SCHEDE FILM Che strano chiamarsi Federico Italia, 2013 Regia Ettore Scola Sceneggiatura Ettore Scola, Paola Scola, Silvia Scola con Sergio Rubini, Antonella Attili, Sergio Pierattini, Tommaso Lazotti Vittorio Marsiglia Fotografia Luciano Tovoli Montaggio Raimondo Crociani Scenografia Luciano Ricceri Costumi Massimo Cantini Parrini Musica Andrea Guerra Durata 90 minuti Distribuzione BIM LA TRAMA Il racconto della vita di Federico Fellini, dal suo debutto come disegnatore al suo quinto Oscar. La vita di Fellini è raccontata attraverso la sua amicizia con Ettore Scola, a partire dal loro primo incontro al ‘Marc’ Aurelio’. Il risultato è un film che alterna materiali di repertorio provenienti dalle Teche Rai e dall’Istituto Luce e ricostruzione di ricordi personali girati a Cinecittà. LA CRITICA Film non catalogabile, mezzo documentario e mezza fiction, Che strano chiamarsi Federico di Scola dà il via alle celebrazioni per il ventennale della scomparsa di Fellini in chiave felicemente intimista. Potremmo definirlo un diario a ritroso nella memoria, la rievocazione di un’Italia e una giovinezza perduta, un divagare di arte e vita sul filo di una biografia condivisa, una dichiarazione di amore. Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa C’erano tutte le premesse perché Che strano chiamarsi Federico fosse un film intriso di nostalgia, ma non è solo così. Scola è riuscito a rom- pere gli schemi del documentario biografico per comporre un film a molti livelli, in cui i materiali di repertorio si incrociano con l’invenzione più pura e poetica. Il risultato è miracoloso, un breve viaggio nel mondo di Fellini (e Scola) che strappa risate e lacrime in egual misura. Alberto Crespi, l'Unità (...) le prime immagini del film, con i lenti dolly “felliniani”, i set artificiali e una sfilata di personaggi ovviamente felliniani, alimentava il timore che Scola avesse deciso di creare una parodia felliniana. (...) Ma accade il miracolo. Un grande regista ha convocato lo spirito di un altro grande regista oltre la tomba, creando un dialogo olimpico tra di loro. Un dialogo olimpico, però udibile dai comuni mortali. Il film ha un ritmo onirico ma controllato. Seduti nel buio di un cinema, Che strano chiamarsi Federico ci porta a ricordare che l’esperienza naturale del cinema è vicina a quei sogni lucidi della mattina. La logica narrativa diventa un’altra. Ma visto che è un film di Scola e non di Fellini, il sogno è tangibile e immediato. (...) Il film vi permetterà di sognare del cinema e di voi stessi. E del perché e percome voi e il cinema siete collegati. E altri pensieri fuori moda. Che strano chiamarsi Federico ci regala il piacere di uno sguardo ravvicinato sulle visioni opposte di due grandi registi. (...) Incanalando lo spirito di Federico dentro Ettore (e viceversa), Scola ha costruito una fiaba che racconta cos’è un film e in che modo una pellicola può toccare le profondità del nostro animo e del nostro intelletto, un po’ come accade nel caso specifico di Che strano chiamarsi Federico. Jonathan Nossiter, L’Internazionale L'intrepido Italia, 2013 Regia Gianni Amelio Sceneggiatura Gianni Amelio Davide Lantieri con Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata Fotografia Luca Bigazzi Montaggio Simona Paggi Scenografia Giancarlo Basili Costumi Cristina Francioni Musica Franco Piersanti Durata 104 minuti Distribuzione 01 Distribution LA TRAMA Antonio Pane (Albanese) nella vita fa il “rimpiazzo”: prende anche solo momentaneamente il posto di chi si assenta dalla propria occupazione. Separato, solo e con un figlio sassofonista (Rendina), un giorno incontra Lucia (Rossi), una giovane donna che nasconde un segreto. LA CRITICA L'intrepido di Gianni Amelio, (...), ha fatto fare ad Albanese un viaggio avventuroso nei percorsi del lavoro che tiene in vita la città. E’ stata una scoperta? «Per niente, io del lavoro manuale me ne intendo: vengo da una famiglia operaia di Lecco, l'operaio l'ho fatto anch'io per sette anni, e anche il tornitore, e l'imbianchino, per pagarmi l'Accademia d'Arte Drammatica». (...) «L'idea è di Amelio, ma poi il mio Antonio l'abbiamo costruito insieme. A me pare oggi una figura trasgressiva, soprattutto nel cinema, che abbonda di lunatici e di disperati. Invece lui è un uomo buono, senza sogni consumistici, senza inquietudini banali, che accetta la solitudine, il lavoro precario, la paga saltuaria, l'abbandono della moglie, un concorso andato male, senza mai perdere la speranza che domani sarà meglio. E’ appunto un eroe intrepido, come quello del vecchio fumetto italiano ». Quanto di lei c'è in Antonio? «I miei genitori, come Antonio, si accontentavano, io invece no, avevo le mie ambizioni, sognavo e non ho ancora smesso. Forse sono anch'io buono, ma anche un po' vendicativo, se necessario. Natalia Aspesi, la Repubblica Milano ai giorni nostri, una città ghiacciata nei suoi parallelepipedi di vetro e metallo dove, instancabile figura dei tempi moderni, consuma la sua forza lavoro Antonio Pane, protagonista del film di Gianni Amelio L'intrepido, un'allusione al giornalino che si vendeva con Il Monello, The Lonely Hero, come viene tradotto internazionalmente. Antonio Albanese abbandona le crudezze che ha saputo creare in certi suoi recenti personaggi specchio della nostra società per guardare