[1] LAUREA H.C. AD ALBERTO ONGARO. PERORATIO. Sassari, 23 ottobre 2014 Magnifico Rettore, Senato Accademico, Colleghi, Studenti, Illustri Ospiti, qualche giorno fa Salman Rushdie scriveva: «Ho sempre pensato che il lettore completi il libro, che dall’intimità fra estranei creata dall’atto di leggere emerga il libro per come è per il lettore». Perché la scrittura letteraria è comunicazione e, insieme, evocazione di una realtà ulteriore in cui la vicenda umana ha le sue arcane corrispondenze, la sua meno effimera significanza; e dallo stillicidio dei giorni senza nome, dal soffocamento nella meschinità del quotidiano, scaturisce la pulsione ad entrare in tangenza con la realtà irrivelata delle cose attraverso i segni criptici della sua presenza. I romanzi di Ongaro sono fatti della materia stessa dei sogni, è stato scritto incisivamente; e, come tutti gli scrittori vitalisti, come tutti i maestri dell’avventura, sa che il segreto del mondo ha una luce di tenebra e che la scrittura che incanta e che diverte, come Sheherazade, in realtà racconta per non morire: di qui l’architettura complessa e raffinatissima dei suoi romanzi, alonati di un mistero metafisico che promana da una materia apparentemente ‘minore’; di qui il gioco metaromanzesco che connota tutta la sua produzione e che fa di essa un esempio canonico di letteratura riflessa, in grado di intraprendere un colloquio virtuoso con il lettore e di condurlo, percorrendo le vie in apparenza lowbrow dell’avventura (genere che ha genialmente rigenerato e ricreato, padroneggiando come nessun altro in Italia l’arte di creare intrecci appassionanti), verso approdi rivelanti. I suo lontano esordio come narratore era stato quanto mai convenzionale (e non a caso è l’unico libro non più ristampato, dopo l’esplodere del caso-Ongaro, che anni fa lo ha proiettato ai vertici dell’attenzione critica e del gradimento dei lettori. Raccontato in terza persona, con focalizzazione interna fissa sul personaggio epicentrico di Mario, Il complice (1965) studia in flussi lenti di analisi introspettiva, talvolta didascalica, la fase cruciale di una crisi di radicamento, il rifiuto disgustato della vischiosità piccolo-borghese per l'instaurarsi di un fragile contatto con il mondo fascinoso del Lido veneziano attraverso il nascere di un flirt casuale con Gloria, «fenomeno miracoloso nella sua vita così vuota di prodigi». Quello di Mario è un esistere tutto ripiegato in un microcosmo nevrotico, continuamente condizionato nei suoi conati volitivi – e nelle susseguenti contrazioni regressive – dal peso marchiante dell'estrazione sociale («la sua origine era stata riconosciuta e quindi gli si contestava la cittadinanza in quel gruppo»), che si traduce nel profilo macerato di una psicologia ciclotimica, nel vivere prigioniero di una scissione irrisolta. È un'antitesi lancinante tra realtà e sogno, tra ceto di pro- [2] venienza ed assaporato approdo sociale, polarizzata simbolicamente in due corpi di donna: quello gravido di Luisa, la ragazza della sua stessa classe, colta per frastagliature sommarie nell'indifesa fragilità del suo essere rassegnatamente «uguale a se stessa», ed ora piagata dall'angoscia della sua condizione; e quello aristocraico di Gloria, che si rinchiude con indifferenza dopo il contatto, frustrando con «l'imperturbabilità morale» della sua classe le speranze di radicamento di Mario. Ongaro si accorge subito che l’impianto narrativo del suo esordio era epigonico, attardato: «mi sono accorto che il realismo non faceva per me, che preferivo l’immaginazione, la fantasia, una tradizione diversa da quella italiana. […] dopo questo libro per un po’ non ho scritto niente, perché facevo l’inviato e non avevo tempo. Però dentro di me avevo deciso che volevo scrivere