola
profondamente. Sentì il suo grembo aprirsi per accoglierlo. Si spinse
contro di lui con una disperazione quasi incontrollabile. Sentì le gambe di
Ryder tremare e lo guardò negli occhi mentre il suo volto si torceva
nell'agonia dell'estasi. Di nuovo le gambe di Ryder vibrarono, e Rebecca
spinse più forte, più veloce. Ryder aprì la bocca, e al suo grido la voce di
Rebecca risuonò non meno forte. Si avvinghiarono l'uno all'altra in un
parossismo così sfrenato da far pensare che potessero rimanere congiunti
per l'eternità. Ma alla fine le loro voci si abbassarono, e tornò il silenzio.
Le gambe irrigidite di Ryder si rilassarono e lui si lasciò cadere in
ginocchio. Ma Rebecca gli si aggrappò perdutamente, stringendolo tra le
gambe affinché non potesse uscire da lei, lasciandola vuota.
Ryder sembrò tornare da un luogo lontano e la fissò con un'espressione
di meraviglia. «Ora sei la mia donna?» Non sapeva se fosse una domanda
o un'affermazione.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Rebecca gli sorrise teneramente. Il suo amante era ancora dentro di lei,
che si sentiva piena di forze, deliziosamente lasciva, e appagata. Lo strinse
più forte dentro di sé, con una mossa di cui non sapeva d'essere capace.
Ryder sospirò e spalancò gli occhi. «Sì», lo rassicurò Rebecca. «E tu sei il
mio uomo. Ti terrò così per sempre e non ti lascerò più andar via.»
«Sarò tuo prigioniero di buon grado», le rispose Ryder. Rebecca lo
baciò. Quando si staccò per prendere fiato, lui continuò: «Mi concederai
l'onore di diventare mia moglie? Non vogliamo dare scandalo, vero?»
Tutto stava accadendo così in fretta. Benché proprio quella fosse la sua
intenzione, lei non riuscì a pensare una risposta a un tempo vereconda e
vincolante. Mentre ci pensava, qualcuno bussò forte alla porta. Rebecca
spinse via velocemente Ryder, e con altrettanta velocità richiuse il seno nel
corpetto guardando ansiosamente verso l'ingresso. «E' chiuso a chiave», le
ricordò Ryder bisbigliando. Con centinaia di monete sul tavolo, non aveva
voluto rischiare. Quindi, a voce alta, chiese: «Chi è?»
«Sono io, Bashid. Reco un nuovo bollettino da parte di Gordon Pascià.»
«Immagino che non sarà così importante da disturbarmi mentre lavoro»,
replicò Ryder. Gordon redigeva quasi giornalmente dei bollettini nel
tentativo di confortare gli abitanti e rafforzare la loro volontà di resistere.
Pertanto, il contenuto dei bollettini era soggetto ad ampie licenze letterarie,
e spesso una notevole distanza li separava dalla verità.
«Questo è importante, Effendi.» Il tono di Bashid era eccitato. «Buone
notizie... davvero buone notizie.»
«Fallo passare sotto la porta», ordinò Ryder.
Si alzò in piedi e sollevò anche Rebecca. Entrambi si aggiustarono i
vestiti: lui abbottonò i calzoni e lei sistemò le gonne. Poi Ryder andò alla
porta, raccolse il bollettino grezzamente stampato, lo esaminò, e lo porse
alla ragazza.
ESERCITO DERVISCIO SBARAGLIATO
LA STRADA PER KHARTUM È APERTA
I RINFORZI BRITANNICI ARRIVERANNO A GIORNI
Rebecca lo rilesse due volte, la prima in fretta, la seconda con più calma.
Alla fine lo guardò.
«Credi che sia vero, questa volta?»
«In caso contrario, sarebbe una ben crudele bugia. Ma Gordon il Cinese
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non è noto per il suo riserbo, né per la considerazione in cui tiene i
sentimenti del prossimo.»
Rebecca finse di leggere di nuovo il bollettino, ma la sua mente stava
volando. E se i rinforzi fossero stati davvero in arrivo? Sarebbe stata così
imprescindibile l'esigenza di una relazione stabile con Ryder Courteney?
In qualità di sua consorte, sarebbe stata condannata a trascorrere il resto
dei suoi giorni in quella terra selvaggia e violenta. Avrebbe più rivisto i
verdi prati d'Inghilterra e vissuto tra la gente civile? C'era proprio la
disperata necessità di sposare un uomo che era stato cortese e si sarebbe
preso cura di lei, ma che lei non amava?
«Vero o falso che sia», Ryder continuò, «lo scopriremo molto presto.
Comunque vada sarai ancora la mia fidanzata. L'Ibis è pronta per salpare e
la sua stiva è stata riempita al massimo della capienza.» Si interruppe e
studiò il volto di Rebecca con aria interrogativa. «Cosa succede, cara?
Qualcosa ti preoccupa?»
«Non ho ancora risposto alla tua domanda», disse lei sottovoce.
«Be', se è tutto qui, allora dovrò ripeterla e confidare in una risposta
formale», considerò Ryder. «Vuoi tu, Rebecca Helen Benbrook, prendere
me, Ryder Courteney, come tuo legittimo sposo?»
«In tutta franchezza, non so.» Ryder la fissò attonito. «Concedimi il
tempo per pensarci, ti prego. E' una decisione di grande importanza, non
posso prenderla precipitosamente.»
In quel momento cruciale e determinante, all'improvviso Rebecca pensò:
e se dopodomani, con la colonna di soccorso, arrivasse Penrod Ballantyne?
Poi pensò: non ha importanza, comunque lui non significa più niente per
me. Ho sbagliato a fidarmi di quell'uomo, e ora può tornarsene alle sue
ragazze arabe e ai suoi costumi libertini, per quel che m'importa.
Ma non era del tutto convinta. L'immagine di Penrod le restò in mente
anche dopo aver lasciato il quartiere di Ryder, mentre tornava al palazzo
consolare.
Sir Charles Wilson impiegò diversi giorni per trasportare i suoi feriti, le
salmerie e la fila di cammelli. Nel frattempo fortificò l'accampamento sulla
sponda del fiume sotto Metemma, posizionando le mitragliatrici
Nordenfelt a coprire il perimetro circostante e alzando le mura della
zareba fino a un'altezza di quasi due metri.
Il terzo giorno dopo la battaglia, il primo chirurgo del reggimento
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informò Wilson che la ferita del generale Stewart era andata in cancrena.
Wilson si precipitò alla tenda dell'ospedale. La calura rendeva
stomachevole il fetore dolciastro della carne in necrosi. Trovò Stewart
disteso in un bagno di sudore, coperto da una zanzariera sopra cui si
affollavano mosconi blu in cerca di un varco per entrare e raggiungere la
ferita che emanava quell'odore intollerabile. La piaga era coperta da una
benda inzuppata di pus giallastro.
«Sono riuscito a togliere il proiettile», spiegò il chirurgo a Wilson con
voce rassicurante. Poi, abbassando il tono cosicché Stewart non potesse
sentirlo: «La cancrena è penetrata in profondità, signore. Non c'è quasi
speranza. Mi dispiace».
Stewart delirava, e quando vide Wilson lo scambiò per il generale
Gordon. «Grazie a Dio abbiamo fatto in tempo, Gordon. C'è stato un
momento in cui ho temuto che saremmo arrivati troppo tardi. Vi porgo le
mie congratulazioni per il vostro coraggio e la vostra forza d'animo che
hanno salvato Khartum. Il vostro è un risultato di cui Sua Maestà e ogni
cittadino dell'impero britannico andranno giustamente fieri.»
«Sono Charles Wilson, non Charles Gordon, signore», lo corresse
Wilson.
Stewart lo fissò stupito e gli afferrò la mano da dentro la zanzariera.
«Molto bene, Charles! Sapevo che avreste fatto il vostro dovere. Dov'è
Gordon? Ditegli di venire subito da me. Voglio congratularmi di persona.»
Wilson liberò la mano, fece un passo indietro e si rivolse al chirurgo:
«Gli state somministrando abbastanza sedativi? Non deve agitarsi».
«Gli do dieci grani di laudano ogni due ore... ma si sente poco dolore
nella zona della ferita, allorché la cancrena si è diffusa.»
«Lo metterò sul primo piroscafo per Aswan. Potrebbe essere tra due o
tre giorni.»
«Tra due o tre giorni?» Stewart aveva colto solo l'ultima parte del
discorso. «Perché mandate Gordon ad Aswan? Perché due o tre giorni?
Rispondetemi.»
«I vapori tra poco salperanno per Khartum, generale. Abbiamo
incontrato ostacoli imprevisti, ma inevitabili.»
«E Gordon? Dov'è Gordon?»
«Si spera che stia ancora resistendo a Khartum, signore. Non ne
abbiamo più notizie.»
Stewart si guardò attorno con un'espressione forsennata, sconvolta.
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«Ma... questa non è Khartum? Dove siamo? Da quanto tempo siamo qui?»
«Siamo a Metemma, signore», gli rispose con gentilezza il chirurgo.
«Siete qui da quattro giorni.»
«Quattro giorni!» Stewart alzò la voce. «Quattro giorni! Avete sprecato
il sacrificio dei miei poveri ragazzi! Perché non vi siete spinti verso
Khartum invece di star qui con le mani in mano?»
«Sta delirando», disse Wilson al chirurgo. «Somministrategli un'altra
dose di laudano.»
«Io non sto delirando!» gridò Stewart. «Se non vi dirigerete
immediatamente a Khartum finirete davanti alla corte marziale e vi farò
fucilare per aver mancato al vostro dovere e per codardia di fronte al
nemico, signore!» Esausto, Stewart si accasciò sul cuscino, bisbigliando e
rantolando. Infine chiuse gli occhi e si quietò.
«Pover'uomo...» Wilson scosse il capo con fare compassionevole. «E'
completamente fuori di senno, e soffre di allucinazioni. Non è in grado di
comprendere la situazione. Abbiate cura di lui, e fate in modo che non
abbia a patire troppo.»
Wilson accennò un saluto e uscì. Fuori della tenda la luce del sole lo
costrinse a sbattere gli occhi, e subito si accigliò, quando si rese conto che
alcuni ufficiali stavano sull'attenti accanto a lui. Senz'altro avevano sentito
ogni parola che era stata detta. La loro espressione non lasciava dubbi.
«Signori, non avete di meglio da fare che restare qui in ozio?» domandò
seccamente Wilson. Gli ufficiali gli fecero il saluto evitando di guardarlo
negli occhi e si allontanarono.
Solo uno rimase lì dov'era. Penrod Ballantyne era l'ufficiale del gruppo
più basso in grado, e il suo comportamento appariva quantomeno
sfacciato. Camminava su una fune tesa sopra il fatale abisso
dell'insubordinazione. Wilson lo guardò storto. «Come posso aiutarvi,
capitano?» gli domandò.
«Vorrei parlarvi, signore.»
«Di che cosa?»
«I cammelli hanno ripreso le forze. Ci sono acqua e foraggio a
sufficienza. Quindi, con il vostro permesso, potrei raggiungere Khartum
entro ventiquattro ore.»
«A che scopo, capitano? Pensate di liberare la città da solo?»
L'espressione di Wilson si mutò in un sorriso compiaciuto; il che non era
un gran miglioramento, pensò Penrod.
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«Il mio scopo sarebbe portare i vostri dispacci al generale Gordon e
metterlo al corrente delle vostre intenzioni, signore. La città ha raggiunto il
limite della resistenza. Ci sono donne e bambini inglesi, tra le sue mura. E'
solo questione di giorni e poi cadranno tra gli artigli del Mahdi. Speravo di
poter assicurare al generale Gordon che voi avete a cuore la sua situazione,
e quella degli abitanti.»
«Non approvate la mia conduzione della campagna, vero? Qual è il
vostro nome, signore?» Wilson sapeva benissimo come si chiamava: il suo
era un deliberato insulto.
«Penrod Ballantyne... Decimo Ussari, signore. E non mi permetterei mai
di giudicare il vostro comando. Stavo semplicemente mettendo a vostra
disposizione la mia conoscenza della situazione locale.»
«Mi premurerò di convocarvi qualora la vostra sconfinata sapienza si
renda necessaria. Menzionerò altresì la vostra insubordinazione nel
dispaccio che avrò a redigere alla fine della campagna. Dovrete rimanere
in questo accampamento. Non sarete distaccato a nessuna missione
indipendente. Inoltre, non farete parte delle forze che guiderò alla
liberazione di Khartum, e alla prima occasione sarete mandato al Cairo.
Non farete più parte di questa operazione militare. Mi sono spiegato,
capitano?» «Certo, signore.» Penrod fece il saluto. Wilson non rispose e si
allontanò a passi bruschi. Nei giorni che seguirono Wilson trascorse gran
parte del tempo nella tenda del suo quartier generale a occuparsi dei
dispacci. Ordinò che venisse fatto un inventario delle riserve e delle
munizioni rimaste, ispezionò le fortificazioni della zareba, fece esercitare
gli uomini, e visitò giornalmente i feriti, ma il generale Stewart non era più
cosciente. I battelli erano ormeggiati e con le macchine al massimo della
pressione. Indecisione e incertezza pervadevano il reggimento. Nessuno
sapeva quale sarebbe stata la prossima mossa, né quando sarebbe stata
fatta: Sir Charles Wilson non diede alcun ordine significativo.
La sera del terzo giorno, Penrod andò a ispezionare le file di cammelli e
trovò Yakub. Mentre fingeva di controllare gli animali, bisbigliò: «Prepara
i cammelli e riempi gli otri. La parola d'ordine per le sentinelle quando
lascerai la zareba sarà 'Waterloo'. Ci incontriamo a mezzanotte alla piccola
moschea dall'altro lato del villaggio di Metemma». Yakub lo guardò
perplesso. «Ci è stato chiesto di portare dei messaggi a Gordon Pascià.»
Yakub attese Penrod sul luogo dell'appuntamento, e i due si diressero
verso sud. Al passo che tenevano, sarebbero arrivati a destinazione per
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l'alba.
Due giorni per Khartum, pensò cupamente Penrod, e la mia carriera in
rovina. Wilson mi darà in pasto ai leoni. Spero almeno che Rebecca
Benbrook apprezzi i miei sforzi.
Osman Atalan, galoppando a briglia sciolta con un manipolo dei suoi
aggagir, lasciò indietro di molte leghe il grosso della cavalleria e ascese le
pareti della gola di Shabluka. Quando arrivò in cresta, posò le redini di alBuq e montò in piedi sulla sella. In agile equilibrio sul cavallo irrequieto,
puntò il suo cannocchiale su Khartum, la Città della Proboscide, che si
estendeva all'orizzonte.
«Cosa vedi, padrone?» domandò ansioso al-Noor.
«Le bandiere degli infedeli e dei turchi sventolano dalla torre di forte
Mukran. Gordon Pascià, il nemico di Dio, comanda ancora a Khartum»,
rispose Osman. Le sue parole erano amare come succo di aloe sulla lingua.
Si sedette di nuovo in sella e i suoi piedi calzati di sandali trovarono le
staffe. Poi percosse la groppa del cavallo con il curbascio, al-Buq si lanciò
in avanti, e proseguirono la loro avanzata verso sud.
Quando raggiunsero le colline di Kerreri incontrarono il primo esodo di
donne e vecchi da Omdurman.
I profughi non riconobbero Osman, con il suo copricapo nero e l'insolita
cavalcatura. Un anziano lo chiamò mentre passava al piccolo galoppo:
«Torna indietro, sconosciuto! La città è perduta. Gli infedeli hanno
trionfato in una possente battaglia ad Abu Klea. Al-Salida, Osman Atalan
e tutti i loro guerrieri sono stati uccisi».
«Reverendo vecchio padre, che ne è stato del Divino e Vittorioso
Mohamed, il Mahdi, il successore del Profeta di Allah?»
«La luce dei nostri occhi ha dato l'ordine a tutti i suoi seguaci di lasciare
Omdurman prima che arrivino i turchi e gli infedeli. Il Mahdi, possa Allah
continuare ad amarlo e onorarlo, si sposterà nel deserto con le sue schiere.
Si dice che nutra il proposito di marciare indietro, verso El Obeid.»
Osman scostò il copricapo che gli copriva il volto. «Guardami, vecchio!
Mi riconosci?»
L'uomo lo fissò, quindi emise un gemito e cadde in ginocchio.
«Perdonami, onnipotente emiro... poiché ho detto che eri morto.»
«Il mio esercito mi segue da presso, stiamo cavalcando verso
Omdurman. La jihad continua! Combatteremo gli infedeli ogni volta che li
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incontreremo. Dillo a tutti quelli in cui t'imbatterai lungo la strada.»
Osman batté i talloni contro i fianchi di al-Buq e si allontanò al galoppo.
Trovò le strade di Omdurman in tumulto. Ansar dall'armamento pesante
galoppavano lungo le strette vie; donne urlanti caricavano tutti i loro beni
su carri trainati da asini o cammelli; masse di persone si affrettavano verso
le moschee per ascoltare le preghiere degli imam e le parole di conforto di
Allah in quel terribile momento di sconfitta e disperazione. Osman si aprì
la strada spronando il suo cavallo e facendo fuggire da ogni parte quelli
che trovava sul suo cammino, fino al palazzo dalle mura di fango del
Mahdi.
Trovò il Mahdi e il khalifa Abdullahi sul tetto, sotto il tendone parasole
di canna, assistiti da una dozzina di giovani donne dell'harem. Si prostrò
davanti all'angareb sul quale il Mahdi sedeva a gambe incrociate. Si era
arrovellato sulla scelta se cavalcare verso Omdurman e incontrare il
successore del Profeta di Allah, o invece prendere i suoi aggagir e
scomparire nel deserto orientale del Sudan. Sapeva che se avesse preso
quest'ultima decisione il Mahdi avrebbe mandato un esercito a inseguirlo:
ma, nel suo territorio, egli avrebbe prevalso anche contro la più numerosa
e valente delle armate. Fare la guerra al Mahdi, il diretto emissario di
Allah sulla Terra, avrebbe significato, in quanto musulmano, la fine. Il
rischio di morire che ora correva era preferibile a quello di essere
dichiarato dal Mahdi un miscredente e trovare le porte del paradiso chiuse
per l'eternità.
«C'è un solo Dio e nessun altro Dio che Allah», disse a bassa voce, «e
Mohamed, il Mahdi, è il successore del suo Profeta sulla Terra.»
«Guardami in volto, Osman Atalan», disse il Mahdi. Poi gli sorrise, quel
dolce sorriso che mostrava il piccolo spazio a forma di cuneo tra gli
incisivi. Osman, con la gelida mano della morte posata sul cuore, sapeva
che questo non significava perdono. Il Mahdi era certamente infuriato
perché lui non era riuscito a fermare la colonna di soccorso degli infedeli.
Sarebbe bastato che alzasse una mano e Osman sarebbe stato ucciso o
mutilato. Spesso il Mahdi concedeva al condannato di scegliere: nella
lunga cavalcata da Metemma, Osman aveva deciso che, se gli fosse stata
data la scelta, avrebbe preferito la decapitazione all'amputazione di mani e
piedi.
«Vuoi pregare con me, Osman Atalan?» domandò il Mahdi.
Osman si sgomentò. Quell'invito era minaccioso, e spesso preludeva alla
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condanna a morte. «Con tutto il mio cuore, e l'ultimo respiro del mio
corpo», rispose Osman.
«Reciteremo insieme l'al-fatihah, la prima sura del nobile Corano.»
Osman adottò correttamente la prima posizione prosternata e a una voce
recitarono: «In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso» e
poi i quattro versetti successivi, concludendo: «Te noi adoriamo e a Te
chiediamo aiuto». Quando finirono, il Mahdi si sedette e disse: «Osman
Atalan, avevo riposto grande fiducia in te, e ti avevo assegnato un
compito».
«Voi siete il battito del mio cuore e il respiro dei miei polmoni», lo
ringraziò Osman.
«Ma hai fallito. Hai consentito agli infedeli di sconfiggerti. Mi hai
consegnato al mio nemico, e ora è tutto finito.»
«No, mio signore. Non è tutto finito. Ho fallito in questa impresa, ma
non in tutte.»
«Spiegati meglio.»
«Allah vi disse che non sarebbe finita fintanto che un uomo non vi
avesse portato la testa di Gordon Pascià. Allah vi disse che io, Osman
Atalan, sono quell'uomo.»
«Non hai compiuto quella profezia. Quindi hai deluso il tuo Dio tanto
quanto il suo profeta», replicò il Mahdi.
«La profezia di Dio e di Mohamed, il Mahdi, non può cadere nel nulla»,
disse Osman sottovoce, sentendo il respiro dell'angelo nero sulla nuca,
dove lo avrebbe colpito il carnefice. «La vostra profezia è una roccia
possente nel fiume del tempo, che non può essere lavata via. Sono tornato
a Omdurman per adempierla.» Puntò il dito oltre il fiume, verso l'aspro
contorno di forte Mukran. «Gordon Pascià aspetta ancora il proprio destino
tra quelle mura. Il momento è giunto. Vi scongiuro, Divino, accordatemi la
vostra benedizione.»
Il Mahdi rimase seduto silenzioso e immobile, durante un centinaio dei
suoi rapidi battiti del cuore, pensando velocemente. L'emiro Osman era un
uomo scaltro e un abile stratega. Respingerne la supplica sarebbe stato
come ammettere che lui, Mohamed, il Mahdi, era fallibile. Alla fine sorrise
e posò la mano sul capo di Osman. «Vai, e fa' ciò che è scritto. Quando
avrai compiuto la mia profezia, ritorna qui da me.»
Un'ora prima della mezzanotte una piccola feluca attraccò nel canale
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orientale del Nilo Vittoria. Avanzava a fatica contro la brezza notturna e la
corrente, con le vele abilmente bracciate. Al-Noor sedeva di fianco a
Osman Atalan. Entrambi videro la sponda di Khartum. Quella sera lo
spettacolo pirotecnico era più ricco del solito: da quando era calato il sole
una continua successione di fuochi d'artificio solcava il cielo esplodendo in
cascate di scintille multicolori. La banda suonava con rinnovata alacrità ed
entusiasmo, e a intervalli si udivano lontani canti e risa trasportati dalle
acque scure.
«Gordon Pascià ha avuto la notizia di Abu Klea», sussurrò al-Noor. «Lui
e i suoi tirapiedi gioiscono nei loro cuori pagani. Aspettano di vedere i
battelli apparire da sud.»
Era mezzanotte passata da tempo quando il chiasso dei festeggiamenti
cessò, e Osman diede un ordine sottovoce al battelliere, il quale lasciò che
le vele latine si gonfiassero e li portassero verso la sponda sotto le mura di
Khartum. Quando giunsero di fronte al maidan, al-Noor toccò il braccio
del suo capo e gli indicò la piccola spiaggia esposta dalle acque basse. Il
fango bagnato luccicò come ghiaccio al brillio delle stelle. Osman sussurrò
qualcosa al battelliere che bordeggiò, avvicinandosi sempre di più alla
spiaggia. Osman si spostò a prua e scandagliò il fondo con una pertica
mentre la barca costeggiava silenziosamente la riva. Si sedettero senza
emettere un suono, cercando con l'orecchio un rumore di sentinelle o di
altri movimenti ostili, ma non udirono nulla, tranne il verso di una civetta
dal campanile della missione cattolica. Una luce a una finestra all'ultimo
piano del palazzo consolare che dominava il fiume per un attimo fece
intravedere un'ombra che si muoveva, ma poi tutto fu immobile.
«Dopo la sua vittoria l'infedele è tranquillo. Gordon Pascià ha abbassato
le difese», bisbigliò al-Noor.
«Abbiamo individuato la spiaggia su cui si può sbarcare. Ora possiamo
ritornare a Omdurman e prepararci», disse Osman. Sussurrò un ordine al
battelliere e tornarono sull'altro lato del fiume.
Stava sorgendo l'alba quando Osman e al-Noor arrivarono alla casa di
Osman. Era disposta su due piani e sorgeva nel quartiere meridionale, tra
Beit el Mal, il tesoro, e il mercato degli schiavi. Lì gli schiavi domestici
servivano una dozzina dei suoi aggagir seduti nel cortile a fare colazione
con agnello arrostito al miele, dolci di dhurra e caffè abissino dolce e
bollente. «Nobile emiro», informarono Osman, «siamo arrivati soltanto
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ieri sera.»
«Per quale motivo ci avete messo così tanto tempo?» domandò Osman.
«I nostri cavalli non sono come al-Buq, il principe di tutti i corsieri.»
«Siate i benvenuti», rispose Osman, e li abbracciò. «Ho ancora lavoro
per le vostre spade. Dobbiamo riprenderci l'onore che ci è stato strappato
dall'infedele nella piana di Abu Klea.»
David Benbrook aveva insistito per celebrare con una festa la battaglia
di Abu Klea e l'imminente arrivo dei rinforzi in città. Data la scarsità delle
provviste, Rebecca aveva deciso di allestire una cena all'aperto piuttosto
che un ricevimento formale in sala da pranzo, con argenti e cristalli.
Quindi gli invitati si accomodarono in terrazza su sedie da campo
pieghevoli di tela e ascoltarono la banda militare, facendo il coro nei
ritornelli più noti. Durante gli intervalli della musica brindarono alla
regina, al generale Wolseley e, in onore del console Le Blanc, al re
Leopoldo.
Dopo aver lungamente dibattuto con la propria coscienza, David aveva
deciso di portar su dalla cantina quell'unica cassa di champagne Krug che
custodiva gelosamente da tre mesi. «Forse è un tantino prematuro, ma
quando arriveranno probabilmente saremo troppo indaffarati per badarci.»
Era la prima volta che il generale Gordon aveva accettato un invito di
Rebecca. Indossava una divisa immacolata con un fez rosso, un paio di
stivali lucidi, e la Stella di Ismael egiziana scintillante sul petto. Era
rilassato ed espansivo, e tuttavia Rebecca notò che aveva un tic nervoso
sotto l'occhio. Mangiò minuscole porzioni dei cibi imbanditi: torta, pane di
dhurra e arrosto freddo di un volatile di specie non identificabile abbattuto
da David. Gordon fumava le sue sigarette turche una dopo l'altra, e fumò
anche quando si alzò per fare un breve discorso. Assicurò ai commensali
che in quel momento i battelli straripanti di truppe britanniche si
dirigevano a tutto vapore verso le rapide della gola di Shabluka, e con ogni
probabilità avrebbero raggiunto la città l'indomani sera. Fece i suoi
complimenti a tutti gli ospiti e all'intera popolazione, di ogni colore e
nazionalità, per la loro eroica resistenza e il loro sacrificio, e ringraziò Dio
onnipotente che aveva accordato ai loro sforzi di non essere vani.
Dopodiché ringraziò il console e le sue figlie per l'ospitalità e si accomiatò.
L'umore degli altri invitati si rallegrò all'istante.
Alle gemelle fu concesso di rimanere alzate fino a mezzanotte e di bere
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champagne in un bicchiere da sherry. Saffron tracannò il suo con l'impeto
di un marinaio in Ubera uscita, al contrario di Amber che bevve un sorso e
fece una smorfia. Quando Rebecca si girò dall'altra parte, Amber ne
approfittò per svuotare il suo bicchiere in quello della gemella, il che a
Saffron non dispiacque affatto.
Ma nel corso della serata Amber si fece sempre più silenziosa e triste.
Rebecca trovò strano che non cantasse, visto che la fanciulla aveva una
voce dolce e amava la musica. Amber si rifiutò anche quando David le
chiese di danzare una polka con lui. «Sei così taciturna, e avvilita... Non ti
senti bene, cara?» «Non molto, papà. Ma ti voglio tanto bene.» «Desideri
andare a coricarti? Ti darò dei sali. Sicuramente ti aiuteranno.»
«Oh, santo cielo, no! Non è così tremendo.» Amber fece un sorriso
forzato. David era preoccupato, ma non volle insistere e decise di ballare
con Saffron.
Anche il console Le Blanc notò il comportamento anomalo di Amber e
andò a sedersi accanto a lei, le prese bonariamente la mano e iniziò a
raccontare una lunga e complicata barzelletta su un tedesco, un inglese e
un irlandese. Quando arrivò alla battuta finale, si piegò in due dal ridere e
gli scesero le lacrime sulle guance rosa. Nonostante Amber non trovasse
nella barzelletta niente di esilarante, per educazione rise lo stesso. Indi si
alzò, si diresse verso Rebecca che stava danzando con Ryder Courteney, e
le bisbigliò qualcosa nell'orecchio. Rebecca lasciò Ryder, prese per mano
la sua sorellina e le due si diressero di fretta verso la casa. David le vide
entrare, e le seguì con Saffron. Quando arrivarono ai piedi delle scale,
Rebecca e Amber erano già sul pianerottolo superiore.
«Dove state andando?» chiese David. «Cosa succede?»
Sempre tenendosi per mano, Rebecca e Amber si girarono a guardarlo.
All'improvviso Amber emise un lamento e si chinò. Con un'esplosiva
eruzione di gas e liquidi, il suo intestino iniziò a svuotarsi. Eruppe da lei
come una cascata gialla formando una densa pozzanghera che si espandeva
ai suoi piedi.
David fu il primo a riprendersi dallo sgomento. «Colera!» esclamò.
All'udire quella temuta parola Saffron si ficcò le dita di entrambe le
mani in bocca e gridò.
«Smettila!» le ordinò Rebecca, ma anche la sua voce era quasi un grido.
Cercò di sollevare Amber, ma le deiezioni giallastre che continuavano a
zampillare dalla sorella le imbrattarono il davanti del lungo abito da sera di
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raso.