lontano, con francescana purezza, a un orizzonte diverso. Antonio Pane è come il suo cognome suggerisce: buono e semplice. Charlot tutto italiano di una crisi economica non solo italiana, è il proTagonista soave e coraggioso de L'intrepido (...). Lo interpreta Antonio Albanese, capace di passare dal surrealismo greve di Cetto La Qualunque alla delicatezza i questo nuovo personaggio. "Da tempo interpreto l'oggi con l'accetta e in maniera paradossale, mi piaceva ora farlo con un personaggio apparentemente leggero", dice il comico lombardo. Silvana Silvestri, Il Manifesto Zoran, il mio nipote scemo Italia/Slovenia 2013 Regia Matteo Oleotto Sceneggiatura Daniela Gambaro, Marco Pettenello, Matteo Oleotto, Pierpaolo Piciarelli con Giuseppe Battiston, Rok Prasnikar, Teco Celio, Marjuta Slamic, Roberto Citran, Jan Cvitokovic Fotografia Ferran Peredes Rubio Montaggio Giuseppe Trepiccione Scenografia Anton Spacapan, Vasja Kokeli Costumi Emil Cerar Musica Antonio Gramentieri, Sacri Cuori Durata 103 minuti Distribuzione Tucker Film LA TRAMA Paolo (Battiston) è un quarantenne frustrato con un matrimonio alle spalle. Misantropo, alcolizzato e bugiardo, passa le sue giornate tra l’osteria di Giustino (Celio) e la mensa per anziani dove lavora. Improvvisamente si vede affidato Zoran (Presnikar), un lontano nipote sloveno rimasto orfano, che parla in modo strano e sembra ritardato. Dopo iniziali contrasti, i due scoprono una passione comune, e grazie al tiro a freccette qualcosa cambierà... LA CRITICA Un ottimo Giuseppe Battiston è un gagliardo bevitore, come quasi tutti nel suo paesino in Friuli. Ed è un bugiardo sistematico e un cinico egoista, per di più soddisfatto di esserlo. Gli capita però di "ereditare" da una zia slovena un nipote strano: impacciato, forbito, bisognoso d'affetto. Una bella commedia d'esordio, cattiva e tenera insieme Paolo Bressan, l'Espresso Bella sorpresa del debuttante Matteo Oletto, che scava a mani nude nelle radici del Nord Est dove l'incontenibile, bravo alien Giuseppe Battiston, in estasi avvinazzata da Friuli, eredita dalla Slovenia un nipote bravissimo con le freccette. Commedia naif accattivante, ben scritta a 8 mani, che prevede classico scambio ricambio di caratteri, baciata dal cast dove eccelle Rok Prasnikar Maurizio Porro, Corriere della Sera Friuli Venezia Giulia, provincia alcoolica. C'è chi (...) sbevazza, s'ab- buffa e lascia nel piatto l'amore e la fuga: forse, è il bifolco del villaggio, comunque gli ridono dietro. Ma muore una parente slovena e in eredità gli tocca Zoran (Rok Prasnikar, sensibile), il nipote scemo, tutto occhiali, ritrosia e freccette. A centrare il bersaglio è l'esordiente Matteo Oleotto, che nel fondo del bicchiere legge una nuova via per il nostro cinema: ironia e amarezza, affresco socio- geografico e ritratto psicologico, tutto è a fuoco, come alle italiche commedie capita raramente. Merito forse del gemellaggio poetico con la Slovenia, fatto sta che il film si scaraffa sullo schermo come buon vino da tavola, al bando le etichette autoriali e le adulterazioni commerciali. Tutto bene? Quasi, macchiettismo e buonismo sono alle porte, ma Oleotto si farà, e intanto ci ha già fatto sorridere. Dopo troppo province meccaniche, finalmente una provincia umana. Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano Il Sud è niente Italia/Francia, 2013 Regia Fabio Mollo Sceneggiatura Fabio Mollo Iosella Porto con Vinicio Marchioni, Miriam Karlkvist, Valentina Lodovini, Andrea Bellisario Fotografia Debora Vrizzi Montaggio Filippo Montemurro Scenografia Giovanna Cirianni Costumi Andrea Cavalletto Musica Giorgio Giampà Durata 90 minuti Distribuzione Istituto Luce Cinecittà LA TRAMA Crescendo, il corpo di Grazia (Karlkvist) assume delle sembianze maschili. Forse la ragione è compensare l’assenza del fratello Pietro (Musumeci), che, dopo essersi trasferito in Germania, il padre Cristiano (Marchioni) ha fatto credere morto. In seguito a una lite con il padre, Grazia inizia a dubitare della morte del fratello, immaginando che sia da qualche parte in attesa di essere trovato. LA CRITICA Sullo sfondo di Il sud è niente (...) si intuisce l’invasiva presenza della criminalità organizzata, ma è una realtà che leggiamo sul rovescio, nello sguardo ribelle di una giovinezza non rassegnata al male, all'omertà, alla menzogna. Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa Se dovessimo trovare una formula per descrivere Il sud è niente, dovremmo parlare di realismo magico. Pur avendo una forte connotazio- ne quasi documentaristica (...) il film ha un tono fiabesco. Si tratta di un equilibrio sempre difficile da raggiungere, ma l’esordiente Fabio Mol- lo, 33 anni, lo padroneggia con una sicurezza encomiabile. Siamo di fron- te a uno dei migliori esordi italiani degli ultimi anni. Alberto Crespi, L’ Unità Il film che viene dal profondo mare di Calabria è uno di quei debutti incompleti ma di cui non si vede l’ora di sapere il seguito.