PDF: Opuscolo 2014

IL LIBRO DEI VINCITORI DEL PREMIO SACHAROV
QA-01-14-333-IT-C
IL LIBRO
DEI VINCITORI
DEL PREMIO
SACHAROV
IL LIBRO
DEI VINCITORI
DEL PREMIO
SACHAROV
INTRODUZIONE
Martin Schulz
Presidente del Parlamento europeo
Il 2013 è stato un anno intenso per il premio Sacharov; un anno eccezionale.
Ben quattro vincitori si sono presentati a Strasburgo per ritirare il premio: per
cominciare, le Donne in bianco ad aprile, poi Guillermo Fariñas a luglio e infine
Aung San Suu Kyi a ottobre. Erano stati proclamati vincitori anni prima, oltre
vent’anni prima nel caso della vincitrice birmana. Non avevano atteso così a lungo
per loro scelta: erano state le autorità dei rispettivi paesi a impedire loro di venire
a ritirare il premio. Per paura del loro coraggio indistruttibile, della libertà di
pensiero che incarnano, della loro capacità di ravvivare la fiamma della speranza
in tutti i sostenitori della democrazia.
Il 2013 è stato anche l’anno che ha visto insignire del premio la più giovane
vincitrice. Il 20 novembre Malala Yousafzai, una ragazza di 16 anni, ha pronunciato
un toccante discorso a sostegno dei diritti dei minori e, in particolare, dell’accesso
di bambine e ragazze all’istruzione. Come gli altri vincitori del premio, ha pagato
a caro prezzo la sua ribellione agli oscurantisti della sua epoca. La sua lotta le
ha fatto rischiare la vita e l’ha costretta all’esilio. Malala ha ricevuto il premio in
occasione del 25° anniversario del premio Sacharov, attorniata dai precedenti
vincitori. Non poteva esservi simbolo più appropriato per la rete Sacharov, alla
quale la giovinezza di Malala ha apportato nuova linfa vitale.
Il 2013 è stato quindi un anno incoraggiante. Non possiamo però mentire a noi
stessi. Il 2014 è stato caratterizzato dal perdurare di conflitti in cui le vittime sono
prese di mira principalmente per le loro idee e convinzioni, il loro genere o la
loro appartenenza a una minoranza. Diversi vincitori non hanno potuto ritirare
il premio. Razan Zaitouneh, una vincitrice del 2011, è stata rapita in Siria e non
se ne hanno più notizie. Nasrin Sotoudeh e Jafar Panahi sono ancora agli arresti
domiciliari a opera del regime iraniano. Il regime cinese cerca instancabilmente
di ridurre al silenzio Hu Jia. Nel 2014 la cappa del silenzio continua ad avvolgere
coloro che difendono la libertà di pensiero.
Designando come vincitore di quest’anno il dottor Denis Mukwege, scelto
all’unanimità, il Parlamento europeo premia non soltanto un medico dedito al
suo lavoro, ma soprattutto un uomo di pace; non soltanto un dottore che guarisce
i corpi, ma soprattutto un uomo che si batte per la dignità delle donne. In una
regione in cui lo stupro è un’arma di guerra e di terrore e in un mondo che vede
moltiplicarsi gli attacchi alla libertà delle donne, il suo impegno e il suo coraggio
sono esemplari.
Numerose altre informazioni sull’Unione europea sono disponibili
su Internet consultando il portale Europa (http://europa.eu).
Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2014
ISBN 978-92-823-5589-3
doi:10.2861/58951
© Unione europea, 2014
Riproduzione autorizzata con citazione della fonte.
Printed in Belgium
STAMPATO SU CARTA SBIANCATA SENZA CLORO ELEMENTARE (ECF)
IL PREMIO SACHAROV
Assegnato per la prima volta nel 1988 a Nelson
Mandela e ad Anatolij Marchenko, il Premio Sacharov
per la libertà di pensiero è il massimo riconoscimento
che l’Unione europea (UE) conferisce agli sforzi
compiuti a favore dei diritti dell’uomo. È attribuito
a singoli, gruppi e organizzazioni che abbiano
contribuito in modo eccezionale alla causa della
libertà di pensiero. Attraverso il Premio e la rete
associata, l’UE sostiene i vincitori, che sono così
rafforzati e legittimati nella loro lotta per le rispettive
cause.
Il Premio è stato sinora assegnato a dissidenti, leader
politici, giornalisti, avvocati, attivisti della società
civile, scrittori, madri, mogli, leader di minoranza, un
gruppo antiterrorista, pacifisti, un attivista contro la
tortura, un vignettista, un prigioniero di coscienza
lungamente detenuto, un regista, una ragazza in
lotta per il diritto all’istruzione e persino le Nazioni
Unite come organismo. Sono premiati in particolare
la libertà di espressione, la salvaguardia dei diritti
delle minoranze, il rispetto del diritto internazionale,
lo sviluppo della democrazia e l’attuazione dello
Stato di diritto.
Ogni anno il Parlamento europeo consegna al
vincitore del Premio Sacharov una somma di 50 000
euro nel corso di una sessione plenaria ufficiale che
ha luogo a Strasburgo verso la fine dell’anno. Tutti
i gruppi politici del Parlamento possono nominare
candidati; anche i singoli deputati possono farlo,
con il sostegno di almeno 40 deputati per ciascun
candidato. I candidati sono presentati nel corso di
una riunione congiunta della commissione per gli
affari esteri, della commissione per lo sviluppo e della
sottocommissione per i diritti dell’uomo, e i membri
delle commissioni votano un elenco ristretto formato
da tre candidati. La conferenza dei presidenti,
un organo del Parlamento europeo con a capo il
presidente e di cui fanno parte i leader dei diversi
gruppi politici rappresentati in Parlamento, elegge
ogni anno il vincitore o i vincitori finali del Premio
Sacharov, la cui scelta rappresenta pertanto una
scelta europea a tutti gli effetti.
ANDREJ
ANDREJ SACHAROV (1921-1989), rinomato fisico sovietico, attivista
SACHAROV
L’ISPIRATORE
per i diritti umani, dissidente e paladino delle riforme, accettò l’idea di un
premio per la libertà di pensiero che portasse il suo nome come un importante
apprezzamento del suo lavoro a difesa dei diritti umani, come ebbe a dichiarare in
una lettera rivolta al Parlamento europeo (1). Egli considerava utile il conferimento
del Premio in quanto avrebbe richiamato l’attenzione sui problemi relativi ai diritti
umani e incoraggiato le persone che avevano dato un contributo in questo senso.
Il Parlamento europeo annunciò la sua intenzione di istituire il Premio in una
risoluzione approvata nel dicembre 1985.
DEL PREMIO
Andrej Sacharov fu esiliato nella città chiusa di Gorkij nel 1980, dopo che aveva
protestato pubblicamente per l’intervento militare sovietico in Afghanistan del
1979. Nel suo esilio visse sotto la stretta sorveglianza della polizia sovietica ed
entrò due volte in sciopero della fame per ottenere per sua moglie il permesso
di sottoporsi a un intervento cardiaco negli Stati Uniti. Elena Bonner, a sua volta
condannata all’esilio a Gorkij nel 1984, ricevette infine il permesso di andare
negli Stati Uniti per sottoporsi a cure mediche nell’ottobre 1985. Il Parlamento
europeo sostenne i coniugi Sacharov e discusse persino la possibilità di lasciare,
nelle discussioni in Aula, una sedia vuota per Andrej Sacharov. Fu invece approvata
l’idea alternativa, quella cioè di istituire un Premio intitolandolo ad Andrej
Sacharov. Come affermato da Jean-Francois Deniau, relatore per questa iniziativa,
la figura di Sacharov fu scelta perché egli era «un cittadino europeo che era la
personificazione della libertà di pensiero e di espressione e che aveva deciso, in
nome dei suoi principi e seguendo la sua coscienza, di rinunciare a tutti i vantaggi
materiali e a tutti gli onori che aveva a disposizione».
Pioniere nel campo della fisica nucleare e creatore della bomba all’idrogeno
sovietica, a 32 anni Andrej Sacharov divenne membro a pieno titolo dell’Accademia
delle scienze sovietica e fu ammesso a godere dei privilegi riservati alla
nomenklatura, ovvero ai membri dell’élite dell’Unione Sovietica.
Sul finire degli anni cinquanta, tuttavia, divenne sempre più inquieto riguardo alle
conseguenze a livello atmosferico degli esperimenti nucleari e delle implicazioni
politiche e morali del suo lavoro, che poteva provocare eccidi.
La svolta nella sua evoluzione politica arrivò nel 1967, quando esortò le autorità
sovietiche ad accettare la proposta degli Stati Uniti per una messa al bando
bilaterale dello sviluppo dei missili di difesa antibalistici, che egli descrisse come
la più grande minaccia di conflitto nucleare mondiale nel suo saggio del 1968 dal
titolo Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale. Le
autorità sovietiche respinsero le sue esortazioni e, in seguito alla pubblicazione
del saggio, bandirono completamente Sacharov dalle attività militari più segrete
e gli revocarono tutti i privilegi. Nel 1970 divenne cofondatore della commissione
per i diritti dell’uomo in Unione Sovietica, e la difesa dei diritti umani, come pure
delle vittime di processi politici, divennero le sue preoccupazioni fondamentali.
Nel 1972 sposò Elena Bonner, anche lei attivista per i diritti umani. Nonostante
le crescenti pressioni da parte del governo, Sacharov non soltanto si impegnò
concretamente per la liberazione dei dissidenti nel proprio paese, ma divenne
anche uno dei critici più coraggiosi del regime sovietico, il simbolo della lotta
contro la negazione dei diritti fondamentali. Era, nelle parole del comitato che
lo insignì del Premio Nobel per la pace nel 1975, «un portavoce della coscienza
dell’umanità». Non gli fu permesso di ritirare il premio, ma né la repressione né
l’esilio riuscirono a spezzare la sua resistenza.
Il Premio fu istituito con una risoluzione del Parlamento europeo approvata nel
dicembre 1985. Un anno dopo Michail Gorbačëv, che aveva lanciato la perestroika
e la glasnost nell’Unione Sovietica, permise ad Andrej Sacharov e a Elena Bonner
di tornare a Mosca, dove Sacharov morì nel 1989.
Nel 2013 si sono celebrati i 25 anni di attività del Premio a lui intitolato; il suo
sostegno ai diritti umani va ben oltre i confini, anche quelli dei regimi repressivi,
per ricompensare gli attivisti dei diritti umani e i dissidenti di tutto il mondo. I
difensori dei diritti umani insigniti del Premio hanno pagato caro il loro impegno
per la difesa della dignità umana: molti sono stati perseguitati o uccisi, hanno
perso la libertà, sono stati picchiati o hanno dovuto affrontare l’esilio. In diversi
casi i vincitori non sono stati liberi di ricevere il premio di persona.
Una di questi è Nasrin Sotoudeh, vincitrice del Premio nel 2012, che dal carcere di
Evin in Iran, dove era detenuta all’epoca, scrisse alcune lettere al defunto Andrej
Sacharov, nelle quali indagava filosoficamente il significato della dissidenza e
paragonava la sua causa a quella di lui.
«Il rinnovamento quotidiano della sua vita e della sua resistenza è stato incredibile.
Quello che è riuscito a ottenere rappresenta una grande vittoria per quanti lottano
per la libertà in tutto il mondo. Possano i posteri comprendere i suoi sogni non
realizzati».
(1) Le lettere di Andrej Sacharov citate
nella presente pubblicazione sono
custodite negli archivi storici del
Parlamento europeo.
I PREMIATI
LA RETE DEL PREMIO SACHAROV
comprende i vincitori del
Premio e i deputati al Parlamento europeo. È stata creata nel 2008, in occasione
del ventennale dell’istituzione del Premio, riconoscendo «il ruolo speciale svolto
dai vincitori del Premio Sacharov come ambasciatori della libertà di pensiero», e
i suoi membri «hanno deciso di intensificare gli sforzi congiunti a sostegno dei
difensori dei diritti umani in tutto il mondo attraverso azioni comuni da parte dei
vincitori del Premio Sacharov, congiuntamente e sotto l’egida del Parlamento
europeo».
Nel 2013, per il venticinquesimo anniversario del Premio, i membri della rete si
sono riuniti in una conferenza per discutere l’evoluzione dei suoi obiettivi. Venti
vincitori e rappresentanti provenienti dall’Africa, dall’Europa, dall’America latina
e dal Medio Oriente hanno incontrato il presidente e i deputati al Parlamento
europeo assieme ai rappresentanti di altre istituzioni, servizi e agenzie dell’UE,
ONG e organizzazioni internazionali, nonché giornalisti e studenti, per tre giornate
di intense attività fra cui si è anche svolto, nella Giornata universale dei diritti
dell’infanzia, il conferimento del Premio Sacharov per il 2013 alla prima ragazza
vincitrice del Premio, Malala Yousafzai.
La conferenza ha rilasciato una dichiarazione finale in cui i membri della rete si
sono impegnati a sostenere, a titolo sia collettivo che individuale, la promozione
e la protezione dei diritti umani in tutto il mondo attraverso una serie di azioni,
prestando fra l’altro la loro voce a campagne internazionali volte a sostenere
i diritti fondamentali in cooperazione con la società civile e le organizzazioni
internazionali, tra cui figura la campagna per porre fine alla violenza sui minori e
promuovere la loro istruzione. La dichiarazione sottolinea la necessità di solidarietà
e coordinamento fra i difensori dei diritti umani, invitando tutti i membri della rete
ad agire come un sistema globale di allerta nei confronti delle violazioni dei diritti
umani. L’UE è invitata a impegnarsi in modo sostanziale sul piano diplomatico
verso gli attivisti dei diritti umani mediante le sue rappresentanze in tutto il
mondo, in particolare per la protezione dei vincitori del Premio Sacharov e degli
attivisti dei diritti umani in pericolo.
La rete ora mira a proseguire nel suo impegno mediante azioni sul campo volte a
sensibilizzare alle questioni relative ai diritti umani e alle loro violazioni. Inoltre, i
membri della rete tengono conferenze sul Premio Sacharov in tutti gli Stati membri
dell’UE e partecipano a campagne internazionali e a eventi di sensibilizzazione
in materia di diritti umani, affiancando con la loro opera gli attivisti della società
civile e i difensori dei diritti umani.
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1990
1989
1988
Denis Mukwege
Malala Yousafzai
Nasrin Sotoudeh e Jafar Panahi
Primavera araba (Mohamed Bouazizi, Asmaa Mahfouz, Ahmed El Senussi, Razan Zaitouneh e
Ali Ferzat)
Guillermo Fariñas
Memorial (Oleg Orlov, Sergei Kovalëv e Ljudmila Alekseeva a nome di Memorial e di tutti gli
altri difensori dei diritti umani in Russia)
Hu Jia
Salih Mahmoud Mohamed Osman
Aljaksandr Milinkevič
Damas de blanco; Hauwa Ibrahim; Reporter senza frontiere
Associazione bielorussa dei giornalisti
Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, e tutto il personale delle Nazioni Unite
Oswaldo José Payá Sardiñas
Izzat Ghazzawi, Nurit Peled-Elhanan, Don Zacarias Kamwenho
¡Basta ya!
Xanana Gusmão
Ibrahim Rugova
Salima Ghezali
Wei Jingsheng
Leyla Zana
Taslima Nasreen
Oslobodjenje
Le Madri di Plaza de Mayo
Adem Demaçi
Aung San Suu Kyi
Alexander Dubček
Nelson Rolihlahla Mandela; Anatolij Marchenko (a titolo postumo)
2014
DENIS
MUKWEGE
DENIS MUKWEGE
è un medico congolese che dedica la sua vita
a ricostruire i corpi e le vite di decine di migliaia di donne e ragazze congolesi
vittime di stupri collettivi e di brutali violenze sessuali nella guerra in atto nella
Repubblica democratica del Congo.
Nato a Bukavu nel 1955, ha studiato medicina e ha fondato presso l’ospedale di
Lemera, nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo, un reparto
ginecologico che è stato distrutto allo scoppio del conflitto nel 1996. Mukwege si
è rifugiato a Bukavu, dove ha creato un ospedale utilizzando tende da campo e ha
costruito un nuovo reparto di maternità e una sala operatoria; tutto è stato però
distrutto nel 1998 nella seconda guerra del Congo.
