Schede Film 2014 - Comune di Bobbio

SCHEDE FILM
Che strano chiamarsi Federico
Italia, 2013
Regia
Ettore Scola
Sceneggiatura
Ettore Scola, Paola Scola, Silvia Scola
con
Sergio Rubini, Antonella Attili, Sergio Pierattini, Tommaso Lazotti Vittorio Marsiglia
Fotografia
Luciano Tovoli
Montaggio
Raimondo Crociani
Scenografia
Luciano Ricceri
Costumi Massimo Cantini Parrini
Musica Andrea Guerra
Durata 90 minuti
Distribuzione BIM
LA TRAMA
Il racconto della vita di Federico Fellini, dal suo debutto come disegnatore al suo quinto Oscar. La vita di Fellini è
raccontata attraverso la sua amicizia con Ettore Scola, a partire dal loro primo incontro al ‘Marc’ Aurelio’. Il risultato
è un film che alterna materiali di repertorio provenienti dalle Teche Rai e dall’Istituto Luce e ricostruzione di ricordi
personali girati a Cinecittà.
LA CRITICA
Film non catalogabile, mezzo documentario e mezza fiction, Che strano chiamarsi Federico di Scola dà il
via alle celebrazioni per il ventennale della scomparsa di Fellini in chiave felicemente intimista.
Potremmo definirlo un diario a ritroso nella memoria, la rievocazione di un’Italia e una giovinezza
perduta, un divagare di arte e vita sul filo di una biografia condivisa, una dichiarazione di amore.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa
C’erano tutte le premesse perché Che strano chiamarsi Federico fosse un film intriso di nostalgia, ma non è
solo così. Scola è riuscito a rom- pere gli schemi del documentario biografico per comporre un film a
molti livelli, in cui i materiali di repertorio si incrociano con l’invenzione più pura e poetica. Il risultato
è miracoloso, un breve viaggio nel mondo di Fellini (e Scola) che strappa risate e lacrime in egual
misura.
Alberto Crespi, l'Unità
(...) le prime immagini del film, con i lenti dolly “felliniani”, i set artificiali e una sfilata di personaggi
ovviamente felliniani, alimentava il timore che Scola avesse deciso di creare una parodia felliniana. (...)
Ma accade il miracolo. Un grande regista ha convocato lo spirito di un altro grande regista oltre la
tomba, creando un dialogo olimpico tra di loro. Un dialogo olimpico, però udibile dai comuni mortali.
Il film ha un ritmo onirico ma controllato. Seduti nel buio di un cinema, Che strano chiamarsi Federico ci
porta a ricordare che l’esperienza naturale del cinema è vicina a quei sogni lucidi della mattina. La
logica narrativa diventa un’altra. Ma visto che è un film di Scola e non di Fellini, il sogno è tangibile e
immediato. (...) Il film vi permetterà di sognare del cinema e di voi stessi. E del perché e percome voi e
il cinema siete collegati. E altri pensieri fuori moda. Che strano chiamarsi Federico ci regala il piacere di
uno sguardo ravvicinato sulle visioni opposte di due grandi registi.
(...) Incanalando lo spirito di Federico dentro Ettore (e viceversa), Scola ha costruito una fiaba che
racconta cos’è un film e in che modo una pellicola può toccare le profondità del nostro animo e del
nostro intelletto, un po’ come accade nel caso specifico di Che strano chiamarsi Federico.
Jonathan Nossiter, L’Internazionale
L'intrepido
Italia, 2013
Regia
Gianni Amelio
Sceneggiatura
Gianni Amelio Davide Lantieri
con
Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata
Fotografia
Luca Bigazzi
Montaggio
Simona Paggi
Scenografia
Giancarlo Basili
Costumi
Cristina Francioni
Musica
Franco Piersanti
Durata
104 minuti
Distribuzione 01 Distribution
LA TRAMA
Antonio Pane (Albanese) nella vita fa il “rimpiazzo”: prende anche solo momentaneamente il posto di chi si assenta
dalla propria occupazione. Separato, solo e con un figlio sassofonista (Rendina), un giorno incontra Lucia (Rossi), una
giovane donna che nasconde un segreto.
LA CRITICA
L'intrepido di Gianni Amelio, (...), ha fatto fare ad Albanese un viaggio avventuroso nei percorsi del
lavoro che tiene in vita la città. E’ stata una scoperta? «Per niente, io del lavoro manuale me ne
intendo: vengo da una famiglia operaia di Lecco, l'operaio l'ho fatto anch'io per sette anni, e anche il
tornitore, e l'imbianchino, per pagarmi l'Accademia d'Arte Drammatica». (...) «L'idea è di Amelio, ma
poi il mio Antonio l'abbiamo costruito insieme. A me pare oggi una figura trasgressiva, soprattutto nel
cinema, che abbonda di lunatici e di disperati. Invece lui è un uomo buono, senza sogni consumistici,
senza inquietudini banali, che accetta la solitudine, il lavoro precario, la paga saltuaria, l'abbandono
della moglie, un concorso andato male, senza mai perdere la speranza che domani sarà meglio. E’
appunto un eroe intrepido, come quello del vecchio fumetto italiano ». Quanto di lei c'è in Antonio? «I
miei genitori, come Antonio, si accontentavano, io invece no, avevo le mie ambizioni, sognavo e non
ho ancora smesso. Forse sono anch'io buono, ma anche un po' vendicativo, se necessario.
Natalia Aspesi, la Repubblica
Milano ai giorni nostri, una città ghiacciata nei suoi parallelepipedi di vetro e metallo dove, instancabile
figura dei tempi moderni, consuma la sua forza lavoro Antonio Pane, protagonista del film di Gianni
Amelio L'intrepido, un'allusione al giornalino che si vendeva con Il Monello, The Lonely Hero, come
viene tradotto internazionalmente. Antonio Albanese abbandona le crudezze che ha saputo creare in
certi suoi recenti personaggi specchio della nostra società per guardare lontano, con francescana
purezza, a un orizzonte diverso.