(...) Miriam Karlkvist e Vinicio Marchioni tra sguardi e silenzi tessono una ragnatela di sensazioni che merita attenzione. Maurizio Porro, Il corriere della sera Tra limpido realismo e tocchi quasi magici, linearità e evanescenza, l'esordio nel lungometraggio di Mollo è un lavoro che punta sul dato fisico piuttosto che sulle parole, sempre smozzicate, rabbiose, sus- surrate, incapaci di restituire una verità nascosta dall'omertà di una terra uccisa a colpi di silenzi e complicità. Luogo di confine, lo stretto di Messina si dimostra allora la cornice perfetta per una vicenda che si coagula tutta intorno al concetto di cambiamento, inteso nella sua accezione di evoluzione, rinnovamento e scambio: in certo modo, anche la stessa, lunghissima, elaborazione del lutto di Grazia per il fratello si confonde con quella per una realtà sociale da cui sembra soltanto possibile scappare verso il Nord. Un piccolo e riuscito film sulla famiglia e sul non detto, sull'importanza della chiarezza e sulla voglia di guardare avanti, che riesce a convincere (...). Marco Chiani, My Movies Più buio di mezzanotte Italia, 2014 Regia Sebastiano Riso Sceneggiatura Sebastiano Riso, Stefano Grasso, Andrea Cedrola con Micaela Ramazzotti, Davide Capone, Vincenzo Amato, Pippo Delbono Fotografia Piero Basso Montaggio Marco Spoletini Scenografia Melina Ormando, Raffaella Baiani Musica Michele Braga Durata 98 minuti Distribuzione Istituto Luce Cinecittà LA TRAMA Davide (Capone) ha quattordici anni, vive a Catania e la sua vita è segnata da una costante: assomigliare ad una ragazza. Pieno di problemi in casa decide di scappare al Parco di Villa Bellini. Qui, tra emarginati, Davide troverà la sua nuova famiglia, una famiglia che lo accetta come quella di prima non aveva fatto. Ma il passato invade il presente e costringe Davide a prendere una decisione, senza rinvii e autonomamente. LA CRITICA (...) vale il contorno, molto folk, di un racconto genere Fassbinder-Genet, con forte impatto, momenti melò e la voglia di tragedia edipica a tutti i costi, espiazione obbligatoria. Maurizio Porro, Corriere della Sera Con le sue ombre notturne, i sorrisi malinconici e l’ironia di chi ha già patito abbastanza per essere triste, il film Più buio di mezzanotte parla di allora ma anche dei paradossi odierni, quando la condizione di “di- versità” nei gusti sessuali trova ancora difficoltà ad essere accettata, specie in Italia. Anna Maria Pasetti, Il Fatto Quotidiano Opera prima di Sebastiano Riso, Più buio di mezzanotte è un storia di formazione fragile come il suo protagonista, che il mondo e la vita possono rompere con facilità. Tutt'altro che inconsistente, la fragilità del film va intesa in senso proprio e con riferimento alla condizione emotiva di Davide, adolescente e indicatore di quel disagio adolescenziale che è parte integrante del percorso di emancipazione e di autonomia dalla fa- miglia d'origine. Uno scatto naturale e inevitabile, vissuto dal protagonista come momento di eroismo e come atto di sfida alla conformità e a un genitore determinato a espropriarlo delle sue fantasie a favore delle proprie. Sebastiano Riso coglie molto bene lo 'straniero interno' che vuole (e deve) affermare la sua diversità, disgiunto da quello, altret- tanto intenso, che vuole appartenere a qualcuno, essere accolto e inte- grato. Lo sguardo del giovane autore filma il suo protagonista senza esibirlo, trattenendosi dietro una porta a vetri mentre il corpo di Davide diventa abile all'amore o sottraendosi con un'ellissi temporale alla sua violazione. (...) Più buio di mezzanotte stigmatizza l'adolescenza come momento di disordine da guarire e l'adolescente come soggetto da normalizzare. Lo fa (...) prendendosi il rischio di raccontare il divenire sociale e un ma- lessere che c'è e che va affrontato, per rendere meno accidentato il per- corso di sviluppo degli adolescenti e per impedire che si trasformi in una problematica più complessa Marzia Gandolfi, My Movies Sangue Italia/Svizzera, 2013 Regia Pippo Delbono Sceneggiatura Pippo Delbono con Pippo Delbono, Margherita Delbono, Giovanni Senzani, Anna Fenzi Fotografia Pippo Delbono, Fabrice Aragno Montaggio Fabrice Aragno Scenografia Pepe Robledo Musica Stefan Eicher, Camille , Victor Deme Durata 89 minuti Distribuzione Compagnia Pippo Delbono LA TRAMA Nella cornice di L’Aquila abbandonata, Delbono procede in un viaggio parallelo tra la sua esperienza di vita e quella di Giovanni Senzani, capo delle BR incarcerato per 23 anni. Pippo sta perdendo la madre e riprende gli ultimi giorni al suo capezzale; Giovanni sta per diventare vedovo e Delbono, rappresentando il suo dolore, lo dipinge prima di tutto come un essere umano. LA CRITICA Sangue racconta l'incontro tra due uomini «improvvisamente orfani, mutilati». Non è un cinema della crudeltà. E' un cinema sorretto dalla forza dura, quasi minerale degli eventi, che alla fine s'illumina di speranza, sotto il sorriso del Buddha, ispiratore spirituale di Delbono. Avevano pensato, racconta lui, di scrivere un libro intitolato Sperduti, sottotitolo: "Dialogo tra un artista buddhista e un ex terrorista tornato in libertà". Il narrare autobiografico di Delbono, diario visivo e monologo interiore, crea un turbamento doppio: alla pietas si alternano schegge di dubbio intorno alla logica delle armi e dell'uccidere. Ora vediamo mamma Margherita («Che mi aveva sempre messo paura dei comunisti»), donna credente, occhi luminosi con un che di magico, mentre parla, con cantilenare ligure, della Madonna di Medjugorje e della luce del Paradiso, sullo sfondo un Cristo coronato di spine. Ora appare Senzani, uomo provato, curvo, in- canutito, dallo