Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano del DIRITTO dell’AVVOCATURA della GIURISDIZIONE RIVISTA TRIMESTRALE N. 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2014 Trimestrale di giurisprudenza e informazione a cura del CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA Direttore responsabile: Giorgio Orsoni Coordinamento: Mariagrazia Romeo Comitato di redazione: Fulvio Cortese Francesco Curato Francesco Mercurio Mario Scopinich Roberto Senigaglia Ezio Zanon Comitato scientifico: Luigi Benvenuti Chiara Cacciavillani Giulio Gidoni Alfredo Bianchini Antonio Franchini Eugenio Vassallo Domenico Carponi Schittar Elio Zaffalon Candido Fois Mauro Pizzigati Zeno Forlati Segretaria di redazione: Manuela Lombardo SEDE DELLA REDAZIONE: Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia S. Croce, 494 - 30135 Venezia - Tel. 041.5204545 - Fax 041.5208914 Editore: Wolters Kluwer Italia Srl Centro Direzionale Milanofiori - Strada 1, Pal. F6 - 20090 Assago (MI) Autorizzazione Tribunale di Padova n. 1723 del 7/12/2000 Centrofotocomposizione Dorigo - Padova Stampa: GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI) RIVISTA TRIMESTRALE N. 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2014 Hanno collaborato in questo numero: Fulvio Cortese, Professore aggregato Istituzioni diritto pubblico Università Trento Vittorio Fedato, Avvocato del foro di Venezia Flavio Guella, Assegnista di ricerca Diritto pubblico comparato Università Trento Silvia Nordio, già Avvocato nel foro di Venezia Marica Stigliano Messuti, Avvocato del foro di Venezia INDICE GIURISPRUDENZA Diritto civile L’art. 38 disp. att. c.c. come riformato dalla legge 219/2012. La distribuzione delle competenze fra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni. L’interpretazione del giudice minorile di Venezia di Marica Stigliano Messuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 115 Trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare e fallimento del promittente venditore in attesa di una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (nota a Cassazione Civile, Sez. II, sentenza 5 maggio 2014, n. 9619) di Silvia Nordio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 121 Diritto amministrativo Ancora su talune questioni teorico-pratiche in tema di responsabilità precontrattuale della P.A. (nota a TAR Veneto, I sez., sentenza 8 aprile 2014, n. 487) di Fulvio Cortese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 139 Le competenze regionali in materia di esercizio di funzioni locali e la legislazione statale sull’associazionismo obbligatorio dei piccoli Comuni di Flavio Guella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 149 Questioni in tema di responsabilità erariale degli amministratori di ente locale nell’ambito della costituzione di società partecipata per la realizzazione di un servizio pubblico (nota a Corte Conti, sez. giurisdizionale Veneto, sentenza n. 84/2014 del 9 aprile 2014) di Vittorio Fedato . » 173 L’ART. 38 DISP.ATT. C.C. COME RIFORMATO DALLA LEGGE 219/2012. LA DISTRIBUZIONE DELLE COMPETENZE FRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI. L’INTERPRETAZIONE DEL GIUDICE MINORILE DI VENEZIA Il caso è il seguente: una madre ha chiesto al Tribunale per i Minorenni la decadenza dalla potestà (ora responsabilità genitoriale) del padre sul figlio minore; tuttavia nel ricorso essa dà atto che pende avanti il Tribunale Ordinario procedimento di separazione legale. Il PM ha chiesto la pronuncia di incompetenza funzionale del Tribunale per i Minorenni ai sensi dell’art. 38 disposizioni di attuazione al c.c. e il Tribunale ha dichiarato la propria incompetenza funzionale essendo competente il Giudice della separazione Con il suesteso provvedimento il Tribunale per i Minorenni di Venezia si pronuncia per la prima volta sulla questione della ripartizione di competenze fra lo stesso e il Tribunale Ordinario come effettuata dal nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione al Codice Civile. La riforma dell’art. 38 è senza dubbio una delle più importanti novità processuali introdotte dalla legge 219/2012. Infatti, come noto, la nuova formulazione della norma de qua riduce sensibilmente le competenze in materia civile del Tribunale per i Minorenni previste dal testo previgente. La questione più delicata, e che ha fatto sorgere dubbi interpretativi (oggetto del suesteso provvedimento del Giudice Veneziano), riguarda la materia dei giudizi de potestate disciplinati dagli artt. 330 e ss. del Codice Civile. Con il novellato art. 38 la competenza del Tribunale per i Minorenni a conoscere di tali procedimenti si ridimensiona di molto: infatti, se pende avanti il Tribunale Ordinario fra le stesse parti un giudizio di separazione o divorzio o una controversia ex art. 316 c.c. (sull’esercizio della responsabilità genitoriale) (1), det( 1 ) L’art. 316 c.c. riguarda l’esercizio della responsabilità genitoriale non solo nei confronti dei figli na- 116 GIURISPRUDENZA to Tribunale sarà competente a conoscere anche delle controversie de potestate. Il tenore letterale dell’art. 38 sembra voler limitare la vis attractiva del Tribunale Ordinario alle sole controversie di cui all’art. 333 c.c., nei casi in cui quindi la condotta di uno o entrambi i genitori, pur pregiudizievole alla prole, non è tuttavia tale da dar luogo alla pronuncia di decadenza. Mentre le controversie ex art. 330 c.c., stando sempre al tenore letterale della norma, rimarrebbero di competenza del Tribunale per i Minorenni, inderogabilmente competente anche quando avanti il Tribunale Ordinario fosse pendente fra le stesse parti giudizio di separazione, divorzio o controversie ex art. 316 c.c. (2). Tuttavia, la seconda parte del primo comma dell’art. 38 stabilisce che, nell’ipotesi in cui sia in corso un giudizio di separazione, divorzio o un procedimento ex art. 316 c.c., la competenza spetta al Tribunale Ordinario «anche per i provvedimenti contemplati nel primo periodo» (ovvero tutte le controversie de potestate e non solo quelle ex art. 333 c.c.). Sul punto la dottrina prevalente ritiene che il Giudice Ordinario debba conoscere di tutte le controversie de potestate (quindi sia ex art. 330 che ex art. 333 c.c.) poiché un’interpretazione diversa spezzerebbe l’unità funzionale dei provvedimenti de potestate e avrebbe anche negativi riflessi sull’effettività della tutela (3). Il Tribunale per i Minorenni di Venezia, col provvedimento di cui sopra, nel dichiararsi incompetente, fa propria questa interpretazione evidenziando altresì come a fronte della domanda di decadenza avanzata da uno dei genitori nei confronti dell’altro è necessaria un’attività istruttoria che, qualora svolta avanti il Giudice Minorile, «si risolverebbe in un duplicato, sia pure con alcune sfumature diverse date dal diverso punto di attenzione in cui ci si pone, perché andrebbe a indagare i medesimi fatti, le medesime persone nel loro ruolo genitoriale, i medesimi figli nella loro condizione personale e nel pregiudizio al loro corretto processo evolutivo». ti all’interno del matrimonio, come avveniva in passato, ma anche di quelli nati fuori del matrimonio; detta estensione è stata voluta dall’art. 39 del d.lgs 28/12/’13 n. 154 per disciplinare in maniera uniforme tutte le controversie sull’esercizio della potestà. ( 2 ) Per la soluzione restrittiva di attribuire al Tribunale Ordinario solo i provvedimenti ex art. 333 c.c. v. Tribunale di Milano, 7/05/2013, in www.ilcaso.it; nello stesso senso i Tribunali di Brescia (Ordinario e per i Minorenni) i quali hanno redatto un Protocollo d’intesa il 10/04/2013 al cui § 3 si stabilisce l’esclusione della competenza del Giudice Ordinario a pronunciare la decadenza ex art. 330 c.c. (in Fam. e dir., 2013, 6 pagg. 634 e ss). Secondo i Giudici bresciani la pronuncia ex art. 330 c.c. incide sul diritto del padre o della madre del minore alla sua genitorialità, e quindi su un diritto soggettivo, e non si limita ad operare la compressione della potestà genitoriale (ora responsabilità genitoriale) propria degli interventi ex art. 333 c.c. ( 3 ) Tommaseo, I profili processuali della riforma della filiazione, in Fam. e dir., 2014, pagg. 528 e ss.; in senso conforme Danovi, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, ivi, 2013, pagg. 619 e ss. Contra v. Graziosi, Una buona novella di fine legislatura: tutti i figli hanno eguali diritti, innanzi il Tribunale ordinario, ibidem, 263 e ss. L’ART. 38 DISP. ATT. C.C. COME RIFORMATO DALLA LEGGE 219/2012 117 La scrivente condivide tale interpretazione. Innanzitutto il Giudice Ordinario, nell’emanare i provvedimenti relativi all’affidamento della prole, è chiamato a valutare anche l’eventuale sussistenza di una condotta dei genitori pregiudizievole all’interesse dei figli e ad assumere provvedimenti idonei a porvi rimedio al fine di garantire loro un ambiente familiare il più possibile stabile e sereno (si pensi all’ipotesi di affidamento mono-genitoriale, o a terzi, o ancora al diritto di visita in ambiente protetto). Inoltre, a fronte di un’istanza ex art. 333 c.c., il Giudice potrebbe ritenere sussistenti i presupposti per una pronuncia ex art. 330 c.c. atteso che per i provvedimenti che riguardano minori non opera il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. E ancora sarebbe illogico attribuire al Giudice Ordinario la competenza a emanare, sussistendone i presupposti, i provvedimenti ex art. 333 c.c., ma continuare a riservare al Giudice Minorile le pronunce ex art. 330 c.c. che per loro natura richiederebbero una trattazione contestuale. Non solo ma, riservare in ogni caso al Giudice Minorile la competenza per le pronunce ex art. 330 c.c., potrebbe portare ad una possibile sovrapposizione di provvedimenti che incidono sui diritti delle stesse persone, come evidenziato nel provvedimento de quo. Si tratta quindi di una funzione aggregativa in linea con i principi generali non solo di economia processuale e di uniformità dei provvedimenti, ma soprattutto di effettività della tutela (che impone che i provvedimenti che l’Autorità Giudiziaria è chiamata a pronunciare relativamente allo stesso minore sia coerente e uniforme) e in linea con la creazione di una «giustizia a misura di minore» sollecitata dalla normativa internazionale (4). Sarebbe incongruente, soprattutto per ragioni di effettività delle decisioni, attribuire al Giudice Ordinario una competenza limitata ad emanare provvedimenti ex art. 333 c.c., ma continuare a riservare al Giudice minorile ulteriori pronunce sulla potestà. Del resto, come giustamente osservato dal Tribunale per i Minorenni nel provvedimento de quo, la novella legislativa ha recepito l’elaborazione giurisprudenziale creatasi sul tema della ripartizione di competenze fra Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario in materia di pregiudizio attribuendo a quest’ultimo la competenza a conoscere anche dei comportamenti pregiudizievoli di uno od entrambi i genitori ed emanare i provvedimenti conseguenti (v. art. 709-ter c.p.c.) ( 4 ) In questo senso le Linee guida per una giustizia a misura di minore adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17/11/2010. 118 GIURISPRUDENZA nei casi in cui penda giudizio in cui si controverta in tema di affidamento della prole (5). Una volta attribuito al Giudice Ordinario il potere di indagare le condotte pregiudizievoli a danno dei minori e di emanare conseguentemente i provvedimenti opportuni, l’oggetto del processo comprende necessariamente tutti gli aspetti relativi alla responsabilità genitoriale e alla sua regolamentazione, ivi compresa la limitazione o decadenza dalla potestà (6). Certo, rimangono dei dubbi interpretativi su cosa si intenda per «procedimenti in corso». Sembrando pacifico che la locuzione «in corso» significhi che debba trattarsi di un procedimento attivo davanti ad un Giudice che in quel momento sta trattando la causa (e quindi non sospeso, né interrotto, né cancellato dal ruolo), la norma ha inteso riferirsi solo ai giudizi di separazione, divorzio e controversie ex art. 316 c.c.? O è ammissibile un’interpretazione estensiva, secondo la quale la vis attractiva in favore del Tribunale Ordinario opererebbe anche nei giudizi ex art. 710 c.p.c. e ex art. 9 Legge Divorzio? La scrivente ritiene ammissibile l’interpretazione estensiva a detti procedimenti, che, seppure di modica, attengono comunque alle questioni relative alla separazione ovvero al divorzio e quindi all’affidamento della prole: e questo in considerazione della primaria esigenza di concentrare le competenze in capo allo stesso giudice nei procedimenti che riguardano i figli; anche perché a volte può essere difficile distinguere una domanda di modifica pura e semplice da quella fondata su un comportamento pregiudizievole o magari su un grave abuso del genitore. Naturalmente, lo si ribadisce, sussiste la competenza del Tribunale per i Minorenni nell’ipotesi in cui il giudizio de potestate sia stato promosso nei confronti del genitore abusante da un parente o dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni. Per concludere, sarà interessante analizzare i risvolti pratici dell’interpretazione sopra prospettata. ( 5 ) V. Cass., Sez. I, ordinanza 27/02/2013, n. 4945, in www.ilcaso.it, 2013; e ancora prima, precorrendo i tempi della Legge 219/12, v. Cass. Sez. I, ordinanze nn. 20352, 20353, 20354, 20357 del 5/10/2011, con le quali la Suprema Corte ha deciso il conflitto ex art. 45 c.p.c. sollevato dal Tribunale per i Minorenni di Brescia realizzando il principio della cd concentrazione delle tutele che verrebbe vanificato in ipotesi di sdoppiamento delle competenze. ( 6 ) Sul punto interessante altresì la posizione del Tribunale per i Minorenni di Bari secondo il quale spetta alla Procura presso il Tribunale Ordinario ove è incardinato il giudizio di separazione promuovere l’interesse del minore. Essendo il P.M. ordinario litisconsorte necessario ex art. 70 c.p.c., gli atti devono essere inviati a tale ufficio per le sue determinazioni nell’ambito del procedimento di separazione giudiziale dei minori (Tribunale per i Minorenni di Bari, 20/03/2013, in Quest. giust., 2013, con nota di Velletti). L’ART. 38 DISP. ATT. C.C. COME RIFORMATO DALLA LEGGE 219/2012 119 Vedremo se i Tribunali Ordinari, le cui competenze, per quanto concerne il diritto di famiglia, si sono ampliate accederanno alla suddetta interpretazione. Sicuramente la riforma de qua comporterà un allungamento della durata dei relativi procedimenti, sebbene per la natura degli interessi trattati sarebbe necessaria una certa celerità nelle decisioni. Sotto altro profilo la vis attractiva imporrà di dotare il rito di tutti gli strumenti di tutela per il minore: e mi riferisco alla sua audizione, che il nuovo testo dell’art. 315 bis c.c. qualifica per la prima volta in termini di «diritto» in ossequio alle indicazioni di cui alle Convenzioni Internazionali (7), dalla quale non si potrà prescindere, nonché alla difesa tecnica per il minore. Da ultimo, ci si chiede se la riforma de qua non possa essere un primo passo verso la creazione di un Giudice specializzato dotato di preparazione e competenza specifica al quale devolvere tutte le controversie e questioni relative alla giustizia minorile, con conseguente soppressione dei Tribunali per i Minorenni e creazione del Tribunale per la Famiglia o meglio, ad avviso della scrivente, di Sezioni Specializzate all’interno dei Tribunali Ordinari, munito di mezzi adeguati, che abbia al suo interno un equipe di assistenti sociali, psicologi, che possano affiancare il Giudice nell’individuare le problematiche più urgenti e suggerire le soluzioni più confacenti, magari prevedendo una loro attività di controllo dell’attuazione delle decisioni giudiziali. Marica Stigliano Messuti ( 7 ) V., in particolare l’art. 12 Della Convenzione di New York del 20/11/1989. Cassazione Civile, Sez. II, sentenza 5 maggio 2014, n. 9619 – Pres. Goldoni – Rel. Correnti – S.R. c. Fall C.C. s.r.l. Fallimento - Effetti sui rapporti giuridici preesistenti - Preliminare di vendita Esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. - Trascrizione della domanda prima del fallimento La facoltà di scelta del curatore rimane fino al passaggio in giudicato della sentenza e non costituisce mera eccezione processuale né è soggetta ai limiti dei nova in appello. La dichiarazione di fallimento impedisce che possa aver corso l’esecuzione in forma specifica ed è ininfluente la trascrizione della domanda. Nei confronti del curatore non può essere pronunziata sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso sia perché il fallimento immobilizza il patrimonio sia perché il curatore è terzo rispetto alle parti. L’effetto prenotativo della trascrizione vale solo per le sentenze dichiarative e non può valere per quelle costitutive in relazione alla facoltà di scelta del curatore, che trova il solo limite nel giudicato. (Omissis) Svolgimento del processo Con sentenza 25.2.2004 il tribunale di Livorno ha accolto, nella contumacia della convenuta (Omissis) s.r.l., la domanda introdotta da S.R. con citazione del 1.4.2003 per il trasferimento ex art. 2932 c.c., dell’unità immobiliare oggetto di preliminare 19.10.1999. Con sentenza 20.1.2005 lo stesso tribunale ha dichiarato il fallimento della s.r.l. (Omissis) ed il curatore del detto fallimento ha proposto appello alla sentenza di trasferimento dichiarando che intendeva esercitare la facoltà prevista dall’art. 72 L. Fall. per lo scioglimento del preliminare ed in subordine la reiezione della domanda di danni. La Corte di appello di Firenze, con sentenza 4.12.2007, ha dichiarato sciolto il preliminare e compensato le spese sul presupposto che il curatore, fino al passaggio in giudicato, conserva il diritto di scegliere tra esecuzione e scioglimento. Ricorre S.R. con unico motivo e relativo quesito, resiste il fallimento. Motivi della decisione Si denunzia violazione degli artt. 45 e 72 L. Fall., artt. 2932 e 1360 c.c., perché la domanda era stata trascritta e le relative formalità opponibili ai terzi. La censura è infondata non intaccando la ratio decidendi secondo la quale la facoltà di scelta del curatore rimane fino al passaggio in giudicato della sentenza e non costituisce mera eccezione processuale né è soggetta ai limiti dei nova in appello. La dichiarazione di fallimento impedisce che possa aver corso l’esecuzione in forma specifica ed è ininfluente la trascrizione della domanda. La Corte di appello ha applicato principi che trovano riscontro in un risalente ma consolidato orientamento giurisprudenziale. Nei confronti del curatore non può essere pronunziata sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso sia perché il fallimento immobilizza il patrimonio sia perché il curatore è terzo rispetto alle parti (Cass. 14.2.1966, n. 436). 122 GIURISPRUDENZA La sopravvenienza del fallimento consente al curatore di ottenere una pronunzia di rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica e di optare per lo scioglimento del contratto anche in presenza della trascrizione della domanda e dell’avvenuto pagamento del prezzo (Cass. 29.3.1989, n. 1497). L’effetto prenotativo della trascrizione vale solo per le sentenze dichiarative e non può valere per quelle costitutive in relazione alla facoltà di scelta del curatore, che trova il solo limite nel giudicato (Cass. 22.4.2000, n. 5287 che fa salva la diversa ipotesi della scrittura privata contenente un atto definitivo di vendita i cui effetti reali, in caso di accertamento giudiziale dell’autenticità della sottoscrizione, sono opponibili al fallimento dichiarato successivamente alla trascrizione della domanda). In senso sostanzialmente conforme Cass. 14.4.2004 n. 7070, Cass. 18.5.2005 n. 10436. Questa Corte non ignora il diverso orientamento che sembra scaturire da S.U. 7.7.2004, n. 12505 e da Cass. 8.7.2010, n. 16160 circa l’opponibilità alla massa dei creditori della trascrizione – prima della dichiarazione del fallimento – della domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica di concludere il contratto con esclusione del potere di scioglimento previsto in generale dall’art. 72 L. Fall., ma rispetto alle massime la lettura integrale di dette sentenze consente di dedurre che le decisioni riguardano ipotesi particolari e specifiche: la prima un preliminare di permuta, la seconda una vicenda in cui la curatela, convenuta ex art. 2932 c.c., dichiarò di volersi sciogliere dal contratto preliminare ai sensi dell’art. 72 L. Fall., peraltro precisando che l’immobile compromesso era stato in precedenza venduto con atto pubblico a terzi. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese liquidate in Euro 2700 di cui 2500 per compensi, oltre accessori. TRASCRIZIONE DELLA DOMANDA DI ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL PROMITTENTE VENDITORE IN ATTESA DI UNA NUOVA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE 1. Premessa La sentenza in commento affronta il complesso e dibattuto problema del rapporto tra domanda ex art. 2932 c.c. per l’esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, trascritta ai sensi dell’art. 2652, n. 2 c.c. prima dell’intervenuto fallimento del promittente venditore, e facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto preliminare esercitando il potere attribuitogli dall’art. 72 l. fall. Sul tema si contrappongono due orientamenti: da un lato, l’indirizzo interpretativo definibile, almeno fino al 2004, come uniforme e consolidato in giurisprudenza, dall’altro, l’orientamento riconducibile alla nota decisione adottata dalla Cassazione a Sezioni Unite con la pronuncia n. 12505 del 2004, che ha dato voce a quella parte della dottrina critica nei confronti dell’orientamento giurisprudenziale tradizionale e, insieme alle successive pronunce che vi si sono conformate, ha ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 123 dato origine a un filone giurisprudenziale di segno opposto a quello fino ad allora dominante. Per una valutazione della pronuncia in commento, che presenta una motivazione estremamente concisa e costruita con una serie di rinvii a principi e precedenti dell’orientamento interpretativo tradizionale, si rende necessario, in via preliminare, ripercorrere brevemente i momenti e gli argomenti che hanno caratterizzato l’evoluzione del confronto pluriennale sul tema(1). 2. L’orientamento a favore della prevalenza della facoltà di scioglimento del curatore Secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante fino alla pronuncia del 2004 delle Sezioni Unite, che annovera tuttora numerosi sostenitori e che, a sua volta, aveva trovato affermazione in una pronuncia a Sezioni Unite (2), la domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. debitamente trascritta, ex art. 2652, n. 2 c.c., dal promissario acquirente prima della dichiarazione di fallimento del promittente venditore, non osta all’esercizio da parte del curatore del potere di sciogliersi dal contratto preliminare esercitando la facoltà attribuitagli dall’art. 72 l. fall. In base a quest’ultima norma, infatti, l’unico ostacolo all’esercizio della facoltà di scioglimento unilaterale del curatore deriverebbe dall’essersi già verificato l’effetto traslativo della proprietà del bene oggetto di compromesso, effetto traslativo che, a sua volta, potrebbe unicamente discendere o dalla stipulazione volontaria del contratto definitivo o dal passaggio in giudicato della statuizione giudiziale ex art. 2932 c.c. che tiene il luogo di tale stipulazione (3). ( 1 ) Le pronunce di legittimità rinvenibili in materia si sono espresse sulla vecchia formulazione dell’art. 72 l. fall., applicabile ratione temporis. La riforma, a opera del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e del decreto correttivo d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non ha ridefinito il testo in modo tale da rendere uno dei due orientamenti indubitabilmente escluso, ma ha introdotto delle modifiche suscettibili di offrire nuovi spunti al confronto, come illustrato più in dettaglio nel paragrafo finale della presente nota. ( 2 ) Cass., Sez. Un., 14 aprile 1999 n. 239, in Giust. civ., 1999, I, 1572. ( 3 ) Cfr., ex plurimis, Cass., 12 maggio 1997, n. 4105, in Fallimento, 1997, 1014; Cass., 16 maggio 1997, n. 4358, ivi, 1998, 143; Cass., 13 maggio 1999, n. 4747, ivi, 2000, 727; Cass., 22 aprile 2000, n. 5287, ivi, 2000, 886; Cass., 25 agosto 2004, n. 16860 in GCM, 2004, fasc. 7-8; Cass., 22 dicembre 2005, n. 28480, in Fallimento, 2006, 801; Cass., 1 marzo 2007, n. 4888, in Foro it., 2008, I, 909 con nota di Fabiani; Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, in Fallimento, 2008, 767 con nota di Finardi. In dottrina vi è anche chi ha evidenziato che un possibile, ulteriore, ampliamento dell’ambito di esercizio del potere del curatore si potrebbe avere, nonostante l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2932 c.c., nel caso di mancato avveramento delle eventuali condizioni sospensive dell’effetto traslativo previste dalla stessa sentenza: si veda Sagna, Fallimento, domanda ex art. 2932 c.c. in sede di gravame e sorte dei rapporti in caso di scioglimento del curatore dal contratto preliminare, in Giust. Civ., 2003, 2565. 124 GIURISPRUDENZA Ricostruendo più nel dettaglio l’indirizzo interpretativo in esame, è possibile cogliere un’evoluzione nel ragionamento giuridico posto a base della soluzione proposta, che tuttavia non muta l’esito finale della valutazione, invariabilmente volto, in assenza di avvenuto effetto traslativo, ad affermare la prevalenza della facoltà di scelta della curatela anche in presenza di domanda tempestivamente trascritta. Secondo un’interpretazione, propria di alcune pronunce più risalenti (4), la dichiarazione di fallimento del promittente venditore avrebbe, già di per sé, l’effetto di impedire l’emanazione della pronuncia ex art. 2932 c.c., rendendo pertanto la relativa domanda, anche se trascritta tempestivamente, inammissibile o improcedibile, con ciò escludendo che la stessa possa rappresentare un ostacolo all’esercizio della facoltà di scioglimento del curatore. Più in particolare, alla luce del dettato dell’art. 2932 c.c., che ammette l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto soltanto «qualora sia possibile», il fallimento del promittente venditore, facendo venir meno nel fallito il potere di disposizione e amministrazione del proprio patrimonio e «cristallizzando» la situazione patrimoniale alla data di dichiarazione del fallimento, impedirebbe l’esecuzione specifica della promessa di vendita che, altrimenti, determinerebbe un mutamento della situazione patrimoniale, ed in particolare un effetto traslativo, nonostante lo spossessamento prodotto dalla sentenza dichiarativa di fallimento. Il fallimento, pur impedendo l’emanazione della pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., lascerebbe inalterato il contratto preliminare, con la conseguenza che lo stesso potrebbe, in linea di principio, essere fatto valere una volta che il promittente venditore sia tornato in bonis, sempre che il bene sia ancora nella sua disponibilità. Rispetto quindi alla dichiarazione di fallimento, l’esercizio della facoltà di scioglimento del curatore ex art. 72 l. fall. rappresenterebbe un passaggio diverso ed ulteriore, in quanto andrebbe ad intervenire sulla manifestazione di volontà che ha dato origine al contratto, caducandola fin dall’origine. Secondo tale ragionamento, lo scioglimento ex art. 72 l. fall. rimuoverebbe il contratto medesimo, non soltanto ai fini fallimentari ma anche con effetto sostanziale definitivo. Secondo la lettura propria di pronunce più recenti (5), non sarebbe la dichiarazione di fallimento in sé a impedire l’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., bensì l’esercizio da parte del curatore del potere di scioglimento unilaterale ex art. ( 4 ) Un’elencazione delle sentenze di legittimità caratterizzate da questo approccio interpretativo si ritrova in nota a Cass., 13 maggio 1982, n. 3001, in Giust. Civ., I, 1982, 2697. ( 5 ) Cfr. le sentenze citate alla nota 3. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 125 72 l. fall.: fatta salva, in linea di principio, la procedibilità della domanda, pur essendo intervenuta la dichiarazione di fallimento, l’esercizio di tale potere da parte del curatore, facendo venire meno in corso di lite il vincolo negoziale che si vorrebbe oggetto di esecuzione specifica, renderebbe la domanda infondata. In entrambi i casi, nonostante le differenze di percorso ricostruttivo, si perviene all’affermazione della prevalenza delle esigenze della procedura e la portata del potere di scioglimento del curatore viene delineata con contorni della massima ampiezza. L’art. 72 l. fall. individuerebbe infatti un vero e proprio diritto potestativo del curatore, espressione di un’attività del tutto discrezionale, il cui esercizio non necessita dell’autorizzazione del giudice delegato trattandosi di un atto non di straordinaria amministrazione bensì di conservazione all’attivo fallimentare del bene oggetto di compravendita (6). L’esercizio di tale facoltà può essere manifestato con qualsiasi atto idoneo allo scopo, non è soggetto a formalità o modalità particolari e può essere espresso anche per «facta concludentia» (7). La scelta del curatore viene, quindi, giudicata come validamente espressa anche laddove manifestata in atti processuali o scritti difensivi, quale la comparsa di risposta, non sottoscritti dal curatore stesso ma solo dal suo difensore, e ciò anche in assenza di mandato speciale, trattandosi non della conclusione di un negozio bensì dell’esercizio di un diritto potestativo attinente alla condotta di causa e quindi di spettanza del difensore (8). Viene ammesso che il suo esercizio possa avvenire in appello, senza che sia possibile opporre la violazione dell’art. 345 c.p.c. in quanto, non costituendo eccezione in senso proprio bensì configurandosi come potere sostanziale, non incontrerebbe alcun limite dato dalle preclusioni processuali (9), o anche in sede stragiudiziale, allorché la formulazione dell’eccezione di scioglimento non sia possibile nell’ambito del processo, ad esempio, a causa dei limiti propri del giudizio di legittimità (10), affermando altresì che la sussistenza ex actis del suo avvenuto esercizio sia soggetta al potere-dovere di rilevazione d’ufficio ad opera del giudice (11). Dall’altro lato, viene negata qualsiasi rilevanza all’avvenuto pagamento integra( 6 ) Cfr., inter alia, Cass., Sez. Un., 14 aprile 1999, n. 239, cit.; Cass., 14 aprile 2004, n. 7070, in GCM, 2004, fasc. 4; Cass., 25 agosto 2004, n. 16860, cit. ( 7 ) Cass., 29 gennaio 2002, n. 1063, in Giust. Civ., 2003, 2563; Cass., 25 agosto 2004, n. 16860, cit.; Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit. ( 8 ) Cass., 14 aprile 2004, n. 7070, cit.; Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit. ( 9 ) Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit. ( 10 ) Cass., Sez. Un., 14 aprile 1999, n. 239, cit.; Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit. ( 11 ) Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit. 126 GIURISPRUDENZA le del prezzo ovvero all’immissione del promissario acquirente nel possesso del bene, considerati alla stregua di effetti «soltanto prodromici ed anticipatori dell’assetto finale di interessi» ma non già di per sé realizzatori dell’effetto traslativo, unico impedimento all’esercizio del potere della curatela (12). In quest’ottica, l’avvenuta trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica prima della dichiarazione di fallimento del promittente venditore mantiene una valenza – ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 45 l. fall. – ai fini dell’opponibilità alla massa dei creditori della domanda stessa e della eventuale sentenza di accoglimento, nell’ipotesi in cui il curatore non abbia esercitato la sua facoltà di scioglimento ovvero nell’ipotesi di ritorno in bonis del fallito. 3. L’orientamento a favore della prevalenza della trascrizione della domanda giudiziale Com’è noto, l’indirizzo giurisprudenziale consolidato ha subito un vero e proprio capovolgimento ad opera della pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 12505 del 2004 (13) e delle pronunce, sia di merito sia di legittimità adottate a sezioni semplici, che hanno aderito ai principi da essa espressi (14). In estrema sintesi, la soluzione adottata dalla sentenza delle Sezioni Unite e dalle altre pronunce ad essa conformi, oggetto di numerosi e contrastanti commenti in dottrina (15), consiste nell’affermazione del principio per cui la trascrizione della do- ( 12 ) Così, ad esempio, Cass., 13 maggio 1999, n. 4747, cit.; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1376, in Giur. It., 2000, 1243; Cass., 14 aprile 2004, n. 7070, cit.; Cass., 25 agosto 2004, n. 16860, cit.; Cass., 22 dicembre 2005, n. 28480, cit. ( 13 ) Cass., Sez. Un., 7 luglio 2004, n. 12505, in Foro it., 2004, I, 3038. Va evidenziato che le Sezioni Unite, nel pronunciarsi, hanno fatto riferimento ad un preteso contrasto giurisprudenziale, invero all’epoca inesistente. Posizioni critiche nei confronti dell’indirizzo giurisprudenziale consolidato erano state invece espresse in dottrina: si veda, in particolare, Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1972, i cui argomenti, come si evidenzierà in seguito, si ritrovano in larga parte nel ragionamento posto dalle Sezioni Unite alla base della decisione del 2004. ( 14 ) Si vedano, in particolare, Cass., 23 giugno 2010, n. 15218, in Fallimento, 2010, 1248; Cass., 8 luglio 2010, n. 16160, ivi, 2011, 244; Cass., 15 dicembre 2011, n. 27093, in Diritto&Giustizia, 2012. Tra le sentenze di merito, Trib. di Novara, 2 maggio 2012, in Il Fallimentarista, 2012. ( 15 ) Cfr., tra le voci critiche, Fabiani, Osservazioni a Cass. 7 luglio 2004, n. 12505, in Foro it., 2004, I, 3038; Bettazzi, In tema di scioglimento del curatore dal preliminare di compravendita, in Fallimento, 2005, 761; Rocchio, Contratto preliminare ad effetti anticipati e circolazione dei diritti in ambito fallimentare, in Corr. giur., 2004, 1457; tra i commenti favorevoli, Colesanti, Fallimento del promittente e tutela del promissario: una svolta nella giurisprudenza?, in Riv. dir. proc., 2005, 329; Coltraro, Fallimento del permutante, trascrizione della domanda ex art. 2932 cod.civ. e limiti al potere di scioglimento del curatore: le sezioni unite mutano indirizzo, in Dir. Fall., 2005, II, 1; Guglielmucci, sub art. 72, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio coordinato da Fabiani, 2010, 1122; nonché Diritto fallimentare – La nuova disciplina delle procedure concorsuali giudiziali, Torino, 2007, 125. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 127 manda di esecuzione in forma specifica, effettuata antecedentemente alla dichiarazione di fallimento del promittente venditore, rende opponibile alla procedura l’effetto traslativo della relativa sentenza di accoglimento, anche se trascritta successivamente, a far tempo dalla trascrizione della domanda: tale retroattività impedirebbe l’apprensione del bene all’attivo fallimentare e, pertanto, precluderebbe la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto preliminare ex art. 72 l. fall. Secondo tale orientamento, va innanzitutto escluso che la domanda ex art. 2932 c.c. ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 51 l. fall. e possa essere da quest’ultimo impedita, sull’assunto che il provvedimento di natura cognitiva cui la stessa dà luogo avrebbe la caratteristica di produrre direttamente l’effetto giuridico richiesto, senza che si renda necessaria alcuna successiva attività riconducibile alla nozione di esecuzione. L’argomento facente leva sull’art. 51 l. fall. per dichiarare l’improcedibilità della domanda ex art. 2932 c.c. non appare tra quelli fondanti, almeno nelle sue forme più recenti, il ragionamento dei sostenitori dell’orientamento tradizionale favorevole alla prevalenza dei poteri del curatore. E, tuttavia, si deve segnalare che, in dottrina, l’asserita inapplicabilità dell’art. 51 l. fall. è stata criticata (16) sia facendo leva sulla appartenenza sistematica dell’art. 2932 c.c. alle norme di rito, sia evidenziando la capacità della relativa pronuncia, pur senza necessità di fare ricorso ad azioni propriamente esecutive, di condurre ad un risultato finale di espropriazione del bene. Nell’argomentazione fatta propria dalle Sezioni Unite viene, poi, contestato l’assunto secondo il quale la domanda ex art. 2932 c.c., tempestivamente trascritta, non potrebbe trovare accoglimento per il solo fatto in sé dell’apertura della procedura concorsuale fallimentare in virtù di principi cardine della disciplina fallimentare, quali quello della «cristallizzazione» del patrimonio del fallito o quello della par condicio creditorum. In particolare, si osserva come il primo riguardi solo i beni qualificabili come appartenenti all’attivo fallimentare: tra essi non andrebbe, tuttavia, ricompreso l’immobile oggetto di preliminare di compravendita non eseguito per il quale, prima del fallimento, sia stata trascritta domanda ex art. 2932 c.c. Infatti, in virtù del disposto dell’art. 45 l. fall., troverebbe applicazione in sede fallimentare la norma di cui all’art. 2652, n. 2 c.c., con il solo adattamento, operabile in via interpretativa ma sostenuto dalla ratio sottesa all’art. 45 l. fall., reso necessario dal non essere la sentenza dichiarativa di fallimento soggetta a trascrizione o iscrizione. ( 16 ) Bettazzi, In tema di scioglimento del curatore dal preliminare di compravendita, cit. 128 GIURISPRUDENZA Alla luce del disposto dell’art. 2652, n. 2 c.c., gli effetti della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., sebbene subordinati alla trascrizione di detta sentenza, retroagirebbero alla data di trascrizione della relativa domanda sicché, essendo quest’ultima l’adempimento cui fare riferimento ai fini dell’opponibilità ai terzi del trasferimento, ne deriverebbe la capacità della domanda trascritta di «prenotare» gli effetti della futura sentenza di accoglimento, rendendo il bene oggetto di pretesa fin dall’inizio escluso dal novero dell’attivo fallimentare e, quindi, sottratto al meccanismo della cristallizzazione, in attesa della pronuncia finale che, una volta trascritta, produrrebbe i suoi effetti sin dalla data della prenotazione. Tale meccanismo troverebbe conferma e completamento nel disposto dell’art. 2915, comma 2 c.c., che risolve il conflitto tra pignorante e attore in base alla priorità, rispettivamente, del pignoramento o della trascrizione della domanda (17). Una prima critica (18) mossa nei confronti della soluzione proposta dalle Sezioni Unite è quella di operare un’indebita commistione tra regime dell’opponibilità ai terzi della sentenza ex art. 2932 c.c. e regime degli effetti nei rapporti tra le parti, nel senso di far discendere da un meccanismo «pubblicitario», quale quello previsto dall’artt. 2652, n. 2 c.c., un’anticipazione degli effetti sostanziali dell’atto tra le parti, tale da rendere il promissario acquirente figurativamente compratore a titolo definitivo fin dalla trascrizione della domanda. Al contrario, invece, viene evidenziato che la sentenza ex art. 2932 c.c., in quanto pronuncia costitutiva, produrrebbe l’effetto traslativo tra le parti solo ex nunc, dal momento del suo passaggio in giudicato, e quindi l’effetto prenotativo della trascrizione della domanda non sarebbe idoneo a sottrarre il bene all’attivo fallimentare. Tra gli argomenti invocati a sostegno della soluzione favorevole alla prevalenza della trascrizione della domanda, vi è anche l’esigenza di rispettare il principio del «giusto processo» ai sensi del quale nessun danno dovrebbe derivare dalla durata del processo a chi è tenuto a servirsi dello stesso per ottenere tutela (19). Alla luce di tale principio, che secondo la pronuncia delle Sezioni Unite trove( 17 ) Per l’affermazione della necessaria equipollenza tra pignoramento e sentenza dichiarativa di fallimento si veda Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, cit., 230-238; anche Guglielmucci, sub art. 72, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, cit., ha evidenziato, tra i meriti della sentenza delle Sezioni Unite del 2004, quello di aver ristabilito tale parallelismo. ( 18 ) Cfr. Timpano, Effetti del fallimento sul contratto preliminare di permuta, in I Contratti, 2005, 121. ( 19 ) Si veda, oltre alla sentenza delle Sezioni Unite del 2004, Cass., 23 giugno 2010, n. 15218, cit. che, aderendo all’autorevole precedente, tenta un’ulteriore elaborazione dell’argomento a sostegno della soluzione adottata. In dottrina, si veda Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, cit.; Ticozzi, Fallimento del promittente venditore e trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare, in I Contratti, 2010, 797 e, sebbene con approccio critico, Montanari, Fallimento del promittente venditore e ragionevole durata del processo, in Fallimento, 2010, 1249. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 129 rebbe espressione e applicazione in ambito fallimentare ancora una volta per il tramite dell’art. 45 l. fall., andrebbe ricostruita la disciplina del concorso dei creditori e andrebbe pertanto privilegiata l’applicazione delle norme, come quelle in tema di trascrizione delle domande giudiziali, dirette ad evitare che la durata del processo torni a danno di chi ha ragione, anche in considerazione dell’essere l’interesse delle parti alla sollecita definizione dei giudizi assurto a rango costituzionale in forza del riconoscimento del principio della «durata ragionevole» del processo operata dall’art. 111, comma 2, Cost. Una prima obiezione mossa a questo argomento è stata quella della sua «reversibilità» (20) dovendo valere i principi del giusto processo e della ragionevole durata anche per i creditori concorsuali che, invece, si vedrebbero pregiudicati dall’allungamento dei tempi di liquidazione dell’attivo fallimentare e di chiusura della procedura causato dalla necessità di attendere l’esito del giudizio instaurato ai sensi dell’art. 2932 per stabilire l’apprensione o meno del bene alla massa fallimentare. Sembra poi che nelle pronunce di legittimità che vi hanno fatto ricorso, il principio del giusto processo sia stato invocato, più che come principio coordinato e rafforzato dal principio costituzionale della ragionevole durata dei procedimenti, come rimedio a casi di «irragionevole durata» del processo (21), laddove invece il problema della eccessiva durata dei giudizi, e delle conseguenze negative da essa derivanti, è tema che va tenuto distinto rispetto a quello che ci occupa, senza che la sua rilevanza possa influenzare l’analisi e la soluzione del conflitto tra promissario acquirente e procedura fallimentare. Il principio del giusto processo va invece considerato in sé ed esaminato alla luce di eventuali previsioni normative che possano aver previsto altri diritti o poteri a tutela di interessi altrettanto meritevoli di tutela e in grado, pertanto, di comportare limiti o condizioni alla sua operatività. In ambito fallimentare, per il tema che ci occupa, la norma con cui confrontarsi è rappresentata dall’art. 72 l. fall. ed è quindi dall’analisi del rapporto tra detta norma e tutti i principi, ivi incluso quello del giusto processo, che secondo il dettato delle Sezioni Unite troverebbero ingresso in sede fallimentare per il tramite dell’art. 45 l. fall., che dipende la decisione su quale tra le due posizioni confliggenti debba prevalere. Tuttavia è proprio nel confronto con l’art. 72 l. fall. che la soluzione adottata ( 20 ) Fabiani, Osservazioni a Cass. 7 luglio 2004, n. 12505, cit. ( 21 ) Nel caso oggetto della sentenza delle Sezioni Unite del 2004, la domanda ex art. 2932 c.c. era stata trascritta nel 1991 e la sua fondatezza era stata riconosciuta in primo grado solo nel 1998: l’anno successivo era intervenuto il fallimento del convenuto. 130 GIURISPRUDENZA dalle Sezioni Unite presta ulteriormente il fianco alla critica di operare una forzatura nel sovrapporre il piano del regime dell’opponibilità a terzi al piano della disciplina sostanziale. Per la Corte, il coordinamento tra art. 45 l. fall. e art. 72 l. fall. comporta che l’«effetto prenotativo» proprio della trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica, rendendo opponibile la sentenza di accoglimento, seppur trascritta successivamente, sia altresì in grado di impedire l’esercizio del potere del curatore ai sensi dell’art. 72 l. fall. Ma questo ragionamento fa discendere da un meccanismo pubblicitario, quale quello previsto dall’art. 2652, comma 2, c.c., volto a disciplinare il conflitto di trascrizioni confliggenti, un ulteriore effetto sostanziale (quale l’impedimento all’esercizio del potere da parte del curatore) che è invece estraneo al suo ambito di operatività. È stato, infatti, correttamente evidenziato (22) che questa ricostruzione del rapporto tra art. 45 e art. 72 l. fall. implica una subordinazione di quest’ultima norma alla prima, non prevista né compatibile con il dettato della legge. Al contrario, la previsione dell’art. 72 l. fall. presuppone che l’opponibilità ai sensi dell’art. 45 l. fall. sia sussistente in quanto, altrimenti, a fronte di una pretesa inopponibile alla procedura e alla massa dei creditori non sarebbe necessario per il curatore attivarsi esercitando il potere di scioglimento riconosciutogli dalla legge, perché sarebbe sufficiente far valere tale inopponibilità. Ad avvalorare l’assenza di impedimenti all’esercizio del potere di scioglimento derivanti dalla trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. viene altresì invocato il disposto dell’attuale comma 7 dell’art. 72 l. fall. (l’ultimo comma nella formulazione antecedente alla riforma). Tale previsione, che disciplina le conseguenze dell’esercizio da parte del curatore della facoltà di scioglimento nei confronti del promissario acquirente di un preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis c.c., stante l’analogia riconosciuta per legge tra l’efficacia «prenotativa» della trascrizione del preliminare (seppur limitata temporalmente) e quella della trascrizione della domanda giudiziale, dimostrerebbe come detta efficacia non impedisca l’esercizio del potere attribuito al curatore (23). ( 22 ) Fabiani, Osservazioni a Cass. 7 luglio 2004, n. 12505, cit.; Bettazzi, In tema di scioglimento del curatore dal preliminare di compravendita, cit.; Rocchio, Contratto preliminare ad effetti anticipati e circolazione dei diritti in ambito fallimentare, cit. ( 23 ) Cfr. Cass., 13 maggio 1999, n. 4747, cit. con nota di Montaldo, Esercizio della facoltà di scioglimento del preliminare da parte del curatore, e, più di recente, Bettazzi, In tema di scioglimento del curatore dal preliminare di compravendita, cit., che sul punto ha criticato la pronuncia delle Sezioni Unite del 2004 per non aver affrontato il tema nello svolgimento della propria argomentazione. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 131 Sempre nell’ottica di affermazione della prevalenza della posizione del promissario acquirente, ma sotto un diverso profilo, la proposizione – e trascrizione – della domanda ex art. 2932 c.c. è valorizzata da alcuni autori come elemento idoneo ad incidere sulla sussistenza dello stesso presupposto di esercizio del potere ex art. 72 l. fall., dato dal dover essere il contratto «ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti» (24). In particolare, si evidenzia come la proposizione (tempestivamente trascritta) della domanda di esecuzione in forma specifica, accompagnata dal versamento dell’intero prezzo di acquisto (o dalla sua offerta nei modi di legge) equivarrebbero alla integrale esecuzione da parte del contraente in bonis della propria prestazione, in tal modo facendo venir meno il presupposto della mancata esecuzione del contratto da entrambe le parti necessario a legittimare l’esercizio del potere di scioglimento da parte del curatore. L’argomento è tra quelli posti a base della pronuncia delle Sezioni Unite del 2004 ma, sul punto, l’analisi e la conclusione della Corte appaiono fortemente condizionate dal fatto che la fattispecie controversa avesse ad oggetto un preliminare di permuta (di terreno edificabile con uno degli immobili da costruirvi) anziché di compravendita, e dal fatto che, prima del fallimento dell’impresa costruttrice, il contraente in bonis avesse già trasferito alla stessa la proprietà dei terreni (25). L’elaborazione dottrinale della tesi ha indubbiamente una certa capacità persuasiva, cui va anche riconosciuto il merito di tentare un migliore bilanciamento tra interessi del promissario acquirente e procedura, nel senso di non escludere tout court il potere del curatore a fronte di una domanda tempestivamente trascritta, lasciando aperta la possibilità di un suo esercizio in tutti i casi in cui la domanda non sia stata altresì accompagnata, prima della dichiarazione di fallimento, dal pagamento di tutto quanto dovuto (o dalla sua offerta nei modi di legge) e in tutti i casi in cui detta prestazione non sia ancora esigibile. E tuttavia ad essa si può, da un lato, obiettare che l’essere la prestazione del promissario acquirente già compiutamente eseguita comporterebbe la qualifica( 24 ) Cfr. Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, cit., 265-269; Gaboardi, Fallimento e tutela del promissario acquirente di bene immobile, in Fallimento, 2012, 989. ( 25 ) La Corte ha, in particolare, attraverso un articolato ragionamento incentrato sui termini di applicabilità della vecchia formulazione dell’art. 72 l. fall. al contratto di permuta, nonché sui criteri in base ai quali può ritenersi eseguita la prestazione delle parti in un contratto preliminare, ritenuto che il trasferimento dei terreni, determinando l’insorgere dell’effetto finale dell’operazione programmata con il preliminare, avesse realizzato, sebbene rispetto solo ad uno dei contraenti, il risultato ricollegato nella previsione delle parti alla stipulazione del contratto definitivo, comportando l’avvenuta integrale esecuzione della prestazione da parte del contraente in bonis che detto trasferimento aveva effettuato e facendo così venire meno il presupposto di legittimazione per l’esercizio del potere ex art. 72 l. fall. da parte della curatela. 132 GIURISPRUDENZA zione del contraente in bonis quale creditore del fallimento, tenuto quindi a far valere le sue ragioni secondo le norme concorsuali (26). Dall’altro, la giurisprudenza non sembra aver dato seguito alla tesi, rimanendo prevalente, almeno per il tema qui trattato, la costruzione tradizionale del preliminare come contratto ad effetti obbligatori la cui esecuzione consiste nella prestazione del consenso negoziale definitivo attraverso la stipulazione volontaria del contratto di vendita o il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. (27). 4. La sentenza in commento e la nuova domanda di rimessione del tema alle Sezioni Unite. Considerazioni finali La sentenza in commento è intervenuta nel contesto sopra descritto, inserendosi nel solco delle pronunce di merito e di legittimità che, pur intervenute successivamente alla decisione delle Sezioni Unite nel 2004, ne hanno disatteso il disposto ribadendo l’indirizzo interpretativo tradizionale (28). Con riferimento alle pronunce di legittimità, va rilevato che l’inottemperanza al nuovo dettame delle Sezioni Unite non è mai avvenuta all’esito di un’argomentata analisi critica della soluzione proposta, bensì, ove non causata da inconsapevolezza dovuta alla contemporaneità dei pronunciamenti, è stata giustificata o sulla base dell’asserita impossibilità di prendere in considerazione la nuova soluzione per preclusioni o vizi procedimentali propri del giudizio in corso o, come peraltro nel caso che ci occupa, adducendone l’inapplicabilità a causa della sua specialità. La pronuncia in commento, a sua volta, non offre analisi critiche del nuovo orientamento emerso sul tema, né sembra voler proporre nuovi spunti di riflessione, limitandosi a rinviare a principi e precedenti dell’orientamento «ortodosso» (29). ( 26 ) Di Marzio, Rapporti pendenti in generale, in AA.VV., Fallimento e altre procedure concorsuali, vol. 2, diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, 743; contra, Guglielmucci, Diritto fallimentare – La nuova disciplina delle procedure concorsuali giudiziali, cit., che qualifica il diritto del promissario acquirente che abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c. alla stregua di un diritto reale, in quanto tale non assoggettabile a regolazione concorsuale. ( 27 ) In tal senso, Cass. 14 aprile 2004, n. 7070, cit.; Cass., 8 febbraio 2000, n. 1376, cit.; Cass., 13 maggio 1999, n. 4747, cit. ( 28 ) Cfr., ad esempio, Cass., 25 agosto 2004, n. 16860, cit.; Cass., 22 dicembre 2005, n. 28480, cit.; Cass., 1 marzo 2007, n. 4888, cit.; Cass., 7 gennaio 2008, n. 33, cit.; Cass., 1 dicembre 2010, n. 24396 riferita però ad un’ipotesi di contratto preliminare di cosa futura; Cass. 15 gennaio 2013, n. 787; tra le sentenze di merito si veda Trib. Treviso, Sez. dist. Montebelluna, 12 febbraio 2010 in I Contratti, 2010, 795. ( 29 ) Anche la fattispecie oggetto della pronuncia in esame non sembra caratterizzarsi, in punto di fatto, per alcun elemento di specialità: a fronte di un preliminare di compravendita immobiliare rimasto inadem- ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 133 La motivazione procede, si può dire, per affermazioni di principio, non suffragate da alcuna argomentazione e, almeno in alcuni punti, sembra rifarsi al principio dell’improcedibilità della domanda di esecuzione in forma specifica a fronte dell’intervenuto fallimento e dell’immobilizzazione del patrimonio del fallito, principio che, come sopra ricordato, appare superato tra gli stessi sostenitori della prevalenza della posizione del curatore. Un accenno ad un tema proprio del confronto più recente si coglie nel riferimento all’«effetto prenotativo» della trascrizione, accenno che tuttavia viene sviluppato in modo eccessivamente sintetico, sì da impedire di comprendere appieno il ragionamento posto alla base dell’affermazione per cui detto effetto sarebbe valido solo per le pronunce dichiarative mentre non potrebbe valere per quelle costitutive «in relazione alla facoltà del curatore, che trova il solo limite nel giudicato». È lecito pensare che con detta affermazione la Corte abbia voluto manifestare un approccio critico nei confronti della pronuncia delle Sezioni Unite del 2004, disconoscendo la capacità dell’«effetto prenotativo» di prevalere sulla previsione dell’art. 72 l. fall., ma il precedente viene espressamente richiamato solo per essere superato invocando l’argomento per cui si tratterebbe di pronuncia relativa ad un’ipotesi particolare, con ciò implicitamente giudicandola inapplicabile e in ogni caso non idonea a smentire il tradizionale indirizzo interpretativo. L’asserita particolarità e specialità dell’arresto del 2004 come unica e dirimente giustificazione per la sua inosservanza non appare, tuttavia, condivisibile (30): contrariamente a quanto affermato nella sentenza in commento, dalla lettura integrale del precedente delle Sezioni Unite emerge come solo l’analisi della sussistenza o meno del presupposto di esercizio della facoltà ex art. 72 l. fall., dato dalla mancata esecuzione del contratto da parte di entrambi i contraenti, sia stata condotta avendo riguardo alla peculiarità della fattispecie negoziale della permuta. Al contrario, la volontà della Suprema Corte di riconsiderare (e superare) il tradizionale orientamento interpretativo sugli effetti della trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. appare chiaramente espressa in termini generali e riferita a qualunque ipotesi in cui venga in considerazione il meccanismo pubblicitario di cui all’art. 2652, n. 2 c.c. piuto il promissario acquirente aveva proposto, e tempestivamente trascritto, domanda di esecuzione in forma specifica; successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado ex art. 2932 c.c. era intervenuto il fallimento del promittente venditore e il curatore, proponendo appello, aveva esercitato la facoltà di scioglimento ex art. 72 l. fall. La Corte d’Appello, nell’accogliere il gravame, aveva dichiarato sciolto il preliminare, riconoscendo che il curatore conserva il potere di scegliere tra esecuzione e scioglimento fino al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. ( 30 ) L’altro precedente espressamente richiamato, ossia Cass. 8 luglio 2010, n. 16160, cit., ha visto una pedissequa applicazione della soluzione proposta dalle Sezioni Unite nel 2004, in un caso effettivamente particolare (il bene oggetto di preliminare era stato trasferito a terzi prima della dichiarazione di fallimento). 134 GIURISPRUDENZA In definitiva, al di là di una ulteriore dimostrazione di quanto il nuovo corso inaugurato nel 2004 dalle Sezioni Unite continui a trovare forti resistenze all’interno della stessa Suprema Corte, la sentenza non sembra aggiungere elementi di rilievo al confronto sul tema. Si deve a questo punto evidenziare che, in epoca di poco antecedente l’emissione della sentenza in esame, la prima sezione della Cassazione, con ordinanza interlocutoria n. 27111 del 4 dicembre 2013, ha sottoposto al primo presidente la valutazione circa l’opportunità di rimettere nuovamente la questione qui trattata alle Sezioni Unite. Tale ordinanza, che opportunamente evidenzia la necessità di raggiungere una soluzione definitiva al contrasto giurisprudenziale presente sul tema, si presenta meritevole di attenzione sotto un duplice profilo. Rappresenta, infatti, una prima occasione in cui la Suprema Corte è stata chiamata ad occuparsi del problema alla luce della formulazione dell’art. 72 l. fall. successiva alla riforma, sebbene nella versione precedente le ulteriori modifiche apportate con il decreto correttivo. E, nell’affermare la corrispondenza del portato del vecchio comma 4 al disposto degli attuali comma 1 e comma 3 dell’art. 72 l. fall., sì che a suo dire dalla nuova formulazione non potrebbe discendere una soluzione diversa rispetto al passato, la Corte sembra voler porre una certa evidenza su come l’intenzione del legislatore sia stata quella di ribadire, in via generale, la facoltà del curatore di sciogliersi dai rapporti pendenti. Ma l’ordinanza è degna di rilievo soprattutto in quanto esprime precise e argomentate critiche alla posizione assunta dalle Sezioni Unite nel 2004. Viene, innanzitutto, contestata l’efficacia retroattiva della sentenza emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c. e ribadito, con richiamo anche a precedenti di legittimità, il principio per cui l’effetto traslativo tra le parti avverrebbe solo ex nunc, al passaggio in giudicato di detta sentenza: da ciò discende che il curatore, esercitando il potere di scioglimento prima che detto effetto sia stato raggiunto, ne impedirebbe la produzione. L’ordinanza evidenzia poi, con chiarezza e persuasività di argomenti, come il potere di scioglimento del curatore si esprima ed operi in un ambito diverso da quello coperto dall’art. 45 l. fall. e dalle norme sulle trascrizioni delle domande quale l’art. 2652, n. 2 c.c. Da un lato viene opportunamente rilevato come detto potere non vada confuso con i «diritti contrari o incompatibili» dei terzi che ricadono nell’ambito di applicazione della norma sulla trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. e che sono, esclusivamente, quelli attinenti alla proprietà (o ad altri diritti reali) del bene oggetto di preliminare, suscettibili di trascrizione o iscrizione contro il convenuto. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 135 Dall’altro, facendo proprie le sopra descritte osservazioni mosse dalla dottrina, viene evidenziato come il punto centrale della questione non sia quello della opponibilità o meno della domanda tempestivamente trascritta, dal momento che detta opponibilità non solo non è in discussione ma anzi è presupposta dall’art. 72 l. fall. In assenza di trascrizione della domanda antecedentemente alla dichiarazione di fallimento, infatti, per contrastare la pretesa del promissario acquirente il curatore non avrebbe necessità di fare ricorso al potere di scioglimento unilaterale ex art. 72 l. fall.: potrebbe limitarsi ad invocare l’inopponibilità della domanda per tardiva o mancata trascrizione, in forza del solo disposto dell’art. 45 l. fall. Il potere attribuitogli ex art. 72 l. fall. non può quindi che rappresentare uno strumento ulteriore e diverso, riconosciutogli a fronte di pretesa opponibile. L’effetto dell’art. 45 sarebbe quindi quello di stabilire che la trascrizione è anche in sede fallimentare presupposto necessario per rendere opponibili a terzi pretese e diritti, ma ferme restando le facoltà e i poteri del curatore previsti in altre disposizioni della disciplina fallimentare. Questa ricostruzione spiega i rapporti tra art. 45 e art. 72 l. fall. salvaguardando per ciascuno di essi un ambito di operatività. La lettura delle due norme proposta invece dalla soluzione favorevole al promissario acquirente, attribuendo alla trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. l’effetto di impedire tout court l’esercizio del potere ex art. 72. l. fall. (31), priva quest’ultima disposizione di contenuto comportando una limitazione al suo ambito di operatività che appare incompatibile con il dettato della legge. In attesa della nuova pronuncia delle Sezioni Unite sul tema, e in conclusione, sembra opportuno esprimere due considerazioni. Non è di poco conto che la pronuncia delle Sezioni Unite del 2004 sia stata adottata nella vigenza della vecchia formulazione dell’art. 72 l. fall., in un contesto in cui, anche in virtù dell’orientamento giurisprudenziale assolutamente univoco, nessuna tutela veniva riconosciuta al promissario acquirente, spesso contraente debole (32). Il legislatore, consapevole della necessità di approntare alcuni meccanismi di protezione del promissario acquirente, ha dapprima emanato la legge delega 2 ( 31 ) Cfr. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 160. ( 32 ) La soluzione adottata dalle Sezioni Unite è stata influenzata dalla volontà di rispondere alla richiesta di protezione del promissario acquirente nel caso, socialmente rilevante, in cui il preliminare ineseguito abbia ad oggetto la casa di abitazione: la Corte stessa, nelle sue argomentazioni, evidenzia espressamente la necessità di riconsiderare le soluzioni fino a quel momento applicate in quanto destinate ad incidere sulla soddisfazione dell’interesse all’acquisto della prima casa, qualificato come interesse primario avente rilevanza costituzionale ex art. 47, comma 2 Cost. 136 GIURISPRUDENZA agosto 2004, n. 210 contenente «Delega al Governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire», la cui attuazione ha poi portato, tra l’altro, all’adozione della disciplina speciale ora contenuta nell’art. 72 bis l. fall (33), e ha dato ulteriore risposta a tale necessità mediante l’introduzione del comma 8 dell’art. 72 l.fall. Quest’ultima norma si presta ad offrire un nuovo argomento al confronto in corso sul tema in esame. Dalla disposizione – ai sensi della quale le previsioni di cui al primo comma (ossia quelle relative alla facoltà di scelta del curatore) non si applicano al contratto preliminare di vendita trascritto avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado – sembra infatti potersi dedurre, con argomentazione a contrario, che in tutti gli altri casi aventi ad oggetto un contratto preliminare, seppur trascritto, detta facoltà rimanga invece esercitabile e, in via ulteriore, anche in tutti i casi di domanda ex art. 2932 trascritta, essendo gli effetti della trascrizione della domanda e del preliminare ugualmente finalizzati a creare l’effetto prenotativo verso i terzi (34). Ma, più in generale, non si può ignorare che, avendo ben presenti le istanze di maggior protezione dei promissari acquirenti e il confronto in corso sulla soluzione da dare al conflitto di interessi coinvolti, il legislatore, da un lato, abbia introdotto i correttivi menzionati attribuendo agli stessi natura eccezionale, dall’altro, abbia attribuito al potere di scelta del curatore carattere di principio generale, valido per tutte le altre ipotesi di contratti, anche preliminari, rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 72 l. fall. (35). In altre parole, il fatto che, in quella che è la norma destinata a segnare il punto di equilibrio scelto dal legislatore tra le ragioni della procedura e quelle della controparte in bonis (36) e nella quale il legislatore ha introdotto o ribadito diverse previsioni relative ai contratti preliminari (ai commi 3, 7 e 8), nulla sia stato sancito in merito agli effetti della tempestiva trascrizione di una domanda ex art. 2932 c.c. ( 33 ) Una critica di «intempestività» è stata mossa alla sentenza delle Sezioni Unite del 2004, emessa in prossimità dell’emanazione della legge-delega 2 agosto 2004, n. 210, da Bettazzi, In tema di scioglimento del curatore dal preliminare di compravendita, cit. ( 34 ) In tal senso si è pronunciato Trib. Torino, Sez. Fall., 7 settembre 2011, in Fallimento, 2012, 988. ( 35 ) Cfr. Di Marzio, Tutela del promissario acquirente nel fallimento del promittente venditore di bene immobile, in Fallimento, 2006, 806 che, sebbene con tono critico, ricostruisce in tal senso la disciplina applicabile, peraltro esprimendosi ancora in assenza dell’introduzione del comma 8 dell’art. 72 l. fall. che, per i motivi illustrati, sembra rafforzare ulteriormente detta interpretazione della norma e Meoli-Sica, Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, in AA.VV., Trattato di Diritto Fallimentare, diretto da BuonocoreBassi, II, Padova, 2010, 425. ( 36 ) Così Vattermoli, sub art. 72, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare, Tomo I, a cura di Nigro e Sandulli, Torino, 2006, 416. ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA DEL PRELIMINARE E FALLIMENTO DEL VENDITORE 137 (pur essendocene l’occasione, vista l’introduzione del comma 5, con il quale è stata codificata la soluzione, già adottata in giurisprudenza, della perdurante efficacia della domanda di risoluzione trascritta prima del fallimento) sembrerebbe avvalorare che si sia voluto estendere la protezione del promissario acquirente solo entro i confini espressamente disciplinati (37). L’ultima considerazione riguarda un aspetto, meritevole di analisi e trattazione ben più ampie ma non possibili in questa sede, cui però si ritiene necessario accennare perché strettamente connesso con il tema qui trattato. Si vuole, infatti, rilevare che, nel caso in cui si riconosca prevalenza all’orientamento che attribuisce alla tempestiva trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. forza interdittiva dell’esercizio della facoltà di scioglimento del curatore ex art. 72 l. fall., si dovrebbe lasciare aperta la strada alla valutazione circa la revocabilità da parte del curatore, mediante azione revocatoria fallimentare o ordinaria, a seconda dei casi e sempre che ne sussistano i presupposti, del trasferimento dell’immobile operato dalla sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., senza aprioristiche preclusioni sostenute in forza del principio di irrevocabilità dei provvedimenti giudiziari (38). La strada della revocabilità potrebbe, infatti, presentarsi come utile strumento sia per ribilanciare gli interessi confliggenti di promissario acquirente e procedura, e quindi in ultima istanza dei creditori concorsuali, sia per contrastare i possibili abusi della tutela riconosciuta al promissario acquirente che potrebbero derivare dalla surrettizia stipulazione di contratti preliminari di compravendita in cui i promittenti venditori versino già in una situazione di crisi, al fine di utilizzare l’azione ex art. 2932 c.c. come strumento per sottrarre beni ai creditori. Silvia Nordio ( 37 ) Per una critica nei confronti del risultato finale della tutela approntata dal legislatore con il combinato disposto del comma 8 dell’art. 72 l. fall. e dell’art. 72 bis, al punto da sollevare dubbi di legittimità costituzionale, si veda Fabiani, Il decreto correttivo della riforma fallimentare, in Foro it., 2007, V, 225. ( 38 ) Per utili considerazioni in tal senso si veda Trentini, Sentenza ex art. 2932 codice civile e revocatoria fallimentare, in Fallimento, 2007, 278. TAR Veneto – Sez. I – sentenza 8 aprile 2014, n. 487 – Pres. Amoroso – Est. Rovis – x c. Comune y Responsabilità della pubblica amministrazione - Danno da comportamento - Violazione dell’affidamento e dei canoni di buona fede e correttezza ex art. 1337 c.c. - Responsabilità precontrattuale - Sussiste Nell’ambito di un procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente, la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione deve ritenersi sempre configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche nel caso di assenza di provvedimenti illegittimi può scaturire l’obbligo di risarcire il danno nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti. (Omissis) considerato che oggetto della presente controversia è il ristoro della lesione della posizione soggettiva inerente l’affidamento ingenerato nel privato circa l’osservanza da parte della Pubblica amministrazione del dovere di comportarsi secondo buona fede in un procedimento in cui il privato stesso era rimasto coinvolto: la ricorrente chiede, in particolare, il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale per non avere il Comune portato a conclusione la procedura avviata nel 2008 con la pubblicazione di un avviso inerente ad un intervento di riqualificazione di un’area del litorale del lago di Garda e del relativo parcheggio da realizzarsi con il sistema della «finanza di progetto», relativamente al quale l’impresa aveva presentato la «proposta»; che tale questione rientra pacificamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, I comma, lett. «e», sub 1) del DLgs n. 104/2010; che, quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini risarcitori, l’assenza di atti illegittimi non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell’Amministrazione con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza (da intendersi in senso oggettivo) nell’ambito di un procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente: la responsabilità precontrattuale deve, infatti, ritenersi sempre configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche nel caso di assenza di provvedimenti illegittimi può scaturire l’obbligo di risarcire il danno nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti; che sussiste la responsabilità precontrattuale ex art. 1337 e 1338 c.c. di un ente locale che abbia 140 GIURISPRUDENZA improvvisamente ed immotivatamente interrotto il procedimento in corso relativo alla prima fase di una procedura di «project financing», nel caso – come quello di specie – in cui l’inerzia sia consistita anche nella omissione di qualsivoglia spiegazione alla ditta interessata sulle ragioni dell’improvviso abbandono del procedimento stesso, nonostante le ripetute richieste di chiarimenti da parte della ditta interessata che aveva depositato il progetto ai fini della declaratoria di pubblico interesse; che, a tal proposito, è affatto inconferente la sentenza CdS, III, 20.3.2014 n. 1365 depositata dall’Amministrazione, atteso che la procedura di finanza di progetto ivi considerata era espressamente subordinata alla «formale, propedeutica autorizzazione alla realizzazione dell’opera», autorizzazione che non è stata rilasciata dalla Regione (Campania) per contrasto con la disciplina pianificatoria a livello regionale in materia di rete ospedaliera: in quel caso si era verificato, cioè, un evento impeditivo alla prosecuzione della procedura di «project financing» rappresentato dal mancato realizzarsi della condizione sospensiva cui era legata l’acquisizione di efficacia delle delibere che avevano approvato la procedura stessa, e che era perfettamente nota ai concorrenti; che la domanda di risarcimento del danno proposta dall’odierna ricorrente è tempestiva sia in relazione al disposto di cui all’art. 30, IV comma c.p.a. (il termine per la proposizione della domanda di risarcimento non decorre, infatti, fino a quando persista il comportamento inadempiente, e nel caso di specie l’Amministrazione non ha ancora ritenuto consumato il proprio potere provvedimentale: cfr. la DGC 3.6.2013 n. 88 e la nota 3.9.2013 del Comune), sia, comunque, in considerazione della natura extracontrattuale del pregiudizio di cui si chiede il ristoro; che, quanto all’elemento psicologico dell’illecito precontrattuale, la Corte di giustizia ha reputato incompatibile con l’ordinamento comunitario la normativa nazionale che subordini il diritto ad ottenere il risarcimento al carattere colpevole del comportamento della PA (sent. 30.9.2010, C-314/ 09), configurando invece in modo affatto oggettivo la responsabilità dell’Amministrazione; che, però, affinché sussista la responsabilità per «culpa in contrahendo» a carico della Pubblica amministrazione occorre, da un lato che il comportamento tenuto dalla P.A. risulti contrastante con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. e, dall’altro, che lo stesso comportamento abbia ingenerato un danno effettivo in capo al soggetto che chiede il risarcimento; che, nella specie, è pacifica la responsabilità dell’Amministrazione per avere immotivatamente receduto dalla procedura, atteso che l’interruzione del procedimento ad evidenza pubblica si qualifica come violazione della legge (art. 1337 c.c.) che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede e correttezza nelle trattative, cagionando, conseguentemente, l’ingiusto sacrificio dell’affidamento ingenerato nella ricorrente dal pubblicato avviso di procedura, così integrando una responsabilità di tipo precontrattuale; che – in disparte la considerazione che la clausola contenuta nell’avviso di project financing in esame, secondo cui «in nessuna delle ipotesi... i promotori avranno titolo a richiedere al Comune indennizzi o rimborsi di sorta», riguarda esclusivamente le «ipotesi soprammenzionate» di ritenuta non fattibilità della proposta sotto il profilo tecnico, economico o del pubblico interesse (ipotesi, queste, non ricorrenti nel caso di specie) – deve considerarsi nulla, ai sensi dell’art. 1355 c.c. (che prevede il divieto di inserire condizioni meramente potestative), un’eventuale clausola secondo cui la presentazione della proposta non vincola in alcun modo l’Amministrazione, nemmeno sotto il profilo della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c.; che il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale, la cui dimostrazione spetta alla parte lesa (in linea con l’inquadramento di tale responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana), riguarda il solo interesse negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione della conclusione del procedimento e le perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali, mentre non sono risarcibili il mancato utile correlato all’eventuale aggiudicazione ed il danno curriculare, in quanto assolutamente ipotetici (si era, infatti, nemmeno conclusa la prima fase della procedura con la declaratoria, del tutto eventuale, di rispondenza al pubblico interesse di una delle proposte presentate); che, dunque, ai fini della prova del danno l’istante deve assolvere l’obbligo di allegare e provare i QUESTIONI TEORICO-PRATICHE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE 141 fatti posti a fondamento della domanda, dovendosi escludere la liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c., che presuppone l’impossibilità di dimostrare l’ammontare del pregiudizio subito; che, pertanto, in ordine alla quantificazione del danno ritiene il Collegio che nella specie debba farsi applicazione del disposto di cui all’art. 34, IV comma del c.p.a. che consente al giudice, in caso di condanna pecuniaria, di stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine; che, dunque, nel liquidare il pregiudizio patito dall’odierna ricorrente l’Amministrazione dovrà attenersi nel prosieguo alle seguenti regole d’azione: a) entro il termine di novanta giorni (decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla notificazione, ove anteriore) il Comune di Torri del Benaco provvederà a proporre alla ricorrente il pagamento di una somma a corrispettivo del danno, danno relativamente al quale parte ricorrente dovrà fornire in maniera rigorosa ogni utile elemento per la sua determinazione, escludendosi – come si è detto – una liquidazione equitativa: in particolare, il lucro cessante conseguente alla «perdita di altre occasioni lavorative» potrà essere risarcito se e in quanto l’impresa documenterà di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri lavori (qualora tale dimostrazione non possa essere offerta è da ritenere, infatti, che l’impresa abbia ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altre attività: va da sé, invero, che l’imprenditore, in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili). In sede di quantificazione del danno, pertanto, spetterà all’impresa dimostrare, anche mediante l’esibizione all’Amministrazione di libri contabili e di proposte di contratto, di non aver eseguito, nel periodo che l’avrebbe vista impegnata nella redazione del progetto, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata prosecuzione chiede il risarcimento del danno (cfr., in termini, CdS, IV, 7.9.2010 n. 6485; VI, 21.9.2010 n. 7004; TAR Veneto, I, 5.3.2014 n. 303; 8.11.2011 n. 1663); b) ove non sia raggiunto alcun accordo nel termine sopra indicato, parte ricorrente potrà chiedere all’intestato Tribunale l’esecuzione della presente sentenza per l’adozione delle misure consequenziali; che, dunque, per le suesposte considerazioni il ricorso va accolto, e l’Amministrazione condannata al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi nei limiti, con le modalità e nei termini di cui sopra; che le spese processuali seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo; (Omissis) ANCORA SU TALUNE QUESTIONI TEORICO-PRATICHE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA P.A. 1. La breve pronuncia del Tar Veneto suscita interesse per diverse ragioni, e in primo luogo perché celebra una sorta di anniversario. Proprio dieci anni prima, infatti, lo stesso Tar aveva statuito su di una fattispecie simile a quella affrontata anche in quest’ultimo caso (1), sperimentando un ap- ( 1 ) Cfr. Tar Veneto, Sez. I, 3 marzo 2004, n. 479, in Il Diritto della Regione, 2004, 144 ss., con nota di A. Simonati, La responsabilità «paracontrattuale» dell’amministrazione in una recente decisione del TAR Veneto: profili problematici. 142 GIURISPRUDENZA proccio ricostruttivo che in quel preciso momento si stava affacciando pure nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (2) e che andava, altresì, espandendosi oltre la materia degli appalti (3). Certo, in quel lontano precedente veneto, i termini della controversia e della motivata soluzione che vi fu apprestata non erano del tutto coincidenti a quelli della causa qui richiamata. Tuttavia, anche in quell’ipotesi si trattava di rimproverare ad una pubblica amministrazione locale il fatto di aver tenuto un comportamento complessivamente scorretto, dapprima avendo ingenerato in un soggetto privato l’affidamento a che una determinata procedura sarebbe stata portata a compimento, quindi interrompendo l’iter preordinato alla definizione compiuta del rapporto e alla conseguente attività esecutiva. Ed anche in quella circostanza il giudice non aveva attribuito un rilievo determinante al fatto che gli unici atti adottati dall’amministrazione fossero del tutto legittimi. Ad essere difforme, però, è la giustificazione dell’esito cui il giudice era giunto. Per il Tar Veneto, in quell’occasione l’amministrazione era incorsa in una forma di «responsabilità da contatto», il cui pregiudizio, se sussistente, andava riguardato applicando analogicamente la disciplina comune della responsabilità precontrattuale, e pertanto nei limiti del cd. «interesse negativo». Inoltre, sempre per il Tar, l’ampiezza del danno concretamente risarcibile doveva valutarsi in via equitativa e se ne doveva escludere la sussistenza laddove si verificasse che la buona fede dell’interlocutore privato era venuta meno in quanto riferibile a comportamenti di cui era verosimile ritenere che esso ne avesse accettato il rischio. Ciò perché, si diceva, la buona fede è oggettiva e biunivoca: vale per l’amministrazione, ma vale anche per il privato. Nella pronuncia qui riprodotta – pur risolvendosi in una condanna per l’amministrazione, e pur ribadendosi che una cosa è l’illegittimità dell’azione provvedimentale, altra cosa è l’illiceità del contegno effettivamente tenuto dall’ente – l’epilogo della vicenda è un po’ diverso: a) il Tar non ricorre più al modello della «responsabilità da contatto», ma applica direttamente l’art. 1337 c.c.; b) si nega espressamente il ricorso alla valutazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. e ci si avvale dei poteri un tempo previsti nell’art. 35, comma 2, del d.lgs. ( 2 ) V., ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457, in Foro amm. – CDS, 2003, 918 ss. ( 3 ) Abbracciando, segnatamente, la materia urbanistico-edilizia: v. Tar Lombardia, Sez. II, 2 ottobre 2003, n. 4503, in Dir. proc. amm., 2004, 527 ss., cui sia consentito rinviare anche per il commento in quella sede disponibile (544 ss.): F. Cortese, Ancora sulla responsabilità della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive. QUESTIONI TEORICO-PRATICHE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE 143 n. 80/1998 (4) per tutti i casi di giurisdizione esclusiva e oggi generalizzati ex art. 34, comma 4, c.p.a. (5). Le innovazioni, in generale, vanno senz’altro salutate con favore. Da un lato, si abbandona l’utilizzo di una categoria concettuale assai debole e discutibile, specialmente con riferimento a fattispecie che si danno in contesti volti alla costituzione di un vincolo negoziale tout court, e si ribadisce la natura in ogni modo extracontrattuale del modello precontrattuale (6). Dall’altro, si evita il potenziale inganno della valutazione equitativa, che nelle cause in cui si discute di responsabilità civile dell’amministrazione rappresenta sovente il passepartout per la liquidazione di un indennizzo mascherato e, con ciò, per l’affermazione di una riparazione monetaria di carattere indebitamente forfettario. Restano aperte, però, alcune questioni, che proprio il profilo da ultimo segnalato invita a considerare. 2. Se per il Tar la valutazione equitativa non è accessibile, in quanto «presuppone l’impossibilità di dimostrare l’ammontare del pregiudizio subito», e «ai fini della prova del danno l’istante deve assolvere l’obbligo di allegare e provare i fatti posti a fondamento della domanda», allora non si comprende la ragione della materiale rimessione in termini, in punto istruttorio, che il collegio, avvalendosi dei poteri ex art. 34, comma 4, c.p.a., ha stabilito a favore del ricorrente. Il rinvio, in questo senso, è esplicito, visto che nella motivazione si chiarisce senza ombra di dubbio che la proposta di pagamento che l’amministrazione è chiamata a formulare a favore del privato debba avvenire sulla base di «ogni utile elemento» che «parte ricorrente dovrà fornire in maniera rigorosa (...), escludendosi – come si è detto – una liquidazione equitativa». Ma è possibile che quei poteri possano arrivare a tanto? Non sarebbe, forse, preferibile accedere ad una lettura che imponga che la fase istruttoria sul danno – ( 4 ) Che così disponeva: «Nei casi previsti dal comma 1 [ossia, nei casi in cui intenda condannare la p.a. al risarcimento del danno ingiusto, Nda], il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, col ricorso previsto dall’articolo 27, primo comma, n. 4, del testo unico approvato col regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 [i.e., con il giudizio d’ottemperanza, Nda], può essere chiesta la determinazione della somma dovuta». ( 5 ) Che così recita: «In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV [e quindi con il giudizio di ottemperanza, Nda], possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti». ( 6 ) Nonostante la nota e – tutto sommato, recente – oscillazione nel senso opposto del Supremo Collegio: v., ad esempio, Cass. civ., Sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27648, in Resp. civ. prev., 2012, 1944. 