Antonio Pane è come il suo cognome suggerisce: buono e semplice. Charlot tutto italiano di una crisi
economica non solo italiana, è il proTagonista soave e coraggioso de L'intrepido (...). Lo interpreta
Antonio Albanese, capace di passare dal surrealismo greve di Cetto La Qualunque alla delicatezza i
questo nuovo personaggio. "Da tempo interpreto l'oggi con l'accetta e in maniera paradossale, mi
piaceva ora farlo con un personaggio apparentemente leggero", dice il comico lombardo.
Silvana Silvestri, Il Manifesto
Zoran, il mio nipote scemo
Italia/Slovenia 2013
Regia
Matteo Oleotto
Sceneggiatura
Daniela Gambaro, Marco Pettenello, Matteo Oleotto, Pierpaolo Piciarelli
con
Giuseppe Battiston, Rok Prasnikar, Teco Celio, Marjuta Slamic, Roberto Citran, Jan Cvitokovic
Fotografia
Ferran Peredes Rubio
Montaggio
Giuseppe Trepiccione
Scenografia
Anton Spacapan, Vasja Kokeli
Costumi
Emil Cerar
Musica
Antonio Gramentieri, Sacri Cuori
Durata
103 minuti
Distribuzione
Tucker Film
LA TRAMA
Paolo (Battiston) è un quarantenne frustrato con un matrimonio alle spalle.
Misantropo, alcolizzato e bugiardo, passa le sue giornate tra l’osteria di Giustino (Celio) e la mensa per anziani dove
lavora. Improvvisamente si vede affidato Zoran (Presnikar), un lontano nipote sloveno rimasto orfano, che parla in modo
strano e sembra ritardato. Dopo iniziali contrasti, i due scoprono una passione comune, e grazie al tiro a freccette
qualcosa cambierà...
LA CRITICA
Un ottimo Giuseppe Battiston è un gagliardo bevitore, come quasi tutti nel suo paesino in Friuli. Ed è
un bugiardo sistematico e un cinico egoista, per di più soddisfatto di esserlo. Gli capita però di
"ereditare" da una zia slovena un nipote strano: impacciato, forbito, bisognoso d'affetto. Una bella
commedia d'esordio, cattiva e tenera insieme
Paolo Bressan, l'Espresso Bella sorpresa del debuttante Matteo Oletto, che scava a mani nude
nelle radici del Nord Est dove l'incontenibile, bravo alien Giuseppe Battiston, in estasi avvinazzata da
Friuli, eredita dalla Slovenia un nipote bravissimo con le freccette. Commedia naif accattivante, ben
scritta a 8 mani, che prevede classico scambio ricambio di caratteri, baciata dal cast dove eccelle Rok
Prasnikar
Maurizio Porro, Corriere della Sera
Friuli Venezia Giulia, provincia alcoolica. C'è chi (...) sbevazza, s'ab- buffa e lascia nel piatto l'amore e
la fuga: forse, è il bifolco del villaggio, comunque gli ridono dietro. Ma muore una parente slovena e in
eredità gli tocca Zoran (Rok Prasnikar, sensibile), il nipote scemo, tutto occhiali, ritrosia e freccette. A
centrare il bersaglio è l'esordiente Matteo Oleotto, che nel fondo del bicchiere legge una nuova via per
il nostro cinema: ironia e amarezza, affresco socio- geografico e ritratto psicologico, tutto è a fuoco,
come alle italiche commedie capita raramente. Merito forse del gemellaggio poetico con la Slovenia,
fatto sta che il film si scaraffa sullo schermo come buon vino da tavola, al bando le etichette autoriali e
le adulterazioni commerciali. Tutto bene? Quasi, macchiettismo e buonismo sono alle porte, ma
Oleotto si farà, e intanto ci ha già fatto sorridere. Dopo troppo province meccaniche, finalmente una
provincia umana.
Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano
Il Sud è niente
Italia/Francia, 2013
Regia
Fabio Mollo
Sceneggiatura
Fabio Mollo Iosella Porto
con
Vinicio Marchioni, Miriam Karlkvist, Valentina Lodovini, Andrea Bellisario
Fotografia
Debora Vrizzi
Montaggio
Filippo Montemurro
Scenografia
Giovanna Cirianni
Costumi
Andrea Cavalletto
Musica
Giorgio Giampà
Durata
90 minuti
Distribuzione
Istituto Luce Cinecittà
LA TRAMA
Crescendo, il corpo di Grazia (Karlkvist) assume delle sembianze maschili. Forse la ragione è compensare l’assenza del
fratello Pietro (Musumeci), che, dopo essersi trasferito in Germania, il padre Cristiano (Marchioni) ha fatto credere
morto.
In seguito a una lite con il padre, Grazia inizia a dubitare della morte del fratello, immaginando che sia da qualche
parte in attesa di essere trovato.
LA CRITICA
Sullo sfondo di Il sud è niente (...) si intuisce l’invasiva presenza della criminalità organizzata, ma è una
realtà che leggiamo sul rovescio, nello sguardo ribelle di una giovinezza non rassegnata al male,
all'omertà, alla menzogna.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa
Se dovessimo trovare una formula per descrivere Il sud è niente, dovremmo parlare di realismo magico.
Pur avendo una forte connotazio- ne quasi documentaristica (...) il film ha un tono fiabesco. Si tratta di
un equilibrio sempre difficile da raggiungere, ma l’esordiente Fabio Mol- lo, 33 anni, lo padroneggia
con una sicurezza encomiabile. Siamo di fron- te a uno dei migliori esordi italiani degli ultimi anni.
Alberto Crespi, L’ Unità Il film che viene dal profondo mare di Calabria è uno di quei debutti
incompleti ma di cui non si vede l’ora di sapere il seguito.(...) Miriam Karlkvist e Vinicio Marchioni tra
sguardi e silenzi tessono una ragnatela di sensazioni che merita attenzione.
