AppROfONDIMENTI

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USCIRE DALLA CRISI
CREARE VALORE AZIENDALE
ATTRAVERSO L’INVESTIMENTO
IN CONOSCENZA
AppROfONDIMENTI
di Mario Bertoli
Inserto redazionale allegato al n. 4 - Ottobre 2014 del periodico ANDAF Magazine
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C ra2 studio
USCIRE DALLA CRISI
CREARE VALORE AZIENDALE
ATTRAVERSO L’INVESTIMENTO
IN CONOSCENZA
AppROfONDIMENTI
di Mario Bertoli
Inserto redazionale allegato al n. 4 - Ottobre 2014 del periodico ANDAF Magazine
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USCIRE DALLA CRISI
CREARE VALORE AZIENDALE
ATTRAVERSO L’INVESTIMENTO
IN CONOSCENZA
INDICE
Sommario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
Il contesto economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
Il sistema Italia
Le imprese italiane
La crisi e la gestione del cambiamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
Le cause della crisi-cambiamento
La tecnologia
L’etica
La globalizzazione
I nuovi mercatI
Il fattore tempo
Un sistema di rischi globale
L’evoluzione dell’impresa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
La conoscenza come elemento fondamentale
per l’innovazione e la creazione di valore
Il valore della conoscenza - Gli intangibili e la loro misurazione
La strategia Blue Ocean
Casi di successo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
Apple: l’ecosistema e il Think Different
Tesla Motor: l’IT nel settore automobilistico
Harley Davidson: il branding e lo stile di vita Harley
Cucinelli e Rosso: l’eccellenza del Made in Italy nel mondo della moda
Conclusioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
Sitografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
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MARIO BERTOLI
Durante il corso di laurea in Economia Aziendale all’Università di ferrara ha maturato una esperienza biennale nell’area Finance di Microsoft Italia. Lavora attualmente come consulente in
KPMG Advisory. Studioso delle materie e delle tecniche collegate all’information & communication technology, è un attento osservatore dell’ecosistema della rete e dei fenomeni sociali e di consumo nei quali oggi si rintraccia una rivoluzione che sta radicalmente cambiando l’uomo nel suo modo di vivere, lavorare e pensare.
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Sommario
Questo studio parte dall’analisi del contesto economico in cui le imprese, in particolare
quelle italiane, si trovano oggi a operare e si concentra sulla comprensione dei fattori che
hanno portato all’attuale crisi economica.
Nel percorso successivo, che riguarda il funzionamento delle imprese e come queste
stanno affrontando il difficile contesto economico, ci si sofferma su alcuni importanti aspetti collegati alle strategie, ai modelli organizzativi-gestionali, alle competenze del management, osservando come alcuni fattori (quali ad esempio l’evoluzione tecnologica, la globalizzazione, i cambiamenti degli stili di vita e i rischi connessi a un sistema ipercompetitivo) ne condizionino lo sviluppo o addirittura ne determinino il fallimento.
Un passaggio importante e centrale dell’analisi riguarda la creazione del valore attraverso la conoscenza e, in senso più ampio, l’importanza dell’investimento in capitale intangibile quale elemento fondamentale per il successo delle strategie aziendali.
Il quadro così delineato, si auspica, potrà consentire di individuare possibili cambiamenti nelle strategie, nell’organizzazione, nella ricerca dell’efficienza, nell’approccio ai
mercati e nell’innovazione dei prodotti, dei servizi e dei modelli di business, tracciando
così un nuovo sentiero di sviluppo per affrontare e superare le attuali difficoltà.
A supporto saranno quindi proposti e analizzati alcuni casi di imprese di successo, osservando come le strategie adottate in termini di innovazione legata al capitale intangibile abbiano giocato un ruolo determinante.
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Introduzione
Premessa
Molto probabilmente, tra qualche decennio gli studiosi svolgeranno attente riflessioni sugli accadimenti intervenuti nel trentennio 1980/2010. È molto probabile che le modificazioni di questo periodo saranno descritte con una connotazione “epocale”, ovvero paragonabile ai grandi cambiamenti della storia descritti nelle varie ere.
Cercando di individuare – ora per allora – quali saranno i punti di attenzione sui quali si
soffermeranno gli studiosi, forse ne possiamo identificare uno che assuma una valenza
particolare e che ci consenta di classificare i cambiamenti registrati in questo periodo come straordinari, senza riuscire a trovare nel passato (salvo rare eccezioni) momenti in qualche modo paragonabili ad essi.
L’attenzione si rivolge alla tecnologia, ovvero a come l’innovazione tecnologica ha cambiato il nostro modo di vivere e di agire. In quest’ambito cercheremo di comprendere quali innovazioni offerte dalle nuove tecnologie sono più responsabili di altre.
La conclusione a cui questo studio giunge è che il vero “catalizzatore” del cambiamento
è da ricercarsi in quelle nuove tecnologie che hanno avuto un diretto impatto con la comunicazione e quindi, in senso lato, con la conoscenza.
Gli esempi che possiamo fare sono molti: negli anni 50 un fenomeno come quello rappresentato dall’implosione di un colosso della consulenza come Arthur Andersen
sarebbe stato possibile? Oppure, se la crisi dei subprime fosse scoppiata negli anni
70 avrebbe avuto lo stesso disastroso impatto che ha avuto sulla società mondiale del
Terzo Millennio?
Certamente no. L’elemento che ha dato grande amplificazione a quei fatti non può che
riferirsi alla perfetta efficienza di quel sistema di “comunicazione” che è connaturato nell’era del World Wide Web e del mondo internet, in particolare del “www”(1).
Una comunicazione così efficiente ha determinato un impatto travolgente nel mondo delle
imprese. Basti pensare ai cambiamenti nei modelli di vendita di beni o servizi, alla scomparsa dei vincoli territoriali che prima costituivano un impedimento assoluto per un’impresa che
voleva vendere i suoi prodotti o servizi in aree lontane, ai rischi reputazionali che in un
sistema trasparente come quello offerto da internet assumono una dimensione ben più
(1) Il “www” (nel linguaggio comune: il "Web") è un servizio di internet che permette di navigare e usufruire di un
insieme vastissimo di contenuti (multimediali e non) collegati tra loro attraverso legami (link), e di ulteriori servizi accessibili a tutti gli utenti di internet o soltanto a una parte selezionata di loro.
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importante del passato e, soprattutto, a quella che vorrei definire la digital divide della conoscenza, ovvero del profondo gap che si è venuto a creare tra le imprese capaci di “surfare” nel web e quelle che invece sono rimaste al buono d’ordine su carta chimica.
Un filosofo matematico del 1600, Bernardo De Chartre diceva: «siamo nani sulle spalle
dei giganti», volendo con ciò intendere che lo sviluppo di una generazione dipendeva dalla infinita conoscenza che era stata messa a disposizione dalle generazioni passate.
È certamente ancora così, tuttavia con un distinguo: il futuro delle imprese sarà profondamente diverso da quanto riservato loro in passato.
I successi aziendali delle imprese dei paesi c.d. evoluti (comprese quelle italiane) registrati in passato, talvolta con grande visibilità e impatto internazionali, sono nati in periodi storici connotati da equilibri e logiche economiche differenti da quelli attuali.
Un interessante esempio di questa situazione si può osservare proprio nel Web. Individuando sul motore di ricerca e di analisi Google Trend le parole chiave “Microsoft”, “IBM”
e “Sony” – tre brand molto importanti a livello internazionale – è possibile rilevare che la
diffusione di questi nomi (ovvero la loro notorietà data dalla ricerca di informazioni da parte del popolo di internet) dal 2005 a oggi è sensibilmente diminuita nel tempo, come è
possibile rilevare dal grafico seguente (figura 1):
FIGURA 1 – PAROLE CHIAVE GOOGLE TREND: MICROSOFT, IBM, SONY
ANNI 2005-2014
Fonte: Google Trend
Oggi, i fattori critici di successo del passato non sono più sufficienti; nell’attuale sistema
economico bisogna “pensare globale” e non basta riportare su scala internazionale gli
elementi vincenti del business locale. Chi guida le aziende ha bisogno di sviluppare un
worldwide thinking, di dotarsi di un pensiero manageriale che si alimenti della diversità,
che sappia gestire la complessità per condurre al meglio business di impatto mondiale.
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In un mondo ipercompetitivo, in cui ogni giorno si confrontano sul mercato imprese localizzate a migliaia di chilometri di distanza, nasce l’esigenza di comprendere quali siano le
nuove spinte che permettono alla singola impresa di “primeggiare”, ovvero di uscire dalla
lotta competitiva e di essere riconosciuta dal mercato come “referente” e quindi leader.
La sfida della globalizzazione è stata affrontata in passato focalizzandosi soprattutto sulla delocalizzazione e la costante rincorsa sulla competitività dei costi. Si è potuto poi verificare, nel tempo, che la ricerca assoluta di economie di scala, per poter arrivare al mercato con prezzi competitivi, non si è rivelata – se non temporaneamente – una scelta vincente. Un esempio tra tutti è quello dei trasporti via mare, con la sostituzione da parte degli armatori dei vecchi navigli con navi sempre più grandi per consentire maggiori carichi
e prezzi unitari più bassi. L’effetto che l’enorme crescita delle dimensioni e del numero
delle navi mercantili così determinatosi ha causato è stato opposto. Il nolo di una postpanamax(2), il cui prezzo di mercato negli anni 2008/2009 arrivava a 200.000 dollari al
giorno, oggi è infatti sceso fino a 5.000/10.000 dollari al giorno per la necessità degli armatori di non tenere le navi ferme con costi fissi rilevanti, preferendo quindi accettare livelli di ricavi certamente insufficienti a coprire tali costi. Questo ha determinando un effetto a catena provocando una profonda crisi del settore: attualmente la cantieristica mondiale si trova senza commesse.