Ryder aveva udito il grido di Saffron e corse immediatamente in casa
dalla terrazza. Capì quasi subito quello che stava succedendo. Tornò di
corsa dove avevano cenato, diede uno strattone alla pesante tovaglia
damascata facendo cadere dal tavolo candelabri e ornamenti, afferrò la
tovaglia e si catapultò di sopra.
Amber stava ancora scaricandosi copiosamente. Sembrava quasi
impossibile che un corpo così minuto potesse contenere tanto liquido.
Scorreva dalle scale come un ruscello. Ryder dispiegò la tovaglia come
fosse un mantello, vi avvolse Amber, la sollevò in braccio come una
bambola e la portò precipitosamente al piano superiore.
«Per favore, Ryder, mettimi giù», lo implorò Amber. «Macchierò il tuo
vestito nuovo. Non riesco a trattenermi. Mi vergogno da morire.»
«Sei una fanciulla molto coraggiosa. Non c'è nulla di cui vergognarsi»,
la rassicurò Ryder. Rebecca era accanto a lui. «Dov'è il bagno?» le chiese.
«Da questa parte», gli rispose lei, facendo strada e aprendogli la porta.
Ryder entrò con Amber in braccio e la posò nella vasca.
«Levale i vestiti sporchi, e bagnala con una spugna e acqua fredda»,
ordinò Ryder. «Ha la febbre molto alta. Devi obbligarla a bere. Puoi darle
tè tiepido molto leggero. A litri! Deve continuare a bere. Deve recuperare
tutto il liquido che ha perduto.» Ryder guardò David e Saffron nel vano
della porta e disse loro: «Chiamate Nazira per farvi aiutare. Lei ha
esperienza di questa malattia. Io devo ritornare all'Ibis per prendere la mia
cassetta delle medicine. Durante la mia assenza, ricordatevi di farla sempre
bere».
Ryder corse in strada. Era fortunato perché, solo per quella notte, il
generale Gordon aveva revocato il coprifuoco per permettere alla
popolazione di festeggiare la liberazione della città. Bashid aveva messo la
cassetta dei medicinali al suo solito posto, sotto la cuccetta nella cabina
principale dell'Ite. Ryder vi rovistò velocemente in cerca di qualcosa per
fermare la dissenteria di Amber e reintegrarla dei sali minerali che aveva
perduto. Era cosciente che il tempo stringeva: il colera è un male
fulminante. Lo chiamavano «la morte del cane». Poteva uccidere un adulto
robusto in poche ore... figurarsi una bambina come Amber. Era già
gravemente disidratata, e presto ogni suo muscolo, ogni tendine avrebbero
urlato il suo bisogno di liquidi, e terribili crampi avrebbero straziato la
fanciulla finché sarebbe morta come un guscio disseccato.
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Per un attimo Ryder temette di aver perso le preziose bustine di polvere
bianca, ma poi si ricordò che per sicurezza le aveva messe negli armadietti
in cambusa. Nella città martoriata dal colera, quelle bustine valevano più
di diamanti. La polvere era contenuta in un sacchetto di sisal, e ce n'era
abbastanza per curare cinque o sei casi. L'aveva comprata per un prezzo da
strozzino dall'abate di un monastero copto nella gola del Nilo Azzurro.
L'abate gli aveva spiegato che la polvere calcarea veniva estratta dai suoi
monaci in una miniera segreta nascosta tra le montagne. Non solo aveva
un forte effetto astringente, ma condivideva anche le caratteristiche e la
composizione dei minerali espulsi dal corpo a causa della malattia. Ryder
era stato scettico fino a che Bashid non si era ammalato di colera e lui lo
aveva salvato somministrandogli la polvere in dosi massicce.
Trasferì tutto quello che gli occorreva in un sacco di dhurra vuoto e
ritornò di corsa al consolato. Salì le scale ed entrò nel bagno, dove trovò
Amber ancora nella vasca. Era nuda, e Rebecca e Nazira la stavano
lavando con una spugna intinta in una bacinella d'acqua e sapone che
Saffron si incaricava di reggere. David indugiava sullo sfondo, inutile alla
causa, con in mano una tazza di tè tiepido. L'aria era ancora spessa per il
fetore di vomito e feci, ma Ryder fece ben attenzione a dissimulare il suo
disgusto.
«Ha vomitato?»
«Sì», rispose David, «ma è uscito solo un po' di tè. Non credo abbia
nient'altro nello stomaco.»
«Quanto ne ha bevuto?» domandò Ryder mentre gli strappava di mano
la tazza e vi versava una manciata della polvere.
«Più di due tazze», rispose David con soddisfazione.
«Non basta», ribatté Ryder. «Deve berne ancora.»
«Ma non ne vuole più.»
«Bisognerà costringerla», disse Ryder. «Se non lo beve, glielo
somministrerò per clistere.» Si avvicinò alla vasca con la tazza. «Amber...
hai capito che cosa ho detto?» La fanciulla annuì con foga e i ricci bagnati
le ricaddero sugli occhi. «Allora bevi!» Lei inghiottì il liquido a fatica e si
afflosciò ansimando. Già deperito a causa della lunga denutrizione, ora il
suo corpo era disidratato e scheletrico. Durante l'ora di assenza di Ryder
aveva subito una drammatica metamorfosi. Aveva le gambe come quelle
di un uccello, le costole spiccavano come le dita di una mano, e la pelle
biancastra del ventre infossato sembrava traslucida, tanto che s'intravedeva
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la rete di vene azzurre.
Ryder versò nella tazza un'altra manciata di polvere e la riempì con il tè
del bricco che aveva a portata di mano. «Bevi!» ordinò. La ragazza ingoiò
l'intruglio.
Amber ansava debolmente, gli occhi incavati nelle orbite violacee.
«Sono svestita. Per favore, Ryder, non guardarmi.»
Ryder si tolse la giacca di pelle e la coprì. «Prometto che non ti guarderò
se tu prometti di bere.» Riempì di nuovo la tazza e versò altra polvere.
Mentre Amber beveva, la pancia le si gonfiò come una palla. I gas che
aveva dentro gorgogliarono, ma non evacuò. Ryder riempì la tazza un'altra
volta.
«Basta, non ne posso più. Per favore, non farmi bere ancora», supplicò.
«Devi bere. Me lo hai promesso.»
Amber si sforzò di mandar giù un'altra tazza piena, e ancora un'altra. Poi
si sentì un forte odore di ammoniaca e un rivolo giallo di urina fluì nella
vasca, fino allo scarico. «Mi hai fatto fare la pipì come una poppante»,
disse lei, piangendo silenziosamente di vergogna.
«Brava bambina», la incoraggiò Ryder. «Significa che produci più acqua
di quanta ne perdi. Sono fiero di te.» Ma capiva di avere recato oltraggio al
suo pudore, e si alzò in piedi. «Adesso lascerò Rebecca e Saffy ad
assisterti. Non dimenticare la promessa. Devi continuare a bere. Io
aspetterò fuori.»
Prima di uscire dal bagno sussurrò a Rebecca: «Credo che ce l'abbiamo
fatta. È fuori dal pericolo imminente, ma tra poco inizieranno i crampi. Al
primo segnale, chiamami. Dovremo massaggiarle gli arti, altrimenti il
dolore diventerà intollerabile». Poi prese dal sacchetto la bottiglia di olio
di noce di cocco che aveva recuperato dall'Ibis, e gliela consegnò.
«Di' a Nazira di riscaldare quest'olio alla temperatura del sangue. Non di
più. Io non mi allontanerò.»
Gli invitati se n'erano andati da ore, e la casa era in silenzio. Ryder e
David si accomodarono sull'ultimo gradino del pianerottolo, in attesa.
Parlarono del più e del meno. Commentarono la notizia dell'arrivo dei
rinforzi, discussero sull'orario in cui sarebbe giunto il battello. David
concordava con la stima di Gordon il Cinese, a differenza di Ryder.
«Gordon con la verità è sempre parsimonioso. Dice quello che gli
conviene. Io crederò all'arrivo solo quando vedrò i battelli ancorati in
porto. Nel frattempo, manterrò in pressione la caldaia dell'Ite.»
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Nella notte una civetta lanciò il lugubre richiamo per una, due, tre volte.
David si alzò irrequieto, si affacciò alla finestra, si appoggiò al davanzale e
guardò giù, verso il fiume.
«Quando la civetta della notte
con un solo respiro canta tre volte
la terza volta chiama la morte.»
«Quella è una sciocca superstizione», osservò Ryder, «e per di più non è
neanche verificabile.»
«Forse avete ragione», ammise David. «Me la recitava la balia quando
avevo cinque anni... ma era una vera strega, e si divertiva a spaventare i
bambini.» David si chinò a guardare meglio la riva del fiume. «C'è una
barca laggiù, presso la spiaggia.»
Ryder lo raggiunse alla finestra. «Dove?»
«Là...! No, ora è scomparsa. Giuro che c'era una barca. Una piccola
feluca.»
«Probabilmente un pescatore che stava ritirando le reti.» All'improvviso
udirono dal bagno le grida angosciate di Amber e corsero da lei. Era tutta
raggomitolata. I muscoli atrofizzati degli arti sembravano i cordoni ritorti
di una frusta: le contrazioni li tiravano fin quasi a strapparli. La
sollevarono dalla vasca per adagiarla su un asciugamano che Rebecca e
Nazira avevano deposto sul pavimento a piastrelle.
Ryder si arrotolò le maniche e si inginocchiò sopra di lei. Nazira versò
l'olio di noce di cocco tiepido sulle sue palme, e lui incominciò a
massaggiare le gambe rattrappite della fanciulla. Sotto la pelle, era tutta
tesa e annodata. «Rebecca, prendi l'altra gamba. Nazira e Saffy, le
braccia», ordinò lui. «Fate in questo modo.» Mentre la massaggiavano,
David le versò in bocca alcune gocce della miscela di tè e medicina.
Rebecca osservò le mani di Ryder al lavoro: erano larghe e potenti, ma
delicate. Sotto le sue dita piano piano i muscoli di Amber si rilassavano.
«Non è ancora finita», avvertì Ryder. «Ci saranno altri spasmi.
Dobbiamo essere pronti a ripetere i massaggi.»
Questo è un uomo dai tanti volti, pensò Rebecca. Può mostrarsi senza
scrupoli, ma anche compassionevole e di spirito generoso. Sarei sciocca a
lasciarmelo scappare.
Nel giro di un'ora i crampi paralizzarono di nuovo gli arti di Amber, e
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2005 - Il Trionfo Del Sole
seguitarono per tutta la notte. Alle prime luci dell'alba, dopo una nottata di
massaggi, gambe e braccia cominciarono a raddrizzarsi e i nodi ad
ammorbidirsi e a sciogliersi. A quel punto, la fanciulla cadde
addormentata.
«È fuori pericolo», bisbigliò Ryder, «ma dobbiamo ancora vegliare su di
lei. Dovrai darle da bere il tè con la polvere appena si sveglia; e farla
mangiare, magari del porridge di dhurra. Mi dispiace che non abbiamo
niente di più sostanzioso per nutrirla, come un brodo di pollo per
esempio... ma questo è il meglio che possiamo fare. Per giorni, forse per
settimane, sarà debole come una neonata. Da mezzanotte non è più andata
di corpo, quindi spero e credo che i germi, come Joseph Lister usa
chiamare quelle malvage bestioline, siano stati debellati.» Raccolse da
terra la sua giacca, bagnata e sudicia. «Sapete dove trovarmi. Chiamatemi
e arriverò subito.»
«Ti accompagno alla porta.» Rebecca si alzò in piedi. Mentre
camminavano verso l'atrio, senza farsi sentire dagli altri, lo prese per un
braccio e disse: «Sei un mago, Ryder... Hai fatto una magia per noi. Non
so come la famiglia Benbrook ti potrà mai ringraziare».
«Non ringraziarmi... recita solo una preghiera per il vecchio abate
Michael, il quale per un sacchetto di quel gesso mi ha rapinato cinquanta
talleri.»
Sulla porta Rebecca alzò il viso e lo baciò... ma quando sentì i lombi di
Ryder risvegliarsi, si ritrasse. «Sei un satiro, oltre a essere un mago», esalò
con un fievole sorriso. «Ma non ora. Ci occuperemo di questo alla
prossima occasione. Forse domani, quando arriveranno i rinforzi e saremo
liberati dalle grinfie dei dervisci.»
«Mi tratterrò», promise Ryder. «Ma dimmi, mia dolce Rebecca... hai
ripensato alla mia proposta?»
«Sono sicura che converrai che, in questo difficile momento, il mio
primo pensiero deve andare a Amber e alla mia famiglia. Ma il mio affetto
per te cresce di giorno in giorno. Quando questo periodo tremendo sarà
alle spalle, confido che avremo qualcosa d'importante da condividere...
forse per il resto dei nostri giorni.»
«Attendo fiducioso, allora.»
Osman Atalan scelse duemila dei suoi guerrieri più fidati per l'ultimo
assalto su Khartum. Li fece uscire in marcia da Omdurman, senza operare
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2005 - Il Trionfo Del Sole
alcuno sforzo per nascondere i loro movimenti. Dai bastioni di forte
Mukran, Gordon Pascià avrebbe visto l'esodo e concluso che il Mahdi
stava abbandonando la città e fuggendo verso El Obeid. Una volta che i
suoi uomini fossero giunti dietro le colline di Kerreri, non più visibili ai
cannocchiali nemici collocati sulle torri e sui minareti di Khartum, Osman
li avrebbe divisi in cinque battaglioni di circa quattrocento uomini.
Una numerosa flotta di battelli sulla sponda di Omdurman avrebbe certo
insospettito Gordon Pascià. Se Osman avesse cercato di spostare una forza
troppo cospicua oltre il fiume in un'unica ondata, avrebbe sovraffollato la
piccola spiaggia e creato caos e inefficienza. Decise quindi di attraversare
il fiume servendosi di soli venti battelli. Ciascuna imbarcazione avrebbe
potuto trasportare con sicurezza venti uomini. Una volta sbarcati
quattrocento uomini sull'altra sponda del fiume, i battelli sarebbero tornati
alla riva di Omdurman per caricare gli altri. La prima ondata avrebbe
dovuto sgomberare la spiaggia al più presto lasciando spazio per i
quattrocento successivi. Osman stimava che così facendo avrebbe potuto
spostare l'intero esercito oltre il Nilo in poco più di un'ora.
Osman conosceva bene i suoi uomini. Ogni battaglione aveva a capo
uno sceicco al quale aveva impartito ordini semplici, che i comandanti non
avrebbero dimenticato nella furia della battaglia e nell'eccitazione del
saccheggio.
La spie dei dervisci entro Khartum avevano disegnato dettagliate mappe
delle difese di Gordon Pascià. Il principale obiettivo di Osman erano le
mitragliatrici Gatling. Il ricordo del suo ultimo incontro con quelle armi gli
era rimasto impresso nella mente e non voleva ripetere quel bagno di
sangue. Il primo battaglione giunto a riva avrebbe attaccato subito i pezzi
d'artiglieria per farli tacere.
Una volta prese e distrutte le mitragliatrici, sarebbero stati in grado di
espugnare le fortificazioni lungo l'argine, annientando le truppe egiziane
nei baraccamenti e nell'arsenale, per poi traboccare in città.
La sera prima, Maometto, il primo profeta di Allah, aveva visitato
Mohamed, il Mahdi suo successore. Recava un messaggio direttamente da
Allah. Era stato decretato che la fede e devozione degli Ansar andava
premiata. Una volta consegnata la testa di Gordon Pascià, avrebbero
dovuto essere liberi di mettere a ferro e fuoco Khartum. Per dieci giorni
avrebbero potuto darsi al saccheggio più sfrenato e feroce. Dopodiché
avrebbero dovuto dare fuoco alla città e ai suoi edifici principali,
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2005 - Il Trionfo Del Sole
distruggendo in particolare le chiese, le missioni e i consolati. Ogni traccia
degli infedeli andava cancellata dalla terra del Sudan.
Calato il crepuscolo, Osman guidò i suoi duemila uomini in marcia dalle
colline di Kerreri a Omdurman. Al di là del fiume, nella città di Khartum, i
fuochi pirotecnici di Gordon e il concerto della banda militare erano meno
grandiosi della sera prima. C'era molta delusione per il mancato arrivo dei
battelli con i rinforzi. Quando si spense l'ultimo fuoco, sulla città cadde il
silenzio e Osman condusse il suo primo battaglione alla riva, dove erano
ormeggiate venti barche. La piccola flottiglia era un'accozzaglia di feluche
e di dau mercantili. Un inquietante silenzio accompagnò l'attraversamento
del Nilo fra i banchi di nebbia. Osman fu il primo a toccare l'altra sponda.
Con al-Noor e una dozzina dei suoi aggagir subito alle spalle, attraversò di
corsa la spiaggia.
La sorpresa fu totale. Le sentinelle egiziane dormivano profondamente,
certe che all'alba avrebbero visto i battelli dei rinforzi ancorati alle mura.
Non ci fu resistenza, non ci furono spari, né grida di allarme. Gli aggagir
erano penetrati nella prima linea delle trincee, gli spadoni che si alzavano e
calavano a un ritmo terribilmente noto. Nel giro di pochi minuti, le trincee
erano prese. I corpi degli egiziani morti o feriti giacevano ammucchiati.
Osman e i suoi aggagir li abbandonarono lì affrettandosi verso l'arsenale.
In quel momento, sbarcò anche il secondo battaglione.
All'improvviso lo sparo di un fucile ruppe il silenzio, seguito da un altro.
Si sentirono urla, e la tromba che chiamava alle armi. Le detonazioni
sporadiche e isolate si fusero in un tuono di fucileria che echeggiò in tutta
la città: erano gli egiziani che sparavano alle ombre, o alla cieca in aria.
Dalla spiaggia, lo squillo di un ombeyya e il rimbombo di un tamburo di
guerra accompagnarono l'approdo di un altro battaglione che si diresse
subito verso la città.
«Esiste un solo Dio e Mohamed, il Mahdi, è il suo profeta.» Il canto di
guerra dilagò in tutta la città, e presto strade e vicoli si animarono di figure
che correvano e lottavano all'impazzata. Terrore e angoscia si traducevano
in urla e suppliche, come voci provenienti dall'inferno.
«Pietà, in nome di Allah!»
«Pietà! Pietà!»
«I dervisci hanno invaso la città! Scappate! Scappate o morirete!»
Tutte le celebri difese di Gordon - i fortini, le ridotte - erano collocate
con la finalità di bloccare gli attacchi dal fiume. Assalite alle spalle, furono
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rapidamente sopraffatte. Gli aggagir massacrarono i difensori sorpresi
nelle trincee o li braccarono per le strade e i vicoli, come lupi alla caccia di
conigli.
Seduto alla scrivania, David stava aggiornando il suo diario dei dieci
lunghi mesi d'assedio della città. Sapeva di avere tra le mani un documento
di inestimabile valore. Con l'imminente arrivo dei rinforzi britannici, nel
volgere di qualche settimana lui e le sue figlie sarebbero saliti a bordo di
un postale diretto in Inghilterra. Uno dei suoi primi obiettivi una volta
arrivato sarebbe stato di elaborare il diario in un vero e proprio manoscritto
narrativo. L'appetito del pubblico per i libri di avventura ed esplorazione
del continente nero sembrava insaziabile. Baker, Burton e Stanley avevano
guadagnato migliaia di sterline con i loro resoconti. Sam Baker,
addirittura, per la sua opera letteraria era stato nominato cavaliere da Sua
Maestà. Le memorie delle esperienze di David, vissute in prima linea da
valoroso difensore della città, avrebbero senz'altro destato l'interesse di
molti; e il racconto del coraggio e dei patimenti delle sue tre figliole
avrebbe commosso le lettrici. Sperava che il libro fosse pronto per gli
editori entro un mese dal suo arrivo in Inghilterra. Intinse la punta della
penna nel calamaio d'argento, asciugò con cura l'inchiostro in eccesso e
rimase a guardare trasognato la fiamma della lampada sull'angolo della
scrivania.
Accarezzava un sogno: dunque, con il mio manoscritto potrei
guadagnare anche cinquantamila sterline... Magari cento? Scosse la testa.
Troppo. Mi accontenterei anche di diecimila. Ci aiuterebbe a rimetterci in
sesto. Come sarà bello tornare a casa!
I suoi pensieri furono interrotti da un colpo di fucile. Non veniva da
lontano: forse dal maidan. Gettò la penna schizzando la pagina
d'inchiostro, attraversò lo studio e si diresse verso la finestra. Ma prima di
raggiungerla udì altri colpi: questa volta una raffica, una tempesta di spari.
«Mio Dio! Cosa succede laggiù?» Spalancò la finestra e sporse il capo.
Nelle vicinanze udì lo strillo acuto di una tromba che chiamava alle armi e
poco dopo, in lontananza, il coro trionfante degli arabi: «La ilaha illallah!
C'è un solo Dio!» Per un attimo David restò impietrito, con il fiato mozzo.
«Sono entrati!» ansimò. «I dervisci sono dentro la città!»
Corse alla scrivania e afferrò il diario, ma era troppo pesante da portare,
quindi lo incastrò nella cassaforte nascosta dietro i pannelli di legno che
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2005 - Il Trionfo Del Sole
ricoprivano il muro, chiuse con forza lo sportello d'acciaio, compose la
combinazione della serratura e rimise a posto i pannelli. La sua spada da
cerimonia era appesa al muro dietro la scrivania. Non era un'arma adatta
per la guerra e lui non era un bravo spadaccino, ma se la agganciò
ugualmente alla cintola. Prese anche il revolver Webley dal cassetto e se lo
mise in tasca. Nella stanza non restava nient'altro di valore: quindi corse
fuori, attraversò l'atrio e salì le scale verso le camere da letto.
Rebecca aveva portato Amber nella sua stanza per poterla tenere
d'occhio durante la notte. Nazira dormiva su un angareb nell'angolo.
Entrambe erano sveglie e ritte in piedi, con un'aria frastornata.
«Vestitevi immediatamente!» ordinò David. «E vestite anche Amber.
Non c'è tempo da perdere!»
«Che succede, papà?» domandò Rebecca, confusa.
«Credo che i dervisci siano entrati in città. Dobbiamo correre al quartier
generale di Gordon. Lì saremo al sicuro.»
«Non possiamo spostare Amber. E' così debole che potrebbe morire.»
«Se i dervisci la trovano, potrebbe fare una fine peggiore», replicò lui
mestamente. «Tiratela su. La porterò in braccio.»
Poi, rivolto a Nazira: «Corri in camera di Saffron, vestila, e portala qui.
Dobbiamo andarcene subito».
In pochi minuti erano pronti. David portò in braccio Amber giù dalle
scale, seguito dalle altre. Prima di arrivare ai piedi della scala sentirono il
rumore di vetri in frantumi e di pannelli di legno che venivano sfondati,
accompagnati da selvagge grida in arabo.
«Cercate le donne!»
«Uccidete l'infedele!»
«Da questa parte», sibilò David, e corsero nelle stanze sul retro. Alle
loro spalle udirono il frastuono della porta d'ingresso che usciva dai cardini
e si abbatteva al suolo. «Restatemi vicine!» Quindi condusse le donne fino
alla porta che dava sul cortile, al di là del quale sorgeva il quartier generale
di Gordon. Sollevò la sbarra e, lentamente, aprì la porta. Guardò fuori con
molta cautela. «La via è libera... almeno per ora.»
«Come sta Amber?» bisbigliò ansiosamente Rebecca.
«È tranquilla», rispose David. Il corpo della bambina era leggero come
quello di un uccellino. Non si muoveva. Sembrava già morta, ma lui
sentiva il cuore battere sotto la sua mano, e a un certo punto colse anche un
lieve sussurro.
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Il quartier generale di Gordon distava solo un centinaio di passi. Il
portone in fondo al cortile era chiuso. Lungo i muri laterali c'erano le
scalinate che portavano al secondo piano, dove si trovavano gli alloggi
privati del generale Gordon. Nessuna traccia di truppe egiziane.
«Dove sarà Gordon?» chiese David costernato. Sembrava che per loro
non ci fosse riparo nemmeno nella roccaforte del generale. In quell'istante
il portone del cortile tremò e forti esplosioni risuonarono dall'altro lato. Un
terribile coro di urla di guerra dei dervisci si sollevò come un uragano.
Mentre David cercava di pensare alla prossima mossa, tre soldati egiziani
uscirono dall'edificio del quartiere generale, attraversarono il cortile e
raggiunsero il portone principale. Erano i primi che vedeva.
«Grazie a Dio! Finalmente si stanno svegliando!» esclamò David. Stava
quasi per far uscire le donne dalla porta quando, incredulo, vide i soldati
alzare le pesanti sbarre del portone. «Ma come? Quei bastardi vigliacchi si
arrendono... fanno entrare i dervisci senza neanche combattere!»
A questo punto i soldati egiziani gridarono: «Siamo fedeli al Divino
Mahdi!»
«Esiste un solo Dio, e Mohamed, il Mahdi, è il suo profeta!»
«Entrate, uomini fedeli, e risparmiateci. Siamo i vostri fratelli in Allah.»
A questo punto spalancarono le porte e un'orda di dervisci irruppe nel
cortile. I primi massacrarono senza pietà gli egiziani traditori, i cui corpi
vennero calpestati dalle centinaia di guerrieri che sciamarono dentro. Molti
di loro recavano torce, illuminando la scena agghiacciante con una luce
gialla e tremula. David fece per chiudere la porta e bloccarla prima che li
scoprissero, ma proprio in quel momento in cima alla scalinata di pietra
che dal quartier generale dava sul cortile apparve una figura. David restò a
guardare dalla fessura, affascinato.
Il generale Charles Gordon era in alta uniforme. Andava fiero della sua
abilità di impressionare i barbari selvaggi. Si era vestito in tutta
tranquillità, mettendoci il tempo necessario, anche quando aveva udito il
pandemonio nelle strade. Portava tutte le decorazioni, ma era armato
soltanto di un leggero bastone: conosceva benissimo il pericolo di
esacerbare uomini che, al contrario, intendeva rendere mansueti.
Con estrema calma, e con lo sguardo ipnotico dei suoi occhi color
zaffiro, guardò le torce e alzò le mani per placare il trambusto. Inutile,
pensò David: e invece, miracolosamente, un silenzio innaturale discese sul
cortile. Gordon tenne alte entrambe le braccia, come un musicista che stia
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dirigendo un'orchestra inetta. La sua voce era forte e ferma quando, in un
arabo dal forte accento, dichiarò: «Voglio parlare con il vostro capo, il
Mahdi», annunciò.
La folla si agitò come un campo di dhurra al vento, ma nessuno rispose.
Parlò di nuovo, questa volta con voce secca e solenne; aveva intuito di
dominare la folla. «Chi è il vostro capo? Che si faccia avanti.»
Dalla folla uscì un uomo alto e di bell'aspetto. Portava il turbante verde
degli emiri. Appoggiò il piede sul primo scalino e disse: «Sono l'emiro
Osman Atalan, dei Beja. Questi sono i miei aggagir».
«Ho sentito parlare di te», disse Gordon. «Avvicinati.»
«Gordon Pascià, tu non darai più ordini a nessun figlio dell'Islam, poiché
questo è l'ultimo giorno della tua vita.»
«Non minacciarmi, emiro Atalan. Il pensiero della morte mi è
indifferente.»
«Allora scendi queste scale e affrontala come un uomo e non un codardo
cane infedele.»
Per qualche secondo ancora, Gordon il Cinese lo fissò dall'alto.
Osservandolo dall'oscurità del vano della porta, David si chiese quali
pensieri occupassero la mente algida e precisa di Gordon. Possibile che
non lo agitasse nessun dubbio, nessuna paura? Gordon non tradì alcuna di
queste emozioni mentre scendeva le scale. I suoi passi erano precisi e
determinati, come se fosse in piazza d'armi. Arrivò all'ultimo scalino sopra
Osman Atalan, si fermò, e lo fissò dritto negli occhi.
Osman gli studiò il volto e disse sottovoce: «Gordon Pascià, sei davvero
un uomo coraggioso». Quindi, senza esitare, spinse la lama nel ventre di
Gordon; poi, quasi in un unico gesto, estrasse la spada e la afferrò a due
mani. Il riflesso azzurro degli occhi di Gordon brillò come il fuoco di una
candela nel vento, i suoi lineamenti di granito parvero deformarsi come la
cera che si scioglie. Cercò di rimanere eretto, ma la fiammella della sua
vita tumultuosa si stava affievolendo. Lentamente le gambe cedettero.
Osman lo attendeva con la spada pronta. Gordon si accasciò in avanti, e
Osman prese infallibilmente la mira alla sua nuca. Si sentì il colpo secco
della lama spezzare la spina dorsale. La testa di Gordon cadde e rotolò
come un frutto maturo da un albero. Si abbatté con un tonfo sullo scalino
di pietra e ruzzolò in cortile. Osman si abbassò, afferrò un ciuffo di capelli
e, incurante del sangue che gli imbrattava la jibba, sollevò in alto la testa
per mostrarla ai suoi aggagir. «La testa è il nostro dono per il Divino
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Mahdi. La profezia è compiuta. La volontà e la parola di Allah comandano
tutte le creature.»
Un unico boato salì al cielo notturno: «Dio è grande!» Poi, nel silenzio
che seguì, Osman parlò ancora: «Voi avete fatto un dono a Mohamed, il
Mahdi. Ora egli farà un dono a voi. Per dieci giorni questa città, tutti i suoi
tesori e la sua gente sono vostri: ne potete disporre a piacimento».