Maurizio Porro, Il corriere della sera
Tra limpido realismo e tocchi quasi magici, linearità e evanescenza, l'esordio nel lungometraggio di
Mollo è un lavoro che punta sul dato fisico piuttosto che sulle parole, sempre smozzicate, rabbiose,
sus- surrate, incapaci di restituire una verità nascosta dall'omertà di una terra uccisa a colpi di silenzi e
complicità. Luogo di confine, lo stretto di Messina si dimostra allora la cornice perfetta per una
vicenda che si coagula tutta intorno al concetto di cambiamento, inteso nella sua accezione di
evoluzione, rinnovamento e scambio: in certo modo, anche la stessa, lunghissima, elaborazione del
lutto di Grazia per il fratello si confonde con quella per una realtà sociale da cui sembra soltanto
possibile scappare verso il Nord. Un piccolo e riuscito film sulla famiglia e sul non detto, sull'importanza della chiarezza e sulla voglia di guardare avanti, che riesce a convincere (...).
Marco Chiani, My Movies
Più buio di mezzanotte
Italia, 2014
Regia
Sebastiano Riso
Sceneggiatura
Sebastiano Riso, Stefano Grasso, Andrea Cedrola
con
Micaela Ramazzotti, Davide Capone, Vincenzo Amato, Pippo Delbono
Fotografia
Piero Basso
Montaggio
Marco Spoletini
Scenografia
Melina Ormando, Raffaella Baiani
Musica
Michele Braga
Durata
98 minuti
Distribuzione
Istituto Luce Cinecittà
LA TRAMA
Davide (Capone) ha quattordici anni, vive a Catania e la sua vita è segnata da una costante: assomigliare ad una
ragazza. Pieno di problemi in casa decide di scappare al Parco di Villa Bellini.
Qui, tra emarginati, Davide troverà la sua nuova famiglia, una famiglia che lo accetta come quella di prima non aveva
fatto.
Ma il passato invade il presente e costringe Davide a prendere una decisione, senza rinvii e autonomamente.
LA CRITICA
(...) vale il contorno, molto folk, di un racconto genere Fassbinder-Genet, con forte impatto, momenti
melò e la voglia di tragedia edipica a tutti i costi, espiazione obbligatoria.
Maurizio Porro, Corriere della Sera
Con le sue ombre notturne, i sorrisi malinconici e l’ironia di chi ha già patito abbastanza per essere
triste, il film Più buio di mezzanotte parla di allora ma anche dei paradossi odierni, quando la
condizione di “di- versità” nei gusti sessuali trova ancora difficoltà ad essere accettata, specie in Italia.
Anna Maria Pasetti, Il Fatto Quotidiano
Opera prima di Sebastiano Riso, Più buio di mezzanotte è un storia di formazione fragile come il suo
protagonista, che il mondo e la vita possono rompere con facilità. Tutt'altro che inconsistente, la
fragilità del film va intesa in senso proprio e con riferimento alla condizione emotiva di Davide,
adolescente e indicatore di quel disagio adolescenziale che è parte integrante del percorso di
emancipazione e di autonomia dalla fa- miglia d'origine. Uno scatto naturale e inevitabile, vissuto dal
protagonista come momento di eroismo e come atto di sfida alla conformità e a un genitore
determinato a espropriarlo delle sue fantasie a favore delle proprie. Sebastiano Riso coglie molto bene
lo 'straniero interno' che vuole (e deve) affermare la sua diversità, disgiunto da quello, altret- tanto
intenso, che vuole appartenere a qualcuno, essere accolto e inte- grato. Lo sguardo del giovane autore
filma il suo protagonista senza esibirlo, trattenendosi dietro una porta a vetri mentre il corpo di Davide
diventa abile all'amore o sottraendosi con un'ellissi temporale alla sua violazione. (...)
Più buio di mezzanotte stigmatizza l'adolescenza come momento di disordine da guarire e l'adolescente
come soggetto da normalizzare. Lo fa (...) prendendosi il rischio di raccontare il divenire sociale e un
ma- lessere che c'è e che va affrontato, per rendere meno accidentato il per- corso di sviluppo degli
adolescenti e per impedire che si trasformi in una problematica più complessa
Marzia Gandolfi, My Movies
Sangue
Italia/Svizzera, 2013
Regia
Pippo Delbono
Sceneggiatura
Pippo Delbono
con
Pippo Delbono, Margherita Delbono, Giovanni Senzani, Anna Fenzi
Fotografia
Pippo Delbono, Fabrice Aragno
Montaggio
Fabrice Aragno
Scenografia
Pepe Robledo
Musica
Stefan Eicher, Camille , Victor Deme
Durata
89 minuti
Distribuzione
Compagnia Pippo Delbono
LA TRAMA
Nella cornice di L’Aquila abbandonata, Delbono procede in un viaggio parallelo tra la sua esperienza di vita e quella di
Giovanni Senzani, capo delle BR incarcerato per 23 anni. Pippo sta perdendo la madre e riprende gli ultimi giorni al
suo capezzale; Giovanni sta per diventare vedovo e Delbono, rappresentando il suo dolore, lo dipinge prima di tutto come
un essere umano.
LA CRITICA
Sangue racconta l'incontro tra due uomini «improvvisamente orfani, mutilati». Non è un cinema della
crudeltà. E' un cinema sorretto dalla forza dura, quasi minerale degli eventi, che alla fine s'illumina di
speranza, sotto il sorriso del Buddha, ispiratore spirituale di Delbono. Avevano pensato, racconta lui,
di scrivere un libro intitolato Sperduti, sottotitolo: "Dialogo tra un artista buddhista e un ex terrorista
tornato in libertà". Il narrare autobiografico di Delbono, diario visivo e monologo interiore, crea un
turbamento doppio: alla pietas si alternano schegge di dubbio intorno alla logica delle armi e
dell'uccidere. Ora vediamo mamma Margherita («Che mi aveva sempre messo paura dei comunisti»),
donna credente, occhi luminosi con un che di magico, mentre parla, con cantilenare ligure, della
Madonna di Medjugorje e della luce del Paradiso, sullo sfondo un Cristo coronato di spine. Ora appare
Senzani, uomo provato, curvo, in- canutito, dallo sguardo malfermo, che ancora ci turba ascoltare,
dopo tanti anni e a colpe espiate. Il male subìto, il male compiuto.