Questa lezione insegna che nel quadro attuale bisogna acquisire una nuova mentalità e
ricercare nuove soluzioni, per affrontare la competizione e trarre nuove opportunità proprio dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie. Tutto ciò passa quindi dalla capacità
dell’impresa di innovare, non solo i suoi prodotti ma anche i suoi processi, in particolar
modo i suoi modelli di business.
In che modo poter sviluppare questa capacità? Ma soprattutto come “comperare” la “conoscenza”, ovvero la materia prima dell’innovazione.
Occorre leggere il momento di crisi che stiamo vivendo come una normale manifestazione di questi grandi cambiamenti. E se vogliamo provare a credere che tra i molti futuri possibili per le nostre imprese ne esista anche uno di successo, in questo momento di difficoltà è necessario cogliere una grande opportunità per emergere e proporre
innovazione.
È interessante rilevare come la parola crisi abbia un duplice significato: in greco significa
“scelta”, ed è proprio una scelta quella che le imprese sono obbligate a compiere oggi
per non uscire dal mercato; in cinese si traduce invece con il termine “opportunità”, cioè la
(2) Con la sigla panamax si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio nelle chiuse del canale di pa-
nama. Attualmente queste navi vengono considerate di medie dimensioni. Molte navi mercantili più moderne (portacontainer e petroliere), alla ricerca del miglior rapporto costo/efficienza, sono più grandi e vengono definite postpanamax o super post-panamax.
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possibilità di introdurre novità, l’occasione di sperimentare nuovi schemi e di proporre vere innovazioni radicali, non solo in termini tecnologici ma soprattutto nell’approccio al mercato.
Nelle pagine successive cercheremo di comprendere e interpretare i cambiamenti che
sono intervenuti negli ultimi anni e di dimostrare come l’investimento in conoscenza – e
quindi in capitale umano e intangibile – sia l’elemento principale in grado di migliorare la
capacità di competere delle imprese nei mercati mondiali, sempre più complessi e caratterizzati da discontinuità.
Si cercherà inoltre di comprendere come il Sistema Italia sia in grado di adattarsi a un contesto così mutevole, e come le imprese del nostro paese possano raggiungere quel livello di competitività e innovazione che il mercato attuale richiede.
I casi aziendali che saranno analizzati nelle pagine successive dimostreranno come, attraverso l’investimento strategico in conoscenza, tali imprese abbiano potuto portare
sul mercato innovazione non solo di natura tecnologica di prodotto o di processo, ma
anche di modelli di business in grado di posizionarle in mercati con una miglior difesa
rispetto ai competitor.
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Il contesto economico
Nei primi anni del nuovo millennio sono apparsi con tutta evidenza, in particolare nei paesi c.d. evoluti, alcuni segnali di instabilità economica e di incertezza. La crisi dei mutui subprime, che ha avuto inizio dalla fine del 2006 negli Stati Uniti, ha fornito una concreta prova della debolezza del sistema economico occidentale e di come una parte rilevante dell’economia si poggiava su scambi realizzati attraverso transazioni puramente finanziarie
completamente slegate dall’economia reale, quella cioè dell’industria, della trasformazione, dell’innovazione e dei servizi connessi.
Questa situazione ricorda in qualche modo la famosa “bolla dei tulipani”, forse la prima
grande crisi finanziaria che attorno al 1637 determinò la rovina di moltissime famiglie. Dopo una serie di incredibili incrementi di valore dei bulbi dei tulipani, che determinò un mercato finanziario parallelo – estesosi anche ai risparmi delle famiglie – basato su contratti
del tutto simili agli odierni futures(3), si registrò un crollo del valore di tali contratti di oltre il
90% con gravissime conseguenze nell’economia olandese e non solo.
Come un grande effetto “domino” la crisi dei subprime, inizialmente localizzata negli USA,
si è espansa e ha interessato molti paesi. A partire dal 2008 si è potuto riscontrare un sentimento di generalizzata sfiducia, ancor più alimentata dal fallimento della storica banca
d’affari Lehman Brothers, il salvataggio di Merrill Lynch, la nazionalizzazione (anche in
questo caso un salvataggio) delle due principali società finanziarie specializzate nell’erogazione di mutui fannie Mae e freddie Mac, e il cambio di “stato” di Goldman Sachs
e Morgan Stanley che da banche d’affari si sono dovute convertire in banche commerciali per rientrare in un sistema di regole e di controlli più rigidi.
Gli effetti di questa crisi, hanno colpito in pochi mesi anche il mercato europeo, con una
recessione generalizzata dei principali paesi appartenenti all’UE.
(3) Il futures è un contratto a termine standardizzato per poter essere negoziato facilmente in Borsa. È un contrat-
to uniforme a termine su strumenti finanziari, alla cui scadenza le parti si obbligano a scambiarsi un certo quantitativo di determinate attività finanziarie o di prodotti merce a un prezzo stabilito.
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Il Sistema Italia
La crisi dei mutui subprime e del mercato finanziario in generale ha colpito il nostro paese più intensamente di altri, e ciò per differenti motivazioni. Da una prima analisi del pIL
italiano nel corso del decennio 2001-2011 (figura 2) si evince come l’Italia abbia avuto un
declino del sistema economico già a partire dalla metà del 2007, con il picco del - 6,9%
del primo trimestre 2009 (figura 3).
FIGURA 2 – CRESCITA DEL PIL E CONTRIBUTO DELLE PRINCIPALI COMPONENTI
ANNI 2000-2011 (VARIAZIONI PERCENTUALI)
Fonte: Istat, conti economici nazionali
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FIGURA 3 – ANDAMENTO DEL PIL
Fonte: Istat (dati storici revisionati)
L’onda lunga della crisi internazionale ha cioè colpito il nostro paese in un momento di già
evidente debolezza.
Negli anni a seguire – ovvero dal 2009 fino a oggi – la situazione dell’economia nazionale non è certamente migliorata, e a soffrirne sono in particolare le imprese domestiche di
medie e piccole dimensioni che hanno esaurito, o che stanno per esaurire, le loro risorse con una evidente difficoltà ad avviare i cambiamenti necessari, primo tra tutti l’internazionalizzazione delle loro attività.
TABELLA 1 – FALLIMENTI DELLE IMPRESE ITALIANE – ANNI 2008-2012
Fallimenti imprese Italiane
2012
2011
2010
2009
2008
Tot. Imprese fallite
12.463
12.169
11.286
9.383
7.238
Stima fallimenti dovuti ai ritardi di pagamento
3.860
3.770
3.390
2.350
1.800
Fonte: Elaborazione Ufficio Studi CGIA di Mestre su dati Cribis, Cerved e Intrum Justitia
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pagina 14- e pagina 39 Approfondimenti 2014.qxt_Layout 1 18/09/14 10.37 Pagina 14
Come si evince dalla tabella 1, le difficoltà delle imprese italiane si riflettono sul numero
delle imprese fallite che, dal 2008 al 2012, in Italia sono aumentate del 72%.
Questa elementare analisi dei principali indicatori economici nazionali fa emergere un contesto del Sistema Italia con molteplici difficoltà, dovute non solo a fattori esogeni quali la
crisi dei mercati finanziari, ma anche ad aspetti come la competitività delle imprese e la
flessibilità del mondo del lavoro.
Le imprese italiane
Di seguito sono riportate alcune tabelle riepilogative dei principali dati macroeconomici
italiani:
TABELLA 2 – AZIENDE IN ITALIA PER NUMERO DI DIPENDENTI – ANNI 2008-2010
Classe di addetti
0-9
10-19
20-49
50-249
250 e più
Totale
2010
4.151.104
94,9%
141.434
3,2%
54.801
1,3%
21.309
0,5%
3.495
0,1%
4.372.143
2009
4.156.913
94,8%
144.957
3,3%
56.210
1,3%
21.960
0,5%
3.502
0,1%
4.383.542
2008
4.197.699
94,7%
151.837
3,4%
59.288
1,3%
22.491
0,5%
3.508
0,1%
4.434.823
Fonte: Istat, Statistiche nazionali sulla struttura delle imprese
TABELLA 3 – AZIENDE IN ITALIA PER FATTURATO (IN MILIONI DI €)
Classe
di fatturato
0-0,99
1-1,99
2-4,99 5-9,99
10-19,99
20-49,99 50-199,99 Più di 200 Totale
2010
1.062.431
56.358 35.741 10.218
4.680
2.936
1.194
347
4.372.143
2009
1.077.119
52.781 35.751
9.900
4.181
2.779
1.109
303
4.383.542
2008
1.098.637
56.445 39.262 11.245
4.837
3.079
1.230
307
4.434.823
Fonte: Istat, Statistiche nazionali sulla struttura delle imprese
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TABELLA 4 – CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLE IMPRESE
PER FORME DI INTERNAZIONALIZZAZIONE – ANNO 2010
Profili
di
internazionalizzazione
Produttività Profittabilità Propensione
(MOL/
all'export
(valore
valore
(esportazioni/
aggiunto
fatturato
per addetto aggiunto)
totale)
in migliaia
di euro)
Numero
di
imprese
Numero
di
addetti
Dimensione
media
(numero
medio
di addetti
per impresa)
Controllo estero
4.261
936.749
219,8
103,9
34,8
23,3
MNE
3.133
647.232
206,6
86,0
34,8
39,1
Global
10.467
933.482
89,2
65,5
35,4
47,8
Esportatori
importatori
28.176
992.827
35,2
62,7
40,3
20,9
Importatori di
beni intermedi
13.608
412.095
30,3
60,9
43,6
0,0
Importatori di altri
beni e servizi
7.605
143.983
18,9
54,3
50,0
0,0
Solo esportatori
24.168
323.776
13,4
46,6
41,4
17,7
Totale
91.418
4.390.144
48,0
60,5
40,9
19,0
Fonte: Rapporto ISTAT sulla competitività delle imprese e dei settori
I dati sopra riportati fanno emergere la situazione delle imprese italiane: oltre il 94% delle
aziende ha meno di 10 addetti (tabella 2), chiaro segnale della predominanza delle microimprese nel nostro sistema economico.
