IL LIBRO DEI VINCITORI DEL PREMIO SACHAROV QA-01-14-333-IT-C IL LIBRO DEI VINCITORI DEL PREMIO SACHAROV IL LIBRO DEI VINCITORI DEL PREMIO SACHAROV INTRODUZIONE Martin Schulz Presidente del Parlamento europeo Il 2013 è stato un anno intenso per il premio Sacharov; un anno eccezionale. Ben quattro vincitori si sono presentati a Strasburgo per ritirare il premio: per cominciare, le Donne in bianco ad aprile, poi Guillermo Fariñas a luglio e infine Aung San Suu Kyi a ottobre. Erano stati proclamati vincitori anni prima, oltre vent’anni prima nel caso della vincitrice birmana. Non avevano atteso così a lungo per loro scelta: erano state le autorità dei rispettivi paesi a impedire loro di venire a ritirare il premio. Per paura del loro coraggio indistruttibile, della libertà di pensiero che incarnano, della loro capacità di ravvivare la fiamma della speranza in tutti i sostenitori della democrazia. Il 2013 è stato anche l’anno che ha visto insignire del premio la più giovane vincitrice. Il 20 novembre Malala Yousafzai, una ragazza di 16 anni, ha pronunciato un toccante discorso a sostegno dei diritti dei minori e, in particolare, dell’accesso di bambine e ragazze all’istruzione. Come gli altri vincitori del premio, ha pagato a caro prezzo la sua ribellione agli oscurantisti della sua epoca. La sua lotta le ha fatto rischiare la vita e l’ha costretta all’esilio. Malala ha ricevuto il premio in occasione del 25° anniversario del premio Sacharov, attorniata dai precedenti vincitori. Non poteva esservi simbolo più appropriato per la rete Sacharov, alla quale la giovinezza di Malala ha apportato nuova linfa vitale. Il 2013 è stato quindi un anno incoraggiante. Non possiamo però mentire a noi stessi. Il 2014 è stato caratterizzato dal perdurare di conflitti in cui le vittime sono prese di mira principalmente per le loro idee e convinzioni, il loro genere o la loro appartenenza a una minoranza. Diversi vincitori non hanno potuto ritirare il premio. Razan Zaitouneh, una vincitrice del 2011, è stata rapita in Siria e non se ne hanno più notizie. Nasrin Sotoudeh e Jafar Panahi sono ancora agli arresti domiciliari a opera del regime iraniano. Il regime cinese cerca instancabilmente di ridurre al silenzio Hu Jia. Nel 2014 la cappa del silenzio continua ad avvolgere coloro che difendono la libertà di pensiero. Designando come vincitore di quest’anno il dottor Denis Mukwege, scelto all’unanimità, il Parlamento europeo premia non soltanto un medico dedito al suo lavoro, ma soprattutto un uomo di pace; non soltanto un dottore che guarisce i corpi, ma soprattutto un uomo che si batte per la dignità delle donne. In una regione in cui lo stupro è un’arma di guerra e di terrore e in un mondo che vede moltiplicarsi gli attacchi alla libertà delle donne, il suo impegno e il suo coraggio sono esemplari. Numerose altre informazioni sull’Unione europea sono disponibili su Internet consultando il portale Europa (http://europa.eu). Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2014 ISBN 978-92-823-5589-3 doi:10.2861/58951 © Unione europea, 2014 Riproduzione autorizzata con citazione della fonte. Printed in Belgium STAMPATO SU CARTA SBIANCATA SENZA CLORO ELEMENTARE (ECF) IL PREMIO SACHAROV Assegnato per la prima volta nel 1988 a Nelson Mandela e ad Anatolij Marchenko, il Premio Sacharov per la libertà di pensiero è il massimo riconoscimento che l’Unione europea (UE) conferisce agli sforzi compiuti a favore dei diritti dell’uomo. È attribuito a singoli, gruppi e organizzazioni che abbiano contribuito in modo eccezionale alla causa della libertà di pensiero. Attraverso il Premio e la rete associata, l’UE sostiene i vincitori, che sono così rafforzati e legittimati nella loro lotta per le rispettive cause. Il Premio è stato sinora assegnato a dissidenti, leader politici, giornalisti, avvocati, attivisti della società civile, scrittori, madri, mogli, leader di minoranza, un gruppo antiterrorista, pacifisti, un attivista contro la tortura, un vignettista, un prigioniero di coscienza lungamente detenuto, un regista, una ragazza in lotta per il diritto all’istruzione e persino le Nazioni Unite come organismo. Sono premiati in particolare la libertà di espressione, la salvaguardia dei diritti delle minoranze, il rispetto del diritto internazionale, lo sviluppo della democrazia e l’attuazione dello Stato di diritto. Ogni anno il Parlamento europeo consegna al vincitore del Premio Sacharov una somma di 50 000 euro nel corso di una sessione plenaria ufficiale che ha luogo a Strasburgo verso la fine dell’anno. Tutti i gruppi politici del Parlamento possono nominare candidati; anche i singoli deputati possono farlo, con il sostegno di almeno 40 deputati per ciascun candidato. I candidati sono presentati nel corso di una riunione congiunta della commissione per gli affari esteri, della commissione per lo sviluppo e della sottocommissione per i diritti dell’uomo, e i membri delle commissioni votano un elenco ristretto formato da tre candidati. La conferenza dei presidenti, un organo del Parlamento europeo con a capo il presidente e di cui fanno parte i leader dei diversi gruppi politici rappresentati in Parlamento, elegge ogni anno il vincitore o i vincitori finali del Premio Sacharov, la cui scelta rappresenta pertanto una scelta europea a tutti gli effetti. ANDREJ ANDREJ SACHAROV (1921-1989), rinomato fisico sovietico, attivista SACHAROV L’ISPIRATORE per i diritti umani, dissidente e paladino delle riforme, accettò l’idea di un premio per la libertà di pensiero che portasse il suo nome come un importante apprezzamento del suo lavoro a difesa dei diritti umani, come ebbe a dichiarare in una lettera rivolta al Parlamento europeo (1). Egli considerava utile il conferimento del Premio in quanto avrebbe richiamato l’attenzione sui problemi relativi ai diritti umani e incoraggiato le persone che avevano dato un contributo in questo senso. Il Parlamento europeo annunciò la sua intenzione di istituire il Premio in una risoluzione approvata nel dicembre 1985. DEL PREMIO Andrej Sacharov fu esiliato nella città chiusa di Gorkij nel 1980, dopo che aveva protestato pubblicamente per l’intervento militare sovietico in Afghanistan del 1979. Nel suo esilio visse sotto la stretta sorveglianza della polizia sovietica ed entrò due volte in sciopero della fame per ottenere per sua moglie il permesso di sottoporsi a un intervento cardiaco negli Stati Uniti. Elena Bonner, a sua volta condannata all’esilio a Gorkij nel 1984, ricevette infine il permesso di andare negli Stati Uniti per sottoporsi a cure mediche nell’ottobre 1985. Il Parlamento europeo sostenne i coniugi Sacharov e discusse persino la possibilità di lasciare, nelle discussioni in Aula, una sedia vuota per Andrej Sacharov. Fu invece approvata l’idea alternativa, quella cioè di istituire un Premio intitolandolo ad Andrej Sacharov. Come affermato da Jean-Francois Deniau, relatore per questa iniziativa, la figura di Sacharov fu scelta perché egli era «un cittadino europeo che era la personificazione della libertà di pensiero e di espressione e che aveva deciso, in nome dei suoi principi e seguendo la sua coscienza, di rinunciare a tutti i vantaggi materiali e a tutti gli onori che aveva a disposizione». Pioniere nel campo della fisica nucleare e creatore della bomba all’idrogeno sovietica, a 32 anni Andrej Sacharov divenne membro a pieno titolo dell’Accademia delle scienze sovietica e fu ammesso a godere dei privilegi riservati alla nomenklatura, ovvero ai membri dell’élite dell’Unione Sovietica. Sul finire degli anni cinquanta, tuttavia, divenne sempre più inquieto riguardo alle conseguenze a livello atmosferico degli esperimenti nucleari e delle implicazioni politiche e morali del suo lavoro, che poteva provocare eccidi. La svolta nella sua evoluzione politica arrivò nel 1967, quando esortò le autorità sovietiche ad accettare la proposta degli Stati Uniti per una messa al bando bilaterale dello sviluppo dei missili di difesa antibalistici, che egli descrisse come la più grande minaccia di conflitto nucleare mondiale nel suo saggio del 1968 dal titolo Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale. Le autorità sovietiche respinsero le sue esortazioni e, in seguito alla pubblicazione del saggio, bandirono completamente Sacharov dalle attività militari più segrete e gli revocarono tutti i privilegi. Nel 1970 divenne cofondatore della commissione per i diritti dell’uomo in Unione Sovietica, e la difesa dei diritti umani, come pure delle vittime di processi politici, divennero le sue preoccupazioni fondamentali. Nel 1972 sposò Elena Bonner, anche lei attivista per i diritti umani. Nonostante le crescenti pressioni da parte del governo, Sacharov non soltanto si impegnò concretamente per la liberazione dei dissidenti nel proprio paese, ma divenne anche uno dei critici più coraggiosi del regime sovietico, il simbolo della lotta contro la negazione dei diritti fondamentali. Era, nelle parole del comitato che lo insignì del Premio Nobel per la pace nel 1975, «un portavoce della coscienza dell’umanità». Non gli fu permesso di ritirare il premio, ma né la repressione né l’esilio riuscirono a spezzare la sua resistenza. Il Premio fu istituito con una risoluzione del Parlamento europeo approvata nel dicembre 1985. Un anno dopo Michail Gorbačëv, che aveva lanciato la perestroika e la glasnost nell’Unione Sovietica, permise ad Andrej Sacharov e a Elena Bonner di tornare a Mosca, dove Sacharov morì nel 1989. Nel 2013 si sono celebrati i 25 anni di attività del Premio a lui intitolato; il suo sostegno ai diritti umani va ben oltre i confini, anche quelli dei regimi repressivi, per ricompensare gli attivisti dei diritti umani e i dissidenti di tutto il mondo. I difensori dei diritti umani insigniti del Premio hanno pagato caro il loro impegno per la difesa della dignità umana: molti sono stati perseguitati o uccisi, hanno perso la libertà, sono stati picchiati o hanno dovuto affrontare l’esilio. In diversi casi i vincitori non sono stati liberi di ricevere il premio di persona. Una di questi è Nasrin Sotoudeh, vincitrice del Premio nel 2012, che dal carcere di Evin in Iran, dove era detenuta all’epoca, scrisse alcune lettere al defunto Andrej Sacharov, nelle quali indagava filosoficamente il significato della dissidenza e paragonava la sua causa a quella di lui. «Il rinnovamento quotidiano della sua vita e della sua resistenza è stato incredibile. Quello che è riuscito a ottenere rappresenta una grande vittoria per quanti lottano per la libertà in tutto il mondo. Possano i posteri comprendere i suoi sogni non realizzati». (1) Le lettere di Andrej Sacharov citate nella presente pubblicazione sono custodite negli archivi storici del Parlamento europeo. I PREMIATI LA RETE DEL PREMIO SACHAROV comprende i vincitori del Premio e i deputati al Parlamento europeo. È stata creata nel 2008, in occasione del ventennale dell’istituzione del Premio, riconoscendo «il ruolo speciale svolto dai vincitori del Premio Sacharov come ambasciatori della libertà di pensiero», e i suoi membri «hanno deciso di intensificare gli sforzi congiunti a sostegno dei difensori dei diritti umani in tutto il mondo attraverso azioni comuni da parte dei vincitori del Premio Sacharov, congiuntamente e sotto l’egida del Parlamento europeo». Nel 2013, per il venticinquesimo anniversario del Premio, i membri della rete si sono riuniti in una conferenza per discutere l’evoluzione dei suoi obiettivi. Venti vincitori e rappresentanti provenienti dall’Africa, dall’Europa, dall’America latina e dal Medio Oriente hanno incontrato il presidente e i deputati al Parlamento europeo assieme ai rappresentanti di altre istituzioni, servizi e agenzie dell’UE, ONG e organizzazioni internazionali, nonché giornalisti e studenti, per tre giornate di intense attività fra cui si è anche svolto, nella Giornata universale dei diritti dell’infanzia, il conferimento del Premio Sacharov per il 2013 alla prima ragazza vincitrice del Premio, Malala Yousafzai. La conferenza ha rilasciato una dichiarazione finale in cui i membri della rete si sono impegnati a sostenere, a titolo sia collettivo che individuale, la promozione e la protezione dei diritti umani in tutto il mondo attraverso una serie di azioni, prestando fra l’altro la loro voce a campagne internazionali volte a sostenere i diritti fondamentali in cooperazione con la società civile e le organizzazioni internazionali, tra cui figura la campagna per porre fine alla violenza sui minori e promuovere la loro istruzione. La dichiarazione sottolinea la necessità di solidarietà e coordinamento fra i difensori dei diritti umani, invitando tutti i membri della rete ad agire come un sistema globale di allerta nei confronti delle violazioni dei diritti umani. L’UE è invitata a impegnarsi in modo sostanziale sul piano diplomatico verso gli attivisti dei diritti umani mediante le sue rappresentanze in tutto il mondo, in particolare per la protezione dei vincitori del Premio Sacharov e degli attivisti dei diritti umani in pericolo. La rete ora mira a proseguire nel suo impegno mediante azioni sul campo volte a sensibilizzare alle questioni relative ai diritti umani e alle loro violazioni. Inoltre, i membri della rete tengono conferenze sul Premio Sacharov in tutti gli Stati membri dell’UE e partecipano a campagne internazionali e a eventi di sensibilizzazione in materia di diritti umani, affiancando con la loro opera gli attivisti della società civile e i difensori dei diritti umani. 2014 2013 2012 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 Denis Mukwege Malala Yousafzai Nasrin Sotoudeh e Jafar Panahi Primavera araba (Mohamed Bouazizi, Asmaa Mahfouz, Ahmed El Senussi, Razan Zaitouneh e Ali Ferzat) Guillermo Fariñas Memorial (Oleg Orlov, Sergei Kovalëv e Ljudmila Alekseeva a nome di Memorial e di tutti gli altri difensori dei diritti umani in Russia) Hu Jia Salih Mahmoud Mohamed Osman Aljaksandr Milinkevič Damas de blanco; Hauwa Ibrahim; Reporter senza frontiere Associazione bielorussa dei giornalisti Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, e tutto il personale delle Nazioni Unite Oswaldo José Payá Sardiñas Izzat Ghazzawi, Nurit Peled-Elhanan, Don Zacarias Kamwenho ¡Basta ya! Xanana Gusmão Ibrahim Rugova Salima Ghezali Wei Jingsheng Leyla Zana Taslima Nasreen Oslobodjenje Le Madri di Plaza de Mayo Adem Demaçi Aung San Suu Kyi Alexander Dubček Nelson Rolihlahla Mandela; Anatolij Marchenko (a titolo postumo) 2014 DENIS MUKWEGE DENIS MUKWEGE è un medico congolese che dedica la sua vita a ricostruire i corpi e le vite di decine di migliaia di donne e ragazze congolesi vittime di stupri collettivi e di brutali violenze sessuali nella guerra in atto nella Repubblica democratica del Congo. Nato a Bukavu nel 1955, ha studiato medicina e ha fondato presso l’ospedale di Lemera, nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo, un reparto ginecologico che è stato distrutto allo scoppio del conflitto nel 1996. Mukwege si è rifugiato a Bukavu, dove ha creato un ospedale utilizzando tende da campo e ha costruito un nuovo reparto di maternità e una sala operatoria; tutto è stato però distrutto nel 1998 nella seconda guerra del Congo. Imperterrito, Mukwege ha ricostruito il suo ospedale a Panzi, lavorando indefessamente e addestrando il personale a curare le donne che avevano subito attacchi da combattenti i quali avevano «dichiarato le donne il loro nemico comune». Ha curato più di 40 000 donne da quando l’ospedale ha riaperto nel 1999, accogliendo la prima vittima di stupro con ferite da proiettile nei genitali e nelle cosce. Nel giro di alcune settimane, decine di donne si sono recate all’ospedale affermando di essere state violentate e torturate. «Ho cominciato a chiedermi cosa stesse succedendo», ha dichiarato Mukwege in un’intervista alla BBC. «Non erano solo violenze di guerra, facevano parte di una strategia (…); più persone venivano violentate contemporaneamente, in pubblico; un intero villaggio poteva essere violentato durante la notte. In questo modo non sono colpite soltanto le vittime, ma l’intera comunità, obbligata a guardare. Il risultato di tale strategia è che le persone sono obbligate a fuggire dal proprio villaggio, abbandonare i campi, le proprie risorse, tutto». Mukwege è un esperto riconosciuto a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici, psicologici e sociali provocati dalla violenza sessuale. L’ospedale di Panzi offre cure psicologiche e fisiche e aiuta le donne a sviluppare nuove capacità per ricominciare a vivere e le ragazze a tornare a scuola. Mette a disposizione anche l’assistenza giuridica per citare in giudizio gli aggressori. Mukwege milita instancabilmente per i diritti delle donne e per porre fine alle violenze legate allo sfruttamento delle risorse naturali del Congo. Egli stesso è stato vittima, nel 2011, di un attacco a opera di uomini armati che hanno fatto irruzione in casa sua e minacciato le sue figlie con un fucile. La sua guardia del corpo è stata uccisa, ma Mukwege è riuscito a fuggire, rifugiandosi con la sua famiglia in Svezia e in Belgio. È tornato nella Repubblica democratica del Congo nel 2013, quando un gruppo di donne che sopravvivevano con meno di un dollaro al giorno hanno unito gli sforzi per pagargli il viaggio di ritorno. Attualmente vive nell’ospedale di Panzi, da lui diretto. 