cose che non avevano a che fare con la realtà. […] Indubbiamente c’è stata una contaminazione con la cultura argentina che ha influenzato probabilmente il mio modo di scrivere. Da lì ho mutuato quella contaminazione col magico, col sognato che è poi presente in molti miei libri». A partire già dal successivo, aperto con una citazione da Melville, «Io amo tutti gli uomini che si immergono», la quale funge da chiave interpretativa di Un romanzo d'avventura (1970), il momento per molti aspetti più autobiografico della narrativa di Ongaro, per il suo intrepido ascendere alle tonalità effuse dell'elegia e della rivolta. La notizia del suicidio di Paco innesca in Hugo Pratt (personaggio reale e, al tempo stesso, in distorsione dal reale) un bisogno tensivo di ripercorrere il loro lungo simbiotico rapporto d'amicizia e di lavoro, in una sorta di interiore veglia funebre che interseca la riesumazione del passato e la fisicità percettiva del presente, lo svariare associativo del monologo ed il turgore mistilingue del repêchage memoriale, l'indurimento denotativo del flusso periodale ed il suo flettersi in struggenti catene polisindetiche. Si ricompone il mosaico di due vite dall'emersione per linee frammentate di tasselli fasciati d'ombra, in un intreccio di raccordi e chiaroscuri intuitivi che hanno la febbrilità allucinata dell'auscultazione notturna: le agnizioni esistenziali scaturiscono dalla rete dei ricordi e dal variegato campionario di un'umanità cosmopolita con la casuale imprevedibilità della vita, che conosce se stessa soltanto quando è bloccata nel tempo immobile della memoria. Mai pervenuti all'acquiescenza della maturità, Paco ed Hugo hanno coltivato la vita come invenzione, in opposizione all'anonimato di massa, preservando il respiro dell'avventura in un mondo che l'ha cancellato. Le comic strip che per tanti anni hanno inventato assieme rivelano ora l'angoscia di una sconfitta, «l'inutilità della loro rivolta solitaria», che osmoticamente trapassa dal personaggio al creatore superstite con la carica dirompente di una rivelazione ultima. Contro il fagocitamento ammorbante «in quella specie di palude che veniva chiamata realtà», Pratt sceglie un codice he- [3] mingwayano di morte, scandito da un movimento progrediente di identificazioni simboliche con il destino di Paco, «nell'immenso spazio nascosto dietro lo stretto riquadro di ogni vignetta». Sviluppando la compenetrazione tra piani narrazionali e dimensione metanarrativa, Ongaro giunge con perfetta coerenza di sviluppo al romanzo come metaromanzo di La Taverna del Doge Loredan (1980), interrogazione dall'interno sulla entità stessa del genere narrativo, creazione di un universo onnivoro (che risucchia in una struttura centripeta «tutto ciò che accade nella sua area, il lettore che lo legge, i suoi pensieri, i suoi ricordi, la sua storia») ed al tempo stesso autofagico, poiché svela con calcolata progressione l'envers du décor di se stesso, sino allo straniamento ed alla distruzione della finzione romanzesca. Il casuale e canonico ritrovamento in cima ad un armadio polveroso di un libro «molto antico, remoto, appena salito da qualche abissale libreria», ed intervallato da spazi bianchi senza soluzione della continuità narrativa, suscita nell'editore veneziano Schultz un interesse dapprima professionale, che diviene poi fascinazione coinvolgente quando, ad onta della distanza bisecolare, scopre nella passione erotica di Jacob Flint per Nina – «un miracolo di carne» posseduta e fuggente, che dà vita ad una spirale di avventure fra picaresche e libertine, dominate dal ritmo trascinante e vitale dell'affabulazione settecentesca – un fatale incrocio di destini e di funzioni narrative, un succedersi di stregate e geometriche specularità