144 GIURISPRUDENZA anche quella eventualmente perseguibile d’ufficio, sulla base di un qualche «principio di prova» (7) – resti nella cornice processuale e lì contribuisca a determinare la sussistenza o meno della responsabilità? Del resto, se in giudizio si accerta che il danno c’è, allora questo si deve risarcire, nei limiti in cui è stato provato; se manca la prova, il danno non c’è, non essendoci, di conseguenza, alcuna responsabilità. Dinanzi a queste criticità, la sensazione è che ci si trovi ancora in mezzo al guado, sia pur dieci anni dopo, e sia pur avendo acquisito, nel frattempo, qualche chiarimento e qualche certezza in più. Il punto che – sotto traccia – rimane ancora aperto è sempre il medesimo: come apprezzare e come misurare l’interesse che venga concretamente considerato meritevole di tutela risarcitoria al cospetto di scorrettezze comportamentali della p.a.? Il modus operandi del Tar Veneto impone il richiamo di un paragone suggestivo e forse improprio, ma in fondo rivelatore. L’impressione, cioè, è che si sia in presenza non solo di un bene della vita a sé stante – cosa che di fatto si può dare ormai per acquisita, visto che nell’interpretazione corrente le sue sorti non sono connesse a quelle del sindacato sulla legittimità dell’esercizio del potere pubblico – ma anche di un bene la cui doverosa garanzia emerge nei casi in cui un soggetto si comporti in modo comunque illecito, perché ne va di un bene costituzionalmente rilevante. È in quest’ottica che può essere utile rammentare un’assonanza, precisamente quella con il tenore delle argomentazioni spese a suo tempo dalla Corte costituzionale nella celebre pronuncia (n. 641/1987 (8)) in cui per la prima volta si era occupata del danno ambientale e della speciale fattispecie risarcitoria di cui all’art. 18 della legge n. 349/1986 (oggi non più in vigore). In quel frangente, e per ciò che naturalmente interessa, la Corte aveva predicato l’esistenza, nell’ordinamento, di beni che, pur essendo suscettibili di valutazione patrimoniale, sono svincolati da una dimensione immediatamente appropriativa, ma possono comunque essere annoverati tra gli interessi, di primario e assoluto rilievo costituzionale, la cui lesione può condurre ad un risarcimento ex art. 2043 c.c. (9). Sulla base di questo inquadramento, poi, la Corte di cassazione, progressivamente, e sempre in relazione al danno ambientale, era arrivata a sostenere che la lesione di un interesse di quella tipologia (i.e. di primario e assoluto rilievo costitu( 7 ) E sempre che sia ammissibile in controversie puramente risarcitorie, acquisizione che, nella giurisprudenza decisamente prevalente, è generalmente negata. Cfr., ex multis, Tar Toscana, Sez. II, 30 maggio 2014, n. 937, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 14 maggio 2014, n. 607, ibid.; Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2014, n. 46, in Foro amm.-CDS, 2014, 56. ( 8 ) Corte costituzionale, 30 dicembre 1987, n. 641, in Foro it., 1988, I, 3 ss. ( 9 ) Corte costituzionale, 30 dicembre 1987, n. 641, cit., in particolare, punto 2.2 della motivazione. QUESTIONI TEORICO-PRATICHE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE 145 zionale) avrebbe potuto risarcirsi, con una ratio quindi parzialmente sanzionatoria, anche indipendentemente dalla prova effettiva di un pregiudizio immediatamente e materialmente apprezzabile, e, come tale, puntualmente dimostrabile in giudizio. Ciò che era sufficiente, per la Suprema Corte, consisteva, quanto meno, nel riscontro della violazione, da parte del danneggiante, delle regole di condotta o dei principi di cautela che l’ordinamento prescrive a garanzia di quell’interesse, e che possono anche ricavarsi direttamente dall’art. 2043 c.c. quale norma primaria: fatto un tale accertamento, il danno esiste comunque, a prescindere dalla prova di cui si è detto (10). Per la sua quantificazione, si ricorreva ai particolari criteri allora positivamente previsti (11), i quali, in questa impostazione, nonostante un richiamo alla valutazione equitativa, parevano per l’appunto presumere, nel loro carattere artificiale (o, meglio, di classica fictio iuris), che fosse inevitabile, quanto al pregiudizio subito, immaginare una forma di misurazione del quantum risarcibile in supplenza degli oneri probatori altrimenti ordinariamente previsti. A che cosa servono, dunque, queste assonanze? Forse che, anche nel caso della responsabilità della p.a. per violazione dei doveri di correttezza e buona fede, si potrebbe intravedere un bene della vita a sé stante, di dimensione costituzionale? Forse che, anche in base alle ripetute ed autorevoli allusioni operate (in altri contesti) dal Consiglio di Stato (12), ci si trova di fronte ad un possibile e ulteriore campo di espansione della già sperimentata categoria (di questi tempi decisamente à la page) dell’abuso del diritto (13), in tal caso perpetrato dalla pubblica amministrazione? Non è forse vero, del resto, che le condotte amministrative legittime che integrano la violazione dell’affidamento potrebbero comunque definirsi abusive perché contrastanti con le molte declinazioni di un generale e trasversale dovere di solidarietà, ricavabile dall’art. 2 Cost.? (14). ( 10 ) V., per tutte, Cass. civ., Sez. I, 1 settembre 1995, n. 9211, in Giur. it., 1996, I, 950 ss. ( 11 ) Sempre all’art. 18 cit., in particolare al comma 6: «Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali» (corsivi aggiunti). ( 12 ) V. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, in Corr. giur., 2011, 988 ss., con nota di F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo. Ma sia consentito richiamare anche F. Cortese, L’Adunanza Plenaria e il risarcimento degli interessi legittimi, in Giorn. dir. amm., 2011, 962 ss. ( 13 ) A cui proprio il Consiglio di Stato ha fatto riferimento, nella pronuncia di cui alla nt. precedente, per fondare la ratio della disciplina prevista dall’art. 30, comma 3, c.p.a., relativamente al rapporto tra l’esercizio autonomo dell’azione risarcitoria e l’attivazione, da parte del danneggiato, dell’azione costitutiva di annullamento del provvedimento lesivo («Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti»). ( 14 ) Il riferimento all’art. 2 Cost. è stato operato proprio dal Consiglio di Stato: v. alle ntt. 12 e 13. Ma 146 GIURISPRUDENZA Il tema è davvero interessante, e certo non è questa la sede per «esploderlo» con l’ampiezza che merita. Ma una cosa è certa: la menzionata assonanza non è soltanto evocativa; coglie nel segno anche dal punto di vista delle evoluzioni positive. In dieci anni, soprattutto circa il quantum risarcibile, il quadro della disciplina applicabile nella tipologia delle controversie qui esaminate è parzialmente cambiato, facendosi, se possibile, ancor più articolato. 3. Difatti, all’interno delle molteplici fattispecie di responsabilità precontrattuale della p.a. nel campo dell’evidenza pubblica, ve ne sono alcune che si qualificano per la presenza di atti legittimi di autotutela, vuoi di revoca, vuoi di annullamento d’ufficio. Per queste fattispecie, il legislatore – rispettivamente, con i commi 1 e 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241/1990 (15), e con il comma 136 dell’art. 1 della legge n. 311/2004 (16) – non ha solo riconosciuto testualmente l’esistenza di un potenziale pregiudizio; nel caso della revoca, ha anche precisato che, se esistente, quel pregiudizio va liquidato in un certo modo. Proprio per la revoca, poi, il dibattito che la giurisprudenza ha animato, per un certo periodo, in ordine alla natura dell’obbligazione di pagamento cui la p.a. revocante è tenuta (trattasi, sostanzialmente, della disciplina speciale della quantificazione di un danno risarcibile ovvero trattasi, come la forma sembra suggerire, si può ricordare, soprattutto, che l’ancoraggio costituzionale in questione era stato proposto, molto tempo prima, anche da autorevole e acuta dottrina, segnatamente per spiegare il diverso regime che avrebbero dovuto conoscere le ipotesi di risarcimento del danno da mancato adempimento, da parte della p.a., di «doveri di protezione» (i.e. obblighi di correttezza): v. A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive (dir. amm.), in Enc. dir., Agg. II, Milano, 1998, in part. 985. Ma v. anche Id., La responsabilità della p.a. tra provvedimento e comportamento (a proposito di un libro recente), reperibile anche on line al seguente indirizzo: http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/tassone.htm. Può essere opportuno evidenziare che, in questa lettura, lo scostamento dal modello aquiliano è conclamato. ( 15 ) La seconda parte del comma 1 dell’articolo in questione (così come introdotto dalla l. n. 15/2005 e poi modificato dal nuovo c.p.a.) recita: «Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo». Il comma 1-bis (come inserito in tale articolo dall’art. 13, comma 8, d.l. n. 7/2007, conv. in l. n. 40/2007, e come materialmente riprodotto anche nel successivo comma 1-ter, dapprima inserito dall’art. 13, d.l. n. 112/2008, conv. in l. n. 133/2008, e poi abrogato dall’art. 62, comma 1, del d.l. n. 5/2012, conv. in l. n. 35/2012), precisa: «Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico». ( 16 ) «Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante». QUESTIONI TEORICO-PRATICHE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE 147 della definizione esclusiva di una forma di autentico indennizzo? (17)), è particolarmente sintomatico della medesima impasse teorico-pratica che si è richiamata con riguardo alla ricostruzione del danno ambientale: sia dal punto di vista dell’esistenza di un interesse del tutto autonomo ed indipendente da riparare, sia dal punto di vista della sua completa riconducibilità (o meno) al novero delle situazioni soggettive risarcibili secondo il consueto paradigma aquiliano anziché a quelle soltanto indennizzabili in quanto esposte ad una legittima «privazione» di parte del proprio «patrimonio giuridico». Ma il dato ancor più interessante è che la giurisprudenza amministrativa, nell’esplorare tutte le articolazioni di questi regimi normativi, ha cercato di evitarne le sovrapposizioni, all’interno di quadro di riferimento nel quale all’affermata coesistenza pratica di diversi istituti (indennizzo e illecito civile) ha dovuto far seguire una visione assai specializzante degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale (intesa come extracontrattuale), in primis con riguardo agli oneri probatori della parte ricorrente (18). Così è, e lo si è visto, anche nel caso affrontato dal Tar Veneto nella breve sentenza surriprodotta, nella quale, per l’appunto, non solo si superano quegli oneri mediante il ricorso alla procedura di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a., ma si accede ad una ricostruzione (del tutto e scopertamente) oggettiva della responsabilità civile della p.a. (19). Questo endemico trascorrere dal tema della quantificazione del danno al problema della sua stessa sussistenza o natura, ovvero, in via ancor preliminare, a quello dell’onere probatorio del ricorrente – che tende ad essere assorbito nella constatazione che, date la compromissione di un certo interesse o, addirittura, la mera assunzione di un determinato comportamento, una lesione dev’esservi senz’altro – dimostra non solo la complessa adattabilità di un unico modello a situazioni che sembrano ben diverse, ma anche la criptica tendenza ad interpretare quel modello in modo variabile e secondo presupposti teorico-generali (come quelli in tema di abuso di diritto) che non necessariamente risultano così rigorosi ( 17 ) Per questa seconda tesi, v., ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2010, n. 7334, in Urb. e app., 2011, 814 ss. ( 18 ) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 febbraio 2012, n. 662, in Giorn. dir. amm., 2013, 169 ss.: in questa sentenza il giudice amministrativo ritiene che la violazione dei principi di buona fede e correttezza, che determina la responsabilità precontrattuale in senso proprio sia in re ipsa, quale verificabile nel confronto tra il contegno dell’amministrazione (che, da subito, ha ritardato in modo non legittimo la conclusione formale del negozio) e quello del soggetto privato (che ha sempre e univocamente manifestato «il persistente e forte interesse (...) alla stipulazione ed esecuzione del contratto»). ( 19 ) Sul punto è esplicito questo passaggio: «quanto all’elemento psicologico dell’illecito precontrattuale, la Corte di giustizia ha reputato incompatibile con l’ordinamento comunitario la normativa nazionale che subordini il diritto ad ottenere il risarcimento al carattere colpevole del comportamento della PA (sent. 30.9.2010, C-314/09), configurando invece in modo affatto oggettivo la responsabilità dell’Amministrazione». 148 GIURISPRUDENZA o, meglio, che talvolta (come accade nel caso della responsabilità della p.a. per danno da provvedimento illegittimo) rischiano di scontrarsi con l’auto-sufficienza del diritto positivo sic et sempliciter considerato (20), talaltra (come nei differenti casi qui affrontati) non vengono esplicitamente invocati, e ciò proprio allorché ve ne sarebbe un maggiore e più ragionevole bisogno (21). Fulvio Cortese ( 20 ) Cfr. le osservazioni in F. Cortese, L’Adunanza Plenaria, cit., passim. In breve: quale può essere lo scopo del rinvio all’abuso del diritto in un contesto nel quale il chiaro tenore della disposizione applicabile (v. supra a nt. 13) risolve di per sé il tema del rapporto tra i rimedi potenzialmente esercitabili? ( 21 ) La consapevolezza del collegio giudicante circa la distanza che esiste tra questo genere di fattispecie risarcitorie (da comportamento) e quelle precisamente definite dall’art. 30, comma 3, c.p.a. (in termini di «risarcimento per lesione di interessi legittimi») si palesa anche nel passaggio della motivazione in cui il Tar Veneto sente il bisogno di indicare che il termine per l’esercizio dell’azione risarcitoria è più ampio di quello di centoventi giorni, incorrendo, così, in un «errore-non errore»: la motivazione, infatti, da un lato, richiama la disciplina del termine da osservare in caso di danno da ritardo, cosa che non corrisponde al caso di specie (e che quindi si traduce in un’affermazione scorretta); dall’altro lato, però, e allo stesso tempo, non si può non rilevare che la dottrina – già citata: v. supra a nt. 14 – che aveva ipotizzato un diverso regime di responsabilità da mancato rispetto dei «doveri di protezione» intendeva riferirsi, tra l’altro, anche ai pregiudizi derivanti dall’inerzia della p.a. (sicché la non pertinenza formale del rinvio tradisce una presupposta intuizione sostanziale). LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI E LA LEGISLAZIONE STATALE SULL’ASSOCIAZIONISMO OBBLIGATORIO DEI PICCOLI COMUNI 1. L’obbligo di gestione associata tra autonomia ed efficienza dell’azione dei piccoli Comuni La materia dell’esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei piccoli Comuni è caratterizzata da una variegata disciplina statale e regionale, succedutasi nel tempo, con la quale si sono introdotte diverse soluzioni normative volte a risolvere i problemi di efficienza ed efficacia di gestione connessi alle ridotte dimensioni demografiche delle municipalità italiane; ciò, comunque, coniugando tali esigenze organizzative con il rispetto della rappresentanza democratica di enti esponenziali di comunità che, in ogni caso, rimangono autonome pur nella loro scarsa consistenza numerica (1). Da ultimo – in particolare – la disciplina di revisione della spesa pubblica, con cui l’ordinamento nazionale ha affrontato la crisi finanziaria e le esigenze di risanamento, è intervenuta nuovamente anche in tema di gestioni associate, individuando nella polverizzazione della prestazione di funzioni e servizi locali uno dei fattori critici di incremento delle voci di uscita. Proprio a fronte di ciò, è stato previsto – con diversi interventi normativi succedutisi in un breve intervallo di tempo – un obbligo per le municipalità minori di dare corso alla gestione associata delle funzioni fondamentali (2). La nuova di( 1 ) I tentativi di razionalizzazione dell’articolazione in piccoli Comuni dell’amministrazione territoriale italiana si sono tradotti in una lunga serie di interventi normativi, anche precedenti all’art. 30 del r.d. 383/1934 (con cui si perseguì autoritativamente un’effettiva riduzione del numero delle amministrazioni comunali); nel dopoguerra vanno segnalate in una prima fase le note dinamiche di espansione del numero delle municipalità, a partire dalla legge 71/1953 e varie altre disposizioni successive, e i tentativi successivi di recuperare l’efficienza di gestione incentivando le fusioni tra Comuni e introducendo vari meccanismi collaborativi. ( 2 ) Cfr. per commenti specifici in materia, oltre a quanto esposto di seguito, G. Marinuzzi, W. Tortorella, Lo stato dell’arte dell’associazionismo intercomunale, in Amministrare, 2013, 1, pp. 133 ss.; A. Bianco, Spending review, le novità per le gestioni associate, in Comuni d’Italia, 2012, 4-5, pp. 42 ss.; 150 GIURISPRUDENZA sciplina statale si è peraltro così andata a sovrapporre a una competenza che – dopo la riforma del titolo V – veniva riconosciuta come competenza residuale posta in capo alle Regioni, essendo stata attribuita a queste ultime la potestà di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul proprio territori (3). In tale contesto si pone quindi come una questione preliminare quella dell’individuazione del titolo legittimante di un simile intervento statale (4) – tra determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali e coordinamento della finanza pubblica – per poter poi apprezzare la normativa statale nella sua portata concreta (5), e gli spazi che residuano per l’applicazione di scelte specificamente regionali. La disciplina statale che è così intervenuta ponendo obblighi di gestione associata a carico degli enti comunali di ridotte dimensioni si è presentata peraltro, in concreto, come estremamente pervasiva: non è solo l’obbligatorietà quale fattore che entra in tensione con l’autonomia locale (dei Comuni coinvolti) a costituire un profilo problematico, ma anche il livello di dettaglio e la natura delle modalità individuate per l’esercizio associato si pongono come elementi ulteriormente invasivi non solo della sfera di autonomia comunale, ma anche delle prerogative di disciplina legislativa della materia proprie dell’ente regionale. I profili di maggiore rilevanza dell’intervento statale sono quindi due: l’obbligatorietà della gestione associata e le modalità concrete di disciplina di tale gestione. Ed entrambi sono profili che incidono differentemente sull’autonomia, tanto amministrativa locale quanto legislativa regionale. La questione dell’obbligatorietà tout court – in primo luogo – si presenta strutturalmente come un problema di cessione non volontaria di spazi di autonomia a un’istituzione più ampia, al governo della quale però partecipa anche l’ente cedente. A fronte di ciò, ci si deve allora chiedere se vi sia una lesione dell’autonomia connessa alla semplice obbligatorietà dell’esercizio associato, o se un ulteriore proE. Vigato, Come cambia il sistema dei piccoli Comuni e delle province in Italia?, in Il Diritto della Regione, 2011, 2; G. Carullo, Obbligo di esercizio «associato» delle funzioni e modelli di cooperazione a livello comunale, in Il Foro Amministrativo C.d.S., 2013, pp. 2879 ss. Per una prospettazione del tema precedente alle riforme qui analizzate, cfr. G. Castronovo, L’accorpamento dei piccoli Comuni contribuirà al risanamento dei nostri conti pubblici, in L’Amministrazione italiana, 2006, pp. 1457 ss. ( 3 ) Sulla competenza regionale in materia di forme associative comunali, con speciale attenzione alle esperienze di disciplina delle Comunità montane, cfr. R. Filippini, A. Maglieri, Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale: verso la creazione di differenti modelli ordinamentali, in Istituzioni del Federalismo, 2008, pp. 341. Per un esame della questione antecedente alla riforma costituzionale, che evidenziava le tendenze di riparto delle competenze poi affermatesi, cfr. G. Rolla, Evoluzione del sistema costituzionale delle autonomie territoriali e nuove relazioni tra i livelli istituzionali. Prospettive costituzionali e profili problematici, in Le Regioni, 2000, pp. 995 ss. ( 4 ) Cfr. infra §§ sub 3. ( 5 ) Cfr. infra § 4.1. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 151 filo da considerare – pur nel carattere forzoso dell’accesso alla gestione condivisa – sia costituito dalla presenza di una rappresentanza nelle istituzioni sovra-comunali; in altri termini, va verificato se il concorrere del singolo Comune a determinare la linea politica e di amministrazione della gestione associata delle funzioni sia una garanzia sufficiente per la conservazione dell’autonomia e, nell’apprezzare tale profilo, si deve allora valutare quale natura e consistenza assumono – in concreto – le forme associate prescritte (6). Infatti, l’obbligo di conferimento in comune delle funzioni delle municipalità demograficamente minori – private della responsabilità su servizi, strutture e risorse finanziarie proprie, disponendo la loro pratica attribuzione a nuovi enti o nuove modalità di gestione – non necessariamente finisce per svuotare il ruolo istituzionale dell’ente associato. Le nuove dimensioni istituzionali integrano certamente figure non presenti nella tipologia costituzionale degli enti costitutivi della Repubblica, e sono prive di legittimazione democratica diretta; a fronte di ciò, tuttavia, va valutato in secondo luogo se la disciplina del loro funzionamento integra la mera promozione (pur forzosa) di entità associative attraverso le quali i Comuni possano meglio esercitare alcune delle proprie funzioni (fermo restando il rispetto di un nucleo centrale di attribuzioni, da un lato, e la persistenza di un ruolo – per il singolo Comune – effettivamente determinante degli indirizzi gestionali dell’ente esponenziale associativo (7), d’altro lato), o se invece la disciplina di dettaglio finisce per ridurre i Comuni partecipanti a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente il quale dovrebbe assorbire – pressoché integralmente – funzioni, strutture e risorse dell’ente originario (e unico soggetto legittimamente esponenziale della comunità). ( 6 ) Il problema si presenta quindi come di definizione dell’area di potere che il singolo ente conserva nell’ambito della nuova struttura associativa; struttura che esso stesso ha concorso – paritariamente – a costituire. In questo senso, sotteso al fenomeno delle gestioni associate vi è un carattere pattizio, che segna strutturalmente questo genere di esperienze aggregative come un’ipotesi di convenzione pubblicistica nella quale le cessioni di autonomia sono operate però di norma su base volontaria; il presentarsi della costituzione della gestione associata in termini di obbligo stempera quindi – nella disciplina da ultimo approvata, e qui analizzata – la natura privatistica che tradizionalmente ha costituito una chiave di lettura per il fenomeno delle gestioni associate. Cfr. per spunti sulla natura paritaria degli istituti associativi A. Travi, Le forme associative tra gli enti locali verso i modelli del diritto comune, in Le Regioni, 1991, pp. 380 ss. ( 7 ) Mentre si può diversamente argomentare sul se, da un lato, alcune funzioni debbano necessariamente rimanere all’ente comunale originario (per non svuotarne del tutto il significato), d’altro lato per garantire il rispetto dell’autonomia comunale certamente è richiesta una sorta di «controllo analogo» – del tipo di quello richiesto nell’in house providing, seppure attenuato – per poter qualificare la gestione associata come un’effettiva emanazione dell’ente comunale, e non come soggetto distinto e sovraordinato allo stesso, che ne svuota il ruolo istituzionale. 152 GIURISPRUDENZA 2. La normativa in materia di gestioni associate comunali obbligatorie 2.1. Gli interventi del legislatore statale in prospettiva di spending review Le prime formulazioni della legislazione statale intervenuta a dettare obblighi associativi comunali nella nuova ottica della spending review sono state estremamente penalizzanti dell’autonomia; l’intento di ridurre la spesa pubblica, razionalizzando l’esercizio delle funzioni delle municipalità minori, si è infatti tradotto anche in un forte depotenziamento della rappresentatività (8). L’impostazione seguita non solo privava i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative e di gestione dei servizi pubblici, ma – quanto all’organizzazione – venivano soppresse anche le relative Giunte e Consigli comunali. Nelle formulazioni successive si è invece fatta salva la perdurante presenza delle assemblee, ma con forte riduzione dei relativi costi vista la soppressione di ogni emolumento per le relative cariche (9). In questo contesto, i Consigli comunali rimangono comunque operativi quali meri organi d’indirizzo (10), e gli stessi sindaci dei Comuni associati divengono semplici rappresentanti nel Consiglio dell’Unione, a fronte dell’assunzione delle funzioni di sindaco da parte dal presidente dell’Unione (11). Il disegno perseguito in prima battuta è stato quindi quello di una sostituzione dei Comuni di piccole dimensioni con Unioni obbligatorie degli stessi, senza un’alternativa altrimenti percorribile (poi invece ammessa nella forma di un possibile esercizio congiunto tramite c.d. convenzione), e – in principio – anche con parallelo depotenziamento degli organi di rappresentanza a livello comunale. Tale impostazione è stata poi temperata dal susseguirsi, in breve lasso di tempo, di numerosi provvedimenti integrativi e correttivi (12). La prima definizione della normativa oggi rilevante in materia di gestioni obbligatorie è dovuta all’art. 14 del DL 78/2010 (13), per mezzo del quale si prevedeva una nuova forma di Unione di Comuni «speciale» e obbligatoria; l’applicazione ( 8 ) Per commenti che sottolineano la problematicità di una tensione tra valori diversi – democraticità ed efficienza – e cercano di individuare le linee tendenziali e i modelli emergenti di bilanciamento tra tali esigenze, cfr. F. Calzavara, L’infinita tensione tra autonomia costituzionalmente garantita e concorso all’equilibrio di bilancio, in particolare con riferimento alla legislazione c.d. emergenziale, in federalismi.it, 2012, 19 e C. Tubertini, La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello?, in Istituzioni del Federalismo, 2012, pp. 695 ss. ( 9 ) La soluzione era peraltro stata prospettata da V. Onida, Meglio tagliare i compensi che eliminare le cariche, in Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2011. ( 10 ) Cfr. co. 9 dell’art. 16. ( 11 ) Cfr. co. 12 dell’art. 16. ( 12 ) Per una rassegna aggiornata di tutti i provvedimenti cfr. ancora G. Marinuzzi, W. Tortorella, Lo stato dell’arte dell’associazionismo intercomunale, cit., pp. 133 ss. ( 13 ) Convertito con legge 122/2010. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 153 di questo meccanismo, che doveva coinvolgere i Comuni con popolazione al di sotto dei 1.000 abitanti, veniva peraltro tenuta in sospeso dalla mancata adozione del DPCM che – adottato su intesa conclusa in Conferenza unificata – avrebbe dovuto procedere ad individuare la soglia demografica minima che le istituende Unioni avrebbero dovuto raggiungere. L’inerzia registrata in materia, con la mancata leale collaborazione sull’individuazione del livello minimo di popolazione da aggregare nelle gestioni associate, veniva tuttavia superata dal DL 98/2011 (14). Alla mancata intesa sullo schema di DPCM si è infatti supplito introducendo una puntuale disciplina della consistenza demografica delle gestioni associate, fissata in 5.000 abitanti o nel quadruplo del numero degli abitanti del Comune partecipante che presenta minor popolazione. Su tale assetto normativo è successivamente intervenuto l’art. 16 del DL 138/ 2011 (15), che ha innovato profondamente la materia, nonché l’art. 19 del DL 95/ 2012 (16), il quale ha modificato entrambe le disposizioni precedentemente citate, definendone l’assetto normativo su cui poi la Corte costituzionale è potuta intervenire – salvandone in gran parte l’impostazione – con le sentenze 22/2014 (17) e 44/2014 (18). Per quanto riguarda tale assetto normativo, assunto da ultimo dalle disposizioni statali, l’art. 19 DL 95/2012 è intervenuto sulla disciplina delle gestioni associate comunali (19) in primo luogo modificando la disposizione di base, cioè l’art. 14 del DL 78/2010, nella parte in cui individuava il ventaglio delle funzioni fondamentali comunali da svolgersi obbligatoriamente in forma associata (20). Rimane ferma poi la competenza regionale di individuazione della dimensione territoriale ottimale per lo svolgimento associato delle funzioni, con un limite minimo di 10.000 abitanti per ciascuna Unione «ordinaria» nel caso non intervenga una diversa determinazione regionale (21). In luogo dell’Unione è inoltre ancora ( 14 ) Convertito con legge 111/2011. ( 15 ) Convertito con legge 148/2011. Cfr. C. D’Andrea, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni. Alcune note a commento dell’art. 16 della «manovra bis», in federalismi.it, 2011, 20. ( 16 ) Convertito con legge 135/2012. ( 17 ) Intervenuta sui co. 1, 3 e 4, dell’art. 19. ( 18 ) Intervenuta sui co. 2, 5 e 6 dell’art. 19 (oltre che per l’art. 16 del DL 138/2011, precedente all’ultima modifica). ( 19 ) Mentre l’art. 20 ha favorito i processi di fusione comunale, prevedendo dall’anno 2013 un incentivo finanziario pari al 20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2010 a favore dei Comuni che danno luogo alla fusione. ( 20 ) Individuazione in un primo momento operata per rinvio alla disciplina attuativa del federalismo fiscale (con approccio provvisorio e settoriale), e poi invece in via stabile e generale; cfr. infra § 3.1. ( 21 ) Il co. 5 dell’art. 19 prevede, entro 2 mesi dall’entrata in vigore del DL 95/2012 (7 luglio 2012), la possibilità per le Regioni di stabilire limiti demografici diversi (altrimenti previsti in almeno 5.000 abitanti, ovvero 3.000 per i territori montani) per le Unioni «speciali» eventualmente costituite dai Comuni fino a 154 GIURISPRUDENZA ammesso l’impego di una convenzione di durata almeno triennale, ferma l’obbligatoria trasformazione in Unione in caso di verifica negativa dell’efficienza ed efficacia dell’azione concreta di tale forma alternativa di gestione associata (22). Il DL 95/2012 è intervenuto (23) anche sui co. 1-16 dell’art. 16 del DL 138/ 2011, rendendo facoltativa la costituzione di Unioni di Comuni «speciali» per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, distinte da quelle costituite ai sensi dell’art. 32 TUEL (24); Unione di Comuni ex art. 32 del TUEL che è stata inoltre in parte ridisegnata dal co. 3 dell’art. 19 DL 95/2012, mentre il co. 4 prevedeva che i Comuni fino a 5.000 abitanti che fanno parte di una Unione di Comuni già costituita potessero optare – in luogo della disciplina speciale dell’art. 16 modificato – anche per la disciplina dell’art. 32 del TUEL. Mentre la disciplina dell’art. 32 rimane più aderente al ruolo classico dell’Unione di Comuni, la costituzione di una Unione speciale comportava più radicalmente la perdita – da parte degli enti partecipanti – dell’autonomia economicofinanziaria e contabile, della titolarità dell’autonomia impositiva dei tributi locali nonché di quella patrimoniale, le singole municipalità dovendo passare a svolgere attraverso l’ente condiviso tutte le funzioni e i servizi (25). I Comuni fino a 1.000 abitanti che avessero optato per la costituzione dell’Unione speciale perdevano inoltre la Giunta, ma non il Consiglio (26), mentre in ogni caso veniva prevista una rideterminazione in diminuzione dei componenti del Consiglio e della Giunta comunali (27). Sempre con disciplina specifica per le Unioni speciali, infine, veniva introdotta una disposizione che prevede il loro assoggettamento al Patto di stabilità interno (28), fermo restando che i Comuni fino a 1.000 abitanti sono in ogni caso esclusi da tale obbligo (sia che avessero optato per l’Unione speciale sia che aderiscano alla normale Unione di Comuni). In sostanza, in esito a questa evoluzione della disciplina, i Comuni fino a 5.000 abitanti (29) sono stati obbligati a svolgere le funzioni fondamentali in forma asso1.000 abitanti ai sensi dell’art. 16 riformulato. La determinazione della popolazione di riferimento viene effettuata sulla base del criterio previsto dall’art. 156 del TUEL, considerando la popolazione residente alla fine del penultimo anno precedente a quello di riferimento, secondo i dati ISTAT. ( 22 ) Cfr. art. 30 TUEL. ( 23 ) Cfr. co. 2 dell’art. 19. ( 24 ) Sul carattere speciale di quelle Unioni cfr. infra – al § 5 – l’intervento soppressivo operato dalla legge 56/2014. ( 25 ) Cfr. co. 2 dell’art. 19. ( 26 ) Cfr. co. 13 dell’art. 19. ( 27 ) Cfr. co. 17 dell’art. 16. ( 28 ) Cfr. co. 3 dell’art. 19; per prime considerazioni sistematiche sul ruolo del patto di stabilità interno per i piccoli Comuni, cfr. già I.R. Pulli, Il patto di stabilità interno nei piccoli Comuni, in L’Amministrazione italiana, fasc. 7-8, 2004, pp. 1010 ss. ( 29 ) Ovvero fino a 3.000 abitanti se appartenenti o appartenuti a Comunità montane. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 155 ciata attraverso – in alternativa – Unione di Comuni o convenzione (30); i Comuni fino a 1.000 abitanti hanno potuto invece scegliere se costituire – sempre in alternativa – un’Unione di Comuni «ordinaria» (art. 32 del TUEL) o un’Unione di Comuni «speciale» (art. 16, co. 113, legge 148/2011). Il limite demografico minimo posto per tali gestioni associate, fatto salvo diverso limite eventualmente individuato dalla Regione, è inoltre stato fissato in 10.000 abitanti per le Unioni «ordinarie» e in 5.000 abitanti per le Unioni «speciali» (31). 2.2. Gli interventi «attuativi» del legislatore regionale veneto A fronte di questo quadro nazionale, la Regione Veneto – come altre Regioni italiane (32) – ha introdotto proprie disposizioni in materia, basate sulla competenza residuale relativa alle forme associative degli enti locali (33). Ciò non solo predisponendo la necessaria disciplina di attuazione amministrativa delle previsioni normative menzionate (34), ma anche e soprattutto approvando specifiche disposizioni regionali di rango legislativo (per le quali si pone quindi il problema di tutelarne – delimitandone i confini – le sfere di competenza). La disciplina veneta in materia gode peraltro anche di un fondamento statutario, la legge regionale statutaria 1/2012 all’art. 12 prevedendo una base positiva specifica per l’esercizio associato delle funzioni degli enti locali (35). Pur muovendo dalle relative premesse di principio, che fondano su un titolo competenziale autonomo della Regione i possibili interventi legislativi di regolazione delle gestioni associate, è stata poi adottata la legge regionale 18/2012 che si pone invece in diretta attuazione della prima versione dell’intervento regolativo statale, come visto in precedenza. ( 30 ) Esercitando almeno tre funzioni fondamentali entro il 1o gennaio 2013 e tutte le altre funzioni entro il 1o gennaio 2014. ( 31 ) Ancora, con una riduzione a 3.000 per Comuni di Comunità montana. ( 32 ) Per commenti a un’esperienza regionale di disciplina delle gestioni associate cfr. ad es. A. Margheri, L’esperienza delle gestioni associate in Lombardia, in Informator, fasc. 3, 2013, pp. 9 ss. ( 33 ) Sulla competenza regionale in materia di forme associative degli enti locali, in generale, cfr. ancora quanto già richiamato alla nota 3. ( 34 ) Cfr. il D.G.R. n. 1865 del 15/11/2011 di determinazione del limite demografico minimo per i Comuni obbligati all’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali. ( 35 ) In questo senso, «al fine di favorire la migliore funzionalità nell’esercizio dei compiti comunali e più elevati livelli di qualità e di efficienza nell’erogazione dei servizi, di realizzare dinamiche di sviluppo armonico dei territori, di conseguire obiettivi di contenimento della spesa pubblica e di ottenere i migliori risultati nella programmazione finanziaria e di bilancio, la legge regionale: a) promuove e disciplina forme di esercizio associato delle funzioni e dei servizi da parte dei Comuni, particolarmente di piccole dimensioni o situati nelle zone montane o economicamente svantaggiate, incentivando in via prioritaria le fusioni; b) prevede i casi di esercizio obbligatoriamente associato di funzioni e servizi; c) stabilisce i procedimenti, anche sostitutivi, da attuare in caso di mancato rispetto dell’obbligo di cui alla lettera b)». 156 GIURISPRUDENZA La legge regionale è cioè stata approvata in esplicita attuazione dell’art. 14, co. 28 e 30, del DL 78/2010 e dell’art. 16 DL 138/2011 (36). Le sue disposizioni, in coerenza con ciò, sono dirette a valorizzare ed incentivare la costituzione di gestioni associate tra i Comuni, promuovendo – in particolare – lo sviluppo delle Unioni e delle convenzioni, nonché la fusione di Comuni, al fine di assicurare l’effettivo e più efficiente esercizio delle funzioni e dei servizi e individuando, tramite un processo concertativo, la dimensione territoriale ottimale e le modalità di esercizio associato. Al di là dal processo di riordino territoriale (attraverso l’individuazione della dimensione ottimale e omogenea per area geografica (37), che qualifica proceduralmente l’implementazione delle gestioni associate con piani di riordino territoriale), nella legge regionale 18/2012 è specificamente rilevante – sul piano sostanziale, per il suo combinarsi con la disciplina statale in materia di obbligo di gestione associata – proprio l’individuazione delle forme e delle modalità per l’esercizio delle funzioni da parte dei piccoli Comuni, in particolare con promozione e sostegno sia dell’esercizio in forma associata di funzioni e servizi comunali, sia della fusione vera e propria dei Comuni. La legislazione regionale, in altri termini, rinnova la normativa statale, incorporandola nell’ordinamento regionale non solo con disposizioni attuative ma ricreando un sistema normativo completo di disciplina delle gestioni associate comunali (pur coerente con la disciplina statale, cui in ampia parte si rinvia o alla quale comunque ci si rifà in forza di un richiamo iniziale). Il capo II è quindi dedicato all’esercizio associato di funzioni e servizi, e riconosce l’obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali ripetendo quanto era già stato introdotto dalla normativa statale (con un rinvio esplicito alle precise disposizioni dei DL sopra citati) (38), mentre al capo III vengono definite meglio le diverse forme associative praticabili, individuate con maggiore originalità nelle Unioni di Comuni (39), nelle convenzioni (40) e nei consorzi (41) (di cui – in questo caso – viene parzialmente fissata anche la disciplina) (42). Fuori di tali ipotesi, di cui si deve accertare di volta in volta la compatibilità ( 36 ) Va notato che la titolarità legislativa regionale in materia – in particolare – di determinazione delle dimensioni territoriali ottimali dell’associazionismo è stata riconosciuta anche dall’art. 14, co. 30, del DL 78/2010. ( 37 ) Cfr. artt. 7 e 8 della legge regionale 18/2012. ( 38 ) Cfr. artt. 2 e 3 della legge regionale 18/2012. ( 39 ) Cfr. art. 4 della legge regionale 18/2012. ( 40 ) Cfr. art. 5 della legge regionale 18/2012. ( 41 ) Cfr. art. 6 della legge regionale 18/2012. ( 42 ) Rinviando comunque, per la prima ipotesi – delle Unioni di Comuni – in gran parte al TUEL (cfr. art. 32 TUEL). LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 157 con le disposizioni statali (43), il problema della disciplina regionale riproduttiva della normativa nazionale si presenta nei termini dell’esigenza di verificare il carattere fisso o mobile del rinvio operato (44). Solo con un rinvio alla fonte il modificarsi della disciplina statale in materia di gestioni associate comunali determinerebbe infatti un’automatica ri-articolazione dell’obbligo anche a livello regionale, mentre il carattere recettizio del richiamo operato dalla legge 18/2012 farebbe propendere per un’esigenza di aggiornamento della disciplina regionale in materia, all’affermarsi di nuove disposizioni statali (45). Infatti, la rinnovazione in fonte regionale dell’obbligo di gestione associata non può essere ritenuta esonerante, di per sé stessa, dall’esigenza di conformare ulteriormente la disciplina regionale a ulteriori e diverse opzioni normative centrali, qualora anche esse si venissero a trovare coperte da un titolo legittimante l’intervento (come in queste ipotesi il coordinamento della finanza pubblica) che fa sì che i relativi precetti si possano imporre alla volontà del legislatore regionale (per altro anch’esso legittimato a normare la materia, ma in un contesto di concorrenza di competenze (46)). La legislazione regionale non ha quindi operato né una rinnovazione della fonte statale, né un rinvio alla fonte statale pare chiaramente prospettabile nella sua più ampia accezione. Una nuova disciplina approvata a livello centrale – che non dovesse intervenire in senso emendativo, come avvenuto finora sulle disposizioni sopra citate – non pare possa pertanto essere applicata (automaticamente) passando attraverso la disposizione legislativa regionale; ciò perché anche l’eventuale carattere mobile del rinvio così operato sarebbe comunque limitato alle «successive modificazioni» della precisa disposizione cui il legislatore regionale si è riferito, la tecnica normativa seguita – con individuazione precisa del riferimento normativo – deponendo per un carattere al limite sì parzialmente flessibile del rinvio, ma limitato ai confini degli interventi di modifica delle disposizioni esistenti. Al contempo, una eventuale modifica soppressiva e novativa non potrebbe nemmeno ri( 43 ) Sulla prevalenza e legittimità di queste ultime cfr. infra il paragrafo 4.1. dove si citano le poche norme incostituzionali perché invasive di sfere di competenza esclusivamente regionali senza esigenza di coordinamento, e il perché si fa invece salvo l’impianto generale della normativa statale. ( 44 ) Sul tema cfr. A. Bernardini, Produzione di norme giuridiche mediante rinvio, Milano, 1966. ( 45 ) A riguardo si deve distinguere l’automatico aggiornamento alle modifiche emendative della disposizione statale cui la legge regionale ha fatto puntuale riferimento (ad es. quelle operate da ultimo dal citato art. 19), che si possono considerare recepite anche dalla legge regionale che ha normato con un rinvio fisso, dai casi di integrale rinnovazione della disciplina nazionale, con abrogazione dei DL in questione e loro sostituzione. In tali ipotesi, infatti, la legge regionale verrebbe superata dal nuovo assetto normativo, e non si potrebbe operare una traslazione del rinvio alle disposizioni radicalmente nuove (potendosi applicare alle nuove fattispecie solo quanto è autosufficiente, della normativa regionale, e non in contrasto con la nuova normativa statale). ( 46 ) Cfr. infra sui parametri legittimanti i §§ sub 3. 