2013 MALALA YOUSAFZAI MALALA YOUSAFZAI è una ragazza pakistana di 17 anni cui un talebano ha sparato alla testa per impedire a lei e ad altre ragazze di andare a scuola. Malala è sopravvissuta alle gravi lesioni e nel 2013 è stata la più giovane vincitrice del Premio Sacharov. Ha dedicato il Premio agli eroi misconosciuti del Pakistan, in una forte difesa del diritto di tutti i minori all’istruzione. «Molti bambini non hanno nulla da mangiare e da bere e hanno un gran desiderio di istruzione. Il fatto che 57 milioni di bambini siano privati del diritto di andare a scuola è allarmante […] e deve scuotere la nostra coscienza», ha affermato Malala di fronte ai rappresentanti di 28 nazioni in un Parlamento gremito e alla presenza eccezionale di quasi tutti i vincitori del Premio Sacharov ancora in vita, riuniti per la conferenza celebrativa del venticinquesimo anniversario del Premio, aggiungendo: «un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo». La sua battaglia a favore dell’istruzione ha avuto inizio all’età di 11 anni, quando scriveva un diario anonimo online sulla vita di una scolara sotto il regime dei talebani nella valle dello Swat, in Pakistan. Nel 2009 i talebani hanno decretato la chiusura di tutte le scuole femminili mentre l’esercito pakistano cercava di contrastarli per mantenere il controllo. Malala è stata costretta insieme alla famiglia a lasciare la sua città assediata e la scuola che frequentava è stata devastata. Ritornati a casa in seguito al miglioramento della situazione relativa alla sicurezza, Malala e il padre Ziauddin, che gestiva una scuola di ragazze, hanno continuato a sostenere l’istruzione femminile nonostante le minacce. Malala ha utilizzato il denaro di una donazione per acquistare uno scuolabus ed è proprio su questo stesso scuolabus che è stata colpita e che altre due ragazze sono state ferite, in un agguato rivendicato dai talebani. Malala è sopravvissuta e porta avanti con impegno la campagna a favore dell’istruzione femminile, è cofondatrice del Fondo Malala e membro della Youth Education Crisis Committee, istituita dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per l’istruzione globale, Gordon Brown, il quale stima che ai ritmi attuali l’ultima bambina sarà a scuola entro il 2086 e non il 2015 come previsto negli Obiettivi di sviluppo del millennio. «L’Islam consente alle bambine di essere istruite. È compito e responsabilità di ogni individuo, maschio o femmina, acquisire istruzione e conoscenze», afferma Malala. Le Nazioni Unite hanno proclamato il 12 luglio, giorno del suo compleanno, «giornata di Malala». Nel 2014 la ragazza ha trascorso questa giornata in Nigeria e ha incontrato le allieve sfuggite al rapimento da parte del gruppo terroristico di Boko Haram a Chibok e le famiglie delle 219 ragazze tuttora sequestrate, esortando il presidente Jonathan a intervenire in modo più incisivo. Malala ha inoltre espresso solidarietà ai bambini vittime del conflitto in Siria e a Gaza. 2012 NASRIN SOTOUDEH NASRIN SOTOUDEH è una giurista iraniana in materia di diritti umani, tra i pochi ad aver difeso i dissidenti arrestati nelle proteste di massa del 2009 e altri accusati in casi di rilievo sia politici che relativi ai diritti umani, prima del suo stesso arresto nel 2010. Quando è stata insignita del Premio Sacharov, nel 2012, stava scontando una pena a sei anni di reclusione, si trovava in isolamento nel tristemente noto carcere di Evin in Iran e aveva intrapreso uno sciopero della fame di sette settimane per protestare contro le pressioni esercitate sulla sua famiglia. Nonostante si trovasse in uno stato di notevole fragilità e debolezza, Nasrin ha trovato la forza di scrivere un messaggio memorabile al Parlamento europeo, letto per lei durante la cerimonia di assegnazione da Shirin Ebadi, sua amica e collega, nonché vincitrice del premio Nobel. «La storia dei diritti umani e dei meccanismi per la loro tutela ha origini molto lontane, ma la loro attuazione dipende ancora in gran parte dalle intenzioni dei governi, che sono i principali responsabili delle violazioni», ha affermato Nasrin Sotoudeh. Nasrin ha identificato la violazione dei diritti umani come la causa fondamentale dell’ondata rivoluzionaria che ha coinvolto il Medio Oriente. Ai difensori dei diritti umani e ai prigionieri politici, ha dichiarato «proprio come voi, anch’io so che la democrazia deve ancora compiere una strada lunga e difficile». È stata inaspettatamente rilasciata nel settembre 2013, con un gesto accolto con favore dal presidente Schulz quale «importante segnale positivo da parte delle autorità iraniane», in particolare del neoeletto presidente Rouhani. Nel dicembre 2013 ha incontrato la delegazione del Parlamento europeo in visita in Iran per la prima volta dopo sei anni. Nasrin Sotoudeh ha concentrato l’attenzione sui prigionieri politici e ha denunciato la mancanza di trasparenza dei processi tenuti nei tribunali rivoluzionari, piuttosto che penali, domandando alla delegazione di indagare presso le autorità iraniane sulla questione. La delegazione è stata informata del fatto che i tribunali rivoluzionari sono stati istituiti per giudicare i crimini contro lo Stato e che pertanto un cambiamento non è possibile. L’incontro ha causato furore tra gli estremisti iraniani che hanno accusato Nasrin Sotoudeh e Jafar Panahi di sedizione. Nasrin Sotoudeh continua a sostenere i diritti umani, i diritti delle donne e le libertà fondamentali. Lotta contro il divieto impostole nel 2014 di praticare la professione di avvocato, carriera per la quale combatte da diversi anni, a cominciare dalla difesa dei minori dalla pena di morte, una causa che continua a difendere. Nel luglio 2014, con lo scoppio della guerra a Gaza, Nasrin Sotoudeh ha lanciato la campagna Stop Killing Your Fellow Beings attraverso i social media. Non può recarsi al Parlamento europeo per ricevere il Premio Sacharov o partecipare a eventi della rete poiché ha il divieto di lasciare l’Iran, ma Shirin Ebadi l’ha rappresentata alla conferenza del 2013. Nasrin Sotoudeh intende rimanere in Iran e lottare a favore delle riforme dall’interno. 2012 JAFAR PANAHI JAFAR PANAHI è un regista vincitore del Premio Sacharov al quale è stato proibito di girare film per vent’anni. Sostenitore dichiarato del movimento verde di opposizione iraniano e critico nei confronti dell’ex presidente Ahmadinejad, è stato condannato a sei anni di reclusione per «propaganda contro la Repubblica islamica» sebbene la sentenza sia ancora in attesa di esecuzione; il regista non è ancora in carcere ma potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento. Nel 2010 è stato arrestato perché stava girando un film clandestino sulla rivolta fallita del movimento verde in Iran nel 2009. Sebbene sia stato rilasciato dopo tre mesi, in seguito alle proteste internazionali e a uno sciopero della fame, è stato successivamente condannato al carcere e gli è stata preclusa la possibilità di produrre film, viaggiare e comunicare con i media. Ha dichiarato alla delegazione del Parlamento europeo in visita in Iran nel 2013 che la sua testimonianza e quella del suo avvocato erano state ignorate durante il processo e che il verdetto era stato già stabilito in precedenza. Ha avvertito la delegazione che le questioni relative al rispetto dei diritti umani vengono dimenticate mentre il mondo si focalizza sugli accordi nucleari con l’Iran e che, secondo lui, una volta abolite le sanzioni, la repressione in Iran aumenterà. La nuova flessibilità dei leader iraniani si applica soltanto agli affari esteri e non alle questioni interne, ha affermato, mentre continuano le pressioni sulla stampa, sui prigionieri e sulla vita culturale. In un’intervista con la stampa, rilasciata nel 2014 nonostante il divieto impostogli, ha dichiarato di avere l’impressione di essere stato rilasciato da una piccola prigione per entrare in una più grande, poiché gli è stato proibito di lavorare. Ciononostante, il regista ha infranto il divieto di produzione cinematografica due volte. Nel 2011 ha girato This is not a Film nella sua casa di Tehran, seduto al tavolo della cucina e parlando con il suo avvocato in attesa di essere arrestato. Nel 2014 ha ripreso l’attività con Closed Curtain la storia di uno sceneggiatore che vive da solo con il cane in una casa sul mare, con le tende chiuse. Panahi non si considera politicamente impegnato, ma intende denunciare le ingiustizie. Si è espresso contro la censura in Iran e ha criticato il presidente Rouhani per non aver mantenuto le sue promesse elettorali a riguardo, e ha lanciato la campagna Step by Step finalizzata a porre fine alla pena di morte in Iran. Impossibilitato a recarsi al Parlamento europeo, è stato rappresentato dalla figlia Solmaz e dai registi Costa Gavras e Serge Toubiana alla cerimonia di assegnazione del Premio, e dal presidente della federazione internazionale per i diritti umani (FIDH) Karim Lahidji alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013. 2011 MOHAMED BOUAZIZI MOHAMED BOUAZIZI (1984-2011) è stato il catalizzatore della «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia e fonte di ispirazione per il movimento a favore della democrazia che si è diffuso in Medio Oriente e Nord Africa nel 2011, conosciuto come Primavera araba. Giovane laborioso di umili origini, provvedeva al sostentamento della sua famiglia dall’età di dieci anni vendendo frutta al mercato. A diciannove anni ha abbandonato gli studi per poter assicurare l’istruzione ai fratelli più giovani. È morto il 4 gennaio 2011, all’età di 26 anni, dopo essersi dato fuoco per protestare contro un sistema che gli impediva di vivere in modo dignitoso. Bouazizi è stato vittima, in diverse occasioni, delle forze di polizia tunisine che lo multavano, ne confiscavano i prodotti e le bilance, e nell’ultima occasione lo hanno persino gettato a terra. La sua famiglia ritiene che sia stata l’umiliazione e non la povertà ad averlo spinto a immolarsi, dopo aver cercato giustizia invano: si è cosparso di benzina e si è dato fuoco fuori dall’edificio del governatore nella cittadina di Sidi Bouzid. Era un uomo conosciuto e amato, che dava gratuitamente frutta e verdura alle famiglie più povere, la cui situazione ha toccato il cuore di molti. Il suo gesto ha innescato proteste che si sono diffuse rapidamente: tunisini di ogni ceto sociale sono scesi in piazza per manifestare contro il governo corrotto, l’elevata disoccupazione e le restrizioni alla libertà personale. Era ancora vivo, sebbene agonizzante e completamente bendato, quando il regime autoritario del presidente Zine al-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987, cominciava a cadere. Dieci giorni dopo la morte di Bouazizi, Ben Ali è stato costretto a dimettersi e a lasciare il paese, mentre i manifestanti marciavano a Tunisi, molti dei quali portando l’immagine di Bouazizi. La sua famiglia trova conforto nel fatto che egli non sia morto invano, poiché il suo gesto ha innescato la cosiddetta «rivoluzione popolare» e ha scosso i governi dispotici in Tunisia e in altre parti dal mondo arabo. Ha diffuso tra i giovani arabi la consapevolezza che non dovevano più rimanere in silenzio davanti all’ingiustizia, alla corruzione e al potere autocratico, ma che potevano dare voce alle loro frustrazioni e lottare per la loro dignità. La Primavera araba e l’ottimismo iniziale si sono spenti e alcune delle conquiste sono state nuovamente perse, ma in Tunisia, paese natale di Bouazizi, nel 2014 è stata approvata una costituzione democratica ed entro la fine dell’anno sono in programma elezioni legislative e presidenziali. 2011 ALI FERZAT ALI FERZAT è il più noto vignettista e autore di satira politica siriano, nonché una delle figure culturali più in vista nel mondo arabo. Nato a Hama nel 1941, ha pubblicato oltre 15 000 vignette su quotidiani siriani e internazionali e ha vinto premi per aver fatto oggetto di satira dittatori quali Saddam Hussein e Muammar Gheddafi quando erano al potere in Iraq e in Libia rispettivamente. I suoi disegni hanno sfidato i confini della libertà di espressione in Siria mirando alle temute forze di sicurezza e, con l’arrivo della Primavera araba in Siria nel 2011, attaccando in modo più diretto le figure di governo, in particolare il presidente Bashar al-Assad. Le sue vignette venivano usate come striscioni dai siriani che protestavano contro il regime. Dopo aver pubblicato una vignetta raffigurante al-Assad che chiedeva un passaggio al dittatore libico Muammar Gheddafi, in fuga su un’auto a gran velocità, è stato attaccato in piazza Umayyad a Damasco e picchiato selvaggiamente da uomini mascherati che gli hanno rotto le mani di proposito intimandogli di portare rispetto al presidente al-Assad e obbedire ai suoi superiori. Incosciente a causa delle percosse, è stato caricato in un’auto e scaricato in una strada apparentemente morto. Non soltanto Ali Ferzat ha recuperato l’uso delle mani, ma ha anche infranto la barriera della paura diventando uno dei critici più espliciti del regime attraverso le sue parole e la sua arte. Impossibilitato a partecipare alla cerimonia del Premio Sacharov nel 2011, in quanto si stava sottoponendo a cure mediche in Kuwait per le ferite riportate, ha ricevuto il Premio in occasione del dibattito pubblico della rete del Premio Sacharov svoltosi presso il Parlamento europeo nel 2012, dove ha partecipato, con il presidente del Parlamento europeo e altri vincitori nell’ambito della Primavera araba, a un dibattito sui temi della rivoluzione in Siria e del futuro della democrazia in seguito alle sommosse. Nel 2012, durante la prima edizione del Forum mondiale per la democrazia presso il Consiglio d’Europa, ha tenuto un discorso in qualità di vincitore del Premio Sacharov, e nello stesso anno è stato definito dalla rivista Time una delle 100 persone più influenti del mondo. Ha vinto diversi premi per i diritti umani ed è a capo dell’associazione dei vignettisti arabi. Nel 2014 Ferzat è stato l’oratore principale per la rete del Premio Sacharov in occasione del festival del cinema sui diritti umani «One World» tenutosi a Praga, dove ha incontrato rappresentanti del governo, dei media e delle ONG, riportando il dibattito sul conflitto siriano al cuore della tragedia: al centro del conflitto ancora in corso, che ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, vi sono le speranze umane dimenticate di dignità e libertà. 