Enrico Arosio, L'Espressso
Delbono filma ad altezza occhi. Non bara, Delbono. Lui si sogna e progetta come estensione del suo
dispositivo, leggerissimo, e dunque fluido, veloce. (...). Mettendo in scena (...) l’atto del vedere con i
propri occhi, Delbono di fatto ripensa sia il cinema diretto che quello in prima persona. (...) Delbono
non è un cineasta malleabile. La richiesta di dialogo e di confronto che pone al Paese è severa. Non ci
sono vie di mezzo per dialogare con Delbono. (...) L’antropologia poetica di Delbono, che si fonda in
un in- treccio di motivazioni che agita, danza, poesia, musica e la forma-film, la sua ossessione per le
forme in grado di accompagnare l’esistente, è senz’altro il fatto nuovo del cinema italiano. (...) Sangue,
tra i suoi meriti, vanta questo: un cinema fatto di verifiche e sperimentazioni progressive. Un cinema
che si cerca mentre si fa e rifugge tutti i discorsi che non siano quelli di uno spostamento continuo.
Giona A. Nazzaro, Il Manifesto
Pulce non c’é
Italia, 2012
Regia
Giuseppe Bonito
Sceneggiatura
Monica Zapelli Gaia Rayneri (collaborazione)
con
Pippo Delbono, Marina Massironi, Francesca Di Benedetto, Ludovica Falda, Piera Degli Esposti
Fotografia
Massimo Bettarelli
Montaggio
Roberto Missiroli
Scenografia
Michele Modafferi
Costumi
Fiorenza Cipollone
Musica
Mokadelic, Niccolò Fabi
Durata
97 minuti
Distribuzione
Academy Two
LA TRAMA
Giovanna ha una famiglia diversa dalle altre: la sua sorellina Margherita detta Pulce (Falda) è autistica.
Improvvisamente, per accuse di abusi da parte del padre (Delbono) su Pulce, la piccola viene allontanata dalla famiglia.
Attraverso lo sguardo della tredicenne Giovanna (Di Benedetto) accediamo alla vita di una famiglia anormale, in un
momento particolare anche per loro…
LA CRITICA
Pulce ha nove anni, è allegra e dolce, ma non parla: è autistica. Attorno a lei ci sono le attenzioni del
padre (Pippo Delbono), della madre (Marina Massironi), e della sorella tredicenne (Francesca di
Benedetto, molto brava). Oltre alle difficoltà legate alla condizione di Pulce, i quattro faranno fronte a
un sospetto infame. Promettente opera prima, tratta dal libro autobiografico di Gaia Rayneri, anche lei
esordiente.
Roberto Escobar, L’Espresso
Tratto da una storia vera, con dito puntato sulle istituzioni, il film è raccontato con grande sensibilità
dal promettente Giuseppe Bonito. Cast perfetto.
Maurizio Acerbi, il Giornale
Una storia vera, tratta dal libro scritto dalla Giovanna in carne e ossa, l’esordiente Gaia Rayneri, che ha
collaborato alla stesura della sceneg- giatura. Rispetto al romanzo omonimo, il film di Giuseppe Bonito
ha una struttura un po’ più corale, che alterna il punto di vista di Giovanna a quello della madre e del
padre. Due modi diversi di reagire alla ma- lattia prima e all’accusa poi: lei con l’ansia e l’emotività, lui
con la chiu- sura e il distacco apparente. Due caratteri diversi, resi con verità dalle interpretazioni di
Marina Massironi e Pippo Delbono, bravi a tradurre un’incomunicabilità di coppia che
sorprendentemente li avvicina anzi- ché separarli. Ma il punto di osservazione privilegiato resta quello
di Giovanna, trascinata in un problema molto più grande dei primi batti- cuori dell’adolescenza che
affliggono la sua amica del cuore. È grazie al suo filtro che la vicenda, per quanto scottante, è
raccontata con estrema sensibilità e pudore. Il regista, alla sua opera prima, non si lascia andare a facili
pietismi, avverte tutta l’urgenza di raccontare questa storia difficile, ma lo fa con un rispetto profondo
nei confronti dei suoi protagonisti, uomini e donne in carne e ossa. Lo fa nel modo migliore, senza
retorica, con uno stile personale che procede per sottrazione e fa emergere da sé l’impatto della
denuncia, senza alcuna forzatura. Grande merito, il suo, anche quello di avere scoperto un’interprete
straordinaria, scovata con i casting nelle scuole torinesi. L’esordiente Francesca Di Benedetto conferisce
a Giovanna la naturalissima delicatezza della Alba Rohrwacher delle prime interpretazioni.
Annalice Furfari, My Movie
Un castello in Italia
Francia, 2013
Regia
Valeria Bruni Tedeschi
Sceneggiatura
Valeria Bruni Tedeschi
Noémie Lvovsky
Agnes De Sacy
con
Valeria Bruni Tedeschi, Xavier Beauvois, Louis Garrel, Filippo Timi, Marisa Borini
Fotografia
Jeanne Lapoirie
Montaggio
Francesca Calvelli, Laure Gardette
Costumi
Caroline de Vivaise
Musica
Emmanuelle Duplay
Durata
104 minuti
Distribuzione
Teodora Film
LA TRAMA
La storia, parzialmente autobiografica, dell’amore tra Louise (Bruni Tedeschi) e Nathan (Garrel) in un momento di
degrado della famiglia di Louise: suo fratello Ludovic (Timi) è gravemente malato e i debiti costringono la madre (Borini)
a vendere il castello di famiglia in Italia.