Imperterrito, Mukwege ha ricostruito il suo ospedale a Panzi, lavorando
indefessamente e addestrando il personale a curare le donne che avevano subito
attacchi da combattenti i quali avevano «dichiarato le donne il loro nemico
comune». Ha curato più di 40 000 donne da quando l’ospedale ha riaperto nel 1999,
accogliendo la prima vittima di stupro con ferite da proiettile nei genitali e nelle
cosce. Nel giro di alcune settimane, decine di donne si sono recate all’ospedale
affermando di essere state violentate e torturate.
«Ho cominciato a chiedermi cosa stesse succedendo», ha dichiarato Mukwege in
un’intervista alla BBC. «Non erano solo violenze di guerra, facevano parte di una
strategia (…); più persone venivano violentate contemporaneamente, in pubblico;
un intero villaggio poteva essere violentato durante la notte. In questo modo non
sono colpite soltanto le vittime, ma l’intera comunità, obbligata a guardare. Il
risultato di tale strategia è che le persone sono obbligate a fuggire dal proprio
villaggio, abbandonare i campi, le proprie risorse, tutto».
Mukwege è un esperto riconosciuto a livello internazionale nel trattamento
dei danni patologici, psicologici e sociali provocati dalla violenza sessuale.
L’ospedale di Panzi offre cure psicologiche e fisiche e aiuta le donne a sviluppare
nuove capacità per ricominciare a vivere e le ragazze a tornare a scuola. Mette a
disposizione anche l’assistenza giuridica per citare in giudizio gli aggressori.
Mukwege milita instancabilmente per i diritti delle donne e per porre fine alle
violenze legate allo sfruttamento delle risorse naturali del Congo. Egli stesso è
stato vittima, nel 2011, di un attacco a opera di uomini armati che hanno fatto
irruzione in casa sua e minacciato le sue figlie con un fucile. La sua guardia del
corpo è stata uccisa, ma Mukwege è riuscito a fuggire, rifugiandosi con la sua
famiglia in Svezia e in Belgio. È tornato nella Repubblica democratica del Congo
nel 2013, quando un gruppo di donne che sopravvivevano con meno di un dollaro
al giorno hanno unito gli sforzi per pagargli il viaggio di ritorno.
Attualmente vive nell’ospedale di Panzi, da lui diretto.
2013
MALALA
YOUSAFZAI
MALALA YOUSAFZAI
è una ragazza pakistana di 17 anni cui un
talebano ha sparato alla testa per impedire a lei e ad altre ragazze di andare a
scuola. Malala è sopravvissuta alle gravi lesioni e nel 2013 è stata la più giovane
vincitrice del Premio Sacharov.
Ha dedicato il Premio agli eroi misconosciuti del Pakistan, in una forte difesa del
diritto di tutti i minori all’istruzione.
«Molti bambini non hanno nulla da mangiare e da bere e hanno un gran desiderio
di istruzione. Il fatto che 57 milioni di bambini siano privati del diritto di andare
a scuola è allarmante […] e deve scuotere la nostra coscienza», ha affermato
Malala di fronte ai rappresentanti di 28 nazioni in un Parlamento gremito e alla
presenza eccezionale di quasi tutti i vincitori del Premio Sacharov ancora in vita,
riuniti per la conferenza celebrativa del venticinquesimo anniversario del Premio,
aggiungendo: «un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono
cambiare il mondo».
La sua battaglia a favore dell’istruzione ha avuto inizio all’età di 11 anni, quando
scriveva un diario anonimo online sulla vita di una scolara sotto il regime dei
talebani nella valle dello Swat, in Pakistan. Nel 2009 i talebani hanno decretato
la chiusura di tutte le scuole femminili mentre l’esercito pakistano cercava di
contrastarli per mantenere il controllo. Malala è stata costretta insieme alla famiglia
a lasciare la sua città assediata e la scuola che frequentava è stata devastata.
Ritornati a casa in seguito al miglioramento della situazione relativa alla sicurezza,
Malala e il padre Ziauddin, che gestiva una scuola di ragazze, hanno continuato
a sostenere l’istruzione femminile nonostante le minacce. Malala ha utilizzato il
denaro di una donazione per acquistare uno scuolabus ed è proprio su questo
stesso scuolabus che è stata colpita e che altre due ragazze sono state ferite, in un
agguato rivendicato dai talebani.
Malala è sopravvissuta e porta avanti con impegno la campagna a favore
dell’istruzione femminile, è cofondatrice del Fondo Malala e membro della Youth
Education Crisis Committee, istituita dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per
l’istruzione globale, Gordon Brown, il quale stima che ai ritmi attuali l’ultima
bambina sarà a scuola entro il 2086 e non il 2015 come previsto negli Obiettivi di
sviluppo del millennio.
«L’Islam consente alle bambine di essere istruite. È compito e responsabilità di ogni
individuo, maschio o femmina, acquisire istruzione e conoscenze», afferma Malala.
Le Nazioni Unite hanno proclamato il 12 luglio, giorno del suo compleanno, «giornata
di Malala». Nel 2014 la ragazza ha trascorso questa giornata in Nigeria e ha incontrato
le allieve sfuggite al rapimento da parte del gruppo terroristico di Boko Haram a
Chibok e le famiglie delle 219 ragazze tuttora sequestrate, esortando il presidente
Jonathan a intervenire in modo più incisivo. Malala ha inoltre espresso solidarietà ai
bambini vittime del conflitto in Siria e a Gaza.
2012
NASRIN
SOTOUDEH
NASRIN SOTOUDEH
è una giurista iraniana in materia di diritti
umani, tra i pochi ad aver difeso i dissidenti arrestati nelle proteste di massa del
2009 e altri accusati in casi di rilievo sia politici che relativi ai diritti umani, prima
del suo stesso arresto nel 2010.
Quando è stata insignita del Premio Sacharov, nel 2012, stava scontando una pena
a sei anni di reclusione, si trovava in isolamento nel tristemente noto carcere di
Evin in Iran e aveva intrapreso uno sciopero della fame di sette settimane per
protestare contro le pressioni esercitate sulla sua famiglia.
Nonostante si trovasse in uno stato di notevole fragilità e debolezza, Nasrin ha
trovato la forza di scrivere un messaggio memorabile al Parlamento europeo, letto
per lei durante la cerimonia di assegnazione da Shirin Ebadi, sua amica e collega,
nonché vincitrice del premio Nobel.
«La storia dei diritti umani e dei meccanismi per la loro tutela ha origini molto
lontane, ma la loro attuazione dipende ancora in gran parte dalle intenzioni dei
governi, che sono i principali responsabili delle violazioni», ha affermato Nasrin
Sotoudeh. Nasrin ha identificato la violazione dei diritti umani come la causa
fondamentale dell’ondata rivoluzionaria che ha coinvolto il Medio Oriente. Ai
difensori dei diritti umani e ai prigionieri politici, ha dichiarato «proprio come voi,
anch’io so che la democrazia deve ancora compiere una strada lunga e difficile».
È stata inaspettatamente rilasciata nel settembre 2013, con un gesto accolto con
favore dal presidente Schulz quale «importante segnale positivo da parte delle
autorità iraniane», in particolare del neoeletto presidente Rouhani.
Nel dicembre 2013 ha incontrato la delegazione del Parlamento europeo in
visita in Iran per la prima volta dopo sei anni. Nasrin Sotoudeh ha concentrato
l’attenzione sui prigionieri politici e ha denunciato la mancanza di trasparenza dei
processi tenuti nei tribunali rivoluzionari, piuttosto che penali, domandando alla
delegazione di indagare presso le autorità iraniane sulla questione. La delegazione
è stata informata del fatto che i tribunali rivoluzionari sono stati istituiti per
giudicare i crimini contro lo Stato e che pertanto un cambiamento non è possibile.
L’incontro ha causato furore tra gli estremisti iraniani che hanno accusato Nasrin
Sotoudeh e Jafar Panahi di sedizione.
Nasrin Sotoudeh continua a sostenere i diritti umani, i diritti delle donne e le libertà
fondamentali. Lotta contro il divieto impostole nel 2014 di praticare la professione
di avvocato, carriera per la quale combatte da diversi anni, a cominciare dalla
difesa dei minori dalla pena di morte, una causa che continua a difendere.
Nel luglio 2014, con lo scoppio della guerra a Gaza, Nasrin Sotoudeh ha lanciato la
campagna Stop Killing Your Fellow Beings attraverso i social media. Non può recarsi
al Parlamento europeo per ricevere il Premio Sacharov o partecipare a eventi della
rete poiché ha il divieto di lasciare l’Iran, ma Shirin Ebadi l’ha rappresentata alla
conferenza del 2013.
Nasrin Sotoudeh intende rimanere in Iran e lottare a favore delle riforme
dall’interno.
2012
JAFAR
PANAHI
JAFAR PANAHI
è un regista vincitore del Premio Sacharov al quale è stato
proibito di girare film per vent’anni.
Sostenitore dichiarato del movimento verde di opposizione iraniano e critico
nei confronti dell’ex presidente Ahmadinejad, è stato condannato a sei anni di
reclusione per «propaganda contro la Repubblica islamica» sebbene la sentenza
sia ancora in attesa di esecuzione; il regista non è ancora in carcere ma potrebbe
essere arrestato in qualsiasi momento.
Nel 2010 è stato arrestato perché stava girando un film clandestino sulla rivolta
fallita del movimento verde in Iran nel 2009. Sebbene sia stato rilasciato dopo tre
mesi, in seguito alle proteste internazionali e a uno sciopero della fame, è stato
successivamente condannato al carcere e gli è stata preclusa la possibilità di
produrre film, viaggiare e comunicare con i media.
Ha dichiarato alla delegazione del Parlamento europeo in visita in Iran nel 2013
che la sua testimonianza e quella del suo avvocato erano state ignorate durante
il processo e che il verdetto era stato già stabilito in precedenza. Ha avvertito
la delegazione che le questioni relative al rispetto dei diritti umani vengono
dimenticate mentre il mondo si focalizza sugli accordi nucleari con l’Iran e che,
secondo lui, una volta abolite le sanzioni, la repressione in Iran aumenterà. La
nuova flessibilità dei leader iraniani si applica soltanto agli affari esteri e non alle
questioni interne, ha affermato, mentre continuano le pressioni sulla stampa, sui
prigionieri e sulla vita culturale.
In un’intervista con la stampa, rilasciata nel 2014 nonostante il divieto impostogli,
ha dichiarato di avere l’impressione di essere stato rilasciato da una piccola
prigione per entrare in una più grande, poiché gli è stato proibito di lavorare.
Ciononostante, il regista ha infranto il divieto di produzione cinematografica due
volte. Nel 2011 ha girato This is not a Film nella sua casa di Tehran, seduto al tavolo
della cucina e parlando con il suo avvocato in attesa di essere arrestato. Nel 2014
ha ripreso l’attività con Closed Curtain la storia di uno sceneggiatore che vive da
solo con il cane in una casa sul mare, con le tende chiuse.
Panahi non si considera politicamente impegnato, ma intende denunciare le
ingiustizie. Si è espresso contro la censura in Iran e ha criticato il presidente
Rouhani per non aver mantenuto le sue promesse elettorali a riguardo, e ha
lanciato la campagna Step by Step finalizzata a porre fine alla pena di morte in Iran.
Impossibilitato a recarsi al Parlamento europeo, è stato rappresentato dalla figlia
Solmaz e dai registi Costa Gavras e Serge Toubiana alla cerimonia di assegnazione
del Premio, e dal presidente della federazione internazionale per i diritti umani
(FIDH) Karim Lahidji alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013.
2011
MOHAMED
BOUAZIZI
MOHAMED BOUAZIZI
(1984-2011) è stato il catalizzatore della
«rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia e fonte di ispirazione per il movimento a
favore della democrazia che si è diffuso in Medio Oriente e Nord Africa nel 2011,
conosciuto come Primavera araba.
Giovane laborioso di umili origini, provvedeva al sostentamento della sua
famiglia dall’età di dieci anni vendendo frutta al mercato. A diciannove anni ha
abbandonato gli studi per poter assicurare l’istruzione ai fratelli più giovani.
È morto il 4 gennaio 2011, all’età di 26 anni, dopo essersi dato fuoco per protestare
contro un sistema che gli impediva di vivere in modo dignitoso. Bouazizi è stato
vittima, in diverse occasioni, delle forze di polizia tunisine che lo multavano, ne
confiscavano i prodotti e le bilance, e nell’ultima occasione lo hanno persino
gettato a terra. La sua famiglia ritiene che sia stata l’umiliazione e non la povertà
ad averlo spinto a immolarsi, dopo aver cercato giustizia invano: si è cosparso
di benzina e si è dato fuoco fuori dall’edificio del governatore nella cittadina di
Sidi Bouzid. Era un uomo conosciuto e amato, che dava gratuitamente frutta e
verdura alle famiglie più povere, la cui situazione ha toccato il cuore di molti. Il suo
gesto ha innescato proteste che si sono diffuse rapidamente: tunisini di ogni ceto
sociale sono scesi in piazza per manifestare contro il governo corrotto, l’elevata
disoccupazione e le restrizioni alla libertà personale.
Era ancora vivo, sebbene agonizzante e completamente bendato, quando il
regime autoritario del presidente Zine al-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987,
cominciava a cadere.
Dieci giorni dopo la morte di Bouazizi, Ben Ali è stato costretto a dimettersi e
a lasciare il paese, mentre i manifestanti marciavano a Tunisi, molti dei quali
portando l’immagine di Bouazizi.
La sua famiglia trova conforto nel fatto che egli non sia morto invano, poiché il
suo gesto ha innescato la cosiddetta «rivoluzione popolare» e ha scosso i governi
dispotici in Tunisia e in altre parti dal mondo arabo. Ha diffuso tra i giovani arabi la
consapevolezza che non dovevano più rimanere in silenzio davanti all’ingiustizia,
alla corruzione e al potere autocratico, ma che potevano dare voce alle loro
frustrazioni e lottare per la loro dignità.
La Primavera araba e l’ottimismo iniziale si sono spenti e alcune delle conquiste
sono state nuovamente perse, ma in Tunisia, paese natale di Bouazizi, nel 2014 è
stata approvata una costituzione democratica ed entro la fine dell’anno sono in
programma elezioni legislative e presidenziali.
2011
ALI
FERZAT
ALI FERZAT
è il più noto vignettista e autore di satira politica siriano,
nonché una delle figure culturali più in vista nel mondo arabo. Nato a Hama nel
1941, ha pubblicato oltre 15 000 vignette su quotidiani siriani e internazionali e
ha vinto premi per aver fatto oggetto di satira dittatori quali Saddam Hussein e
Muammar Gheddafi quando erano al potere in Iraq e in Libia rispettivamente. I
suoi disegni hanno sfidato i confini della libertà di espressione in Siria mirando
alle temute forze di sicurezza e, con l’arrivo della Primavera araba in Siria nel 2011,
attaccando in modo più diretto le figure di governo, in particolare il presidente
Bashar al-Assad. Le sue vignette venivano usate come striscioni dai siriani che
protestavano contro il regime. Dopo aver pubblicato una vignetta raffigurante
al-Assad che chiedeva un passaggio al dittatore libico Muammar Gheddafi, in
fuga su un’auto a gran velocità, è stato attaccato in piazza Umayyad a Damasco
e picchiato selvaggiamente da uomini mascherati che gli hanno rotto le mani
di proposito intimandogli di portare rispetto al presidente al-Assad e obbedire
ai suoi superiori. Incosciente a causa delle percosse, è stato caricato in un’auto e
scaricato in una strada apparentemente morto.
Non soltanto Ali Ferzat ha recuperato l’uso delle mani, ma ha anche infranto la
barriera della paura diventando uno dei critici più espliciti del regime attraverso le
sue parole e la sua arte.
Impossibilitato a partecipare alla cerimonia del Premio Sacharov nel 2011, in
quanto si stava sottoponendo a cure mediche in Kuwait per le ferite riportate,
ha ricevuto il Premio in occasione del dibattito pubblico della rete del Premio
Sacharov svoltosi presso il Parlamento europeo nel 2012, dove ha partecipato, con
il presidente del Parlamento europeo e altri vincitori nell’ambito della Primavera
araba, a un dibattito sui temi della rivoluzione in Siria e del futuro della democrazia
in seguito alle sommosse. Nel 2012, durante la prima edizione del Forum mondiale
per la democrazia presso il Consiglio d’Europa, ha tenuto un discorso in qualità di
vincitore del Premio Sacharov, e nello stesso anno è stato definito dalla rivista Time
una delle 100 persone più influenti del mondo. Ha vinto diversi premi per i diritti
umani ed è a capo dell’associazione dei vignettisti arabi.