con la propria esistenza, «congelata» dalla scomparsa di una misteriosa presenza femminile senza nome, trascorsa con l'intensità irripetibile del miracolo. Si crea allora un movimento parallelo di due piani cronarrativi, scandito dal tempo di lettura di Schultz (una notte): all'io narrante di Jacob Flint si alterna – marcata dalla diversa marginazione tipografica e dall'uso oggettivante della terza persona – il racconto di un viaggio testuale, non più semplice metafora come in Fielding ma reinventato, con ironia e fantasia, sulla scorta delle suggestioni borgesiane e del dibattito teorico degli anni Settanta sullo strutturalismo e sulla semiologia. L'innesto pausante di Schultz sul piano primario del racconto è dapprima dettato da interruzioni di lettura che sono causate da motivi esterni e contingenti; poi, con percorso mimetico del gioco captante del testo, esse scaturiscono da sospensioni di ordine interiore, man mano che Schultz s'infiltra nei risvolti intuitivi della narrazione, per completarla o prefigurarne ipotetici sviluppi, ma soprattutto quando si proietta meditativamente in essa, per l'imporsi delle misteriose congruenze con le proprie vicende, dando vita ad una ricostruzione per emersioni successive, frantumate del proprio passato, in un gioco di rifrazioni speculari che è complicato dall'inserzione di un double, l'interlocutore interno [4] che ha la funzione di «evitare la monotonia del monologo interiore» e, anche, la censura delle difese rimozionali. È come se gli spazi bianchi che cesurano il libro ritrovato fossero stati concepiti dall'anonimo autore in funzione di una strategia alla Poe, volta a promuovere la suspence ed il potere d'irradiazione del testo, nel senso che Schultz, da lettore, è spinto a immettervi il ‘suo’ racconto, a penetrare conoscitivamente nel passato attraverso l'ottica interpretativa suscitata dal romanzo settecentesco («Che io abbia vissuto da sempre dentro un libro? Che io sia una serie di segni?»), metamorfizzandosi «da persona a personaggio e coautore» di un volume da stampare «così come è andato componendosi lungo la lettura o forse come è stato fin dall'inizio concepito». Fasciata da un'alonatura metafisica che promana da inserti stravolgenti di metaforicità surreale nella tessitura del verosimile, la bipolarità del ritmo di scrittura (ora tutta affabulata, ora frenata nel monologo interiore), del punto di vista a focalizzazione interna fissa, della voce narrante, dei piani di scorrimento del narrato, confluisce e si salda nell'unità progressivamente accorpante e straniante del gioco metaromanzesco, che svela se stesso dall'interno: «il vuoto che si apre dietro l'ultima pagina» del racconto di Flint viene occupato dalla prosecuzione di esso nella mente di Schultz, «lettore-personaggio» ora divenuto intradiegetico ed inglobato nella finzione narrativa («farò, annuncia, un viaggio dentro il libro»), sfociante nel consumarsi di un annientamento che è nell'ordine non soltanto delle parole ma della verità esistenziale. La predizione sinistra di un agguato celato fra le ombre del futuro apre Il segreto di Caspar Jacobi (1983), con cui Ongaro imprime uno scarto profondo alla sua consueta topografia narrativa ambientandolo nella New York del presente, dove si trasferisce da Venezia un giovane scrittore di romanzi d'intreccio, Cipriano Parodi, ingaggiato come ghost writer nella ‘bottega’ narrativa del più prolifico scrittore americano di bestseller. Malgrado il contratto preveda la possibilità di scrivere in proprio, il sodalizio si rivela ben presto un'impaniante metodologia di vampirismo creativo da parte di Caspar, che s'impossessa degli elementi narrativamente vitali elaborati da Cipriano, s'infiltra con penetrazione parapsicologica nei suoi disegni