LA CRITICA
(. . . ) Non diciamo “autofiction” perché la regista-attrice rifiuta il ter - mine, così serioso, e ha ragione.
Infatti il riuscitissimo Un Chateau en Italie (...) è una specie di commedia svitata, ma piena di cose tragiche, in cui la Bruni Tedeschi ripercorre brani della propria vita con un divertimento, una libertà di tono,
un gusto per l’invenzione (...) che sorprende e commuove. (...) Si ride, si piange, si pensa, battendo il
tempo al ritmo di un film che segue sempre il cuore dei suoi per- sonaggi anche e forse soprattutto
dove meno te lo aspetti. Dunque da non perdere.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero
(. . . ) La storia è in bilico, ma non casca mai, fra voglia di ridere e di piangere, il miscuglio grottesco e
vitale che smuove le classi sociali più immobili (. . . ) Alla fine vince una sana malinconia che non è solo
un destino ma un modo di guardare il mondo. E dove il concetto al- largato di famiglia aiuta a vincere
le avversità, insomma una bella commedia ci salverà.
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera
(...) La Bruni Tedeschi trova qui la misura cacciandosi con nevrotica disperazione in situazioni da cui in
contropiede, emerge buffa e di- vertente. Inclusi certi bamboleggiamenti sottolineati con autoironia
anche da Marisa Borini, sua madre nella vita e nella finzione. Quanto a Timi, sullo scivolo di una
crepuscolare dandistica e a tratti sulfurea malinconia il suo Ludovico è il vero fulcro del film.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa
Nel cast Filippo Timi, nella parte del fratello malato di Aids e Louis Garrel nella parte del suo
fidanzato, come nella vita lo è stato. Vero e finzionale si intrecciano in un ritratto spietato e ironico.
Dario Zonta, L’Unità
Il Gattopardo
Italia/Francia, 1963
Regia
Luchino Visconti
Sceneggiatura
Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, Suso Cecchi d' Amico, Enrico
Medioli
con
Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli
Fotografia
Giuseppe Rotunno
Montaggio
Mario Serandrei
Scenografia
Mario Garbuglia
Costumi
Piero Tosi
Musica
Nino Rota
Durata
187 minuti
LA TRAMA
Le vicende della famiglia nobile dei Corbera, guidata dal Principe di Salina, nella Sicilia a cavallo del Risorgimento, tra
Borbone e Savoia. L’adattamento al tramonto dell'aristocrazia e la strenua difesa del prestigio della propria casata; le
nozze fra l'adorato nipote Tancredi e la bella figlia di un amministratore ricco e incolto: "affinché niente cambi, bisogna
che tutto cambi".
LA CRITICA
«Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»: si tratta di una delle citazioni più
significative tratte da «Il gattopardo», uno dei capolavori di Luchino Visconti [...]. Tratto dal romanzo
omo- nimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958 un anno dopo la morte
dell'autore palermitano, «Il gattopardo» è am- bientato nella Sicilia del 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi
a Marsala. Il principe Fabrizio di Salina (un monumentale Burt Lancaster) assiste malinconicamente alla
fine dell'aristocrazia, rassegnandosi all'annes- sione dell'isola e del suo feudo di Donnafugata allo stato
sabaudo. Fa- vorirà il fidanzamento di suo nipote Tancredi (Alain Delon), deciso a partecipare alla
nuova scalata sociale, con l'affascinante Angelica Sedara (Claudia Cardinale), ragazza di bell'aspetto e di
famiglia ricca. Il declino dell'aristocrazia e la crescita di una nuova borghesia verrà sancito da un
grandioso ballo, al termine del quale il principe farà un bilancio della propria esistenza e si preparerà a
morire.
Straordinario mosaico della fine di un'epoca e dell'inizio di un'altra, «Il gattopardo» è uno dei risultati
più alti della carriera di Luchino Vi- sconti, reduce dal grande successo di «Rocco e i suoi fratelli»
(1960). Tra le tante sequenze da ricordare, svetta proprio quella del ballo, che richiese oltre un mese di
lavoro, girata all'interno di Palazzo Valguar- nera-Gangi, edificio settecentesco di Palermo. Oltre a un
cast in stato di grazia, Visconti si affidò a un team composto da nomi altisonanti: cinque gli
sceneggiatori (Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Cam- panile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e
lo stesso regista), Giusep- pe Rotunno alla direzione della fotografia, Mario Serandrei al montaggio e
Nino Rota come compositore.
Nella colonna sonora, da segnalare che Visconti scelse di inserire un valzer inedito di Giuseppe Verdi: il
" Valzer brillante". Numerosi i rico- noscimenti ottenuti: la Pala d'Oro al Festival di Cannes del 1963,
un David di Donatello e tre Nastri d'Argento (miglior fotografia, miglior scenografia e migliori
costumi).
Andrea Chimento, Il Sole 24 Ore
Le meraviglie
Italia, 2014
Regia
Alice Rohrwacher
Sceneggiatura
Alice Rohrwacher
Con
Maria Alexandra Lungu Sam Louwyck Alba Rohrwacher Sabine Timoteo Monica Bellucci
Fotografia
Hélène Louvart
Montaggio
Marco Spoletini
Scenografia
Emita Frigato
Costumi
Loredana Buscemi
Musica
Piero Crucitti
Durata
110 minuti
Distribuzione BIM
LA TRAMA
L'estate memorabile di quattro sorelle apicoltrici. Un’estate in cui, tra l'arrivo nel loro casale di un ragazzo tedesco in
rieducazione e l'incursione nel territorio di un concorso televisivo a premi, le regole che tengono insieme il nucleo famigliare
si allentano.