Nel 2014 Ferzat è stato l’oratore principale per la rete del Premio Sacharov in
occasione del festival del cinema sui diritti umani «One World» tenutosi a Praga,
dove ha incontrato rappresentanti del governo, dei media e delle ONG, riportando
il dibattito sul conflitto siriano al cuore della tragedia: al centro del conflitto ancora
in corso, che ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, vi sono
le speranze umane dimenticate di dignità e libertà.
2011
ASMAA
MAHFOUZ
ASMAA MAHFOUZ
è un’attivista egiziana per i diritti umani,
cofondatrice del movimento giovanile del 6 aprile. Con l’arrivo della Primavera
araba in Egitto nel 2011, Asmaa Mahfouz ha sfidato la repressione del regime del
presidente Hosni Mubarak nei confronti degli attivisti quando, attraverso i social
media, ha esortato gli egiziani a rivendicare la propria libertà, la propria dignità
e i propri diritti umani protestando pacificamente in piazza Tahrir il 25 gennaio
2011. Il suo video si è propagato a macchia d’olio e ha registrato circa 80 milioni di
visualizzazioni, ispirando un’ondata di video simili, con il risultato che centinaia di
migliaia di persone hanno occupato piazza Tahrir chiedendo a gran voce la fine dei
30 anni di governo di Hosni Mubarak in Egitto, fatto che si è verificato l’11 febbraio
2012.
Nell’accettare il Premio Sacharov, Asmaa Mahfouz ha dichiarato che l’onorificenza
avrebbe reso omaggio agli eroi della rivoluzione: «Questo premio va a tutti i
giovani egiziani, alle persone che hanno sacrificato la propria vita», ha affermato,
aggiungendo «non li tradiremo, continueremo lungo la strada da loro intrapresa e
garantiremo che questo sogno si avveri».
È stata uno degli oratori principali al dibattito della rete del Premio Sacharov che si
è svolto presso il Parlamento europeo a Bruxelles, e alla prima edizione del Forum
mondiale per la democrazia al Consiglio d’Europa, nell’ottobre 2012, dove ha
analizzato gli sviluppi post-rivoluzionari della situazione in Egitto.
Nel 2014, con l’elezione di Abdel Fattah al-Sisi, ex comandante dell’esercito,
a presidente dell’Egitto, in seguito alla deposizione del presidente islamico
Mohammed Morsi nel 2013 e a un periodo di governo provvisorio sostenuto
dai militari, Asmaa Mahfouz ha dichiarato di essere vittima di crescenti violenze,
minacce e controlli. La violenta repressione da parte delle autorità, inizialmente
mirata ai Fratelli musulmani, si è estesa attaccando critici e personaggi rinomati
della rivoluzione del 25 gennaio, in particolare gli attivisti del 6 aprile. Asmaa
Mahfouz ha denunciato di essere attaccata dai media, che descrivevano lei e
i colleghi attivisti come «agenti stranieri» e minacce alla sicurezza nazionale,
incitando la gente a insultarla per strada.
Nell’aprile 2014 un tribunale egiziano ha messo al bando il movimento giovanile
del 6 aprile. Tre dei leader del movimento di sinistra, Ahmed Maher, Mohammed
Adel e Ahmed Douma, sono stati condannati a tre anni di reclusione con l’accusa,
tra l’altro, di aver protestato violando la nuova legge restrittiva in materia di
manifestazioni, mentre un quarto attivista, Alaa Abdel Fattah, è stato condannato
a 15 anni, suscitando la preoccupazione del presidente del Parlamento europeo
Schulz e della stessa Asmaa Mahfouz, che ha twittato: «Quindici anni per aver
protestato? e per chi ha ucciso? non ci sarà mai uno Stato finché si andrà avanti
così».
2011
AHMED
EL ZUBER
EL SENUSSI
AHMED EL SENUSSI
, nato nel 1934, è stato il prigioniero politico
detenuto più a lungo in Libia. È parente di Idris, l’unico re di Libia, deposto dal
colonnello Muammar Gheddafi nel 1969.
Accusato di cospirazione in un tentativo di colpo di Stato contro Gheddafi nel
1970, ha trascorso 31 anni in carcere, nove dei quali in isolamento in una cella così
piccola da non permettergli di stare in piedi. È stato rilasciato nell’agosto 2001
insieme a decine di altri prigionieri politici.
Quando un’insurrezione popolare sostenuta dalla NATO ha rovesciato il dittatore
libico nel 2011, il Consiglio nazionale transitorio ha assunto il governo del paese
ed El Senussi, divenutone membro, era responsabile dei prigionieri politici.
Nonostante le elezioni tuttavia la politica del paese è rimasta in preda all’anarchia
e all’instabilità, con fazioni che si contendevano il controllo con le armi.
La città natale di El Senussi, Bengasi, che aveva assunto un ruolo marginale
durante il regime di Gheddafi, sostiene con forza il federalismo, rispettato in Libia
per la maggior parte del regno del re Idris. Tremila delegati della regione si sono
riuniti nel 2012 a Bengasi per costituire il Consiglio transitorio della Cirenaica, di
cui El Senussi è stato nominato leader. Il Consiglio transitorio della Cirenaica si è
dichiarato a favore di un elevato grado di autonomia della regione, pur accettando
il Consiglio nazionale transitorio quale simbolo dell’unità del paese e legittimo
rappresentante della Libia in ambito internazionale. La dichiarazione del Consiglio
transitorio della Cirenaica non ha valore giuridico e lo stesso non è sostenuto
militarmente come invece è l’altro principale gruppo federalista con sede a
Bengasi, l’Ufficio politico della Cirenaica con a capo Ibrahim Jadhran, che intende
istituire un governo parallelo e dal quale El Senussi ha preso le distanze.
El Senussi e i rappresentanti tribali dei quali è a capo sostengono il federalismo
mediante la nuova costituzione.
Nel 2012, durante il dibattito della rete del Premio Sacharov svoltosi presso il
Parlamento europeo, El Senussi ha analizzato insieme al presidente Schulz, ad
Asmaa Mahfouz e ad Ali Ferzat le conseguenze della rivoluzione e del conflitto
armato in Libia nonché il futuro della democrazia nei paesi arabi a seguito della
Primavera araba. Durante la prima edizione del Forum mondiale per la democrazia
presso il Consiglio d’Europa, El Senussi ha denunciato la mancanza di un vero
governo in Libia e ha risposto alle accuse di tradimento nei suoi confronti dovute
alla sua richiesta di istituire un sistema federale, affermando che si trattava di un
chiaro tentativo di travisare la sua proposta e macchiare la reputazione di quanti
vogliono invece migliorare la situazione. El Senussi ha partecipato alla conferenza
della rete del Premio Sacharov nel 2013.
2011
RAZAN
ZAITOUNEH
RAZAN ZAITOUNEH
è una giornalista siriana, nonché giurista in
materia di diritti umani, rapita il 9 dicembre 2013 in una zona della periferia di
Damasco in mano ai ribelli. Risulta ancora scomparsa; si crede che stia bene, ma
non si sa dove si trovi né chi siano i rapitori. Razan Zaitouneh ha denunciato con
coraggio le violazioni dei diritti umani perpetrate tanto dal regime di Damasco
quanto dai combattenti ribelli, nonostante le minacce ricevute. È stata rapita
insieme al marito attivista Wael Hamada e a due colleghi, il poeta e avvocato
Nazem Hamadi e l’ex prigioniera politica Samira Khalil, dall’ufficio di due gruppi
da lei fondati: il centro per la documentazione delle violazioni (Violations
Documentation Centre — VDC) e l’ufficio per il sostegno ai piccoli progetti e lo
sviluppo locale (Local Development and Small Projects Support Office — LDSPS),
a Douma.
Razan Zaitouneh è una dei principali e più credibili attivisti civili della rivoluzione
siriana. Il suo rapimento è considerato dai giornalisti siriani un episodio
determinante per la divisione in atto in Siria tra le forze civili e gli estremisti, un
evento che ha assestato un duro colpo alla rivoluzione siriana.
RAPITA NEL DICEMBRE 2013
I familiari hanno chiesto aiuto a livello internazionale per ritrovare Razan Zaitouneh
e i colleghi.
«Noi, i familiari di Razan Zaitouneh, attivista per i diritti umani, avvocato, scrittrice
e, soprattutto, essere umano, rilasciamo la presente dichiarazione a oltre tre mesi
dal rapimento premeditato che nessuno ha rivendicato e per il quale non sono
emerse dichiarazioni né richieste, in un chiaro tentativo di guadagnare tempo e
soffocare la libertà di parola di nostra figlia e dei suoi colleghi, al fine di costringerli
a smettere di scrivere e privarli del diritto alla libertà di espressione», ha affermato
la famiglia in una dichiarazione rilasciata nell’aprile 2014 e pubblicata da VDC.
Attivisti e politici di tutto il mondo hanno chiesto la loro liberazione; tra essi anche
il presidente Schulz, che ha affermato: «A nome del Parlamento europeo chiedo
il loro rilascio immediato. […] La sua vita è stata messa in pericolo dal regime
e dai gruppi ribelli per ciò che era, una giovane donna coraggiosa che rifiuta
compromessi e continua a lottare pacificamente per la democrazia e per una Siria
libera».
45 ONG, tra cui Reporter senza frontiere (organizzazione vincitrice del Premio
Sacharov), hanno lanciato un appello congiunto per la liberazione degli attivisti
rapiti.
Al momento del conferimento del Premio nel 2011, Razan Zaitouneh viveva
nascosta dopo essere fuggita a un’irruzione degli agenti della sicurezza nazionale
in casa sua. La sua quota del Premio Sacharov è stata destinata a salvare la vita di
un collega attivista vittima di torture.
2010
GUILLERMO
FARIÑAS
Psicologo,
giornalista
indipendente
e
dissidente
politico
cubano,
GUILLERMO FARIÑAS
, attuale portavoce dell’organizzazione
dell’opposizione Unión Patriótica de Cuba, ha intrapreso nel corso degli anni
ventitré scioperi della fame, nell’intento di conseguire con mezzi pacifici il
cambiamento politico e la libertà di parola e di espressione nel suo paese.
Come giornalista aveva fondato l’agenzia di stampa indipendente Cubanacán
Press, nell’intento di informare il resto del mondo sulla sorte dei prigionieri politici
a Cuba, ma è stato infine costretto dalle autorità a chiuderla.
Nel febbraio 2010, dopo la morte sospetta di Orlando Zapata Tamayo, Fariñas
iniziò uno sciopero della fame e della sete di 130 giorni, invocando la liberazione
dei prigionieri politici che si erano ammalati dopo anni di detenzione. Fariñas
ha terminato lo sciopero solo nel luglio 2010, dopo che il governo cubano aveva
annunciato di essere in procinto di liberare 52 prigionieri politici.
Guillermo Fariñas non ha potuto partecipare alla cerimonia di consegna del Premio
Sacharov 2010 presso il Parlamento europeo poiché non è stato autorizzato a
lasciare Cuba. Nel luglio 2012 è stato arrestato al funerale di un altro dissidente
cubano e vincitore del Premio Sacharov, Oswaldo Payá, e detenuto per un breve
periodo.
Quando il governo di Cuba ha allentato le restrizioni di viaggio per i suoi cittadini e
al rientro delle Damas de blanco a Cuba dopo la visita al Parlamento europeo, si è
svolta nel luglio 2013 anche la cerimonia tardiva di consegna del Premio Sacharov
in onore di Guillermo Fariñas presso il Parlamento europeo.
Nel suo discorso di accettazione Fariñas ha affermato: «Oggi sono qui non perché
la situazione sia fondamentalmente cambiata, ma a causa delle realtà del mondo
moderno e, soprattutto, per la crescente resistenza civica dei cubani che ha
costretto il regime a “cambiare tutto per non cambiare niente”, per dirla con le
parole del leggendario Don Fabrizio de Il Gattopardo».
Fariñas ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov
nel 2013 e al dibattito del Forum mondiale per la democrazia sul tema «Solution
Journalism in Action», in cui ha sottolineato che i giornalisti andranno avanti
con il loro lavoro affinché la gente a Cuba sappia cosa succede. Nel 2014 è stato
ripetutamente arrestato e detenuto per brevi periodi, minacciato di morte e di
confino in un ospedale psichiatrico, picchiato e ricoverato in ospedale.
2009
MEMORIAL
Nata nel 1927, Ljudmila Alekseeva è a capo del gruppo, è una dei pochi dissidenti
dell’era sovietica ancora attivi nella Russia moderna ed è nota per le campagne a
favore di un giusto processo per i dissidenti.
Oleg Orlov è uno dei leader di Memorial dal 1994 nonché membro del consiglio
dell’associazione. Nel 2014 ha raccolto prove di rapimenti avvenuti nell’Ucraina
orientale in occasione dei conflitti tra i separatisti filosovietici e le forze ucraine,
riscontrando analogie con i rapimenti documentati da Memorial per decenni nel
corso delle due guerre in Cecenia, dove Orlov stesso fu sequestrato.
OLEG ORLOV, SERGEI KOVALËV e LJUDMILA ALEKSEEVA sono stati
insigniti del Premio Sacharov nel 2009 a nome dell’associazione Memorial e di tutti gli altri difensori dei diritti
umani in Russia.
Istituita nel 1988, Memorial ha l’obiettivo di monitorare e rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani negli
Stati dell’ex Unione Sovietica. Tra i fondatori dell’associazione vi è Andrej Sacharov, cofondatore anche del
gruppo Helsinki di Mosca insieme a Ljudmila Alekseeva.
Sergei Kovalëv, l’attuale presidente dell’associazione, è noto per aver negoziato
nel 1995 il rilascio di circa 2 000 persone tenute in ostaggio dai ribelli ceceni presso
l’ospedale di Budënnovsk, nell’unica occasione in cui un attacco terroristico in
Russia non ha comportato un’uccisione di massa degli ostaggi. Egli accusa la Russia
di interferire negli affari interni dell’Ucraina provocando una guerra civile, ed è
lieto di constatare che i paesi civilizzati «abbandonano la consueta indifferenza»
che, secondo lui, Putin ha imparato a sfruttare.
I membri di Memorial e gli affiliati più stretti sono da anni soggetti a minacce,
rapimenti e uccisioni. Nel 2014 l’associazione è stata registrata dalle autorità
russe come «agente straniero», a seguito di emendamenti a una legge del 2012
che prevedono la registrazione come «agenti stranieri» delle ONG che, senza il
consenso delle autorità stesse, ricevono finanziamenti dall’estero.
Centinaia di ONG sono state colpite da tale legge sebbene nessuna ONG
indipendente abbia fatto domanda per essere registrata volontariamente
come «agente straniero», che in Russia significa «spia», come ha dichiarato Kirill
Koroteev — avvocato di alto grado per Memorial — alla sottocommissione per
i diritti umani del Parlamento europeo. Orlov non ha partecipato alla conferenza
della rete del Premio Sacharov nel 2013 al fine di poter comparire in tribunale per
opporsi a tale legge, causa che Memorial ha perso anche in appello.
Attualmente Memorial e altre ONG portano avanti la lotta dinanzi alla Corte
europea dei diritti dell’uomo. Anche il gruppo Helsinki di Mosca si è rifiutato
di registrarsi come «agente straniero» e Ljudmila Alekseeva ha dichiarato che
avrebbe continuato la sua attività a favore dei diritti umani senza sovvenzioni
straniere.
Orlov ha trattato il tema della tortura in Russia in occasione dei dibattiti pubblici
al festival del cinema «One World» nel 2014, mentre Koroteev ha rappresentato
Memorial all’Iniziativa europea per la gioventù.