2011 ASMAA MAHFOUZ ASMAA MAHFOUZ è un’attivista egiziana per i diritti umani, cofondatrice del movimento giovanile del 6 aprile. Con l’arrivo della Primavera araba in Egitto nel 2011, Asmaa Mahfouz ha sfidato la repressione del regime del presidente Hosni Mubarak nei confronti degli attivisti quando, attraverso i social media, ha esortato gli egiziani a rivendicare la propria libertà, la propria dignità e i propri diritti umani protestando pacificamente in piazza Tahrir il 25 gennaio 2011. Il suo video si è propagato a macchia d’olio e ha registrato circa 80 milioni di visualizzazioni, ispirando un’ondata di video simili, con il risultato che centinaia di migliaia di persone hanno occupato piazza Tahrir chiedendo a gran voce la fine dei 30 anni di governo di Hosni Mubarak in Egitto, fatto che si è verificato l’11 febbraio 2012. Nell’accettare il Premio Sacharov, Asmaa Mahfouz ha dichiarato che l’onorificenza avrebbe reso omaggio agli eroi della rivoluzione: «Questo premio va a tutti i giovani egiziani, alle persone che hanno sacrificato la propria vita», ha affermato, aggiungendo «non li tradiremo, continueremo lungo la strada da loro intrapresa e garantiremo che questo sogno si avveri». È stata uno degli oratori principali al dibattito della rete del Premio Sacharov che si è svolto presso il Parlamento europeo a Bruxelles, e alla prima edizione del Forum mondiale per la democrazia al Consiglio d’Europa, nell’ottobre 2012, dove ha analizzato gli sviluppi post-rivoluzionari della situazione in Egitto. Nel 2014, con l’elezione di Abdel Fattah al-Sisi, ex comandante dell’esercito, a presidente dell’Egitto, in seguito alla deposizione del presidente islamico Mohammed Morsi nel 2013 e a un periodo di governo provvisorio sostenuto dai militari, Asmaa Mahfouz ha dichiarato di essere vittima di crescenti violenze, minacce e controlli. La violenta repressione da parte delle autorità, inizialmente mirata ai Fratelli musulmani, si è estesa attaccando critici e personaggi rinomati della rivoluzione del 25 gennaio, in particolare gli attivisti del 6 aprile. Asmaa Mahfouz ha denunciato di essere attaccata dai media, che descrivevano lei e i colleghi attivisti come «agenti stranieri» e minacce alla sicurezza nazionale, incitando la gente a insultarla per strada. Nell’aprile 2014 un tribunale egiziano ha messo al bando il movimento giovanile del 6 aprile. Tre dei leader del movimento di sinistra, Ahmed Maher, Mohammed Adel e Ahmed Douma, sono stati condannati a tre anni di reclusione con l’accusa, tra l’altro, di aver protestato violando la nuova legge restrittiva in materia di manifestazioni, mentre un quarto attivista, Alaa Abdel Fattah, è stato condannato a 15 anni, suscitando la preoccupazione del presidente del Parlamento europeo Schulz e della stessa Asmaa Mahfouz, che ha twittato: «Quindici anni per aver protestato? e per chi ha ucciso? non ci sarà mai uno Stato finché si andrà avanti così». 2011 AHMED EL ZUBER EL SENUSSI AHMED EL SENUSSI , nato nel 1934, è stato il prigioniero politico detenuto più a lungo in Libia. È parente di Idris, l’unico re di Libia, deposto dal colonnello Muammar Gheddafi nel 1969. Accusato di cospirazione in un tentativo di colpo di Stato contro Gheddafi nel 1970, ha trascorso 31 anni in carcere, nove dei quali in isolamento in una cella così piccola da non permettergli di stare in piedi. È stato rilasciato nell’agosto 2001 insieme a decine di altri prigionieri politici. Quando un’insurrezione popolare sostenuta dalla NATO ha rovesciato il dittatore libico nel 2011, il Consiglio nazionale transitorio ha assunto il governo del paese ed El Senussi, divenutone membro, era responsabile dei prigionieri politici. Nonostante le elezioni tuttavia la politica del paese è rimasta in preda all’anarchia e all’instabilità, con fazioni che si contendevano il controllo con le armi. La città natale di El Senussi, Bengasi, che aveva assunto un ruolo marginale durante il regime di Gheddafi, sostiene con forza il federalismo, rispettato in Libia per la maggior parte del regno del re Idris. Tremila delegati della regione si sono riuniti nel 2012 a Bengasi per costituire il Consiglio transitorio della Cirenaica, di cui El Senussi è stato nominato leader. Il Consiglio transitorio della Cirenaica si è dichiarato a favore di un elevato grado di autonomia della regione, pur accettando il Consiglio nazionale transitorio quale simbolo dell’unità del paese e legittimo rappresentante della Libia in ambito internazionale. La dichiarazione del Consiglio transitorio della Cirenaica non ha valore giuridico e lo stesso non è sostenuto militarmente come invece è l’altro principale gruppo federalista con sede a Bengasi, l’Ufficio politico della Cirenaica con a capo Ibrahim Jadhran, che intende istituire un governo parallelo e dal quale El Senussi ha preso le distanze. El Senussi e i rappresentanti tribali dei quali è a capo sostengono il federalismo mediante la nuova costituzione. Nel 2012, durante il dibattito della rete del Premio Sacharov svoltosi presso il Parlamento europeo, El Senussi ha analizzato insieme al presidente Schulz, ad Asmaa Mahfouz e ad Ali Ferzat le conseguenze della rivoluzione e del conflitto armato in Libia nonché il futuro della democrazia nei paesi arabi a seguito della Primavera araba. Durante la prima edizione del Forum mondiale per la democrazia presso il Consiglio d’Europa, El Senussi ha denunciato la mancanza di un vero governo in Libia e ha risposto alle accuse di tradimento nei suoi confronti dovute alla sua richiesta di istituire un sistema federale, affermando che si trattava di un chiaro tentativo di travisare la sua proposta e macchiare la reputazione di quanti vogliono invece migliorare la situazione. El Senussi ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013. 2011 RAZAN ZAITOUNEH RAZAN ZAITOUNEH è una giornalista siriana, nonché giurista in materia di diritti umani, rapita il 9 dicembre 2013 in una zona della periferia di Damasco in mano ai ribelli. Risulta ancora scomparsa; si crede che stia bene, ma non si sa dove si trovi né chi siano i rapitori. Razan Zaitouneh ha denunciato con coraggio le violazioni dei diritti umani perpetrate tanto dal regime di Damasco quanto dai combattenti ribelli, nonostante le minacce ricevute. È stata rapita insieme al marito attivista Wael Hamada e a due colleghi, il poeta e avvocato Nazem Hamadi e l’ex prigioniera politica Samira Khalil, dall’ufficio di due gruppi da lei fondati: il centro per la documentazione delle violazioni (Violations Documentation Centre — VDC) e l’ufficio per il sostegno ai piccoli progetti e lo sviluppo locale (Local Development and Small Projects Support Office — LDSPS), a Douma. Razan Zaitouneh è una dei principali e più credibili attivisti civili della rivoluzione siriana. Il suo rapimento è considerato dai giornalisti siriani un episodio determinante per la divisione in atto in Siria tra le forze civili e gli estremisti, un evento che ha assestato un duro colpo alla rivoluzione siriana. RAPITA NEL DICEMBRE 2013 I familiari hanno chiesto aiuto a livello internazionale per ritrovare Razan Zaitouneh e i colleghi. «Noi, i familiari di Razan Zaitouneh, attivista per i diritti umani, avvocato, scrittrice e, soprattutto, essere umano, rilasciamo la presente dichiarazione a oltre tre mesi dal rapimento premeditato che nessuno ha rivendicato e per il quale non sono emerse dichiarazioni né richieste, in un chiaro tentativo di guadagnare tempo e soffocare la libertà di parola di nostra figlia e dei suoi colleghi, al fine di costringerli a smettere di scrivere e privarli del diritto alla libertà di espressione», ha affermato la famiglia in una dichiarazione rilasciata nell’aprile 2014 e pubblicata da VDC. Attivisti e politici di tutto il mondo hanno chiesto la loro liberazione; tra essi anche il presidente Schulz, che ha affermato: «A nome del Parlamento europeo chiedo il loro rilascio immediato. […] La sua vita è stata messa in pericolo dal regime e dai gruppi ribelli per ciò che era, una giovane donna coraggiosa che rifiuta compromessi e continua a lottare pacificamente per la democrazia e per una Siria libera». 45 ONG, tra cui Reporter senza frontiere (organizzazione vincitrice del Premio Sacharov), hanno lanciato un appello congiunto per la liberazione degli attivisti rapiti. Al momento del conferimento del Premio nel 2011, Razan Zaitouneh viveva nascosta dopo essere fuggita a un’irruzione degli agenti della sicurezza nazionale in casa sua. La sua quota del Premio Sacharov è stata destinata a salvare la vita di un collega attivista vittima di torture. 2010 GUILLERMO FARIÑAS Psicologo, giornalista indipendente e dissidente politico cubano, GUILLERMO FARIÑAS , attuale portavoce dell’organizzazione dell’opposizione Unión Patriótica de Cuba, ha intrapreso nel corso degli anni ventitré scioperi della fame, nell’intento di conseguire con mezzi pacifici il cambiamento politico e la libertà di parola e di espressione nel suo paese. Come giornalista aveva fondato l’agenzia di stampa indipendente Cubanacán Press, nell’intento di informare il resto del mondo sulla sorte dei prigionieri politici a Cuba, ma è stato infine costretto dalle autorità a chiuderla. Nel febbraio 2010, dopo la morte sospetta di Orlando Zapata Tamayo, Fariñas iniziò uno sciopero della fame e della sete di 130 giorni, invocando la liberazione dei prigionieri politici che si erano ammalati dopo anni di detenzione. Fariñas ha terminato lo sciopero solo nel luglio 2010, dopo che il governo cubano aveva annunciato di essere in procinto di liberare 52 prigionieri politici. Guillermo Fariñas non ha potuto partecipare alla cerimonia di consegna del Premio Sacharov 2010 presso il Parlamento europeo poiché non è stato autorizzato a lasciare Cuba. Nel luglio 2012 è stato arrestato al funerale di un altro dissidente cubano e vincitore del Premio Sacharov, Oswaldo Payá, e detenuto per un breve periodo. Quando il governo di Cuba ha allentato le restrizioni di viaggio per i suoi cittadini e al rientro delle Damas de blanco a Cuba dopo la visita al Parlamento europeo, si è svolta nel luglio 2013 anche la cerimonia tardiva di consegna del Premio Sacharov in onore di Guillermo Fariñas presso il Parlamento europeo. Nel suo discorso di accettazione Fariñas ha affermato: «Oggi sono qui non perché la situazione sia fondamentalmente cambiata, ma a causa delle realtà del mondo moderno e, soprattutto, per la crescente resistenza civica dei cubani che ha costretto il regime a “cambiare tutto per non cambiare niente”, per dirla con le parole del leggendario Don Fabrizio de Il Gattopardo». Fariñas ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013 e al dibattito del Forum mondiale per la democrazia sul tema «Solution Journalism in Action», in cui ha sottolineato che i giornalisti andranno avanti con il loro lavoro affinché la gente a Cuba sappia cosa succede. Nel 2014 è stato ripetutamente arrestato e detenuto per brevi periodi, minacciato di morte e di confino in un ospedale psichiatrico, picchiato e ricoverato in ospedale. 2009 MEMORIAL Nata nel 1927, Ljudmila Alekseeva è a capo del gruppo, è una dei pochi dissidenti dell’era sovietica ancora attivi nella Russia moderna ed è nota per le campagne a favore di un giusto processo per i dissidenti. Oleg Orlov è uno dei leader di Memorial dal 1994 nonché membro del consiglio dell’associazione. Nel 2014 ha raccolto prove di rapimenti avvenuti nell’Ucraina orientale in occasione dei conflitti tra i separatisti filosovietici e le forze ucraine, riscontrando analogie con i rapimenti documentati da Memorial per decenni nel corso delle due guerre in Cecenia, dove Orlov stesso fu sequestrato. OLEG ORLOV, SERGEI KOVALËV e LJUDMILA ALEKSEEVA sono stati insigniti del Premio Sacharov nel 2009 a nome dell’associazione Memorial e di tutti gli altri difensori dei diritti umani in Russia. Istituita nel 1988, Memorial ha l’obiettivo di monitorare e rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani negli Stati dell’ex Unione Sovietica. Tra i fondatori dell’associazione vi è Andrej Sacharov, cofondatore anche del gruppo Helsinki di Mosca insieme a Ljudmila Alekseeva. Sergei Kovalëv, l’attuale presidente dell’associazione, è noto per aver negoziato nel 1995 il rilascio di circa 2 000 persone tenute in ostaggio dai ribelli ceceni presso l’ospedale di Budënnovsk, nell’unica occasione in cui un attacco terroristico in Russia non ha comportato un’uccisione di massa degli ostaggi. Egli accusa la Russia di interferire negli affari interni dell’Ucraina provocando una guerra civile, ed è lieto di constatare che i paesi civilizzati «abbandonano la consueta indifferenza» che, secondo lui, Putin ha imparato a sfruttare. I membri di Memorial e gli affiliati più stretti sono da anni soggetti a minacce, rapimenti e uccisioni. Nel 2014 l’associazione è stata registrata dalle autorità russe come «agente straniero», a seguito di emendamenti a una legge del 2012 che prevedono la registrazione come «agenti stranieri» delle ONG che, senza il consenso delle autorità stesse, ricevono finanziamenti dall’estero. Centinaia di ONG sono state colpite da tale legge sebbene nessuna ONG indipendente abbia fatto domanda per essere registrata volontariamente come «agente straniero», che in Russia significa «spia», come ha dichiarato Kirill Koroteev — avvocato di alto grado per Memorial — alla sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo. Orlov non ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013 al fine di poter comparire in tribunale per opporsi a tale legge, causa che Memorial ha perso anche in appello. Attualmente Memorial e altre ONG portano avanti la lotta dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche il gruppo Helsinki di Mosca si è rifiutato di registrarsi come «agente straniero» e Ljudmila Alekseeva ha dichiarato che avrebbe continuato la sua attività a favore dei diritti umani senza sovvenzioni straniere. Orlov ha trattato il tema della tortura in Russia in occasione dei dibattiti pubblici al festival del cinema «One World» nel 2014, mentre Koroteev ha rappresentato Memorial all’Iniziativa europea per la gioventù. 