David non aspettò di ascoltare una parola di più e, intanto che
l'attenzione dei dervisci era concentrata sull'emiro, chiuse la porta e la
bloccò. Riunì le donne accanto a lui, accomodò il capo di Amber sulla sua
spalla e le guidò nel retrocucina, oltre la dispensa e l'entrata alle cantine,
fino alla porticina che conduceva agli alloggi della servitù. Mentre si
affrettavano sentirono alle loro spalle uno schianto di mobili fracassati. Le
donne alzarono gli occhi impaurite sentendo i passi dei dervisci che
irrompevano al piano di sopra del palazzo. David armeggiò brevemente
con la porta prima di riuscire ad aprirla e a condurle all'aperto.
Raggiunsero l'entrata del vicolo maleodorante che correva lungo il muro
dietro il palazzo. Nel vicolo c'erano pile di vasi da notte che non erano stati
vuotati da mesi. L'odore degli escrementi era asfissiante. Nessun devoto
musulmano sarebbe passato in mezzo a tanta sporcizia, per cui poterono
fermarsi qualche istante. Mentre riprendevano fiato, sentirono urla e spari
venire dalle strade oltre il muro di confine, e dal palazzo che avevano
appena lasciato.
«Che facciamo adesso, papà?» gli domandò Rebecca.
«Non lo so», ammise David. Amber si lamentò e lui le accarezzò la
testa. «Sono dovunque. Sembra non esserci via di scampo.»
«Ryder Courteney ha il battello apprestato nel canale. Dobbiamo fare in
fretta, o salperà senza di noi», disse Rebecca.
«Qual è la via più sicura per raggiungerlo?» David respirava con
affanno.
«Dobbiamo tenerci lontani dalla riva. I dervisci staranno sicuramente
saccheggiando le ville lungo la costiera.»
«Certo, è chiaro. Hai ragione.»
«È meglio attraversare i quartieri degli arabi», continuò Rebecca.
«Facci strada!» la esortò allora David.
Rebecca prese per mano Saffron. «Nazira, tu dalle l'altra mano.»
Le donne corsero tra i secchi lungo lo stretto vicolo. David arrancava
dietro di loro. Quando giunsero in fondo, Rebecca si fermò per assicurarsi
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2005 - Il Trionfo Del Sole
che la strada davanti a loro fosse sgombra. Poi corsero fino all'angolo
seguente, e ancora una volta Rebecca sbirciò per controllare la situazione.
Continuarono così, per brevi tratti. Per due volte la ragazza scorse gruppi
di dervisci indiavolati che venivano verso di loro, e trovarono rifugio in un
vicolo laterale appena in tempo. Alla fine sbucarono dietro il consolato
belga. Qui furono costretti a fare una sosta per evitare un'altra banda di
dervisci intenti a sfondare il portone dell'edificio usando come ariete una
panca della cattedrale cattolica. La lunga porta intagliata cedette e i
dervisci non ebbero più freno.
Rebecca si guardò intorno per trovare un'altra via di fuga. Prima però
scorse uno degli aggagir che trascinava in strada dalla porta spalancata la
figura massiccia del console Le Blanc. Questi strillava come un maialino
sulla via del macello. Benché si dibattesse e lottasse in tutti i modi, non
aveva nessuna possibilità contro quei guerrieri snelli e forzuti. Lo
immobilizzarono in mezzo alla strada con la schiena a terra e gli
strapparono i vestiti. Quando fu nudo, un guerriero si inginocchiò accanto
a lui stringendo un pugnale. Con una mano afferrò lo scroto peloso di Le
Blanc e lo tirò come fosse di caucciù. Poi lo recise con un colpo di
pugnale, lasciando un buco aperto alla base del ventre bianco e flaccido.
Ridendo a squarciagola, gli uomini che lo tenevano fermo costrinsero Le
Blanc ad abbassare la Mahdibola con l'impugnatura dei coltelli, e gli
ficcarono i testicoli in bocca soffocando le sue urla. Poi completarono la
mutilazione rituale amputandogli le mani e i piedi all'altezza di polsi e
caviglie. Quando ebbero finito, lo lasciarono a dibattersi al suolo e
rientrarono nel palazzo consolare per unirsi al saccheggio. Le Blanc si alzò
a fatica e restò seduto come una grottesca statua di Buddha, cercando
goffamente di togliersi dalla bocca il molle sacchetto dello scroto con i
moncherini sanguinanti.
«Mio Dio, che orrore!» La voce di Rebecca era roca per la pietà.
«Povero monsieur!» Si mosse come per andare in suo aiuto.
«No! Prenderanno anche te.» La voce di David era flebile non tanto per
la compassione, quanto per il terribile sforzo di aver corso così a lungo con
Amber in braccio. «Non possiamo fare niente per lui. Possiamo solo
cercare di salvarci. Becky, tesoro, è necessario andare avanti. Non ti
voltare.»
Imboccarono un altro vicolo, inoltrandosi sempre di più nel dedalo di
capanne e catapecchie del quartiere arabo in direzione della strada che
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portava alla residenza di Ryder Courteney. Dopo un centinaio di metri
David perse il passo, come un vecchio cervo sfinito dall'inseguimento dei
cani. Il suo viso era una maschera di sofferenza, e il sudore gli sgocciolava
dal mento.
«Papà, vi sentite bene?» gli chiese Rebecca voltandosi verso di lui.
«Solo un po' sfiatato», sospirò David. «Non sono più giovane come una
volta. Dammi solo un minuto per riprendermi.»
«Lasciate che sia io a portare Amber.»
«No... è piccina, ma troppo pesante per te. Tra qualche secondo mi
sentirò meglio.» David si abbassò a terra, tenendo sempre Amber stretta al
petto. Le altre tre lo aspettarono, ma ogni volta che udivano una sparatoria
o delle grida si guardavano terrorizzate, stringendosi l'una all'altra. Dal
consolato belga le fiamme salivano verso il cielo illuminando i dintorni di
un bagliore giallastro. David si alzò in piedi a fatica, barcollando. «Ora
possiamo ripartire», disse.
«Per favore, lasciatemi portare Amber», lo implorò Rebecca. «Non dire
sciocchezze, Becky. Sto bene. Vai avanti!» Rebecca scrutò il volto del
padre. Era molto pallido e lustro di sudore, ma sapeva che discutere con lui
sarebbe stata solo una perdita di tempo. Gli prese un braccio per sostenerlo
e proseguirono, ma il loro passo era lento.
Di lì a poco, David dovette nuovamente fermarsi. «Quanto manca per
raggiungere l'Ibis?»
«Non molto», mentì Rebecca. «E' appena dietro quella piccola moschea
alla fine della via. Ce la potete fare.»
«Certo che ce la farò.» David si rimise in cammino vacillando. Ma
all'improvviso alle loro spalle sentirono le urla degli arabi. Si volsero e li
videro arrivare: erano almeno una ventina di dervisci, con le armi in
pugno: alla vista delle donne bramirono di oscena eccitazione.
Rebecca trascinò David fino all'angolo dell'edificio più vicino. Per un
momento, furono fuori della visuale dei loro inseguitori. David si appoggiò
contro il muro a peso morto.
«Non posso proseguire», disse poi a Rebecca passandole Amber.
«Prendila!» le ordinò. «Porta le altre via con te, e fuggi. Io li tratterrò per
farti guadagnare terreno.»
«Non vi posso lasciare», ribatté Rebecca con decisione. Suo padre provò
a discutere, ma lei lo ignorò e si rivolse a Nazira. «Prendi Saffron e
scappa. Non voltarti! Corri verso la barca.» «Voglio restare con te,
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Becky», l'implorò Saffron. «Se mi vuoi bene, farai quello che ti dico»,
replicò Rebecca. «Ti voglio bene, ma...» «Niente ma, vai!»
«Per favore, Saffy, obbedisci a tua sorella.» La voce di David era
arrochita dal dolore. «Fallo per me.»
Saffron esitò, poi disse: «Vi vorrò sempre bene... papà, Becky e
Amber». Afferrò la mano di Nazira e insieme scapparono via. David e
Rebecca si voltarono per affrontare i dervisci che proprio allora stavano
girando l'angolo. Avevano le jibba e le lame sporche di sangue, i visi
stravolti per la brama di uccidere. David brandì la spada e si mise davanti a
Rebecca e Amber per proteggerle.
I dervisci si disposero attorno a loro in semicerchio, appena fuori
dall'allungo della spada di David. Un guerriero si proiettò in avanti e fintò
un colpo alla testa. Quando David reagì con un affondo, l'arabo lo schivò
con un balzo, urlando e ridendo. Sullo slancio, David rischiò di perdere
l'equilibrio. Gli altri dervisci si unirono al gioco e cominciarono a
stuzzicare Benbrook, costringendolo a voltarsi di qua e di là.
Mentre David rintuzzava gli attacchi simulati dei guerrieri, uno di loro si
avvicinò da dietro e afferrò Rebecca. Con un braccio la ghermì attorno alla
vita e con l'altra mano le sollevò le gonne. Lei non portava niente sotto, e
gli altri arabi, eccitati, berciarono mentre il loro compagno spingeva le
anche contro le natiche di Rebecca mimando la copula. Infuriata per
l'oltraggio, Rebecca strillò e cercò di liberarsi, ma con Amber tra le braccia
non riusciva. David annaspò verso di loro per proteggerle.
Il derviscio lasciò Rebecca e disse sghignazzando: «La monteremo tutti
quanti così, e ci darà venti bravi figli musulmani».
David era fuori di sé, per l'affanno che sentiva nel petto e per le
derisioni. Ritentò l'affondo per una, due volte: ma gli avversari erano svelti
e agili. Accecato dal sudore, paralizzato dal dolore al petto che cresceva
sempre di più, perse la presa sulla spada, che gli scivolò di mano. Cadde a
terra, in ginocchio. Aveva il viso tumefatto e contorto, la bocca spalancata
come quella di un pesce che boccheggia. Uno degli aggagir si avvicinò e
con la destrezza di un chirurgo gli tranciò un orecchio. Il sangue colò giù
sulla camicia, ma David sembrò non sentire il dolore.
Rebecca aveva ancora in braccio Amber, ma corse verso il padre,
s'inginocchiò accanto a lui e lo abbracciò. «Per favore!» supplicò in arabo.
«È mio padre! Risparmiatelo.» Il sangue della ferita macchiò padre e figlia
insieme.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
I dervisci risero. «Per favore, risparmiatelo!» gridarono
scimmiottandola. Uno la prese per una ciocca di capelli, la trascinò via e la
gettò a terra.
Rebecca si alzò a sedere. Teneva ancora Amber sul grembo e
singhiozzava, fuori di sé. «Lasciatelo stare!»
Con la mano tremante David estrasse la pistola dalla tasca della giacca e
la agitò, disegnando vaghi cerchi nell'aria. «Allontanatevi, o vi sparo.»
L'aggagir che gli aveva tagliato l'orecchio fece un passo verso David e
con un altro colpo, veloce e deciso, gli mozzò la mano tesa. «Risparmiaci,
onnipotente infedele, siamo atterriti», lo schernì. David guardò incredulo il
polso da cui sprizzava un getto di sangue arterioso.
Rebecca urlò: «Cosa ti hanno fatto?»
David si strinse al petto il moncherino con l'altra mano e abbassò il capo,
in una posizione come di preghiera. L'arabo gli si avvicinò di nuovo e gli
sfiorò la nuca, misurando la giusta distanza per un colpo netto. Rebecca
lanciò un urlo disperato. Il derviscio alzò la spada e, con tutto il suo peso,
sferrò il colpo di grazia. La lama decapitò David con un fendente netto e
silenzioso. La testa cadde a terra. Il corpo mutilato si afflosciò mentre le
gambe scalciavano in un ultimo spasmo convulso.
L'arabo afferrò la testa tenendola per i capelli bianchi, si avvicinò al
punto dove Rebecca era accovacciata a terra e gliela spinse contro il viso.
«Se è tuo padre, allora dagli un bacio d'addio prima che bruci all'inferno
per l'eternità.»
Pur scossa da un pianto isterico, Rebecca cercò di coprire con la mano
gli occhi di Amber e di distoglierle il viso. Ma Amber si volse di scatto e
quando vide la faccia di suo padre urlò. La punta della lingua di David
usciva dalle labbra e gli occhi erano aperti, lo sguardo vacuo.
Finalmente il derviscio perse interesse per il gioco. Gettò la testa, si
asciugò le mani insanguinate nel corpetto di Rebecca e attraverso la tela le
strizzò i capezzoli, ghignando quando lei gemette per il dolore.
«Prendetele!» ordinò. «Prendete queste luride puttane infedeli e portatele
al recinto. Lì saranno educate a soddisfare i bisogni e i piaceri dei loro
nuovi padroni.»
Poi sollevò Rebecca, la quale teneva ancora stretta Amber, e la trascinò
verso la riva del fiume.
Saffron era rannicchiata accanto a Nazira in un angolo di uno dei tuguri
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
in rovina. Dal fondo del vicolo videro i dervisci tormentare David e
Rebecca. Per Saffron lo sconvolgimento fu tale che non riuscì a parlare né
a piangere. Quando il carnefice si avvicinò a David e alzò la spada, lei si
coprì la bocca con due mani per non emettere alcun suono che potesse
farle scoprire. Ma, come in uno stato di ipnosi, non riusciva a distogliere lo
sguardo dal terribile spettacolo: solo allorché il derviscio vibrò il colpo e il
corpo di suo padre si abbatté in avanti, l'incantesimo si ruppe e Saffron
cominciò a singhiozzare silenziosamente.
Li vide terrorizzare Amber con la testa del padre, e non riuscì più a
frenare le lacrime. Quando infine le sue sorelle furono trascinate verso la
riva, Saffron saltò in piedi, prese Nazira per mano e corse con lei verso il
quartiere di Ryder Courteney.
Quando giunsero, stava spuntando l'alba e la luce aumentava. Il cancello
più esterno del complesso era spalancato, e le costruzioni apparivano
deserte. I dervisci non si erano ancora allargati dal centro della città fino a
questa zona. Di corsa, Saffron e Nazira attraversarono anche il cortile
interno. Saffron si fermò giusto in tempo per sbirciare nel fortino. Era
vuoto, spogliato di ogni oggetto di valore. «Siamo arrivate troppo tardi!
Ryder è partito!» urlò a Nazira. Affrante, corsero verso il cancello sul
canale, che era chiuso ma non sbarrato. Per aprirlo servirono gli sforzi
congiunti di entrambe. Saffron passò per prima, ma poi si fermò
bruscamente. L'ormeggio dell'Intrepid Ibis era deserto. Il battello non
c'era.
«Dove sei Ryder? Dove sei andato? Perché mi hai abbandonata?»
Saffron respirò a fondo per ricacciare indietro le oscure onde del panico.
Quando si fu ripresa, si voltò e corse lungo l'alzaia del canale verso la sua
confluenza con il Nilo Azzurro. Aveva percorso non più di metà della
strada che precedeva la prima ansa del canale, quando sentì l'odor del
fumo emesso dal fumaiolo dell'Ibis. «Non deve essere troppo lontano»,
disse fra sé, riprendendo coraggio. Superò a tutta velocità Nazira, che
faticava a tenere il suo passo, e quando raggiunse la prima ansa del canale
gridò a squarciagola: «Aspetta! Sto arrivando! Aspettami, Ryder!» L'Ibis
sbuffava nel canale duecento metri più avanti, puntando verso il fiume
aperto. Saffron raccolse l'ultimo briciolo di forze e lo rincorse. Il piccolo
piroscafo non andava ancora a tutta forza, ma procedeva cautamente lungo
il basso e tortuoso canale. Grazie a quell'ultimo scatto, Saffron riuscì a
raggiungerlo.
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«Aspetta! Ryder, aspetta!» Grazie alle scintille che uscivano dal
fumaiolo, Saffron poté intravedere appena la scura sagoma di Ryder
nell'angolo del ponte, ma l'uomo stava guardando innanzi a sé e i cilindri
pompavano vapore coprendo la voce della fanciulla.
«Ryder!» gridò di nuovo. «Ti supplico... guarda da questa parte.» Si
fermò per riprendere fiato, ma poi riprese a correre più forte che poteva.
Davanti a lei l'Ibis raggiunse l'imbocco del fiume, aumentò la velocità e si
immise nella corrente del Nilo. Saffron si fermò all'estremità del canale,
gridò ancora, saltellò e agitò le braccia sopra la testa. L'Ibis scivolava via
veloce tra i fluttuanti banchi di nebbia argentea appena sopra l'acqua.
Saffron lasciò ricadere le braccia e restò immobile. Nazira la raggiunse e si
abbracciarono disperate. D'un tratto, un colpo di fucile echeggiò sull'alzaia
alle loro spalle. Si voltarono di scatto e videro quattro dervisci che si
avvicinavano di corsa. Uno si fermò, puntò il fucile e sparò un altro colpo.
Il proiettile sollevò un po' di polvere ai loro piedi e rimbalzò al di là del
canale. Saffron si voltò ancora verso l'ombra dell'Ibis che si allontanava
velocemente.
Ma il colpo di fucile aveva richiamato l'attenzione di Ryder, che adesso
stava guardando nella sua direzione. Saffron si sentì sollevare da un'ondata
di speranza e strillò ancora, e agitò le braccia. Ryder stava girando il
battello con una stretta virata per puntare verso di loro. Saffron si volse a
guardare i dervisci. Correvano tutti e quattro verso di lei, in gruppo. Si rese
conto che le sarebbero stati addosso prima di dar tempo all'Ibis di tornare
all'imboccatura del canale.
«Vieni!» gridò a Nazira. «Dobbiamo nuotare.»
«No!» Nazira scosse il capo. «al-Sakhawi si prenderà cura di te. Io devo
tornare indietro per prendermi cura delle mie altre bambine.» Saffron
avrebbe voluto replicare anche se gli inseguitori si avvicinavano
rapidamente, ma Nazira eluse le sue proteste abbandonando
repentinamente l'alzaia e sparendo tra le canne palustri che crescevano
lungo la riva.
«Nazira!» le gridò Saffron, ma le urla dei dervisci erano ancora più forti.
Allora si tolse le scarpe, sollevò le gonne e corse verso il bordo del canale.
Trasse un profondo respiro e si tuffò. Quando la sua testa emerse
dall'acqua, cominciò a nuotare di buona lena verso il vapore che le veniva
incontro.
«Brava, la mia bambina!» Saffron sentì la voce di Ryder e cominciò a
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battere freneticamente i piedi, spostando l'acqua con le mani a coppa. Sentì
un altro sparo alle sue spalle, e un proiettile sollevò una fontana che le fece
la doccia riempiendole gli occhi.
«Forza, Saffy!» Ryder si sporgeva oltre il parapetto del battello, pronto
ad afferrarla. «Continua a nuotare!» Finalmente sentì la corrente prenderla
e spingerla più forte. Poi vide il volto di Ryder sopra di lei e tese il braccio
nella sua direzione.
«Presa!» esclamò Ryder. Con un solo strattone la tirò su dal fiume come
un gattino che stesse annegando, la fece atterrare sul ponte e gridò a
Bashid: «Puoi riportarla fuori».
Bashid ruotò il timone, il ponte si inclinò per la virata e ripresero il
centro della corrente. I dervisci sparavano ancora dall'alzaia, ma in breve
la foschia del fiume si chiuse su di loro e, malgrado i proiettili
continuassero a cadere nell'acqua attorno, e a rimbalzare sulle
sovrastrutture in ferro, erano ormai fuori dalla loro vista.
Poi, a poco a poco, gli spari cessarono.
«Che ti è successo, Saffy?» Ryder la condusse sottocoperta nella cabina.
«Dove sono gli altri? Dove sono Rebecca, Amber e vostro padre?»
Saffron tentò di smettere di farfugliare risposte sconnesse e gli buttò le
braccia al collo. «Ryder, è troppo orrendo per raccontarlo.... Sono successe
cose terribili. Le peggiori che ti puoi immaginare.»
Lui la fece sedere sulla sua cuccetta in cabina. L'angoscia in cui versava
lo colpì, e decise di lasciarle un po' di tempo per riprendersi. Le passò un
asciugamano asciutto ma sudicio. «Va bene. Per prima cosa rimettiti in
sesto. Poi mi racconterai.» Prese una sbiadita camicia blu dal cordino
stendipanni sopra la cuccetta. «Appendi lì il tuo vestito. Quando sarai
asciutta, metti questa camicia e vieni sul ponte. Là potremo parlare.»
Le falde della camicia le arrivavano sotto le ginocchia. Come ricambio
di emergenza, andava benone. Trovò una delle cravatte di Ryder nel
cassetto sotto la cuccetta e se la strinse intorno alla vita come una cintura.
Usò il pettine di tartaruga di Ryder per sistemare i capelli umidi e li
arrotolò in un codino. Pochi minuti più tardi salì sul ponte. I suoi occhi
erano arrossati e gonfi di pianto. «Hanno ucciso mio padre», disse in tono
sbigottito, mentre correva da Ryder.
Ryder la prese fra le braccia e la strinse. «Non può essere vero. Ne sei
sicura, Saffy?»
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«L'ho visto. Gli hanno tagliato la testa, come hanno fatto al generale
Gordon, e poi hanno portato via Rebecca e Amber.» Ricacciò un altro
singhiozzo. «Li odio. Perché sono così crudeli?»
Ryder la sollevò e la depose a sedere sul battente del boccaporto della
sala macchine. Le tenne un braccio attorno alle spalle. «Ora dimmi tutto,
Saffy: ogni dettaglio.»
Jock McCrump sentì la voce di Saffron e salì dal locale delle caldaie.
Lui e Ryder l'ascoltarono in silenzio mentre raccontava che cosa era
accaduto. Quando finì, il sole spuntava dall'orizzonte e la foschia sopra il
fiume si stava dissolvendo. La luce piano piano rivelava le ferite della
città. Ryder contò otto edifici in fiamme, tra cui il consolato belga. Un
fumo denso vagava sul Nilo.
Ryder puntò il cannocchiale sulla sagoma quadrata di forte Mukran. Le
bandiere erano state tolte, le aste lasciate spoglie. Fece una lenta
panoramica sull'intera città. Miriadi di fanatici nelle loro jibba multicolori
ballavano nelle strade e affollavano la riva. C'erano spari improvvisi e
fumo di polvere nera che si sollevava in aria, salve dei vittoriosi che
celebravano il trionfo. Molti portavano il frutto dei loro saccheggi. Altri
stavano radunando i sopravvissuti all'attacco. Ryder individuò piccoli
gruppi di donne che venivano guidate verso l'edificio della dogana.
«Di che colore erano i vestiti di Rebecca?» domandò a Saffron senza
abbassare il cannocchiale. Non voleva vedere l'angoscia sul suo volto.
«Un corpetto azzurro e una gonna gialla», rispose.
Pur sforzando la vista, Ryder non riuscì a individuare tra le donne
catturate alcun vestito azzurro e giallo, né alcuna testa di capelli biondi.
Però erano lontani, e il fumo degli edifici in fiamme e la polvere sollevata
dall'infernale tramestio permettevano di vedere assai poco.
«Dove porteranno le donne, Bashid?» domandò.
«Le metteranno in un recinto come vacche al mercato finché prima il
Mahdi, poi i khalifa e gli emiri avranno tempo di esaminarle e fare la loro
scelta.»
«E Rebecca e Amber?» chiese ancora Ryder. «A loro che cosa
accadrà?»
«Con i capelli gialli e la pelle bianca che hanno, sono un bottino
pregiato», fu la risposta di Bashid. «Saranno sicuramente scelte dal Mahdi.
Diventeranno cosa sua, prime concubine.»
Ryder abbassò il cannocchiale. Aveva la nausea. Pensò a Rebecca, che
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amava e che aveva sperato di prendere in moglie, ridotta a un giocattolo
nelle mani di quel fanatico assassino. Era un'idea troppo dolorosa da
sopportare, e cercò di ricacciarla indietro. Pensò invece alla dolce, piccola
Amber, che aveva curato e guarito dal colera. Ebbe una vivida visione del
suo corpo bianco e infantile - lo stesso corpo che lui aveva massaggiato
per tenerlo in vita - violato e straziato; di quelle tenere carni ferite e invase
dal seme dei violenti. Un urto di vomito gli bloccò la gola.
«Bashid, avviciniamoci a riva», ordinò Ryder. «Se non riesco a vederle,
non posso architettare un salvataggio.»
«Solo Allah potrà salvarle», rispose Bashid sottovoce. Saffron udì la
sentenza e si rimise a piangere.
«Maledizione, Bashid... fai quello che ti dico», ribatté seccamente
Ryder.
Bashid virò nella corrente e si avvicinarono piano alla riva. Inizialmente
passarono quasi inosservati. I dervisci erano troppo intenti al saccheggio.
Ogni tanto sparavano nella loro direzione, ma niente di più. Seguendo la
corrente, giunsero alla confluenza dei due grandi fiumi, quindi invertirono
la rotta e si avvicinarono al lungofiume di Khartum. All'improvviso ci fu
un rombo di cannoni e un colpo di obice Krupp lacerò il pelo dell'acqua
davanti alla loro prua. Lo spruzzo volò indietro sul ponte. Ryder notò il
fumo del cannone in un punto delle mura del porto. I dervisci usavano
contro di loro i pezzi catturati. Un altro Krupp nella ridotta sotto il maidan
entrò in azione, e il suo proiettile fischiò sopra il ponte finendo a esplodere
al centro del fiume.
«Non stiamo ottenendo grandi risultati, a parte esercitare la mira della
loro artiglieria», disse Ryder a Bashid. «Ritorna al centro della corrente e
risali il fiume. Troveremo un posto tranquillo dove restare all'ancora finché
non avremo avuto altre notizie su quello che hanno fatto a Rebecca e
Amber. Dopodiché, potrò pensare un piano.»
Risalendo il Nilo Azzurro trovarono entrambe le rive deserte per miglia.
Ryder si diresse verso la laguna del Pesciolino dove aveva trasbordato il
carico di dhurra dal dau di Ras Hailu. Quando la raggiunse gettò l'ancora
tra i papiri che nascondevano il piroscafo dai possibili sguardi indiscreti da
terra.
Appena ebbero messo tutto in ordine a bordo, Ryder chiamò Bashid in
sala macchine per conferire senza essere sentito dal resto dell'equipaggio.
Gli pose la domanda decisiva in modo schietto e disadorno.
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«Credi di poter tornare fra i dervisci e scoprire che fine hanno fatto alJamila e al-Zahra senza suscitare i sospetti degli Ansar?»
Bashid strinse le labbra e gonfiò le guance come uno scoiattolo. «Io
sono come loro. Perché dovrebbero insospettirsi?»
«Sei propenso a farlo?»
«Io non sono un codardo, ma neanche un incosciente. Perché dovrei fare
una simile sciocchezza? No, al-Sakhawi. Non sono propenso a farlo. Sarei
oltremodo riluttante, anzi.» Si tirò la barba con aria costernata. «Vado
subito.»
«Bene», disse Ryder. «Ti aspetterò qui, a meno che non mi scoprano. In
tal caso ti aspetterò alla confluenza del fiume Sarwad. Tu dovrai entrare in
città e, se necessario, arrivare a Omdurman. Quando avrai notizie per me,
tornerai a riferirmele.»
Bashid sospirò con fare teatrale e tornò nella sua cuccetta nel castello di
prua. Quando ne uscì indossava una jibba derviscia. Ryder evitò di
chiedergli dove l'aveva presa. Bashid scavalcò il parapetto del battello,
guadò fino a riva e si mise in cammino lungo il Nilo. Verso Khartum.
Nazira si confuse nella folla in movimento sul lungofiume senza essere
notata. Nella moltitudine c'erano altrettante donne dervisce che uomini, e
lei non era diversa dalle altre, con la sua lunga tunica nera e il velo che le
copriva la metà del volto. Le altre donne erano venute da Omdurman non
appena era giunta la notizia che la città era stata espugnata. Volevano
assistere alle feste e ai saccheggi, e provare il brivido delle esecuzioni e
delle torture che avrebbero fatto seguito alla vittoria. I ricchi di Khartum
sarebbero stati costretti a rivelare i nascondigli dei loro valori: oro, gioielli,
argento. Strappare le informazioni era una capacità che ogni donna
derviscia aveva appreso da sua madre e affinato elevandola ad arte.
Nazira era in mezzo a quella convulsa, ululante, sfrenata corrente di folla
che scorreva lungo la strada costiera sopra il fiume. Più avanti la
moltitudine si aprì per far passare una fila di soldati egiziani incatenati a
cui erano state tolte le giubbe e inflitte tali e tante percosse che le schiene
sembravano essere state straziate da leoni inferociti. Le loro brache erano
zuppe di sangue che sgocciolava sui polpacci. Mentre arrancavano verso la
spiaggia, le donne nella folla si scagliavano contro di loro per picchiarli
con qualunque cosa avessero per le mani. Le guardie dervisce
ridacchiavano con accondiscendenza allo spettacolo, e quando un
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2005 - Il Trionfo Del Sole
prigioniero cadeva sotto i colpi lo pungolavano con la punta della spada
per farlo rialzare.
Sebbene Nazira fosse in atroce ansia per le sue fanciulle, si trovava
intrappolata nella ressa delle donne. Vide che sulla spiaggia si stavano
alzando in fretta forche rudimentali fatte di pali rozzamente tagliati. Quelle
già pronte si piegavano sotto il peso dei corpi che vi erano appesi, e altri
prigionieri venivano tratti avanti con cappi intorno al collo. I carnefici li
pungolavano per farli salire a gruppi sugli angareb posti come scalini sotto
le forche. Quando il cappio era fissato al patibolo, l'angareb veniva tolto,
lasciando la vittima a penzolare e tirar calci all'aria.