2008
HU
JIA
HU JIA
Dissidente della Repubblica popolare cinese,
è stato più volte
incarcerato e rilasciato da quando il Parlamento europeo gli ha conferito il
Premio Sacharov, nel ventesimo anniversario dello stesso, per le sue richieste di
un’indagine ufficiale sul massacro di piazza Tienanmen e di risarcimento delle
famiglie delle vittime, per il suo attivismo ambientale e per la lotta contro l’AIDS.
Nel 2014 è stato nuovamente condannato a più riprese agli arresti domiciliari,
come è del resto avvenuto ogni anno nel periodo dell’anniversario del massacro di
piazza Tienanmen (il 4 giugno), da quando nel 2004 aveva deposto dei fiori nella
piazza. Dal 2 luglio 2004 la sua casa a Pechino è sotto sorveglianza ventiquattro
ore su ventiquattro. Talvolta non gli è permesso di uscire per comprare cibo o
medicine.
Nel 2007 ha coraggiosamente espresso la sua testimonianza, in una teleconferenza
dinanzi alla sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo,
richiamando l’attenzione su un milione di perseguitati dal dipartimento di
sicurezza nazionale cinese, molti dei quali sono detenuti nelle carceri, nei campi di
lavoro o in istituti psichiatrici a causa della loro lotta per i diritti umani.
Come conseguenza diretta delle sue parole, il 27 dicembre 2007 Hu Jia è stato
arrestato con l’accusa di «incitamento alla sovversione contro il potere dello Stato»
e il 3 aprile 2008 è stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione, oltre alla
sospensione dei diritti politici per un anno.
Insignito del Premio Sacharov, ha subito pressioni da parte della polizia di Stato
affinché rinunciasse all’onorificenza.
Hu Jia ha invece coraggiosamente accettato, definendolo «un premio importante
per la Cina». In una lettera al presidente del Parlamento europeo del luglio 2012, Hu
Jia ha affermato di considerare il Premio «un grande onore» che lo ha «incoraggiato
e ha notevolmente migliorato le sue condizioni di detenzione in carcere».
Nel giugno 2011 è stato rilasciato e ha tentato di creare una ONG per i diritti umani,
i cui membri sono stati tuttavia arrestati. Gestisce ora una rete di cittadini che si
riuniscono in un’assemblea politica. Hu Jia è anche un coordinatore degli «avvocati
scalzi», un gruppo informale di consulenti legali per la difesa degli attivisti dei
diritti umani in Cina.
La rete del Premio Sacharov, nella dichiarazione rilasciata nel 2013 in occasione del
venticinquesimo anniversario del Premio, ha invitato le autorità cinesi a porre fine
alle frequenti misure restrittive imposte al vincitore del Premio Sacharov Hu Jia.
Quest’ultimo non ha potuto partecipare a causa delle limitazioni alla sua libertà
imposte dalle autorità cinesi ed è stato rappresentato dalla moglie Zeng Jinyan,
candidata al Premio Sacharov, la quale ha sottolineato la condizione dei prigionieri
politici e delle loro famiglie. Nel 2014 le minacce e le molestie a Hu Jia si sono
intensificate a tal punto da fargli temere che la sua stessa vita sia in pericolo.
2007
SALIH MAHMOUD
MOHAMED OSMAN
Quando il Parlamento europeo ha deciso all’unanimità di assegnare il Premio
SALIH MAHMOUD OSMAN
Sacharov a
nel 2007, egli forniva
già da oltre vent’anni assistenza legale gratuita alle persone vittime di detenzione
arbitraria e tortura, nonché soggette a gravi violazioni dei diritti umani in Sudan.
«Sono nato a Jebel Marra, una regione del Darfur. Ho lavorato come avvocato
nel Darfur, in Sudan, per molti anni. A causa del mio lavoro sono stato vittima di
detenzione e tortura. Anche i miei familiari sono stati torturati e allontanati dalle
milizie nel Darfur. Per molti anni, nell’ambito della mia attività, ho difeso migliaia
di persone che chiedevano il mio aiuto di fronte ai tribunali. Ho visto migliaia di
persone torturate, centinaia di donne e di bambine vittime di violenza sessuale»,
ha affermato Salih Osman accettando il Premio presso il Parlamento europeo.
Egli ha catalogato i crimini perpetrati nel paese ed è attivamente coinvolto nella
protezione dei 3,2 milioni di sudanesi allontanati dalle loro case a causa dei
continui conflitti in Sudan.
Osman continua a richiamare l’attenzione su un conflitto che si protrae da oltre
dieci anni, dal momento dello scoppio nella regione del Jebel Marra nel 2003, ed è
stato descritto dalle Nazioni Unite come una delle situazioni umanitarie più gravi
al mondo. Nonostante le forti pressioni internazionali e i tentativi di mediazione,
non si è ancora giunti alla firma di un accordo di pace completo che comprenda
tutte le parti belligeranti, mentre i gruppi rivoltosi si stanno unendo con una
visione sempre più nazionale.
Osman sottolinea che le cause all’origine della guerra, tra cui gli espropri terrieri e
l’emarginazione politica, non solo rimangono irrisolte, ma sono state aggravate da
ulteriori esigenze, rimaste insoddisfatte, di conformare la legislazione nazionale
alle norme internazionali e garantire l’indipendenza della magistratura.
Osman, membro dell’opposizione nel parlamento del Sudan dal 2005 al 2010,
è un convinto sostenitore della Corte penale internazionale (CPI), poiché «gli
africani non hanno nessuno a cui rivolgersi per chiedere giustizia e ricorso,
data la mancanza di adeguati sistemi giudiziari in Africa», come ha dichiarato ai
rappresentanti delle istituzioni dell’UE, della CPI e di oltre 200 organizzazioni della
società civile presenti al forum UE-ONG del 2013, nel discorso che ha tenuto in
qualità di vincitore del Premio Sacharov.
Alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013 ha sostenuto la denuncia
dell’impunità e della tortura nella dichiarazione finale.
2006
ALJAKSANDR
MILINKEVIČ
ALJAKSANDR MILINKEVIČ
, leader del movimento «per la
libertà» dell’opposizione democratica in Bielorussia, ha avuto «il coraggio di
sfidare l’ultima dittatura in Europa», per citare le parole dell’allora presidente del
Parlamento europeo Josep Borrell Fontelles al momento di consegnargli il Premio
Sacharov.
Milinkevič, fisico di formazione, è stato scelto come candidato comune
dell’Opposizione democratica unita alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2005;
egli rivendicava un futuro veramente democratico e si presentava come una reale
alternativa all’autoritarismo di Lukašenko, la cui vittoria è stata fortemente criticata
dall’opposizione, sia internamente alla Bielorussia che dall’estero, a causa di brogli
elettorali. Dopo le contestazioni Milinkevič è stato arrestato con vari pretesti, ma
nessuna accusa è stata formalizzata nei suoi confronti.
Milinkevič non si è candidato alle elezioni presidenziali del 2010, poiché ha
ritenuto che le leggi elettorali del paese non fossero state modificate in modo
da garantire elezioni democratiche, libere e trasparenti. Lukašenko è rimasto al
potere e la situazione dei diritti umani in Bielorussia è ulteriormente degenerata
dopo le elezioni del 2010, con l’approvazione di una legge che criminalizza
qualsiasi atteggiamento ritenuto critico nei confronti dello Stato, e la censura e
l’incarcerazione di giornalisti, attivisti e altri critici dell’attuale regime continuano.
Gli attivisti della società civile temono che possa essere emanata una legge sugli
«agenti stranieri» simile a quella russa, sebbene Lukašenko sembri voler prendere
le distanze dal Cremlino in seguito all’annessione della Crimea da parte della
Russia nel 2014.
Milinkevič ha accolto favorevolmente l’insolito utilizzo del bielorusso da parte
di Lukašenko, che solitamente parla in russo, in un discorso del luglio 2014, ma
ha dichiarato alla BBC che finora si tratta soltanto di una tendenza, non di una
strategia.
In qualità di vincitore del Premio Sacharov, Milinkevič viene periodicamente
consultato dagli organi parlamentari che si occupano della Bielorussia e ha
partecipato a eventi della rete del Premio Sacharov, tra cui la conferenza della rete
nel 2013.
In un dibattito della rete tenutosi in Lituania con Berta Soler, le autorità nazionali e
i deputati dei parlamenti europeo e lituano, Milinkevič ha denunciato le continue
intimidazioni e umiliazioni perpetrate dalle autorità nei confronti dei difensori dei
diritti umani in Bielorussia. Si è dichiarato a favore di una maggiore integrazione
europea per la Bielorussia e di un dialogo decisivo e costruttivo con le autorità
bielorusse. Il dialogo si è rivelato un elemento chiave anche negli interventi di
Milinkevič in occasione dei dibattiti pubblici al festival del cinema «One World».
Egli ha auspicato un maggiore impegno dell’UE per quanto concerne la Bielorussia,
al fine di promuovere la libertà. Secondo Milinkevič si potrebbe far leva sul fatto
che il paese ha bisogno di assistenza economica per spingere la Bielorussia ad
avviare un dialogo con l’UE, anche in materia di diritti umani.
© AFP ImageForum
2005
DAMAS
DE BLANCO
DAMAS DE BLANCO
Le
(Donne in bianco) sono un movimento
formatosi spontaneamente a Cuba nel 2003 a seguito dell’arresto di 75 uomini,
loro mariti o parenti, durante la «primavera nera» di Cuba, una dura repressione
nei confronti di attivisti per la democrazia da parte del regime cubano. Oltre a
manifestare marciando per le strade, le attiviste hanno scritto numerose lettere
alle autorità cubane per chiedere il rilascio dei prigionieri, senza mai ottenere
risposta.
Le Damas non si sono tuttavia arrese, e le loro continue proteste hanno ottenuto
risultati: gli ultimi due prigionieri della primavera nera sono stati rilasciati nel
marzo 2011. La maggior parte di essi hanno accettato l’esilio in Spagna, ma alcuni
sono rimasti a Cuba e portano avanti la lotta in condizioni difficili e con gravi
sacrifici personali, insieme alle indomite Damas de blanco.
Le Damas continuano ogni domenica dopo la messa a manifestare per le vie
dell’Avana, portando fiori e protestando contro le ingiustizie sociali a Cuba.
Nonostante le difficoltà di comunicazione, le percosse, le detenzioni e le violenze
psicologiche nei confronti delle Damas, un numero sempre crescente di donne
si è unito a loro. Nel luglio 2014 circa 100 Damas sono state temporaneamente
arrestate, e la portata insolita dell’arresto ha spinto altri dissidenti a concludere
che il numero crescente delle Damas rappresenti ormai una minaccia per il regime
cubano.
Nel 2013 le Damas sono state finalmente in grado di ritirare personalmente
il Premio Sacharov conferito loro nel 2005. La presidente Berta Soler e le
rappresentanti del movimento, Belkis Cantillo Ramirez e Laura Maria Labrada
Pollán — figlia dell’amata cofondatrice Laura Pollán, scomparsa nel 2011 — hanno
ottenuto l’autorizzazione a lasciare Cuba dopo l’allentamento delle restrizioni ai
viaggi dei cittadini cubani, per pronunciare un discorso al Parlamento, che aveva
riconosciuto il loro coraggio e la loro dedizione alla causa dei diritti umani.
Berta Soler ha paragonato il Premio Sacharov a uno «scudo» che avrebbe protetto
le Damas al loro rientro a Cuba.
Poco dopo la cerimonia di assegnazione del Premio Sacharov, le Damas e altri
dissidenti tra cui Guillermo Fariñas, vincitore del Premio nel 2010, hanno dato vita
a una piattaforma internazionale per i diritti umani a Cuba.
Berta Soler ha rappresentato le Damas alla conferenza della rete del Premio
Sacharov nel 2013, in occasione della quale, insieme a Guillermo Fariñas e alla
figlia di Oswaldo Payá, ha esortato la rete a chiedere il rilascio dei prigionieri
politici e dei prigionieri di coscienza a Cuba e nel resto del mondo. Ha inoltre preso
parte a un dibattito della rete in Lituania insieme ad Aljaksandr Milinkevič, e ha
costantemente invitato l’UE a imporre il rispetto dei diritti umani quale condizione
per qualsiasi accordo con Cuba.
2005
HAUWA
IBRAHIM
HAUWA IBRAHIM
Avvocato con esperienza in materia di sharia,
è nata
nel 1967 in una famiglia musulmana di un piccolo e povero villaggio dello Stato del
Gombe, nella Nigeria settentrionale.
All’età di dieci anni era destinata al matrimonio ma grazie alla sua caparbietà e
ispirata dalla madre, la quale era convinta che l’istruzione fosse l’unico modo per
uscire dalla povertà, è scappata di casa per frequentare un collegio femminile e
continuare gli studi, fino a diventare il primo avvocato donna del suo Stato.
Quando la sharia è stata introdotta nei 12 Stati settentrionali della Nigeria, a
decorrere dal 1999, Hauwa Ibrahim ha sviluppato un’attività che non si può
che definire straordinaria, difendendo tra l’altro donne accusate di adulterio
e condannate a morte per lapidazione e minori accusati di furto e condannati
all’amputazione degli arti. Ha seguito, talvolta a titolo gratuito, oltre 150 casi,
salvando le vite di Amina Lawal, Safiya Hussaini, Hafsatu Abubakar e molti altri.
Inizialmente, in quanto donna, non le era consentito parlare in un tribunale della
sharia o rivolgersi direttamente a un giudice, ma doveva passare i propri appunti
a colleghi uomini. Attualmente è invitata in tribunale solo per i casi difficili o che
richiedono l’intervento di una personalità influente, poiché la sua fama è cresciuta
e l’approccio nei confronti dell’applicazione della sharia, inizialmente indiscusso,
è cambiato e i governatori degli Stati rifiutano di firmare le ormai impopolari
condanne a morte.
Grazie all’esperienza maturata, nel 2014 è stata nominata dal presidente Jonathan
membro della commissione presidenziale incaricata di indagare sul caso delle 219
ragazze rapite dal gruppo terroristico di Boko Haram a Chibok, città della Nigeria
settentrionale.
Hauwa Ibrahim ha chiesto il sostegno internazionale per la «tragedia irrisolta»
delle ragazze rapite, anche al Parlamento europeo e al Congresso statunitense, e
ha esortato a intraprendere azioni più incisive contro la violenza nei confronti delle
donne, la povertà estrema, l’elevata disoccupazione e la mancanza di opportunità
laddove «la religione e l’estremismo religioso diventano un pericoloso oppio per
i disperati».
Hauwa ritiene fermamente che l’istruzione di tutti i bambini cominci a casa, con
la madre, e quindi che la formazione delle ragazze possa migliorare la società nel
suo insieme. Ha investito il denaro del Premio Sacharov in un fondo, i cui interessi
servono a finanziare l’istruzione dei bambini poveri nella Nigeria settentrionale,
pagando direttamente la retta e il materiale scolastico onde garantire che i
bambini dispongano dei mezzi per continuare gli studi.
Ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel
2013, è intervenuta in materia di diritti dei minori nei dibattiti del «One World Film
Festival» e ha tenuto una conferenza sul Premio Sacharov in Irlanda.
REPORTER SENZA FRONTIERE (RSF) è un’organizzazione
non governativa internazionale con sede in Francia che lotta per la libertà
d’informazione in tutto il mondo.
2005
REPORTER
SENZA FRONTIERE
Secondo RSF la libertà di espressione e d’informazione saranno sempre le libertà più
importanti al mondo e le fondamenta di ogni democrazia. L’organizzazione ritiene
che se i giornalisti non sono liberi di riferire i fatti, denunciare gli abusi e informare il
pubblico, non è possibile risolvere il problema dei bambini soldato, difendere i diritti
delle donne o preservare l’ambiente.
RSF esegue un monitoraggio continuo e denuncia gli attacchi alla libertà
d’informazione nel mondo, lotta contro le leggi volte a limitare tale libertà e
contro la censura, assiste i giornalisti perseguitati e le loro famiglie sia dal punto
di vista morale che economico e offre assistenza materiale ai corrispondenti di
guerra per migliorare la loro sicurezza. Per aggirare la censura, pubblica di tanto
in tanto articoli che sono stati proibiti nel paese d’origine, ospita giornali che
sono stati chiusi in patria e funge da forum per i giornalisti che sono stati ridotti al
silenzio dalle autorità del loro paese. Per assicurare che gli assassini e i torturatori
di giornalisti siano assicurati alla giustizia, dal 2002 la sua rete fornisce assistenza
legale alle vittime e le rappresenta in giudizio.