segreti per fagocitarlo – isterilito e neutralizzato nella sua potenzialità di rivale – sotto il proprio totale dominio, secondo un tracciato altre volte percorso in passato, con lucido delirio cesareo. La narrazione assume così la tipica struttura ongariana a due piani intersecantisi tra loro: la rispondenza scacchistica delle mosse e delle contromosse nella partita che si è instaurata fra i duellanti; e il piacere quasi sensuale della combinazione geometrica degli incastri e della costruzione progrediente dell'intreccio per il nuovo libro di Cipriano, nel quale egli condensa le proprie superstiti capacità di resistenza alla morsura che lo asse- [5] dia. In un alternarsi nervoso di registri stilistici e linguistici, che aprono trasalimenti metafisici e faglie conoscitive nell'incalzare veloce della scrittura, si accampa progressivamente in funzione centripeta la linea metanarrativa, con la conversione continua del reale in materiale romanzesco, con la trasposizione chiastica delle figure umane in personaggi dei rispettivi work in progress (prima Cipriano per Caspar, poi Caspar per Cipriano), con la suscitazione insistita dei riflessi speculari ed il ribaltamento ad effetto delle situazioni e dei sentimenti. Indagata con pressante tecnica poliziesca, la verità del contingente sfugge, si ottunde nella prismaticità degli indizi e delle ipotesi, così come l'incrociarsi di tempi diversi provocano l'insorgere in Cipriano di una crisi spaurente d'identità e di prefigurazione («Il suo passato sono io e lui è il mio futuro? Siamo la stessa persona?»); ma neppure la magia della finzione romanzesca può giungere ad accorpare in un disegno organico gli elementi sconnessi di una realtà inafferrabile, a rimuovere nel tratteggio di «geometrie coinvolgenti» la coscienza dello scacco metafisico e gnoseologico. La novità palmare di La partita (1986) è proprio la rinunzia alla prosecuzione del gioco rifrangente della dimensione metanarrativa: il ripercorrimento mimetico del romanzo anglosassone d'avventura si compie, al contrario di quanto accadeva in La Taverna del Doge Loredan, nell'ambito di una struttura lineare sino alla semplificazione, ma sempre racchiusa in un circuito metafisico che proietta in un'orbita autre il delizioso manierismo settecentesco dell'affoltarsi di materiali e moduli topici di quella narrativa (intrighi, fughe a precipizio, duelli, taverne, fiere, mercanti, cameriere compiacenti, libertini incontri di corpi) e il divertissement di una scrittura fluida e vetrina, tutta tradotta in linea affabulante. Il «lucore di specchio» della laguna veneziana coperta di ghiaccio, il gabbiano che con «un urlo di strega» precipita per fame sulla tolda della nave, mentre «sparuti» altri vi si aggirano sopra febbrilmente, «rosi da un oscuro contagio», inducono una sensazione miasmatica di maleficio in Francesco Sacredo che torna da un lungo esilio a Corfù, subito confermata dalla notizia che il padre ha perso quasi tutti i loro averi in una partita perdurante da più mesi con la contessa von Wallenstein, la quale, colta da eccitazione sensuale alla vista del giovane, non esita a proporgli di giocare tutto quello che ha vinto sino ad ora contro la piena libertà di disporre eroticamente di lui. Sacredo perde, ma rifiuta di asservirsi ai patti e dà inizio ad una fuga senza fine, in un risucchio di sequenze picaresche, di colpi di scena, di paesaggi e figure trascorrenti, che sembra guidato dalla fantasia sfrenata del romanzesco ed è retto, invece, dal fronteggiarsi studiato di due logiche – quelle di Sacredo e dei suoi due persecutori, inviati dalla terribile contessa – che dilatano la durata della partita, possedute da una pulsione al gioco che le incardina in un destino specula- [6] re, vietando l'estinzione