LA CRITICA
“Il mondo sta per finire", sostiene con voce quasi spiritata Wolfgang, il padre protagonista de Le
meraviglie, che guarda attorno a sé le pail- lette della tivvù che iniziano a contaminare anche la vita
agreste che aveva ritagliato per sé e per la propria famiglia. (...) È un sinuoso e strattonato rapporto
padre-figlia, quello che Alice Rohrwacher disegna con delicatezza nel suo nuovo film. Ed è anche una
storia di passaggio all'età adulta. Si chiama Gelsomina la giovane protagonista e ha il volto della brava
Maria Alexandra Lungu, genuinità pura. Il padre è Sam Louwyck, ballerino, coreografo e attore
fiammingo.
Simona Santoni, Panorama
Quasi mettendo la macchina da presa all'altezza (psicologica) dello sguardo della protagonista,
Rohrwacher racconta una manciata di giorni di un'estate che sta per finire. La vita nella masseria scorre
tra arnie da accudire e miele da estrarre. Wolfgang ama ripetere che il mondo è sull'orlo della catastrofe,
e crede fermamente che solo nella terra e nel suo lavoro ci sia ancora speranza. Come capita a ogni
fede, la sua certezza lo porta a decidere della vita degli altri - dei figli, in primo luogo - con uno zelo che
non ammette curiosità. Ma proprio da questo è mossa Gelsomina, da una curiosità che d'un balzo
supera i confini della masseria, oltre i quali immagina stia di casa la meraviglia, magari anche solo quella
artefatta e corriva dell'illusione televisiva.
Roberto Escobar, L’Espresso
La madre Angelica, Alba Rohrwacher, tiene insieme i giorni in un equilibrio di fatica e di pazienza, vede
meglio e più lontano, sopporta l'amore rigido di lui, il suo estremismo: il padre, in fondo, vuole proteggere le figlie dalla violenza avvelenata della vita fuori. È la sua guerra, la moglie aspetta ogni sera il
ritorno dal campo di battaglia con lo sguardo delle donne nei libri d'epica.
(...) "Vivono come nella preistoria", dice Monica Bellucci che fa la fata bianca - Milly Catena - di un
programma tv e arriva un giorno, come un'apparizione, a reclutare "personaggi" per un programma intitolato "Il paese delle meraviglie": un concorso a premi per agricoltori "che vivono come una volta".
Concita De Gregorio, la Repubblica
Come il vento
Italia, 2013
Regia
Marco Simon Puccioni
Sceneggiatura
Marco Simon Puccioni Nicola Lusuardi Heidrun Schleef
con
Valeria Golino Filippo Timi Francesco Scianna Chiara Caselli Marcello Mazzarella
Fotografia
Gherardo Gossi
Montaggio
Roberto Missiroli
Catherine Maximoff
Scenografia
Emita Frigato
Costumi
Ginevra Polverelli
Musica
Shigeru Umebayashi
Durata
110 minuti
Distribuzione
Ambi Pictures (ex Iervolino Entertainment)
LA TRAMA
L’ amore tra Armida (Golino) e Umberto (Timi) è nato negli anni ottanta, in carcere, dove entrambi lavoravano. La
loro storia continua fino a quando, nel ‘90, Umberto è misteriosamente assassinato.
Armida prosegue la sua vita, riceve promozioni lavorative, si trasferisce nel supercarcere di Pianosa. Ad un processo
contro degli ‘ndranghetisti, però, la verità sulla morte di Umberto inizia a uscire dal buio...
LA CRITICA
(...) il film pone in risalto l’umanità femminile. Nel senso dell’eccezio- nalità della sua figura in un
mondo maschile. Nel senso del vuoto d’amore che cerca di riempire con nuovi incontri. Un’occasione
per Valeria Golino che interpreta l’insieme di rigore, sofferenza, sensualità in modo più che autorevole:
carismatico. La struttura del film invece è debole, la prova di stile espressa attraverso il montaggio si
risolve in confusione. Heidrun Schleef tra gli sceneggiatori (La stanza del figlio).
Paolo D’ Agostini, la Repubblica
(...) Un bel melodramma civile di Puccioni in cui la Golino si tramuta negli occhi e nel respiro,
intagliando nel dolore una figura non dimen- ticabile, vittima dell’ormai omologata corruzione e carente
di affetto.
Maurizio Porro, Il Corriere della sera
Tra i film di impegno civile si inserisce questo liberamente ispirato alla biografia di Armida Miserere,
una delle prime donne a diventare direttrice di carcere subito dopo l'entrata in vigore della legge
Gozzini (1986). Una vita drammatica a cui ha contrapposto un fierissimo carattere e che ha trovato
nell'interpretazione di Valeria Golino tutte quelle sfu- mature del carattere che sullo schermo appaiono
meno scontate.
Stefania Silvesti, Il Manifesto
Armida Miserere fu il primo direttore di carceri donna. Trascorse la sua esistenza professionale e
privata in perpetui spostamenti di case di reclusione da Lodi a Pianosa, dal palermitano Ucciardone a
Sulmona, dove nel 2003 si tolse la vita. Impossibile le era diventato sopravvivere al dolore per aver
perso il compagno Umberto, trucidato a sangue freddo nel 1990 vittima di un complotto. Con
attenzione ai dettagli di una personalità complessa e contraddittoria, Puccioni ripercorre gli ultimi 13
anni della vita della Miserere, declinando il genere biopic su un dramma 'sensoriale' ove la tragedia di
una donna si apre all'empatia universale. Sullo sfondo un'Italia sempre più decadente nella salvaguardia del sistema carcerario ma anche reattiva rispetto alla criminalità organizzata (Armida coopera
all'arresto di Brusca) emerge un personaggio potente e fragile, mirabilmente ritratto da Valeria Golino
in una delle sue migliori interpretazioni. Da non perdere.