sguardo malfermo, che ancora ci turba ascoltare, dopo tanti anni e a colpe espiate. Il male subìto, il male compiuto. Enrico Arosio, L'Espressso Delbono filma ad altezza occhi. Non bara, Delbono. Lui si sogna e progetta come estensione del suo dispositivo, leggerissimo, e dunque fluido, veloce. (...). Mettendo in scena (...) l’atto del vedere con i propri occhi, Delbono di fatto ripensa sia il cinema diretto che quello in prima persona. (...) Delbono non è un cineasta malleabile. La richiesta di dialogo e di confronto che pone al Paese è severa. Non ci sono vie di mezzo per dialogare con Delbono. (...) L’antropologia poetica di Delbono, che si fonda in un in- treccio di motivazioni che agita, danza, poesia, musica e la forma-film, la sua ossessione per le forme in grado di accompagnare l’esistente, è senz’altro il fatto nuovo del cinema italiano. (...) Sangue, tra i suoi meriti, vanta questo: un cinema fatto di verifiche e sperimentazioni progressive. Un cinema che si cerca mentre si fa e rifugge tutti i discorsi che non siano quelli di uno spostamento continuo. Giona A. Nazzaro, Il Manifesto Pulce non c’é Italia, 2012 Regia Giuseppe Bonito Sceneggiatura Monica Zapelli Gaia Rayneri (collaborazione) con Pippo Delbono, Marina Massironi, Francesca Di Benedetto, Ludovica Falda, Piera Degli Esposti Fotografia Massimo Bettarelli Montaggio Roberto Missiroli Scenografia Michele Modafferi Costumi Fiorenza Cipollone Musica Mokadelic, Niccolò Fabi Durata 97 minuti Distribuzione Academy Two LA TRAMA Giovanna ha una famiglia diversa dalle altre: la sua sorellina Margherita detta Pulce (Falda) è autistica. Improvvisamente, per accuse di abusi da parte del padre (Delbono) su Pulce, la piccola viene allontanata dalla famiglia. Attraverso lo sguardo della tredicenne Giovanna (Di Benedetto) accediamo alla vita di una famiglia anormale, in un momento particolare anche per loro… LA CRITICA Pulce ha nove anni, è allegra e dolce, ma non parla: è autistica. Attorno a lei ci sono le attenzioni del padre (Pippo Delbono), della madre (Marina Massironi), e della sorella tredicenne (Francesca di Benedetto, molto brava). Oltre alle difficoltà legate alla condizione di Pulce, i quattro faranno fronte a un sospetto infame. Promettente opera prima, tratta dal libro autobiografico di Gaia Rayneri, anche lei esordiente. Roberto Escobar, L’Espresso Tratto da una storia vera, con dito puntato sulle istituzioni, il film è raccontato con grande sensibilità dal promettente Giuseppe Bonito. Cast perfetto. Maurizio Acerbi, il Giornale Una storia vera, tratta dal libro scritto dalla Giovanna in carne e ossa, l’esordiente Gaia Rayneri, che ha collaborato alla stesura della sceneg- giatura. Rispetto al romanzo omonimo, il film di Giuseppe Bonito ha una struttura un po’ più corale, che alterna il punto di vista di Giovanna a quello della madre e del padre. Due modi diversi di reagire alla ma- lattia prima e all’accusa poi: lei con l’ansia e l’emotività, lui con la chiu- sura e il distacco apparente. Due caratteri diversi, resi con verità dalle interpretazioni di Marina Massironi e Pippo Delbono, bravi a tradurre un’incomunicabilità di coppia che sorprendentemente li avvicina anzi- ché separarli. Ma il punto di osservazione privilegiato resta quello di Giovanna, trascinata in un problema molto più grande dei primi batti- cuori dell’adolescenza che affliggono la sua amica del cuore. È grazie al suo filtro che la vicenda, per quanto scottante, è raccontata con estrema sensibilità e pudore. Il regista, alla sua opera prima, non si lascia andare a facili pietismi, avverte tutta l’urgenza di raccontare questa storia difficile, ma lo fa con un rispetto profondo nei confronti dei suoi protagonisti, uomini e donne in carne e ossa. Lo fa nel modo migliore, senza retorica, con uno stile personale che procede per sottrazione e fa emergere da sé l’impatto della denuncia, senza alcuna forzatura. Grande merito, il suo, anche quello di avere scoperto un’interprete straordinaria, scovata con i casting nelle scuole torinesi. L’esordiente Francesca Di Benedetto conferisce a Giovanna la naturalissima delicatezza della Alba Rohrwacher delle prime interpretazioni. Annalice Furfari, My Movie Un castello in Italia Francia, 2013 Regia Valeria Bruni Tedeschi Sceneggiatura Valeria Bruni Tedeschi Noémie Lvovsky Agnes De Sacy con Valeria Bruni Tedeschi, Xavier Beauvois, Louis Garrel, Filippo Timi, Marisa Borini Fotografia Jeanne Lapoirie Montaggio Francesca Calvelli, Laure Gardette Costumi Caroline de Vivaise Musica Emmanuelle Duplay Durata 104 minuti Distribuzione Teodora Film LA TRAMA La storia, parzialmente autobiografica, dell’amore tra Louise (Bruni Tedeschi) e Nathan (Garrel) in un momento di degrado della famiglia di Louise: suo fratello Ludovic (Timi) è gravemente malato e i debiti costringono la madre (Borini) a vendere il castello di famiglia in Italia. LA CRITICA (. . . ) Non diciamo “autofiction” perché la regista-attrice rifiuta il ter - mine, così serioso, e ha ragione. Infatti il riuscitissimo Un Chateau en Italie (...) è una specie di commedia svitata, ma piena di cose tragiche, in cui la Bruni Tedeschi ripercorre brani della propria vita con un divertimento, una libertà di tono, un gusto per l’invenzione (...) che sorprende e commuove. (...) Si ride, si