2008 HU JIA HU JIA Dissidente della Repubblica popolare cinese, è stato più volte incarcerato e rilasciato da quando il Parlamento europeo gli ha conferito il Premio Sacharov, nel ventesimo anniversario dello stesso, per le sue richieste di un’indagine ufficiale sul massacro di piazza Tienanmen e di risarcimento delle famiglie delle vittime, per il suo attivismo ambientale e per la lotta contro l’AIDS. Nel 2014 è stato nuovamente condannato a più riprese agli arresti domiciliari, come è del resto avvenuto ogni anno nel periodo dell’anniversario del massacro di piazza Tienanmen (il 4 giugno), da quando nel 2004 aveva deposto dei fiori nella piazza. Dal 2 luglio 2004 la sua casa a Pechino è sotto sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro. Talvolta non gli è permesso di uscire per comprare cibo o medicine. Nel 2007 ha coraggiosamente espresso la sua testimonianza, in una teleconferenza dinanzi alla sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo, richiamando l’attenzione su un milione di perseguitati dal dipartimento di sicurezza nazionale cinese, molti dei quali sono detenuti nelle carceri, nei campi di lavoro o in istituti psichiatrici a causa della loro lotta per i diritti umani. Come conseguenza diretta delle sue parole, il 27 dicembre 2007 Hu Jia è stato arrestato con l’accusa di «incitamento alla sovversione contro il potere dello Stato» e il 3 aprile 2008 è stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione, oltre alla sospensione dei diritti politici per un anno. Insignito del Premio Sacharov, ha subito pressioni da parte della polizia di Stato affinché rinunciasse all’onorificenza. Hu Jia ha invece coraggiosamente accettato, definendolo «un premio importante per la Cina». In una lettera al presidente del Parlamento europeo del luglio 2012, Hu Jia ha affermato di considerare il Premio «un grande onore» che lo ha «incoraggiato e ha notevolmente migliorato le sue condizioni di detenzione in carcere». Nel giugno 2011 è stato rilasciato e ha tentato di creare una ONG per i diritti umani, i cui membri sono stati tuttavia arrestati. Gestisce ora una rete di cittadini che si riuniscono in un’assemblea politica. Hu Jia è anche un coordinatore degli «avvocati scalzi», un gruppo informale di consulenti legali per la difesa degli attivisti dei diritti umani in Cina. La rete del Premio Sacharov, nella dichiarazione rilasciata nel 2013 in occasione del venticinquesimo anniversario del Premio, ha invitato le autorità cinesi a porre fine alle frequenti misure restrittive imposte al vincitore del Premio Sacharov Hu Jia. Quest’ultimo non ha potuto partecipare a causa delle limitazioni alla sua libertà imposte dalle autorità cinesi ed è stato rappresentato dalla moglie Zeng Jinyan, candidata al Premio Sacharov, la quale ha sottolineato la condizione dei prigionieri politici e delle loro famiglie. Nel 2014 le minacce e le molestie a Hu Jia si sono intensificate a tal punto da fargli temere che la sua stessa vita sia in pericolo. 2007 SALIH MAHMOUD MOHAMED OSMAN Quando il Parlamento europeo ha deciso all’unanimità di assegnare il Premio SALIH MAHMOUD OSMAN Sacharov a nel 2007, egli forniva già da oltre vent’anni assistenza legale gratuita alle persone vittime di detenzione arbitraria e tortura, nonché soggette a gravi violazioni dei diritti umani in Sudan. «Sono nato a Jebel Marra, una regione del Darfur. Ho lavorato come avvocato nel Darfur, in Sudan, per molti anni. A causa del mio lavoro sono stato vittima di detenzione e tortura. Anche i miei familiari sono stati torturati e allontanati dalle milizie nel Darfur. Per molti anni, nell’ambito della mia attività, ho difeso migliaia di persone che chiedevano il mio aiuto di fronte ai tribunali. Ho visto migliaia di persone torturate, centinaia di donne e di bambine vittime di violenza sessuale», ha affermato Salih Osman accettando il Premio presso il Parlamento europeo. Egli ha catalogato i crimini perpetrati nel paese ed è attivamente coinvolto nella protezione dei 3,2 milioni di sudanesi allontanati dalle loro case a causa dei continui conflitti in Sudan. Osman continua a richiamare l’attenzione su un conflitto che si protrae da oltre dieci anni, dal momento dello scoppio nella regione del Jebel Marra nel 2003, ed è stato descritto dalle Nazioni Unite come una delle situazioni umanitarie più gravi al mondo. Nonostante le forti pressioni internazionali e i tentativi di mediazione, non si è ancora giunti alla firma di un accordo di pace completo che comprenda tutte le parti belligeranti, mentre i gruppi rivoltosi si stanno unendo con una visione sempre più nazionale. Osman sottolinea che le cause all’origine della guerra, tra cui gli espropri terrieri e l’emarginazione politica, non solo rimangono irrisolte, ma sono state aggravate da ulteriori esigenze, rimaste insoddisfatte, di conformare la legislazione nazionale alle norme internazionali e garantire l’indipendenza della magistratura. Osman, membro dell’opposizione nel parlamento del Sudan dal 2005 al 2010, è un convinto sostenitore della Corte penale internazionale (CPI), poiché «gli africani non hanno nessuno a cui rivolgersi per chiedere giustizia e ricorso, data la mancanza di adeguati sistemi giudiziari in Africa», come ha dichiarato ai rappresentanti delle istituzioni dell’UE, della CPI e di oltre 200 organizzazioni della società civile presenti al forum UE-ONG del 2013, nel discorso che ha tenuto in qualità di vincitore del Premio Sacharov. Alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013 ha sostenuto la denuncia dell’impunità e della tortura nella dichiarazione finale. 2006 ALJAKSANDR MILINKEVIČ ALJAKSANDR MILINKEVIČ , leader del movimento «per la libertà» dell’opposizione democratica in Bielorussia, ha avuto «il coraggio di sfidare l’ultima dittatura in Europa», per citare le parole dell’allora presidente del Parlamento europeo Josep Borrell Fontelles al momento di consegnargli il Premio Sacharov. Milinkevič, fisico di formazione, è stato scelto come candidato comune dell’Opposizione democratica unita alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2005; egli rivendicava un futuro veramente democratico e si presentava come una reale alternativa all’autoritarismo di Lukašenko, la cui vittoria è stata fortemente criticata dall’opposizione, sia internamente alla Bielorussia che dall’estero, a causa di brogli elettorali. Dopo le contestazioni Milinkevič è stato arrestato con vari pretesti, ma nessuna accusa è stata formalizzata nei suoi confronti. Milinkevič non si è candidato alle elezioni presidenziali del 2010, poiché ha ritenuto che le leggi elettorali del paese non fossero state modificate in modo da garantire elezioni democratiche, libere e trasparenti. Lukašenko è rimasto al potere e la situazione dei diritti umani in Bielorussia è ulteriormente degenerata dopo le elezioni del 2010, con l’approvazione di una legge che criminalizza qualsiasi atteggiamento ritenuto critico nei confronti dello Stato, e la censura e l’incarcerazione di giornalisti, attivisti e altri critici dell’attuale regime continuano. Gli attivisti della società civile temono che possa essere emanata una legge sugli «agenti stranieri» simile a quella russa, sebbene Lukašenko sembri voler prendere le distanze dal Cremlino in seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014. Milinkevič ha accolto favorevolmente l’insolito utilizzo del bielorusso da parte di Lukašenko, che solitamente parla in russo, in un discorso del luglio 2014, ma ha dichiarato alla BBC che finora si tratta soltanto di una tendenza, non di una strategia. In qualità di vincitore del Premio Sacharov, Milinkevič viene periodicamente consultato dagli organi parlamentari che si occupano della Bielorussia e ha partecipato a eventi della rete del Premio Sacharov, tra cui la conferenza della rete nel 2013. In un dibattito della rete tenutosi in Lituania con Berta Soler, le autorità nazionali e i deputati dei parlamenti europeo e lituano, Milinkevič ha denunciato le continue intimidazioni e umiliazioni perpetrate dalle autorità nei confronti dei difensori dei diritti umani in Bielorussia. Si è dichiarato a favore di una maggiore integrazione europea per la Bielorussia e di un dialogo decisivo e costruttivo con le autorità bielorusse. Il dialogo si è rivelato un elemento chiave anche negli interventi di Milinkevič in occasione dei dibattiti pubblici al festival del cinema «One World». Egli ha auspicato un maggiore impegno dell’UE per quanto concerne la Bielorussia, al fine di promuovere la libertà. Secondo Milinkevič si potrebbe far leva sul fatto che il paese ha bisogno di assistenza economica per spingere la Bielorussia ad avviare un dialogo con l’UE, anche in materia di diritti umani. © AFP ImageForum 2005 DAMAS DE BLANCO DAMAS DE BLANCO Le (Donne in bianco) sono un movimento formatosi spontaneamente a Cuba nel 2003 a seguito dell’arresto di 75 uomini, loro mariti o parenti, durante la «primavera nera» di Cuba, una dura repressione nei confronti di attivisti per la democrazia da parte del regime cubano. Oltre a manifestare marciando per le strade, le attiviste hanno scritto numerose lettere alle autorità cubane per chiedere il rilascio dei prigionieri, senza mai ottenere risposta. Le Damas non si sono tuttavia arrese, e le loro continue proteste hanno ottenuto risultati: gli ultimi due prigionieri della primavera nera sono stati rilasciati nel marzo 2011. La maggior parte di essi hanno accettato l’esilio in Spagna, ma alcuni sono rimasti a Cuba e portano avanti la lotta in condizioni difficili e con gravi sacrifici personali, insieme alle indomite Damas de blanco. Le Damas continuano ogni domenica dopo la messa a manifestare per le vie dell’Avana, portando fiori e protestando contro le ingiustizie sociali a Cuba. Nonostante le difficoltà di comunicazione, le percosse, le detenzioni e le violenze psicologiche nei confronti delle Damas, un numero sempre crescente di donne si è unito a loro. Nel luglio 2014 circa 100 Damas sono state temporaneamente arrestate, e la portata insolita dell’arresto ha spinto altri dissidenti a concludere che il numero crescente delle Damas rappresenti ormai una minaccia per il regime cubano. Nel 2013 le Damas sono state finalmente in grado di ritirare personalmente il Premio Sacharov conferito loro nel 2005. La presidente Berta Soler e le rappresentanti del movimento, Belkis Cantillo Ramirez e Laura Maria Labrada Pollán — figlia dell’amata cofondatrice Laura Pollán, scomparsa nel 2011 — hanno ottenuto l’autorizzazione a lasciare Cuba dopo l’allentamento delle restrizioni ai viaggi dei cittadini cubani, per pronunciare un discorso al Parlamento, che aveva riconosciuto il loro coraggio e la loro dedizione alla causa dei diritti umani. Berta Soler ha paragonato il Premio Sacharov a uno «scudo» che avrebbe protetto le Damas al loro rientro a Cuba. Poco dopo la cerimonia di assegnazione del Premio Sacharov, le Damas e altri dissidenti tra cui Guillermo Fariñas, vincitore del Premio nel 2010, hanno dato vita a una piattaforma internazionale per i diritti umani a Cuba. Berta Soler ha rappresentato le Damas alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013, in occasione della quale, insieme a Guillermo Fariñas e alla figlia di Oswaldo Payá, ha esortato la rete a chiedere il rilascio dei prigionieri politici e dei prigionieri di coscienza a Cuba e nel resto del mondo. Ha inoltre preso parte a un dibattito della rete in Lituania insieme ad Aljaksandr Milinkevič, e ha costantemente invitato l’UE a imporre il rispetto dei diritti umani quale condizione per qualsiasi accordo con Cuba. 2005 HAUWA IBRAHIM HAUWA IBRAHIM Avvocato con esperienza in materia di sharia, è nata nel 1967 in una famiglia musulmana di un piccolo e povero villaggio dello Stato del Gombe, nella Nigeria settentrionale. All’età di dieci anni era destinata al matrimonio ma grazie alla sua caparbietà e ispirata dalla madre, la quale era convinta che l’istruzione fosse l’unico modo per uscire dalla povertà, è scappata di casa per frequentare un collegio femminile e continuare gli studi, fino a diventare il primo avvocato donna del suo Stato. Quando la sharia è stata introdotta nei 12 Stati settentrionali della Nigeria, a decorrere dal 1999, Hauwa Ibrahim ha sviluppato un’attività che non si può che definire straordinaria, difendendo tra l’altro donne accusate di adulterio e condannate a morte per lapidazione e minori accusati di furto e condannati all’amputazione degli arti. Ha seguito, talvolta a titolo gratuito, oltre 150 casi, salvando le vite di Amina Lawal, Safiya Hussaini, Hafsatu Abubakar e molti altri. Inizialmente, in quanto donna, non le era consentito parlare in un tribunale della sharia o rivolgersi direttamente a un giudice, ma doveva passare i propri appunti a colleghi uomini. Attualmente è invitata in tribunale solo per i casi difficili o che richiedono l’intervento di una personalità influente, poiché la sua fama è cresciuta e l’approccio nei confronti dell’applicazione della sharia, inizialmente indiscusso, è cambiato e i governatori degli Stati rifiutano di firmare le ormai impopolari condanne a morte. Grazie all’esperienza maturata, nel 2014 è stata nominata dal presidente Jonathan membro della commissione presidenziale incaricata di indagare sul caso delle 219 ragazze rapite dal gruppo terroristico di Boko Haram a Chibok, città della Nigeria settentrionale. Hauwa Ibrahim ha chiesto il sostegno internazionale per la «tragedia irrisolta» delle ragazze rapite, anche al Parlamento europeo e al Congresso statunitense, e ha esortato a intraprendere azioni più incisive contro la violenza nei confronti delle donne, la povertà estrema, l’elevata disoccupazione e la mancanza di opportunità laddove «la religione e l’estremismo religioso diventano un pericoloso oppio per i disperati». Hauwa ritiene fermamente che l’istruzione di tutti i bambini cominci a casa, con la madre, e quindi che la formazione delle ragazze possa migliorare la società nel suo insieme. Ha investito il denaro del Premio Sacharov in un fondo, i cui interessi servono a finanziare l’istruzione dei bambini poveri nella Nigeria settentrionale, pagando direttamente la retta e il materiale scolastico onde garantire che i bambini dispongano dei mezzi per continuare gli studi. Ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013, è intervenuta in materia di diritti dei minori nei dibattiti del «One World Film Festival» e ha tenuto una conferenza sul Premio Sacharov in Irlanda. REPORTER SENZA FRONTIERE (RSF) è un’organizzazione non governativa internazionale con sede in Francia che lotta per la libertà d’informazione in tutto il mondo. 2005 REPORTER SENZA FRONTIERE Secondo RSF la libertà di espressione e d’informazione saranno sempre le libertà più importanti al mondo e le fondamenta di ogni democrazia. L’organizzazione ritiene che se i giornalisti non sono liberi di riferire i fatti, denunciare gli abusi e informare il pubblico, non è possibile risolvere il problema dei bambini soldato, difendere i diritti delle donne o preservare l’ambiente. RSF esegue un monitoraggio continuo e denuncia gli attacchi alla libertà d’informazione nel mondo, lotta contro le leggi volte a limitare tale libertà e contro la censura, assiste i giornalisti perseguitati e le loro famiglie sia dal punto di vista morale che economico e offre assistenza materiale ai corrispondenti di guerra per migliorare la loro sicurezza. Per aggirare la censura, pubblica di tanto in tanto articoli che sono stati proibiti nel paese d’origine, ospita giornali che sono stati chiusi in patria e funge da forum per i giornalisti che sono stati ridotti al silenzio dalle autorità del loro paese. Per assicurare che gli assassini e i torturatori di giornalisti siano assicurati alla giustizia, dal 2002 la sua rete fornisce assistenza legale alle vittime e le rappresenta in giudizio. Ogni anno conferisce due premi, il Premio Reporter senza frontiere e il Premio Netizen, un riconoscimento per onorare i blogger, i giornalisti e i mezzi d’informazione di tutto il mondo. RSF pubblica ogni anno una classifica mondiale della libertà di stampa. Quella relativa al 2014 riguarda 180 paesi e mette in evidenza l’impatto negativo dei conflitti sulla libertà di informazione e sui soggetti interessati. La Siria ne è un esempio estremo, con ripercussioni sulla libertà di stampa anche dei paesi vicini, ma anche in Mali e nella Repubblica centrafricana l’importante perdita di posizioni per quanto riguarda la libertà di stampa è riconducibile ai conflitti. Secondo RSF, in Iran le promesse del nuovo presidente Hassan Rouhani sul miglioramento della libertà d’informazione non sono ancora state attuate. Come vincitore del Premio Sacharov, RSF ha messo in contatto altri vincitori e ha coordinato le attività. Nel 2013 i rappresentanti dell’organizzazione hanno partecipato attivamente alla conferenza della rete. Nel 2014 Olivier Basille, rappresentante di RSF presso l’UE, si è espresso sui disordini e sulla libertà di stampa in Ucraina in occasione dei dibattiti organizzati nel corso del festival cinematografico «One World», e ha dialogato con giovani studenti nell’ambito dell’Iniziativa europea per la gioventù, esortandoli a non avere paura di uscire dall’anonimato nell’affrontare questioni che richiedono coraggio. 