Anna Maria Passetti, Il Fatto Quotidiano
Song’e Napule
Italia, 2013
Regia
Antonio e Marco Manetti
Sceneggiatura
Antonio Manetti Marco Manetti Michelangelo La Neve
con
Alessandro Roja, Giampaolo Morelli, Serena Rossi, Paolo Sassanelli
Fotografia
Francesca Amitrano
Montaggio
Federico Maria Maneschi
Scenografia
Noemi Marchica
Costumi
Daniela Salernitano
Musica
Pivio & Aldo De Scalzi, Lollo Love
Durata
114 minuti
Distribuzione
Microcinema
LA TRAMA
Paco (Roja) è entrato in polizia grazie a una raccomandazione e passa la sua giornata occupandosi del deposito
giudiziario. Le cose, però, cambieranno quando un commissario anticrimine (Sessanelli) si rivolgerà a Paco per
un’operazione sotto copertura: la sua routine noiosa si stravolgerà e Paco si troverà improvvisamente immerso nel mondo
del neomelodico napoletano.
LA CRITICA
I Manetti Bros, Marco e Antonio, sembrano destinati a coronare con un successo finalmente rotondo per il veramente godibile Song ' e Napule - una lunga militanza tra cinema popolare e di genere, risorse
della tecnologia e relative economicità produttive, serialità, fumetto, musica (hanno realizzato molti
videoclip). Una Napoli che non tace le sue magagne ma è osservata sotto una luce benevola, fa da
scenario alle imprese di un giovane poliziotto per raccomandazione ma pianista per vocazione (…) che
s'infiltra nella band neomelodica di Lollo Love (Giampaolo Morelli) chiamata ad allietare le nozze della
figlia di un boss, per usarla come cavallo di troia e compiere un clamoroso arresto. Di qualità i ruoli
secondari: Carlo Buccirosso questore sensibile alle raccomandazioni, Paolo Sassanelli commissario
integro ma violento, Peppe Servillo pericoloso capo camorrista. E coartefice con Pivio e Aldo De Scalzi
dell'apparato canoro, coprotagonista del film.
Paolo D’Agostini, la Repubblica
Nel thriller-commedia dei Manetti Bros la Napoli delle contraddizioni insolubili, ma anche delle
intuizioni geniali, vive finalmente la sua resurrezione. Non è pizza e mandolini come un tempo, ma
nemmeno (solo) Gomorra, pistole e degrado. In "Song è Napule", applauditissimo all'ultimo festival di
Roma, lo speciale frullato partenopeo fatto di passioni carnali e meschinità quotidiane, violenza bruta e
coraggio inatteso, amore e scaramanzia, grande bellezza e grande bruttezza, viene servito al meglio, sul
piatto d’argento del ritmo e dell’originalità.
Alessandra Levatesi Kezick, La Stampa
I film so’ piezz’ e core. Per i Manetti Bros la sentenza cinematografica da sotto il Vesuvio è lapidaria.
(…). Tutto il miglior armamentario anni settanta del cinema di genere – anche se i Manetti amano la
blaxploitation -, inseguimenti tra curve e vicoli, scontri a fuoco tra polizia e boss della camorra, ma
anche l’alleggerimento comico delle raccomandazioni e furbizie all’italiana, della contaminazione con
impercettibili e ironici effetti digitali, dello snobismo progressista della musica colta contro quella più
pop dei neomelodici partenopei.
Davide Turrini, Il Fatto Quotidiano
La sedia della felicità
Italia, 2013
Regia
Carlo Mazzacurati
Sceneggiatura
Carlo Mazzacurati, Doriana Leondeff, Marco Pettenello
con
Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Giuseppe Battiston, Katia Ricciarelli
Fotografia
Luca Bigazzi
Montaggio
Clelio Benevento
Scenografia
Giancarlo Basili
Costumi
Maria Rita Barbera
Musica
Mark Orton
Durata
94 minuti
Distribuzione
01 Distribution
LA TRAMA
Bruna (Ragonese), un’estetista e Dino (Mastandrea), un tatuatore scoprono della presenza di un tesoro nell’imbottitura di
una sedia. Alla ricerca dei gioielli e con un prete che cerca di intralciarli, i due diventano protagonisti di una incredibile
avventura nel nordest italiano.
LA CRITICA
Bruna e Dino, romani piuttosto incongrui in questa anonima location padano-veneta, fanno
rispettivamente l'estetista e il tatuatore, e i loro negozi dirimpettai arrancano uno peggio dell'altro.
Maledetta illusione di svolta (ma poi anche benedetto pretesto per una bella fiaba senti- mentale, tra
loro) la promessa di un favoloso tesoro da inseguire cercando, trovando e squartando la tappezzeria di
un certo numero di mostruose sedie a forma di elefante. La corsa, condivisa o meglio con- tesa con un
diabolico prete indebitato fino al collo, sarà la più prete- stuosa delle scuse per una sarabanda di
incontri e avventure, servirà a chiamare a raccolta tutta quella piccola e balorda umanità così cara alla
sensibilità di Carlo Mazzacurati in tutti i suoi film, e al contempo a raccogliere quasi al completo la
famiglia dei suoi attori più cari. Amichevolmente e allegramente presenti anche per pose da pochissimi
minuti. Con i protagonisti Isabella Ragonese e Valerio Mastandrea, dunque, sfilano Giuseppe Battiston,
Antonio Albanese, Roberto Citran, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando.
Paolo D' Agostini, la Repubblica
Un impossibile “documentario fantastico” sul nostro irriconoscibile Nordest. Una commedia svitata
zeppa di figure strampalate e folgoranti. Uno sfrenato giallo comico, ispirato a un romanzo russo già
usa- to fra gli altri da Mel Brooks. Ma soprattutto un’esilarante summa del cinema di Carlo Mazzacurati
(...) Mai “testamento” fu più scanzonato.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero
Termina con il sorriso aperto e chiaro di Bruna e Dino, La sedia della felicità. Per una volta ho voluto
girare un film che mi piacesse anche come spettatore, aveva detto Carlo Mazzacurati qualche mese
prima della morte, avvenuta il 22 gennaio scorso. E aveva inteso: un film che non mescolasse tristezza e
ironia, ma fosse per intero una commedia. D'altra parte, aveva aggiunto, per far ridere occorre partire
da una catastrofe.