piange, si pensa, battendo il tempo al ritmo di un film che segue sempre il cuore dei suoi per- sonaggi anche e forse soprattutto dove meno te lo aspetti. Dunque da non perdere. Fabio Ferzetti, Il Messaggero (. . . ) La storia è in bilico, ma non casca mai, fra voglia di ridere e di piangere, il miscuglio grottesco e vitale che smuove le classi sociali più immobili (. . . ) Alla fine vince una sana malinconia che non è solo un destino ma un modo di guardare il mondo. E dove il concetto al- largato di famiglia aiuta a vincere le avversità, insomma una bella commedia ci salverà. Maurizio Porro, Il Corriere della Sera (...) La Bruni Tedeschi trova qui la misura cacciandosi con nevrotica disperazione in situazioni da cui in contropiede, emerge buffa e di- vertente. Inclusi certi bamboleggiamenti sottolineati con autoironia anche da Marisa Borini, sua madre nella vita e nella finzione. Quanto a Timi, sullo scivolo di una crepuscolare dandistica e a tratti sulfurea malinconia il suo Ludovico è il vero fulcro del film. Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa Nel cast Filippo Timi, nella parte del fratello malato di Aids e Louis Garrel nella parte del suo fidanzato, come nella vita lo è stato. Vero e finzionale si intrecciano in un ritratto spietato e ironico. Dario Zonta, L’Unità Il Gattopardo Italia/Francia, 1963 Regia Luchino Visconti Sceneggiatura Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, Suso Cecchi d' Amico, Enrico Medioli con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Mario Serandrei Scenografia Mario Garbuglia Costumi Piero Tosi Musica Nino Rota Durata 187 minuti LA TRAMA Le vicende della famiglia nobile dei Corbera, guidata dal Principe di Salina, nella Sicilia a cavallo del Risorgimento, tra Borbone e Savoia. L’adattamento al tramonto dell'aristocrazia e la strenua difesa del prestigio della propria casata; le nozze fra l'adorato nipote Tancredi e la bella figlia di un amministratore ricco e incolto: "affinché niente cambi, bisogna che tutto cambi". LA CRITICA «Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»: si tratta di una delle citazioni più significative tratte da «Il gattopardo», uno dei capolavori di Luchino Visconti [...]. Tratto dal romanzo omo- nimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958 un anno dopo la morte dell'autore palermitano, «Il gattopardo» è am- bientato nella Sicilia del 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Il principe Fabrizio di Salina (un monumentale Burt Lancaster) assiste malinconicamente alla fine dell'aristocrazia, rassegnandosi all'annes- sione dell'isola e del suo feudo di Donnafugata allo stato sabaudo. Fa- vorirà il fidanzamento di suo nipote Tancredi (Alain Delon), deciso a partecipare alla nuova scalata sociale, con l'affascinante Angelica Sedara (Claudia Cardinale), ragazza di bell'aspetto e di famiglia ricca. Il declino dell'aristocrazia e la crescita di una nuova borghesia verrà sancito da un grandioso ballo, al termine del quale il principe farà un bilancio della propria esistenza e si preparerà a morire. Straordinario mosaico della fine di un'epoca e dell'inizio di un'altra, «Il gattopardo» è uno dei risultati più alti della carriera di Luchino Vi- sconti, reduce dal grande successo di «Rocco e i suoi fratelli» (1960). Tra le tante sequenze da ricordare, svetta proprio quella del ballo, che richiese oltre un mese di lavoro, girata all'interno di Palazzo Valguar- nera-Gangi, edificio settecentesco di Palermo. Oltre a un cast in stato di grazia, Visconti si affidò a un team composto da nomi altisonanti: cinque gli sceneggiatori (Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Cam- panile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e lo stesso regista), Giusep- pe Rotunno alla direzione della fotografia, Mario Serandrei al montaggio e Nino Rota come compositore. Nella colonna sonora, da segnalare che Visconti scelse di inserire un valzer inedito di Giuseppe Verdi: il " Valzer brillante". Numerosi i rico- noscimenti ottenuti: la Pala d'Oro al Festival di Cannes del 1963, un David di Donatello e tre Nastri d'Argento (miglior fotografia, miglior scenografia e migliori costumi). Andrea Chimento, Il Sole 24 Ore Le meraviglie Italia, 2014 Regia Alice Rohrwacher Sceneggiatura Alice Rohrwacher Con Maria Alexandra Lungu Sam Louwyck Alba Rohrwacher Sabine Timoteo Monica Bellucci Fotografia Hélène Louvart Montaggio Marco Spoletini Scenografia Emita Frigato Costumi Loredana Buscemi Musica Piero Crucitti Durata 110 minuti Distribuzione BIM LA TRAMA L'estate memorabile di quattro sorelle apicoltrici. Un’estate in cui, tra l'arrivo nel loro casale di un ragazzo tedesco in rieducazione e l'incursione nel territorio di un concorso televisivo a premi, le regole che tengono insieme il nucleo famigliare si allentano. LA CRITICA “Il mondo sta per finire", sostiene con voce quasi spiritata Wolfgang, il padre protagonista de Le meraviglie, che guarda attorno a sé le pail- lette della tivvù che iniziano a contaminare anche la vita agreste che aveva ritagliato per sé e per la propria famiglia. (...) È un sinuoso e strattonato rapporto padre-figlia, quello che Alice Rohrwacher disegna con delicatezza nel suo nuovo film. Ed è anche una storia di passaggio all'età adulta. Si chiama Gelsomina la giovane