Questa caratteristica ci aiuta a comprendere che la debolezza nel competere in un contesto globalizzato è stato uno dei principali fattori della crisi che ha colpito l’Italia. Con la
globalizzazione l’estrema concorrenza ha difatti superato le barriere logistiche rendendo
ad esempio possibile, per un’impresa del Far East, vendere nel nostro mercato prodotti
di livello qualitativo elevato a prezzi sensibilmente più bassi rispetto a quelli delle imprese italiane. Le limitate dimensioni aziendali non hanno peraltro consentito di investire in
innovazione di prodotto e di servizio, e non hanno permesso di disporre di quei capitali – sia economici che umani – necessari per competere con le grandi imprese occidentali (USA, UK, Germania) e orientali (Cina, Corea del Sud, Giappone).
Non avendo quindi la possibilità di affacciarsi sui mercati internazionali, e in un momento di forte recessione del mercato interno (-7% circa dal 2008 a oggi), molte imprese italiane non sono state in grado di reagire e di porre in essere i necessari rimedi.
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La crisi e la gestione del cambiamento
Le spinte evolutive e competitive del mondo economico hanno portato il mercato a rapidi
cambiamenti. Le “regole del gioco” valide oggi sono diverse da quelle che hanno portato le
aziende al successo nel passato, e cambieranno ancora per le imprese del futuro.
I cambiamenti a cui il mondo ha assistito negli ultimi anni hanno un elemento comune,
e cioè la tecnologia.
L’impatto dirompente che questa ha avuto e che ha in modo sempre più marcato sul
mondo di oggi è visibile in ogni circostanza. Dagli strumenti di lavoro (il computer, lo
smartphone, il tablet) alla comunicazione (Skype e Cisco WebEx - videoconferenza)
ai viaggi (Trivago e Booking - prenotazioni online) al tempo libero (MySky, Wellness Technogym - TV on demand, macchinari di fitness). Ma è proprio la tecnologia che è diventata causa di discontinuità, cioè di veloci cambiamenti non controllabili dall’impresa. Da elemento distintivo, in grado di permettere di differenziarsi alle aziende fortemente votate alla sperimentazione in questi ambiti, in breve tempo la tecnologia è diventata un elemento necessario e, quindi, un’imposizione esterna.
La discontinuità ha portato ai vertici dell’impresa nuovi fattori di complessità, che dovranno
quindi essere inseriti nei processi aziendali, in un modello di cambiamento costante.
Inoltre, l’evoluzione tecnologica ha cambiato il mercato in cui le imprese si confrontano, differenziando le preferenze dei consumatori e, di conseguenza, gli stili di vita e i
modelli di business.
Le organizzazioni, soprattutto quelle tradizionali e ancor più quelle familiari, hanno manifestato forti debolezze nella capacità di adeguarsi. Colpa certamente di un tipo di cultura, ovvero di uno stile di conduzione delle imprese in cui la responsabilità del titolare toccava tutti gli aspetti dell’attività, con un apporto di tipo manageriale-consulenziale molto limitato.
In altre parole più autarchico e con minore (positiva) contaminazione dall’esterno.
Il fattore tempo, ovvero la necessità di modificare le organizzazioni e adattarle in tempi brevi al mutato contesto, certamente ha introdotto fattori di complessità e, quindi, di
inefficienza e di inefficacia.
Anche nelle organizzazioni italiane più complesse, con l’aggravante di alcune altre motivazioni, si è giunti alle stesse inefficienze.
Le cause che hanno concorso a peggiorare le cose nel nostro paese sono da ricercarsi (i) nei problemi connessi alla struttura (e rigidità) del lavoro, in particolare per la limitata flessibilità; (ii) nella forte resistenza al cambiamento, data certamente da un fattore culturale; (iii) nella limitata “contaminazione” delle competenze manageriali e tecniche; (iv) nel fattore dimensionale precedentemente citato. Tutti fattori che hanno ritardato le azioni necessarie per affrontare un mercato non semplice e con una generale
contrazione dei consumi.
La crisi economica ha colpito in maniera differente i vari paesi, e in questo contesto si sono aperte grandi opportunità per le aziende italiane culturalmente più abituate (grazie al
loro management) a operare in un contesto internazionale, capaci di esplorare i mercati
globali e poi di emergere.
È interessante notare come alcuni analisti internazionali approcciano al nostro paese con
due angoli di visuale diversi: l’Italia e gli italiani.
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Mentre agli investitori esteri appaiono evidenti le difficoltà connesse a insediamenti industriali nel nostro paese, determinate dalle condizioni politiche (corruzione, burocrazia, fiscalità, incertezza del diritto), essi hanno invece sviluppato un forte interesse per la
vendita di prodotti e servizi ai consumatori e ai risparmiatori italiani.
Le aziende che per motivi strutturali, di prodotto, culturali e organizzativi erano invece
condizionate all’operatività domestica, tanto più se operavano in beni o servizi fungibili,
hanno inevitabilmente accusato più di altre questa difficile congiuntura.
possiamo quindi già identificare una serie di condizionamenti che costituiscono un ostacolo al successo dell’impresa:
- inadeguata conoscenza delle lingue straniere;
- strutture organizzative gerarchiche centrate sul capo azienda;
- limitata “contaminazione culturale” con soggetti esterni all’impresa;
- produzione di beni o servizi fungibili e quindi relazioni commerciali aggredibili dai paesi
con basso costo del lavoro;
- limitazioni tecniche o di altro tipo nell’accesso ai mercati cosiddetti “virtuali”;
- modelli di controllo di gestione e di pianificazione non efficaci e intempestivi;
- scarsi mezzi propri e ricorso in maniera rilevante a capitale di terzi, quasi esclusivamente bancario;
- società che operano in segmenti di mercato nei quali non è garantito il rispetto delle norme e degli usi commerciali (imprese che offrono prodotti o servizi alla p.A., es. la Sanità).
Il mutato contesto nel quale le imprese oggi operano ha determinato un aumento significativo dei rischi, in particolare quelli operativi, strategici, finanziari e reputazionali.
È da evidenziare che la comunicazione, macchina perfetta che oggi è a disposizione di
tutti e a basso costo, ha aumentato enormemente proprio i rischi reputazionali. Infatti,
l’effetto domino derivante da un sistema di comunicazione efficiente, rende meno difendibili le posizioni acquisite, diminuendo e talvolta azzerando le rendite di posizione e
rendendo più corti i cicli di vita dei prodotti e dei servizi.
Le cause della crisi-cambiamento
La tecnologia
I fattori del cambiamento sono quindi molteplici, a partire dalla tecnologia che ha avuto
un ruolo chiave nello sviluppo e nel cambiamento dell’economia moderna.
L’evoluzione tecnologica è infatti allo stesso tempo un rischio e una forte opportunità.
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I paesi orientali (con Cina e Corea del Sud in testa) hanno avuto una crescita estremamente forte nell’ultimo decennio, impostando la loro economia per favorire la produzione di quei beni tecnologici che stanno dominando le vendite mondiali. La differenza è netta se prendiamo in esame il Giappone, che negli anni 80 e 90 guidava il panorama tecnologico mondiale. Il passaggio di testimone, dovuto principalmente all’errata lettura delle
mutate richieste del mercato e del cambiamento nello stile di vita dei consumatori, è
stato molto veloce.
Il livello tecnologico dei prodotti giapponesi non è inferiore a quello dei prodotti coreani
o cinesi, ma non incontrano più i gusti e le esigenze del mercato. È interessante notare
come il marchio Sony, in passato visto come il Trend Setter del mercato tecnologico,
oggi sia stato sorpassato in quasi tutti i segmenti dal marchio Samsung, capace di competere ad alti livelli su molti mercati.
Un profilo di pericolosità, soprattutto per le imprese italiane che rispetto a quelle di altri
paesi – anche europei – segnano un gap nell’impiego delle nuove tecnologie, è dato dal
rischio che nel tempo il ritardo tecnologico possa aumentare anziché diminuire. La progressione tecnologica infatti consente, virtuosamente, di “capitalizzare” conoscenza
nei propri percorsi di sviluppo.
L’etica
Un’altra sfida per le imprese, nuova ed estremamente importante, dovuta sia ai cambiamenti avvenuti nella cultura dei paesi occidentali che alla maggiore velocità con cui le
informazioni vengono trasmesse, è l’Etica.
Oggi i comportamenti cosiddetti “etici” sono richiesti dal mercato, perché sono necessari a evitare le ripercussioni e le perdite dovute agli scandali (vedi il caso Nike con produzione a basso costo nel sud-est asiatico legata allo sfruttamento del lavoro minorile; il caso Apple con l’aumento dei suicidi degli operai impegnati nelle fabbriche foxconn, dove si producevano i prodotti dell’azienda). I rischi reputazionali sono estremamente delicati, e in grado di portare in breve tempo al fallimento imprese ritenute solide.
La globalizzazione
La globalizzazione è un altro concetto su cui riflettere per comprendere le cause della
crisi che l’economia moderna sta attraversando.
Oggi le produzioni sono divenute mondiali, con gli stabilimenti spostati nei paesi in cui
si ottengono le migliori condizioni per lo svolgimento della propria attività. Un esempio in tal senso è la produzione dell’aereo Boeing 787 (figura 4), che ha coinvolto
diverse nazioni tra cui Giappone, Corea del Sud, Australia, Italia, USA, francia,
Gran Bretagna, Canada e Svezia.