2004 L’ASSOCIAZIONE BIELORUSSA DEI GIORNALISTI ASSOCIAZIONE (BAJ) è formata da quasi mille professionisti, i quali operano in condizioni estremamente difficili per proteggere i diritti dei giornalisti, spesso vittime di intimidazioni, persecuzioni, procedimenti penali o espulsioni dal paese. DEI GIORNALISTI L’impegno della BAJ a favore della causa della libertà di parola e della promozione del giornalismo indipendente e professionale in Bielorussia è fonte di ispirazione. L’Associazione lavora per accrescere la conoscenza del pubblico sul diritto costituzionale alla libertà d’informazione e su come esercitare i propri diritti. L’Associazione difende i diritti dei giornalisti soprattutto nei momenti di crisi, ad esempio nel periodo delle contestazioni violente che hanno fatto seguito alle elezioni presidenziali nel 2010. BAJ opera per liberalizzare i regolamenti giuridici sui media e incoraggiare il giornalismo etico e di qualità. Sin dalla sua istituzione è stata la principale associazione per l’indipendenza della stampa in Bielorussia, con l’obiettivo principale di fornire al pubblico informazioni più imparziali, complete, tempestive e vicine alla realtà. Nonostante i notevoli sforzi per migliorare la situazione dei mezzi d’informazione in Bielorussia, essa è ancora tutt’altro che favorevole. La legge bielorussa del 2009 sui mezzi di comunicazione consente alle autorità di chiudere i media considerati troppo critici. Per operare in Bielorussia i media stranieri devono ottenere una licenza, e lavorare per loro senza accredito rappresenta un ostacolo per i giornalisti locali che, se scoperti, ricevono avvertimenti dal KGB e dalla procura. Il codice penale contiene ancora articoli che prevedono la condanna in caso di diffamazione nei confronti dei funzionari di alto grado. I mezzi d’informazione indipendenti sono soggetti a discriminazione economica, poiché le principali imprese di distribuzione, spedizione e stampa sono gestite dallo Stato e possono rifiutarsi di fornire servizi ai mezzi di informazione troppo esplicitamente critici. L’Associazione e i suoi membri non si lasciano tuttavia scoraggiare e il suo presidente Zanna Litvina ha ricevuto i ringraziamenti pubblici di Ales Bjaljacki, candidato al Premio Sacharov, fondatore del centro per i diritti umani «Viasna» e uno dei più conosciuti prigionieri politici della Bielorussia. Nel giugno 2014 ha beneficiato di una liberazione anticipata e ne ha attribuito il merito al sostegno ricevuto a livello nazionale e internazionale, nonché alla costante attenzione prestata dai giornalisti al suo caso. I giornalisti, ha affermato, non scrivevano tanto di lui quanto della situazione riguardante i diritti politici e civili di un’intera nazione. Zanna Litvina ha rappresentato l’Associazione bielorussa dei giornalisti alla conferenza della rete organizzata in occasione del venticinquesimo anniversario dell’istituzione del Premio Sacharov nel 2013. Con lo scoppio dei tumulti nella vicina Ucraina nel 2014 e l’arresto di uno dei suoi membri, l’Associazione ha denunciato le violenze nei confronti dei giornalisti in Crimea, dichiarando che chi ricorre alla violenza contro i giornalisti dimostra la vera intenzione di interrompere la circolazione delle informazioni sgradite a determinati gruppi politici. BIELORUSSA © UN Photo/Sergey Bermeniev 2003 KOFI ANNAN, SEGRETARIO GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, E TUTTO IL PERSONALE DELLE NAZIONI UNITE NAZIONI UNITE Con l’assegnazione del Premio Sacharov alle nel 2003, il Parlamento europeo ha voluto riconoscere l’impegno di questa organizzazione a favore della pace, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il Premio Sacharov onora in particolare i collaboratori delle Nazioni Unite, che lavorano in modo instancabile per la pace nel mondo, spesso in condizioni difficili. Il Premio è stato assegnato, in particolare, alla memoria di Sergio Vieira de Mello, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e uno dei più degni rappresentanti dell’ONU. Incaricato speciale di Kofi Annan in Iraq, nel 2003 fu una delle vittime di un attentato al quartier generale dell’ONU a Baghdad. Kofi Annan è stato il settimo segretario generale delle Nazioni Unite, per le quali ha lavorato dal 1997 al 2006, e il primo a essere scelto fra il personale delle Nazioni Unite. È stato un assiduo promotore dei diritti dell’uomo, dello Stato di diritto, dell’attuazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio e dello sviluppo dell’Africa, e ha cercato di avvicinare le Nazioni Unite al pubblico di tutto il mondo creando legami con la società civile, il settore privato e altri partner. Nel 2005 ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la relazione intitolata In larger freedom (In una più ampia libertà), nella quale delinea la sua visione di una riforma completa e profonda dell’ONU. Ciò ha condotto, tra l’altro, alla creazione nel marzo 2006 di un nuovo Consiglio per i diritti umani in sostituzione della vecchia Commissione dei diritti umani, con l’obiettivo di rafforzare i meccanismi dell’organizzazione mondiale, in modo da promuovere e proteggere i diritti fondamentali e affrontare i maggiori trasgressori dei diritti umani. Nel 2007, dopo aver portato a termine due mandati come segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan è entrato a far parte di varie organizzazioni impegnate su questioni sia africane che mondiali, tra cui la propria fondazione Kofi Annan Foundation. Dal 2013 presiede il gruppo di leader mondiali The Elders, riunito da Nelson Mandela nel 2007. Nel 2012 ha ricoperto l’incarico di inviato speciale congiunto dell’ONU e della Lega araba in Siria con l’obiettivo di trovare una soluzione al conflitto nel paese, ma si è dimesso definendo la missione impossibile. Ritiene che la comunità internazionale non sia pronta a un intervento militare diretto, ma ha invitato un gruppo principale di paesi a collaborare per aiutare Iraq e Siria a risolvere gli attuali conflitti all’interno del loro territorio. 2002 OSWALDO JOSÉ PAYÁ SARDIÑAS OSWALDO JOSÉ PAYÁ SARDIÑAS (1952-2012) è meglio noto come il fondatore del progetto Varela, una campagna a sostegno di un referendum per chiedere l’introduzione di leggi per la protezione dei diritti civili, la convocazione di elezioni libere e pluraliste, il rilascio di tutti i prigionieri politici e l’introduzione di riforme economiche e sociali a Cuba. Attivo fin da giovane nell’ambito delle riforme, fu vittima in più occasioni di persecuzioni e condanne per le sue critiche alla politica e alle ingiustizie di Fidel Castro. Ciò non lo fece però desistere dal fondare, nel 1988, il Movimento cristiano di liberazione, divenuto uno dei più importanti movimenti di opposizione a Cuba. Nel 1990 Oswaldo Payá lanciò un appello per il dialogo nazionale e iniziò la raccolta di 10 000 firme per la conversione di una proposta civile in legge. Nel 1997 diede vita all’ambizioso progetto Varela, sostenuto da migliaia di cubani ma bloccato da una contro-iniziativa delle autorità cubane che resero permanente la natura socialista dello Stato cubano, una decisione che, secondo le dichiarazioni delle autorità, era stata approvata da un plebiscito. Numerosi attivisti coinvolti nel progetto Varela furono incarcerati durante la «primavera nera» del 2003, ma Payá non si arrese. Nel 2008 presentò un progetto di legge sull’amnistia per i prigionieri politici all’Assemblea nazionale e nel 2010 istituì il Foro Todos Cubanos. Sebbene non sia stato mai incarcerato, i suoi familiari affermano che aveva ricevuto numerose minacce di morte. Il 22 luglio 2012 ha perso la vita in un controverso incidente stradale a Cuba. Nel rendergli omaggio, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz si è dichiarato convinto che le sue idee sono destinate a sopravvivere, perché il suo lavoro e il suo impegno hanno ispirato una generazione di attivisti cubani che seguono il suo esempio nel promuovere la libertà politica e i diritti umani. Il Movimento cristiano di liberazione continua a chiedere il chiarimento delle circostanze del suo decesso. La sua famiglia ha respinto la versione ufficiale dell’incidente automobilistico. Sua figlia Rosa Maria ha chiesto l’avvio di un’indagine internazionale imparziale sulla morte del padre dinanzi al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni internazionali, denunciando la persecuzione e le minacce inflitte alla famiglia dagli agenti della sicurezza statale. Nel 2013 la famiglia di Payá si è temporaneamente trasferita negli Stati Uniti. Rosa Maria Payá ha presenziato alla conferenza per il venticinquesimo anniversario del Premio Sacharov presso il Parlamento europeo e, nella sua dichiarazione conclusiva, ha chiesto «un’indagine sulla morte del vincitore del Premio Sacharov per il 2002, Oswaldo Payá». Nel 2014 i familiari di Payá hanno incontrato Papa Francesco, nutrendo la speranza che sosterrà un referendum per lo svolgimento di libere elezioni a Cuba. 2001 IZZAT GHAZZAWI IZZAT GHAZZAWI (1952-2003) è stato uno scrittore e professore palestinese le cui opere sono incentrate sui problemi e sulle sofferenze causate dall’occupazione israeliana nei territori palestinesi e sulle proprie sofferenze personali. La sua vita fu segnata dall’uccisione, a opera dell’esercito israeliano, del figlio Ramy di 16 anni, nel 1993. Ramy venne ucciso nel cortile della scuola mentre prestava soccorso a un amico ferito. Nonostante questo tragico avvenimento, Izzat Ghazzawi ha sempre continuato a cercare il dialogo culturale e politico con il popolo israeliano. Figlio di profughi e proveniente da una famiglia numerosa che aveva trovato rifugio in Cisgiordania nel 1948, Izzat Ghazzawi scrisse il suo primo testo teatrale all’età di 13 anni. Conseguì un master in letteratura anglo-americana e insegnò all’università di Birzeit. Critico letterario, fu presidente dell’Unione degli scrittori palestinesi, scrisse romanzi e racconti, e organizzò e presiedette la prima conferenza internazionale degli scrittori in Palestina nel 1997. Fu anche membro del Comitato esecutivo del Consiglio palestinese per la giustizia e la pace. Fu più volte imprigionato e perseguitato dalle autorità israeliane per le sue attività politiche. La peggiore difficoltà che dovette sopportare in queste circostanze era la separazione dalla sua famiglia, in particolare dai suoi sei figli, che poteva vedere soltanto a due alla volta per 30 minuti ogni 15 giorni. Nel 1992 un incontro svoltosi a Gerusalemme con alcuni scrittori israeliani, che inizialmente aveva visto con apprensione, risultò invece un punto di svolta nella sua vita. Fu quello il momento in cui iniziò a vedere i suoi colleghi israeliani come partner con i quali costruire assieme un futuro in cui palestinesi e israeliani di qualsiasi estrazione sociale sarebbero stati alla pari. Nel presentarlo come vincitore del Premio Sacharov nel 2001, l’allora presidente del Parlamento europeo Nicole Fontaine gli rese omaggio per aver «promosso in maniera instancabile la causa della pace e del dialogo tra il popolo israeliano e il popolo palestinese», sottolineando che il suo ardore non era mai diminuito, nonostante la prigionia, la censura e, peggio di qualunque altra cosa, la perdita insostituibile del figlio sedicenne Ramy. Rivolgendosi al Parlamento europeo Ghazzawi auspicò la guarigione che possiamo ottenere nel momento in cui siamo in grado di capire le reciproche necessità (1). Poco dopo la morte del figlio, insieme allo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua e al fotografo Oliviero Toscani, pubblicò «Enemies», un libro sui rapporti tra palestinesi e israeliani che riscosse un enorme successo. Izzat Ghazzawi è morto il 4 aprile 2003. (1) Venticinquesimo anniversario del Premio Sacharov: il Parlamento europeo per la libertà di pensiero, Centro archivistico e documentario del Parlamento europeo, Quaderni del Cardoc, n. 11 – novembre 2013, pag. 112. 2001 NURIT PELED-ELHANAN NURIT PELEDELHANAN Nata in Israele nel 1949, è una docente universitaria e una scrittrice. Nel 1997 la figlia Smadar, che aveva 13 anni, fu vittima di un attacco suicida da parte di un attentatore palestinese nella zona occidentale di Gerusalemme. «Mia figlia è stata uccisa solo perché israeliana da un giovane oppresso ed esasperato al punto da suicidarsi e uccidere solo perché palestinese. Entrambi sono vittime dell’occupazione israeliana della Palestina. Il loro sangue si è mescolato sulle pietre di Gerusalemme, che da sempre sono indifferenti al sangue». Nurit Peled-Elhanan non consentì alle autorità israeliane, incluso il primo ministro, di partecipare al funerale della figlia. Figlia del famoso generale Matti Peled, noto per le sue campagne pacifiste e progressiste, Nurit Peled-Elhanan è diventata il simbolo di coloro che in Israele lottano contro l’occupazione e per la libertà della Palestina. È anche fortemente impegnata per cambiare la mentalità della società israeliana, in particolare quella delle giovani generazioni. La sua ultima pubblicazione, intitolata Palestine in Israeli school books: Ideology and propaganda in education (La Palestina nei libri di scuola in Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione), richiama l’attenzione sul fatto che l’istruzione nelle scuole israeliane sembra propendere più verso il razzismo che non verso la tolleranza e la diversità. Ha espresso forti critiche nei confronti di leader mondiali, quali George Bush, Tony Blair e Ariel Sharon, perché «contagiano i rispettivi cittadini con un terrore cieco nei confronti dei musulmani». Nurit Peled-Elhanan è cofondatrice del tribunale Russell, un tribunale popolare internazionale istituito nel 2009 per esaminare il ruolo e la complicità di terzi nelle violazioni del diritto internazionale perpetrate da Israele nei confronti del popolo palestinese. Nel 2013 ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov, richiamando ripetutamente l’attenzione sulle sofferenze dei bambini nelle zone di guerra e sotto occupazione. Quando il conflitto è scoppiato nuovamente a Gaza nel luglio 2014, Nurit Peled-Elhanan ha scritto attraverso i mezzi d’informazione e online: «Vi scrivo dall’entrata dell’inferno. Genocidio a Gaza, pogrom e massacri in Cisgiordania e paura dei bombardamenti in Israele […]. Faccio appello all’Unione europea affinché usi tutti i mezzi diplomatici ed economici a sua disposizione per aiutare a salvare il mio paese da questo abisso di morte e disperazione in cui viviamo […] e restituisca la vita sia ai palestinesi che agli ebrei israeliani». 