protagonista e ha il volto della brava Maria Alexandra Lungu, genuinità pura. Il padre è Sam Louwyck, ballerino, coreografo e attore fiammingo. Simona Santoni, Panorama Quasi mettendo la macchina da presa all'altezza (psicologica) dello sguardo della protagonista, Rohrwacher racconta una manciata di giorni di un'estate che sta per finire. La vita nella masseria scorre tra arnie da accudire e miele da estrarre. Wolfgang ama ripetere che il mondo è sull'orlo della catastrofe, e crede fermamente che solo nella terra e nel suo lavoro ci sia ancora speranza. Come capita a ogni fede, la sua certezza lo porta a decidere della vita degli altri - dei figli, in primo luogo - con uno zelo che non ammette curiosità. Ma proprio da questo è mossa Gelsomina, da una curiosità che d'un balzo supera i confini della masseria, oltre i quali immagina stia di casa la meraviglia, magari anche solo quella artefatta e corriva dell'illusione televisiva. Roberto Escobar, L’Espresso La madre Angelica, Alba Rohrwacher, tiene insieme i giorni in un equilibrio di fatica e di pazienza, vede meglio e più lontano, sopporta l'amore rigido di lui, il suo estremismo: il padre, in fondo, vuole proteggere le figlie dalla violenza avvelenata della vita fuori. È la sua guerra, la moglie aspetta ogni sera il ritorno dal campo di battaglia con lo sguardo delle donne nei libri d'epica. (...) "Vivono come nella preistoria", dice Monica Bellucci che fa la fata bianca - Milly Catena - di un programma tv e arriva un giorno, come un'apparizione, a reclutare "personaggi" per un programma intitolato "Il paese delle meraviglie": un concorso a premi per agricoltori "che vivono come una volta". Concita De Gregorio, la Repubblica Come il vento Italia, 2013 Regia Marco Simon Puccioni Sceneggiatura Marco Simon Puccioni Nicola Lusuardi Heidrun Schleef con Valeria Golino Filippo Timi Francesco Scianna Chiara Caselli Marcello Mazzarella Fotografia Gherardo Gossi Montaggio Roberto Missiroli Catherine Maximoff Scenografia Emita Frigato Costumi Ginevra Polverelli Musica Shigeru Umebayashi Durata 110 minuti Distribuzione Ambi Pictures (ex Iervolino Entertainment) LA TRAMA L’ amore tra Armida (Golino) e Umberto (Timi) è nato negli anni ottanta, in carcere, dove entrambi lavoravano. La loro storia continua fino a quando, nel ‘90, Umberto è misteriosamente assassinato. Armida prosegue la sua vita, riceve promozioni lavorative, si trasferisce nel supercarcere di Pianosa. Ad un processo contro degli ‘ndranghetisti, però, la verità sulla morte di Umberto inizia a uscire dal buio... LA CRITICA (...) il film pone in risalto l’umanità femminile. Nel senso dell’eccezio- nalità della sua figura in un mondo maschile. Nel senso del vuoto d’amore che cerca di riempire con nuovi incontri. Un’occasione per Valeria Golino che interpreta l’insieme di rigore, sofferenza, sensualità in modo più che autorevole: carismatico. La struttura del film invece è debole, la prova di stile espressa attraverso il montaggio si risolve in confusione. Heidrun Schleef tra gli sceneggiatori (La stanza del figlio). Paolo D’ Agostini, la Repubblica (...) Un bel melodramma civile di Puccioni in cui la Golino si tramuta negli occhi e nel respiro, intagliando nel dolore una figura non dimen- ticabile, vittima dell’ormai omologata corruzione e carente di affetto. Maurizio Porro, Il Corriere della sera Tra i film di impegno civile si inserisce questo liberamente ispirato alla biografia di Armida Miserere, una delle prime donne a diventare direttrice di carcere subito dopo l'entrata in vigore della legge Gozzini (1986). Una vita drammatica a cui ha contrapposto un fierissimo carattere e che ha trovato nell'interpretazione di Valeria Golino tutte quelle sfu- mature del carattere che sullo schermo appaiono meno scontate. Stefania Silvesti, Il Manifesto Armida Miserere fu il primo direttore di carceri donna. Trascorse la sua esistenza professionale e privata in perpetui spostamenti di case di reclusione da Lodi a Pianosa, dal palermitano Ucciardone a Sulmona, dove nel 2003 si tolse la vita. Impossibile le era diventato sopravvivere al dolore per aver perso il compagno Umberto, trucidato a sangue freddo nel 1990 vittima di un complotto. Con attenzione ai dettagli di una personalità complessa e contraddittoria, Puccioni ripercorre gli ultimi 13 anni della vita della Miserere, declinando il genere biopic su un dramma 'sensoriale' ove la tragedia di una donna si apre all'empatia universale. Sullo sfondo un'Italia sempre più decadente nella salvaguardia del sistema carcerario ma anche reattiva rispetto alla criminalità organizzata (Armida coopera all'arresto di Brusca) emerge un personaggio potente e fragile, mirabilmente ritratto da Valeria Golino in una delle sue migliori interpretazioni. Da non perdere. Anna Maria Passetti, Il Fatto Quotidiano Song’e Napule Italia, 2013 Regia Antonio e Marco Manetti Sceneggiatura Antonio Manetti Marco Manetti Michelangelo La Neve con Alessandro Roja, Giampaolo Morelli, Serena Rossi, Paolo Sassanelli Fotografia Francesca Amitrano Montaggio Federico Maria Maneschi Scenografia Noemi Marchica Costumi Daniela Salernitano Musica Pivio & Aldo De Scalzi, Lollo Love Durata 114 minuti Distribuzione Microcinema LA TRAMA Paco (Roja) è entrato in polizia grazie a una raccomandazione e passa la sua