Era un lavoro lento, e più in là sulla spiaggia un altro gruppo di carnefici
abbreviava i tempi con la spada. Costringevano le loro vittime a
inginocchiarsi in lunghe file con le mani legate dietro la schiena e il collo
proteso; poi due carnefici partivano dalle opposte estremità della fila e si
avvicinavano mozzando i capi lungo la strada. Ogni volta che una testa
cadeva nel fango, un boato si alzava dalla folla: e quando uno dei boia, il
braccio stanco a furia di dar colpi, decapitava solo parzialmente la sua
vittima, la folla applaudiva e ululava di scherno.
Finalmente Nazira riuscì a liberarsi dalla calca e si incamminò verso il
palazzo consolare britannico. Essendo il portone aperto e incustodito, poté
entrare agevolmente. Il palazzo aveva subito gravi danni. Vide finestre
sfondate e porte scardinate. Molti mobili erano stati lanciati dalle finestre
del piano superiore. Facendosi coraggio, Nazira si diresse verso la terrazza
e s'imbatté in nuove devastazioni. Atterrita al pensiero di trovare un
saccheggiatore ancora all'opera, entrò furtivamente da una portafinestra e
scavalcando le macerie arrivò allo studio di David.
Carte e documenti erano stati seminati ovunque, ma i pannelli di rovere
erano intatti. Senza indugio, Nazira si avvicinò a uno di essi e premette
sulla molla nascosta nell'intaglio dell'architrave. Con un leggero scatto, il
pannello si aprì svelando lo sportello della cassaforte. David aveva
permesso a Rebecca di custodire lì dentro i suoi gioielli, e lei aveva
insegnato a Nazira la combinazione per aprirla, in modo che potesse
prendere e rimettere i pezzi che le occorrevano. La combinazione era la
data di nascita di Rebecca. Nazira la compose, girò la maniglia e aprì lo
sportello. Sul ripiano superiore c'era il diario rilegato in pelle di David. Su
quelli più bassi si trovavano i valori di famiglia, tra cui i gioielli che
Rebecca aveva ereditato da sua madre, custoditi in astucci tutti uguali di
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pelle rossa. C'erano anche diversi sacchetti di tela pieni di monete d'oro e
argento. Era troppo pericoloso portare tutto con sé, quindi Nazira lasciò i
gioielli e gran parte del denaro nella cassaforte, richiuse lo sportello, e
risistemò il pannello. Se le fossero serviti ancora denari, sarebbe ritornata.
Si mise in tasca qualche moneta per uso immediato, poi alzò la veste, si
legò in vita un sacchetto di tela con delle altre monete e lo sistemò sotto le
gonne informi.
Nazira uscì dallo studio e salì al primo piano. Fece per entrare nella
stanza di Rebecca, ma quando vide i danni, si fermò attonita sulla soglia. I
saccheggiatori avevano distrutto tutti i mobili, buttato all'aria libri e vestiti.
Nazira entrò e cominciò a cercare nel caos.
Era quasi alla disperazione quando finalmente trovò il sacchetto di sisal
sotto il letto rovesciato. Il laccio era sciolto, e la polvere contro il colera si
era rovesciata. Nazira si chinò e con le mani ne recuperò il più possibile, la
ripose nel sacchetto, riannodò il laccio con cura e se lo legò intorno al
collo sotto la tunica. Prese qualche altro oggetto femminile che sarebbe
potuto tornare utile e se lo nascose addosso.
Quindi scese le scale, uscì di corsa dal palazzo, lasciò i giardini
attraverso un piccolo cancello in fondo alla terrazza e tornò a mescolarsi
tra la folla dei dervisci in festa. Non ci mise molto tempo per scoprire dove
avevano portato le prigioniere. La notizia veniva urlata nelle strade e la
massa stava dilagando verso la sede della dogana. Molti si erano
arrampicati sui muri e si erano ammucchiati sotto le finestre per vedere le
prigioniere. Nazira si rimboccò la veste e si inerpicò su un contrafforte
fino a raggiungere la fila più alta di finestre sbarrate. Si fece largo a
gomitate tra due mocciosi di strada, reagendo alle loro proteste con un
fuoco di fila di insulti che li mise in fuga. Poi afferrò le sbarre e allungò la
faccia nell'apertura squadrata.
Passò un minuto prima che i suoi occhi si abituassero alla poca luce
dell'interno. Le prigioniere egiziane erano mogli e figlie degli ufficiali di
Gordon Pascià, i quali ora con ogni probabilità giacevano decapitati sulla
spiaggia o pendevano da qualche forca. Erano accovacciate in gruppi
miserabili, circondate dalla prole. Molte recavano sulle vesti schizzi di
sangue essiccato dei mariti e dei padri uccisi. C'erano anche alcune donne
bianche: le suore della missione cattolica, una dottoressa austriaca e le
mogli di commercianti e viaggiatori occidentali rimasti intrappolati in
città.
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A un certo punto il cuore di Nazira sobbalzò. Vide Rebecca seduta sul
pavimento di pietra, con le spalle al muro e Amber tra le braccia. Era
malconcia, sporca di polvere e fuliggine. Aveva i capelli arruffati e viscidi
di sudore. Il sangue di suo padre si era asciugato in macchie nere sulla sua
gonna gialla. Era scalza e i suoi piedi erano coperti di polvere, graffiati e
tumefatti. Stava seduta lontano dalle altre, cercando di respingere le ondate
di disperazione che minacciavano di sopraffarla. Nazira riconobbe
l'espressione stoica che nascondeva il suo spirito ardito, e fu orgogliosa di
lei.
«Al-Jamila!» la chiamò: ma Rebecca non sentì. Le altre donne e i
bambini facevano molto clamore. Piangevano e si disperavano per i loro
morti, chiedevano aiuto pregando ad alta voce, supplicavano i loro rapitori
di avere pietà, ma soprattutto imploravano acqua.
«Acqua! Nel nome di Allah, dateci acqua. I nostri figli stanno morendo.
Dateci acqua!»
«Al-Jamila, la bellissima!» urlò Nazira, ma Rebecca non alzò lo
sguardo, continuando a cullare Amber tra le braccia.
Nazira staccò un frammento di stucco dal cadente davanzale della
finestra e lo scagliò tra le sbarre. Il pezzo cadde a terra prima del punto
dove Rebecca era seduta, ma scivolò sulle lastre di pietra e la colpì alla
caviglia. Lei sollevò la testa e si guardò attorno.
«Al-Jamila, piccola mia!»
La ragazza alzò lo sguardo verso la finestra e sgranò gli occhi. Sì,
l'aveva riconosciuta. Si guardò intorno rapidamente per accertarsi che i
dervisci di guardia alla porta non avessero notato nulla. Quindi, con
Amber ancora in braccio, si alzò, attraversò lentamente la stanza, e si
fermò sotto la finestra. Guardò di nuovo in alto e proferì una sola parola:
«Mayya!» Acqua! Alzò il faccino di Amber, indicando le labbra gonfie e
screpolate. «Acqua!» ripeté ancora.
Nazira annuì e scese dal muro. Si fece largo a spintoni tra la folla e cercò
freneticamente la vecchia con il mulo che aveva visto prima. La bestia era
stracarica di otri e sacchi di pane di dhurra, tanto che le gambe cedevano
sotto il peso. La folla di affamati e assetati sul lungofiume le garantiva
lucrosi affari.
«Vorrei comprare cibo e uno dei tuoi otri, signora.»
«Ho ancora pane e carne essiccata da venderti, e per tre pice potrai bere
finché vuoi... ma non venderò mai nessuno dei miei otri», rispose la donna
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con decisione. Ma quando Nazira le porse una moneta d'argento cambiò
idea.
Con il piccolo otre a tracolla, Nazira si affrettò verso l'entrata principale
della dogana, davanti alla quale stavano cinque guardie che tenevano a
distanza la folla brandendo le loro spade. Nazira vide che erano uomini
della sua tribù - i Beja - e, con un pizzico di emozione, ne riconobbe uno.
Apparteneva allo stesso clan del suo defunto marito ed era stato circonciso
insieme a lui. Avevano cavalcato sotto i vessilli dell'emiro Osman Atalan
prima dell'ascesa del Mahdi, quando il loro mondo era sano e ragionevole,
non ancora impazzito a causa di quel nuovo fanatismo.
Nazira si avvicinò alla porta, ma l'uomo che conosceva fece un gesto
minaccioso con la spada, avvertendola di non procedere oltre.
«Alì Wad!» lo chiamò Nazira a bassa voce. «Mio marito cavalcò con te
nella leggendaria razzia di Gondar, allorché massacraste cinquantacinque
cristiani abissini e catturaste duecentocinquanta dei migliori cammelli.»
Lui abbassò la spada e la fissò sbalordito. «Qual è il nome di tuo marito,
donna?» le chiese subito.
«Il suo nome era Taher Sherif e fu ucciso dai Jaalin alle sorgenti di
Tushkit. Tu eri con lui il giorno della sua morte.»
«Dunque tu sei quella Nazira un tempo rinomata per la sua bellezza.» La
sua espressione tesa si rilassò.
In lei tornò ad accendersi l'antico affetto per Alì Wad. «Quando eravamo
giovani», ammise, e abbassò il suo copricapo in modo che potesse vederla
in volto. «Mi sembra, Alì Wad, che tu sia diventato un uomo molto
potente. Uno che potrebbe ancora accendere il fuoco nel ventre di ogni
donna.»
Egli rise. «Nazira dalla lingua d'argento. Gli anni ti hanno cambiata assai
poco. Cosa vuoi da me ora?» Lei rispose e il sorriso di Alì Wad lasciò di
nuovo posto a un duro cipiglio. «Mi stai chiedendo di rischiare la vita.»
«Come mio marito diede la sua per te e... come una volta la sua giovane
vedova rischiò più della vita per il tuo piacere. O l'hai dimenticato?»
«Non ho dimenticato. Alì Wad non dimentica gli amici. Seguimi.»
La guidò oltre la porta, e le guardie all'interno salutarono il suo
passaggio con rispetto. Nazira lo seguì e appena dentro Rebecca corse da
lei. Si abbracciarono tra le lacrime. Pur essendo allo stremo delle forze,
anche Amber la riconobbe e le sussurrò: «Ti voglio bene, Nazira. Tu mi
vuoi ancora bene?»
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«Con tutto il mio cuore, al-Zahra. Ho portato acqua e cibo.»
Le accompagnò in un angolo della stanza, dove si accovacciarono
vicine. Nazira mischiò con l'acqua un po' di polvere medicinale, nella tazza
che aveva portato dal palazzo. Accostò la tazza alle labbra di Amber che
bevve avidamente.
Nel frattempo, Alì Wad ammonì le altre prigioniere. «Queste tre donne»,
e indicò Nazira e le altre due, «sono sotto la mia protezione. Provate a
importunarle e ve la vedrete con me, poiché io sono un uomo dalle
abitudini brutali. Trovo grande piacere nel battere le donne con questo
curbascio.» Mostrò loro lo scudiscio di pelle d'ippopotamo. «Adoro
sentirle strillare.»
Le donne si ritrassero impaurite. Poi Alì Wad si abbassò e bisbigliò
qualcosa all'orecchio di Nazira, la quale abbassò gli occhi e rise civettuola.
Con passo risoluto, Alì Wad tornò al suo posto sulla soglia sorridendo e
lisciandosi la barba.
L'acqua sembrò restituire miracolosamente la vita a Amber. «Cos'è
successo a mia sorella?» bisbigliò. «Dov'è Saffy?»
«È in salvo con al-Sakhawi», la rassicurò Nazira. «L'ho vista a bordo del
suo battello prima di tornare da voi.» Alla magnifica notizia, Rebecca fu
così soffocata dal sollievo che non riuscì a dir nulla. Si limitò ad
abbracciare Nazira e a stringerla a sé.
«Adesso devi smettere di piangere, al-Jamila», le comandò Nazira in
tono fermo. «Dobbiamo essere scaltre, forti e prudenti se vogliamo
sopravvivere ai difficili giorni che ci aspettano.»
«Ora che sei di nuovo con noi e so che Saffy è salva, posso affrontare
qualsiasi cosa. Che faranno di noi i dervisci?»
Nazira non rispose subito, ma gettò verso Amber uno sguardo eloquente.
«Per prima cosa dovete mangiare e bere per rimanere forti. Poi potremo
parlare.»
Diede loro del pane di dhurra. Amber inghiottì a stento pochi bocconi,
che comunque riuscì a trattenere. Nazira annuì con soddisfazione e se la
prese in grembo per consentire a Rebecca di mangiare e riposarsi.
Accarezzò i capelli di Amber e la cullò dolcemente. La bambina si
addormentò quasi all'istante. «Starà meglio tra qualche giorno. I giovani
hanno grandi capacità di ripresa.»
Rebecca ripeté la domanda: «Cosa sarà di noi?» Nazira strinse le labbra
mentre pesava quanto avrebbe dovuto dire. La verità, decise, ma solo
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2005 - Il Trionfo Del Sole
fintanto che le giovasse ascoltarla. «Voi e tutte queste donne siete parte del
bottino di guerra, come i cavalli e i cammelli.» Rebecca volse lo sguardo
sulle affrante creature intorno a lei e sul momento ebbe pietà di loro, ma
poi si ricordò che anche lei e Amber erano nella stessa condizione. «I
dervisci le useranno a loro piacimento. Le più brutte e vecchie diverranno
schiave per i lavori domestici. Quelle giovani e nubili diverranno loro
concubine. Tu sei giovane, e di rara bellezza. I tuoi capelli e la tua pelle
chiara susciteranno i desideri di tutti gli uomini.»
Rebecca rabbrividì. Non aveva mai immaginato cosa potesse significare
finire sotto il potere di un uomo di una razza diversa. Ora il pensiero la
disgustava. «Ci giocheranno forse in una riffa?» Aveva letto in Declino e
caduta dell'impero romano di Gibbon che i soldati facevano proprio
questo.
«No. I capi dei dervisci sceglieranno quelle che vogliono. Il Mahdi
sceglierà per primo, e poi sceglieranno gli altri, in ragione del loro rango e
del loro potere. Il Mahdi ti sceglierà, non c'è dubbio. E questo è positivo.
Egli per noi è il migliore, molto migliore di uno qualsiasi degli altri.»
«Dimmi perché. Spiegamelo. Come puoi sapere come si comporta nella
sua zenana?»
«Perché ha più di trecento mogli e concubine, e le sue donne parlano. È
risaputo quali siano i suoi gusti e che cosa ami fare con le sue donne.»
Rebecca sembrò smarrita. «Perché, non tutti gli uomini fanno le stesse
cose, come...»
Qui si morse la lingua, ma Nazira terminò la domanda per lei. «Vuoi
dire... le stesse cose che ti hanno fatto Abadan Riji e al-Sakhawi?»
Rebecca arrossì violentemente. «Ti proibisco di parlarmi ancora così.»
«Cercherò di ricordarmelo», rispose Nazira con uno sguardo malizioso.
«Ma la risposta alla tua domanda è che alcuni uomini vogliono dalle loro
donne cose diverse.»
Rebecca pensò a quelle parole e abbassò timidamente gli occhi.
«Cose diverse? Qual è la cosa diversa che il Mahdi desidera? Che cosa
mi farà?»
Nazira abbassò lo sguardo su Amber per assicurarsi che dormisse, poi si
avvicinò ancora di più a Rebecca, mise le mani a coppa attorno al suo
orecchio e bisbigliò.
Rebecca scattò indietro. «La mia bocca!» sussultò. «È la cosa più
stomachevole che io abbia mai sentito.»
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«Non dire sciocchezze. Rifletti un attimo. Con un uomo che non ami, o
che odi, è più svelto, più facile e meno scomodo. Non perderai la tua
preziosa verginità, o, se è già successo, non lo saprà nessuno. Ancora più
importante... non vi sono conseguenze indesiderate.»
«Immagino che con alcuni uomini ciò possa essere preferibile.» Poi fu
colpita da un altro pensiero, e la sua espressione mutò ancora. Sembrò
incuriosita. «Com'è far quello... a un uomo... o permettere a lui di farlo a
te?»
«Primo, ricordati di questo. Devi obbedire al Mahdi in ogni cosa,
esibendo letizia e piacere. Solo una cosa è di importanza vitale: con il
Mahdi non devi mai mostrare repulsione. Egli è divino, ma in queste
faccende è vanitoso come tutti gli uomini. Tuttavia, a differenza degli altri
uomini, possiede il potere di vita o di morte e non si fa scrupoli a usarlo
nei confronti di tutti coloro che lo contrariano. Quindi, l'altra cosa che devi
tenere bene a mente è di non avere rigurgiti né sputare. Rigettare ed
espellere la sua essenza sarebbe per lui un insulto sanguinoso.»
«Ma, Nazira, che posso fare se non mi piace il sapore? Cosa faccio se
proprio non riesco?»
«Inghiottì in fretta, ed è fatta. In ogni modo ti abituerai. Noi donne
sappiamo apprendere e adattarci con grande facilità.»
Rebecca annuì. Quell'idea non era già più così sconvolgente. «Che altro
mi conviene ricordare?»
«Non v'è alcun dubbio che il Mahdi ti sceglierà. Devi salutarlo come il
prescelto da Dio e il successore del suo Profeta. Poi devi dirgli quale
profonda gioia è incontrarlo finalmente. Puoi aggiungere qualsiasi altra
cosa tu voglia; per esempio che egli è la luce dei tuoi occhi e il respiro dei
tuoi polmoni. Ti crederà. Poi digli che al-Zahra è la tua sorella orfana. La
legge sacra gli impone di proteggere gli orfani e averne cura, così non sarà
separata da te. Ci sono citazioni del libro sacro relative agli orfani che devi
imparare a memoria... così potrai ripetergliele. Te le insegnerò io.»
Rebecca annuì e Nazira continuò: «C'è ancora un'altra cosa, più importante
di tutto il resto. Non devi fare o dire nulla che possa indurre il Mahdi a non
sceglierti. Non mostrare rabbia, risentimento o disprezzo. Se ti rifiutasse, il
primo dopo di lui a scegliere sarebbe il khalifa Abdullahi». «Perché
sarebbe peggio?»
«Abdullahi è l'uomo più crudele e più malvagio in tutto l'Islam. Meglio
che noi si muoia tutte piuttosto che tu o al-Zahra diveniate le sue
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2005 - Il Trionfo Del Sole
concubine.»
Rebecca rabbrividì. «Insegnami le citazioni.»
Apprendeva velocemente: e prima che Amber si svegliasse, Nazira era
soddisfatta di come Rebecca si sarebbe comportata in presenza del profeta
di Dio.
Osman Atalan attraversò il Nilo tornando dalla città che aveva
conquistato. Arrivò in gloria alla testa della flottiglia di barche che aveva
trasportato la sua armata a Khartum. Ogni uomo, donna e bambino in
grado di camminare, zoppicare o andar carponi si recò al lungofiume per
accoglierlo. I tamburi da guerra rimbombavano, e gli ombeyya squillavano.
Un attendente portava le armi di Osman, la lancia, i giavellotti e la spada.
Un altro conduceva il suo cavallo da guerra, al-Buq, completamente
bardato e con il fucile nel fodero dietro la sella.
Quando Osman sbarcò dal dau, era preceduto da al-Noor che portava in
spalla un sacco da dhurra di pelle il cui fondo era macchiato di scuro,
come color del vino. Quando lo vide, la folla urlò perché ne aveva
indovinato il contenuto. Urlarono di nuovo alla vista di Osman, così alto e
nobile nella sua splendente jibba bianca decorata con toppe di vivaci
colori.
Osman montò su al-Buq e sfilò per la città. La folla faceva ala lungo i
lati delle vie strette e tortuose, e il suolo era coperto di fronde di palma. I
bambini correvano davanti al suo cavallo mentre le donne alzavano con le
braccia i più piccoli affinché potessero vedere l'eroe dell'Islam e loro
stessi, in futuro, dire ai propri figli che lo avevano visto. Uomini
coraggiosi e forti guerrieri cercavano di sfiorargli il piede al passaggio, e le
donne ululavano e chiamavano il suo nome.
Al palazzo del Mahdi, Osman smontò da cavallo e prese la borsa
macchiata dalle mani di al-Noor. Salì la scala esterna fino a raggiungere la
terrazza sul tetto, dove il profeta di Allah sedeva a gambe incrociate sul
suo angareb. Fece un cenno alle giovani donne che lo assistevano, ed esse
si prostrarono immediatamente di fronte a lui. Poi indietreggiarono con
fare aggraziato, lasciando la terrazza libera per i due uomini.
Osman si avvicinò al Mahdi e depose la sacca davanti a lui.
S'inginocchiò a baciargli mani e piedi. «Voi siete la luce e la gioia del
nostro mondo. Possa Allah proteggere sempre voi, il suo prescelto.»
Il Mahdi si toccò la fronte. «Che tu possa rendere sempre felice Dio,
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2005 - Il Trionfo Del Sole
come hai reso felice il suo umile profeta.» Poi prese la mano di Osman e lo
fece alzare. «Com'è andata la battaglia?»
«Con la vostra presenza che ci accompagnava e il vostro viso nella
nostra mente, ci siamo valorosamente battuti.»
«Cosa mi dici del nemico e del nemico di Allah, il crociato, Gordon
Pascià?»
«Il vostro nemico è morto e la sua anima ribolle in eterno nelle acque
infernali. Il giorno tanto atteso è finalmente giunto, le vostre profezie si
sono avverate.»
«Le tue parole, Osman Atalan, rendono felice Dio e sono miele alle tue
labbra e dolce musica per le mie orecchie. Ma hai le prove per dimostrare
la loro veridicità?»
«Vi ho portato la prova che nessun uomo potrà discutere, la prova che
riecheggerà nel cuore di ogni figlio del Profeta in tutto il mondo islamico.»
Osman si abbassò ad afferrare gli angoli del sacco da dhurra e lo sollevò.
Il suo contenuto rotolò a terra. «Ecco a voi il capo di Gordon Pascià.»
Il Mahdi si chinò in avanti con i gomiti appoggiati alle cosce e fissò la
testa. Il sorriso gli scomparve dal volto. La sua espressione era glaciale e
impassibile, ma lo scintillio che aveva negli occhi incuteva paura anche al
cuore raggiante di Osman Atalan. Il silenzio si protrasse, e il Mahdi non si
mosse per molto tempo. Alla fine tornò a guardare Osman. «Hai reso felice
Allah e il suo profeta. La tua ricompensa sarà grande. Fa' in modo che la
testa venga piantata su uno schidione del cancello della grande moschea,
così che tutti i fedeli possano vederla e temere la forza di Allah e del suo
servo virtuoso, Mohamed, il Mahdi.»
«Sarà fatto, padrone.» Per la prima volta Osman usò il titolo Rabb, che
in realtà era più di «padrone». Significava «signore di tutte le cose». Rabb
era anche uno dei novantanove appellativi di Allah. Aveva esagerato con
gli elogi? Il Mahdi l'avrebbe considerata una bestemmia? Osman restò
subito sgomento per la sua stessa congettura: abbassò il capo e aspettò che
il Mahdi lo rimproverasse.
Ma non c'era motivo di temere. Il suo istinto aveva colpito nel segno. Un
sorriso sereno illuminò di nuovo il viso del Mahdi, il quale allungò la
mano verso di lui.
«Portami nella città che hai conquistato per la gloria di Allah. Mi
mostrerai il bottino della grande vittoria che fa fiorire la jihad al sommo
del suo splendore. Accompagnami sull'altra riva del Nilo e fammi vedere
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tutto ciò che hai ottenuto nel mio nome.»
Osman prese la mano del Mahdi e lo aiutò ad alzarsi. Insieme si
recarono alla riva, dove salirono sul dau che li attendeva. Attraversarono il
fiume e sbarcarono nel porto di Khartum. Mentre il Mahdi percorreva la
via verso il palazzo del governatore, la folla stendeva pezze di seta, lino e
lana ricavate dal saccheggio perché non si lordasse i piedi con la polvere e
la sporcizia della città espugnata. Il coro di preghiere e di lodi che si
levava dalla folla prosternata era assordante.
Nella sala d'udienze del governatore il Mahdi sedette accanto al khalifa
Abdullahi, il quale, insieme a quattro giudici islamici in tuniche nere,
interrogava i ricchi di Khartum incatenati dinanzi a loro. Veniva loro
chiesto di rivelare dove avevano nascosto i tesori, ma il processo era
lungo, in quanto non era sufficiente che i prigionieri rivelassero subito
tutte le loro ricchezze. Il khalifa Abdullahi e i suoi giudici dovevano
accertarsi che il prigioniero non nascondesse alcuna informazione.
Esaurienti risposte venivano estorte con il fuoco e con l'acqua. I ferri per
marchiare venivano scaldati in bracieri di carbone, e quando le estremità
erano incandescenti venivano usati per imprimere sul ventre e sulla
schiena nuda delle vittime i testi delle appropriate sure del Corano. Le loro
grida raccapriccianti echeggiavano dagli alti soffitti.
«Che le vostre urla siano udite come elogi e preghiere per Allah», disse
il Mahdi. «Che le vostre ricchezze siano offerte alla Sua gloria.»
Quando sulla pelle coperta di vesciche dei disgraziati non restava più
spazio per marchiarvi altri testi religiosi, i ferri roventi venivano accostati
ai genitali. Alla fine venivano portati alle fontane al centro dell'atrio del
palazzo. Lì erano legati a uno sgabello e poi immersi all'indietro nella
fontana fino a quando la testa non era sott'acqua. Quando perdevano
conoscenza venivano tratti in avanti, mentre il muco gli usciva dalla bocca
e dal naso. Quindi li facevano rinvenire e li immergevano di nuovo. Prima
che morissero, i giudici dovevano essere sicuri che avessero svelato tutti i
loro segreti.
Abdullahi condusse il suo padrone nel guardaroba del governatore, che
temporaneamente veniva usato come tesoreria, e gli mostrò quello che
avevano raccolto. C'erano sacchi e bauli pieni di monete, pile di piatti,
calici d'oro e d'argento, alcuni addirittura cesellati nel cristallo di rocca o
nell'ametista e tempestati di pietre preziose e semipreziose. Vi erano
mucchi di pezze di seta e lana pregiata, rasi ricamati con fili d'oro, scrigni
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di gioielli, oggetti di pregio provenienti dall'Asia, dall'India e dall'Africa,
orecchini, collane, collari e spille incastonate di brillanti, smeraldi e zaffiri.
C'erano addirittura statuette che rappresentavano i vecchi dèi, realizzate
migliaia di anni prima e saccheggiate da antiche tombe. Al vederle, il
Mahdi fremette di sdegno e di rabbia. «Sono deplorevoli agli occhi di Dio
e di tutti i veri musulmani.» Solitamente si esprimeva in modo pacato, ma
ora le sue parole rimbombarono nelle sale, sì che persino il khalifa tremò.
«Portatele via, frantumatele in mille pezzi e gettate i frammenti nel fiume.»
Mentre molti uomini si adoperavano per obbedire ai suoi ordini, il
Mahdi si volse a Osman e sorrise di nuovo. «Io penso solo ciò che Allah
desidera che io pensi. Le mie parole non sono le mie parole. Sono le parole
di Dio.»
«Aggraderebbe al benedetto Mahdi di vedere le donne prigioniere? Se
alcune fossero di vostro gradimento, potreste introdurle nella vostra
zenana.» Il khalifa cercava di blandirlo.
«Sia Allah lieto di te, Abdullahi», disse il Mahdi, «ma prima desidero
ristorarmi. Poi pregheremo, e solo dopo andremo a vedere le donne.»
Abdullahi aveva allestito nel giardino del governatore un padiglione che
dava sul fiume e sulla spiaggia vicino al porto, dove erano stati innalzati i
patiboli. Sotto una stuoia di canne intrecciate, sospesa su pali di bambù e
aperta su ogni lato per fare entrare l'aria fresca, si adagiarono su tappeti di
lana pregiata e cuscini di seta. Dalle brocche di terracotta sorbirono
sciroppo di datteri e zenzero grattugiato, la bevanda preferita del Mahdi.
Nel frattempo guardavano, con scarso interesse, l'esecuzione degli uomini
di Gordon. Alcune vittime venivano staccate dalla forca con un taglio della
corda mentre ancora si dibattevano nel cappio, e gettate nel fiume con le
mani legate dietro la schiena.
«E' un peccato che alcuni siano musulmani», disse Osman, «ma sono
anche turchi, e sono stati avversi alla vostra jihad.»
«Perciò hanno pagato un duro prezzo, ma se davvero erano fedeli, che
trovino la pace», disse il Mahdi, e stese l'indice della mano destra in segno
di benedizione. Quindi si alzò e il corteo si diresse verso l'edificio della
dogana.
Quando entrarono nell'atrio, le prigioniere erano allineate contro la
parete in fondo. Non appena videro il Mahdi si prostrarono e cantarono
elogi per lui.
Le guardie avevano alzato un palco nella parte della stanza opposta a
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2005 - Il Trionfo Del Sole
dove si trovavano le donne inginocchiate. Il palco era coperto di tappeti
persiani. Il Mahdi vi prese posto, e poi fece cenno ad Abdullahi di sedersi
alla sua destra e a Osman Atalan alla sua sinistra. «Che facciano venire
avanti le prigioniere... una alla volta.»