del duello, la pacificazione dell'esito conclusivo («se fossi sparito senza lasciar tracce [...] mi sarei sentito svuotato ed esposto», impoverito). La previsione e l'elusione delle mosse contrapposte sulla scacchiera, la «freddezza attenta» e consequenziaria delle scelte comportamentali veicolano, per un processo interno di lievitazione e di rifrazione, cariche intense di simbolicità metafisica, inarcata sino al dubbio ontologico sulla consistenza del reale e dei suoi segni: la fuga di Sacredo è una condanna, ma anche un modo di defilarsi dall'insignificanza, di esorcizzare l'orrore annichilente della morte, della prigionia vitale e della paura, trasformandolo alchemicamente in impulso resistenziale ad esistere. Dopo quest’esito – il più conosciuto anche perché oggetto di una fortunata versione cinematografica con Faye Dunaway – la narrativa di Ongaro ha continuato di volta in volta a giocare con il mistero che si cela dietro fatti ed eventi della vita quotidiana: la scommessa, l’azzardo da parte dei personaggi epicentrici, quasi sempre io narranti, sarà quello di ricostruire una storia nascosta dietro una foto (è il caso di L’ombra abitata, del 1988: l’immagine di Rose risuscita la nostalgia di un incontro e di un segreto, di una fuga inspiegabile, di un enigma da reinterrogare attraverso il ricordo di un amore e di un dolore). L’indagine parte sempre da dati scoraggianti nella loro frammentarietà ed insignificanza, che sembrerebbe impossibile collegare razionalmente in un sistema, colmandone i vuoti e gli spazi insondati, sconfiggendo il sipario d’ombra che fascia le immote figure del tempo. In questo gioco «ogni mossa doveva produrre un passo avanti, se non altro perché ogni mossa sbagliata, ogni fallimento finivano per mettere in dubbio la stessa opportunità di giocare»; e più spesso la partita col mistero, la ricostruzione dell’enigma divengono un modo per giungere alla consapevolezza di una colpa commessa, che attende il personaggio in fondo alla coscienza e che con ferrea geometria della casualità scatta contro di lui conducendolo ad una morta espiativa (Interno argentino, 1991: Nico ritorna a Buenos Aires, dove ha amato Sidney; ed i personaggi raccontano ciò che è stato, o sarebbe potuto essere, in un gioco di specchi che compone un quadro reale e immaginario, fra flash-back e flash-forward). Invece in Passaggio segreto (1993) la narrazione percorre sette storie, apparentemente slegate, che attraverso due personaggi minori congiungono i destini di quelli maggiori con un filo invisibile, evocando piuttosto che narrando, per mostrarli intrappolati nelle propri labirintiche congetture, vittime di un’architettura esistenziale che li soffoca: un’umanità marchiata dall’«indelebile imprnta della vita», che si estenua nel vano tentativo di dare una svolta ad una realtà «dove tutto era già accaduto o doveva accadere». Sempre muovendosi con coerenza lungo la linea vettoriale del pervenire alla verità partendo da segni indistinti, Ongaro è tornato a riproiettare la sua lente [7] narrativa sul mondo perverso del gioco d’azzardo in Hollywood boulevard (1997), in cui il gioco metanarrativo è applicato a un copione cinematografico, che giunge per posta su un floppy-disk ad un giovane biografo veneziano trapiantato ad Hollywood, Francesco Varvara, da parte di un geniale regista, Stanley Kozinsky, morto improvvisamente dopo averlo spedito. Francesco si rende conto ben presto che il copione cela una verità segreta e che dietro quelle figure abbozzate continua a muoversi un mondo terribilmente reale, sullo sfondo tentacolare della capitale del cinema: tocca a lui, quasi per lascito testamentario, disegnare per intero il destino di quelle figure, scoprire la loro entità celata, in una sorta di gioco