Ogni anno conferisce due premi, il Premio Reporter senza frontiere e il Premio
Netizen, un riconoscimento per onorare i blogger, i giornalisti e i mezzi
d’informazione di tutto il mondo.
RSF pubblica ogni anno una classifica mondiale della libertà di stampa. Quella
relativa al 2014 riguarda 180 paesi e mette in evidenza l’impatto negativo dei
conflitti sulla libertà di informazione e sui soggetti interessati. La Siria ne è un
esempio estremo, con ripercussioni sulla libertà di stampa anche dei paesi vicini,
ma anche in Mali e nella Repubblica centrafricana l’importante perdita di posizioni
per quanto riguarda la libertà di stampa è riconducibile ai conflitti. Secondo RSF,
in Iran le promesse del nuovo presidente Hassan Rouhani sul miglioramento della
libertà d’informazione non sono ancora state attuate.
Come vincitore del Premio Sacharov, RSF ha messo in contatto altri vincitori e
ha coordinato le attività. Nel 2013 i rappresentanti dell’organizzazione hanno
partecipato attivamente alla conferenza della rete. Nel 2014 Olivier Basille,
rappresentante di RSF presso l’UE, si è espresso sui disordini e sulla libertà di
stampa in Ucraina in occasione dei dibattiti organizzati nel corso del festival
cinematografico «One World», e ha dialogato con giovani studenti nell’ambito
dell’Iniziativa europea per la gioventù, esortandoli a non avere paura di uscire
dall’anonimato nell’affrontare questioni che richiedono coraggio.
2004
L’ASSOCIAZIONE BIELORUSSA DEI GIORNALISTI
ASSOCIAZIONE
(BAJ) è formata da quasi mille professionisti, i quali operano in condizioni
estremamente difficili per proteggere i diritti dei giornalisti, spesso vittime di
intimidazioni, persecuzioni, procedimenti penali o espulsioni dal paese.
DEI GIORNALISTI
L’impegno della BAJ a favore della causa della libertà di parola e della promozione
del giornalismo indipendente e professionale in Bielorussia è fonte di ispirazione.
L’Associazione lavora per accrescere la conoscenza del pubblico sul diritto
costituzionale alla libertà d’informazione e su come esercitare i propri diritti.
L’Associazione difende i diritti dei giornalisti soprattutto nei momenti di crisi, ad
esempio nel periodo delle contestazioni violente che hanno fatto seguito alle
elezioni presidenziali nel 2010.
BAJ opera per liberalizzare i regolamenti giuridici sui media e incoraggiare
il giornalismo etico e di qualità. Sin dalla sua istituzione è stata la principale
associazione per l’indipendenza della stampa in Bielorussia, con l’obiettivo
principale di fornire al pubblico informazioni più imparziali, complete, tempestive
e vicine alla realtà.
Nonostante i notevoli sforzi per migliorare la situazione dei mezzi d’informazione
in Bielorussia, essa è ancora tutt’altro che favorevole. La legge bielorussa del 2009
sui mezzi di comunicazione consente alle autorità di chiudere i media considerati
troppo critici. Per operare in Bielorussia i media stranieri devono ottenere
una licenza, e lavorare per loro senza accredito rappresenta un ostacolo per i
giornalisti locali che, se scoperti, ricevono avvertimenti dal KGB e dalla procura.
Il codice penale contiene ancora articoli che prevedono la condanna in caso di
diffamazione nei confronti dei funzionari di alto grado. I mezzi d’informazione
indipendenti sono soggetti a discriminazione economica, poiché le principali
imprese di distribuzione, spedizione e stampa sono gestite dallo Stato e possono
rifiutarsi di fornire servizi ai mezzi di informazione troppo esplicitamente critici.
L’Associazione e i suoi membri non si lasciano tuttavia scoraggiare e il suo
presidente Zanna Litvina ha ricevuto i ringraziamenti pubblici di Ales Bjaljacki,
candidato al Premio Sacharov, fondatore del centro per i diritti umani «Viasna»
e uno dei più conosciuti prigionieri politici della Bielorussia. Nel giugno 2014 ha
beneficiato di una liberazione anticipata e ne ha attribuito il merito al sostegno
ricevuto a livello nazionale e internazionale, nonché alla costante attenzione
prestata dai giornalisti al suo caso. I giornalisti, ha affermato, non scrivevano
tanto di lui quanto della situazione riguardante i diritti politici e civili di un’intera
nazione.
Zanna Litvina ha rappresentato l’Associazione bielorussa dei giornalisti alla
conferenza della rete organizzata in occasione del venticinquesimo anniversario
dell’istituzione del Premio Sacharov nel 2013.
Con lo scoppio dei tumulti nella vicina Ucraina nel 2014 e l’arresto di uno dei suoi
membri, l’Associazione ha denunciato le violenze nei confronti dei giornalisti
in Crimea, dichiarando che chi ricorre alla violenza contro i giornalisti dimostra
la vera intenzione di interrompere la circolazione delle informazioni sgradite a
determinati gruppi politici.
BIELORUSSA
© UN Photo/Sergey Bermeniev
2003
KOFI ANNAN,
SEGRETARIO GENERALE
DELLE NAZIONI UNITE,
E TUTTO IL PERSONALE
DELLE NAZIONI UNITE
NAZIONI UNITE
Con l’assegnazione del Premio Sacharov alle
nel 2003, il
Parlamento europeo ha voluto riconoscere l’impegno di questa organizzazione a
favore della pace, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Il Premio Sacharov onora in particolare i collaboratori delle Nazioni Unite, che
lavorano in modo instancabile per la pace nel mondo, spesso in condizioni difficili.
Il Premio è stato assegnato, in particolare, alla memoria di Sergio Vieira de Mello,
Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e uno dei più degni
rappresentanti dell’ONU. Incaricato speciale di Kofi Annan in Iraq, nel 2003 fu una
delle vittime di un attentato al quartier generale dell’ONU a Baghdad.
Kofi Annan è stato il settimo segretario generale delle Nazioni Unite, per le quali
ha lavorato dal 1997 al 2006, e il primo a essere scelto fra il personale delle Nazioni
Unite. È stato un assiduo promotore dei diritti dell’uomo, dello Stato di diritto,
dell’attuazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio e dello sviluppo dell’Africa,
e ha cercato di avvicinare le Nazioni Unite al pubblico di tutto il mondo creando
legami con la società civile, il settore privato e altri partner.
Nel 2005 ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la relazione
intitolata In larger freedom (In una più ampia libertà), nella quale delinea la sua
visione di una riforma completa e profonda dell’ONU. Ciò ha condotto, tra
l’altro, alla creazione nel marzo 2006 di un nuovo Consiglio per i diritti umani
in sostituzione della vecchia Commissione dei diritti umani, con l’obiettivo di
rafforzare i meccanismi dell’organizzazione mondiale, in modo da promuovere
e proteggere i diritti fondamentali e affrontare i maggiori trasgressori dei diritti
umani.
Nel 2007, dopo aver portato a termine due mandati come segretario generale delle
Nazioni Unite, Kofi Annan è entrato a far parte di varie organizzazioni impegnate
su questioni sia africane che mondiali, tra cui la propria fondazione Kofi Annan
Foundation. Dal 2013 presiede il gruppo di leader mondiali The Elders, riunito da
Nelson Mandela nel 2007.
Nel 2012 ha ricoperto l’incarico di inviato speciale congiunto dell’ONU e della
Lega araba in Siria con l’obiettivo di trovare una soluzione al conflitto nel paese,
ma si è dimesso definendo la missione impossibile. Ritiene che la comunità
internazionale non sia pronta a un intervento militare diretto, ma ha invitato un
gruppo principale di paesi a collaborare per aiutare Iraq e Siria a risolvere gli attuali
conflitti all’interno del loro territorio.
2002
OSWALDO JOSÉ
PAYÁ SARDIÑAS
OSWALDO JOSÉ PAYÁ SARDIÑAS
(1952-2012) è meglio
noto come il fondatore del progetto Varela, una campagna a sostegno di un
referendum per chiedere l’introduzione di leggi per la protezione dei diritti civili,
la convocazione di elezioni libere e pluraliste, il rilascio di tutti i prigionieri politici
e l’introduzione di riforme economiche e sociali a Cuba.
Attivo fin da giovane nell’ambito delle riforme, fu vittima in più occasioni di
persecuzioni e condanne per le sue critiche alla politica e alle ingiustizie di Fidel
Castro. Ciò non lo fece però desistere dal fondare, nel 1988, il Movimento cristiano di
liberazione, divenuto uno dei più importanti movimenti di opposizione a Cuba. Nel
1990 Oswaldo Payá lanciò un appello per il dialogo nazionale e iniziò la raccolta di
10 000 firme per la conversione di una proposta civile in legge.
Nel 1997 diede vita all’ambizioso progetto Varela, sostenuto da migliaia di cubani
ma bloccato da una contro-iniziativa delle autorità cubane che resero permanente
la natura socialista dello Stato cubano, una decisione che, secondo le dichiarazioni
delle autorità, era stata approvata da un plebiscito.
Numerosi attivisti coinvolti nel progetto Varela furono incarcerati durante la
«primavera nera» del 2003, ma Payá non si arrese. Nel 2008 presentò un progetto
di legge sull’amnistia per i prigionieri politici all’Assemblea nazionale e nel 2010
istituì il Foro Todos Cubanos.
Sebbene non sia stato mai incarcerato, i suoi familiari affermano che aveva
ricevuto numerose minacce di morte. Il 22 luglio 2012 ha perso la vita in un
controverso incidente stradale a Cuba. Nel rendergli omaggio, il presidente del
Parlamento europeo Martin Schulz si è dichiarato convinto che le sue idee sono
destinate a sopravvivere, perché il suo lavoro e il suo impegno hanno ispirato una
generazione di attivisti cubani che seguono il suo esempio nel promuovere la
libertà politica e i diritti umani.
Il Movimento cristiano di liberazione continua a chiedere il chiarimento delle
circostanze del suo decesso. La sua famiglia ha respinto la versione ufficiale
dell’incidente automobilistico. Sua figlia Rosa Maria ha chiesto l’avvio di
un’indagine internazionale imparziale sulla morte del padre dinanzi al Consiglio
per i diritti umani delle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni internazionali,
denunciando la persecuzione e le minacce inflitte alla famiglia dagli agenti della
sicurezza statale. Nel 2013 la famiglia di Payá si è temporaneamente trasferita
negli Stati Uniti.
Rosa Maria Payá ha presenziato alla conferenza per il venticinquesimo anniversario
del Premio Sacharov presso il Parlamento europeo e, nella sua dichiarazione
conclusiva, ha chiesto «un’indagine sulla morte del vincitore del Premio Sacharov
per il 2002, Oswaldo Payá».
Nel 2014 i familiari di Payá hanno incontrato Papa Francesco, nutrendo la speranza
che sosterrà un referendum per lo svolgimento di libere elezioni a Cuba.
2001
IZZAT
GHAZZAWI
IZZAT GHAZZAWI
(1952-2003) è stato uno scrittore e professore
palestinese le cui opere sono incentrate sui problemi e sulle sofferenze causate
dall’occupazione israeliana nei territori palestinesi e sulle proprie sofferenze
personali. La sua vita fu segnata dall’uccisione, a opera dell’esercito israeliano, del
figlio Ramy di 16 anni, nel 1993. Ramy venne ucciso nel cortile della scuola mentre
prestava soccorso a un amico ferito. Nonostante questo tragico avvenimento,
Izzat Ghazzawi ha sempre continuato a cercare il dialogo culturale e politico con
il popolo israeliano.
Figlio di profughi e proveniente da una famiglia numerosa che aveva trovato
rifugio in Cisgiordania nel 1948, Izzat Ghazzawi scrisse il suo primo testo teatrale
all’età di 13 anni. Conseguì un master in letteratura anglo-americana e insegnò
all’università di Birzeit. Critico letterario, fu presidente dell’Unione degli scrittori
palestinesi, scrisse romanzi e racconti, e organizzò e presiedette la prima
conferenza internazionale degli scrittori in Palestina nel 1997.
Fu anche membro del Comitato esecutivo del Consiglio palestinese per la giustizia
e la pace. Fu più volte imprigionato e perseguitato dalle autorità israeliane per
le sue attività politiche. La peggiore difficoltà che dovette sopportare in queste
circostanze era la separazione dalla sua famiglia, in particolare dai suoi sei figli, che
poteva vedere soltanto a due alla volta per 30 minuti ogni 15 giorni.
Nel 1992 un incontro svoltosi a Gerusalemme con alcuni scrittori israeliani, che
inizialmente aveva visto con apprensione, risultò invece un punto di svolta nella
sua vita. Fu quello il momento in cui iniziò a vedere i suoi colleghi israeliani come
partner con i quali costruire assieme un futuro in cui palestinesi e israeliani di
qualsiasi estrazione sociale sarebbero stati alla pari.
Nel presentarlo come vincitore del Premio Sacharov nel 2001, l’allora presidente
del Parlamento europeo Nicole Fontaine gli rese omaggio per aver «promosso
in maniera instancabile la causa della pace e del dialogo tra il popolo israeliano
e il popolo palestinese», sottolineando che il suo ardore non era mai diminuito,
nonostante la prigionia, la censura e, peggio di qualunque altra cosa, la perdita
insostituibile del figlio sedicenne Ramy.
Rivolgendosi al Parlamento europeo Ghazzawi auspicò la guarigione che possiamo
ottenere nel momento in cui siamo in grado di capire le reciproche necessità (1).
Poco dopo la morte del figlio, insieme allo scrittore israeliano Abraham B.
Yehoshua e al fotografo Oliviero Toscani, pubblicò «Enemies», un libro sui rapporti
tra palestinesi e israeliani che riscosse un enorme successo.
Izzat Ghazzawi è morto il 4 aprile 2003.
(1) Venticinquesimo anniversario del
Premio Sacharov: il Parlamento
europeo per la libertà di pensiero,
Centro archivistico e documentario
del Parlamento europeo, Quaderni
del Cardoc, n. 11 – novembre 2013,
pag. 112.
2001
NURIT
PELED-ELHANAN
NURIT PELEDELHANAN
Nata in Israele nel 1949,
è una docente
universitaria e una scrittrice. Nel 1997 la figlia Smadar, che aveva 13 anni, fu vittima
di un attacco suicida da parte di un attentatore palestinese nella zona occidentale
di Gerusalemme.
«Mia figlia è stata uccisa solo perché israeliana da un giovane oppresso ed
esasperato al punto da suicidarsi e uccidere solo perché palestinese. Entrambi sono
vittime dell’occupazione israeliana della Palestina. Il loro sangue si è mescolato
sulle pietre di Gerusalemme, che da sempre sono indifferenti al sangue». Nurit
Peled-Elhanan non consentì alle autorità israeliane, incluso il primo ministro, di
partecipare al funerale della figlia.
Figlia del famoso generale Matti Peled, noto per le sue campagne pacifiste e
progressiste, Nurit Peled-Elhanan è diventata il simbolo di coloro che in Israele
lottano contro l’occupazione e per la libertà della Palestina.
È anche fortemente impegnata per cambiare la mentalità della società israeliana,
in particolare quella delle giovani generazioni. La sua ultima pubblicazione,
intitolata Palestine in Israeli school books: Ideology and propaganda in education
(La Palestina nei libri di scuola in Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione),
richiama l’attenzione sul fatto che l’istruzione nelle scuole israeliane sembra
propendere più verso il razzismo che non verso la tolleranza e la diversità. Ha
espresso forti critiche nei confronti di leader mondiali, quali George Bush, Tony
Blair e Ariel Sharon, perché «contagiano i rispettivi cittadini con un terrore cieco
nei confronti dei musulmani».
Nurit Peled-Elhanan è cofondatrice del tribunale Russell, un tribunale popolare
internazionale istituito nel 2009 per esaminare il ruolo e la complicità di terzi nelle
violazioni del diritto internazionale perpetrate da Israele nei confronti del popolo
palestinese.