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FIGURA 4 – PARTNER DI PRODUZIONE DEL BOEING 787
Fonte: Sito Boeing
Questo esempio dimostra l’estrema mobilità e flessibilità delle aziende globali, due caratteristiche che permettono loro di ricercare costantemente, in tutto il mondo, le migliori
condizioni di sviluppo, produzione e ricerca. Anche in questo caso, però, la globalizzazione offre delle straordinarie opportunità associate a dei forti rischi. La gestione di un’impresa delocalizzata costringe infatti a un’attenta pianificazione e a una costante attenzione al controllo di gestione, oltre all’introduzione di una nuova serie di variabili da gestire
come ad esempio il tasso di cambio, le differenze nelle legislazioni lavorative, la logistica,
la progettazione integrata e ulteriori complessità che solo delle compagnie strutturate e
votate alla gestione del cambiamento possono gestire.
I nuovi mercati
I nuovi mercati, che si sono venuti a creare anche per merito della globalizzazione, permettono a qualunque azienda di raggiungere i propri potenziali clienti a qualunque latitudine. Essere presenti in questi sbocchi commerciali richiede due requisiti fondamentali: un prodotto “mondiale” o fortemente tailored e una struttura di vendita capace di comprendere le esigenze – e quindi le richieste – di un mercato diverso da quello iniziale.
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Anche attraverso la realtà dei distretti industriali, il Made in Italy è stato capace di confrontarsi con la competizione mondiale – e quindi con imprese di grandi dimensioni e
con strutture molto complesse e articolate – grazie a meccanismi di collaborazione e
sinergia.
Oggi le necessità sono cambiate e l’evoluzione non può più limitarsi al tipo “incrementale”, tipica dei distretti italiani, ma deve diventare sempre più radicale, in grado
cioè di cambiare, ripensare e anche stravolgere in breve tempo il prodotto o il servizio
offerto. In questo momento di forte turbolenza è questa l’innovazione capace di modificare gli equilibri del mercato e permettere il successo di un’impresa.
Anche un altro cambiamento sarà richiesto alle aziende italiane per poter affrontare al
meglio la competizione globale: aumentare le proprie dimensioni, poiché per affermarsi a livello mondiale è importante non essere troppo piccoli.
Le relazioni internazionali sono diventate un elemento fondamentale per la crescita nel
contesto così descritto. Crescita non significa necessariamente portare la propria struttura organizzativa in tutti i paesi in cui si vuole essere presenti. Riuscire a instaurare
collaborazioni con partner esteri diventa quindi uno dei principali fattori di successo.
Esempi di strategia di partnership sono le collaborazioni che le grandi case automobilistiche tedesche hanno sviluppato in Cina: il gruppo Daimler (Mercedes-Benz) e la
cinese BAIC, BMW e Brilliance (che hanno il marchio comune Zinoro), e il gruppo Volkswagen che grazie alla joint venture con fAW (dal 1991) ha visto il mercato cinese diventare uno dei più importanti con oltre 3 milioni di vetture consegnate nel 2013 (fonte: Milano finanza).
Il giusto equilibrio tra presidio diretto e accordi commerciali è un nuovo punto di analisi che le imprese moderne devono sempre avere presente per cogliere le nuove opportunità. Il cambiamento degli equilibri internazionali mostra inoltra che il futuro economico è fortemente proiettato verso i nuovi consumatori (BRICS) piuttosto che nei mercati ormai stabili e saturi (USA - EU).
I cinque paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) hanno visto crescere il
proprio pIL del 99% dal 2000 a oggi (contro il 34% dei paesi che compongono il G7) e
rappresentano oltre il 42% della popolazione mondiale (ONU - World Population
Prospects, 2012). Essere presenti in questi mercati diventerà essenziale per poter continuare il percorso di crescita che i mercati occidentali non sono più in grado di garantire.
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Il fattore tempo
Il fattore tempo diventa critico per riuscire a emergere. La domanda cambia velocemente, e
l’impresa deve avere una flessibilità che gli permetta di adattarsi alle nuove esigenze.
La necessità di essere i “primi” sul mercato è oggi ancor più importante che in passato. Non
uscire nei tempi richiesti significa perdita in termini di vendite (i clienti sceglieranno altri prodotti), ma anche verso gli investitori. A tal proposito, un esempio è quello legato alla telefonia
mobile. I due principali produttori del 2009, Blackberry (in precedenza Research in Motion) e
Nokia, non sono riusciti ad arrivare sul mercato nei tempi richiesti dal mondo tecnologico. In 4
anni questi due giganti della telefonia non solo hanno perso la leadership, ma hanno creato
enormi perdite monetarie in un mercato che ha visto Apple prima e Samsung successivamente realizzare profitti mai visti prima in questo settore. L’azienda canadese ha quasi dimezzato
la forza lavoro per riuscire a rimanere competitiva in termini di costi, mentre quella finlandese
è stata acquisita dalla società Microsoft per un valore di 5,44 miliardi di euro.
Chi ha saputo leggere meglio di tutti il mercato sono stati dunque Apple e Samsung. Il caso
Apple, analizzato successivamente, mostrerà la capacità di innovazione legata alla conoscenza. Samsung, in modo differente ma altrettanto efficace, ha invece perseguito una strategia di miglioramento legata al time to market, andando contro il paradigma che vede
l’outsourcing come sinonimo di azienda snella e veloce. Ha invece aumentato l’integrazione
verticale su quei settori ritenuti strategici, come la produzione finale del prodotto e della componentistica a maggior complessità, ottenendo quindi valore aggiunto. Questa scelta, unitamente a una macchina organizzativa estremamente efficiente, gli ha permesso di accorciare i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti e quindi di integrare nei propri progetti quelle caratteristiche che il mercato richiede prima delle imprese competitor.
TABELLA 5 – VENDITE MONDIALI DI SMARTPHONE
NEL 3° TRIMESTRE 2010-2009 (IN MILIONI DI UNITÀ)
Società
Unità 3Q
2010
Market Share
3Q 2010
Unità 3Q
2009
Market Share
3Q 2009
Variazione Unità
Year-Over-Year
Nokia
26,5
32,7%
16,4
38,3%
61,6%
Apple
14,1
17,4%
7,4
17,3%
90,5%
Research in
12,4
Motion (Blackberry)
15,3%
8,5
19,9%
45,9%
Samsung
7,2
8,9%
1,3
3,0%
453,8%
HTC
5,8
7,2%
2,1
4,9%
176,2%
Altri
15,1
18,6%
7,1
16,6%
112,7%
Totale
81,1
-
42,8
-
89,5%
Fonte: IDC
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TABELLA 6 – VENDITE MONDIALI DI SMARTPHONE
NEL 3° TRIMESTRE 2013-2012 (IN MILIONI DI UNITÀ)
Società
Unità 3Q
2013
Market Share
3Q 2013
Unità 3Q
2012
Market Share
3Q 2012
Variazione Unità
Year-Over-Year
Samsung
80,4
32,1%
55,1
32,1%
45,9%
Apple
30,3
12,1%
24,6
14,3%
23,2%
Lenovo
12,9
5,1%
7,0
4,1%
84,3%
LG
12,1
4,8%
7,0
4,1%
72,9%
Huawei
11,7
4,7%
7,8
4,5%
50,0%
Altri
102,9
41,1%
70,2
40,9%
46,6%
Totale
250,3
-
171,7
-
45,8%
Fonte: IDC
Un sistema di rischi globale
La scelta del business e della strategia che permetta di raggiungere i propri obiettivi diventa quindi fondamentale, soprattutto alla luce di tutti gli aspetti descritti fino ad ora. È quindi
da questo ultimo punto che nasce la volontà di descrivere quelli che possono essere alcuni elementi strategici in grado di aiutare le imprese – particolarmente nel contesto italiano –
a emergere anche nei mercati internazionali, a competere con le altre aziende potendo partire da una base solida come il Made in Italy. Ancora oggi sinonimo di eccellenza, portare
questo concetto a nuovi mercati ancora inesplorati costituisce la mossa vincente.
L’evoluzione dell’impresa
La conoscenza come elemento fondamentale per l’innovazione e la creazione
di valore
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Il XX secolo, caratterizzato dalla crescente importanza della scienza, della tecnologia e dell’innovazione, ha condotto a utilizzare varie espressioni per descrivere le società e le economie
più sviluppate, ad esempio “società dell’informazione”, “economia della conoscenza”. Tali
espressioni mettono al centro dei processi sociali ed economici la capacità di produrre, gestire, distribuire e utilizzare le conoscenze, non soltanto e non necessariamente di tipo scientifico e tecnologico. In tale contesto diviene centrale il processo dell’apprendimento:
- know what, avere la conoscenza dei fatti rilevanti, che può essere suddivisa in unità dette bit o informazione;
- know why, cioè avere la conoscenza scientifica delle leggi e dei principi della natura, della
mente umana e della società (conoscenza fondamentale per lo sviluppo tecnologico in alcuni settori, come l’industria chimica, quella elettronica, quella relativa alle biotecnologie);
- know how, avere quindi le competenze pratiche per fare qualcosa;
- know who, sapere chi fa cosa. Cioè essere informati su chi è in grado di risolvere specifici
problemi, il che porta la società a stringere relazioni sociali con gli “esperti” per poter accedere alle competenze e alle conoscenze specifiche, e utilizzarle in maniera efficiente.