adrenalinico su una scacchiera nascosta. Contemperando lo scatto intuitivo e il rigore logico della ricostruzione, egli comprende che Stanley stava indagando su una catena di inspiegabili delitti, tutti avvenuti in diretta sotto l’occhio implacabile delle telecamere; e sviluppando con acribia d’indagine gli indizi disseminati sul copione (lui stesso ha un ruolo, il ruolo che sta interpretando, nella trama predisposta demoniacamente dal regista), Francesco perviene ad una verità sconvolgente: dietro gli omicidi in diretta, intervallati nel tempo, c’è una organizzazione che ha instaurato un criminale gioco d’azzardo tra gli aderenti ad un club esclusivo e perverso di soci sparsi per tutta l’America, i quali scommettono ingenti somme di denaro sulla modalità d’esecuzione del delitto (di cui sono preavvertiti) e sulla sua riuscita e sulla capacità del killer di sfuggire alla cattura, potendo essi vivere in diretta il brivido dell’evento e l’esito della loro puntata alla roulette del delitto. Nel giovane veneziano l’orgoglio della decrittazione è subito annichilito dalla paura, avendo compreso che l’organizzazione criminosa è sulle sue piste; ed ha ben ragione di temere, dal momento che finirà ucciso in diretta, nell’ambito di quell’atroce gioco d’azzardo che aveva scoperto: una metafora tragica della società americana, volta a focalizzare la deiezione di un intero sistema sociale, culturale ed economico, che è giunto a concepire e realizzare un meccanismo così perverso di investimento sulla morte, sulla spettacolarizzazione mediatica e sulla scarica adrenalinica del rischio malsano. Più teatralmente la partita con il mistero può condurre uno dei personaggi ad un suicidio covato per decenni, che può compiersi solo quando un altro personaggio, l’io narrante, ha vinto la partita impossibile, pervenendo con ricerca rischiosa a trovare nel buio il filo logico che lega i tasselli disperanti del puzzle (è quanto avviene in La strategia del caso, 2003; e in Rumba, dello stesso anno, in cui da indizi criptici si dipana una intricata rete di inganni, come il romanzo precedente in un Brasile tentacolare e vischioso). Ad un’ambientazione veneziana, di malinconica ed elegiaca vibrazione pur nel consueto gioco ad enigma (a mio parere, fra gli esiti più felici dell’ultimo Ongaro) si torna con Il ponte della solita ora [8] (2006), quando un’interferenza telefonica, captata per caso, apre a Francesco, un musicista che scrive colonne sonore per il cinema, uno spaccato labirintico di altre vite, di indizi svianti, di verità impreviste, nel dedalo reale e simbolico delle calli. L’altra linea vettoriale dell’opera ongariana torna ad accamparsi metanarrativamente in Il segreto dei Segonzac (2000): un quadro incompiuto, del secondo Settecento, innesca nell’io narrante il bisogno tensivo di interrogare il segreto delle storie e dei personaggi che sono dentro e dietro quel quadro. Si profila un segreto nascosto, che scatena una sequenza di agguati; ed il protagonista deve riannodare le trame del proprio destino, che il narratore giunge a saldare quando il ritorno al presente chiude il cerchio cognitivo. Similmente in La versione spagnola (2007) lo scrittore Massimo Senese prende in mano la traduzione in quella lingua di un suo romanzo e si accorge che vi è stato interpolato un personaggio che non esisteva nell’originale; e, poi, che vi è stata disseminata tutta una sequenza di interventi arbitrari, che compongono un messaggio in codice da decrittare, nascosto in essi. Una rimodulazione in ambito pittorico del Segreto di Caspar Jacobi appare essere per qualche aspetto La maschera di Anténore (2009), in cui un giovane pittore veneziano in cerca di successo, Stefano Pietra, si reca a Parigi divenendo preda dell’ossessione per