Nel 2013 ha partecipato attivamente alla conferenza della rete del Premio Sacharov,
richiamando ripetutamente l’attenzione sulle sofferenze dei bambini nelle zone di
guerra e sotto occupazione. Quando il conflitto è scoppiato nuovamente a Gaza
nel luglio 2014, Nurit Peled-Elhanan ha scritto attraverso i mezzi d’informazione e
online: «Vi scrivo dall’entrata dell’inferno. Genocidio a Gaza, pogrom e massacri in
Cisgiordania e paura dei bombardamenti in Israele […]. Faccio appello all’Unione
europea affinché usi tutti i mezzi diplomatici ed economici a sua disposizione
per aiutare a salvare il mio paese da questo abisso di morte e disperazione in cui
viviamo […] e restituisca la vita sia ai palestinesi che agli ebrei israeliani».
2001
DON ZACARIAS
KAMWENHO
Quando fu candidato al Premio Sacharov,
DON ZACARIAS
KAMWENHO
era il presidente del Comitato interconfessionale per la
pace in Angola, un organismo ecumenico che riuniva la conferenza cattolica
episcopale di Angola e Sao Tomé, della quale era altresì presidente, l’Alleanza
evangelica di Angola e il Consiglio delle chiese cristiane di Angola. Il Parlamento
europeo ha riconosciuto nei suoi appelli per un futuro di pace, democrazia e
diritti umani in Angola una voce ferma, imparziale e instancabile, poiché Don
Kamwenho aveva dispensato critiche senza alcun timore a entrambe le parti, sia
al Movimento popolare di liberazione dell’Angola, sia al gruppo ribelle Unita, nel
corso della guerra civile durata 27 anni che l’Angola ha subito dopo aver ottenuto
l’indipendenza dal Portogallo nel 1975.
Alla fine degli anni novanta aveva cominciato a diffondersi tra la popolazione
dell’Angola una nuova consapevolezza della necessità di combattere per la
pace e i diritti dell’uomo, incoraggiata dagli sforzi di autorità ecclesiastiche e di
numerose organizzazioni della società civile, nello spirito di una «riconciliazione
nazionale globale». Al vertice di questo movimento per la pace vi era la figura
dell’arcivescovo Zacarias Kamwenho.
Nato a Chimbundo nel 1934 e ordinato sacerdote nel 1961, Don Zacarias Kamwenho
divenne arcivescovo di Lubango nel 1995. Con la sua fermezza, imparzialità
e tenacia egli riuscì a farsi ascoltare da tutte le parti coinvolte nel conflitto, nel
tentativo di raggiungere una pace duratura attraverso il dialogo politico.
Il cessate il fuoco stabilito nel 2002, dopo l’assassinio di Jonas Savimbi, capo
dell’Unita, i colloqui di pace e il clima generale favorevole a una democratizzazione,
furono possibili in larga misura grazie alla campagna condotta da Don Zacarias
Kamwenho e da altri leader religiosi e della società civile. Nel 2003 Monsignor
Kamwenho rinunciò alla presidenza della conferenza episcopale d’Angola e di
São Tomé, ma continuò a operare attivamente nell’ambito della sua diocesi e del
Comitato ecumenico per la pace in Angola per la realizzazione della democrazia,
per il rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, per l’instaurazione dello
Stato di diritto e per una riconciliazione nazionale duratura. Nel 2007 ha dichiarato
che «in particolare negli ultimi due anni è maturata nel popolo angolano una
nuova consapevolezza riguardo alla necessità di lottare per la pace e per i diritti
dell’uomo, incoraggiata e rappresentata dagli sforzi delle autorità ecclesiastiche e
dei vari organi della società civile, con il fine ultimo di una riconciliazione nazionale
globale».
Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov.
2000
¡BASTA
YA!
BASTA YA!
I membri dell’organizzazione
hanno rischiato la propria vita
nella lotta contro il terrorismo. La loro unica «arma» era la mobilitazione pacifica
dei cittadini in difesa delle libertà fondamentali. Per molti anni, le libertà essenziali
e i diritti umani sono stati in pericolo nel Paese Basco a causa del terrorismo
dell’ETA e di gruppi affini. Migliaia di persone sono state oggetto di campagne di
intimidazione, di estorsione, di ricatto e di attacchi o attentati mortali diretti contro
di loro, le loro famiglie e i loro beni, e non hanno potuto esprimersi liberamente né
esercitare i propri diritti senza incorrere in gravi pericoli.
L’organizzazione ¡Basta ya! è stata creata perché le libertà civili fondamentali e i
diritti umani nel Paese Basco erano minacciati, in particolare quelli dei cittadini
«non nazionalisti», a causa del terrorismo dell’ETA e delle attività di gruppi a essa
affiliati. La sua creazione è avvenuta anche a seguito all’aumento del nazionalismo
etnico e xenofobo tra i partiti nazionalisti più moderati e nell’ambito di gruppi che
hanno cercato di trovare un accordo con l’ETA.
L’iniziativa civica, il cui nome significa «Adesso basta!» e che nel luglio 2004 è
stata riconosciuta quale organo consultivo del Consiglio economico e sociale delle
Nazioni Unite, è un’associazione di persone impegnate a favore dei diritti umani
fondamentali, della democrazia e della tolleranza nel Paese Basco.
L’organizzazione è stata promotrice di varie attività, fra cui emergono le due grandi
manifestazioni che hanno avuto luogo a San Sebastián nel febbraio e nell’ottobre
del 2000. L’organizzazione chiedeva lo scioglimento dell’ETA, sosteneva le
vittime del terrorismo e difendeva la costituzione e lo statuto come base per una
coesistenza dignitosa di tutti i cittadini baschi.
¡Basta ya! si è sciolta nel 2007. I suoi leader, Carlos Martínez Gorriarán, Juan Luis
Fabo, Rosa Díez e Fernando Savater, hanno formato il partito politico UPyD (Unión
Progreso y Democracia), che attualmente si sta battendo per mantenere l’unità
nazionale della Spagna.
Fernando Savater, leader intellettuale del movimento, ha rappresentato ¡Basta ya!
alla cerimonia di assegnazione del Premio Sacharov presso il Parlamento europeo
nel 2000. Egli è intervenuto come rappresentante dell’organizzazione anche alla
conferenza della rete del Premio Sacharov che commemorava il venticinquesimo
anniversario del Premio.
1999
XANANA
GUSMÃO (1)
XANANA GUSMÃO
, chiamato il «Mandela di Timor», è riconosciuto
come leader e come simbolo della resistenza di Timor, che mirava a porre fine
al conflitto armato per l’indipendenza dell’Indonesia. Accusato di separatismo
e condannato a una pena di vent’anni, di cui sette scontati, venne insignito del
Premio Sacharov dal Parlamento europeo appena uscito dal carcere nel 1999.
Dopo il ritiro dei portoghesi ebbe inizio la destabilizzazione di Timor Leste a
opera dell’Indonesia, che il 7 dicembre 1975 invase il paese. Gusmão entrò in
clandestinità e nel 1978 diventò capo del braccio armato del «Fronte rivoluzionario
per l’indipendenza di Timor Leste» (Fretilin).
Secondo le stime, le violenze che accompagnarono l’invasione provocarono la
morte di 200 000 persone, ma non riuscirono a piegare la determinazione del
popolo a opporre resistenza. Xanana Gusmão cercò di ottenere una soluzione
pacifica proponendo al governo indonesiano un piano di pace e trattative sotto
l’egida delle Nazioni Unite. Nel 1986 riuscì a riunire nel «Consiglio nazionale della
resistenza di Timor» (CNRT) le diverse forze politiche e sociali.
Nondimeno, il 20 novembre 1992 Xanana Gusmão fu arrestato e condannato
all’ergastolo, poi commutato in 20 anni di reclusione. La resistenza di Timor tuttavia
non si fiaccò e fu esercitata un’enorme pressione internazionale sull’Indonesia per
chiedere la liberazione di Gusmão. Quando venne liberato nel settembre 1999,
poco dopo il referendum del 30 agosto, in cui l’80 % della popolazione di Timor
votò per l’indipendenza, Gusmão promise di «fare tutto il possibile per portare la
pace a Timor Leste e al mio popolo».
Nelle prime elezioni presidenziali libere svoltesi nell’aprile 2002 a Timor Leste
Xanana Gusmão è stato eletto con quasi l’83 % dei voti. Il 20 maggio 2002 il
segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha ufficialmente dichiarato
l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Leste, della quale Xanana
Gusmão è stato presidente fino al maggio 2007. Nel 2008 Xanana Gusmão è
sopravvissuto a un tentativo di assassinio. È l’attuale primo ministro del paese
e nell’agosto 2014 ha dichiarato di voler mantenere tale carica, sebbene in
precedenza avesse annunciato la propria intenzione di rassegnare le dimissioni
nel 2014.
Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov.
In occasione dell'epidemia di Ebola del 2014, contro la quale Timor Leste ha
stanziato un milione di dollari, Gusmão ha dichiarato alle Nazioni Unite che
«questa emergenza ci ricorda brutalmente che tutti i colpi allo sviluppo sono
amplificati dalle esistenti vulnerabilità e dalla debolezza delle istituzioni».
(1) Xanana Gusmão ha modificato
legalmente il proprio nome, José
Alexandre Gusmão, in Kay Rala
Xanana Gusmão. Kay Rala era il suo
nome di battaglia durante la lotta per
la libertà e l’autodeterminazione di
Timor Est, mentre Xanana è il nome
con cui era conosciuto in gioventù.
1998
IBRAHIM
RUGOVA
Nel 1998, con l’aggravarsi del conflitto armato tra i reparti serbi e l’Esercito di
liberazione del Kosovo, il Parlamento europeo rese onore a
IBRAHIM
RUGOVA
(1944-2006), un uomo che si è impegnato per il principio della
resistenza pacifica contro la violenza.
Nell’accettare il premio, Ibrahim Rugova ha affermato: «Questo premio rappresenta
per me e per tutte le persone del Kosovo il riconoscimento della nostra lotta
pacifica e dei nostri sacrifici».
Ibrahim Rugova, nato il 2 dicembre 1944 a Cerrca (Istog) nel Kosovo, insegnò lettere
all’università di Priština prima di essere eletto leader della Lega democratica del
Kosovo (LDK) nel 1989. Nello stesso anno Belgrado abrogò lo statuto di autonomia
della provincia del Kosovo, dando inizio alla repressione della popolazione
albanese e agli arresti di leader dell’opposizione. Nel 1990 i due milioni di albanesi
del Kosovo adottarono la propria costituzione. Nel 1991, con un referendum, il
97 % di loro si espresse a favore dell’indipendenza del Kosovo e nel 1998 Ibrahim
Rugova fu confermato presidente dell’autoproclamata «Repubblica del Kosovo».
Rugova continuò la sua opposizione non violenta contro il regime serbo,
mantenendo sempre la disponibilità al dialogo con Belgrado. La sua posizione
negoziale fu criticata da Adem Demaçi, favorevole a un approccio più nazionalista.
Allo stesso tempo, egli operò per interessare l’opinione pubblica mondiale alla causa
del suo popolo. Il suo appello alla comunità internazionale affinché aumentasse
le sue pressioni e offrisse una protezione internazionale al Kosovo continuò a
risuonare con immutato vigore. Nella convinzione che l’autodeterminazione del
suo popolo fosse possibile soltanto una volta conseguita la pace, il 18 marzo 1999
Ibrahim Rugova firmò, in veste di rappresentante negoziale degli albanesi del
Kosovo, l’accordo di pace di Rambouillet. Il rifiuto di Belgrado di firmare l’accordo
provocò, il 24 marzo, gli attacchi aerei della NATO contro la Jugoslavia e il ritiro
delle forze jugoslave dal Kosovo. Rugova fu costretto alla clandestinità. Nel marzo
2002 Ibrahim Rugova venne eletto primo presidente del Kosovo. Morì di cancro il
21 gennaio 2006.
1997
SALIMA
GHEZALI
SALIMA GHEZALI
è una giornalista algerina, una scrittrice e una
sostenitrice dei diritti delle donne. Negli anni ottanta si impegnò dapprima nel
movimento delle donne algerine, tra l’altro come membro fondatore di «Donne
d’Europa e del Maghreb» e come caporedattrice della rivista femminile NYSSA da
lei fondata.
Insegnante di professione, intraprese la carriera di giornalista dirigendo dal 1994
La Nation, il settimanale algerino in lingua francese più letto in Algeria. Durante gli
undici anni in cui infuriava la guerra civile iniziata nel 1991 tra il governo algerino
e gruppi di ribelli islamici, La Nation sostenne il dialogo politico tra tutte le parti
del conflitto, i diritti umani e la libertà di espressione per tutti, criticando — e fu
l’unica testata a farlo — sia il governo che gli estremisti islamici; ragione per cui
la rivista venne più volte sequestrata e sospesa, fino alla chiusura definitiva nel
1996, dopo la pubblicazione su Le Monde Diplomatique di un articolo in cui Salima
Ghezali descriveva la situazione dei diritti umani in Algeria.
La Nation ha ripreso la pubblicazione via Internet nel 2011. In una lettera del
direttore, Salima Ghezali spiegava le sue motivazioni: «Non possiamo rimanere
indifferenti di fronte alle dinamiche dei giovani del mondo arabo che lottano per
la loro dignità e per la loro libertà. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte
a ciò che sta accadendo nel nostro paese. Vogliamo che il popolo algerino sia
felice, perché lo merita. Vogliamo istituzioni solide e risorse umane migliori, in una
vera democrazia e nello Stato di diritto» e concludeva esprimendo il desiderio di
«un’Algeria migliore, dove il buon governo sia la norma».
Salima Ghezali ha ricevuto diversi premi per la difesa dei diritti dell’uomo e
continua il suo attivismo a favore dei diritti delle donne, dei diritti umani e della
democrazia in Algeria.
Nel 2013 ha partecipato attivamente a una serie di eventi organizzati dalla rete del
Premio Sacharov, tra cui una conferenza su Sacharov a Marsiglia e la conferenza
commemorativa del venticinquesimo anniversario del Premio Sacharov.
1996
WEI
JINGSHENG
Nonostante l’esilio, il «padre del movimento democratico cinese»
JINGSHENG
WEI
rimane un leader attivo dell’opposizione alla dittatura
comunista cinese.
È l’autore di The Courage to Stand Alone: letters from Prison and Other Writings (Il
coraggio di lottare da soli. Lettere dal carcere e altri scritti), articoli che furono
scritti inizialmente sulla carta igienica durante gli anni del carcere e che sono
attualmente pubblicati in più di dieci lingue.
Fu condannato due volte al carcere per una pena complessiva di 29 anni, di cui ne
ha scontati oltre 18, per le sue attività e i suoi scritti a sostegno della democrazia,
fra cui il saggio innovativo del 1978 intitolato The Fifth Modernization: Democracy
(La quinta modernizzazione: la democrazia). Tutto ebbe inizio con un manifesto
murale firmato apparso sul muro della democrazia a Pechino, nel quale lavoratori,
artisti e intellettuali esercitavano la loro libertà di espressione. L’evento suscitò
scalpore, non soltanto perché rappresentava un attacco aperto alla «dittatura
popolare democratica» dei comunisti, ma anche perché Wei Jingsheng aveva
osato firmare con il proprio nome e i propri recapiti.
In Exploration, una rivista clandestina da lui diretta e fondata, Wei scrisse
«Democracy or a New Dictatorship?» (Democrazia o una nuova dittatura?) in cui
identificò il leader comunista Deng Xiaoping come il nuovo dittatore. Arrestato
tre giorni più tardi, nel 1979 Wei fu condannato per attività «controrivoluzionaria»
a 15 anni di carcere. Wei conobbe il braccio della morte, l’isolamento e i lavori
forzati sotto stretta sorveglianza fino al 1993, quando fu rilasciato a seguito
della decisione della Cina di partecipare ai giochi olimpici del 2000. Dopo
sei mesi venne nuovamente arrestato, processato e condannato per attività
«controrivoluzionaria» a una pena detentiva di altri 14 anni.
Quando fu insignito del Premio Sacharov nel 1996 si trovava ancora in carcere. Nel
1997, dopo fortissime pressioni internazionali, Wei venne prelevato dalla sua cella
e imbarcato su un aereo per gli Stati Uniti. Egli ritiene di non essere stato liberato,
ma mandato in esilio come ulteriore punizione.
Attualmente residente a Washington, Wei è a capo della Wei Jinsheng Foundation,
della Overseas Chinese Democracy Coalition e della Asia Democracy Alliance.