L’attività a cui si fa più frequentemente riferimento come generatrice di nuove conoscenze, e
dunque di nuove tecnologie, è la “ricerca e sviluppo” (R&S), definita come quel complesso di
lavori creativi intrapresi in modo sistematico sia per accrescere l’insieme delle conoscenze
(dell’uomo, della cultura, della società), sia per utilizzare tali conoscenze per nuove applicazioni. Ma limitare la creazione di conoscenza all’R&S non rappresenta la realtà che si riscontra
nelle imprese e nella società in genere. Una società di consulenza non ha alcun reparto o divisione di ricerca e sviluppo, eppure la ricchezza che crea deriva interamente dalla conoscenza, cioè dalla capacità di trasformare le competenze singole, e dell’organizzazione nel suo
complesso, in un bene intangibile che il mercato riconosce, valorizza e richiede. Nell’ambito
degli studi economici e aziendali è particolarmente interessante il lavoro svolto sul processo di creazione della conoscenza, e delle connessioni tra conoscenza tacita e conoscenza esplicita (Nonaka, Takeuchi, 1995).
I processi generativi di conoscenza sono riconducibili a una combinazione tra le due tipologie di conoscenza (figura 5):
- Socializzazione: la conoscenza tacita viene trasmessa faccia a faccia, per affiancamento.
- Esternalizzazione: la conversione di conoscenza tacita in esplicita, condivisa nell’organizzazione, avviene con rapporti peer to peer.
- Combinazione: diverse conoscenze esplicite vengono integrate per ottenere un insieme più ricco.
- Interiorizzazione: una regola prima formale diviene routine.
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FIGURA 5 – IL PROCESSO DI CREAZIONE DELLA CONOSCENZA
Fonte: Nonaka, I., Hirokata, T., The Knowledge Creating Company
In un mondo in continua evoluzione, l’obiettivo primario in un’azienda diventa dunque l’innovazione attraverso la creazione di nuova conoscenza. Questo concetto così spesso ripetuto e talvolta abusato è la chiave di volta per affrontare un mercato in evoluzione e
dai cambiamenti sempre più rapidi. Come può, quindi, un’azienda impostare la propria strategia per affrontare le sfide del futuro?
Il concetto di innovazione è inteso con un’ampia accezione, non solo tecnologica. Le
aziende ricercano innovazione strategica, tecnica, organizzativa, di processo, di prodotto, di marketing, di mercato, di modelli business, e la lista potrebbe allungarsi ancora andando ad analizzare in profondità le singole imprese. E ancor più diventa essenziale sapere trasformare la conoscenza acquisita in innovazione, in valore aggiunto.
Esempio di questo aspetto è il MIT, il Massachusetts Institute of Technology, che non solo permette agli studenti di dedicarsi a progetti finanziati da società, ma li finanzia direttamente aiutandoli a creare nuove imprese. Esemplificativa è la mission inserita nella home
page di questa Università: «The mission of MIT is to advance knowledge and educate students in science, technology and other areas of scholarship that will best serve the nation and the world in the 21st century».
Innovazione non significa solo creare e depositare il portafoglio brevetti. Avere migliaia
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di brevetti non significa necessariamente creare innovazione. IBM è il più grande recorder di brevetti da 20 anni a questa parte con oltre 67mila registrazioni a partire dal 1993
(fonte: Il Sole 24 Ore), ma ciò non significa necessariamente che sia l’impresa più innovativa al mondo. Il saper trasformare il brevetto in un prodotto, la concretezza di fare di un’idea un servizio che sia in grado di cambiare il mercato o assolvere a nuove esigenze richieste dalla società, è il punto cruciale per creare valore.
particolare attenzione deve essere posta nella differenza, che si intende sottolineare, tra
i concetti di innovazione e di ricerca, termine anch’esso spesso utilizzato come soluzione proposta per migliorare la competitività di un’impresa e – a livello macroeconomico –
dell’economia di un paese.
Nella figura 6 sono presenti due elenchi che descrivono le principali differenze che si riscontrano dal confronto delle due nozioni.
FIGURA 6 – DALLA RICERCA ALL’INNOVAZIONE
Fonte: TWG Consulting
Il passaggio verso una strategia che vede come centrale l’innovazione sposta l’attenzione
su diversi concetti: dalla creazione di valore legata alla produzione si passa al valore creato attraverso l’innovazione. Le imprese di successo non sono più concentrate sulla trasformazione fisica del prodotto, ma nel trasformare in prodotto la conoscenza, comprata o creata e
valorizzata. Il vantaggio competitivo non si viene quindi più a creare attraverso la massa critica, l’economia di scala, ma attraverso la cosiddetta economia di scopo, cioè la capacità di utilizzare il know how (la conoscenza stessa) all’interno dell’azienda per produrre innovazione.
Come già descritto sopra il fattore tempo, e quindi la reattività al mutare del mercato, diventa
un elemento cruciale. E in un contesto così diverso, l’impresa dovrà confrontarsi con un cliente più
evoluto, più informato, che deve essere considerato da subito come punto fondamentale
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nell’elaborazione della strategia aziendale. In tutto questo si introduce l’elemento più dirompente dell’ultimo ventennio, e cioè la comunicazione. Grazie all’introduzione del web nella vita di tutti i giorni, l’innovazione deve partire dalla rete, intesa come nuova struttura presente all’interno dell’organizzazione aziendale da cui poter attingere e reperire quella conoscenza in
grado di rendere l’impresa una best practice, un concreto esempio di successo.
Il valore della conoscenza - Gli intangibili e la loro misurazione
Un aspetto importante nell’analisi della potenzialità di crescita economica di una impresa o di un intero paese riguarda il ruolo dei beni intangibili.
Nel confermare l’enfasi sul ruolo degli investimenti tecnologici (software e beni ad alto contenuto tecnologico) come motore della crescita economica, occorre evidenziare che poca attenzione è stata invece dedicata ad altri tipi di beni intangibili: la spesa in R&S, così come il software, sono infatti parte di una categoria più ampia di beni immateriali.
per intangibili si intendendo infatti molteplici aspetti, quali la capacità di attrarre talenti, il
clima aziendale, le “antenne” (cioè la capacità di leggere il mercato e i cambiamenti), l’organizzazione, la delocalizzazione, i sistemi premianti, i sistemi direzionali e di controllo, la
corporate governance, la capacità di identificare e misurare i rischi.
Il tema degli intangibili deve anche essere declinato, oltre che nella loro ricerca e disponibilità, anche nella loro misurazione e nella conseguente contabilizzazione.
posto, infatti, che sono proprio queste attività immateriali quelle che nel nostro sistema
possono fare la differenza, non è secondario osservare che da un fattore connesso alle
regole contabili può determinarsi un potenziale pericolo per le imprese meno patrimonializzate, quali ad esempio quelle italiane. Sia nei principi contabili italiani che in quelli
internazionali (IAS-IfRS), le spese connesse al “capitale intellettuale” possono difatti essere tendenzialmente capitalizzate nei bilanci aziendali solo se connesse ad acquisti
esterni. Le spese interne per accrescere il capitale intellettuale possono invece essere
capitalizzate solo in pochi casi. Ecco che anche da questo punto di vista si realizza una
differenza in termini di competitività tra imprese meglio dotate patrimonialmente, ovvero che possono comperare brevetti, mettere a disposizione manager qualificati, progetti e idee, e aziende che invece non dispongono dei mezzi necessari per farlo.
Altro grande tema è la misurazione del valore del capitale intellettuale. Sono purtroppo
poche le imprese italiane che si sono dotate dei necessari strumenti e metodologie utili
a misurare nel tempo il valore delle immobilizzazioni immateriali, per considerare – se occorre anche extracontabilmente – come la crescita di valore di una impresa possa essere determinata dalla crescita del valore del suo capitale intellettuale(4).
(4) Cfr. Visualising Intangibles: Measuring and Reporting in the Knowledge Economy, Stefano Zambon e Giusep-
pe Marzo; in questo volume viene dato spazio a nuove prospettive che ampliano la portata e la profondità dell'indagine sull’importanza e sulla misurazione dei beni intangibili, anche aprendo metodi innovativi e opportunità per
la loro misurazione.
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Nasce quindi la necessità di comprendere quali siano i motori in grado di stimolare l’impresa al cambiamento, all’innovazione. Di seguito viene inserita una lista delle principali categorie che rientrano nella definizione degli Intangibles, che sono parte integrante di ogni
impresa e che quindi sono fondamentali per portare le aziende al successo sul mercato:
il Capitale umano: la vera ricchezza di ogni impresa è data dalle persone di cui è formata.
Il Know How: le imprese, in particolare quelle coinvolte in produzione/svolgimento di
prodotti/attività ad alto valore aggiunto, sviluppano al proprio interno il saper fare dato dal
clima aziendale, dalle procedure, dall’interazione delle persone all’interno che sono un carattere distintivo in grado di far distinguere un’azienda dall’altra in maniera preponderante.
Il Software: sempre più le imprese sviluppano al proprio interno delle reti informative complesse, custom, in grado di assecondare le necessità peculiari dell’azienda. Questi sviluppi spesso non hanno una possibilità di sbocco sul mercato.
L’Organizzazione Aziendale: quale ad esempio il Sistema Relazionale (customer list,
customer loyalty, customer satisfaction, reputazione), le procedure interne, l’automazione e l’accuratezza del workflow.
Come anticipato nel 2003 dal prof. Zambon, in un’intervista al Sole 24 Ore: «Siamo nell’economia della conoscenza e abbiamo superato il concetto di scala produttiva; è oggi
riconosciuto che le risorse intangibili sono da considerare come le principali leve di
creazione del valore aziendale».
L’aumento dell’importanza del capitale intangibile è indicato dal grafico in basso (figura 7), che dimostra come negli Stati Uniti il valore degli investimenti in intangibili e tangibili sia negli ultimi anni paritario, a conferma della necessità di valorizzare e incrementare il capitale intangibile a disposizione delle imprese.