2001 DON ZACARIAS KAMWENHO Quando fu candidato al Premio Sacharov, DON ZACARIAS KAMWENHO era il presidente del Comitato interconfessionale per la pace in Angola, un organismo ecumenico che riuniva la conferenza cattolica episcopale di Angola e Sao Tomé, della quale era altresì presidente, l’Alleanza evangelica di Angola e il Consiglio delle chiese cristiane di Angola. Il Parlamento europeo ha riconosciuto nei suoi appelli per un futuro di pace, democrazia e diritti umani in Angola una voce ferma, imparziale e instancabile, poiché Don Kamwenho aveva dispensato critiche senza alcun timore a entrambe le parti, sia al Movimento popolare di liberazione dell’Angola, sia al gruppo ribelle Unita, nel corso della guerra civile durata 27 anni che l’Angola ha subito dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Alla fine degli anni novanta aveva cominciato a diffondersi tra la popolazione dell’Angola una nuova consapevolezza della necessità di combattere per la pace e i diritti dell’uomo, incoraggiata dagli sforzi di autorità ecclesiastiche e di numerose organizzazioni della società civile, nello spirito di una «riconciliazione nazionale globale». Al vertice di questo movimento per la pace vi era la figura dell’arcivescovo Zacarias Kamwenho. Nato a Chimbundo nel 1934 e ordinato sacerdote nel 1961, Don Zacarias Kamwenho divenne arcivescovo di Lubango nel 1995. Con la sua fermezza, imparzialità e tenacia egli riuscì a farsi ascoltare da tutte le parti coinvolte nel conflitto, nel tentativo di raggiungere una pace duratura attraverso il dialogo politico. Il cessate il fuoco stabilito nel 2002, dopo l’assassinio di Jonas Savimbi, capo dell’Unita, i colloqui di pace e il clima generale favorevole a una democratizzazione, furono possibili in larga misura grazie alla campagna condotta da Don Zacarias Kamwenho e da altri leader religiosi e della società civile. Nel 2003 Monsignor Kamwenho rinunciò alla presidenza della conferenza episcopale d’Angola e di São Tomé, ma continuò a operare attivamente nell’ambito della sua diocesi e del Comitato ecumenico per la pace in Angola per la realizzazione della democrazia, per il rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, per l’instaurazione dello Stato di diritto e per una riconciliazione nazionale duratura. Nel 2007 ha dichiarato che «in particolare negli ultimi due anni è maturata nel popolo angolano una nuova consapevolezza riguardo alla necessità di lottare per la pace e per i diritti dell’uomo, incoraggiata e rappresentata dagli sforzi delle autorità ecclesiastiche e dei vari organi della società civile, con il fine ultimo di una riconciliazione nazionale globale». Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov. 2000 ¡BASTA YA! BASTA YA! I membri dell’organizzazione hanno rischiato la propria vita nella lotta contro il terrorismo. La loro unica «arma» era la mobilitazione pacifica dei cittadini in difesa delle libertà fondamentali. Per molti anni, le libertà essenziali e i diritti umani sono stati in pericolo nel Paese Basco a causa del terrorismo dell’ETA e di gruppi affini. Migliaia di persone sono state oggetto di campagne di intimidazione, di estorsione, di ricatto e di attacchi o attentati mortali diretti contro di loro, le loro famiglie e i loro beni, e non hanno potuto esprimersi liberamente né esercitare i propri diritti senza incorrere in gravi pericoli. L’organizzazione ¡Basta ya! è stata creata perché le libertà civili fondamentali e i diritti umani nel Paese Basco erano minacciati, in particolare quelli dei cittadini «non nazionalisti», a causa del terrorismo dell’ETA e delle attività di gruppi a essa affiliati. La sua creazione è avvenuta anche a seguito all’aumento del nazionalismo etnico e xenofobo tra i partiti nazionalisti più moderati e nell’ambito di gruppi che hanno cercato di trovare un accordo con l’ETA. L’iniziativa civica, il cui nome significa «Adesso basta!» e che nel luglio 2004 è stata riconosciuta quale organo consultivo del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, è un’associazione di persone impegnate a favore dei diritti umani fondamentali, della democrazia e della tolleranza nel Paese Basco. L’organizzazione è stata promotrice di varie attività, fra cui emergono le due grandi manifestazioni che hanno avuto luogo a San Sebastián nel febbraio e nell’ottobre del 2000. L’organizzazione chiedeva lo scioglimento dell’ETA, sosteneva le vittime del terrorismo e difendeva la costituzione e lo statuto come base per una coesistenza dignitosa di tutti i cittadini baschi. ¡Basta ya! si è sciolta nel 2007. I suoi leader, Carlos Martínez Gorriarán, Juan Luis Fabo, Rosa Díez e Fernando Savater, hanno formato il partito politico UPyD (Unión Progreso y Democracia), che attualmente si sta battendo per mantenere l’unità nazionale della Spagna. Fernando Savater, leader intellettuale del movimento, ha rappresentato ¡Basta ya! alla cerimonia di assegnazione del Premio Sacharov presso il Parlamento europeo nel 2000. Egli è intervenuto come rappresentante dell’organizzazione anche alla conferenza della rete del Premio Sacharov che commemorava il venticinquesimo anniversario del Premio. 1999 XANANA GUSMÃO (1) XANANA GUSMÃO , chiamato il «Mandela di Timor», è riconosciuto come leader e come simbolo della resistenza di Timor, che mirava a porre fine al conflitto armato per l’indipendenza dell’Indonesia. Accusato di separatismo e condannato a una pena di vent’anni, di cui sette scontati, venne insignito del Premio Sacharov dal Parlamento europeo appena uscito dal carcere nel 1999. Dopo il ritiro dei portoghesi ebbe inizio la destabilizzazione di Timor Leste a opera dell’Indonesia, che il 7 dicembre 1975 invase il paese. Gusmão entrò in clandestinità e nel 1978 diventò capo del braccio armato del «Fronte rivoluzionario per l’indipendenza di Timor Leste» (Fretilin). Secondo le stime, le violenze che accompagnarono l’invasione provocarono la morte di 200 000 persone, ma non riuscirono a piegare la determinazione del popolo a opporre resistenza. Xanana Gusmão cercò di ottenere una soluzione pacifica proponendo al governo indonesiano un piano di pace e trattative sotto l’egida delle Nazioni Unite. Nel 1986 riuscì a riunire nel «Consiglio nazionale della resistenza di Timor» (CNRT) le diverse forze politiche e sociali. Nondimeno, il 20 novembre 1992 Xanana Gusmão fu arrestato e condannato all’ergastolo, poi commutato in 20 anni di reclusione. La resistenza di Timor tuttavia non si fiaccò e fu esercitata un’enorme pressione internazionale sull’Indonesia per chiedere la liberazione di Gusmão. Quando venne liberato nel settembre 1999, poco dopo il referendum del 30 agosto, in cui l’80 % della popolazione di Timor votò per l’indipendenza, Gusmão promise di «fare tutto il possibile per portare la pace a Timor Leste e al mio popolo». Nelle prime elezioni presidenziali libere svoltesi nell’aprile 2002 a Timor Leste Xanana Gusmão è stato eletto con quasi l’83 % dei voti. Il 20 maggio 2002 il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha ufficialmente dichiarato l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Leste, della quale Xanana Gusmão è stato presidente fino al maggio 2007. Nel 2008 Xanana Gusmão è sopravvissuto a un tentativo di assassinio. È l’attuale primo ministro del paese e nell’agosto 2014 ha dichiarato di voler mantenere tale carica, sebbene in precedenza avesse annunciato la propria intenzione di rassegnare le dimissioni nel 2014. Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov. In occasione dell'epidemia di Ebola del 2014, contro la quale Timor Leste ha stanziato un milione di dollari, Gusmão ha dichiarato alle Nazioni Unite che «questa emergenza ci ricorda brutalmente che tutti i colpi allo sviluppo sono amplificati dalle esistenti vulnerabilità e dalla debolezza delle istituzioni». (1) Xanana Gusmão ha modificato legalmente il proprio nome, José Alexandre Gusmão, in Kay Rala Xanana Gusmão. Kay Rala era il suo nome di battaglia durante la lotta per la libertà e l’autodeterminazione di Timor Est, mentre Xanana è il nome con cui era conosciuto in gioventù. 1998 IBRAHIM RUGOVA Nel 1998, con l’aggravarsi del conflitto armato tra i reparti serbi e l’Esercito di liberazione del Kosovo, il Parlamento europeo rese onore a IBRAHIM RUGOVA (1944-2006), un uomo che si è impegnato per il principio della resistenza pacifica contro la violenza. Nell’accettare il premio, Ibrahim Rugova ha affermato: «Questo premio rappresenta per me e per tutte le persone del Kosovo il riconoscimento della nostra lotta pacifica e dei nostri sacrifici». Ibrahim Rugova, nato il 2 dicembre 1944 a Cerrca (Istog) nel Kosovo, insegnò lettere all’università di Priština prima di essere eletto leader della Lega democratica del Kosovo (LDK) nel 1989. Nello stesso anno Belgrado abrogò lo statuto di autonomia della provincia del Kosovo, dando inizio alla repressione della popolazione albanese e agli arresti di leader dell’opposizione. Nel 1990 i due milioni di albanesi del Kosovo adottarono la propria costituzione. Nel 1991, con un referendum, il 97 % di loro si espresse a favore dell’indipendenza del Kosovo e nel 1998 Ibrahim Rugova fu confermato presidente dell’autoproclamata «Repubblica del Kosovo». Rugova continuò la sua opposizione non violenta contro il regime serbo, mantenendo sempre la disponibilità al dialogo con Belgrado. La sua posizione negoziale fu criticata da Adem Demaçi, favorevole a un approccio più nazionalista. Allo stesso tempo, egli operò per interessare l’opinione pubblica mondiale alla causa del suo popolo. Il suo appello alla comunità internazionale affinché aumentasse le sue pressioni e offrisse una protezione internazionale al Kosovo continuò a risuonare con immutato vigore. Nella convinzione che l’autodeterminazione del suo popolo fosse possibile soltanto una volta conseguita la pace, il 18 marzo 1999 Ibrahim Rugova firmò, in veste di rappresentante negoziale degli albanesi del Kosovo, l’accordo di pace di Rambouillet. Il rifiuto di Belgrado di firmare l’accordo provocò, il 24 marzo, gli attacchi aerei della NATO contro la Jugoslavia e il ritiro delle forze jugoslave dal Kosovo. Rugova fu costretto alla clandestinità. Nel marzo 2002 Ibrahim Rugova venne eletto primo presidente del Kosovo. Morì di cancro il 21 gennaio 2006. 1997 SALIMA GHEZALI SALIMA GHEZALI è una giornalista algerina, una scrittrice e una sostenitrice dei diritti delle donne. Negli anni ottanta si impegnò dapprima nel movimento delle donne algerine, tra l’altro come membro fondatore di «Donne d’Europa e del Maghreb» e come caporedattrice della rivista femminile NYSSA da lei fondata. Insegnante di professione, intraprese la carriera di giornalista dirigendo dal 1994 La Nation, il settimanale algerino in lingua francese più letto in Algeria. Durante gli undici anni in cui infuriava la guerra civile iniziata nel 1991 tra il governo algerino e gruppi di ribelli islamici, La Nation sostenne il dialogo politico tra tutte le parti del conflitto, i diritti umani e la libertà di espressione per tutti, criticando — e fu l’unica testata a farlo — sia il governo che gli estremisti islamici; ragione per cui la rivista venne più volte sequestrata e sospesa, fino alla chiusura definitiva nel 1996, dopo la pubblicazione su Le Monde Diplomatique di un articolo in cui Salima Ghezali descriveva la situazione dei diritti umani in Algeria. La Nation ha ripreso la pubblicazione via Internet nel 2011. In una lettera del direttore, Salima Ghezali spiegava le sue motivazioni: «Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle dinamiche dei giovani del mondo arabo che lottano per la loro dignità e per la loro libertà. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte a ciò che sta accadendo nel nostro paese. Vogliamo che il popolo algerino sia felice, perché lo merita. Vogliamo istituzioni solide e risorse umane migliori, in una vera democrazia e nello Stato di diritto» e concludeva esprimendo il desiderio di «un’Algeria migliore, dove il buon governo sia la norma». Salima Ghezali ha ricevuto diversi premi per la difesa dei diritti dell’uomo e continua il suo attivismo a favore dei diritti delle donne, dei diritti umani e della democrazia in Algeria. Nel 2013 ha partecipato attivamente a una serie di eventi organizzati dalla rete del Premio Sacharov, tra cui una conferenza su Sacharov a Marsiglia e la conferenza commemorativa del venticinquesimo anniversario del Premio Sacharov. 1996 WEI JINGSHENG Nonostante l’esilio, il «padre del movimento democratico cinese» JINGSHENG WEI rimane un leader attivo dell’opposizione alla dittatura comunista cinese. È l’autore di The Courage to Stand Alone: letters from Prison and Other Writings (Il coraggio di lottare da soli. Lettere dal carcere e altri scritti), articoli che furono scritti inizialmente sulla carta igienica durante gli anni del carcere e che sono attualmente pubblicati in più di dieci lingue. Fu condannato due volte al carcere per una pena complessiva di 29 anni, di cui ne ha scontati oltre 18, per le sue attività e i suoi scritti a sostegno della democrazia, fra cui il saggio innovativo del 1978 intitolato The Fifth Modernization: Democracy (La quinta modernizzazione: la democrazia). Tutto ebbe inizio con un manifesto murale firmato apparso sul muro della democrazia a Pechino, nel quale lavoratori, artisti e intellettuali esercitavano la loro libertà di espressione. L’evento suscitò scalpore, non soltanto perché rappresentava un attacco aperto alla «dittatura popolare democratica» dei comunisti, ma anche perché Wei Jingsheng aveva osato firmare con il proprio nome e i propri recapiti. In Exploration, una rivista clandestina da lui diretta e fondata, Wei scrisse «Democracy or a New Dictatorship?» (Democrazia o una nuova dittatura?) in cui identificò il leader comunista Deng Xiaoping come il nuovo dittatore. Arrestato tre giorni più tardi, nel 1979 Wei fu condannato per attività «controrivoluzionaria» a 15 anni di carcere. Wei conobbe il braccio della morte, l’isolamento e i lavori forzati sotto stretta sorveglianza fino al 1993, quando fu rilasciato a seguito della decisione della Cina di partecipare ai giochi olimpici del 2000. Dopo sei mesi venne nuovamente arrestato, processato e condannato per attività «controrivoluzionaria» a una pena detentiva di altri 14 anni. Quando fu insignito del Premio Sacharov nel 1996 si trovava ancora in carcere. Nel 1997, dopo fortissime pressioni internazionali, Wei venne prelevato dalla sua cella e imbarcato su un aereo per gli Stati Uniti. Egli ritiene di non essere stato liberato, ma mandato in esilio come ulteriore punizione. Attualmente residente a Washington, Wei è a capo della Wei Jinsheng Foundation, della Overseas Chinese Democracy Coalition e della Asia Democracy Alliance. Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov, che ha invitato le autorità cinesi a liberare tutti i difensori dei diritti umani attualmente in carcere. In un articolo scritto nel 2014 per commemorare il venticinquesimo anniversario della protesta di piazza Tienanmen, egli ha dichiarato di credere che la democrazia infine prevarrà in Cina, affermando che senza dubbio il popolo cinese, traendo la propria forza dagli atti eroici del 1989, troverà un percorso che lo condurrà alla democrazia. 