Nel 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov, che ha
invitato le autorità cinesi a liberare tutti i difensori dei diritti umani attualmente
in carcere.
In un articolo scritto nel 2014 per commemorare il venticinquesimo anniversario
della protesta di piazza Tienanmen, egli ha dichiarato di credere che la democrazia
infine prevarrà in Cina, affermando che senza dubbio il popolo cinese, traendo la
propria forza dagli atti eroici del 1989, troverà un percorso che lo condurrà alla
democrazia.
1995
LEYLA
ZANA
LEYLA ZANA
è stata, nel 1991, la prima donna curda a ottenere un seggio
al parlamento turco. Ha scontato una pena detentiva di dieci anni per il suo
attivismo politico che, secondo i tribunali turchi, nuoceva all’unità del paese.
All’età di 15 anni sposò Mehdi Zana, ex sindaco di Diyarbakir, che negli anni
ottanta durante il governo militare era stato in carcere per presunto separatismo.
Iniziata la scuola a 23 anni, Leyla Zana ottenne il diploma di istruzione primaria
e secondaria in tre anni per poi assumere infine un non richiesto ruolo di leader,
poiché il suo percorso personale era percepito come sinonimo della realizzazione
dei diritti fondamentali per la popolazione curda. Eletta al parlamento con una
maggioranza schiacciante di voti, durante la cerimonia di giuramento provocò
uno scandalo dichiarando in lingua curda il suo impegno per «la fratellanza tra
il popolo curdo e quello turco». All’epoca dei fatti, esprimersi pubblicamente in
curdo era un reato.
Nel 1994 le fu revocata l’immunità parlamentare e venne condannata a 15 anni di
detenzione «per tradimento e per aver fatto parte del partito curdo dei lavoratori
(PKK)», un’accusa che la donna smentì.
Nel 1995 il Parlamento europeo le conferì il Premio Sacharov per la sua coraggiosa
difesa dei diritti umani e per il suo impegno nel cercare una risoluzione pacifica e
democratica ai conflitti tra il governo turco e la popolazione curda.
Nel 2004, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo stabilì che non era
stata sottoposta a un processo equo e indipendente, Leyla Zana fu finalmente in
grado di tenere un discorso al Parlamento europeo in occasione della cerimonia di
consegna del premio assegnatole.
Nel 2012 è stata condannata ad altri dieci anni di reclusione per presunta
propaganda terroristica. Rieletta come deputato al parlamento nel 2011, ha
ricevuto l’immunità parlamentare fino al 2015.
Nel giugno 2012 Leyla Zana ha incontrato il primo ministro Erdogan dopo aver
affermato pubblicamente che auspicava una risoluzione della questione curda.
La sua iniziativa è servita come base per il processo negoziale fra il PKK e il
governo turco, grazie al quale nel marzo 2013 Abdullah Öcalan, leader del PKK,
ha lanciato un appello storico affinché il partito abbandoni la resistenza armata
per abbracciare una lotta politica democratica. Leyla Zana è tuttora attiva nel
processo di pace in corso.
Nel 2013, nella sua dichiarazione finale come partecipante alla conferenza della
rete del Premio Sacharov, ha sollecitato la rete ad accogliere favorevolmente i
colloqui di pace in atto fra il governo turco e il leader curdo detenuto Abdullah
Öcalan per giungere a una soluzione duratura al conflitto curdo che si protrae
ormai da decenni.
1994
TASLIMA
NASREEN
TASLIMA NASREEN
Nata nel 1962 in Bangladesh,
iniziò a scrivere
all’età di 13 anni ed è famosa per l’intensità dei suoi scritti sull’oppressione delle
donne e per le sue critiche indefesse nei confronti della religione, nonostante
l’esilio forzato e le numerose fatwa di morte pronunciate nei suoi confronti.
Premiata scrittrice, le sue opere sono tradotte in trenta lingue.
Taslima Nasreen è anche un fisico, un’umanista laica e un’attivista dei diritti
umani che si riconosce fortemente nella sua identità bangladese. A causa del suo
pensiero e delle sue idee, tuttavia, alcuni dei suoi libri sono stati messi al bando
in Bangladesh e a lei stessa è vietato l’accesso al Bengala, sia al Bangladesh che al
Bengala occidentale.
Quando nel 1994 le fu conferito il Premio Sacharov, aveva già trovato rifugio
in Europa e aveva vissuto in esilio in Francia e in Svezia. Nel suo discorso di
ringraziamento alla consegna del Premio, Taslima Nasreen ricordò che veniva
da una parte del mondo in cui le tensioni sociali e le difficoltà umane sono
insopportabili. Come scrittrice non poteva chiudere gli occhi dinanzi alle
sofferenze quotidiane e alle morti per fame che vi imperversano.
Alcuni anni più tardi, nel settembre 1998, Taslima Nasreen tornò in Bangladesh
per vedere la madre in fin di vita. Non appena la notizia si diffuse, i fondamentalisti
religiosi tornarono a chiedere la morte della scrittrice. Il tribunale emise un ordine
di cattura nei suoi confronti e minacciò di sequestrarle i beni. Il Parlamento
europeo accolse il grido di aiuto di Taslima Nasreen e invitò il governo del
Bangladesh a tutelare la vita e la sicurezza della donna. A causa delle continue
minacce, nel gennaio 1999 Taslima Nasreen abbandonò nuovamente il suo paese.
Attualmente vive a Nuova Delhi, essendo stata espulsa dal Bengala, che considera
la sua patria d’adozione, da una fatwa lanciata nel 2011 da esponenti religiosi di
Calcutta. Nel 2014 la Commissione nazionale per i diritti umani del Bangladesh ha
sostenuto il suo diritto di ritornare in patria. In una visita al Parlamento europeo
nel giugno 2013 Taslima Nasreen, che si batte contro l’estremismo religioso in tutte
le religioni, ha esortato a sostenere i movimenti laici in Bangladesh per contrastare
lo sviluppo del fondamentalismo islamico.
Nel novembre 2013 ha partecipato alla conferenza della rete del Premio Sacharov.
1993
OSLOBODJENJE
OSLOBODJENJE
è un quotidiano bosniaco. Il suo nome significa
«liberazione» e ha rappresentato un’ancora di salvezza per la popolazione di
Sarajevo presa d’assedio durante il conflitto nella ex Jugoslavia fra il 1992 e il 1996,
riuscendo nell’impresa di essere pubblicato tutti i giorni tranne uno.
Oslobodjenje ha impiegato dipendenti bosniaci, serbi di Bosnia e croati di Bosnia.
Nessuno di loro, pur avendone la possibilità, ha lasciato il giornale allo scoppio
del conflitto. Continuando a lavorare al giornale e lottando per mantenere l’unità
e la diversità etnica della loro città e del loro paese, essi hanno smascherato le
bugie della propaganda per una Grande Serbia, secondo cui era impossibile una
convivenza pacifica fra serbi, croati e musulmani.
Alla fine della guerra, dei 75 coraggiosi giornalisti che rischiavano quotidianamente
la vita, cinque erano stati uccisi e 25 feriti. Tutti hanno vissuto drammi personali,
tra cui la morte di persone care, e sono stati traumatizzati dai massacri di cui erano
quotidianamente spettatori.
Gli uffici di Oslobodjenje, situati in una delle zone di guerra più pericolose di
Sarajevo, furono ridotti a un cumulo di macerie. I dipendenti si trasferirono in
un rifugio antiatomico, ricavando generatori elettrici improvvisati dai motori
di vecchie automobili Lada e attraversando ogni giorno la «Sniper’s Alley» («via
dei cecchini») per andare al lavoro, passando così vicino ai tiratori da sentirli
chiacchierare e canticchiare.
«I nostri sforzi erano diretti contro la morte e contro la divisione, se non la totale
cancellazione, della Bosnia-Erzegovina dalla carta geografica» ha dichiarato Zlatko
Disdarevič, all’epoca uno dei redattori del giornale.
I giornalisti di Oslobodenje hanno fatto del loro lavoro quotidiano un simbolo di
resistenza. Essi consegnavano di persona le copie quando gli autisti incaricati della
consegna lo reputavano troppo pericoloso e, quando la rete delle 700 edicole che
vendevano Oslobodenje in tutta la Bosnia fu rasa al suolo da incendi, le pagine
contenenti le notizie venivano ritagliate e inviate via fax, per poi essere ricomposte
in modo tale che fosse possibile leggerle anche in altre città distrutte, come Mostar.
Nel 1993 i redattori di Oslobodenje furono nominati «Redattori internazionali
dell’anno» dalla World Press Review per il loro «coraggio, la loro tenacia e la loro
dedizione ai principi del giornalismo», oltre ad aggiudicarsi numerosi altri premi
giornalistici.
Nel 2006 il giornale è stato acquistato da due delle principali imprese della città
e l’attuale sito del giornale dichiara che, nonostante l’organizzazione sia molto
cambiata, permane lo «strenuo impegno per le cause della libertà e della giustizia».
Vildana Selimbegovic ha rappresentato, in qualità di redattrice, il quotidiano
Oslobodenje alla conferenza della rete del Premio Sacharov nel 2013. Era uno dei
membri della redazione all’epoca della guerra e, nonostante sia rimasta segnata
dall’esperienza vissuta, continua a svolgere il suo lavoro con dedizione.
© 2005 John Isaacson
1992
LE MADRI
DI PLAZA
DE MAYO
MADRI DI PLAZA DE MAYO
Per molti anni le
sono rimaste
unite nella lotta e nel dolore per non aver mai ritrovato i propri figli dispersi.
Questo movimento, nato dalla ricerca delle madri dei propri figli scomparsi
durante la cosiddetta «guerra sporca» in Argentina (1976-1983), ha contribuito
alla deposizione del regime militare nel paese, nonché a far scattare i processi e la
successiva detenzione di alcuni responsabili di crimini contro l’umanità.
Essere una delle Madri di Plaza de Mayo significava affrontare la paura e sopportare
le minacce, la violenza e gli arresti casuali in un paese in cui si riteneva che le donne
dovessero subire le ingiustizie in silenzio. Queste donne utilizzarono i loro corpi
come manifesti mobili delle fotografie e dei nomi dei propri figli scomparsi e delle
suppliche per riaverli indietro. In un momento in cui era vietato perfino riunirsi in
gruppo per la strada, le Madri diedero inizio alla loro prima protesta camminando
lentamente in cerchio in senso antiorario nella Plaza de Mayo. Durante la prima
protesta erano in quattordici, ma in seguito svariate centinaia di madri si unirono
a loro, continuando la loro resistenza passiva anche quando alcune di loro
«scomparvero».
Nel 2014 le Madri hanno celebrato il trentesimo anniversario del movimento e le
1900 marce da quando hanno iniziato, il 30 aprile 1977, a denunciare pubblicamente
la scomparsa dei loro figli manifestando ogni giovedì. Nel 1986 il movimento si è
diviso tra la linea fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo e l’Associazione delle
Madri di Plaza de Mayo, sebbene entrambi i gruppi abbiano madri fondatrici tra
i loro membri.
Nel luglio 2014 la linea fondatrice si è espressa contro la proposta di legge avanzata
dai parlamentari del partito della presidente Kirchner di adottare il fazzoletto
bianco annodato sulla testa, emblema delle Madri, come simbolo nazionale
argentino unitamente alla bandiera e all’inno nazionale, dichiarando che il loro è
un movimento di resistenza attiva e che il fazzoletto che le contraddistingue è un
segno dell’amore che le unisce ai loro figli. L’associazione delle madri, guidata da
Hebe Bonafini, ha approvato la proposta.
L’associazione si adopera affinché l’università popolare istituita dal gruppo sia
nazionalizzata e diventi l’istituto universitario per i diritti umani Madres de Plaza
de Mayo, proposta già approvata dal senato e da due commissioni della camera
dei deputati, nonostante l'opposizione politica. Il gruppo si occupa anche di
progetti urbani.
Allo scoppio del conflitto a Gaza nel 2014, Hebe Bonafini ha espresso solidarietà
al popolo palestinese e, in particolare, alle madri palestinesi, che «sono quelle che
più soffrono» nel cercare di proteggere i propri figli.
1991
ADEM
DEMAÇI
ADEM DEMAÇI
Nato a Pristina, Kosovo, nel 1936,
è uno scrittore che ha
passato la maggior parte della sua vita, tra il 1958 e il 1990, in prigione per aver
lottato per i diritti fondamentali degli albanesi del Kosovo e per aver reso nota la
triste verità sulla repressione attuata dalla Serbia nei confronti di due milioni di
albanesi in Kosovo.
«Ai nostri giorni possiamo confermare che la libertà di parola è il primo
irrinunciabile passo verso la democrazia. Senza la libertà di parola non esiste
dialogo, senza dialogo non si può conoscere la verità e senza verità è impossibile
il progresso».
Dopo la sua liberazione, Adem Demaçi assunse la direzione del Consiglio per la
difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà. Nel 1996 intraprese la carriera politica
come membro e presidente del partito parlamentare del Kosovo facendosi
promotore delle proteste aperte nei confronti del regime serbo e sostenendo
che la non-violenza non significa essere passivi. Diede così inizio a una campagna
di protesta visibile, sebbene non violenta, nei confronti delle autorità serbe, che
consisteva nel chiedere ai kosovari di spegnere le luci per cinque minuti e di
rimanere immobili per strada per un minuto, esattamente nello stesso momento.
Dal 1998 al 1999, durante la guerra del Kosovo, fu rappresentante politico
dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e rimase in Kosovo dopo che altri
leader avevano lasciato il paese.
Dopo il conflitto si dedicò prevalentemente alla riconciliazione etnica e al ritorno
dei profughi, assumendo la presidenza del Comitato per la comprensione
reciproca, la tolleranza e la coesistenza, che riunisce rappresentanti di tutte le
etnie del Kosovo, «perché il Kosovo appartiene a tutti» e «perché vogliamo una
società libera, democratica e multietnica».
Demaçi è ancora un’autorità politica eminente in Kosovo e nel giugno 2014 ha
salutato il primo incontro storico fra i governi del Kosovo e dell’Albania come un
passo verso il rafforzamento dei due paesi e degli albanesi in generale.
«Il Kosovo e l’Albania avrebbero dovuto fare quel passo molto tempo fa, ma è
meglio tardi che mai» ha dichiarato a un quotidiano kosovaro, elogiando nel
contempo l’istituzione di un fondo destinato a sostenere gli albanesi ancora
residenti in Serbia.
Adem Demaçi non ha potuto partecipare, nel 2013, alla conferenza della rete del
Premio Sacharov in cui si celebrava anche il venticinquesimo anniversario del
Premio, per motivi legati all’età avanzata e alle sue condizioni di salute.
1990
AUNG SAN
SUU KYI
AUNG SAN SUU KYI
Il ruolo preminente svolto da
nella lotta per la
democrazia in Myanmar/Birmania è stato riconosciuto attraverso il conferimento
del Premio Sacharov nel 1990. Ventitré anni dopo, il 22 ottobre 2013, Aung San Suu
Kyi ha potuto finalmente ritirare di persona il suo Premio Sacharov per la libertà di
pensiero.
In una cerimonia solenne al Parlamento europeo, dinanzi ai rappresentanti eletti
di 28 Stati membri, Aung San Suu Kyi ha pronunciato un discorso appassionato a
favore dei valori democratici, sottolineando che la transizione birmana verso tali
valori è tuttora lungi dall’essersi compiuta. L’attuale costituzione, ha affermato,
assicura un ruolo privilegiato all’esercito, il che deve cambiare per poter garantire
il diritto dei cittadini birmani di «vivere secondo la propria coscienza» e «prendere
in mano il proprio destino».
Aung San Suu Kyi ha chiesto alla comunità internazionale di continuare a sostenere
lo sviluppo della democrazia e i diritti umani in Myanmar/Birmania e ha ringraziato
il Parlamento europeo per il sostegno prestato da lungo tempo alla sua causa.
Figlia di Aung San, eroe nazionale dell’indipendenza birmana assassinato quando
lei aveva due anni, e di Khin Kyi, eminente diplomatica birmana, Suu Kyi assistette
a una brutale repressione degli oppositori del regime militare di U Ne Win quando
ritornò in Myanmar/Birmania per accudire la madre morente nel 1988. I massacri
la spinsero a iniziare la sua lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani.