FIGURA 7 – INVESTIMENTI US
Fonte: Christopher Mackie, Rapporteur, 2009. Intangible Assets: Measuring and Enhancing Their Contribution
to Corporate Value and Economic Growth: Summary of a Workshop
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Ulteriore spunto di riflessione viene offerto dal grafico presente nella figura 8, che mostra l’evoluzione in 25 anni del valore assegnato dal mercato azionario americano alle
componenti intangibili: dal 1975, in cui il rapporto era 83% di valori tangibili e 17% intangibili, nel 2010 si è giunti a un’inversione con il 20% di valore assegnato a beni tangibili e l’80% a beni intangibili.
FIGURA 8 – COMPONENTI DI VALORE DI MERCATO DELLE S&P 500 US
Fonte: Ocean Tomo
Il saper trasformare questo capitale intangibile in valore è quindi la sfida da affrontare: tradurre il sapere in saper fare, l’idea in prodotto, la strategia in azione è il vero obiettivo.
Diventa a questo punto importante fornire degli strumenti metodologici in grado di aiutare gli stakeholder di un’impresa a raggiungere tale obiettivo.
La Strategia Blue Ocean
Cosa dovrebbe fare un imprenditore (o il management) per trasformare l’impresa in un’azienda di successo? Come creare quella conoscenza in grado di sviluppare l’innovazione di cui ogni impresa necessita per raggiungere il successo sul mercato?
Una possibile traduzione metodologica, e quindi una risposta in grado di essere di supporto e di stimolo, è la cosiddetta Strategia Blue Ocean.
Questa teoria, elaborata e descritta nel libro “Blue Ocean Strategy - how to create uncontested market space and make the competition irrelevant”, è stata illustrata da W. Chan
Kim e Renée Mauborgne, rispettivamente condirettore e professore di Strategia della Business School dell’INSEAD.
Obiettivo di questa strategia è di fornire alle imprese gli strumenti metodologici per affron-
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tare un mercato in continua evoluzione, in cui le aziende si trovano – utilizzando un’analogia ben precisa – in un oceano sterminato in cui devono essere in grado di sopravvivere. La strategia disegna due diversi scenari in cui le aziende si trovano: l’Oceano Rosso,
cioè un mercato caratterizzato da una competizione estremamente forte in cui è difficile
sopravvivere e in cui i predatori si contendono uno spazio relativamente ristretto; l’Oceano Blu, a cui le imprese devono aspirare, uno spazio esteso e incontaminato in cui si
può arrivare solo attraverso la creazione di una nuova domanda in grado di aprire all’azienda nuovi mercati e spazi liberi dalla concorrenza (figura 9).
FIGURA 9 – OCEANO ROSSO / OCEANO BLU
RED OCEAN
BLUE OCEAN
Existing market
Fierce fight for market segments
Fear of customer loss
New uncontested market
No competitor
Exotic pioneer in a new market
Fonte: Strategia Oceano Blu (Kim, Mauborgne)
La teoria elaborata da Kim e Mauborgne prevede dunque un cambio radicale di vision,
non più incentrata sulla competizione ma sull’innovazione.
I principali concetti espressi in questo pensiero, in grado di cambiare il pensiero organizzativo, sono:
- non competere in un mercato pre-esistente, ma crearne di nuovi non considerati e quindi incontrastati;
- non cercare di superare la concorrenza, ma renderla non presente e quindi irrilevante;
- non limitarsi a soddisfare la domanda di mercati esistenti, ma crearne una nuova attraverso il soddisfacimento di una nuova esigenza;
- non definire gli obiettivi strategici in termini di differenziazione o di costo più basso (porter, 1979), ma perseguire con successo la ricerca contemporanea sia della differenziazione che del costo più basso.
La teoria Blue Ocean presenta quindi le fasi del processo strategico alla base di una
corretta definizione della strategia:
1. la descrizione (creazione, strumenti e framework analitici);
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2. la definizione (dei confini di mercato, con focus sul quadro generale e non sui numeri,
e l’estensione oltre la domanda esistente);
3. l’esecuzione (il superamento degli ostacoli organizzativi e l’integrazione delle modalità di attuazione).
Casi di successo
Apple: l’ecosistema e il Think Different
Negli ultimi anni Apple è stata forse la società più rappresentativa di un fondamentale cambiamento di strategia, perché non ha puntato sull’innovazione tecnologica pura come
normalmente si rileva nei mercati di elettronica di consumo e informatica. Apple ha anticipato, soddisfatto e addirittura creato dei bisogni nuovi.
E per farlo è ripartita dalle persone.
A seguito di una profonda crisi che la portò vicina al fallimento, il 21 dicembre 1996 Apple invertì la rotta ricercando all’esterno quelle competenze che non era stata più in grado di valorizzare al proprio interno. Acquistò quindi la società NEXT ma, soprattutto, assunse nuovamente come CEO Steve Jobs, il fondatore della Apple licenziato a seguito di
conflitti con il management precedente.
L’allora Apple Computer non si concentrò solo sui pC, un mercato in cui aveva un brand
affermato ma che era caratterizzato da una competizione molto forte sia sul mercato hardware che software.
È infatti in questo periodo che viene lanciato sul mercato un dispositivo rivoluzionario, che
diventerà sinonimo della tipologia di prodotto stesso: l’ipod. Era il 2001.
Il mercato reagisce in maniera sorprendente e il prodotto ipod diventa un oggetto di culto,
a cui viene affiancata la componente che renderà sempre più stretto il legame tra la società e il consumatore finale: iTunes, cioè il software che permette di gestire, ma soprattutto
acquistare, la musica attraverso internet. Nel 2006, a meno di 3 anni dal lancio della piattaforma di acquisto digitale di brani musicali, viene acquistato il 1.000.000.000 brano.
Apple prosegue nella strategia di ricerca di nuovi mercati non solo differenziando l’offerta di ipod (a oggi sono stati lanciati l’ipod Classic, Nano, Mini e Touch), ma soprattutto
lanciando i prodotti da cui ancora oggi derivano i principali profitti della società: l’iphone
prima e l’ipad successivamente.
Questi due prodotti trasformano completamente il mercato della telefonia prima (Apple
con un solo dispositivo è oggi il secondo produttore di smartphone al mondo, con un prezzo medio di vendita di circa 600$, nettamente più elevato rispetto a qualsiasi competitor)
e quello dell’informatica poi (se i tablet ipad fossero considerati una nuova categoria di
pC, Apple sarebbe oggi il maggior produttore mondiale di personal computer).
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La grande intuizione della Apple è stata creare una serie di prodotti legati l’uno con l’altro: l’obiettivo non era quello di fornire al consumatore il prodotto più potente, quello
con più funzionalità o il più innovativo in termini esclusivamente tecnologici. Il vero obiettivo era quello di fornire un’esperienza comune a tutti i dispositivi Apple, che fosse di semplice utilizzo e al contempo capace di offrire funzionalità sempre più potenti. La Apple
ha dunque creato un nuovo mercato, che da solo ha generato nel 2013 oltre 10 miliardi
di dollari di fatturato. La funzionalità di cui sopra è l’App Store, cioè quel negozio digitale, evoluzione di iTunes, non più specializzato nella musica ma caratterizzato dalle cosiddette App, quelle applicazioni che possono essere installate con pochi clic e che permettono di accedere ad applicativi e funzionalità non presenti sul dispositivo. Apple ha così
“acquistato” conoscenza (le App stesse), cioè le competenze che non possedeva internamente e che hanno migliorato il proprio prodotto.
Apple fornisce gli strumenti, cioè i kit di sviluppo e la propria piattaforma, a qualunque sviluppatore: l’unico vincolo è il possesso del prodotto stesso (iphone, ipad, Mac). In questo modo la società genera una ricchezza condivisa tra la Apple stessa e gli sviluppatori, poiché il 30% dei ricavi derivanti da App rimangono ad Apple e il 70% agli sviluppatori. E, in modo trasparente, ha inoltre generato un effetto di lock-in nei confronti del consumatore, spinto a rimanere sulla piattaforma su cui ha già acquisito e pagato quelle funzionalità di cui ha bisogno.
Il modello di business così descritto ha avuto un successo talmente ampio (sono state
vendute oltre 50 miliardi di applicazioni dal negozio ufficiale), che lo stesso modello è stato successivamente copiato da Google con il suo store di Android, e da tutti i nuovi concorrenti del mercato degli smartphone.
Apple si è quindi trasformata completamente. Cambiando nome in Apple Inc. (da Apple
Computer) e puntando su concetti chiari quali pulizia ed eccellenza nel Design, il Think
Different, la semplicità d’uso, l’esclusività e l’integrazione tra dispositivi, nel 2012 è diventata la prima società per valore di capitalizzazione (superando la società petrolifera
Exxon) con oltre 623 miliardi di dollari.
L’ultima grande intuizione legata alla conoscenza viene mostrata in occasione del lancio
dell’ultimo dispositivo iphone 5S nel 2013: la nuova strategia trasforma il software in commodity. Apple decide di rendere gratuiti i principali software sviluppati internamente.
Il messaggio che vuole comunicare è chiaro: è l’integrazione tra hardware, software e servizi associati a rendere il prodotto eccellente. La società si è resa conto del fatto che ancora oggi ci sia una certa riluttanza a pagare per l’intangibile (il software), mentre non crea
problemi investire quasi 1.000 € per uno smartphone. È questa scelta che sposta ancora una volta il mercato e la competizione. Così Microsoft, la principale società di software al mondo, vede un nuovo concorrente cambiare completamente il paradigma della
competizione: dalla vendita del software all’offerta di un’esperienza di utilizzo comune a
tutti i dispositivi informatici che ha nell’integrazione il vero punto di forza.