Alì Wad, che si occupava delle donne, le presentò partendo dalla meno
attraente. Mandò avanti prima quelle vecchie e brutte e poi quelle giovani
e belle. Il Mahdi scartò le prime venti, che non lo interessavano affatto,
con un brusco cenno della mano sinistra. Poi Alì Wad condusse una
ragazza dei Galla e il Mahdi fece un segno con la destra. Alì Wad alzò la
tunica della giovane, che apparve nuda. I tre grandi uomini si piegarono in
avanti per esaminarla. Il Mahdi fece un movimento circolare con la mano
destra e la ragazza si voltò per mostrare le sue grazie, che erano
ragguardevoli.
«È senz'altro troppo magra», disse finalmente il Mahdi. «Avrà mangiato
poco negli ultimi dieci mesi... però metterà carne, e diventerà più bella. È
molto piacevole alla vista, ma ha uno sguardo superbo, e farà la difficile.
Ha l'aria di poter suscitare trambusto nella zenana.»
Con la mano sinistra diede il segno di ripulsa, poi sorrise ad Abdullahi e
gli disse: «Se decidi che vale la pena, puoi prenderla. Ti auguro di
goderla».
«Se creerà trambusto nel mio harem, avrà strisce sulle sue chiappe
opime.» E le assestò un colpetto di frusta sul punto in questione. La
ragazza squittì e fece un balzo come una gazzella.
Abdullahi diede il segno di approvazione con la mano destra e la ragazza
fu portata via. La selezione continuò senza fretta, mentre gli uomini
valutavano esplicitamente le donne in ogni loro particolare.
La figlia di un mercante persiano attirò particolarmente la loro
attenzione. Erano tutti d'accordo che i suoi lineamenti fossero ossuti e
spigolosi, ma aveva i capelli rossi. Sorse una discussione sulla loro
autenticità, cui il Mahdi diede soluzione ordinando ad Alì Wad di
spogliarla. La splendida tonalità di rosso del suo folto tosone ricciuto fugò
qualsiasi dubbio.
«Possiamo ben sperare che darà alla luce dei figli maschi dai capelli
rossi», sentenziò il Mahdi. Il primo profeta Maometto, del quale lui era il
successore, aveva i capelli rossi. Pertanto quella donna sarebbe stata una
valida fattrice. L'avrebbe donata a uno dei suoi emiri come segno del suo
divino favore; ciò avrebbe rafforzato la lealtà dell'emiro e il suo legame
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con lui. Fece il cenno con la mano destra.
Fu allora che Alì Wad presentò Rebecca Benbrook. Nazira le aveva
coperto il capo con uno scialle leggero. Amber aveva solo la forza
sufficiente per barcollare al fianco della sorella aggrappandosi alla sua
mano in cerca di conforto e sostegno.
«Chi è la bambina?» domandò Abdullahi. «E' figlia della donna?»
«No, grande khalifa», rispose Alì, come gli aveva suggerito Nazira. «È
la sua sorella più piccola. Entrambe sono vergini e orfane.» Gli uomini le
guardarono con interesse. Una vergine era di gran valore, ed esercitava un
magico e benigno influsso sull'uomo che l'avesse decifrata. Poi, sempre
seguendo le indicazioni di Nazira, Alì Wad tolse lo scialle che copriva il
capo di Rebecca. Il Mahdi trasse un respiro, e sia Abdullahi che Osman
Atalan si drizzarono a sedere fissando sbalorditi i capelli di Rebecca, che
Nazira aveva pettinato con cura. Un raggio di luce entrò da una delle alte
finestre trasformandoli in una corona d'oro. Il Mahdi fece cenno a Rebecca
di avvicinarsi. Ella si inginocchiò davanti a lui. Il profeta si allungò a
toccarle una ciocca. «Sono morbidi come l'ala di un uccello», mormorò il
Mahdi stupefatto.
Rebecca aveva avuto cura di non guardarlo direttamente in faccia,
perché sarebbe stata una mancanza di rispetto. Tenendo gli occhi bassi,
sussurrò con voce roca: «Ho udito tutti gli uomini parlare della vostra
grazia, e della vostra condizione divina. A lungo ho atteso di vedere il
vostro bel viso, come un viaggiatore nel grande deserto attende con ansia
la vista della Madre Nilo».
Gli occhi del Mahdi si aprirono un po' di più. Pose un dito sotto il mento
di Rebecca e le fece alzare il volto. Lei si rendeva conto che quanto aveva
detto lo aveva compiaciuto. «Parli bene l'arabo», commentò il Mahdi.
«La lingua sacra», lei assenti. «L'idioma dei fedeli.»
«Quanti anni hai, bambina? Sei vergine come Alì Wad ci ha detto? Hai
mai conosciuto un uomo?»
«Prego affinché voi possiate essere il mio primo e unico», menti lei
senza battere ciglio, ben sapendo quanto ciò fosse importante per venire
prescelta. Osservando il khalifa durante l'esame delle altre donne, aveva
compreso che quanto Nazira le aveva detto era vero: era viscido come
un'anguilla e velenoso come uno scorpione. Pensò che sarebbe stato
meglio morire che appartenere a lui.
Quando quest'ultimo si rivolse al Mahdi, la sua voce fu untuosa e
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melata. «Riverito, vediamo il corpo di costei», fu la sua proposta. «E il
cespuglio dei suoi lombi dello stesso colore e consistenza dei capelli?
Sono i suoi seni bianchi come latte di cammella? Sono le labbra della sua
farfallina rosate come i petali di una rosa del deserto? Scopriamo tutti
questi segreti.»
«Solo i miei occhi potranno guardarli. Questa mi piace. La terrò per
me.» Con la mano destra il Mahdi tracciò il segno di consenso sul capo di
Rebecca.
Rebecca chinò il capo. «Sono vinta dalla beatitudine e dalla
riconoscenza poiché sono piaciuta a voi, uomo grande e divino. E la mia
sorellina? Supplico che la prendiate sotto la vostra protezione.»
Il Mahdi guardò verso Amber, la quale indietreggiò impaurita
aggrappandosi alla gonna polverosa e insanguinata di Rebecca. La
bambina ricambiò trepidante il suo sguardo, ed egli poté vedere quanto
fosse giovane, debole e malata. Gli occhi di Amber erano infossati in
livide occhiaie, e faticava a reggersi in piedi. Il Mahdi sapeva che una
bambina in quelle condizioni sarebbe stata d'incomodo e avrebbe messo in
subbuglio la sua casa. E inoltre... egli non era lubricamente attratto dai
fanciulli, né maschi né femmine, ma sapeva che il suo Abdullahi lo era.
Concediamogli questa disgraziata creatura, pensò. Stava per fare il gesto di
rifiuto con la sinistra, quando Rebecca lo prevenne. Nazira le aveva
spiegato cosa doveva dire. Parlò di nuovo, e questa volta in modo
esplicito.
«Il santo Abu Shuraih ha riportato le esatte parole del profeta Maometto,
messaggero di Allah - che Allah possa sempre amarlo - il quale disse: 'Io
dichiaro inviolabili i diritti dei deboli, degli orfani e delle donne'. Egli
disse altresì: 'Allah si cura di voi solo in ragione di quanto proteggete gli
orfani a voi vicini'.»
Il Mahdi abbassò la mano sinistra, poi guardò Rebecca pensoso e sorrise
ancora... ma c'era qualcosa di imperscrutabile nei suoi occhi. Con la mano
destra fece su Amber il segno del consenso e disse ad Alì Wad: «Pongo
queste donne sotto la tua responsabilità. Assicurati che non accada loro
nulla di male. Conducile al mio harem».
Alì Wad e dieci dei suoi uomini scortarono al porto Rebecca, Amber e le
altre donne scelte dal Mahdi. Senza farsi notare, Nazira li seguì. Quando
furono a bordo di un grande dau da carico per essere trasportate al di là del
Nilo, a Omdurman, Nazira si imbarcò con loro; un uomo dell'equipaggio le
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chiese cosa ci faceva lì, ma Alì Wad gli ringhiò contro con una tale foga
che il marinaio si levò subito di torno dedicandosi a issare la vela. Da quel
momento Nazira fu considerata la serva di al-Jamila e al-Zahra, le
concubine del Mahdi. Le tre donne si accucciarono sulla prora del dau.
Mentre Nazira faceva bere a Amber altri sorsi dalla ghirba, Rebecca,
irrequieta, le domandò: «Che devo fare, Nazira? Non permetterò mai che
un uomo di colore, un indigeno non cristiano, mi tratti come se fossi di sua
proprietà». Cominciava a vedere con chiarezza la reale portata della sua
condizione. «Meglio la morte che permettere una cosa simile.»
«Il tuo senso del decoro è nobile, al-Jamila, ma anche io sono di colore e
sono anch'io un'indigena», ribatté Nazira. «E non sono nemmeno cristiana.
Se sei diventata così esigente, allora forse faresti meglio a mandarmi via.»
«Oh, Nazira, ma noi ti vogliamo bene», si pentì immediatamente
Rebecca.
«Ascoltami, al-Jamila.» Nazira prese Rebecca per un braccio e la
obbligò a guardarla negli occhi. «Il ramo che non si piega al vento si
spezza. Tu sei come un giovane ramo flessuoso. Devi imparare a piegarti.»
Rebecca si sentì oppressa da un peso enorme. Ovunque si voltasse,
incontrava soltanto dolore, rammarico e paura. Pensò a suo padre e toccò
le macchie nere del suo sangue sulla veste. Sapeva che gli orribili momenti
della sua decapitazione le sarebbero rimasti scolpiti nella memoria finché
fosse vissuta. Il dolore era quasi intollerabile. Pensò a Saffron e capì che
non l'avrebbe rivista mai più. Si strinse Amber al petto, ma intanto si
chiedeva se sarebbe sopravvissuta alla malattia che aveva già duramente
provato il suo corpicino. Pensò al futuro che attendeva tutti quanti, e che si
spalancava di fronte a lei come le fauci nere e insaziabili di un mostro.
Nessuno di noi si salverà. Mentre pensava questo, un uomo
dell'equipaggio lanciò un grido di allarme. Si guardò intorno come se fosse
stata bruscamente risvegliata da un incubo. Il dau aveva raggiunto il centro
del fiume e navigava spinto da una brezza leggera. Ora tutto l'equipaggio
era in fermento. Si accalcavano sul ponte e borbottavano fra loro indicando
un punto più a valle.
Sopra l'acqua passò il boato di un cannone, poi un altro. Ben presto tutte
le armi dei dervisci cominciarono a sparare dalle due rive. Rebecca affidò
Amber a Nazira e scattò in piedi. Scrutò nella direzione verso cui tutti gli
altri stavano guardando e si sentì rincuorata. Tutte le sue paure più cupe,
tutte le sue incertezze, disparvero. Vide lì, vicinissima, la Union Jack
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britannica che sventolava impavida alla luce accecante del sole.
Rebecca fece alzare velocemente Amber in piedi, la tenne stretta e
indicò un punto. A meno di un miglio, una squadra di battelli procedeva
verso di loro sbuffando al centro del canale. I ponti erano gremiti di soldati
britannici.
«Sono venuti a salvarci, Amber, guarda.» Le fece girare il volto. «Non è
lo spettacolo più bello che tu abbia mai visto? La colonna di soccorso è
arrivata.» Ora, per la prima volta, si abbandonò al pianto. «Siamo salve,
Amber, tesoro mio. Stiamo per essere liberate.»
Penrod Ballantyne si teneva a distanza di sicurezza dal fiume, mentre
cavalcavano per le ultime miglia lungo la riva orientale del Nilo, diretti
alla città di Khartum che appariva all'orizzonte avvolta da una nuvola di
fumo. Ogni miglio percorso confermava quella che nella sua mente era già
una certezza. Le bandiere sulla torre di forte Mukran erano scomparse.
Gordon il Cinese era stato sconfitto, la città era caduta e i rinforzi erano
arrivati troppo tardi.
Meditò sul da farsi. Fin qui, ogni congettura poggiava sulla resistenza
della città. Ora sembrava non esservi più nessun motivo né logica per
continuare. Aveva già visto una città presa e saccheggiata dai dervisci: al
loro arrivo, gli unici esseri viventi all'interno delle mura di Khartum
sarebbero stati i corvi e gli avvoltoi.
Ma qualcosa lo spingeva ad andare avanti. Cercava di convincersi che
era obbligato a questa linea d'azione, perché ormai alle sue spalle aveva
soltanto delle porte chiuse. Aveva aggravato l'accusa di insubordinazione
che pesava su di lui violando gli ordini diretti di Sir Charles Wilson di
restare nell'accampamento di Metemma. Non ci sarebbe stata alcuna utilità
a ricomparire adesso per affrontare la corte marziale con cui Sir Charles
Wilson gli avrebbe dato il bentornato.
D'altra parte, che senso ha proseguire? si chiese. C'erano persone che
potevano essere ancora vive e bisognose di soccorso: il generale Gordon e
David Benbrook, le gemelle e Rebecca. Almeno era sincero con se stesso:
la figura di Rebecca Benbrook si era stagliata spesso nei suoi pensieri da
quando aveva abbandonato Khartum. Anzi, probabilmente era l'unico vero
motivo per cui si trovava lì. Doveva assolutamente scoprire cosa ne era
stato di lei, o il suo ricordo l'avrebbe tormentato per tutta la vita.
All'improvviso tirò le redini del cammello e si voltò di scatto verso il
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2005 - Il Trionfo Del Sole
fiume. Il rumore degli spari era vicino, distinto. I pochi colpi sparsi
aumentarono rapidamente fino a diventare un vero sbarramento
d'artiglieria. «Che succede?» urlò a Yakub che cavalcava vicino a lui. «A
cosa sparano adesso?»
Lungo la riva cresceva un rado boschetto di acacie spinose e di palme
che impediva la vista del fiume. Penrod girò il cammello e lo spronò al
galoppo. Cavalcarono dentro l'intricata fascia di alberi uscendo
all'improvviso sulla riva del Nilo. Uno scenario desolato e avvilente si parò
loro dinanzi: i vapori della divisione di Wilson tentavano faticosamente di
risalire il fiume per raggiungere la città di Khartum, il cui profilo era
chiaramente visibile davanti a loro. Sui colombieri sventolava la bandiera
rossa, bianca e blu del Regno Unito. I ponti traboccavano di truppe, ma
Penrod sapeva che le imbarcazioni tutte insieme non potevano trasportare
più di due o trecento uomini. La maggior parte delle facce che riusciva a
scorgere con il suo cannocchiale erano quelle dei fanti nubiani. C'era un
gruppetto di ufficiali bianchi sul ponte del piroscafo di testa, e ognuno
teneva il cannocchiale alzato per scrutare innanzi a sé. Anche a quella
distanza Penrod riuscì a individuare la figura alta e goffa di Wilson, i
lineamenti duri nascosti dall'ampio casco coloniale.
«Troppo tardi, Charles il Timoroso», bisbigliò amaramente Penrod. «Se
avessi fatto la cosa più giusta, come chiedevano il generale Stewart e i tuoi
ufficiali, saresti potuto arrivare in tempo per far pendere la bilancia del
destino a tuo favore, e salvare la vita degli sventurati che ti hanno aspettato
per dieci mesi.»
I colpi dei dervisci cominciarono a cadere con più veemenza intorno ai
piccoli vascelli, mentre lungo le rive, dalla direzione di Omdurman e di
Khartum, arrivavano orde di cavalieri arabi al galoppo per intercettare la
squadra. I dervisci sparavano dalla sella, cercando di mantenersi in linea
con i piroscafi di Wilson.
«Mescoliamoci a loro!» urlò Penrod a Yakub. Poi spronarono le
cavalcature per confondersi tra i dervisci. Era una copertura perfetta. Ben
presto si persero fra la polvere e la confusione degli squadroni arabi.
Penrod e Yakub sparavano con la stessa foga dei cavalieri attorno a loro,
ma miravano basso, cosicché i proiettili cadevano innocui dentro il fiume.
L'acqua intorno ai vapori era flagellata dai colpi di moschetto mentre i
cannoni Krupp sollevavano improvvise fontane di spruzzi. Gli scafi
bianchi furono in breve tempo segnati dai colpi che martellavano la
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
lamiera di acciaio. Il metallo più sottile dei fumaioli fu crivellato di
proiettili. All'improvviso ci fu un'esplosione più forte, e una nuvola di
vapore argenteo si alzò sopra il secondo vascello. I dervisci che
cavalcavano attorno a Penrod ulularono trionfanti, agitando in aria le loro
armi.
«Uno dei Krupp ha colpito la nave proprio nella caldaia», osservò
Penrod con rammarico. «Per tutti gli dèi della guerra, questa giornata è del
Mahdi.»
Continuando a emettere vapore, l'imbarcazione colpita ruotò senza
governo nella corrente e iniziò a retrocedere. Il vascello di testa di Wilson
rallentò quasi subito e virò per soccorrerla: il resto dello squadrone lo
seguì.
I cavalieri arabi attorno a Penrod urlarono verso i due vascelli,
minacciosi e pieni di derisione: «Non potete prevalere contro le forze di
Allah!»
«Allah è l'Unico! Il Mahdi è il suo profeta eletto. Egli è onnipotente
contro l'infedele.»
«Tornate da vostro padre Shaytan! Tornate all'inferno, dove è la vostra
casa!»
Penrod si unì alle loro grida e ostentò la stessa incontenibile gioia
sparando in aria, ma nel suo intimo ribolliva di rabbia e disprezzo per
Wilson. Quale scusa migliore per sospendere un attacco così risoluto e
riportare il proprio tremulo deretano su qualche poltrona, sotto la veranda
del Ghezira Club al Cairo! Dubito, Sir Charles, che avremo occasione di
rivedervi a queste latitudini, pensò.
Sperando che il vascello colpito sarebbe stato trasportato a riva,
centinaia di cavalieri dervisci inseguirono le truppe verso valle, senza
interrompere il clamore degli spari. Gli equipaggi delle imbarcazioni si
affannavano a passarsi un cavo da rimorchio. Quando i piroscafi virarono
verso la sponda opposta, fuori della portata dei fucili, molti cavalieri
desistettero dall'inseguimento e si voltarono per ritornare verso
Omdurman. Penrod si mosse insieme a loro, e nell'esagitata atmosfera
della vittoria e del trionfo la sua presenza non venne notata.
Impiegarono quasi un'ora per raggiungere Omdurman. Ebbe così modo
di intercettare svariati discorsi, tutti riguardanti il vittorioso attacco
notturno a Khartum, condotto dall'emiro Osman Atalan, e la successiva
razzia. A un certo punto udì qualcuno raccontare delle donne bianche
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
catturate che erano state portate alla dogana di Khartum.
Stavano certamente parlando di Rebecca e delle gemelle: le sue speranze
si rianimarono. Non c'erano praticamente altre donne bianche rimaste a
Khartum, a parte le suore e la dottoressa austriaca che curava i lebbrosi.
«Ti supplico, mio Dio... fa' che quella di cui parlano sia Rebecca. Anche se
ciò significasse che è prigioniera, almeno sarebbe salva.»
Penrod e Yakub raggiunsero Omdurman nascosti fra le numerose file
disordinate dei cavalieri. Yakub conosceva un piccolo caravanserraglio al
limite del deserto, a capo del quale c'era un vecchio della tribù dei Jaalin,
un lontano parente che lui chiamava «zio». Quest'uomo gli aveva offerto
rifugio molto spesso, e lo aveva protetto dalla sanguinosa faida con gli altri
potenti membri della loro tribù. Sebbene guardasse Penrod con interesse,
non fece nessuna domanda e mise a loro disposizione una sudicia celletta
con una finestrella in alto. L'unico mobile era un angareb sgangherato
coperto di ruvida tela da sacco, già eletto a loro dimora da numerose
sanguisughe. Sembrarono innervosirsi parecchio quando gli umani
invasero il loro territorio.
«Per ricompensarti dei servigi che mi hai reso in tutti questi anni, Yakub
il fedele, ti consento di dormire sul letto, mentre io mi sistemerò sul
pavimento. Ma dimmi fino a che punto possiamo fidarci del nostro ospite,
questo Wad Hagma.»
«Ritengo che mio zio sospetti della tua identità, poiché una volta, molto
tempo fa, gli dissi che eri il mio signore. Comunque, Wad Hagma è del
mio clan, e del mio stesso sangue. Sebbene abbia prestato il giuramento di
fedeltà Beya al Mahdi, credo che lo abbia fatto soltanto con la bocca, non
col cuore. Non ci tradirebbe mai.»
«Ha una luce malvagia negli occhi, Yakub, ma questo sembra essere
comune nella tua famiglia.»
Dopo aver nutrito e abbeverato i cammelli, li rinchiusero nel kraal dietro
il caravanserraglio di Wad Hagma: era ormai calata la sera, quindi
vagarono per il disordinato labirinto della città, apparentemente senza
meta, ma in realtà cercando notizie della famiglia Benbrook. Omdurman
continuava a essere una città santa che seguiva il rigido codice morale del
Mahdi anche dopo il tramonto. Tuttavia riuscirono a trovare ancora aperto
qualche caffè immerso nella penombra. Nel retrobottega, alcuni offrivano
un narghilè e la compagnia di una bella ragazza oppure, nel caso avessero
avuto altri gusti, di un giovinetto addirittura più bello.
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2005 - Il Trionfo Del Sole
«So per esperienza che in qualsiasi città straniera le fonti più affidabili di
informazione sono sempre le donne di piacere.» Yakub si offrì volontario
per assolvere il compito.
«So che i tuoi motivi sono commendevoli, Yakub il virtuoso, ti sono
grato per il tuo sacrificio.»
«Solo, manco delle poche insignificanti monete richieste per svolgere
questa incombenza onerosa in tua vece.»
Penrod gli mise in mano il prezzo della camera e si accomodò in un
angolo poco illuminato del caffè, da dove poteva origliare le conversazioni
degli altri clienti.
«Ho sentito che quando Osman Atalan ha deposto la testa di Gordon
Pascià ai piedi del Divino Mahdi, l'angelo Gabriele è apparso al suo fianco
e ha fatto il segno della benedizione sopra il capo del Mahdi», disse uno.
«Io ho sentito che gli angeli erano due», replicò un altro. «Io ho sentito
che erano due angeli insieme al Messaggero di Allah, il primo Maometto»,
disse un terzo.
«Possa egli vivere per sempre alla destra di Allah», dissero tutti e tre a
una voce.
E così, Gordon era morto. Penrod per nascondere le emozioni sorseggiò
il caffè viscoso e amaro dal bicchierino di ottone. Un uomo coraggioso.
Sarà più in pace adesso di quanto lo sia stato in vita, pensò. Poco più tardi,
Yakub sbucò dal retro, palesemente molto soddisfatto di sé. «Non era
bella», confidò a Penrod, «ma è stata amichevole e solerte. Mi ha chiesto
di elogiare i suoi sforzi presso il padrone, altrimenti la picchierà.»
«Yakub, salvatore di fanciulle brutte, hai fatto ciò ch'era atteso tu
facessi, vero?» chiese Penrod; e Yakub girò un occhio con fare d'intesa
mentre l'altro restava fisso sul suo padrone.
«A parte questo, cos'altro ti ha detto che ci possa essere utile?» Penrod
non poté evitare di sorridere.
«Mi ha detto che oggi, nel primo pomeriggio, proprio dopo che i
piroscafi infedeli erano stati ricacciati a valle con scompiglio e disonore
dai sempre vittoriosi Ansar del Mahdi, possa Allah amarlo per sempre, un
dau proveniente da Khartum ha trasportato cinque prigioniere dall'altra
parte del fiume. Erano sotto la responsabilità di Alì Wad, un aggagir dei
Jaalin rinomato in queste plaghe per la ferocia e l'irascibilità del carattere.
Subito dopo essere arrivato a terra, Alì Wad ha portato le prigioniere nella
zenana di Mohamed, il Mahdi, possa Allah amarlo per l'eternità. Le donne
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non sono più state viste, né si pensa che lo saranno mai. Il Mahdi esercita
un controllo implacabile sulle sue proprietà.»
«Per caso la tua giovane e servizievole amica ha notato se una delle
prigioniere aveva i capelli gialli?» chiese Penrod.
«La mia amica, che non è poi tanto giovane, era meno sicura su questo.
La testa e il volto di tutte le donne erano coperti.»
«Allora dobbiamo tenere d'occhio il palazzo del Mahdi fino a quando
saremo sicuri che queste donne siano quelle che speriamo», gli disse
Penrod.
«Alle donne della zenana non è permesso lasciare i loro quartieri»,
sottolineò Yakub. «Al-Jamila non potrà mai mostrarsi oltre i cancelli.»
«Ciononostante, puoi scoprire qualcosa se tieni d'occhio il posto con
pazienza.»
Il giorno dopo, di buon mattino, Yakub si unì a un nutrito gruppo di
fedeli e di indigenti. Erano ammassati attorno ai cancelli del palazzo del
Mahdi, pronti a prostrarsi innanzi a lui quando il Prescelto si recava alla
moschea per officiare le preghiere rituali e pronunciare i sermoni, che non
erano parole sue, ma le esatte parole di Allah. Quella volta, come
d'abitudine, il Mahdi apparve puntuale per le prime orazioni del giorno, ma
era tale la calca di umanità che lo circondava che Yakub riuscì soltanto a
dare una rapida occhiata al suo zucchetto kufi ricamato.
Yakub lo seguì fino alla moschea e dopo le preghiere tornò al palazzo
insieme al corteo. Fece esattamente la stessa cosa cinque volte al di per i
successivi tre giorni, senza peraltro ricevere la conferma dell'esistenza
delle donne, né del posto dove si trovassero. Il terzo pomeriggio, come era
divenuta sua usanza, si mise ad aspettare ancora una volta nell'ombra rada
di un cespuglio d'oleandri da cui poteva tenere d'occhio i cancelli del
palazzo. Stava iniziando ad assopirsi nella calura sonnolenta, quando
avvertì un tocco lieve sulla sua manica e una voce di donna che lo
supplicava: «Nobile e amato guerriero di Dio, ho acqua pulita e dolce per
calmare la tua sete, e asida appena arrostito e speziato con salsa bruciante
come le fiamme dell'inferno. Tutto per il ragionevole prezzo di cinque pice
di rame».
«Possa Dio compiacerti, sorella, poiché la tua offerta compiace me.» La
donna versò l'acqua dalla ghirba dentro una tazzina, e spalmò la salsa su
una fetta di pane di dhurra. Mentre gli porgeva 0 tutto, disse con voce
flebile e smorzata dal velo: «Oh, tu spergiuro... hai dichiarato con un
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solenne giuramento che mi avresti ricordata per sempre, ma mi hai già
dimenticata».
«Nazira!» Era sbalordito.
«Stolto! Per tre giorni ti ho osservato pavoneggiarti davanti agli occhi
dei tuoi nemici, e ora aggiungi un'altra idiozia gridando forte il mio nome
per farlo udire a tutti.»
«Sei la luce dei miei occhi», le disse lui. «Ringrazierò ogni giorno della
mia vita perché sei salva. Che ne è delle persone che ti sono state affidate?
Al-Jamila e le sue due sorelline sono con te a palazzo? Il mio signore cerca
di sapere queste cose.»
«Sono vive, ma il padre è morto. Non possiamo parlare qui. Dopo le
preghiere pomeridiane sarò al mercato dei cammelli. Cercami là.» Nazira
si allontanò per offrire l'acqua e il pane agli altri che attendevano ai
cancelli.
Come promesso, la trovò al centro del mercato dei cammelli, presso il
pozzo. Stava tirando su l'acqua con una grande brocca di terracotta. Altre
due donne la sollevarono e gliela sistemarono sul capo. Nazira la tenne in
equilibrio con una mano e si diresse verso il mercato. Yakub la seguì a
breve distanza per poter udire cosa stesse dicendo, ma non così vicino da
far capire che erano insieme.
«Di' al tuo padrone che al-Jamila e al-Zahra sono nel palazzo. Sono state
prese dal Mahdi come sue concubine. Saffron è fuggita con il piroscafo di
al-Sakhawi. L'ho vista io mentre saliva a bordo. Il padre è stato decapitato
dagli Ansar, ho assistito alla scena.» Sotto il peso della brocca, Nazira si
muoveva ancheggiando con la schiena dritta. Yakub osservava con
interesse il vispo gioco del suo posteriore. «Quali sono gli intenti del tuo
padrone?» volle sapere lei.
«Penso che voglia liberare al-Jamila e portarla via come sua donna.»
«Se crede di farcela da solo, ha preso un gran colpo di sole. Saranno
scoperti e moriranno entrambi. Torna qui domani, alla stessa ora. C'è
qualcun altro che devi incontrare. Ora, allontanati e non mostrarti più ai
cancelli del palazzo.»
Lui si voltò a guardare una fila di cammelli messi in vendita, ma la seguì
con la coda dell'occhio mentre si allontanava. È una donna astuta ed
esperta nell'arte di soddisfare l'uomo. Peccato che non circoscriva le sue
attenzioni a uno solo di noi... rifletté. L'indomani, Yakub era nuovamente
al mercato dei cammelli alla stessa ora. Gli ci volle un po' di tempo per
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trovare Nazira. Aveva cambiato costume, ora era vestita da beduina, e
stava cucinando presso un braciere a carbone. Probabilmente non l'avrebbe
riconosciuta se lei non avesse gridato nella sua direzione: «Locuste
arrostite, signore, fresche dal deserto. Dolci e succose». L'uomo prese
posto su di un tronco di acacia che era stato accomodato presso il fuoco a
mo' di sgabello, e Nazira gli portò una manciata delle locuste che aveva
arrostito sul braciere. «Colui di cui ti ho parlato è qui», disse piano.