Nonostante nel 1990 la Lega nazionale per la democrazia da lei fondata avesse
ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni, la giunta militare non solo rifiutò di
cedere il potere, ma attuò anche una dura repressione nei confronti dei sostenitori
della Lega, con arresti e sanguinose rappresaglie. Aung San Suu Kyi trascorse
la maggior parte dei vent’anni successivi agli arresti domiciliari o in prigione e
durante questo periodo le autorità rifiutarono di concedere al marito un visto
per farle visita in Myanmar/Birmania, nonostante gli fosse stato diagnosticato
un cancro. La esortavano invece a lasciare il paese ma, ben sapendo che non le
sarebbe stato consentito ritornare, Suu Kyi decise di non partire e di non vedere il
marito fino alla morte dello stesso, avvenuta nel 1999.
Suu Kyi era ancora agli arresti domiciliari quando nel 2010 si sono svolte le prime
elezioni in vent’anni in Myanmar/Birmania, ma fu rilasciata sei giorni dopo. Con
l’avvio delle riforme democratiche nel paese, Suu Kyi si è candidata alle elezioni
parlamentari suppletive dell’aprile 2012, nelle quali il suo partito ha vinto 43 seggi
su 45, ed è quindi divenuta il leader dell’opposizione parlamentare.
© Platon/Trunk Archive
Aung San Suu Kyi è ora impegnata in una battaglia per una riforma della
costituzione che le consenta di candidarsi alla presidenza del paese.
© CTK Photo/Igor Zehl
1989
ALEXANDER
DUBČEK
ALEXANDER DUBČEK
(1921-1992) è stato la figura principale del
movimento riformista noto come «Primavera di Praga», che si è sviluppato nel
1968 in Cecoslovacchia.
Cresciuto in una famiglia impegnata nel sostenere la creazione del socialismo
in Unione Sovietica, nel 1939 Dubček aderì segretamente al partito comunista e
partecipò al movimento di resistenza clandestino contro lo Stato filogermanico
della Slovacchia.
Quando nel 1968, da comunista militante, divenne il primo segretario del partito
comunista cecoslovacco, Dubček cercò di liberalizzare il regime comunista.
Egli avviò una serie di riforme volte a garantire una maggiore libertà di espressione
della stampa e la riabilitazione delle vittime dell’era delle epurazioni politiche
di Stalin e varò anche riforme economiche nonché un ampio processo di
democratizzazione della vita politica cecoslovacca. Le sue riforme destarono però
la preoccupazione di Mosca e i suoi sforzi per un «socialismo dal volto umano»
furono annientati, il 21 agosto 1968, dai carri armati del Patto di Varsavia che
assunsero il controllo di Praga. Dubček venne rapito dal KGB, portato al Cremlino e
detenuto per un breve periodo.
Nel 1970 fu accusato di tradimento, rimosso da tutti gli incarichi ed espulso dal
partito comunista cecoslovacco. Per quindici anni sopravvisse lavorando come
semplice operaio, per poi tornare alla vita politica come attivista per i diritti civili
nel 1988.
Quando, il 22 novembre 1989, fu insignito del Premio Sacharov, Alexander Dubček
era ancora un cittadino privato dei diritti umani (1), ma soltanto pochi giorni dopo,
il 28 novembre, il partito comunista cecoslovacco abbandonò il potere, rovesciato
dalla Rivoluzione di velluto.
«Sono assolutamente convinto che il “respiro di libertà” di cui godettero cechi
e slovacchi quando Dubček fu il loro leader non era che un’anticipazione delle
rivoluzioni pacifiche che stanno ora avendo luogo nell’Europa orientale e nella
stessa Cecoslovacchia», scrisse Sacharov in un messaggio al Parlamento il 10
dicembre 1989, solo quattro giorni prima della sua morte.
Dopo la rivoluzione del 1989 in Cecoslovacchia, Dubček fu eletto presidente
dell’Assemblea federale dal 1989 al 1992. Nel discorso pronunciato al Parlamento
europeo nel gennaio 1990 in occasione della consegna del Premio Sacharov,
Dubček ha osservato che «anche nei momenti più difficili della loro storia, le
nazioni che costituiscono il mio paese non hanno mai cessato di sentire che erano
parte della grande lotta dell’umanità per la libertà» e che, dalla Primavera di Praga
alla Rivoluzione di velluto, «sono sopravvissuti gli stessi ideali di libertà, sovranità
e giustizia sociale».
Alexander Dubček morì in un incidente stradale nel novembre 1992.
(1) Venticinquesimo anniversario del
Premio Sacharov: il Parlamento
europeo per la libertà di pensiero,
Centro archivistico e documentario
del Parlamento europeo, Quaderni
del Cardoc, n. 11 – novembre 2013,
pag. 55.
1988
NELSON
ROLIHLAHLA
MANDELA
«Ciò che conta nella vita non è il semplice fatto di aver vissuto. È la differenza
che abbiamo fatto nella vita degli altri»,
a dichiarare una volta.
NELSON MANDELA ebbe
Nelson Mandela è morto il 5 dicembre 2013 nella sua casa a Johannesburg, all’età
di 95 anni. La sua scomparsa ha suscitato grande cordoglio in tutto il mondo, ma
anche la celebrazione di una vita dedicata alla libertà e alla democrazia.
Egli fu, nel 1988, il primo vincitore del Premio Sacharov del Parlamento europeo,
assieme al dissidente sovietico Anatolij Marchenko. All’epoca si trovava ancora agli
arresti domiciliari a causa del regime dell’apartheid in Sud Africa, un regime che
l’ha tenuto prigioniero per 27 anni a causa della sua lotta contro il razzismo.
Mandela era un membro attivo dell’African National Congress e cofondatore del
primo studio legale di colore sudafricano; la sua militanza si intensificava a mano
a mano che l’apartheid diveniva più opprimente. Fu condannato all’ergastolo nel
1964 e infine liberato nel 1990, quando il regime dell’apartheid cominciò a crollare
sotto le pressioni internazionali e interne.
Poco dopo la sua liberazione, Mandela tenne un discorso al Parlamento europeo
in cui parlò della necessità di una soluzione equa e duratura che trasformasse il
Sud Africa in un paese «unito, democratico e non caratterizzato da questioni
razziali». Qualsiasi risultato inferiore sarebbe stato «un insulto alla memoria degli
innumerevoli patrioti sudafricani e del resto della regione che hanno sacrificato la
loro vita per portarci fino al punto in cui, oggi, possiamo affermare fiduciosi che la
fine dell’apartheid è vicina».
Durante gli anni novanta Mandela, come presidente dal 1994 al 1999, ha guidato
la transizione del Sud Africa dal regime di apartheid a una democrazia inclusiva
dal punto di vista razziale, propugnando «la verità e la riconciliazione» come
strumenti di un percorso di pace.
La sua morte nel 2013 ha provocato una commossa partecipazione nel mondo
intero, compresa la rete del Premio Sacharov.
«Oggi il Sud Africa ha perso il proprio padre e il mondo ha perso un eroe. Rendo
omaggio a uno dei più grandi uomini del nostro tempo. Oggi Nelson Mandela ci
ha lasciato, ma la sua eredità rimarrà per sempre», ha dichiarato Martin Schulz,
presidente del Parlamento europeo e copresidente della rete del Premio Sacharov.
«Ha fatto capire a tutti noi che nessuno dovrebbe essere penalizzato per il colore
della pelle o per le circostanze in cui è nato. Ci ha fatto capire anche che possiamo
cambiare il mondo modificando il nostro atteggiamento», ha detto Aung San Suu
Kyi.
«Nelson Mandela ha vissuto una vita singolare all’insegna del sacrificio, della
dignità e della genialità in campo politico, che ha posto fine in modo pacifico a
uno dei più grandi flagelli dell’era moderna», ha dichiarato Kofi Annan.
© Instytut Sacharowa w Moskwie
1988
ANATOLIJ
MARCHENKO
ANATOLIJ MARCHENKO
(1938-1986) è stato uno dei più noti
dissidenti dell’ex Unione Sovietica. È morto nel 1986 in carcere a Čistopol’, dopo tre
mesi di uno sciopero della fame volto a ottenere la liberazione di tutti i prigionieri
di coscienza sovietici.
«La vita eroica e il lavoro di Marchenko rappresentano un enorme contributo alle
cause della democrazia, dell’umanesimo e della giustizia» è quanto ha scritto
al Parlamento europeo Andrej Sacharov in persona, raccomandandolo come
candidato al Premio.
Anatolij Marchenko è morto a soli 48 anni, ma aveva trascorso più di vent’anni
in prigione e come esiliato interno. La protesta internazionale suscitata dalla sua
morte è stata uno dei fattori decisivi che hanno convinto Michail Gorbačëv, l’allora
segretario generale del partito comunista, ad autorizzare il rilascio su larga scala
dei prigionieri politici nel 1987.
Marchenko è diventato famoso per La mia testimonianza, un’opera autobiografica
sul periodo trascorso nei campi di lavoro e nelle prigioni dell’Unione Sovietica, che
egli scrisse nel 1966. Tale opera descriveva per la prima volta i campi di lavoro e le
prigioni del periodo successivo a Stalin, rivelando così al mondo il fatto che i gulag
non erano scomparsi con la fine dell’era staliniana.
La sua pubblicazione significò per Marchenko il ritorno in carcere per propaganda
antisovietica, ma prima di essere nuovamente incarcerato nel 1968 egli cominciò
a dissentire apertamente con il regime, denunciando pubblicamente le condizioni
di prigionia riservate ai prigionieri politici. In una lettera aperta ai mezzi
d’informazione scritta nel luglio 1968, egli pronosticò che l’Unione Sovietica
non avrebbe permesso che la Primavera di Praga continuasse, cosa che si avverò
nell’agosto successivo, quando la Cecoslovacchia fu invasa da carri armati del
Patto di Varsavia e Marchenko fu nuovamente condannato alla detenzione e poi
all’esilio.
Cionondimeno, quanto più la repressione si inaspriva, più si rafforzava la sua
volontà di agire. Egli divenne uno dei fondatori dell’influente gruppo di Helsinki
di Mosca, assieme ad Andrej Sacharov e all’attuale leader Ljudmila Alexeeva.
Tale gruppo fu fondato nel 1976 per monitorare il rispetto delle clausole relative
ai diritti umani contenute nell’atto finale di Helsinki del 1975, il primo atto della
conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, volto a migliorare le
relazioni fra il blocco comunista e l’Occidente.
Marchenko fu arrestato e incarcerato per l’ultima volta nel 1980 per aver pubblicato
la sua ultima opera, Vivere come tutti. Non sopravvisse alla sua ultima condanna di
15 anni.
La vedova Marchenko, Larissa Bogoraz, anche lei attivista e candidata al Premio
Sacharov, ritirò il premio destinato al marito nel 1988.
UNIONE EUROPEA:
IL RUOLO DEL
PARLAMENTO EUROPEO
IN MATERIA DI DIRITTI UMANI
Secondo i sondaggi di opinione, i cittadini dell’Unione europea identificano
nei diritti dell’uomo il valore che il Parlamento europeo deve difendere in via
prioritaria. Il Parlamento europeo mette spesso in atto iniziative specifiche
volte ad esempio a prevenire la tortura, proteggere i difensori dei diritti umani,
prevenire i conflitti, promuovere i diritti delle donne e dei minori e proteggere
le minoranze, i diritti degli indigeni e delle persone con disabilità. Il Parlamento
europeo sostiene attivamente la campagna delle Nazioni Unite per una moratoria
sulle esecuzioni e l’abolizione della pena di morte nel mondo e sostiene altresì la
Corte penale internazionale nella sua lotta affinché il genocidio, i crimini di guerra
e i crimini contro l’umanità non rimangano impuniti. Lo scopo dell’Agenzia per
i diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea è di assicurare che i diritti
fondamentali degli individui siano tutelati e che le persone siano trattate con
dignità.
Il rispetto per la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato
di diritto e il rispetto dei diritti umani sono principi sanciti dal trattato sull’Unione
europea e sono giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri per i quali sia accertata
una grave violazione di questi valori possono, previa approvazione del Parlamento
europeo, incorrere nella sospensione dei diritti derivanti dai trattati dell’Unione
europea.
I diritti dell’uomo sono elencati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, entrata in vigore nel 2009 insieme al trattato di Lisbona. Il trattato
costituisce inoltre la base giuridica dell’Unione europea nel suo insieme, affinché
possa aderire alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali. Tutti i 28 Stati membri dell’Unione europea hanno
ratificato la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. L’adesione dell’Unione europea alla convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, attualmente
in corso, colmerà una lacuna nella protezione dei diritti umani e migliorerà la
coerenza tra i sistemi del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea nel campo dei
diritti umani.
Nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune e della politica di
cooperazione allo sviluppo, il diritto dell’Unione europea si prefigge come obiettivo
«lo sviluppo e il consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché
il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Questi obiettivi sono
stati integrati esplicitamente in larga misura grazie al Parlamento europeo. Nelle
sue relazioni con i paesi terzi, l’Unione ha l’obbligo di promuovere la democrazia,
lo Stato di diritto, l’universalità e l’indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, il rispetto della dignità umana, i principi di uguaglianza e solidarietà
e il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.
La sottocommissione per i diritti umani, nell’ambito della commissione per
gli affari esteri, è l’organo responsabile dell’attività parlamentare in materia di
diritti dell’uomo. Le sue relazioni e le sue risoluzioni vengono approvate dalla
commissione per gli affari esteri. Anche la commissione per lo sviluppo tiene
discussioni regolari sui diritti dell’uomo nei paesi in via di sviluppo.
In Aula, il Parlamento discute ogni mese i casi urgenti di violazioni dei diritti umani
perpetrate negli Stati che non fanno parte dell’UE, in particolare i casi individuali.
Le risoluzioni del Parlamento europeo servono spesso come base per le iniziative
intraprese dal Consiglio dei ministri dell’Unione, dalla Commissione europea e
dal servizio europeo per l’azione esterna e talvolta hanno un impatto immediato
sull’operato dei governi interessati.
In virtù delle sue competenze legislative, il Parlamento può bloccare la conclusione
di accordi con paesi terzi qualora sussistano gravi violazioni dei diritti umani e dei
principi democratici. Il Parlamento esige la rigorosa osservanza delle clausole sui
diritti umani, che sono sistematicamente inserite negli accordi. Nell’aprile 2011 il
Parlamento ha chiesto all’Unione europea di sospendere i negoziati per un accordo
di associazione tra l’Unione europea e la Siria. Nel settembre 2011, l’accordo di
cooperazione dell’Unione europea con la Siria è stato parzialmente sospeso
«fino a quando le autorità siriane non porranno fine alle violazioni sistematiche
dei diritti umani». Il conflitto siriano si è protratto nel 2014 e l’Unione europea ha
rafforzato le misure restrittive.
Ogni anno l’Unione europea elabora una relazione sui diritti umani e la democrazia
nel mondo, che è sottoposta all’esame del Parlamento. Il ruolo del Parlamento
nella difesa dei diritti umani è stato inoltre rafforzato attraverso il sostegno della
democrazia parlamentare e del dialogo politico parlamentare, audizioni con i
rappresentanti della società civile dei paesi terzi e l’invio di delegazioni ad hoc per
valutare la situazione dei diritti umani sul campo. I principali forum per il dialogo
politico tra il Parlamento europeo e i membri di paesi terzi sono: l’Assemblea
parlamentare paritetica ACP-UE, l’Assemblea parlamentare dell’Unione per il
Mediterraneo, l’Assemblea parlamentare euro-latino americana (EuroLat) e
l’Assemblea parlamentare con i partner dell’Europa orientale (Euronest).
Il Parlamento europeo si è già avvalso delle sue prerogative di bilancio per far
aumentare notevolmente gli stanziamenti destinati a programmi a sostegno della
democrazia e dei diritti dell’uomo e si è battuto con successo per il mantenimento
dello Strumento europeo per la democrazia e i diritti umani (EIDHR).
L’EIDHR è uno strumento finanziario e politico attraverso il quale l’Unione europea
contribuisce allo sviluppo e al consolidamento della democrazia e dello Stato
di diritto, al rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in tutto
il mondo e al sostegno e alla protezione dei difensori dei diritti umani a livello
mondiale.
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