un antico amore e di un enigmatico ed indecifrabile critico d’arte, ronan, che lo involve in un vortice oscuro di angoscia e di gelosia vendicativa. E si giunge da ultimo ad Un uomo alto vestito di bianco (2011): la scomparsa di un giornalista proietta l’amico-io narrante a Singapore, al «Raffles Hotel», dove hanno soggiornato Joseph Conrad e Somerset Maugham. La suggestione di queste stanze, impregnate di letterarietà, fa sì che le vite dei suoi ospiti si intreccino come le trame di possibili romanzi; e il percorso per lo scioglimento dell’enigma è guidato dalle sottolineature che lo scomparso Alexander Blackmouth ha disseminato oculatamente sui libri da lui più amati: una metafora, ironica ed allusiva, del gioco metanarrativo che costituisce la cifra connettiva della scrittura romanzesca di Ongaro, come riconferma anche il recentissimo e delizioso Athos. Vita, avventure segrete e morte presunta di un personaggio Athos (2014), che rimodula il personaggio dumasiano saldando in una sequenza di incroci l’alba e il tramonto di una vita, di ogni vita. Magnifico Rettore, colleghi, per tutto quanto ho esposto, e che attesta lo spessore espressivo e la profondità rizomatica della sua scrittura, chiedo che ad Alberto Ongaro sia conferita da questo Ateneo la laurea magistrale in Filologia, Industria culturale e Comunicazione. ALDO MARIA MORACE [9] BIOBIBLIOGRAFIA Nato a Venezia nel 1925, inviato speciale e corrispondente dall'estero per conto dell'«Europeo», Ongaro ha vissuto per molti anni nell'America del Sud, poi a Londra, ed ora a Venezia, dove risiede con la moglie ed il figlio, dopo avere lungamente viaggiato in tutto il mondo. Le sue opere sono state tradotte negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e nell'America latina. OPERE Il complice, Milano, Rizzoli, 1965; Un romanzo d'avventura, Milano, Mondadori, 1970 (2008); La taverna del doge Loredan, Milano, Mondadori, 1980 (1981, 1987, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008); Il segreto di Caspar Jacobi, Milano, Mondadori, 1983 (1984, 2005, 2008); La partita, Milano, Longanesi, 1986 (1988, 1989, 1993, 1995, 1998, 2003, 2012); L’ombra abitata, Milano, Longanesi, 1988; Interno argentino, Milano, Rizzoli, 1991 (2010); Passaggio segreto, Milano, Rizzoli, 1993; La terra degli stregoni, Venezia, Supernova, 1996; Hollywood boulevard, Venezia, Marsilio, 1997; Il segreto dei Segonzac, Casale Monferrato, Piemme, 2000 (2002, 2007); Rumba, Casale Monferrato, Piemme, 2003; La strategia del caso, Torino, Aragno, 2003; Il ponte della solita ora, Casale Monferrato, Piemme, 2006 (2007, 2008); La versione spagnola, Casale Monferrato, Piemme, 2007; La maschera di Antenore, Milano, Piemme, 2009; Un uomo alto vestito di bianco, Milano, Piemme, 2011. Athos. Vita, avventure segrete e morte presunta di un personaggio, Milano, Piemme, 2014. R. Sandri, «L'Adige», 17 marzo 1965; G. D. R., «l'Italia», 5 maggio 1965; P. Dallamano, «Paese Sera», aprile 1965; An., «Nostro Lavoro», maggio 1965; G. Vergani, «Marie Claire», giugno 1965; U. Ottolenghi, «RAI-Terzo Programma», 14 settembre 1965; M. Ricciardelli, «Books Abroad», aprile 1966; R. Mye, «The Guardian», 11 agosto 1967; E. Berridge, «Daily Telegraph», 12 agosto 1967; M. Burrow, «New Stateman», 18 agosto 1967; An., «Glasgow Herald», 19 agosto 1967; An., «The Times Literary Supplement», 24 august 1967; W. Buchon, «The Spectator», 25 agosto 1967; K. Gray, «Irish Time», 26 agosto 1967; An., «The New Yoek Review», 23 gennaio 1968; An., «Fresno California Bee», 28 aprile 1968; An., «Bookbuyer's Guide», aprile 1968; An., «Publisher's Weekly», maggio [ 10 ] 1968; An., «The Sacramento Bee», maggio 1968; G.O. Carey, «Library Journal», agosto 1968; G. 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