Il caso Apple dimostra come l’investimento in conoscenza abbia molteplici punti di attenzione:
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la cultura aziendale, la ricerca di nuove opportunità di mercato e una strategia votata all’innovazione (non strettamente tecnologica) hanno permesso a una società, salvata dal fallimento solo pochi anni prima, di diventare la principale icona tecnologica mondiale.
Tesla Motor: l’IT nel settore automobilistico
Il concetto di auto elettrica esiste da quando è nata l’automobile: il modello Baker Electric è stato introdotto infatti nel 1899. Ma fino a oggi questa tipologia di vettura è stata poco più di un esperimento mal riuscito, che non ha mai saputo confrontarsi con le corrispettive macchine a combustione interna.
Ciò che rendeva impari il confronto era la mancanza di una tecnologia a basso costo che
permettesse la diffusione di un mezzo che, invece, presentava diversi vantaggi tecnici.
La nascita della Tesla Motor, una società distante dal mondo automobilistico presente
fino a ora sul mercato, è stata possibile attraverso finanziamenti provenienti da una cultura completamente diversa, più legata al mondo dell’information technology (Elon Musk,
già fondatore del sistema di pagamenti online paypal e oggi Amministratore Delegato della società, con i fondatori di Google Sergey Brin e Larry page).
L’idea da cui è partita l’impresa è stata quella di proporre una nuova visione dell’auto elettrica: non solo una vettura ecologica, ma una nuova icona sportiva. E su questo concetto ha impostato la propria strategia aziendale.
Tesla Motor, che lega il suo nome a Nikola Tesla, ingegnere elettrico che ha teorizzato le
basi scientifiche della corrente alternata, ha trasformato i punti deboli della tecnologia
elettrica portando in azienda una conoscenza fortemente legata ai paradigmi tipici del
mondo IT (e non di ingegneria meccanica e più in generale automobilistica). Ne è un esempio l’accordo siglato con panasonic per la fornitura di tecnologie legate agli accumulatori di energia ad alto rendimento (le batterie dei computer portatili).
Anche la scelta della posizione dell’headquarter della compagnia è stata fatta seguendo questo approccio: il centro di produzione principale di Tesla Motor è infatti a palo Alto, cioè nel distretto della Silicon Valley, dove si trovano le sedi principali delle più importanti società legate all’IT quali Google (Mountain View), Apple (Cupertino), Oracle (Redwood Shores), Hp (palo Alto stessa), Yahoo! (Sunnyvale).
Si posiziona, dunque, al centro dell’eccellenza informatica mondiale; nel punto di forza
dell’economia americana, ben distante dalla Germania, eccellenza meccanica automobilistica da decenni al vertice della produzione motoristica.
per colmare il divario delle competenze di tipo tecnico/meccanico, Tesla Motor ha acquistato esternamente le competenze decidendo di avvalersi della società Lotus per la
struttura meccanica, considerata l’eccellenza nel campo meccanico/telaistico (il telaio
della prima vettura costruita è di derivazione Lotus Elise, vettura ultraleggera ed estre-
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mamente performante), andando così a integrare le proprie competenze di ingegneria elettronica/informatica.
La società americana si è presentata sul mercato nel 2008 con una prima vettura di
impostazione sportiva, la Tesla Roadster, con caratteristiche innovative che la rendono
un’auto in grado di confrontarsi con le supersportive più accreditate presenti nel panorama automobilistico del periodo, garantendo al contempo un’autonomia molto elevata (che fino ad allora era stato il principale punto di debolezza delle vetture elettriche insieme con le prestazioni) e un piacere di guida tipico delle supercar, pur mantenendo invariati i vantaggi legati alle emissioni nulle.
Tale approccio al mercato ha permesso di invertire la percezione che i consumatori avevano di questa tipologia di vettura. In California possedere una Tesla diventa in breve tempo una moda, con molti attori di Hollywood trasformati in testimonial indiretti.
La start-up Tesla, nata nel 2003 e produttiva dal 2008, diventa una delle società più importanti nel mondo automobilistico americano. Oggi ha una capitalizzazione di oltre 29
miliardi di dollari, rilevata sul mercato NASDAQ il 24 giugno 2014. per fare un confronto,
nello stesso giorno ford capitalizzava 67 miliardi di dollari, GM 59.
A spingere in alto il valore in borsa, e quindi anche le previsioni di crescita dell’azienda,
sono soprattutto le proiezioni legate al vantaggio competitivo acquisito nel comparto tecnologico full-electric dalle nuove infrastrutture elettriche di ricarica in costruzione (previste sia in USA che in Europa con ricarica del pacco batteria completata in 30 minuti) e dall’ampliamento della gamma con la nuova versione della supersportiva Roadster, la berlina Sportsedan Model S e il crossover Model X. Le previsioni societarie stimano addirittura un raddoppio delle vendite nel biennio 2013-2014.
L’affermazione del marchio Tesla, fino ad ora legato al mercato americano, ha visto nel
2014 un nuovo successo sul territorio europeo, con la Model S che in Norvegia ha stabilito il record di vettura più venduta nel mese di marzo 2014. A titolo di confronto, nello
stesso periodo sono state vendute 1.493 Model S contro 624 Volkswagen Golf, il secondo modello più richiesto.
Il successo è limitato a un mercato particolare, caratterizzato sia da un tenore di vita molto
alto che da una forte attenzione agli aspetti legati all’ecologia, ma dimostra che la strategia intrapresa può riscuotere un enorme consenso in un’epoca in cui cresce sempre più l’attenzione verso l’ambiente.
È del mese di giugno 2014 una nuova strategia avviata da questa società: per incrementare l’interesse e gli investimenti legati al mondo dell’auto elettrica, la Tesla Motor
ha dichiarato che non avvierà alcuna causa legale legata ai brevetti di sua proprietà. Secondo il CEO Elon Musk, l’apertura sui brevetti – senza precedenti nel mondo automobilistico – porterà benefici alla Tesla poiché stimolerà anche altri produttori a investire in questo settore. La Tesla Motor potrebbe quindi diventare il marchio simbolo di una nuova categoria di vetture in grado di soppiantare la tecnologia a combustione interna. Sempre
secondo Musk: «La leadership si acquista non con muri e chiusura, ma semplicemente
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attraendo i migliori ingegneri e motivandoli il più possibile» (Auto elettriche: Tesla rende
disponibili i brevetti, Il fatto quotidiano, Maria Rita D'Orsogna, 14 giugno 2014).
Quest’ultima frase riassume perfettamente il concetto di vero valore aggiunto per questa
azienda e per il suo management: non i brevetti tecnologici, bensì quel capitale intangibile composto dalle persone interne alla società, che con le proprie conoscenze e la propria creatività trasformano le idee in prodotti in grado di rivoluzionare anche un mercato
consolidato come quello automobilistico.
Harley Davidson: il branding e lo stile di vita Harley
Il marchio Harley Davidson è oggi considerato un sinonimo di “stile di vita” americano.
Questa azienda statunitense nacque nel 1903 e in pochi anni, grazie a investimenti nei reparti corse, acquisì notevole fama fino a diventare il principale produttore di motociclette negli USA.
La storia di questo simbolo ha vissuto però momenti di profonda crisi, dovuti sia a una
scarsa qualità costruttiva (specialmente negli anni in cui l’azienda è stata di proprietà dell’industria metallurgica AMf), sia all’incapacità di competere sul nuovo mercato americano sempre più aperto ai competitor inglesi prima e giapponesi poi.
Ciò che permise alla società di salvarsi fu un profondo cambiamento di strategia, che prevedeva forti investimenti inerenti il marchio, che riuscì a legare a doppio filo il proprio
emblema all’altra icona degli Stati Uniti: Hollywood.
Da Marlon Brando ad Arnold Schwarzenegger, da Bruce Willis a Mickey Rourke, da Jimi Hendrix fino ai più moderni George Clooney e Brad pitt, le grandi star americane
hanno collaborato a rendere questa azienda famosa nel mondo grazie alle loro azioni e
alle loro battute legate proprio al mito Harley.
L’apice si raggiunse nel 1969, con il film “Easy Rider”, la pellicola più celebre e più vista dai
motociclisti di tutto il mondo. È questo il momento in cui nasce il mito del motociclismo americano. Nel viaggio di Jack Nicholson, peter fonda e Dennis Hopper si mostra al mondo uno
stile Harley Davidson legato alla vita itinerante del motociclista, votata alla libertà, alla ricerca di avventura e di nuove esperienze.
L’azienda si reinventa, ma non investendo in nuove tecnologie o nel mondo delle corse
sportive, bensì andando a comprendere quali siano le peculiarità del proprio mercato e
focalizzandosi proprio sulla conoscenza delle persone legate al proprio marchio.
Dagli anni ‘80 in poi l’azienda diventa un fenomeno mondiale. Attraverso la creazione di
eventi esclusivi, Harley riesce a capire quali siano le necessità, i gusti e le peculiarità della
propria clientela. Infatti, è il management stesso a partecipare attivamente ai raduni e alle
principali iniziative in qualità di clienti, per rimanere vicini allo spirito incarnato dall’azienda
e poter parlare direttamente con le persone in grado di fornire gratuitamente quella conoscenza, quell’intangibile che continuerà a rendere il marchio un’icona mondiale.
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La missione del gruppo recita infatti : «We fulfill dreams inspired by the many roads of
the world by providing extraordinary motorcycles and customer experiences. We fuel the
passion for freedom in our customers to express their own individuality», a testimoniare
l’importanza che ha per Harley accontentare a pieno la propria clientela.
Con quasi 1 milione di soci e più di 1.400 chapter in 140 paesi, l'Harley Owners Group è il
più grande club motociclistico al mondo. Nel 2003, in occasione del centenario del marchio, a Milwaukee viene organizzato il più grande raduno Harley di sempre. per le moto in
produzione vengono create edizioni speciali definite “centenario” ancora oggi oggetto
culto, e naturalmente viene prodotta ogni forma di merchandising.