Yakub aveva prestato poca attenzione all'uomo che sedeva dall'altra
parte del fuoco. Sebbene indossasse una jibba e portasse la spada, era
troppo paffuto e ben nutrito per essere un aggagir. Invece di una barba da
uomo, il suo mento era adorno solo di pochi ciuffi di peli ricciuti. Ora
Yakub lo guardò con più attenzione, e infine, con un fremito di rabbia e
gelosia, lo riconobbe. «Bashid, come mai non stai imbrogliando gli uomini
onesti con la tua mercanzia scadente o punzecchiando le loro mogli con il
tuo insignificante membro?» lo apostrofò gelido.
«Ah, Yakub dal coltello veloce! Quante gole hai aperto in questi ultimi
tempi?» Il tono di Bashid era quanto mai pungente.
«Da dove sto seduto io, la tua sembra abbastanza tenera da tentarmi.»
«Smettetela con questi litigi da bambini», disse Nazira con severità,
anche se essere ancora al centro di una tale disputa, nonostante la sua
bellezza andasse appassendo, era cosa alquanto lusinghiera. «Abbiamo
argomenti più importanti di cui discutere. Bashid... digli le cose che hai già
detto a me.»
«Il mio signore, al-Sakhawi, e io siamo fuggiti da Khartum sul suo
piroscafo la notte che i dervisci hanno attaccato ed espugnato la città.
Abbiamo trovato la bambina, Filfil, e l'abbiamo portata con noi. Quando
eravamo ormai lontani dalla città, abbiamo ormeggiato il vapore nella
laguna del Pesciolino. Il mio padrone mi ha rimandato indietro per cercare
al-Jamila. Comunque, non può indugiare oltre nella laguna. I dervisci
stanno setacciando minuziosamente entrambe le rive del fiume alla sua
ricerca, e in breve lo troveranno di certo. Sarà costretto a solcare ancora il
Nilo fino al regno dell'imperatore Giovanni di Abissinia, dove è
conosciuto e rispettato come mercante. Una volta al sicuro, potrà
escogitare un piano infallibile per liberare al-Jamila e al-Zahra. Il mio
padrone non è ancora a conoscenza che tu e il tuo padrone vi trovate qui a
Omdurman, ma quando gli porterò la notizia, so che vorrà unire i suoi
sforzi a quelli del tuo padrone per ottenere la liberazione delle due donne
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2005 - Il Trionfo Del Sole
bianche.»
«Il tuo padrone è chiamato al-Sakhawi per la sua generosità e
munificenza. Si dice che il suo coraggio sorpassi quello di un bufalo,
sebbene nessuno lo abbia mai visto combattere. Ora tu mi dici che questo
rinomato guerriero intende scappare e lasciare due donne indifese al loro
destino. Al contrario, so che Abadan Riji rimarrà qui a Omdurman fino a
che non le avrà strappate dalle grinfie insanguinate del Mahdi», affermò
Yakub con disprezzo.
«Ah, Yakub, quant'è edificante sentirti parlare di mani insanguinate»,
disse Bashid mellifluo. Si alzò in piedi per quanto era lungo e tirò la
pancia in dentro. «Il guaito di un cucciolo non deve essere confuso con il
ringhio di un cane adulto», aggiunse con fare misterioso. «Se Abadan Riji
desidera l'assistenza di al-Sakhawi per organizzare la liberazione di alJamila, potrebbe aver bisogno di inviare un messaggio al mio padrone. A
questo scopo, può servirsi di Ras Haily, un mercante di cereali abissino di
Gondar i cui dau vengono spesso a Omdurman per affari. Ras Haily è
amico fidato e socio del mio padrone. Non sprecherò altro fiato e tempo
per discutere con te. Resta con Dio.»
Bashid si voltò e si allontanò.
«Sei un bamboccio, Yakub. Perché mai ti permetto di sciupare il mio
tempo e il mio fiato?» chiese Nazira rivolta al cielo. «Bashid parlava con
buon senso. Non basta il coraggio spericolato per liberare le mie fanciulle
dalla zenana del Mahdi e condurle in salvo per migliaia di leghe attraverso
il deserto. Avrai bisogno di denaro per corrompere gli uomini all'interno
del palazzo, di altro denaro per comprare cammelli e provviste, e ancora
più denaro per organizzare staffette lungo il tragitto della fuga. Il tuo
padrone possiede tutti questi soldi? Penso proprio di no. Al-Sakhawi sì, e
ha pure la pazienza e il cervello che al tuo padrone mancano. Eppure, a
causa della tua arroganza e della tua presunzione, rifiuti un'offerta d'aiuto
che certamente determinerebbe la differenza fra il successo e il fallimento
dell'impresa del tuo padrone.»
«Se al-Sakhawi è un uomo di tanto merito e virtù, perché non sposi la
tua amata al-Jamila a lui, piuttosto che al mio padrone, Abadan Riji?»
chiese Yakub con rabbia.
«Questa è la prima cosa sensata che hai detto oggi», assentì Nazira.
«Sei contro di noi? Non ci aiuterai a liberare queste donne? Sapendo
quanto ti amo, Nazira, mi respingerai in favore dell'essere glabro,
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Bashid?» Yakub fece un'espressione di pietà.
«Sono arrivata da poco a Omdurman. Conosco poche persone in questa
città; non ho modo di entrare nei labirinti del potere e dell'influenza. C'è
ben poco che possa fare per aiutarvi, ma una cosa è certa: non rischierò la
vita delle due fanciulle che amo per un piano sconsiderato e rozzo. Se vuoi
che vi fornisca aiuto, dovete elaborare un piano che abbia più possibilità di
successo che di fallire. Deve essere un piano che, prima di tutto, miri alla
loro incolumità.» Nazira iniziò a impacchettare tazze e piatti. «Deve essere
un piano in cui io possa riporre la mia fiducia. Quando avrete messo a
punto uno stratagemma del genere, potrai trovarmi qui ogni venerdì che
viene sulla terra.»
«Nazira, dirai ad al-Jamila che il mio padrone si trova a Omdurman e
che presto verrà a liberarla?»
«Perché dovrei accendere false speranze nel suo cuore, che è già stato
spezzato dalla prigionia, dalla morte del padre, dalla perdita della sorellina
Filfil e dalla malattia dell'altra sorella, al-Zahra?»
«Ma il mio padrone l'ama e darebbe la sua vita per lei, Nazira.»
«Tanto quanto ama Bashida e cinquanta altre donne come lei. Non mi
interessa se darebbe la sua vita per lei, ma non permetterò che lei rischi la
sua per lui. Non hai mai visto una donna lapidata a morte per adulterio,
Yakub? È ciò che accadrà ad al-Jamila se i vostri piani falliranno. Il Mahdi
è un uomo senza pietà.» Annodò un panno attorno alle stoviglie e se le issò
sul capo. «Torna da me solo quando avrai qualcosa di sensato di cui
discutere.» E a questo punto Nazira si allontanò, tenendo in equilibrio con
grazia il carico sul suo capo.
«Di quanto denaro disponi?» chiese lo zio putativo di Yakub, Wad
Hagma.
Penrod guardò i suoi occhi privi di malizia e rispose con un'altra
domanda. «Di quanto hai bisogno?»
Wad Hagma si morse le labbra mentre rifletteva. «Per spianare la strada,
dovrò corrompere i miei amici che stanno nel palazzo del Mahdi, e si tratta
di uomini importanti che non posso insultare con una somma risibile. Poi
dovrò trovare e comprare i cammelli in aggiunta necessari per portare così
tanta gente. Devo procurarmi foraggio e provviste per tutto l'itinerario,
pagare le guardie ai confini. Tutto questo costerà abbastanza, ma di sicuro
non tratterrò nulla per il mio disturbo. Yakub è come un figlio per me, e i
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suoi amici sono anche i miei amici.»
«Certo! Fa questo perché così gli aggrada, senza pensare al suo
personale tornaconto.» Yakub confermò le intenzioni altruistiche di suo
zio. Sedevano vicini, presso il fuoco nella cucina annessa al
caravanserraglio, annerita dalla fuliggine; e mangiavano stufato di
montone, cipolle selvatiche e peperoncino. Considerando l'ambiente
malsano in cui era stato cucinato e l'età venerabile degli ingredienti mal
conservati, il piatto era più gustoso di quanto Penrod si fosse aspettato.
«Sono grato a Wad Hagma per la sua assistenza, ma la mia domanda
era: di quanto ha bisogno?» Soltanto come ultima risorsa Penrod aveva
acconsentito di far rientrare l'aiuto dello zio nei suoi piani. Yakub l'aveva
convinto che Wad Hagma avesse conoscenze fra gli uomini della cerchia
del Mahdi, nonché fra i membri della sua famiglia. Con lo zio ad aiutarli, a
Yakub era parso inutile sottoporre all'attenzione del suo padrone l'offerta
di aiuto fatta da Bashid per conto del suo, di padrone, al-Sakhawi. In ogni
caso, la sua animosità verso Bashid era così profonda che non voleva far
nulla per incrementare la fama o il profitto del suo rivale. Si era trattenuto
dal menzionare a Penrod che lo aveva incontrato.
«Non si tratterà di meno di cinquanta sovrane inglesi», rispose Wad
Hagma, in tono di profondo dispiacere, studiando la reazione di Penrod.
«È una piccola fortuna!» protestò Penrod.
Wad Hagma fu incoraggiato dal fatto di trattare con un uomo che
considerava cinquanta sovrane solo una piccola fortuna, piuttosto che una
grandissima fortuna, così alzò immediatamente la posta. «Purtroppo,
potrebbero volercene ancora di più», disse tetro. «Comunque, il fato di
quelle povere femmine ha toccato il mio cuore e Yakub mi è più caro di
qualsiasi figlio. Tu sei potente e famoso; farò del mio meglio per te. Lo
giuro nel nome di Dio!»
«Nel nome di Dio!» ripeté immediatamente Yakub.
«Ti darò dieci sterline, per ora», disse Penrod, «e di più quando
mostrerai i tuoi intenti con azioni, piuttosto che con belle parole.»
«Vedrai che le promesse di Wad Hagma sono come le montagne del
Grande Ararat, su cui l'arca di Noè venne a posarsi.»
«Yakub ti porterà il denaro domani.» Penrod non voleva rivelare dove
tenesse il suo borsello. Finirono di mangiare e ripulirono fino all'ultima
goccia di sugo con tozzi di pane dhurra. Penrod ringraziò lo zio e gli
augurò la buona notte, poi fece segno a Yakub di seguirlo. Uscirono nel
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deserto.
«Ci sono già troppe persone a Omdurman che conoscono la nostra
identità. Sarebbe poco sicuro trattenerci ancora a lungo nella casa di tuo
zio. D'ora in poi, dormiremo ogni notte in posti diversi: nessuno deve poter
seguire i nostri movimenti. Noi dobbiamo vedere, ma mai esser visti.»
Il Mahdi si interessò nuovamente a Rebecca solo qualche mese dopo il
suo confinamento nella zenana. Allora fece dare abiti nuovi a lei e alla
sorellina. Amber ricevette tre semplici vesti di cotone e dei sandali leggeri.
A Rebecca mandò abiti di fattura più elaborata, sebbene non
eccessivamente sfarzosi, come si addiceva alla concubina del profeta di
Allah.
I vestiti rappresentarono una lieta distrazione dalla noia dell'harem.
Amber si era ripresa a sufficienza per poter vivere intensamente la novità;
dunque si provarono i vestiti e li sfoggiarono con Nazira e fra di loro.
La zenana era un piccolo villaggio recintato. Il muro, lungo il quale si
apriva un solo cancello, era alto tre metri e fatto di mattoni di fango.
Circondava le centinaia di capanne di paglia che ospitavano tutte le mogli
del Mahdi e le sue concubine, le schiave e i servi che si prendevano cura di
loro. Le donne erano nutrite dalla cucina comune, ma si trattava di una
dieta monotona fatta di dhurra e pesci d'acqua dolce saltati nel ghi, il burro
chiarificato, con del peperoncino straordinariamente piccante. Con così
tante bocche da sfamare, ovviamente il Mahdi riteneva che un po' di
economia non guastasse.
Le donne che avevano un po' di denaro potevano comprare altre
provviste e leccornie da quelle venditrici che ogni mattina, per poche ore,
avevano il permesso di oltrepassare le mura della zenana. Con tutto il
denaro che aveva, Nazira poté permettersi di comprare zampetti di
montone, grossi tagli di manzo, zucche a forma di fiasco piene di latte
fermentato, e poi cipolle, zucche tonde, datteri e cavolo. Cucinavano il
tutto nel cortiletto recintato dietro la capanna di paglia che Alì Wad aveva
fatto costruire per loro dai suoi uomini. Con questa dieta nutriente, i corpi
delle ragazze scheletriti dal lungo assedio si rinvigorirono, le guance
ripresero colore e gli occhi tornarono luminosi. Per ben due volte, Nazira
era tornata segretamente, di notte, alle rovine del consolato britannico
dall'altra parte del fiume, nella città abbandonata di Khartum. Dalla prima
visita aveva riportato non solo denaro, ma anche il diario di David
Wilbur Smith
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2005 - Il Trionfo Del Sole
Benbrook.
Rebecca aveva trascorso giorni interi a leggerlo. Le sembrava quasi di
ascoltare ancora la voce del padre, se non per il fatto che in queste pagine
lui esprimeva idee e sentimenti che lei non aveva mai udito prima. Tra i
fogli aveva scoperto il testamento del padre, firmato dieci giorni prima
della sua morte, dove il generale Charles Gordon figurava come testimone.
La sua proprietà andava divisa in parti uguali fra le tre figlie, ma sarebbe
stata amministrata da un avvocato con lo studio in Lincoln's Inn, un
gentiluomo chiamato Sebastian Hardy, fino a che non avessero compiuto i
ventun anni d'età. Newbury sembrava lontana come la luna, e la possibilità
di tornare laggiù appariva così remota che Rebecca non si era curata molto
del documento e l'aveva rimesso subito a posto fra le pagine del diario.
Aveva poi continuato a leggere la grafia minuta ma elegante del padre: a
volte sorrideva e annuiva, altre volte rideva o piangeva. Giunta alla fine, si
era accorta che diverse centinaia di pagine dello spesso quaderno erano
ancora bianche. Aveva allora deciso di continuarlo con il proprio racconto
delle gioie e delle tragedie della famiglia. La volta successiva in cui Nazira
attraversò il fiume, Rebecca le aveva chiesto di cercare il materiale da
scrittura di suo padre.
Nazira era tornata con penne, una manciata di pennini sparsi e cinque
bottigliette del miglior inchiostro indiano. Aveva portato anche altro
denaro e alcuni piccoli tesori che gli sciacalli avevano lasciato sul posto;
fra questi, c'era uno specchio con una cornice di tartaruga.
«Guarda come sei bella, Becky.» Amber sollevò lo specchio così da
permetterle di ammirare il lungo vestito di seta e fili d'argento che il Mahdi
le aveva mandato. «Diventerò mai come te?»
«Sei già molto più bella di me, e lo sarai di più ogni giorno che passa.»
Amber girò lo specchio ed esaminò il proprio viso. «Ho orecchie troppo
grandi, e il naso troppo piatto. Il mio petto sembra quello di un uomo.»
«Cambierà, credimi.» Rebecca l'abbracciò. «Oh, è così bello rivederti in
salute.» Con la capacità di recupero tipica dei giovani, Amber si era gettata
dietro le spalle la maggior parte degli orrori vissuti recentemente. Rebecca
le aveva permesso di leggere il diario del padre. Questo l'aveva aiutata a
guarire, e aveva alleviato la terribile sofferenza che aveva patito per lui e
Saffron. Ora riusciva a ricordare i bei tempi felici che avevano trascorso
assieme. Cominciava anche a mostrare un interesse più attivo per ciò che
la circondava e per le circostanze in cui ora versavano. Per merito della sua
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2005 - Il Trionfo Del Sole
personalità amabile e del fascino naturale, aveva fatto amicizia con le altre
donne e i bambini della zenana. Con il denaro che Nazira portava loro,
Amber poteva permettersi di prendere piccoli regali per le più bisognose;
era diventata subito la prediletta della zenana, con molte nuove amiche e
compagne di gioco.
Perfino Alì Wad si addolciva sotto il suo influsso caldo, solare. Il truce
guerriero aveva rinnovato con Nazira l'amicizia intima di un tempo: in
molte occasioni Nazira aveva lasciato la capanna subito dopo cena ed era
tornata solo all'alba. Era stata Amber a spiegare le sue assenze notturne a
Rebecca. «Vedi, il povero Alì Wad ha una schiena malandata. È stato
disarcionato da cavallo durante una battaglia. Ora Nazira deve
raddrizzargli la schiena per far cessare il dolore. È l'unica a sapere come si
fa.»
Rebecca si adoperava per alleviare la noia tentando di portare un po' di
ordine dentro il caos sociale e domestico che la circondava. Per prima
cosa, si era preoccupata della mancanza di igiene che imperava all'interno
della zenana. La maggioranza delle donne proveniva dal deserto e non era
mai stata costretta a vivere in condizioni di sovraffollamento prima
d'allora. Tutti i rifiuti venivano semplicemente buttati fuori dalla porta di
ogni capanna, e diventavano cibo per corvi, ratti, formiche e cani randagi.
Le latrine non esistevano, e tutti seguivano il richiamo della natura nel
luogo ove capitava di avvertirlo. Per percorrere il labirinto di strade fra le
capanne bisognava impegnarsi in un abile gioco di gambe, evitando i
nauseabondi cumuli marrone disseminati sul terreno. L'estremo insulto per
Rebecca era stato vedere due ragazzini nudi competere su chi riuscisse a
orinare da una parte all'altra del pozzo che forniva acqua a tutta la zenana.
Nessuno dei due era riuscito a superare l'orlo più lontano, sicché i loro
deboli zampilli erano finiti in fondo al pozzo.
Aiutata da Nazira, Rebecca aveva sconfitto la riottosità di Alì Wad, il
quale aveva messo i propri uomini a scavare delle latrine comuni, e aveva
fatto sì che le donne le usassero. Poi avevano visitato quelle madri la cui
prole era devastata dalla dissenteria e da isolati casi di colera. Rebecca si
era ricordata il nome del monastero da cui Ryder aveva ottenuto la polvere
contro il morbo, e Nazira aveva convinto Alì Wad a inviare tre dei suoi
uomini in Abissinia a procurarsi nuove scorte del medicinale. Fino al loro
ritorno, le donne avevano continuato a usare ciò che restava del regalo di
Ryder Courteney con moderazione e giudizio per salvare la vita di alcuni
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bambini. Il loro impegno era valso loro la fama di medici infallibili: ora le
mamme obbedivano quando si ordinava loro di bollire l'acqua del pozzo
prima di darla ai bambini o di berla loro stesse. I loro sforzi furono subito
premiati, e la dissenteria epidemica venne debellata.
Queste faccende allontanavano dalla mente di Rebecca il pensiero della
minaccia che pendeva sopra la loro testa. Vivevano a diretto contatto con
la morte; l'odore dei corpi umani tumefatti aleggiava ovunque per il
recinto, tanto che presto le loro narici vi si erano abituate. Dentro la
zenana, Rebecca e Nazira erano riuscite a imporsi su Alì Wad anche per
quanto riguardava il rispetto della legge islamica: i morti di colera o di
altra malattia venivano portati via dai suoi uomini e sotterrati il giorno
stesso. Però non avevano alcun controllo sul cortile delle esecuzioni,
separato dalla zenana soltanto da un muro di confine.
Alcuni eucalipti crescevano allineati lungo il muro posteriore della
zenana. I bambini, e anche alcune donne, si arrampicavano fra i rami ogni
volta che i corni ombeyya annunciavano con la loro voce stridula un'altra
esecuzione: da sopra gli alberi, potevano osservare il patibolo e il terreno
immediatamente circostante. Una mattina Rebecca aveva scoperto anche
Amber fra i rami, mentre pallida e attonita osservava una giovane che
veniva lapidata a morte a non più di cinquanta passi da dove stava
appollaiata. Rebecca aveva trascinato la bambina giù dall'albero fino alla
capanna, minacciandola di picchiarla se l'avesse vista di nuovo
arrampicarsi lassù.
Eppure, ogni mattina al risveglio pensava con orrore che quello avrebbe
potuto essere il giorno in cui il Mahdi l'avrebbe chiamata a servire nei suoi
quartieri privati del palazzo. E l'arrivo del dono degli abiti rese più intenso
il senso del pericolo.
Non dovette aspettare molto. Dopo quattro giorni Alì Wad venne a
informarla della sua prima udienza privata con il Prescelto. Nazira differì
l'inevitabile ribattendo che la donna era colpita dal malessere mensile. Ma
la scusa poteva funzionare una volta sola, e una settimana più tardi Alì
Wad arrivò di nuovo con l'annuncio che sarebbe tornato a prelevarla dopo
le preghiere del mezzogiorno.
Dietro la capanna, nel cortiletto riparato, Nazira denudò Rebecca, la fece
stare in piedi su un tappeto di canne e le versò sul capo diverse brocche di
acqua calda, profumata con mirra e legno di sandalo acquistati al mercato.
Era risaputo che il Mahdi detestava l'odore di corpo non lavato. Poi
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l'asciugò, la cosparse con un'essenza di fiori di loto e le fece indossare uno
dei vestiti nuovi. Infine giunse Alì Wad per scortarla al cospetto del
Prescelto.
Nulla andò come Rebecca si era immaginata. Non vide mobili o
tappezzerie lussuose, né pavimenti di marmo, né fontane zampillanti. Si
trovò viceversa su una terrazza a cielo aperto arredata soltanto con pochi
angareb di fattura comune, e una serie di tappeti e cuscini persiani
disseminati sul pavimento. Invece del solo potente Mahdi, c'erano tre
uomini che giacevano sugli angareb. Colta alla sprovvista, Rebecca non
sapeva bene cosa ci si attendesse da lei, ma il Mahdi le fece cenno di
avvicinarsi. «Vieni, al-Jamila. Siedi qui.» Indicò la catasta di cuscini ai
piedi del letto, poi continuò a parlare con gli altri uomini. Stavano
discutendo delle attività dei trafficanti di schiavi dervisci lungo il tratto
superiore del Nilo, e di come decuplicare gli affari ora che non sussisteva
più l'ostilità da franco di Gordon Pascià nei confronti di quel tipo di
commercio.
Sebbene tenesse il capo chino, serbando quel decoro prudentemente
consigliatole da Nazira, Rebecca poté studiare gli altri due uomini
attraverso le ciglia socchiuse. Il khalifa Abdullahi la spaventava, anche se
stentava ad ammetterlo con se stessa. Aveva la presenza gelida e
implacabile di un serpente velenoso; le tornò alla mente l'immagine del
mamba, viscido e luccicante. Rabbrividì e guardò il terzo uomo.
Per la prima volta poté studiare da vicino l'emiro Osman Atalan. Durante
il loro primo incontro era stata troppo impegnata nella sfida con il Mahdi
per la sopravvivenza sua e di Amber, una sfida che l'aveva lasciata esausta.
Di certo, da quando era nella zenana aveva sentito le altre donne discutere
della reputazione di guerriero dell'emiro. Dopo la decisiva vittoria su
Gordon Pascià, adesso Osman era il comandante più anziano dell'esercito
dei dervisci. Escluso ovviamente il Mahdi, per potere e influenza era
inferiore soltanto al khalifa Abdullahi.
Adesso poteva osservarlo con la coda dell'occhio, e lo trovò interessante.
Non si era mai resa conto che un arabo potesse essere tanto attraente. La
sua pelle non aveva la solita tonalità marrone scuro, e la barba era pulita e
ondulata. Gli occhi erano scuri, ben disegnati, vigili, e sul fondo brillavano
come delle stelline: sembravano gioielli di corallo nero lucente. Per
contrasto, i denti erano bianchi e regolari. A Rebecca sembrava che l'uomo
trattenesse a stento il giubilo, in attesa della prima occasione per
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2005 - Il Trionfo Del Sole
comunicare agli altri importanti notizie.
Anche il Mahdi doveva aver avvertito la sua impazienza, poiché volse il
sorriso su di lui. «Abbiamo parlato del sud, ma ora dimmi quali notizie hai
del nord dei miei domini. Cosa hai saputo degli infedeli che hanno invaso i
miei territori?»
«Potente Mahdi, le notizie sono buone: un piccione viaggiatore è giunto
da Metemma un'ora fa. Gli ultimi crociati infedeli che avevano osato
marciare verso le vostre città per salvare Gordon Pascià sono fuggiti dalle
vostre sacre terre come un branco di iene rognose davanti alla furia del
leone dalla criniera nera. Hanno abbandonato i piroscafi che li portavano a
Khartum, e che voi e il vostro esercito sempre vittorioso avete colpito e
respinto. Sono fuggiti in Egitto passando per Uadi Halfa; sono stati
sconfitti, e mai più metteranno piede nei vostri territori. Il Sudan è tutto
sotto il vostro incontrastato controllo, e il vostro esercito sempre vittorioso
è pronto a portare altri vasti territori sotto la vostra influenza e a diffondere
le vostre parole divine e i vostri insegnamenti in tutto il mondo. Possa
Allah sempre amarvi e avervi caro.»
«Tutti i ringraziamenti vanno ad Allah, che mi ha promesso queste
cose», disse il Mahdi. «Egli mi ha ripetuto molte volte che l'Islam fiorirà in
Sudan per mille anni, e che tutti i monarchi e i governanti del mondo
rinunceranno alle loro pratiche infedeli e diverranno miei vassalli,
riponendo la loro fiducia nella mia benevolenza e la loro fede nell'unico
vero Dio e nel suo Profeta.»
«Lode a Dio per il suo potere infinito e la sua infinita sapienza»,
proclamarono gli altri con fervore.
Per Rebecca la notizia che l'esercito britannico si era ritirato dal Sudan
fu sconvolgente. Anche se Khartum era caduta e i piroscafi erano stati
respinti, le restava una fiammella di speranza che un giorno, molto presto,
i soldati britannici avrebbero marciato su Omdurman e loro sarebbero state
liberate. Quella fiamma si spense in un solo soffio, crudelmente. Lei e
Amber non sarebbero mai sfuggite a quel mostro con il sorriso sulla faccia
che adesso era padrone del loro corpo e della loro anima. Tentò di
ricacciare la nera disperazione che minacciava di sopraffarla.
Debbo resistere, si disse, non soltanto per me, ma anche per Amber. Non
importa quale prezzo sarò costretta a pagare, non importa a quali pratiche
oscene e contro natura sarò assoggettata. Debbo sopravvivere.
Con un sussulto, comprese che il Mahdi le stava parlando. Sebbene si
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2005 - Il Trionfo Del Sole
sentisse mancare per l'angoscia, raccolse un po' di coraggio e gli rivolse
tutta l'attenzione di cui era capace.
«Desidero mandare una lettera alla tua sovrana», le disse il Mahdi. «Tu
la scriverai per me. Di che cosa abbisogni?» Rebecca si sorprese alla
richiesta. Si aspettava di essere trattata con rozzezza, come una sgualdrina,
non come una segretaria. Ma riprese il controllo di sé e gli spiegò di cosa
aveva bisogno. Il Mahdi batté sul gong d'ottone vicino al letto. Un visir si
precipitò su per le scale e venne a prostrarsi dinanzi al suo padrone.
Ascoltò gli ordini che gli venivano impartiti e poi indietreggiò per le scale,
cantando le lodi del Mahdi. Poco dopo tornò con tre schiavi da camera che
recavano uno scrittoio razziato dal consolato belga. Lo sistemarono
davanti a Rebecca e, poiché il sole stava per tramontare e la luce del
giorno svaniva, le disposero intorno quattro lampade a olio per illuminarla
durante il lavoro.
«Scrivi nella tua lingua le parole che ti dirò. Qual è il nome della tua
regina? Ho sentito che il tuo paese è comandato da una donna.»
«È la regina Vittoria.»
Il Mahdi fece una pausa per raccogliere le idee, e poi dettò: «Vittoria
d'Inghilterra, sappi che sono io, Mohamed, il Mahdi, il messaggero di Dio,
che ti parlo. Con un gesto insensato, hai mandato i tuoi eserciti di crociati
contro il mio potere, poiché ignoravi che sono sotto la divina protezione di
Allah, e quindi debbo sempre trionfare in battaglia. I tuoi eserciti sono stati
sconfitti e dispersi come polvere al vento. I tuoi poteri in questo mondo
sono distrutti. Di conseguenza ti dichiaro mia schiava e vassalla». Fece
un'altra pausa, quindi disse a Rebecca: «Non scrivere altro che quello che
ti dico. Se aggiungi qualsiasi altra cosa, ti farò picchiare».
«Comprendo le vostre parole. Sono la vostra creatura, e non penserei
mai di disobbedire a qualunque vostro desiderio.»
«Allora scrivi questo alla tua regina: 'Hai agito per ignoranza. Non
sapevi che le mie parole e i miei pensieri sono le parole di Dio Stesso. Tu
non sai nulla della Vera Fede. Non capisci che Allah è l'unico Dio, e che
Mohamed, il Mahdi, è il suo vero profeta. A meno che tu non faccia
ammenda dei tuoi peccati, sei destinata a bollire per sempre nelle acque
dell'inferno. Ringrazia Allah che è pietoso, poiché mi ha detto che se verrai
immediatamente a Omdurman e ti prostrerai davanti a me, se porrai te
stessa e i tuoi eserciti e tutta la tua gente sotto il mio dominio, se deporrai
ai miei piedi tutte le tue ricchezze, se rinuncerai ai tuoi falsi dèi, dichiarerai
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2005 - Il Trionfo Del Sole
che Allah è l'unico Dio e che io sono il suo profeta, allora sarai perdonata.