158 GIURISPRUDENZA manere inapplicata semplicemente perché sostituita da una legislazione regionale che ha occupato la materia estromettendo – per una sorta di preemption del livello territoriale – ulteriori interventi statali. Manca infatti una rinnovazione della fonte, inammissibile nel perdurare di un titolo competenziale legittimante l’intervento statale), così che – viceversa – al ricorrere di interventi statali in materia, se anch’essi coperti da titoli competenziali adeguati come quelli registrati per le disposizioni sopra citate, si dovrà comunque procedere alla diretta applicazione degli stessi, così parzialmente vanificando la rilevanza pratica del carattere mobile o meno del rinvio. L’esito auto-applicativo della legge statale sarebbe in effetti in pratica il medesimo: o considerando il rinvio operato dalla legge regionale come di tipo non redazionale se le modifiche gravassero sulle disposizioni esistenti (47), o applicando direttamente la legge statale a discapito di quella regionale se gli interventi della prima si presentassero come radicalmente soppressivi delle disposizioni originarie richiamate (e il legislatore regionale potrà/dovrà – in tal caso – al più aggiornare la propria disciplina al nuovo quadro normativo statale) (48). Non mancano peraltro anche profili originali nella legislazione regionale veneta, di intervento propriamente ricadente nella competenza regionale, che rimarrebbero in ogni caso impregiudicati. Così, pur fermo il carattere obbligatorio della gestione associata, un profilo peculiare – rispetto all’impostazione statale – è costituito dall’introduzione da parte della legge regionale 18/2012 di misure di sostengo e incentivazione delle forme associative: con una specifica disciplina per l’accesso alle risorse erogate a tal fine (49), la previsione di contributi (50) e la predisposizione di un supporto formativo e tecnico-organizzativo (51). Provvidenze, tutte quelle citate, per l’accesso alle quali è necessaria l’iscrizione alla neoistituita anagrafe delle forme di gestione associata (52). Pur non essendo facoltativa – quindi – la gestione associata come è prospettata dalla legislazione vigente della Regione Veneto costituisce una scelta organizzativa sostenuta anche in modo premiale, e non solo sanzionatorio per il caso di mancata realizzazione. etc. ( 47 ) Ad es. modifica di soglie demografiche, nuove modalità operative delle forme associate esistenti ( 48 ) Tali riforme della disciplina statale sono infatti sempre possibili purché connesse al coordinamento della finanza pubblica e, come tali, si porrebbero sempre e comunque come prevalenti sulla disciplina regionale preesistente e contrastante. ( 49 ) Cfr. art. 9 della legge regionale 18/2012. ( 50 ) Cfr. art. 10 della legge regionale 18/2012. ( 51 ) Cfr. art. 11 della legge regionale 18/2012. ( 52 ) Cfr. art. 12 della legge regionale 18/2012. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 159 3. I parametri costituzionali rilevanti per l’introduzione di un obbligo di gestione associata 3.1. La definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali, ex lett. p) dell’art. 117, co. 2 della Costituzione Sulla gestione associata delle funzioni comunali si registrano quindi interventi tanto del legislatore statale, quanto del legislatore regionale, e si deve pertanto chiarire quali siano i titoli competenziali sulla cui base i diversi corpi normativi sono stati fondati. Si pone infatti – a fronte della non chiara riconducibilità dell’obbligo alla competenza statale o regionale – un problema di costituzionalità, su cui la Corte ha potuto pronunciarsi con le sentenze 22/2014 e 44/2014. Tali pronunce si presentano come particolarmente importanti anche perché fanno il punto sull’interpretazione – e l’attuazione – della lett. p) del co. 2 dell’art. 117; disposizione invocata come elemento sulla cui base escludere l’ammissibilità di un intervento statale in materia (53). Il titolo materiale così individuato si riferirebbe infatti alle sole «funzioni fondamentali» di enti costituzionali tipici (i Comuni, le Province e le Città metropolitane), la cui definizione è lasciata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. La lett. p) non legittima cioè interventi statali che vadano ad incidere anche sulle modalità di esercizio delle medesime funzioni, o sulle funzioni non fondamentali, o sull’azione di soggetti diversi da quelli tipici. La Corte costituzionale, in base a questo triplice ordine di esclusioni dal titolo legittimante della lett. p), aveva ritenuto – in linea più generale – che tale disposizione fosse rivolta ai soli elementi ad oggetto ampio caratterizzanti l’assetto funzionale locale (54), ogni più specifico intervento dovendo essere lasciato a diverse potestà legislative (concorrenti o residuali). La legislazione sopra analizzata, peraltro, è rilevante anche in questa prospettiva; essa ha infatti individuato – in modo prima provvisorio, poi stabile – le singole funzioni fondamentali, caratterizzate come tali appunto per il loro oggetto generale (lasciato poi a una disciplina più dettagliata, fondata su altri titoli competenziali). ( 53 ) Sul tema delle funzioni fondamentali comunali in generale, cfr. G. Meloni, Le funzioni fondamentali dei Comuni, in federalismi.it, fasc. 24, 2012 e F. Merloni, Una new entry tra i titoli di legittimazione di discipline statali in materie regionali: le funzioni fondamentali degli Enti locali, in Le Regioni, 2010, pp. 794 ss. ( 54 ) La lett. p) – in particolare – «indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali»; così Corte cost. 220/2013. 160 GIURISPRUDENZA In passato, l’art. 2 della legge 131/2003 (55) aveva assegnato al Governo la delega per l’individuazione delle funzioni fondamentali di cui alla lett. p). Si prevedeva a tal fine – quanto a criteri e principi direttivi – che nell’attività di individuazione si dovesse perseguire una valorizzazione dei principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione nella allocazione delle funzioni, in modo da privilegiare l’esercizio da parte del livello che – per caratteristiche dimensionali e strutturali – avrebbe garantito l’ottimale gestione; ciò «anche mediante l’indicazione dei criteri per la gestione associata tra i Comuni» (56). Una specifica attenzione veniva quindi posta proprio sul tema delle gestioni associate, onerando il Governo – nell’esercizio della delega – a prevedere in generale strumenti di leale collaborazione (57) e, più nel particolare, a disporre per la valorizzazione delle «forme associative anche per la gestione dei servizi di competenza statale affidati ai Comuni» (58). La delega della legge La Loggia non è stata peraltro esercitata, ma una prima e provvisoria individuazione delle funzioni fondamentali si è avuta nondimeno successivamente nell’ambito dei provvedimenti di attuazione del c.d. federalismo fiscale. L’art. 21, co. 2, della legge 42/2009 richiedeva infatti una definizione delle funzioni fondamentali per poter determinare il riparto dei fondi perequativi di Comuni e Province in base al fabbisogno standard o alla capacità fiscale, e tale delega è stata poi attuata con l’art. 3 del DLgs 216/2010 (59). Quando poi il legislatore statale è intervenuto – come visto – a disciplinare le gestioni associate comunali, in un primo momento si è continuato a fare riferimento alle funzioni fondamentali quali individuate provvisoriamente nell’ambito della disciplina sul federalismo fiscale (60); anche in questo caso, l’individuazione – operata mediante rinvio – era a fini settoriali (61) e a carattere provvisorio (62): perdurava quindi l’inattuazione della lett. p), mancando nell’ordinamento le necessarie disposizioni stabili e a portata generale che potessero soddisfare tutte le esigenze di regolazione della materia. ( 55 ) Modificato dall’art. 1 della legge 140/2004 e, successivamente, dall’art. 5 della legge 306/2004. ( 56 ) Cfr. co. 4, lett. c), dell’art. 2 della legge 131/2003. ( 57 ) Cfr. co. 4, lett. d), dell’art. 2 della legge 131/2003. ( 58 ) Cfr. co. 4, lett. n), dell’art. 2 della legge 131/2003. ( 59 ) Per un esame critico di quale ruolo svolga l’individuazione delle funzioni fondamentali nell’ambito del c.d. federalismo fiscale, cfr. R. Bin, Verso il federalismo fiscale o ritorno al 1865?, in Le Regioni, 2010, pp. 721 ss., sottolineando come la logica che connette funzioni e finanziamento, individuate dal centro, non sia orientata all’autonomia ma all’unificazione amministrativa. ( 60 ) Cfr. l’art. 14, co. 27 del DL 78/2010; disposizione che è stata poi sostituita da quella sopra citata e impugnata innanzi alla Corte costituzionale. ( 61 ) Per i fini «dei co. da 25 a 31» (cioè per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali tramite convenzioni o Unioni di Comuni). ( 62 ) La sua efficacia essendo stata temporalmente limitata «fino alla data di entrata in vigore della legge con cui sono individuate le funzioni fondamentali di cui all’art. 117, co. 2, lett. p), della Costituzione». LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 161 Solo con i provvedimenti modificativi sopra analizzati (63) è quindi stato ridefinito il contenuto del co. 27 dell’art. 14, individuando in via definitiva e con efficacia generale le funzioni fondamentali dei Comuni; ciò tramite un’elencazione più ampia di quella già conosciuta nell’ambito della normativa sul federalismo fiscale, che espanderebbe così la portata del titolo legittimante l’intervento statale coperto da competenza esclusiva. Sulla legittimità di una simile accezione estensiva delle funzioni a carattere fondamentale, peraltro, la Corte costituzionale aveva avuto occasione di pronunciarsi, con la sentenza 148/2012, già quando l’individuazione delle funzioni era stata operata per rinvio alla disciplina sul federalismo fiscale. Infatti, nella prospettiva regionale era apparsa già censurabile la possibilità di includere nel catalogo delle funzioni «fondamentali» anche alcune funzioni che sarebbero di tipo «amministrativo-gestionale», in quanto volte alla cura concreta di interessi; la Corte – tuttavia – nel suo giudizio non ha evidenziato spazi di irragionevole estensione, ed ha invece apprezzato l’esigenza per lo Stato di colmare una lacuna di disciplina attraverso, appunto, l’individuazione del catalogo delle funzioni (64). È così lo Stato il soggetto che deve individuare le funzioni che compongono l’intelaiatura essenziale del ruolo dell’ente locale (cui non possono essere estranee anche le funzioni concrete che attengono ai servizi pubblici), ma ciò non lederebbe l’autonomia degli altri livelli di governo in quanto poi la disciplina di dettaglio di dette funzioni si colloca, in ogni caso, nella potestà statale o regionale a seconda di dove ricada la competenza sulla materia cui la funzione si riferisce. Mentre la legge statale si pone come attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, l’organizzazione delle stesse rimane cioè comunque attratta alla competenza regionale, se un titolo materiale concorrente o residuale esiste. La potestà legislativa regionale non viene pertanto menomata dalla mera individuazione delle funzioni, ma la questione ulteriore – rilevante per il tema specifico delle gestioni associate comunali – è se il disporre nel dettaglio con legge statale sulle modalità di esercizio di quelle funzioni fondamentali (obbligatoriamente da gestire congiuntamente tra piccoli Comuni) ecceda l’oggetto dell’«individuazione» delle funzioni, manifestandosi invece come disciplina concreta delle stesse. Inoltre, accanto a questo profilo relativo all’oggetto della lett. p), la questione si è poi posta anche nei termini della definizione del soggetto destinatario della di- ( 63 ) In particolare, la lett. a) del co. 1 dell’art. 19 del DL 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 135/2012, aveva provveduto a riscrivere il catalogo delle funzioni. ( 64 ) Per un commento a tale sentenza si rinvia a A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie «alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni», in Le Regioni, 2012, pp. 1137 ss. 162 GIURISPRUDENZA sciplina statale individuativa delle funzioni fondamentali. Lo Stato infatti – con la normativa analizzata – interviene imponendo Unioni di Comuni quali soggetti titolari delle funzioni, e – quindi – si rivolge a soggetti diversi da quelli tipici della lett. p) (65). Proprio in questa prospettiva la questione è stata affrontata dalla Corte costituzionale, anche nelle due sentenze 22/2014 e 44/2014. Più in particolare, lo Stato non disporrebbe della competenza a dettare una disciplina vincolante e generale per gli enti locali differenti da quelli espressamente indicati dalla lett. p). Quello delle forme aggregative degli enti locali sarebbe infatti un ambito affidato – dopo la riforma del titolo V – alla potestà regionale residuale, come precisato dalla Corte costituzionale anche in materia di Comunità montane (66); con la disciplina analizzata in precedenza – invece – lo Stato ha disciplinato gli organi di governo dell’Unione, quale ente diverso ed autonomo dalle amministrazioni di cui si compone, come tale ricadente fuori della potestà legislativa statale. Potestà che la lett. p) limita non solo sul piano oggettivo all’individuazione delle funzioni «fondamentali», ma anche – sul piano soggettivo – agli enti locali di rilievo costituzionale. 3.2. La materia trasversale «coordinamento della finanza pubblica» Il titolo competenziale che ha invece legittimato una disciplina statale estesa anche ai profili di dettaglio – di organizzazione e gestione dell’esercizio delle funzioni fondamentali – è quello del coordinamento della finanza pubblica; coordinamento quale mera competenza concorrente – anziché esclusiva come quella ex lett. p) del co. 2 – ma che si risolve in una pervasiva funzione statale, con la quale il legislatore centrale è stato abilitato a conformare anche materie che altrimenti sarebbero di competenza regionale (quale appunto la competenza residuale sulle forme associative degli enti locali) (67). ( 65 ) In quanto il riferimento agli enti locali di rilievo costituzionale si deve ritenere tassativo e nella elencazione della lett. p) – così come in quella dell’art. 114 – manca un richiamo espresso all’Unione di Comuni (cfr. Corte cost. 237/2009, punto 23 del Considerato in diritto). ( 66 ) Sul carattere residuale della materia «Comunità montane» (ma limitabile da interventi statali su materie trasversali), cfr. G. Di Cosimo, C’erano una volta le materie residuali (nota a sent. 237/2009), in Le Regioni, 2010, pp. 616 ss.; P. Vipiana, In margine a due recenti pronunce della Corte costituzionale sulla Comunità montana: commento congiunto delle sentenze nn. 244 e 456 del 2005, in Quaderni regionali, 2006, pp. 699 ss.; T.F. Giupponi, Le Comunità montane tra legislazione statale, legislazione regionale e autonomia locale: il regime delle incompatibilità, in Le Regioni, 2006, pp. 544 ss.; C. Mainardis, Regioni e Comunità montane, tra perimetrazione delle materie e «controllo sostitutivo» nei confronti degli organi, ibidem, pp. 122 ss.; G. Sciullo, L’ordinamento degli enti locali e la competenza legislativa regionale, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, pp. 1035 ss.; S. Mangiameli, Titolo V, ordinamento degli enti locali e Comunità montane, in Giurisprudenza costituzionale, 2005, pp. 2122 ss. ( 67 ) Sulla portata ampia del coordinamento, connessa alla sua natura teleologica, tra l’ampia letteratura LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 163 Infatti, le disposizioni legislative statali adottate per il coordinamento della finanza pubblica sono state riconosciute come idonee ad incidere su materie di competenza regionale, anche di tipo residuale, determinando quindi una parziale compressione degli spazi di autonomia (68). A questo riguardo, in generale, qualora una normativa interferisca con più materie, attribuite dalla Costituzione a diverse tipologie di potestà legislativa (statale e regionale), va in primo luogo individuato – secondo il criterio di prevalenza – l’eventuale ambito materiale cui affidare la responsabilità della disciplina (69), ovvero – qualora ciò non sia possibile – l’ulteriore criterio di risoluzione della situazione di concorrenza di competenze con cui procedere in seconda battuta è costituito dal principio di leale collaborazione, per permettere un’effettiva gestione congiunta della fattispecie (70). In entrambi i casi, il coordinamento finanziario può allora costituire la base legittimante tramite cui l’intervento legislativo statale diviene idoneo ad operare una conformazione della potestà legislativa regionale; ciò anche in materia di gestioni associate, qualora le esigenze di controllo della spesa si presentino come prevalenti o siano perseguite secondo canoni di leale collaborazione. Quale elemento di ulteriore complessità del caso di specie, inoltre, le disposizioni in materia di obbligo di gestione associata integrerebbero però anche una disciplina di dettaglio ed auto-applicativa che – come tale – non potrebbe essere ricondotta de plano alla nozione di principio fondamentale della materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica. L’imposizione con precetti di carattere imperativo e puntuale di una specifica modalità di gestione delle funzioni non integra infatti la modalità ordinaria di intervento del legislatore statale nell’ambito delle materie di cui all’art. 117, co. 3, dove la disciplina centrale dovrebbe invece limitarsi a disposizioni di principio. La Corte costituzionale ha osservato come – tuttavia – la specificità delle prescrizioni non può escludere di per sé «il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione» (71). A partire da questa considerazione, anche una disciplina di dettaglio – come quella strumentale all’obbligo di gestione associata – può essere costituzionalmente conforme, posto che il legislatore statale è in grado di imsi rinvia a A. Brancasi, La Corte considera rilevante (ma non troppo) la dimensione funzionale delle misure di coordinamento della finanza pubblica, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, pp. 2354 ss.; L. Mercati, Il coordinamento della finanza pubblica: la pervasività di una funzione, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, pp. 643 ss.; A. Brancasi, Coordinamento finanziario ed autoqualificazione di principi fondamentali, in Giurisprudenza costituzionale, 2009, pp. 4534 ss. ( 68 ) Cfr. tra le altre Corte cost. 237/2009, 159/2008, 181/2006 e 417/2005. ( 69 ) Cfr. tra le altre Corte cost. 118/2013, 334/2010, 237/2009 e 50/2005. ( 70 ) Cfr. Corte cost. 50/2008. ( 71 ) Cfr. Corte cost. 430/2007 oltre che il punto 12 del Considerato in diritto di Corte cost. 237/2009. 