L’investimento legato alla conoscenza del “proprio mondo” rende anche l’azienda attenta alla tecnologia e la spinge ad avviare collaborazioni innovative. Con la nascita del modello V-Road, il marchio Harley fonde così le proprie linee e peculiarità telaistiche con le
competenze tecniche motoristiche di porsche (motore Revolution). Anche se la nuova
moto non ottiene il successo sperato, a dimostrazione della natura conservativa della
clientela Harley che non ricerca l’innovazione tecnica e tecnologica a tutti i costi, la società cerca di ampliare il proprio mercato a nuovi orizzonti.
per migliorare le competenze tecniche interne acquista la Buell Motorcycle Company, con
cui era in atto una collaborazione sin dagli anni ‘80. A seguito di questo cambio di strategia il marchio Buell è stato soppresso e il team integrato, apportando le proprie competenze motoristiche (gli ingegneri Buell sono specializzati nella realizzazione di motori ad alte prestazioni e nell’utilizzo di componentistica meccanica altamente innovativa) nella creazione dei nuovi motori degli anni 2000. Questi hanno così mantenuto le peculiarità dei motori Harley (il suono Harley è considerato un segno distintivo al pari del logo) abbinate a un
ammodernamento e a un innalzamento qualitativo degli aspetti tecnici.
Grazie a una strategia conservativa e al tempo stesso molto attenta alle necessità del proprio “popolo”, Harley ha acquisito una posizione forte, un vantaggio competitivo non legato alla tecnologia più sofisticata ma improntato al valore percepito dall’utilizzatore, quell’elemento intangibile che rende il guidare una Harley un’esperienza unica che nessun altro costruttore è in grado di fornire.
Cucinelli e Rosso: l’eccellenza del Made in Italy nel mondo della moda
Il mercato della moda è sempre stato una delle principali eccellenze del Made in Italy, e le
più importanti sfilate hanno sempre visto i marchi italiani come punti di riferimento per le
tendenze del futuro.
Ma andando a sbirciare tra i grandi marchi del nostro paese, si scopre che di Italia rimane poco: il marchio Valentino è di proprietà di un fondo del Qatar (Mayhoola for Investments); Gucci è in mano alla società francese Kering dell’imprenditore françois pinault; fendi, Bulgari e
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Loro piana sono della francese LVMH (holding che possiede anche il marchio Louis Vuitton).
L’Italia ha visto cioè nascere quelle eccellenze invidiate nel mondo, che il suo sistema produttivo e imprenditoriale non è stato però in grado di mantenere nel territorio.
Due importanti eccezioni caratterizzano questo mercato, e corrispondono ai nomi di due
imprenditori che hanno saputo coniugare l’eccellenza richiesta a una visione legata al
proprio territorio: Brunello Cucinelli, titolare dell’omonima azienda, e Renzo Rosso, patron del Gruppo Diesel.
Entrambi gli imprenditori hanno deciso di investire nel proprio territorio, riscoprendo quel
capitale esterno all’impresa ma “disponibile” in grado di creare il valore aggiunto necessario a competere nel mondo della moda e del design. Cucinelli a Solomeo e Rosso a Breganze hanno quindi investito molto su piccoli centri, per acquisire le competenze già presenti sul territorio e innescare quel processo di contaminazione che è stato alla base della nascita e della proliferazione dei distretti italiani.
Entrambi Cavalieri del Lavoro, Cucinelli e ancor di più Rosso con il Marchio Diesel, hanno pianificato una strategia e un modello di business basati su due punti fermi dell’industria italiana: l’eccellenza nella qualità manifatturiera e la creatività nel design.
Cucinelli ha dedicato un’ampia zona del proprio stabilimento/castello a una scuola di sartoria, dove gli apprendisti imparano – in anni di specializzazione – a trasformare il cashmere più pregiato in prodotti esportati in tutto il mondo. Nel 2012, in occasione della
quotazione in borsa del Gruppo, ha inoltre deciso di dividere i guadagni derivanti dall’operazione (oltre 5 milioni di euro) con i dipendenti dell’azienda a titolo di «ringraziamento a chi
è cresciuto con noi e ci ha aiutato a crescere con il suo lavoro».
La visione di Rosso è invece più votata alla creatività e all’estro. Grazie al marchio Diesel
è stato infatti riconosciuto come “il genio dei jeans” (Suzy Menkes, September 30, 2003
NYTimes.com), perché ha creato un brand in grado di trasformare definitivamente un capo da lavoro in un oggetto di tendenza a cui legare tutta una nuova tipologia di abbigliamento di alta gamma.
per riuscire a rendere concreto questo cambiamento, Rosso ha deciso di cominciare
dalla sede del piccolo centro di Breganze, costruita con soluzioni architettoniche avveniristiche e ampi spazi dedicati allo svago dei dipendenti. E sulle competenze creative
delle proprie persone, ha deciso di investire. Il reparto produttivo, quella parte cioè in
cui i tessuti vengono trasformati in capi di abbigliamento e accessori, si trova all’inizio
della sede in modo che per accedere alle altre zone dello stabilimento tutti i dipendenti devono attraversare dei corridoi in cui osservano e “respirano” il futuro produttivo dell’azienda. Anche in questo caso, alla base del successo dell’impresa c’è il processo di contaminazione tra competenze e di trasferimento delle conoscenze nei diversi campi. Il valore della creatività, dell’intuizione, non trova ancora spazio in bilancio
ma è il vero motore di questa impresa.
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In questa visione si mostra un nuovo modello imprenditoriale, in cui le due aziende hanno saputo coniugare l’etica sul lavoro con l’eccellenza nel proprio mercato di riferimento.
Un modello in cui la tecnologia è distante, ma in cui è presente una costante innovazione ottenuta grazie a sforzi legati al mondo del capitale intangibile, fatto di quelle competenze che sono l’elemento cruciale per il successo dell’impresa.
Conclusioni
Nel presente quaderno si è cercato di descrivere il contesto economico che l’economia
globale sta attraversando: le variabili etica, globalizzazione e tecnologia sono alcuni dei
principali temi a cui ogni impresa deve dedicare attenzione e su cui impostare le proprie
strategie. L’evoluzione delle aziende non potrà quindi prescindere da quell’elemento intangibile, la conoscenza, in grado di cambiare le regole del gioco e di trasformare un
periodo di crisi in una opportunità per raggiungere il successo.
Ad avvalorare questa tesi sono stati analizzati alcuni casi aziendali reali, esempi di imprese di grande rilievo, che hanno spesso sofferto momenti di forte crisi ma hanno dimostrato quanto l’investimento in conoscenza, in capitale intangibile, sia stato importante nel superamento delle proprie difficoltà legate al contesto economico.
Le società analizzate sono solo un campione dei maggiori successi economici degli ultimi anni. Tutte queste aziende sono riuscite, attraverso la creazione di un forte collegamento tra conoscenza, capitale intellettuale, innovazione e produzione di valore, a
raggiungere un successo commerciale che ha fatto loro guadagnare un vantaggio competitivo rilevante rispetto alle altre imprese.
Molte di queste aziende non si trovano infatti in concorrenza diretta con altre, perché hanno creato spazi di mercato in precedenza trascurati o non ancora esistenti riuscendo così a rendere “la concorrenza irrilevante”.
Ognuna di queste imprese dovrà quindi proseguire su un continuo percorso di elaborazione di vision e di strategie sempre nuove. Attraverso la ricerca dovrà, cioè, continuare
a trasformare la nuova conoscenza in innovazione e, soprattutto, in valore per la propria
(nuova) clientela, producendo ricchezza per tutti gli stakeholder dell’impresa stessa.
La risposta alla domanda posta all’inizio del documento, riguardo alla possibilità di emergere da parte del Sistema Italia e delle società che lo compongono, è complessa e di
difficile risoluzione.
Il tessuto economico italiano dimostra che le competenze presenti nel paese possono permettere a imprenditori con vision particolarmente innovative di avere successo
sul mercato globale. Ma tali esempi rimangono sempre casi isolati a causa di diverse
problematiche legate alla burocrazia, alla pressione fiscale, all’alto costo del lavoro,
all’instabilità politica, al credito bancario e in generale a tutti gli aspetti che limitano la
vocazione all’imprenditorialità.
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Gli esempi positivi devono far riflettere su quel capitale intangibile che l’Italia possiede e che, se valorizzato, le permetterà di ritagliarsi uno spazio nel panorama economico mondiale.
Non solo Cucinelli e Diesel, ma anche Armani e Tod’s nel settore del lusso, ferrari e Brembo nella meccanica, Murano e Sassuolo nel vetro e nella ceramica, Magneti Marelli nell’elettronica, Eataly nell’alimentare, e tante altre piccole pMI ci aiutano a tracciare quelle
competenze distintive in cui perseverare e in cui potenziare gli investimenti.
Un capitolo a parte deve essere dedicato al settore del turismo. Il paese Italia, universalmente riconosciuto come il “Bel paese”, finora non è stato valorizzato nel modo migliore
e rappresenta potenzialità ancora inespresse per il suo tessuto economico. Il punto focale dovrebbe essere spostato su una forte esigenza di miglioramento delle capacità di
innovare la “comunicazione” del “Bel paese”, per poter promuovere efficacemente la nostra “merce”, ovvero il nostro patrimonio naturale, culturale e artistico certamente unico
e inimitabile. Il nostro “Oceano Blu”.
Investire sull’intangibile, sul capitale umano, sull’innovazione reale, sulla ricerca votata al mercato, sulle competenze – anche imprenditoriali – tipiche della cultura italiana,
permetterà al paese Italia di ritagliarsi il suo spazio nel contesto economico globale.
* * *
Innovare non vuol dire inventare ma costruire
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