Ti prenderò come moglie, e mi darai molti buoni figli. Stenderò su di te le
Alì della mia protezione. Allah preparerà un posto per te in paradiso. Se
non ottempererai a questo appello la tua nazione sarà distrutta, e tu
brucerai nel fuoco dell'inferno per l'eternità. Sono io, Mohamed, il Mahdi,
che ordino queste cose. Non mie sono le parole, ma sono le parole che Dio
ha posto nella mia bocca'.»
Il Mahdi si rimise a sedere, soddisfatto della sua creazione, e fece un
gesto deciso con la mano destra per mostrare che aveva finito.
«Quello che avete creato è un capolavoro», disse il khalifa Abdullahi.
«Dà voce al potere e alla maestà di Dio. Le vostre parole dovrebbero
essere ricamate sulle vostre insegne affinché tutto il mondo possa leggerle
e crederle.»
«E' evidente che queste sono le esatte parole di Allah pronunciate
attraverso la vostra bocca», convenne Osman Atalan con serietà. «Sarò
eternamente grato di aver avuto il privilegio di udirle proferire a viva
voce.»
Se mai si verrà a sapere che ho scritto queste scioccherie da traditrice,
pensò Rebecca, verrò rinchiusa nella Torre di Londra per il resto dei miei
giorni. Non distolse lo sguardo dalla pagina ma, sicura che nessun'altra
persona in tutta Omdurman poteva capire l'inglese, aggiunse una frase
finale di sua iniziativa: «Scritto sotto estrema coercizione da Rebecca
Benbrook, figlia del console britannico David Benbrook ucciso dai
dervisci insieme con il generale Gordon. Dio salvi la Regina». Valeva la
pena di correre questo rischio, non solo per scusarsi di fronte a se stessa
ma anche per informare il mondo civile del suo infelice stato.
Asciugò la pagina con un po' di sabbia e la porse al Mahdi, tenendo gli
occhi al suolo. «Santissimo, è questo come avevate desiderato?» bisbigliò
con umiltà. Lui afferrò la lettera e Rebecca vide i suoi occhi andare
dall'angolo in basso a destra verso l'alto, a sinistra, nella direzione
contraria. Con un empito di sollievo, capì che stava cercando di leggere
l'inglese come se fosse arabo. Non sarebbe mai riuscito a decifrare ciò che
aveva scritto. Era sicura che non l'avrebbe mai ammesso, né avrebbe mai
mostrato la sua lettera a un'altra persona per farsela tradurre.
«È secondo i miei desideri.» Annuì. Rebecca dovette reprimere un
istintivo sospiro di sollievo. Il Mahdi porse il foglio di carta al khalifa
Abdullahi. «Sigilla la missiva e assicurati che sia spedita con la massima
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urgenza al khedivè del Cairo. Si occuperà lui di inviarla a questa regina
che io prenderò in moglie.» Fece un gesto per licenziare i presenti. «Ora
potete lasciarmi, poiché desidero ricrearmi con questa donna.»
Gli altri si alzarono, gli resero omaggio e indietreggiarono fino alle
scale.
Quando Rebecca si trovò sola con il profeta di Dio, la sua paura crebbe
atrocemente. Si rese conto che le tremavano le mani e che doveva stringere
i pugni per tenerle ferme.
«Vieni più vicino!» le ordinò, e Rebecca s'alzò dallo scrittoio e andò a
inginocchiarsi innanzi a lui. Il Mahdi le accarezzò i capelli, con una mano
sorprendentemente dolce. «Sei un'albina?» chiese. «O forse ci sono tante
donne nel tuo paese con capelli di questo colore, e con occhi azzurri come
il cielo senza nubi?»
«Nel mio paese, sono una come tante», ammise lei. «Mi addolora, se
questo non vi piace.»
«Al contrario, mi piace molto.» Essendo lui seduto sull'angareb, gli
occhi di Rebecca erano allo stesso livello della sua vita. Sotto il panno
bianco della jibba, vide il suo corpo fremere di quella straordinaria
tumescenza virile che lei trovava tuttora incomprensibile, una creatura con
vita propria.
Il suo tammy si sta svegliando, pensò, e quasi ridacchiò all'assurda idea
del profeta di Dio con un tammy fra le gambe, proprio come ogni altro
uomo meno divino. Capì di essere prossima a una crisi d'isteria e, con
sforzo, riuscì a controllarsi.
«Riesco a scorgere la luce delle lampade attraverso la tua carne.» Il
Mahdi prese tra le dita il lobo dell'orecchio di lei e lo girò per catturare il
raggio della lampada, ammirando la rosea luminosità che si accendeva in
esso. Rebecca arrossì imbarazzata e l'uomo si accorse subito del
cambiamento. «Sei come un piccolo camaleonte. La tua pelle muta colore
a seconda del tuo stato d'animo. È veramente singolare, ma seducente.»
Prese il suo lobo fra i denti e lo morse, abbastanza forte da farla rimanere
senza fiato, ma non così tanto da ferirla e farle uscire del sangue. Quindi lo
succhiò come un infante al seno della madre. Lei avvertiva suo malgrado
la crescente sensibilità dei capezzoli che sfioravano la seta della veste.
«Ah!» Lui notò la reazione involontaria e sorrise. «Tutte le donne sono
differenti, ma anche uguali.» Il Mahdi prese un seno nella sua mano a
coppa e ne strinse il capezzolo inturgidito. Rebecca di nuovo trattenne il
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fiato. L'uomo si accovacciò e slacciò la veste di lei. Sembrava non avere
alcuna fretta. Si mosse con voluta gentilezza per non spaventarla, come un
provetto stalliere con una puledrina nervosa.
Rebecca si rese conto che il Mahdi era alquanto esperto nelle arti
amorose. Be', aveva avuto modo di fare molta pratica, con centinaia di
concubine. Decise di non farsi troppo coinvolgere, né di lasciarsi
impressionare dalla sua perizia. Ma quando l'uomo liberò uno dei suoi seni
dalla veste e ne morse il capezzolo come aveva fatto con il lobo, con una
dolce fermezza che le strappò un altro gemito, i propositi di Rebecca
vacillarono. Si sforzò di ignorare le onde di voluttà che dal capezzolo si
irradiavano in tutto il suo corpo. Quando provò a ritrarsi, lui la trattenne
con una leggera pressione dei denti. La sensazione di piacere era
accresciuta dalla colpa e dalla convinzione che ciò che stava accadendo era
peccaminoso. Ancora una volta si rese conto che il peccato, al pari della
santità, esercitava un fascino particolare. Non desidero che accada, pensò,
ma non ho modo di impedirlo.
La bocca del Mahdi vagò sul suo seno, le labbra massaggiavano e
mordicchiavano la carne, mentre la lingua la esplorava guizzando.
Rebecca sentì che il suo sesso si stava sciogliendo e la vergogna svanì.
Incominciò a smaniare, stranamente irrequieta. Voleva che accadesse
qualcos'altro, ma non riusciva a stabilire cosa.
«Alzati in piedi!» disse il Mahdi, e lei per un momento non capì le
parole. «Alzati!» ordinò lui, in tono più deciso. Rebecca si alzò
lentamente. La veste era ancora aperta e un seno ne faceva capolino.
Quando lei fu in piedi l'uomo le rivolse un sorriso dolce, quasi angelico.
«Spogliati!» le ordinò. Rebecca esitò, e il sorriso di lui svanì. «Subito!»
disse lui. «Fai come ti dico.»
Rebecca fece scivolare la veste dalle spalle e la lasciò cadere fino alla
vita. Lui la guardò e i suoi occhi sembrarono accarezzarle le carni. Attorno
ai capezzoli, la donna avvertì immediatamente un senso di pelle d'oca. Lui
allungò la mano destra e fece scivolare l'unghia dell'indice proprio lì sopra,
raschiando sulla pelle. Rebecca sentì le ginocchia abbandonarla. Sebbene
avesse sempre saputo che prima o poi tutto questo sarebbe accaduto, ora
sentiva la vergogna tornare a invaderla di prepotenza. Era una donna
inglese e cristiana, mentre lui era arabo e musulmano: tutto ciò si
scontrava duramente con quanto le era stato insegnato e con la sua fede.
«Spogliati!» ripeté il Mahdi. Il suo dilemma sembrava senza soluzione,
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fino a quando si ricordò delle parole che aveva letto recentemente nel
diario di suo padre: «Non bisogna mai dimenticare che questo è un paese
selvaggio e pagano. Non dobbiamo giudicare queste genti con il metro che
usiamo a casa nostra. Il comportamento che sarebbe considerato
stravagante o addirittura criminoso in Inghilterra qui è comune e normale.
È necessario sempre tenerne conto».
Papà ha scritto queste parole per me! pensò. Lasciò ciondolare la testa
con fare pudico. «Nessuno ha mai posato gli occhi su ciò che sta sotto
questa seta.» Toccò timidamente il rigonfio della sua intimità sotto la
veste. «Ma se voi scosterete ciò che mi copre, io saprò che a farlo è la
mano di Allah e non quella di un comune mortale. Per questo mi
rallegrerò.»
Senza saperlo, Rebecca aveva indovinato il comportamento migliore
lasciando a lui ogni responsabilità e mettendosi in suo potere: ora si avvide
che così lo aveva compiaciuto oltre ogni dire.
Il Mahdi stese un braccio e fece scivolare il vestito lungo la curva delle
cosce. Quando ricadde attorno alle caviglie, Rebecca si coprì il monte di
Venere con una mano. Lui non protestò a questa verecondia. Era quello
che si aspettava da una vera vergine, ma disse piano: «Voltati». Rebecca si
girò lentamente, poi avvertì un suo dito seguire la curva fra le natiche e le
cosce.
«Così morbida, così bianca ma venata di rosa, come una nube toccata
all'alba dai primi raggi del sole.» La guidò con la pressione del dito e la
indusse a piegarsi in avanti restando con le gambe diritte, fino a quando la
fronte quasi non toccò le ginocchia. Rebecca avvertì il suo alito ardente
dietro le gambe mentre lui avvicinava la faccia per esaminarla. Il dito
premette nuovamente e lei divaricò le gambe un po' di più. Percepiva il suo
sguardo che s'insinuava nel luogo più recondito del suo corpo: lui ora
osservava cose su cui nessun'altra persona - infermiera, genitore, amante né lei stessa aveva mai posato lo sguardo. Da questo punto di vista era
veramente vergine. Sapeva che quel minuzioso esame del suo corpo
avrebbe dovuto contrariarla, ma era troppo stordita, troppo sottoposta
all'influsso di lui, soggiogata da quel suo sguardo oscuro e ipnotico.
«Vi sono tre cose insaziabili a questo mondo», mormorò il Mahdi. «Il
deserto, la tomba e la farfallina di una bella donna.» La fece voltare di
nuovo e scostò gentilmente le sue mani che nascondevano il pube. Lo
toccò. «Questa non è peluria, ma un filo intrecciato d'oro. È una seta, una
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garza, è una morbida luce mattutina.»
La sua ammirazione era talmente sincera ed espressa con parole così
poetiche che, quando lui allargò le labbra esterne del suo sesso, Rebecca
invece di ritrarsi disgustata acconsentì di buon grado. Di sua spontanea
volontà, e senza più bisogno di guida, divaricò le gambe.
«Qui non devi mai raderti», le disse. «Ti esenterò eccezionalmente
dall'obbligo. Questa seta è troppo preziosa e bella per essere recisa.»
Poi le prese le mani, l'attirò al suo fianco sull'angareb e la fece
distendere sulla schiena. Sollevò le sue gambe e si inginocchiò tra di esse.
Abbassò la faccia. Lei rimase sgomenta quando capì cosa stava per farle.
Nazira non l'aveva avvertita di questo. Pensava che i ruoli sarebbero stati
invertiti.
Quello che accadde dopo, trascese ogni sua fantasticheria. Il Mahdi era
di una bravura eccezionale, il suo istinto era formidabile. Rebecca ebbe la
sensazione di essere divorata, come se stesse morendo e rinascendo. Alla
fine gridò, quasi in preda a una mortale angoscia, e poi ricadde
sull'angareb. Era madida di sudore, e stava tremando. Non riusciva più a
pensare né a muoversi: le sembrava di essere diventata un semplice
ricettacolo di travolgenti sensazioni corporee. Trascorse un'eternità prima
che gli ultimi spasmi e le profonde contrazioni nel suo intimo si
placassero. Soltanto allora lo udì bisbigliare. Anche se il Mahdi si era
accostato al suo orecchio, a lei la voce sembrò provenire da molto lontano.
«Come il deserto e la tomba», le disse, sorridendo teneramente. Rebecca
restò stesa per un tempo lunghissimo, sollevandosi soltanto quando sentì
che lui ricominciava ad accarezzarla. Quando riaprì gli occhi, scoprì con
lieve sorpresa che anche lui era nudo. Si mise a sedere puntellandosi su un
gomito e lo guardò: giaceva sulla schiena. Dopo quello che lui le aveva
fatto, tutta la sua modestia e la vergogna non esistevano più. Si ritrovò a
osservarlo quasi con la stessa attenzione che lui le aveva dedicato. La
prima cosa che la colpì fu che era quasi glabro. Il suo corpo aveva tratti
dolci, quasi femminei, non era duro e muscoloso come quello di Penrod o
di Ryder. I suoi occhi scivolarono sul tammy. Sebbene eretto, era piccolo e
liscio, non deformato da vene sporgenti. La punta, circoncisa, era scoperta
e lustra. Aveva un'aria infantile e innocente. Le ispirava un sentimento
quasi materno.
«È così carino!» esclamò, e subito dopo ebbe paura che lui trovasse la
descrizione troppo effeminata, spregiativa, che lo prendesse come un
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insulto alla sua virilità. Ma non aveva nulla da temere. Ancora una volta il
suo istinto l'aveva ben guidata. Il Mahdi sorrise, e lei si ricordò del
consiglio di Nazira. «Signore e padrone, vi recherei offesa se osassi fare a
voi ciò che voi avete così graziosamente fatto a me? Per me sarebbe un
onore senza limite.» L'uomo sorrise ancora, tanto da mostrare
completamente lo spazio fra gli incisivi.
All'inizio, Rebecca era goffa e insicura. Lui la considerò un'ulteriore
prova della sua verginità. Incominciò a guidarla. Quando faceva qualcosa
che lo soddisfaceva, la incoraggiava con mormorii e bisbigli e le toccava la
testa. Quando si infervorava, la frenava con un buffetto gentile. In breve
lei fu assorbita dal compito e il suo premio, per quanto breve, fu un
gratificante senso di potere e controllo su di lui. Il Mahdi la spinse a poco a
poco ad aumentare il ritmo dei suoi movimenti, finché d'un tratto le fornì
l'indubitabile prova del suo soddisfacimento. Per un momento, lei non
seppe che fare. Poi rammentò che Nazira l'aveva consigliata di inghiottire
in fretta e non pensarci più.
Come un pesce gatto nelle fangose acque del Nilo, Penrod si lasciò
assorbire dalle viuzze brulicanti di vita, dai vicoli e dalle spelonche di
Omdurman. Divenne invisibile. Mutò abito e aspetto quasi ogni giorno,
diventando di volta in volta un cammelliere, un umile mendicante oppure
un idiota che sbavava e annuiva di continuo. Eppure, sapeva di non poter
rimanere in città per un tempo indefinito senza attirare l'attenzione su di sé.
Quindi lasciò quella città labirintica per alcune settimane. Una volta riuscì
a lavorare come mandriano per un venditore di cammelli che doveva
portare le bestie al nord per venderle nei piccoli villaggi lungo le rive;
un'altra volta si unì all'equipaggio di un dau commerciale che trafficava
lungo il Nilo fino ai confini con l'Abissinia.
Quando tornò a Omdurman si impose di non dormire mai due notti nello
stesso luogo. Seguendo il consiglio di Yakub, non fece alcun tentativo di
contattare personalmente Nazira o qualsiasi altra persona che conoscesse
la sua vera identità. Comunicava con Wad Hagma solo attraverso Yakub.
I preparativi per la liberazione di Rebecca si trascinarono a lungo, fino a
sembrare interminabili. Wad Hagma incontrò diversi ostacoli, ognuno dei
quali per essere superato richiedeva altro denaro e pazienza. Ogni volta
che Yakub portava un messaggio a Penrod, si trattava sempre della
necessità di altri soldi per comprare cammelli, o pagare le guide, o
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corrompere guardie e ufficiali di basso rango. Il borsello alla cintura di
Penrod, una volta pesante, si sgonfiò man mano. Le settimane divennero
mesi, mentre lui scalpitava e s'infuriava. Considerò più volte l'ipotesi di
architettare un colpo di mano per agguantare le prigioniere e raggiungere
con loro i confini egiziani. Ma già sapeva che il tentativo sarebbe stato
vano. La zenana del Mahdi era impenetrabile senza un aiuto proveniente
dall'interno, e, ogni giorno che passava, i dervisci effettuavano sempre più
controlli sugli stranieri che arrivavano o partivano da Omdurman. Da solo,
Penrod poteva muoversi con una certa libertà, ma con un seguito di donne
sarebbe stato quasi impossibile, a meno che il piano non fosse stato
preparato con molta cura.
Alla fine, scoprì una piccola grotta in una formazione di pietra calcarea
nel deserto, a poche miglia dalla città. Un tempo era stato il rifugio di un
eremita. Il vecchio era morto da anni, ma il luogo aveva una reputazione di
tale malaugurio tra la popolazione locale che Penrod giudicò
ragionevolmente sicuro appropriarsene. Dietro la grotta c'era una piccola
infiltrazione d'acqua, appena sufficiente ai bisogni di una o due persone e
del piccolo gregge di capre che aveva comprato da un pastore incontrato
per strada. Usava gli animali per avvalorare il suo travestimento da pastore
del deserto. Per raggiungere Omdurman dalla grotta ci volevano due o tre
ore a piedi. Così, Penrod era sempre in contatto con Yakub, il quale veniva
alla grotta nottetempo, a cavallo, per recargli un po' di cibo e le ultime
novità da parte di suo zio. Spesso Yakub si tratteneva nella grotta per
qualche giorno, e Penrod era grato della sua compagnia. Poiché non era
saggio ostentare la spada europea che Hardinge gli aveva donato a
Metemma, che avrebbe attirato troppi sguardi, la seppellì nel deserto, dove
sarebbe stato capace di ritrovarla per - chissà - restituirla un giorno alla
moglie del maggiore. Ordinò a Yakub di trovargli uno spadone sudanese, e
quando lo ebbe si esercitò con esso tutti i giorni.
Ogni volta che Yakub lo visitava, si esercitavano nello uadi davanti alla
caverna dove si nascondevano dagli sguardi di passanti occasionali o
pastori nomadi. La sua valentia era tale che dopo mezza giornata di pratica
Yakub, quando staccò la lama dalla sua, aveva il mento che colava sudore.
«Basta così, Abadan Riji!» gli urlò. «Ti giuro sul nome di Dio che nessuno
in questa terra potrà prevalere sulla tua lama. Sei diventato un maestro del
lungo acciaio.»
Mentre si riposavano nel basso anfratto della grotta, Penrod gli chiese:
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«Che novità da tuo zio?» Sapeva che le notizie non potevano essere buone:
se lo fossero state, Yakub le avrebbe riferite subito al suo arrivo.
«Mio zio era pervenuto a un accordo con un visir del Mahdi e
finalmente tutto era pronto. Ma tre giorni or sono, il visir è caduto in
disgrazia presso il suo padrone per un'altra questione... aveva rubato del
denaro dal tesoro. Per ordine del Mahdi, è stato arrestato e decapitato.»
Yakub fece un gesto di impotenza, quindi vide il volto del suo padrone
rabbuiarsi per la rabbia. «Ma non disperare. Ce n'è è un altro, e più
affidabile, che è in contatto diretto con la zenana. Ed è anche ben
disposto.»
«Lasciami indovinare», disse Penrod. «Tuo zio ha bisogno soltanto di
altre cinquanta sterline.»
«No, mio signore.» Yakub apparve ferito dall'insinuazione. «Gliene
servono soltanto altre trenta per sancire l'accordo.»
«Gliene darò quindici, e se non è pronto tutto almeno per la luna nuova,
verrò a Omdurman per avere un ulteriore colloquio con lui. Al mio arrivo,
porterò con me il lungo acciaio nella mano destra.»
Per un po' Yakub meditò le sue parole e poi, con altrettanta gravità,
rispose: «Ritengo che mio zio accetterà la tua offerta».
L'istinto di Yakub non sbagliava. Quattro giorni più tardi tornò alla
grotta dell'eremita. Quando era ancora lontano, agitò le mani con fare
euforico e appena fu a portata di voce gridò: «Effendi, tutto è pronto».
Quando arrivò dove Penrod lo stava aspettando, si precipitò giù dal
cammello e abbracciò il suo padrone. «Mio zio, da uomo onesto e di
parola, ha approntato ogni cosa come promesso. Al-Jamila, la sua sorella
minore e Nazira attenderanno dietro la vecchia moschea, all'estremità
presso il fiume del cortile delle esecuzioni, alla terza mezzanotte da oggi.
Tu devi tornare a Omdurman prima di quell'ora. E' meglio se vieni da solo
e a piedi, spingendo le capre dinanzi a te in tutta innocenza. Io vi
incontrerò in un luogo segreto. Porterò sei cammelli forti e riposati,
provvisti di ghirbe, foraggio e cibo. Quindi io, Yakub l'intrepido, ti guiderò
alla prima staffetta per il successivo cambio di cammelli. Ci saranno
cinque cambi di animali lungo la via fino ai confini egiziani, di modo che
possiamo cavalcare veloci come il vento. Ci saremo dileguati prima che il
Mahdi sappia che le sue concubine sono sparite dall'harem.»
Sedettero nell'ombra della grotta esaminando insieme ogni dettaglio del
piano che Wad Hagma aveva esposto a Yakub. «Così vedrai, Abadan Riji,
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che tutto il tuo denaro è stato speso assennatamente, e che non v'era
ragione per non aver fiducia nel mio amato zio, che è un santo e un
principe fra gli uomini.»
Tre giorni dopo, Penrod raccolse i suoi miseri averi, infilò la spada nel
fodero dietro la veste, si avvolse il turbante intorno al capo e al volto,
chiamò a raccolta le capre con un fischio e a passo lento s'incamminò
verso il fiume e la città. Yakub gli aveva dato un flauto ricavato da una
canna di bambù, e in tutti quei mesi Penrod si era esercitato a suonarlo. Le
capre si erano abituate a lui e lo seguivano obbedienti, belando di
approvazione ogni volta che intonava una melodia.
Intendeva arrivare alla periferia di Omdurman circa un'ora prima del
tramonto, ma era un po' in anticipo. A mezzo miglio dalle prime case,
lasciò le capre a pascolare nella sterpaglia arida e si mise a sedere,
aspettando vicino alla strada. Sebbene fosse ben avvolto nella sua veste e
fingesse di sonnecchiare, era ben sveglio. Un vecchio che guidava una fila
di sei asinelli carichi di legna da ardere gli passò accanto. Penrod continuò
a far finta di dormire: dopo aver salutato in maniera incerta, il vecchio
continuò per la sua strada.
Dopo un po', Penrod udì dei canti accompagnati dai tamburi e riconobbe
le canzoni tradizionali da matrimonio. Quindi, un folto gruppo di invitati
venne lungo la via dal villaggio più vicino, dirigendosi a sud della città. In
mezzo a loro c'era anche la sposa. Era coperta dalla testa ai piedi di veli e
tinnuli gioielli d'oro e d'argento che formavano parte della sua dote. Gli
invitati e i parenti maschi cantavano e battevano le mani e, a dispetto delle
restrizioni del Mahdi riguardo a queste cerimonie, ballavano, ridevano e
gridavano alla sposa consigli scurrili. Quando videro Penrod accovacciato
sulla strada, lo chiamarono: «Vieni, vecchio. Lascia i tuoi animali divorati
dalle pulci, e divertiti con noi».
«Ci sarà più cibo di quanto tu ne possa mangiare, e forse anche un
goccio di arak. Qualcosa che non assaggi da molti anni.» L'uomo mostrò
una piccola ghirba, ghignando con aria complice.
Penrod rispose con la voce tremula: «Sono stato sposato anch'io una
volta, e non desidero vedere un altro innocente imboccare la stessa ingrata
via».
Gli altri risero fragorosamente.
«Sei spiritoso, canaglia.»
«Puoi dare saggi consigli al nostro ormai condannato cugino su come si
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doma una femmina esigente.»
Quindi Penrod notò che tutti gli invitati avevano le spalle larghe e troppo
muscolose tipiche degli spadaccini. A dispetto della loro apparenza umile,
la loro sicurezza, il modo in cui camminavano e si atteggiavano li faceva
sembrare più degli aggagir che dei servili zotici di campagna. Diede
un'occhiata ai piedi scalzi della sposa - tutto ciò che era visibile di lei - e
vide che erano larghi e piatti, non recavano traccia di henné, e le unghie
erano trascurate e rotte.
Non sembrano i piedi di una verginella, pensò Penrod. Allungò una
mano dietro le spalle e strinse l'elsa della spada nascosta nella veste.
Quando la lama stridette nel fodero si alzò in piedi, ma gli invitati lo
avevano già circondato. Penrod vide che anche loro, mentre accorrevano
da tutte le parti, avevano già sguainato le armi. Con sorpresa, si accorse
che non si trattava di lame affilate, ma di pesanti mazze. Ebbe comunque
poco tempo per pensare: il branco gli fu addosso.
Uccise il primo con un colpo dritto alla gola, ma prima che riuscisse a
liberare la lama e a riprendere la posizione, un colpo tremendo si abbatté
sulle sue spalle, e sentì l'osso spezzarsi. Tuttavia, con un solo braccio fu
capace di parare il colpo successivo, indirizzato alla testa. Poi un altro lo
raggiunse in fondo alla schiena, diretto ai reni, e le sue gambe
cominciarono a cedere. Restò in piedi giusto il tempo di trafiggere il petto
dell'uomo che gli aveva spezzato la spalla. Poi, una porta di ferro pesante
si chiuse con fragore nel suo cervello e il buio calò su di lui come un'onda
oceanica spinta dalla tempesta.
Quando Penrod riprese conoscenza, non riuscì a capire subito dove si
trovasse né a ricordare cosa gli era accaduto. Vicino al punto dove stava
sdraiato, udiva una donna gemere come se avesse le doglie del parto.
Perché questa stupida cagna non si tappa la bocca e va a sgravarsi del
suo moccioso altrove? si disse. Dovrebbe mostrare un po' di rispetto per il
mio mal di testa. Sarà per colpa di quel pessimo liquore che ho bevuto ieri
notte. Poi, all'improvviso, le fitte di dolore si propagarono in tutto il cranio
e capì che era la sua bocca riarsa a lamentarsi. Aprì gli occhi con grande
sforzo, e si avvide di giacere su un pavimento fangoso, in una stanza
maleodorante. Provò ad alzare una mano per toccarsi la fronte ma il
braccio non reagiva: una nuova ondata di dolore gli lacerò la spalla. Allora
usò l'altra mano, ma udì un tintinnio metallico: i polsi erano ammanettati.
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Con molta pena, si girò cautamente sul fianco sano.
«Sano» era un'espressione alquanto relativa, pensò intontito. Ogni
singolo muscolo e tendine del suo corpo gli dava tormento. In qualche
modo riuscì a tirarsi su e a mettersi a sedere. Dovette attendere un
momento, che svanisse la fitta abbacinante che il movimento gli aveva
sprigionato nel cervello. Poi poté considerare la situazione.
Le catene ai polsi e alle caviglie erano gli stessi arnesi usati per la tratta
degli schiavi, pratica comune in tutto il paese. Le cavigliere erano fissate a
un paletto di ferro piantato al centro del pavimento sporco. La catena era
abbastanza corta da impedirgli di raggiungere la porta o l'unica finestra. La
cella puzzava di escrementi e vomito, sparsi attorno a lui lungo la massima
circonferenza consentita dalla catena.
Udì un fruscio sommesso e guardò in giù: un enorme ratto grigio stava
cibandosi delle poche fette di pane di dhurra che erano state gettate al suo
fianco sul pavimento lercio. Fece guizzare la catena verso l'animale e il
topo fuggì squittendo. Oltre al pane, c'era una brocca di terracotta che gli
ricordò quanto aveva sete. Provò a ingoiare, ma in bocca non aveva saliva
e la gola era riarsa. Prese in mano la brocca e notò con soddisfazione che
era pesante. Prima di bere ne annusò con sospetto il contenuto: si rese
conto, però, che era riempita con semplice acqua di fiume e si sentiva
ancora l'odore del legno bruciato che avevano usato per bollirla. Bevve una
prima volta, e poi ancora.
Credo di poter sopravvivere, constatò sardonico, e cercò di controllare il
dolore che gli martellava in testa. Udì un altro movimento e guardò verso
la finestra. Qualcuno lo stava guardando attraverso le sbarre, ma l'ombra
scomparve immediatamente. Bevve ancora, e si sentì un po' meglio.
La porta della cella si aprì alle sue spalle ed entrarono due uomini.
Indossavano jibba e turbanti, e tenevano le spade sguainate.