1995 LEYLA ZANA LEYLA ZANA è stata, nel 1991, la prima donna curda a ottenere un seggio al parlamento turco. Ha scontato una pena detentiva di dieci anni per il suo attivismo politico che, secondo i tribunali turchi, nuoceva all’unità del paese. All’età di 15 anni sposò Mehdi Zana, ex sindaco di Diyarbakir, che negli anni ottanta durante il governo militare era stato in carcere per presunto separatismo. Iniziata la scuola a 23 anni, Leyla Zana ottenne il diploma di istruzione primaria e secondaria in tre anni per poi assumere infine un non richiesto ruolo di leader, poiché il suo percorso personale era percepito come sinonimo della realizzazione dei diritti fondamentali per la popolazione curda. Eletta al parlamento con una maggioranza schiacciante di voti, durante la cerimonia di giuramento provocò uno scandalo dichiarando in lingua curda il suo impegno per «la fratellanza tra il popolo curdo e quello turco». All’epoca dei fatti, esprimersi pubblicamente in curdo era un reato. Nel 1994 le fu revocata l’immunità parlamentare e venne condannata a 15 anni di detenzione «per tradimento e per aver fatto parte del partito curdo dei lavoratori (PKK)», un’accusa che la donna smentì. Nel 1995 il Parlamento europeo le conferì il Premio Sacharov per la sua coraggiosa difesa dei diritti umani e per il suo impegno nel cercare una risoluzione pacifica e democratica ai conflitti tra il governo turco e la popolazione curda. Nel 2004, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo stabilì che non era stata sottoposta a un processo equo e indipendente, Leyla Zana fu finalmente in grado di tenere un discorso al Parlamento europeo in occasione della cerimonia di consegna del premio assegnatole. Nel 2012 è stata condannata ad altri dieci anni di reclusione per presunta propaganda terroristica. Rieletta come deputato al parlamento nel 2011, ha ricevuto l’immunità parlamentare fino al 2015. Nel giugno 2012 Leyla Zana ha incontrato il primo ministro Erdogan dopo aver affermato pubblicamente che auspicava una risoluzione della questione curda. La sua iniziativa è servita come base per il processo negoziale fra il PKK e il governo turco, grazie al quale nel marzo 2013 Abdullah Öcalan, leader del PKK, ha lanciato un appello storico affinché il partito abbandoni la resistenza armata per abbracciare una lotta politica democratica. Leyla Zana è tuttora attiva nel processo di pace in corso. Nel 2013, nella sua dichiarazione finale come partecipante alla conferenza della rete del Premio Sacharov, ha sollecitato la rete ad accogliere favorevolmente i colloqui di pace in atto fra il governo turco e il leader curdo detenuto Abdullah Öcalan per giungere a una soluzione duratura al conflitto curdo che si protrae ormai da decenni. 1994 TASLIMA NASREEN TASLIMA NASREEN Nata nel 1962 in Bangladesh, iniziò a scrivere all’età di 13 anni ed è famosa per l’intensità dei suoi scritti sull’oppressione delle donne e per le sue critiche indefesse nei confronti della religione, nonostante l’esilio forzato e le numerose fatwa di morte pronunciate nei suoi confronti. Premiata scrittrice, le sue opere sono tradotte in trenta lingue. Taslima Nasreen è anche un fisico, un’umanista laica e un’attivista dei diritti umani che si riconosce fortemente nella sua identità bangladese. A causa del suo pensiero e delle sue idee, tuttavia, alcuni dei suoi libri sono stati messi al bando in Bangladesh e a lei stessa è vietato l’accesso al Bengala, sia al Bangladesh che al Bengala occidentale. Quando nel 1994 le fu conferito il Premio Sacharov, aveva già trovato rifugio in Europa e aveva vissuto in esilio in Francia e in Svezia. Nel suo discorso di ringraziamento alla consegna del Premio, Taslima Nasreen ricordò che veniva da una parte del mondo in cui le tensioni sociali e le difficoltà umane sono insopportabili. Come scrittrice non poteva chiudere gli occhi dinanzi alle sofferenze quotidiane e alle morti per fame che vi imperversano. Alcuni anni più tardi, nel settembre 1998, Taslima Nasreen tornò in Bangladesh per vedere la madre in fin di vita. Non appena la notizia si diffuse, i fondamentalisti religiosi tornarono a chiedere la morte della scrittrice. Il tribunale emise un ordine di cattura nei suoi confronti e minacciò di sequestrarle i beni. Il Parlamento europeo accolse il grido di aiuto di Taslima Nasreen e invitò il governo del Bangladesh a tutelare la vita e la sicurezza della donna. A causa delle continue minacce, nel gennaio 1999 Taslima Nasreen abbandonò nuovamente il suo paese. Attualmente vive a Nuova Delhi, essendo stata espulsa dal Bengala, che considera la sua patria d’adozione, da una fatwa lanciata nel 2011 da esponenti religiosi di Calcutta. Nel 2014 la Commissione nazionale per i diritti umani del Bangladesh ha sostenuto il suo diritto di ritornare in patria. In una visita al Parlamento europeo nel giugno 2013 Taslima Nasreen, che si batte contro l’estremismo religioso in tutte le religioni, ha esortato a sostenere i movimenti laici in Bangladesh per contrastare lo sviluppo del fondamentalismo islamico. Nel novembre 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov. 1993 OSLOBODJENJE OSLOBODJENJE è un quotidiano bosniaco. Il suo nome significa «liberazione» e ha rappresentato un’ancora di salvezza per la popolazione di Sarajevo presa d’assedio durante il conflitto nella ex Jugoslavia fra il 1992 e il 1996, riuscendo nell’impresa di essere pubblicato tutti i giorni tranne uno. Oslobodjenje ha impiegato dipendenti bosniaci, serbi di Bosnia e croati di Bosnia. Nessuno di loro, pur avendone la possibilità, ha lasciato il giornale allo scoppio del conflitto. Continuando a lavorare al giornale e lottando per mantenere l’unità e la diversità etnica della loro città e del loro paese, essi hanno smascherato le bugie della propaganda per una Grande Serbia, secondo cui era impossibile una convivenza pacifica fra serbi, croati e musulmani. Alla fine della guerra, dei 75 coraggiosi giornalisti che rischiavano quotidianamente la vita, cinque erano stati uccisi e 25 feriti. Tutti hanno vissuto drammi personali, tra cui la morte di persone care, e sono stati traumatizzati dai massacri di cui erano quotidianamente spettatori. Gli uffici di Oslobodjenje, situati in una delle zone di guerra più pericolose di Sarajevo, furono ridotti a un cumulo di macerie. I dipendenti si trasferirono in un rifugio antiatomico, ricavando generatori elettrici improvvisati dai motori di vecchie automobili Lada e attraversando ogni giorno la «Sniper’s Alley» («via dei cecchini») per andare al lavoro, passando così vicino ai tiratori da sentirli chiacchierare e canticchiare. «I nostri sforzi erano diretti contro la morte e contro la divisione, se non la totale cancellazione, della Bosnia-Erzegovina dalla carta geografica» ha dichiarato Zlatko Disdarevič, all’epoca uno dei redattori del giornale. I giornalisti di Oslobodenje hanno fatto del loro lavoro quotidiano un simbolo di resistenza. Essi consegnavano di persona le copie quando gli autisti incaricati della consegna lo reputavano troppo pericoloso e, quando la rete delle 700 edicole che vendevano Oslobodenje in tutta la Bosnia fu rasa al suolo da incendi, le pagine contenenti le notizie venivano ritagliate e inviate via fax, per poi essere ricomposte in modo tale che fosse possibile leggerle anche in altre città distrutte, come Mostar. Nel 1993 i redattori di Oslobodenje furono nominati «Redattori internazionali dell’anno» dalla World Press Review per il loro «coraggio, la loro tenacia e la loro dedizione ai principi del giornalismo», oltre ad aggiudicarsi numerosi altri premi giornalistici. Nel 2006 il giornale è stato acquistato da due delle principali imprese della città e l’attuale sito del giornale dichiara che, nonostante l’organizzazione sia molto cambiata, permane lo «strenuo impegno per le cause della libertà e della giustizia». Vildana Selimbegovic ha rappresentato, in qualità di redattrice, il quotidiano Oslobodenje alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013. Era uno dei membri della redazione all’epoca della guerra e, nonostante sia rimasta segnata dall’esperienza vissuta, continua a svolgere il suo lavoro con dedizione. © 2005 John Isaacson 1992 LE MADRI DI PLAZA DE MAYO MADRI DI PLAZA DE MAYO Per molti anni le sono rimaste unite nella lotta e nel dolore per non aver mai ritrovato i propri figli dispersi. Questo movimento, nato dalla ricerca delle madri dei propri figli scomparsi durante la cosiddetta «guerra sporca» in Argentina (1976-1983), ha contribuito alla deposizione del regime militare nel paese, nonché a far scattare i processi e la successiva detenzione di alcuni responsabili di crimini contro l’umanità. Essere una delle Madri di Plaza de Mayo significava affrontare la paura e sopportare le minacce, la violenza e gli arresti casuali in un paese in cui si riteneva che le donne dovessero subire le ingiustizie in silenzio. Queste donne utilizzarono i loro corpi come manifesti mobili delle fotografie e dei nomi dei propri figli scomparsi e delle suppliche per riaverli indietro. In un momento in cui era vietato perfino riunirsi in gruppo per la strada, le Madri diedero inizio alla loro prima protesta camminando lentamente in cerchio in senso antiorario nella Plaza de Mayo. Durante la prima protesta erano in quattordici, ma in seguito svariate centinaia di madri si unirono a loro, continuando la loro resistenza passiva anche quando alcune di loro «scomparvero». Nel 2014 le Madri hanno celebrato il trentesimo anniversario del movimento e le 1900 marce da quando hanno iniziato, il 30 aprile 1977, a denunciare pubblicamente la scomparsa dei loro figli manifestando ogni giovedì. Nel 1986 il movimento si è diviso tra la linea fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo e l’Associazione delle Madri di Plaza de Mayo, sebbene entrambi i gruppi abbiano madri fondatrici tra i loro membri. Nel luglio 2014 la linea fondatrice si è espressa contro la proposta di legge avanzata dai parlamentari del partito della presidente Kirchner di adottare il fazzoletto bianco annodato sulla testa, emblema delle Madri, come simbolo nazionale argentino unitamente alla bandiera e all’inno nazionale, dichiarando che il loro è un movimento di resistenza attiva e che il fazzoletto che le contraddistingue è un segno dell’amore che le unisce ai loro figli. L’associazione delle madri, guidata da Hebe Bonafini, ha approvato la proposta. L’associazione si adopera affinché l’università popolare istituita dal gruppo sia nazionalizzata e diventi l’istituto universitario per i diritti umani Madres de Plaza de Mayo, proposta già approvata dal senato e da due commissioni della camera dei deputati, nonostante l'opposizione politica. Il gruppo si occupa anche di progetti urbani. Allo scoppio del conflitto a Gaza nel 2014, Hebe Bonafini ha espresso solidarietà al popolo palestinese e, in particolare, alle madri palestinesi, che «sono quelle che più soffrono» nel cercare di proteggere i propri figli. 1991 ADEM DEMAÇI ADEM DEMAÇI Nato a Pristina, Kosovo, nel 1936, è uno scrittore che ha passato la maggior parte della sua vita, tra il 1958 e il 1990, in prigione per aver lottato per i diritti fondamentali degli albanesi del Kosovo e per aver reso nota la triste verità sulla repressione attuata dalla Serbia nei confronti di due milioni di albanesi in Kosovo. «Ai nostri giorni possiamo confermare che la libertà di parola è il primo irrinunciabile passo verso la democrazia. Senza la libertà di parola non esiste dialogo, senza dialogo non si può conoscere la verità e senza verità è impossibile il progresso». Dopo la sua liberazione, Adem Demaçi assunse la direzione del Consiglio per la difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà. Nel 1996 intraprese la carriera politica come membro e presidente del partito parlamentare del Kosovo facendosi promotore delle proteste aperte nei confronti del regime serbo e sostenendo che la non-violenza non significa essere passivi. Diede così inizio a una campagna di protesta visibile, sebbene non violenta, nei confronti delle autorità serbe, che consisteva nel chiedere ai kosovari di spegnere le luci per cinque minuti e di rimanere immobili per strada per un minuto, esattamente nello stesso momento. Dal 1998 al 1999, durante la guerra del Kosovo, fu rappresentante politico dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e rimase in Kosovo dopo che altri leader avevano lasciato il paese. Dopo il conflitto si dedicò prevalentemente alla riconciliazione etnica e al ritorno dei profughi, assumendo la presidenza del Comitato per la comprensione reciproca, la tolleranza e la coesistenza, che riunisce rappresentanti di tutte le etnie del Kosovo, «perché il Kosovo appartiene a tutti» e «perché vogliamo una società libera, democratica e multietnica». Demaçi è ancora un’autorità politica eminente in Kosovo e nel giugno 2014 ha salutato il primo incontro storico fra i governi del Kosovo e dell’Albania come un passo verso il rafforzamento dei due paesi e degli albanesi in generale. «Il Kosovo e l’Albania avrebbero dovuto fare quel passo molto tempo fa, ma è meglio tardi che mai» ha dichiarato a un quotidiano kosovaro, elogiando nel contempo l’istituzione di un fondo destinato a sostenere gli albanesi ancora residenti in Serbia. Adem Demaçi non ha potuto partecipare, nel 2013, alla conferenza della rete del Premio Sacharov in cui si celebrava anche il venticinquesimo anniversario del Premio, per motivi legati all’età avanzata e alle sue condizioni di salute. 1990 AUNG SAN SUU KYI AUNG SAN SUU KYI Il ruolo preminente svolto da nella lotta per la democrazia in Myanmar/Birmania è stato riconosciuto attraverso il conferimento del Premio Sacharov nel 1990. Ventitré anni dopo, il 22 ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha potuto finalmente ritirare di persona il suo Premio Sacharov per la libertà di pensiero. In una cerimonia solenne al Parlamento europeo, dinanzi ai rappresentanti eletti di 28 Stati membri, Aung San Suu Kyi ha pronunciato un discorso appassionato a favore dei valori democratici, sottolineando che la transizione birmana verso tali valori è tuttora lungi dall’essersi compiuta. L’attuale costituzione, ha affermato, assicura un ruolo privilegiato all’esercito, il che deve cambiare per poter garantire il diritto dei cittadini birmani di «vivere secondo la propria coscienza» e «prendere in mano il proprio destino». Aung San Suu Kyi ha chiesto alla comunità internazionale di continuare a sostenere lo sviluppo della democrazia e i diritti umani in Myanmar/Birmania e ha ringraziato il Parlamento europeo per il sostegno prestato da lungo tempo alla sua causa. Figlia di Aung San, eroe nazionale dell’indipendenza birmana assassinato quando lei aveva due anni, e di Khin Kyi, eminente diplomatica birmana, Suu Kyi assistette a una brutale repressione degli oppositori del regime militare di U Ne Win quando ritornò in Myanmar/Birmania per accudire la madre morente nel 1988. I massacri la spinsero a iniziare la sua lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani. Nonostante nel 1990 la Lega nazionale per la democrazia da lei fondata avesse ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni, la giunta militare non solo rifiutò di cedere il potere, ma attuò anche una dura repressione nei confronti dei sostenitori della Lega, con arresti e sanguinose rappresaglie. Aung San Suu Kyi trascorse la maggior parte dei vent’anni successivi agli arresti domiciliari o in prigione e durante questo periodo le autorità rifiutarono di concedere al marito un visto per farle visita in Myanmar/Birmania, nonostante gli fosse stato diagnosticato un cancro. La esortavano invece a lasciare il paese ma, ben sapendo che non le sarebbe stato consentito ritornare, Suu Kyi decise di non partire e di non vedere il marito fino alla morte dello stesso, avvenuta nel 1999. Suu Kyi era ancora agli arresti domiciliari quando nel 2010 si sono svolte le prime elezioni in vent’anni in Myanmar/Birmania, ma fu rilasciata