giornata occupandosi del deposito giudiziario. Le cose, però, cambieranno quando un commissario anticrimine (Sessanelli) si rivolgerà a Paco per un’operazione sotto copertura: la sua routine noiosa si stravolgerà e Paco si troverà improvvisamente immerso nel mondo del neomelodico napoletano. LA CRITICA I Manetti Bros, Marco e Antonio, sembrano destinati a coronare con un successo finalmente rotondo per il veramente godibile Song ' e Napule - una lunga militanza tra cinema popolare e di genere, risorse della tecnologia e relative economicità produttive, serialità, fumetto, musica (hanno realizzato molti videoclip). Una Napoli che non tace le sue magagne ma è osservata sotto una luce benevola, fa da scenario alle imprese di un giovane poliziotto per raccomandazione ma pianista per vocazione (…) che s'infiltra nella band neomelodica di Lollo Love (Giampaolo Morelli) chiamata ad allietare le nozze della figlia di un boss, per usarla come cavallo di troia e compiere un clamoroso arresto. Di qualità i ruoli secondari: Carlo Buccirosso questore sensibile alle raccomandazioni, Paolo Sassanelli commissario integro ma violento, Peppe Servillo pericoloso capo camorrista. E coartefice con Pivio e Aldo De Scalzi dell'apparato canoro, coprotagonista del film. Paolo D’Agostini, la Repubblica Nel thriller-commedia dei Manetti Bros la Napoli delle contraddizioni insolubili, ma anche delle intuizioni geniali, vive finalmente la sua resurrezione. Non è pizza e mandolini come un tempo, ma nemmeno (solo) Gomorra, pistole e degrado. In "Song è Napule", applauditissimo all'ultimo festival di Roma, lo speciale frullato partenopeo fatto di passioni carnali e meschinità quotidiane, violenza bruta e coraggio inatteso, amore e scaramanzia, grande bellezza e grande bruttezza, viene servito al meglio, sul piatto d’argento del ritmo e dell’originalità. Alessandra Levatesi Kezick, La Stampa I film so’ piezz’ e core. Per i Manetti Bros la sentenza cinematografica da sotto il Vesuvio è lapidaria. (…). Tutto il miglior armamentario anni settanta del cinema di genere – anche se i Manetti amano la blaxploitation -, inseguimenti tra curve e vicoli, scontri a fuoco tra polizia e boss della camorra, ma anche l’alleggerimento comico delle raccomandazioni e furbizie all’italiana, della contaminazione con impercettibili e ironici effetti digitali, dello snobismo progressista della musica colta contro quella più pop dei neomelodici partenopei. Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano La sedia della felicità Italia, 2013 Regia Carlo Mazzacurati Sceneggiatura Carlo Mazzacurati, Doriana Leondeff, Marco Pettenello con Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Giuseppe Battiston, Katia Ricciarelli Fotografia Luca Bigazzi Montaggio Clelio Benevento Scenografia Giancarlo Basili Costumi Maria Rita Barbera Musica Mark Orton Durata 94 minuti Distribuzione 01 Distribution LA TRAMA Bruna (Ragonese), un’estetista e Dino (Mastandrea), un tatuatore scoprono della presenza di un tesoro nell’imbottitura di una sedia. Alla ricerca dei gioielli e con un prete che cerca di intralciarli, i due diventano protagonisti di una incredibile avventura nel nordest italiano. LA CRITICA Bruna e Dino, romani piuttosto incongrui in questa anonima location padano-veneta, fanno rispettivamente l'estetista e il tatuatore, e i loro negozi dirimpettai arrancano uno peggio dell'altro. Maledetta illusione di svolta (ma poi anche benedetto pretesto per una bella fiaba senti- mentale, tra loro) la promessa di un favoloso tesoro da inseguire cercando, trovando e squartando la tappezzeria di un certo numero di mostruose sedie a forma di elefante. La corsa, condivisa o meglio con- tesa con un diabolico prete indebitato fino al collo, sarà la più prete- stuosa delle scuse per una sarabanda di incontri e avventure, servirà a chiamare a raccolta tutta quella piccola e balorda umanità così cara alla sensibilità di Carlo Mazzacurati in tutti i suoi film, e al contempo a raccogliere quasi al completo la famiglia dei suoi attori più cari. Amichevolmente e allegramente presenti anche per pose da pochissimi minuti. Con i protagonisti Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea, dunque, sfilano Giuseppe Battiston, Antonio Albanese, Roberto Citran, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando. Paolo D' Agostini, la Repubblica Un impossibile “documentario fantastico” sul nostro irriconoscibile Nordest. Una commedia svitata zeppa di figure strampalate e folgoranti. Uno sfrenato giallo comico, ispirato a un romanzo russo già usa- to fra gli altri da Mel Brooks. Ma soprattutto un’esilarante summa del cinema di Carlo Mazzacurati (...) Mai “testamento” fu più scanzonato. Fabio Ferzetti, Il Messaggero Termina con il sorriso aperto e chiaro di Bruna e Dino, La sedia della felicità. Per una volta ho voluto girare un film che mi piacesse anche come spettatore, aveva detto Carlo Mazzacurati qualche mese prima della morte, avvenuta il 22 gennaio scorso. E aveva inteso: un film che non mescolasse tristezza e ironia, ma fosse per intero una commedia. D'altra parte, aveva aggiunto, per far ridere occorre partire da una catastrofe. Roberto Escobar, L’Espresso Il terzo tempo Italia, 2013 Regia Enrico Maria Artale Sceneggiatura Enrico Maria Artale Francesco Cenni Luca Giordano