«Chi siete?» domandò Penrod. «Chi è il vostro padrone?» «Non sei
tenuto a fare domande», disse uno di loro. «Non devi parlare, a meno che
non ti venga ordinato di farlo.»
Li seguiva un altro uomo: più vecchio, aveva la barba grigia e portava
con sé gli strumenti tradizionali di un medico orientale. «La pace sia con
te. Possa tu compiacere Allah», lo salutò Penrod. Il dottore scrollò
bruscamente il capo, ma non rispose nulla. Posò la borsa a terra e si
avvicinò a Penrod. Gli palpò l'esteso gonfiore sul capo, evidentemente
cercando una frattura. Sembrò soddisfatto dell'esame e continuò. Si
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accorse quasi subito che il prigioniero si curava di proteggere il fianco
destro. Quindi lo prese per il gomito e cercò di sollevare il braccio. Il
dolore fu lancinante: Penrod si trattenne dal gridare per non dare questa
soddisfazione alle due guardie, ma il viso si contorse e la fronte si imperlò
di sudore. Il medico abbassò il braccio e fece correre la mano lungo il
bicipite. Quando strinse con forza il punto dove l'osso si era rotto, Penrod
rantolò nonostante il suo fermo proposito. Il dottore assentì. Tagliò la
manica della galabiyya di Penrod e gli fasciò la spalla con bende di lino.
Poi gli legò attorno al collo una sospensione per il braccio. Il sollievo fu
immediato.
«Che la benedizione di Allah e del suo Profeta scendano su di te», disse
Penrod, e il dottore rispose con un fugace sorriso.
Poi, da una fiaschetta di alabastro, versò del liquido denso e scuro in un
bicchiere di corno e lo porse a Penrod, che lo bevve tutto benché fosse
amaro come il fiele. Senza aver detto una sola parola, il dottore rimise le
sue cose nella valigia e se ne andò. Tornò anche nei cinque giorni
successivi. A ogni visita, le guardie riempivano la brocca d'acqua e
lasciavano una ciotola con qualche tozzo di pane, e pesce essiccato al sole.
In queste occasioni né le guardie né il dottore parlavano mai e non
ricambiavano il saluto di Penrod e le sue benedizioni.
Le amare pozioni che il dottore gli somministrava lo sedavano e
lenivano il dolore, ma diminuivano anche il gonfiore alla testa e alla spalla.
Il quinto giorno, dopo aver terminato la visita, il dottore parve soddisfatto.
Sistemò la sospensione e quando Penrod chiese un'altra dose di medicina,
scosse il capo con forza. Penrod lo udì parlare con le guardie fuori della
cella, ma non capì cosa stesse dicendo.
Il giorno successivo, gli effetti della droga erano ormai spariti e la sua
mente era di nuovo limpida e sveglia. Il braccio doleva solo quando
cercava di alzarlo. Fece delle prove per accertarsi di non aver subito danni
permanenti a causa del colpo alla testa. Chiuse prima un occhio e poi
l'altro, cercando di mettere a fuoco le sbarre della finestra: non vedeva gli
oggetti distorti, né doppi. Quindi si preoccupò di allenare il braccio ferito,
iniziando semplicemente a stringere il pugno e a piegare il gomito. Dopo
un po' di tempo riuscì a sollevare il braccio in orizzontale.
Le visite del silenzioso dottore cessarono. Penrod lo considerò un
segnale positivo. Le guardie comparivano solo il necessario per lasciare
dell'acqua e un po' di cibo, pertanto aveva molto tempo per pensare alla
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sua situazione. Esaminò i lucchetti delle cavigliere. Erano rozzi ma
funzionali: il meccanismo era stato sviluppato e affinato nell'arco dei
secoli. Non avendo né la chiave né un martello si rese conto che non aveva
senso perdere altro tempo con quelli. Poi cercò di comprendere dove si
trovasse. La finestra obliqua mostrava soltanto una piccola sezione di cielo
aperto, dunque doveva trarre le sue conclusioni dai suoni e dagli odori. Era
sicuro di trovarsi ancora a Omdurman: non solo avvertiva il puzzo dei
rifiuti abbandonati e dei mucchi di escrementi, ma tutte le sere coglieva
l'odore più delicato e dolce del fiume, e udiva anche in lontananza gli
ordini dei capitani dei dau mentre viravano di bordo e controllavano la
rotta. Inoltre, cinque volte al giorno udiva le grida lamentose del muezzin
che invitava i fedeli alla preghiera dalla torre incompiuta della nuova
moschea: «Affrettatevi verso la beatitudine! Accorrete a pregare. Allah è
grande! Non c'è nessun Dio all'infuori di Allah».
Da tali indizi, Penrod riuscì a individuare con una certa esattezza la sua
posizione. Era a circa trecento metri dalla moschea, e a soli centocinquanta
dal fiume, direttamente a est del cortile dell'esecuzione: quindi, il palazzo
del Mahdi e l'harem si trovavano circa alla stessa distanza. Poteva
calcolare la direzione del vento osservando le sporadiche nuvole che
passavano davanti alla finestra. Quando soffiava il vento, il fetore dei corpi
lasciati a imputridire nel cortile delle esecuzioni si faceva insopportabile.
Da tutti questi segnali, ricavò una grossolana triangolazione. Comprese,
con un senso di vuoto allo stomaco, di trovarsi nel quartiere degli uomini
beja vicino a Beit el Mal, la roccaforte del suo vecchio nemico Osman
Atalan. Poi cercò di capire come si fosse giunti a tutto questo.
Il primo pensiero fu che Yakub lo avesse tradito. Rimuginò questa teoria
per giorni, ma non riusciva a convincersene. Ho messo troppe volte la mia
vita nelle mani di quel furfante guercio per dubitare di lui proprio ora,
pensava. Se Yakub mi ha venduto ai dervisci, allora Dio non esiste.
Usò la cavigliera della catena per disegnare un rozzo calendario,
graffiando il muro di fango. Così poté tenere nota dei giorni: quando lo
vennero a prelevare, calcolò che ne erano passati cinquantadue.
Le due guardie liberarono le catene dal ceppo di ferro, ma gli lasciarono
braccia e gambe legate: aveva gioco sufficiente per poterle trascinare in
giro, ma non per correre.
Lo portarono all'aperto, prima dentro un cortile e poi, attraverso un'altra
porta, in uno spazio più ampio, delimitato da mura su cui sedevano cento e
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più guerrieri beja. Tenevano le lance e le aste appoggiate sul grembo.
Scrutarono Penrod con avido interesse: molti di loro avevano già fatto la
sua conoscenza. Poi i suoi occhi scattarono verso il muro di fronte, verso
la figura familiare seduta, sola, sulla piattaforma rialzata. Anche in mezzo
a quella moltitudine di combattenti, Osman Atalan calamitava l'attenzione
su di sé.
Le guardie lo spinsero in avanti: Penrod si trascinò per il cortile
malgrado le catene che lo intralciavano continuamente. Quando fu innanzi
a Osman, una guardia gli ringhiò in un orecchio: «Sulle ginocchia,
infedele! Mostra rispetto per l'emiro dei Beja».
Ma Penrod non si fece intimidire. «Osman Atalan ha troppo buon senso
per ordinarmi di mettermi in ginocchio», disse pacato, e sfidò lo sguardo
dell'emiro con freddezza.
«In ginocchio!» ripeté la guardia, e conficcò l'estremità di legno della
lancia nei reni di Penrod con tanta energia che le sue gambe cedettero e lui
crollò come un sacco di catene e carne. Con uno sforzo supremo riuscì a
tenere la testa alta e gli occhi fissi in quelli di Osman.
«Faccia a terra!» disse la guardia, e alzò l'asta dell'arma per bastonarlo
ancora.
«Basta così!» intervenne Osman, e la guardia fece un passo indietro.
«Benvenuto nella mia casa, Abadan Riji.» Si toccò le labbra e poi il petto
all'altezza del cuore. «Sin dal nostro primo incontro sul campo di El Obeid,
ho capito che tra di noi c'era un legame che nessuno poteva recidere.»
«Solo la morte di uno di noi due può farlo», convenne Penrod.
«Posso forse provvedere sul momento?» rifletté Osman a voce alta e
fece un cenno con la testa all'uomo che sedeva proprio sotto la pedana.
«Qual è il tuo pensiero, al-Noor?»
Al-Noor ponderò a lungo la domanda prima di rispondere. «Potente
signore, è consigliabile annientare il cobra prima che morda di nuovo.»
«Vuoi farmi questo favore?» chiese Osman, e in men che non si dica alNoor si era alzato e ora sovrastava Penrod, ancora in ginocchio, con la
spada librata sopra il suo collo.
«Basta il movimento del tuo mignolo, grande Atalan, e staccherò la sua
testa senza Dio come fosse un frutto marcio.»
Osman cercò nel volto di Penrod i sintomi della paura, ma lo sguardo del
prigioniero non ne mostrava alcuno.
«Che ne dici, Abadan Riji? Dobbiamo finirla qui?» Penrod provò a
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scrollare le spalle con indifferenza, ma la spalla ferita gli impedì il gesto.
«La cosa non mi preoccupa, emiro dei Beja. Tutti gli uomini devono la
loro vita a Dio. Se non sarà ora, sarà in seguito.» Sorrise con calma. «Ma
basta con questo gioco infantile. Sappiamo entrambi che un emiro dei Beja
non potrebbe mai lasciar morire un suo acerrimo nemico in catene, e senza
una spada in mano.»
Osman rise, sinceramente compiaciuto. «Siamo stati coniati nello stesso
metallo, tu e io.» Fece cenno ad al-Noor di tornare al suo posto. «Prima
dobbiamo trovare un nome più indicato di Abadan Riji. Ti chiamerò Abd,
poiché da ora in poi sei uno schiavo.»
«Forse non per molto», suggerì Penrod. «Forse», convenne Osman.
«Vedremo. Ma fino a quel momento sarai Abd, il mio lacchè personale.
Starai sempre ai miei piedi, e quando andrò a cavallo correrai al mio
fianco. Non desideri sapere chi ti ha gettato in questo infimo stato? Vuoi
che ti sveli il nome del tuo traditore?» Penrod era troppo sorpreso per
trovare una risposta, e poté solo assentire a collo rigido. Osman gridò ai
guardiani del cancello del cortile: «Portatemi l'informatore affinché riceva
la ricompensa che gli è stata promessa».
Si fecero da parte e una figura familiare apparve con circospezione al
cancello, lo oltrepassò e poi si bloccò per guardarsi in giro con
nervosismo. Poi Wad Hagma individuò Osman Atalan. Si gettò a terra e
strisciò verso di lui, salmodiando le sue lodi e giurandogli fedeltà eterna,
devozione e lealtà. Gli ci volle un po' per attraversare il cortile perché si
fermava ogni qualche metro a battere devotamente la fronte a terra. Gli
aggagir sghignazzavano e gli lanciavano berci di incoraggiamento.
«Attento a non trascinare la polvere, con il pancione che ti ritrovi.»
«Abbi fede! Il pellegrinaggio è quasi al termine.» Alla fine Wad Hagma
raggiunse la pedana e si prostrò del tutto, stendendo braccia e gambe come
una stella marina. «Mi hai reso un gran servigio», disse Osman. «Il mio
cuore trabocca di gioia nell'udire queste parole, potente emiro. Mi rallegro
di averti consegnato il nemico.» «A quanto ammontava il premio?»
«Eminente signore, ti sei mostrato così generoso da accennare a
cinquecento talleri.»
«Te li sei meritati.» Osman gettò un borsello così pesante che quando
colpì il suolo sollevò una piccola nube di polvere.
Wad Hagma lo abbrancò e sghignazzò come un idiota. «A te vadano
tutte le mie lodi, invincibile emiro. Possa Allah sorridere sempre sulla tua
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persona!» Si alzò, con il capo piegato in segno di profondo rispetto.
«Posso ora essere licenziato dalla tua presenza? Come il sole, mi abbaglia
la tua gloria.»
«Non ancora.» Il tono di Osman mutò. «Desidero sapere quali emozioni
hai provato quando hai messo le catene da schiavo a un così impavido
guerriero. Dimmi, mio piccolo e grasso oste... come si sente l'astuto e
perfido babbuino quando spinge il grande elefante verso la trappola?»
Sul volto di Wad Hagma si disegnò un'espressione di allarme. «Questo
non è un elefante, potente emiro.» Indicò vagamente verso Penrod. «E' un
cane rabbioso. È un codardo infedele. È un'anfora dalla forma talmente
spaventevole da meritarsi solo di essere ridotta in frantumi.»
«In nome di Dio, Wad Hagma... vedo che sei un oratore e anche un
poeta. Ti chiedo solo un ultimo servigio. Uccidi questo cane rabbioso per
me! Polverizza questo vaso imperfetto per il bene dell'Islam!» Wad Hagma
lo guardò smarrito. «Al-Noor, porgi la tua spada al coraggioso taverniere.»
Al-Noor consegnò lo spadone a Wad Hagma il quale guardò Penrod,
esitante. Con molta cautela depose il borsello dei talleri e si rimise ritto.
Quando fece un passo in avanti, Penrod si alzò in piedi. Allora Wad
Hagma indietreggiò d'un balzo.
«Su, coraggio! È incatenato e ha un braccio rotto», disse Osman. «Il
cane rabbioso manca delle zanne, è innocuo. Uccidilo.» Wad Hagma si
guardò intorno come in cerca di una via di fuga, e gli aggagir urlarono:
«Non senti le parole dell'emiro? Sei sordo?»
«Comprendi gli ordini o sei ottuso?» «Orsù, impavido oratore!...
mostraci azioni altrettanto impavide delle tue parole.» «Uccidi il cane
infedele.»
Wad Hagma abbassò l'arma e guardò al suolo. Poi, all'improvviso,
sperando di cogliere la sua vittima alla sprovvista, lanciò un grido da
raggelare il sangue e scattò verso Penrod brandendo alta la spada con
entrambe le mani. Penrod rimase immobile al suo posto mentre Wad
Hagma cercava di colpirlo alla fronte, ma all'ultimo momento sollevò le
braccia e bloccò l'arma con la catena d'acciaio. La violenza del colpo fu
tale che le braccia inesperte di Wad Hagma rimasero intorpidite fino al
gomito. Lasciò involontariamente la presa e la spada gli cadde di mano.
Indietreggiò, massaggiandosi i polsi.
«Per il santo nome di Dio!» applaudì Osman. «Che colpo formidabile!
Ti avevamo giudicato male. Sei un guerriero audace, in fondo... Ora,
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raccogli la spada e prova ancora.»
«Potente emiro! Grande e nobile Atalan! Abbi pietà di me. Ti restituisco
la ricompensa.» Raccolse il borsello e corse a deporlo ai piedi di Osman.
«Ecco! È tua. Per favore lasciami andare! Oh, potente e compassionevole
signore, abbi pietà di me.»
«Raccogli la spada ed esegui gli ordini», disse Osman, e il suo tono era
più minaccioso di un ringhio di comando.
«Obbedisci all'emiro Atalan!» gridarono gli aggagir.
Wad Hagma si girò e corse verso la spada. Si chinò per prenderla, ma
quando la sua mano si chiuse sull'elsa, Penrod mise un piede sulla lama.
Wad Hagma strattonò l'arma senza riuscire a impossessarsene. «Levati!»
piagnucolò. «Lasciami andare! Non volevo fare del male a nessuno.» Poi
si spostò scagliandosi contro Penrod con tutto il suo peso, nel tentativo di
spingerlo lontano dalla spada. Penrod fece volteggiare la catena e lo centrò
alla mascella. Wad Hagma ringhiò per il dolore e s'allontanò con un salto,
proteggendosi la ferita con la mano. Penrod gli si avvicinò facendo
volteggiare minacciosamente la catena. Allora Wad Hagma si voltò e
iniziò a correre goffamente per tutto il cortile cercando l'uscita, ma quando
la raggiunse, una coppia di aggagir gli tagliò la strada incrociando le
spade. Allora desistette e si girò verso Penrod che si avvicinava a grandi
passi, facendo roteare la catena.
«No!» disse Wad Hagma con la voce roca. Un lato del suo viso era
sfigurato: la catena gli aveva rotto la Mahdibola. «Non volevo fare del
male a nessuno. Avevo bisogno di quel denaro. Ho mogli e molti figli...»
Cercò di sfuggire a Penrod strisciando lungo il muro, ma gli aggagir seduti
lo allontanarono con la punta delle spade: Wad Hagma saltellò via come
un coniglietto, e allora le loro risate si trasformarono in un ruggito.
All'improvviso, scattò di nuovo verso la spada che giaceva in terra. Nello
stesso momento in cui la raggiunse e si chinò per afferrarla, Penrod arrivò
da dietro e gli fece scivolare la catena oltre la testa. Poi, con un abile gioco
di mani, gli avvolse gli anelli attorno al collo. Quando le dita di Wad
Hagma toccarono l'elsa, Penrod strinse un poco e sollevò il corpo da terra,
finché l'altro non fu costretto a sgambettare sulle punte, tentando
disordinatamente di liberarsi della catena e miagolando come un gattino.
«Prega!» gli sussurrò Penrod. «Chiedi pietà ad Allah. E' la tua ultima
occasione prima di trovarti al suo cospetto.» Poi torse la catena e gli strinse
lentamente la trachea: Wad Hagma smise di gemere.
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«Addio, Wad Hagma. Rincuorati al pensiero che nulla ha più valore per
te, ormai. Non fai più parte di questo mondo.»
Gli aggagir che stavano a guardare cominciarono a battere le spade sugli
scudi di cuoio, a un ritmo sempre più incalzante. Il balletto di Wad Hagma
si fece scomposto: i piedi ormai non toccavano più il terreno, e scalciava
nell'aria. La faccia ferita incominciò a gonfiarsi e a diventare più scura. Poi
qualcosa scricchiolò, come quando si spezza un ramo secco. Tutti gli
aggagir gridarono all'unisono nel momento in cui gli arti di Wad Hagma si
irrigidirono e il corpo si rilasciò, restando appeso alla catena. Penrod lo
abbassò al suolo e tornò verso Osman Atalan. Gli aggagir erano in
subbuglio: alcuni gridavano, altri ridevano, altri ancora mimavano gli
ultimi spasmi mortali di Wad Hagma. Anche Osman sorrideva divertito.
Raggiunta la spada, Penrod l'afferrò con prontezza e corse verso Osman,
puntando al cuore dell'emiro. Gli uomini presenti nel cortile allora
gridarono con un misto di incredulità e di allarme. Penrod doveva coprire
solo venti passi per raggiungere la pedana: tutto il cortile sembrò esplodere
in un unico movimento. Una dozzina di aggagir, più vicini alla pedana, si
lanciarono in avanti. Le loro spade erano già sguainate e dovevano solo
mettersi in guardia per opporre a Penrod una palizzata di acciaio brillante e
impedirgli di portare a termine la sua carica. Al-Noor scattò in avanti, non
per scontrarsi direttamente con lui, ma per arrivargli alle spalle e afferrare
la catena che Penrod trascinava dalle caviglie: la strattonò, traendo a sé
anche il piede del prigioniero. Quando Penrod cadde pesantemente al
suolo gli aggagir gli diedero addosso.
«No!» gridò Osman. «Non uccidetelo! Tenetelo fermo, ma non
uccidetelo!» Al-Noor lasciò le cavigliere e afferrò saldamente la catena
che serrava i polsi. Poi la fece guizzare crudelmente contro la spalla non
ancora completamente guarita. Penrod strinse i denti e soffocò un grido di
dolore, ma perse la presa sulla spada che al-Noor con prontezza afferrò.
«Per il glorioso nome di Allah!» rise Osman Atalan. «Mi sei fonte di
enorme sollazzo, Abd! Ora so che sei abile nella lotta: domani invece
vedrò quanto corri bene. Arrivato a sera, dubito che avrai ancora la forza
necessaria per i tuoi giochetti. Entro una settimana mi implorerai
d'ucciderti.»
Poi Osman Atalan guardò al-Noor. «Su di te posso sempre contare. Sei
sempre pronto a servirmi. Sei la mia mano destra.
Porta il mio Abd alla cella, ma tienilo pronto per l'alba. Andremo a
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caccia di gazzelle.»
Nella zenana la notizia si sparse velocemente. In poche ore tutti,
compreso Alì Wad e le sue guardie, sapevano che il Mahdi si era
dichiarato soddisfatto di al-Jamila, la donna infedele. Il prestigio di
Rebecca si elevò in maniera inaspettata. Le guardie la trattavano come se
fosse già una sposa anziana e non una concubina di basso rango. Le furono
assegnate tre schiave personali per accudirla in casa. Quando la
incontravano per strada, le mogli e le altre concubine del Mahdi la
salutavano calorosamente e la benedicevano, le indirizzavano suppliche e
petizioni da presentare al Mahdi. La cucina incominciò a mandarle razioni
molto diverse per qualità e quantità: ora potevano avere grossi pesci
appena pescati dal fiume, zucche enormi colme di latte fermentato, miele
selvatico del deserto ancora dentro il favo, i tagli di montone più teneri,
zampe di cerbiatto, polli vivi e uova. Arrivava tutto in tale quantità, che
Rebecca poteva dispensare cibo alle concubine di minor rango e ai loro
bambini ammalati, veramente bisognosi di essere nutriti.
Gli stessi benefici furono accordati anche alle donne del suo seguito. Ora
Nazira veniva salutata con il titolo di Ammi, zietta, e le guardie la
apostrofavano con riguardo quando usciva dai cancelli. Anche a Amber,
sorella di una delle favorite del Mahdi, furono garantiti privilegi speciali.
Dato che era soltanto una bambina e non aveva ancora visto la sua prima
luna, nessuna guardia sollevava alcuna obiezione quando accompagnava
Nazira fuori della zenana per le compere.
Una mattina, molto presto, Nazira e Amber lasciarono la zenana per
recarsi al mercato sulla riva del fiume e incontrare i contadini che
vendevano i loro prodotti freschi. Fichi e melagrane erano di stagione e
Nazira era decisa ad accaparrarsi la prima scelta. Mentre passavano
davanti al palazzo del Beit el Mal, un vociare disordinato in fondo alla
strada attrasse la loro attenzione: si era radunata una gran folla e si udivano
tuonare i tamburi di guerra assieme ai corni d'avorio.
«Che succede, Nazira?»
«Non posso sapere tutto, io!» rispose Nazira, scontrosa. «Perché mi fai
sempre tante domande?»
«Perché tu sai veramente tutto», rispose Amber mentre saltava per
riuscire a vedere oltre la testa della gente raccolta. «Oh, guarda! È
l'insegna dell'emiro Atalan. Sbrighiamoci o non riusciremo a vederla
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bene.» Scappò avanti e Nazira la rincorse. Amber si accucciò fra le gambe
della gente e riuscì a sgattaiolare fino alla prima fila. Nazira si fece largo
tra la folla per starle dietro, ignorando le proteste di quelli che venivano
spinti di lato al suo passaggio.
«Eccolo che arriva», urlava la folla. «Salute, potente emiro dei Beja!
Salute, a chi ha vinto Khartum e ucciso Gordon Pascià!» Osman Atalan
stava eretto in groppa ad al-Buq, il suo stallone nero, mentre l'alfiere
galoppava in testa, e quattro dei suoi più fidati aggagir erano al suo fianco.
Quando il gruppo a cavallo passò innanzi a loro, Nazira e Amber notarono
un altro uomo che, a piedi, si teneva al passo con l'emiro. Indossava una
camiciola leggera, corta e senza maniche, e un perizoma. Portava un
turbante ordinario, ma gambe e piedi erano scoperti.
«È un uomo bianco!» esclamò Nazira, e la folla attorno a lei iniziò a
ridere e ad applaudire.
«È la spia infedele, il tirapiedi di Gordon Pascià.»
«Una volta lo chiamavano Abadan Riji, 'Colui che mai si volta
indietro'.»
«Ora è prigioniero dell'emiro.»
«Osman Atalan gli insegnerà nuovi giochetti: non solo imparerà a
voltarsi, ma anche a girare in tondo.»
Amber gridò eccitata: «Nazira! È il capitano Ballantyne!»
Anche in mezzo alla confusione della folla, Penrod la udì urlare il suo
nome. Si voltò e guardò dritto verso di lei. La bambina lo salutò agitando il
braccio con entusiasmo, ma il corteo continuava e lo trascinò via. Prima
che fosse sparito del tutto, Amber notò la corda attorno al suo collo, legata
alla staffa dell'emiro.
«Dove lo stanno portando?» disse Amber con un tono lamentoso. «Lo
uccideranno?»
«No!» Nazira le mise un braccio attorno alle spalle per calmarla. «È
troppo prezioso per loro. Ma ora dobbiamo tornare indietro e raccontare a
tua sorella quello che abbiamo visto.» Si affrettarono a tornare alla zenana,
ma quando raggiunsero la casupola, la trovarono vuota.
Nazira interrogò immediatamente le schiave: «Dov'è la vostra padrona?»
«È venuto a prenderla Alì Wad. L'ha portata nelle stanze del Mahdi.»
«È troppo presto perché il Mahdi si occupi dei suoi molti piaceri
giornalieri», protestò Nazira.
«È malato. Secondo Alì Wad, malato a morte. È stato colpito dal colera.
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Sanno che al-Jamila ha salvato la sua sorellina e altri ancora da questa
piaga, e desiderano che faccia lo stesso per il
Santissimo.»
Quando la notizia della malattia del Mahdi si sparse per la zenana, fu
seguita da una grande ondata di gemiti e di lamentazioni.
Raggiunto il deserto, Osman trattenne leggermente al-Buq, e allo stesso
tempo con le ginocchia lo spronò a continuare. Lo stallone sapeva che
questo era il segnale per lanciarsi al passo triplo, quell'andatura semplice e
fluida che risulta gradevole sia al cavaliere che alla bestia. Non si tratta di
un passo naturale e un cavallo deve essere ammaestrato prima di poterlo
eseguire. Gli uomini di scorta dell'emiro ne seguirono l'esempio e spinsero
le proprie cavalcature a un passo più deciso del trotto, ma non così veloce
come un canter.
Legato alla corda, Penrod dovette faticare per rimanere al passo. Si
diressero verso sud costeggiando il fiume, mentre il calore del giorno si
faceva più intenso. Cavalcarono fino ad Al Malaka, dove il capo del
villaggio si precipitò fuori, assieme ai più anziani, per accogliere l'emiro.
Lo implorarono di lasciarli provvedere al suo ristoro. Se Osman fosse stato
veramente a caccia, non avrebbe mai assecondato tali debolezze, ma
sapeva che il prigioniero sarebbe sicuramente motto se non si fosse
riposato un poco e non avesse bevuto. La veste di Penrod era zuppa di
sudore e i piedi insanguinati a causa delle spine e delle pietre affilate.
Mentre sedeva sotto l'albero al centro del villaggio a discutere sulla
possibilità di trovare selvaggina nelle vicinanze, Osman notò con
soddisfazione che al-Noor aveva compreso le sue vere intenzioni: stava
infatti facendo riposare Penrod e gli offriva una ghirba di acqua. Quando
Osman si alzò in piedi e ordinò al gruppo di rimontare a cavallo, Penrod
sembrava avere riacquistato molta della sua forza. Anche se non era ancora
completamente guarito, aveva sfilato il braccio destro dalla sospensione
perché gli impediva di coordinare i movimenti delle spalle durante la
corsa.
Cavalcarono ancora. Si arrestarono dopo un'ora perché Osman voleva
scrutare il deserto con un cannocchiale, alla ricerca di un qualsiasi segno
della presenza di gazzelle. Nel frattempo, al-Noor fece bere di nuovo
Penrod, poi lo aiutò a mettersi accovacciato, con il capo fra le ginocchia,
per riprendere fiato. Osman ordinò fin troppo presto di proseguire la
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caccia. Vagarono tutto il giorno fra dune, piane ghiaiose e crinali di pietra
calcarea, facendo pausa ogni tanto per bere dalle ghirbe.
Tornarono verso Omdurman un'ora prima del tramonto. I cavalli
avevano rallentato l'andatura e Penrod arrancava dietro di loro, tenuto alla
corda. Fu strattonato e trascinato nella polvere più di una volta. Quando
questo accadeva, al-Noor faceva rallentare il suo stallone finché Penrod
con molto sforzo non riusciva a tirarsi su. Passati i cancelli, smontarono da
cavallo nel cortile: Penrod dondolava quasi incosciente sui piedi feriti e
sanguinanti. Era stordito dalla fatica e gli rimaneva appena la forza per
stare in piedi.
Osman lo apostrofò: «Mi deludi, Abd. Mi aspettavo che trovassi un
branco di gazzelle, ma ti divertivi di più a rotolarti nella polvere a cercare
scarabei stercorari».
Alla spiritosaggine, gli altri cacciatori gridarono compiaciuti, e al-Noor
suggerì: «Stercorario è un nome molto più indicato che non Abd».
«Così sia, allora», convenne Osman. «D'ora in poi sarà chiamato Jiz, lo
schiavo che divenne uno stercorario.»
Quando Osman si voltò per dirigersi verso i propri alloggi, uno schiavo
si prostrò ai suoi piedi e gli disse: «Potente emiro, e amatissimo da Allah e
dal suo vero profeta, il Divino Mahdi è gravemente malato. Ti ha mandato
a chiamare perché ti vuole subito presso di lui».
Osman saltò di nuovo in sella ad al-Buq e si precipitò fuori dalla sua
tenuta.
I carcerieri vennero a prendere Penrod e lo trascinarono in cella. Come
sempre, lo incatenarono al ceppo di ferro. Pr