sei giorni dopo. Con l’avvio delle riforme democratiche nel paese, Suu Kyi si è candidata alle elezioni parlamentari suppletive dell’aprile 2012, nelle quali il suo partito ha vinto 43 seggi su 45, ed è quindi divenuta il leader dell’opposizione parlamentare. © Platon/Trunk Archive Aung San Suu Kyi è ora impegnata in una battaglia per una riforma della costituzione che le consenta di candidarsi alla presidenza del paese. © CTK Photo/Igor Zehl 1989 ALEXANDER DUBČEK ALEXANDER DUBČEK (1921-1992) è stato la figura principale del movimento riformista noto come «Primavera di Praga», che si è sviluppato nel 1968 in Cecoslovacchia. Cresciuto in una famiglia impegnata nel sostenere la creazione del socialismo in Unione Sovietica, nel 1939 Dubček aderì segretamente al partito comunista e partecipò al movimento di resistenza clandestino contro lo Stato filogermanico della Slovacchia. Quando nel 1968, da comunista militante, divenne il primo segretario del partito comunista cecoslovacco, Dubček cercò di liberalizzare il regime comunista. Egli avviò una serie di riforme volte a garantire una maggiore libertà di espressione della stampa e la riabilitazione delle vittime dell’era delle epurazioni politiche di Stalin e varò anche riforme economiche nonché un ampio processo di democratizzazione della vita politica cecoslovacca. Le sue riforme destarono però la preoccupazione di Mosca e i suoi sforzi per un «socialismo dal volto umano» furono annientati, il 21 agosto 1968, dai carri armati del Patto di Varsavia che assunsero il controllo di Praga. Dubček venne rapito dal KGB, portato al Cremlino e detenuto per un breve periodo. Nel 1970 fu accusato di tradimento, rimosso da tutti gli incarichi ed espulso dal partito comunista cecoslovacco. Per quindici anni sopravvisse lavorando come semplice operaio, per poi tornare alla vita politica come attivista per i diritti civili nel 1988. Quando, il 22 novembre 1989, fu insignito del Premio Sacharov, Alexander Dubček era ancora un cittadino privato dei diritti umani (1), ma soltanto pochi giorni dopo, il 28 novembre, il partito comunista cecoslovacco abbandonò il potere, rovesciato dalla Rivoluzione di velluto. «Sono assolutamente convinto che il “respiro di libertà” di cui godettero cechi e slovacchi quando Dubček fu il loro leader non era che un’anticipazione delle rivoluzioni pacifiche che stanno ora avendo luogo nell’Europa orientale e nella stessa Cecoslovacchia», scrisse Sacharov in un messaggio al Parlamento il 10 dicembre 1989, solo quattro giorni prima della sua morte. Dopo la rivoluzione del 1989 in Cecoslovacchia, Dubček fu eletto presidente dell’Assemblea federale dal 1989 al 1992. Nel discorso pronunciato al Parlamento europeo nel gennaio 1990 in occasione della consegna del Premio Sacharov, Dubček ha osservato che «anche nei momenti più difficili della loro storia, le nazioni che costituiscono il mio paese non hanno mai cessato di sentire che erano parte della grande lotta dell’umanità per la libertà» e che, dalla Primavera di Praga alla Rivoluzione di velluto, «sono sopravvissuti gli stessi ideali di libertà, sovranità e giustizia sociale». Alexander Dubček morì in un incidente stradale nel novembre 1992. (1) Venticinquesimo anniversario del Premio Sacharov: il Parlamento europeo per la libertà di pensiero, Centro archivistico e documentario del Parlamento europeo, Quaderni del Cardoc, n. 11 – novembre 2013, pag. 55. 1988 NELSON ROLIHLAHLA MANDELA «Ciò che conta nella vita non è il semplice fatto di aver vissuto. È la differenza che abbiamo fatto nella vita degli altri», a dichiarare una volta. NELSON MANDELA ebbe Nelson Mandela è morto il 5 dicembre 2013 nella sua casa a Johannesburg, all’età di 95 anni. La sua scomparsa ha suscitato grande cordoglio in tutto il mondo, ma anche la celebrazione di una vita dedicata alla libertà e alla democrazia. Egli fu, nel 1988, il primo vincitore del Premio Sacharov del Parlamento europeo, assieme al dissidente sovietico Anatolij Marchenko. All’epoca si trovava ancora agli arresti domiciliari a causa del regime dell’apartheid in Sud Africa, un regime che l’ha tenuto prigioniero per 27 anni a causa della sua lotta contro il razzismo. Mandela era un membro attivo dell’African National Congress e cofondatore del primo studio legale di colore sudafricano; la sua militanza si intensificava a mano a mano che l’apartheid diveniva più opprimente. Fu condannato all’ergastolo nel 1964 e infine liberato nel 1990, quando il regime dell’apartheid cominciò a crollare sotto le pressioni internazionali e interne. Poco dopo la sua liberazione, Mandela tenne un discorso al Parlamento europeo in cui parlò della necessità di una soluzione equa e duratura che trasformasse il Sud Africa in un paese «unito, democratico e non caratterizzato da questioni razziali». Qualsiasi risultato inferiore sarebbe stato «un insulto alla memoria degli innumerevoli patrioti sudafricani e del resto della regione che hanno sacrificato la loro vita per portarci fino al punto in cui, oggi, possiamo affermare fiduciosi che la fine dell’apartheid è vicina». Durante gli anni novanta Mandela, come presidente dal 1994 al 1999, ha guidato la transizione del Sud Africa dal regime di apartheid a una democrazia inclusiva dal punto di vista razziale, propugnando «la verità e la riconciliazione» come strumenti di un percorso di pace. La sua morte nel 2013 ha provocato una commossa partecipazione nel mondo intero, compresa la rete del Premio Sacharov. «Oggi il Sud Africa ha perso il proprio padre e il mondo ha perso un eroe. Rendo omaggio a uno dei più grandi uomini del nostro tempo. Oggi Nelson Mandela ci ha lasciato, ma la sua eredità rimarrà per sempre», ha dichiarato Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e copresidente della rete del Premio Sacharov. «Ha fatto capire a tutti noi che nessuno dovrebbe essere penalizzato per il colore della pelle o per le circostanze in cui è nato. Ci ha fatto capire anche che possiamo cambiare il mondo modificando il nostro atteggiamento», ha detto Aung San Suu Kyi. «Nelson Mandela ha vissuto una vita singolare all’insegna del sacrificio, della dignità e della genialità in campo politico, che ha posto fine in modo pacifico a uno dei più grandi flagelli dell’era moderna», ha dichiarato Kofi Annan. © Instytut Sacharowa w Moskwie 1988 ANATOLIJ MARCHENKO ANATOLIJ MARCHENKO (1938-1986) è stato uno dei più noti dissidenti dell’ex Unione Sovietica. È morto nel 1986 in carcere a Čistopol’, dopo tre mesi di uno sciopero della fame volto a ottenere la liberazione di tutti i prigionieri di coscienza sovietici. «La vita eroica e il lavoro di Marchenko rappresentano un enorme contributo alle cause della democrazia, dell’umanesimo e della giustizia» è quanto ha scritto al Parlamento europeo Andrej Sacharov in persona, raccomandandolo come candidato al Premio. Anatolij Marchenko è morto a soli 48 anni, ma aveva trascorso più di vent’anni in prigione e come esiliato interno. La protesta internazionale suscitata dalla sua morte è stata uno dei fattori decisivi che hanno convinto Michail Gorbačëv, l’allora segretario generale del partito comunista, ad autorizzare il rilascio su larga scala dei prigionieri politici nel 1987. Marchenko è diventato famoso per La mia testimonianza, un’opera autobiografica sul periodo trascorso nei campi di lavoro e nelle prigioni dell’Unione Sovietica, che egli scrisse nel 1966. Tale opera descriveva per la prima volta i campi di lavoro e le prigioni del periodo successivo a Stalin, rivelando così al mondo il fatto che i gulag non erano scomparsi con la fine dell’era staliniana. La sua pubblicazione significò per Marchenko il ritorno in carcere per propaganda antisovietica, ma prima di essere nuovamente incarcerato nel 1968 egli cominciò a dissentire apertamente con il regime, denunciando pubblicamente le condizioni di prigionia riservate ai prigionieri politici. In una lettera aperta ai mezzi d’informazione scritta nel luglio 1968, egli pronosticò che l’Unione Sovietica non avrebbe permesso che la Primavera di Praga continuasse, cosa che si avverò nell’agosto successivo, quando la Cecoslovacchia fu invasa da carri armati del Patto di Varsavia e Marchenko fu nuovamente condannato alla detenzione e poi all’esilio. Cionondimeno, quanto più la repressione si inaspriva, più si rafforzava la sua volontà di agire. Egli divenne uno dei fondatori dell’influente gruppo di Helsinki di Mosca, assieme ad Andrej Sacharov e all’attuale leader Ljudmila Alexeeva. Tale gruppo fu fondato nel 1976 per monitorare il rispetto delle clausole relative ai diritti umani contenute nell’atto finale di Helsinki del 1975, il primo atto della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, volto a migliorare le relazioni fra il blocco comunista e l’Occidente. Marchenko fu arrestato e incarcerato per l’ultima volta nel 1980 per aver pubblicato la sua ultima opera, Vivere come tutti. Non sopravvisse alla sua ultima condanna di 15 anni. La vedova Marchenko, Larissa Bogoraz, anche lei attivista e candidata al Premio Sacharov, ritirò il premio destinato al marito nel 1988. UNIONE EUROPEA: IL RUOLO DEL PARLAMENTO EUROPEO IN MATERIA DI DIRITTI UMANI Secondo i sondaggi di opinione, i cittadini dell’Unione europea identificano nei diritti dell’uomo il valore che il Parlamento europeo deve difendere in via prioritaria. Il Parlamento europeo mette spesso in atto iniziative specifiche volte ad esempio a prevenire la tortura, proteggere i difensori dei diritti umani, prevenire i conflitti, promuovere i diritti delle donne e dei minori e proteggere le minoranze, i diritti degli indigeni e delle persone con disabilità. Il Parlamento europeo sostiene attivamente la campagna delle Nazioni Unite per una moratoria sulle esecuzioni e l’abolizione della pena di morte nel mondo e sostiene altresì la Corte penale internazionale nella sua lotta affinché il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità non rimangano impuniti. Lo scopo dell’Agenzia per i diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea è di assicurare che i diritti fondamentali degli individui siano tutelati e che le persone siano trattate con dignità. Il rispetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani sono principi sanciti dal trattato sull’Unione europea e sono giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri per i quali sia accertata una grave violazione di questi valori possono, previa approvazione del Parlamento europeo, incorrere nella sospensione dei diritti derivanti dai trattati dell’Unione europea. I diritti dell’uomo sono elencati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore nel 2009 insieme al trattato di Lisbona. Il trattato costituisce inoltre la base giuridica dell’Unione europea nel suo insieme, affinché possa aderire alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tutti i 28 Stati membri dell’Unione europea hanno ratificato la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’adesione dell’Unione europea alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, attualmente in corso, colmerà una lacuna nella protezione dei diritti umani e migliorerà la coerenza tra i sistemi del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea nel campo dei diritti umani. Nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune e della politica di cooperazione allo sviluppo, il diritto dell’Unione europea si prefigge come obiettivo «lo sviluppo e il consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Questi obiettivi sono stati integrati esplicitamente in larga misura grazie al Parlamento europeo. Nelle sue relazioni con i paesi terzi, l’Unione ha l’obbligo di promuovere la democrazia, lo Stato di diritto, l’universalità e l’indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il rispetto della dignità umana, i principi di uguaglianza e solidarietà e il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. La sottocommissione per i diritti umani, nell’ambito della commissione per gli affari esteri, è l’organo responsabile dell’attività parlamentare in materia di diritti dell’uomo. Le sue relazioni e le sue risoluzioni vengono approvate dalla commissione per gli affari esteri. Anche la commissione per lo sviluppo tiene discussioni regolari sui diritti dell’uomo nei paesi in via di sviluppo. In Aula, il Parlamento discute ogni mese i casi urgenti di violazioni dei diritti umani perpetrate negli Stati che non fanno parte dell’UE, in particolare i casi individuali. Le risoluzioni del Parlamento europeo servono spesso come base per le iniziative intraprese dal Consiglio dei ministri dell’Unione, dalla Commissione europea e dal servizio europeo per l’azione esterna e talvolta hanno un impatto immediato sull’operato dei governi interessati. In virtù delle sue competenze legislative, il Parlamento può bloccare la conclusione di accordi con paesi terzi qualora sussistano gravi violazioni dei diritti umani e dei principi democratici. Il Parlamento esige la rigorosa osservanza delle clausole sui diritti umani, che sono sistematicamente inserite negli accordi. Nell’aprile 2011 il Parlamento ha chiesto all’Unione europea di sospendere i negoziati per un accordo di associazione tra l’Unione europea e la Siria. Nel settembre 2011, l’accordo di cooperazione dell’Unione europea con la Siria è stato parzialmente sospeso «fino a quando le autorità siriane non porranno fine alle violazioni sistematiche dei diritti umani». Il conflitto siriano si è protratto nel 2014 e l’Unione europea ha rafforzato le misure restrittive. Ogni anno l’Unione europea elabora una relazione sui diritti umani e la democrazia nel mondo, che è sottoposta all’esame del Parlamento. Il ruolo del Parlamento nella difesa dei diritti umani è stato inoltre rafforzato attraverso il sostegno della democrazia parlamentare e del dialogo politico parlamentare, audizioni con i rappresentanti della società civile dei paesi terzi e l’invio di delegazioni ad hoc per valutare la situazione dei diritti umani sul campo. I principali forum per il dialogo politico tra il Parlamento europeo e i membri di paesi terzi sono: l’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE, l’Assemblea parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo, l’Assemblea parlamentare euro-latino americana (EuroLat) e l’Assemblea parlamentare con i partner dell’Europa orientale (Euronest). Il Parlamento europeo si è già avvalso delle sue prerogative di bilancio per far aumentare notevolmente gli stanziamenti destinati a programmi a sostegno della democrazia e dei diritti dell’uomo e si è battuto con successo per il mantenimento dello Strumento europeo per la democrazia e i diritti umani (EIDHR). L’EIDHR è uno strumento finanziario e politico attraverso il quale l’Unione europea contribuisce allo sviluppo e al consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, al rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in tutto il mondo e al sostegno e alla protezione dei difensori dei diritti umani a livello mondiale. INDIRIZZI DEL PARLAMENTO EUROPEO PARLAMENTO EUROPEO Rue Wiertz/Wiertzstraat, 60 1047 Bruxelles/Brussel BELGIQUE/BELGIË Tel. +32 22842111 Fax +32 22306933 PARLEMENTO EUROPEO Plateau du Kirchberg BP 1601 2929 Luxembourg LUSSEMBURGO Tel. +352 4300-1 Fax +352 4300-24842 PARLEMENTO EUROPEO 1, avenue du Président Robert Schuman BP 1024F 67070 Strasbourg Cedex FRANCIA Tel. +33 38817-4001 Fax +33 38817-4860 Per ulteriori informazioni consultare: http://www.europarl.europa.eu/?lg=it http://www.europarl.europa.eu/sakharovprize/it/
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