con Stefania Rocca, Stefano Cassetti, Lorenzo Richelmy, Edoardo Pesce, Margherita Laterza, Pier Giorgio Bellocchio Fotografia Francesco Di Giacomo Montaggio Paolo Landolfi Scenografia Laura Boni Costumi Irene Amantini Musica Ronin Durata 96 minuti Distribuzione Filmauro LA TRAMA Samuel (Richelmy), appena uscito dal riformatorio e viene inserito in un programma di riabilitazione in un'azienda agricola. Il suo supervisore è Vincenzo (Cassetti), ex rugbista professionista ora svolgliato allenatore della squadra locale presieduta da Teresa (Rocca). Dopo avere aiutato Samuel a uscire indenne da una rissa, Vincenzo gli dà un’ultima possibilità di redimersi: gli propone di iscriversi nella sua squadra di rugby. Il rugby diventa così la metafora della vita e della voglia di tornare a sperare. LA CRITICA È un film di genere, "Il terzo tempo" (Italia, 2013, 96'). Già questa è una buona notizia per un cinema come il nostro, per lo più lontano dai generi e incline a quelle loro imitazioni di basso profilo che sono, o che furono, i cosiddetti filoni. Una seconda buona notizia è che questo film di genere dedicato al rugby è stato girato da un esordiente. (...)Dal punto di vista dell'intreccio, "Il terzo tempo" è prevedibile. Ma questa prevedibilità non è un suo limite. Al contrario, è la struttura che gli dà forma. Se si preferisce, è la cornice dentro la quale acquistano senso i caratteri di Samuel e Vincenzo, e anche quelli dei molti altri personaggi, di primo e di secondo piano. Nessuno di loro è ridotto a banalità. Nessuno di loro è espediente, sotterfugio di sceneggiatura. Nessuno di loro, ancora, è utilizzato a freddo per sciogliere l'intrico psicologico in cui Samuel e Vincenzo finiscono per mettersi. Anzi, ognuno è di per sé una sorta di problema, come accade a tutti noi, nella vita vissuta. La sapienza narrativa di Artale e dei suoi collaboratori riesce a trasformare questa somma di individualità complesse in un gruppo di uomini e di donne che giocano la stessa partita, come un insieme. Non c'è moralismo, nella storia di Samuel e Vincenzo. Neppure ci sono virtuosistici assolo, palesemente programmatici e perciò stucchevoli. C'è invece la durezza della vita, alleggerita dalle sue dolcezze imprevedibili. E imprevedibili sono anche il mestiere, l'equilibrio, il gusto di raccontare di Artale. È un film di genere, il suo, e allo stesso tempo è una prova d'autore, ancora piccola ma densa di promesse. È questa la terza, ottima notizia. Roberto Escobar, L’Espresso Favola sportiva con metafora redentoristica incorporata, Il terzo tempo riesce a prendere forza dai suoi stessi cliché. L’esordiente Artale, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia che ha coraggiosamente coprodotto il film insieme alla Filmauro, si dimostra regista lucido e dominante, al di là del copione caratterizzato da spiccata prevedibilità e numerosi vezzi edificanti, anche perché in grado d’ot- tenere il meglio da un cast formato da giovani e semisconosciuti talenti. (...) Nei passaggi migliori complici l’arruolamento di Samuel nella locale squadra di rugby e i corpo a corpo morali e fisici scanditi dall’adrenalinico montaggio- sembra addirittura di riassaporare il mix di gioventù, amore e rabbia tipico dello storico free cinema dei Ri- chardson, Reisz e Anderson. Valerio Caprara, Il Mattino EVENTI COLLATERALI Bobbio Film Festival 2014 ospiterà La mostra fotografica Claudia Cardinale. Eccellenza Italiana al femminile realizzata con le immagini dell’ Archivio Fotografico del Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale Grande diva e attrice di straordinario talento, Claudia Cardinale è una figura centrale del cinema italiano sin dagli anni '60. Ha lavorato con tutti i più grandi maestri del nostro cinema, autori come Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell'Orsa), Federico Fellini (8½), Francesco Maselli, (I Delfini, Gli Indifferenti) Luigi Comencini (La ragazza di Bube), Sergio Leone (C'era una volta il West), Valerio Zurlini (La ragazza con la valigia), Mauro Bolognini (Il bell'Antonio, La viaccia), Luigi Zampa (Bello, onesto, emigrato Australia…), Pasquale Squitieri (I guappi, Il prefetto di ferro, Claretta), Marco Bellocchio( Enrico IV) per citarne alcuni, incarnando sempre con sensibilità ruoli e personaggi completamente diversi fra loro La presentazione del libro Nome d’Arte, Gianni Schicchi di Mauro Molinaroli Nelle pagine di Mauro Molinaroli, Gianni Schicchi è custode di storie e di una memoria mai perduta, testimone di vicende che negli anni hanno visto marco Bellocchio virare su temi tra loro differenti ma sempre attuali, dal 1965 ad oggi. Schicchi è la storia, l’alter ego del grande regista. E’ stato protagonista e comprimario insieme di un universo cinematografico. La provincia, la borghesia, i simboli, i miti presenti ne I pugni in tasca sono figli di un tempo lontano. Sorelle Mai il compimento di un percorso lungo una vita, che vede Schicchi, comunque protagonista. E il fascino e la suggestione dei luoghi, dei personaggi, delle vicende familiari pulsano anche negli anni Duemila e le strade di Bobbio racchiudono magia, sogno, storie e storia, ma soprattutto vicende che ruotano attorno alla produzione artistica di questo grande regista internazionale, di cui Gianni è l’ombra.
© Copyright 2024 ExpyDoc