Roberto Escobar, L’Espresso
Il terzo tempo
Italia, 2013
Regia
Enrico Maria Artale
Sceneggiatura
Enrico Maria Artale Francesco Cenni Luca Giordano
con
Stefania Rocca, Stefano Cassetti, Lorenzo Richelmy, Edoardo Pesce, Margherita Laterza, Pier Giorgio
Bellocchio
Fotografia
Francesco Di Giacomo
Montaggio
Paolo Landolfi
Scenografia
Laura Boni
Costumi
Irene Amantini
Musica
Ronin
Durata
96 minuti
Distribuzione
Filmauro
LA TRAMA
Samuel (Richelmy), appena uscito dal riformatorio e viene inserito in un programma di riabilitazione in un'azienda
agricola. Il suo supervisore è Vincenzo (Cassetti), ex rugbista professionista ora svolgliato allenatore della squadra locale
presieduta da Teresa (Rocca). Dopo avere aiutato Samuel a uscire indenne da una rissa, Vincenzo gli dà un’ultima
possibilità di redimersi: gli propone di iscriversi nella sua squadra di rugby.
Il rugby diventa così la metafora della vita e della voglia di tornare a sperare.
LA CRITICA
È un film di genere, "Il terzo tempo" (Italia, 2013, 96'). Già questa è una buona notizia per un cinema
come il nostro, per lo più lontano dai generi e incline a quelle loro imitazioni di basso profilo che sono,
o che furono, i cosiddetti filoni. Una seconda buona notizia è che questo film di genere dedicato al
rugby è stato girato da un esordiente. (...)Dal punto di vista dell'intreccio, "Il terzo tempo" è
prevedibile. Ma questa prevedibilità non è un suo limite. Al contrario, è la struttura che gli dà forma. Se
si preferisce, è la cornice dentro la quale acquistano senso i caratteri di Samuel e Vincenzo, e anche
quelli dei molti altri personaggi, di primo e di secondo piano. Nessuno di loro è ridotto a banalità.
Nessuno di loro è espediente, sotterfugio di sceneggiatura. Nessuno di loro, ancora, è utilizzato a
freddo per sciogliere l'intrico psicologico in cui Samuel e Vincenzo finiscono per mettersi. Anzi,
ognuno è di per sé una sorta di problema, come accade a tutti noi, nella vita vissuta. La sapienza
narrativa di Artale e dei suoi collaboratori riesce a trasformare questa somma di individualità complesse
in un gruppo di uomini e di donne che giocano la stessa partita, come un insieme. Non c'è moralismo,
nella storia di Samuel e Vincenzo. Neppure ci sono virtuosistici assolo, palesemente programmatici e
perciò stucchevoli. C'è invece la durezza della vita, alleggerita dalle sue dolcezze imprevedibili. E
imprevedibili sono anche il mestiere, l'equilibrio, il gusto di raccontare di Artale. È un film di genere, il
suo, e allo stesso tempo è una prova d'autore, ancora piccola ma densa di promesse. È questa la terza,
ottima notizia.
Roberto Escobar, L’Espresso
Favola sportiva con metafora redentoristica incorporata, Il terzo tempo riesce a prendere forza dai suoi
stessi cliché. L’esordiente Artale, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia che ha
coraggiosamente coprodotto il film insieme alla Filmauro, si dimostra regista lucido e dominante, al di
là del copione caratterizzato da spiccata prevedibilità e numerosi vezzi edificanti, anche perché in grado
d’ot- tenere il meglio da un cast formato da giovani e semisconosciuti talenti. (...) Nei passaggi migliori complici l’arruolamento di Samuel nella locale squadra di rugby e i corpo a corpo morali e fisici scanditi
dall’adrenalinico montaggio- sembra addirittura di riassaporare il mix di gioventù, amore e rabbia tipico
dello storico free cinema dei Ri- chardson, Reisz e Anderson.
Valerio Caprara, Il Mattino
EVENTI COLLATERALI
Bobbio Film Festival 2014
ospiterà
La mostra fotografica
Claudia Cardinale. Eccellenza Italiana al femminile
realizzata con le immagini dell’
Archivio Fotografico del Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca
Nazionale
Grande diva e attrice di straordinario talento, Claudia Cardinale è una figura centrale del cinema italiano
sin dagli anni '60. Ha lavorato con tutti i più grandi maestri del nostro cinema, autori come Luchino
Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell'Orsa), Federico Fellini (8½), Francesco
Maselli, (I Delfini, Gli Indifferenti) Luigi Comencini (La ragazza di Bube), Sergio Leone (C'era una
volta il West), Valerio Zurlini (La ragazza con la valigia), Mauro Bolognini (Il bell'Antonio, La viaccia),
Luigi Zampa (Bello, onesto, emigrato Australia…), Pasquale Squitieri (I guappi, Il prefetto di ferro,
Claretta), Marco Bellocchio( Enrico IV) per citarne alcuni, incarnando sempre con sensibilità ruoli e
personaggi completamente diversi fra loro
La presentazione del libro
Nome d’Arte, Gianni Schicchi
di
Mauro Molinaroli
Nelle pagine di Mauro Molinaroli, Gianni Schicchi è custode di storie e di una memoria mai perduta,
testimone di vicende che negli anni hanno visto marco Bellocchio virare su temi tra loro differenti ma
sempre attuali, dal 1965 ad oggi. Schicchi è la storia, l’alter ego del grande regista.
E’ stato protagonista e comprimario insieme di un universo cinematografico.
La provincia, la borghesia, i simboli, i miti presenti ne I pugni in tasca sono figli di un tempo lontano.
Sorelle Mai il compimento di un percorso lungo una vita, che vede Schicchi, comunque protagonista. E
il fascino e la suggestione dei luoghi, dei personaggi, delle vicende familiari pulsano anche negli anni
Duemila e le strade di Bobbio racchiudono magia, sogno, storie e storia, ma soprattutto vicende che
ruotano attorno alla produzione artistica di questo grande regista internazionale, di cui Gianni è
l’ombra.