164 GIURISPRUDENZA porre legittimamente alle Regioni – per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi europei – vincoli alle politiche di bilancio; e tali vincoli di bilancio – derivanti dalla funzione di coordinamento – possono poi manifestarsi, ed essere normativamente tradotti, anche in puntuali limitazioni (indirette) all’autonomia di spesa degli enti territoriali (72). L’ordinamento costituzionale ammette quindi in modo pacifico anche norme statali puntuali, limitative dell’autonomia regionale, purché adottate con l’intento di realizzare in concreto una finalità di coordinamento finanziario che – ontologicamente – ecceda le possibilità d’intervento dei livelli territoriali minori (73). La specificità delle prescrizioni, di per sé, non può allora – in altri termini – escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un rapporto di integrazione normativa obbligata ed essenziale. Ciò avverrebbe appunto nella disciplina in materia di gestioni associate, nella quale il carattere specifico delle disposizioni è finalizzato a realizzare il quadro organizzativo mediante il quale la norma finanziaria di principio in materia di revisione della spesa deve operare (e senza il quale tale operatività verrebbe inevitabilmente meno). Sebbene infatti le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica solo se si limitano a porre obiettivi di riequilibrio (intesi come contenimento transitorio e complessivo della spesa corrente) senza prevedere in modo puntuale strumenti o modalità di limitazione delle uscite (74), nondimeno non sempre l’incidenza di una misura normativa sulla spesa è immediato. Sempre più spesso, invece, la razionalizzazione della spesa pubblica non è connessa a manovre di tipo contabile, ma – con interventi normativi solo indirettamente incidenti sulle disposizioni di bilancio – tale razionalizzazione è perseguita (in modo mediato) attraverso disposizioni che regolano (in modo diretto) organizzazione e funzionamento della PA (75). Le disposizioni censurate – richiedendo ai Comuni con ridotto numero di abitanti la gestione in forma associata di servizi e funzioni pubbliche – perseguono quindi comunque (mediatamente) l’obiettivo di riduzione della spesa pubblica, ( 72 ) Cfr. Corte cost. 236/2013, 182/2011, 207/2010 e 128/2010. ( 73 ) Cfr. Corte cost. 417/2005. ( 74 ) Cfr. Corte cost. 237/2009, 289/2008 e 120/2008. La disciplina di principio dei vincoli finanziari sarebbe compatibile con l’autonomia degli enti territoriali soltanto qualora stabilisca in modo tassativo un limite complessivo d’intervento – avente ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa corrente – lasciando agli enti stessi piena libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa. ( 75 ) Sulla distinzione tra normativa limitativa e vincolistica sia consentito rinviare a F. Guella, Il patto di stabilità interno, tra funzione di coordinamento finanziario ed equilibrio di bilancio, in Quaderni costituzionali, 2012, pp. 585 ss. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 165 pur se (direttamente) incidendo sull’autonomia, disciplinandone le soluzioni organizzative. A parere della Corte, di conseguenza, tale disciplina «anche dove interferisce con l’ordinamento degli enti locali, non perde il carattere strumentale, finalizzato alla riduzione della spesa corrente» (76). A fronte di ciò, l’ordinamento degli enti locali non costituisce l’oggetto principale della normativa statale, ma integra semplicemente il settore in cui operano i meccanismi predisposti dallo Stato – nell’esercizio della funzione di coordinamento – per la riduzione finale della spesa pubblica. La strumentalità agli interessi finanziari unitari (di stabilità) costituisce quindi il fondamento ultimo dell’intervento statale, che ne legittima l’incidenza immediata anche in un’area di competenza regionale quale è la disciplina delle gestioni associate comunali. 3.3. Ulteriori parametri rilevanti, tra tipicità degli enti locali di rilevanza costituzionale e eguale trattamento degli stessi Ulteriori parametri invocati per apprezzare (negativamente) l’intervento dello Stato in materia di gestioni associate sono poi stati rappresentati dagli artt. 133, co. 2, e 118 della Costituzione. Il primo, in particolare, avrebbe assunto rilevanza in quanto l’intervento del legislatore statale – operando uno svuotamento di fatto delle funzioni dei piccoli Comuni, integralmente trasferite ad un ente nuovo e superiore – avrebbe operato surrettiziamente una fusione di enti, fuori dalle procedure tipizzate in Costituzione. Tuttavia, la Corte ha osservato come la disciplina statale riguarda invece le sole modalità di esercizio delle funzioni e dei servizi, non presentando quindi alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni. Anche l’art. 118, co. 1, nel disporre circa l’attribuzione delle funzioni amministrative senza fare alcun riferimento alle Unioni di Comuni precluderebbe un intervento statale che surrettiziamente svuota la consistenza delle competenze comunali. Anche in questo caso non è però configurabile una violazione, perché la mancata previsione dell’Unione tra gli enti cui attribuire le funzioni amministrative non postula affatto il divieto di modificare con legge le modalità di esercizio delle funzioni comunali, disponendo che esse avvengano in forma associata. Infine, anche l’eguaglianza è stata invocata a parametro, in quanto un obbligo destinato a vincolare soltanto una categoria di Comuni (al di sotto di una certa so- ( 76 ) Cfr. punto 6.1. del Considerato in diritto di Corte cost. 44/2014. 166 GIURISPRUDENZA glia demografica) determinerebbe una differenziazione incompatibile con il principio costituzionale della parità tra i diversi enti territoriali che costituiscono la Repubblica, come sancito dall’art. 114 Costituzione (77). Tuttavia, neppure sotto tale profilo la questione si è rivelata fondata, il legislatore potendo ragionevolmente distinguere la disciplina delle condizioni proprie di enti pubblici nei fatti diversi tra loro. 4. I contenuti delle sentenze della Corte costituzionale n. 22 e 44 del 2014 4.1. La legittimità dell’impianto generale e le (poche) disposizioni dichiarate incostituzionali A fronte di tali parametri, la disciplina statale in materia di gestioni associate comunali si trova a godere di un’amplissima copertura legata alla sua ratio di coordinamento finanziario, e – di conseguenza – le uniche disposizioni che la Corte ha dischiarato incostituzionali sono quelle che ricadono al di fuori della funzione di coordinamento. Così, mentre la disciplina dettagliata delle modalità procedimentali e organizzative di funzionamento delle Unioni è stata considerata coessenziale alle esigenze di razionalizzazione della spesa (e quindi al coordinamento della finanza pubblica), sono state invece dichiarate incostituzionali le disposizioni che impongono ai Consigli dei piccoli Comuni di pronunciarsi sulla gestione associata, ed al Consiglio dell’Unione di assumere le proprie decisioni a maggioranza assoluta (78); ciò in quanto tale scelta normativa statale non è motivata da esigenze di risanamento finanziario, ed è quindi illegittimamente invasiva dell’autonomia. È inoltre stata dichiarata incostituzionale, per la stesa ragione, anche la disposizione statale che ( 77 ) Il riferimento non è invece fatto in modo diretto all’art. 3 Costituzione, quale parametro che – esterno al titolo V – non fonderebbe da solo un interesse all’impugnazione in via principale, per mancanza di ridondanza sul riparto delle competenze. Un’altra questione di mancanza di ridondanza affrontata dalla Corte nella vicenda qui in esame è quella connessa alla censura della decretazione d’urgenza in quanto carente dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza. Infatti, il DL che pospone l’operatività delle proprie misure ad una data indefinita, comunque non prevedibile prima di un anno dalla sua entrata in vigore, appariva incompatibile con l’esigenza di immediata applicazione prescritta dalla legge 400/ 1988, in attuazione dell’art. 77 Costituzione. Anche a questo riguardo la Corte ha però ricordato che sono sì ammissibili questioni di legittimità costituzionale – prospettate da una Regione, nell’ambito di un giudizio in via principale – anche in ordine a parametri diversi da quelli riguardanti il riparto delle competenze legislative; tuttavia, deve essere allora possibile riscontrare la ridondanza delle asserite violazioni su tale riparto (cfr. Corte cost. 234/2013, 22/2012, 128/2011, 326/2010, 156/2010, 52/2010, 40/2010 e 341/2009). ( 78 ) Cfr. art. 16, co. 5 e co. 10, del DL 138/2011. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 167 prescrive la presenza di un rappresentante di minoranza dei Comuni nell’ambito dell’Unione (79), in quanto la norma non si trova ad essere giustificata da esigenze di coordinamento della finanza pubblica. La strumentalità al coordinamento finanziario costituisce quindi l’unica giustificazione ammissibile per l’intervento in materia della legislazione statale. Al ricorrere di tale strumentalità – accertata dalla Corte costituzionale nelle sentenze 22 e 44 del 2014 per la gran parte delle disposizioni impugnate – l’intervento legislativo statale persegue un legittimo fine di coordinamento finanziario, che può anche indirettamente incidere sulla competenza regionale in materia di gestioni associate. 4.2. La questione del meccanismo di controllo sull’implementazione della riforma, tra autonomia e poteri sostitutivi La disciplina statale ha inoltre predisposto uno specifico meccanismo di controllo dell’attuazione, introdotto in sede di conversione in legge del DL 95/2012. Al co. 31 quater dell’art. 14 del DL 78/2010, si è così previsto che – nel caso in cui non fosse rispettata la tempistica per l’esercizio associato obbligatorio (80) – il Prefetto assegna ai Comuni inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere; nell’eventualità di un’ulteriore inerzia, il Governo può poi esercitare il potere sostitutivo di cui all’art. 120 della Costituzione, adottando gli atti necessari o nominando un commissario ad acta (81). Analoga disciplina è stata prevista all’art. 16, co. 28, del DL 138/2011 (82). Il potere in questione è stato così attribuito in prima battuta al Prefetto, che lo esercita senza margini di discrezionalità; il fondamento di tale attività di controllo (eventualmente sostitutivo), che si risolve pertanto in una attività di mero accertamento, è stato individuato dalla Corte nello stesso art. 120, co. 2, Costituzione e, quindi, nella tutela dei valori di unità dell’ordinamento che emergerebbero – in questa materia – a fronte di esigenze di eguaglianza e legalità particolarmente rilevanti (83). Nel caso di specie, la norma oggetto di censura è infatti finalizzata ad as( 79 ) Cfr. art. 16, co. 7, del DL 138/2011. ( 80 ) Esercizio associato di almeno 3 funzioni fondamentali da svolgere entro il 1o gennaio 2013 e – per le restanti – entro il 1o gennaio 2014. ( 81 ) Come previsto dall’art. 8 della legge 131/2003. ( 82 ) Tale norma non ha carattere generale, ma si riferisce in modo specifico alla previsione dell’art. 2, co. 186, lett. e), della legge 191/2009 (soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali) e dell’art. 14, co. 32, primo periodo, del DL 78/2010 (divieto per i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti di costituire società); tale co. è stato abrogato dall’art. 1, co. 561, della 147/2013. ( 83 ) Come questa Corte ha osservato, il testo attuale di tale disposizione deriva «dalla preoccupazione di assicurare comunque, in un sistema di più largo decentramento di funzioni quale quello delineato dalla 168 GIURISPRUDENZA sicurare che i principi fissati dal legislatore statale (nel quadro del coordinamento della finanza pubblica) non restino inattuati, violando la legalità delle prescrizioni obbliganti e così compromettendo le prospettive (unitarie) di risanamento dei bilanci pubblici (determinando per tale via anche l’inottemperanza degli obblighi di convergenza imposti dall’Unione europea). A parere della Corte, quindi, il potere di controllo sostitutivo introdotto dal legislatore ordinario in materia non solo non si pone in contrasto con l’art. 120, ma anzi integra un necessario intervento di organi centrali a salvaguardia di interessi generali ed unitari, in piena coerenza con l’ordinamento costituzionale (84). 4.3. Le clausole di salvaguardia a beneficio delle Regioni a Statuto speciale Una questione di specifica rilevanza si è infine posta in riferimento alle Regioni speciali. Il co. 29 dell’art. 16 prevede infatti una clausola di salvaguardia, della quale si è prospettata tuttavia una insufficiente efficacia garantista (85). Inoltre, anche la legge di conversione 148/2011 ha inserito nel testo del DL un ulteriore art. 19 bis, che ha esteso la portata della disposizione di salvaguardia – in origine limitata al solo art. 16 – a tutta la disciplina contenuta nel DL. Infine, pure nel DL 95/ 2012, in sede di conversione mediante legge 135/2012, è stata inserita con l’art. 24 bis una analoga clausola; pure di queste disposizioni si è però prospettato un mero riforma, la possibilità di tutelare, anche al di là degli specifici ambiti delle materie coinvolte e del riparto costituzionale delle attribuzioni amministrative, taluni interessi essenziali – il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia dell’incolumità e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – che il sistema costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato». Quanto alla unità giuridica e alla unità economica, «si tratta all’evidenza del richiamo ad interessi “naturalmente” facenti capo allo Stato, come ultimo responsabile del mantenimento della unità e indivisibilità della Repubblica garantita dall’art. 5 della Costituzione»; così Corte cost. 43/2004. Ribadisce poi che l’art. 120, co. 2 è posto «a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità, che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente», così che «la previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari» anche Corte cost. 236/2004, punto 4.1 del Considerato in diritto. ( 84 ) Per una disamina della disciplina in materia di poteri sostitutivi, cfr. tra i molti S. Parisi, Poteri sostitutivi e sussidiarietà: la tensione tra unità e autonomie, in Nuove Autonomie, 2006, pp. 839 ss. Per un caso che verteva specificamente su un problema di aggregazione di enti territoriali (in cui però i poteri sostitutivi erano posti in capo alla Regione, e per garantire il funzionamento – non la costituzione – dell’aggregato di Comuni), cfr. E.C. Raffiotta, A proposito dei poteri sostitutivi esercitati nei confronti delle Comunità montane: davvero non c’è spazio per la leale collaborazione?, in Le Regioni, 2007, pp. 577 ss. ( 85 ) Per l’individuazione dei due ordini di motivi che starebbero alla base di tale insufficienza di tutela, cfr. punto 19 del Considerato in diritto in Corte cost. 44/2014. LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 169 effetto declamatorio, non effettivamente idoneo ad escludere spazi di auto-applicabilità per l’obbligo di gestione associata (86). La Corte costituzionale ha rilevato tuttavia come le salvaguardie così apprestate rinviino all’art. 27 della legge 42/2009, quale disposizione di sistema a portata generale, esclusiva – ove non diversamente disposto, e in carenza delle procedure pattizie previste dagli Statuti speciali – della diretta applicabilità delle norme statali di contenimento della spesa pubblica (87). Giudicando sulle clausole in esame la Corte ha così riconosciuto la perdurante esigenza di rispetto del metodo pattizio, in quanto le salvaguardie introdotte nei decreti sulle gestioni associate obbligatorie hanno la funzione di rendere le scelte normative statali applicabili agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che siano rispettati gli Statuti speciali (88). L’esistenza di procedure garantite per l’approvazione delle norme di attuazione fa quindi sì che al fine di obbligare i Comuni presenti nelle Regioni speciali ad una gestione associata delle proprie funzioni sia necessario il consenso – inderogabile – della Regione speciale di riferimento (89). 5. La stabilizzazione dell’obbligo di gestione associata nella c.d. legge Delrio e le criticità per l’autonomia locale e regionale Su questo assetto è intervenuta successivamente la legge 56/2014 che, per quanto riguarda il tema dei piccoli Comuni e loro Unioni, dispone all’art. 1, co. 4 per la qualificazione come ente locale delle Unioni di Comuni, rinviando – per la relativa disciplina – ai successivi co. 104-134 (90). Più in particolare, tale ultimo intervento normativo ha abrogato il modello di Unione «speciale» previsto dall’art. 16 per i piccoli Comuni fino a 1.000 abitanti (91). Per tutti i Comuni fino a 5.000 abitanti rimane invece l’obbligo di gestione associata, con la facoltà di avvalersi della convenzione in alternativa all’Unione di ( 86 ) Per una disamina dottrinale e giurisprudenziale del tema delle clausole di salvaguardia, come affrontato dalla Corte cost. in più occasioni, e ad es. nella sentenza 91/2003), cfr. A. Pertici, Clausole di salvaguardia in relazione a norme riguardanti le Province autonome, in Giurisprudenza costituzionale, fasc. 2, 2003, pp. 730 s. ( 87 ) Cfr. Corte cost. 193/2012, punto 2.3.2 del Considerato in diritto. ( 88 ) Cfr. Corte cost. 241/2012, punto 4.2 del Considerato in diritto. ( 89 ) Cfr. Corte cost. 236/2013 (punto 2.1 del Considerato in diritto), 229/2013 (punto 10.2 del Considerato in diritto), 178/2012, 145/2008. ( 90 ) Per commenti a prima lettura, sul tema specifico qui analizzato, cfr. E. Vigato, Le Unioni e le fusioni di Comuni nel disegno di legge «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni». Quali novità all’orizzonte per i piccoli Comuni?, in federalismi.it, 2013, 21. ( 91 ) Cfr. co. 104 dell’art. 1 della legge 56/2014. 170 GIURISPRUDENZA Comuni «ordinaria» di cui al DL 78/2010, con rinvio agli artt. 30 e 32 del TUEL. Si è quindi operata una forte semplificazione del regime giuridico, eliminando differenziazioni e meccanismi graduati che si erano andati intrecciando con le numerose modifiche normative citate; a fronte di tale semplificazione, tuttavia, permane l’obbligatorietà della gestione associata, che è affidata (anche) ad una figura di Unione sì ordinaria ma – a sua volta – fortemente riformata. Il co. 105 infatti, novellando l’art. 32 TUEL, modifica la disciplina del Consiglio dell’Unione, il numero dei cui componenti è definito nello Statuto senza predeterminazione di limiti ma garantendo la presenza delle minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni Comune. Inoltre, si attribuisce all’Unione la potestà statutaria e regolamentare, e si prevede che il relativo Presidente si avvalga obbligatoriamente del segretario comunale di uno dei Comuni associati. Infine, in ordine al trattamento economico dei titolari delle cariche negli organi delle Unioni di Comuni, viene confermata la gratuità (92), così come si dispone che lo statuto dell’Unione di Comuni debba rispettare i principi di organizzazione e di funzionamento, e le soglie demografiche minime, qualora le leggi regionali presentino previsioni in materia (93). La legge Delrio è intervenuta (94) poi anche con modifiche specifiche all’art. 14 del DL 78/2010, fissando un limite demografico minimo di 10.000 abitanti per le Unioni e le convenzioni (95), ribadendo quindi la diretta applicabilità della normativa; diretta applicabilità assicurata anche grazie a tale scelta uniforme, che però ancora fa salva la possibilità che le Regioni stabiliscano un diverso limite demografico (la cui carenza non potrà però costituire ostacolo alla cogenza immediata dell’obbligo). L’obbligo di gestione associata delle funzioni dei piccoli Comuni è così entrato pienamente a regime, con una normativa oramai consolidata e razionalizzata (96), che ha avuto anche l’avvallo della Corte costituzionale. Il sistema pare allora orientato a guardare alla gestione associata come alla soluzione per i problemi di efficienza connessi alle piccole dimensioni degli enti territoriali, di modo che si deve allora valutare se tale opzione si accompagni o meno a una riduzione degli spazi ( 92 ) Cfr. co. 108 dell’art. 1 della legge 56/2014. ( 93 ) Cfr. co. 106 dell’art. 1 della legge 56/2014. ( 94 ) Cfr. co. 107 dell’art. 1 della legge 56/2014. ( 95 ) 3.000 abitanti qualora si tratti di Comuni appartenenti o appartenuti a Comunità montane, ma in tal caso le Unioni devono essere formate da almeno tre Comuni. Inoltre, va notato che tale limite non si applica alle Unioni già costituite. ( 96 ) Razionalizzazione da ultimo operata dalla legge Delrio, che contiene anche norme tese a rendere più efficiente ad es. la gestione delle funzioni in materia di protezione civile e polizia giudiziaria (cfr. co. 112-113 dell’art. 1). LE COMPETENZE REGIONALI IN MATERIA DI ESERCIZIO DI FUNZIONI LOCALI 171 dell’autonomia (locale e regionale (97)), e quanto tale riduzione sia eventualmente ammissibile. Va apprezzato – più in particolare – cosa rimanga dell’autodeterminazione sulle funzioni «proprie» in un contesto a obbligo di associazione «coordinato» dal centro. Alle criticità per l’autonomia legislativa regionale, le cui competenze sono fortemente conformate dalla funzione statale di coordinamento della finanza pubblica (alla quale la normativa vincolistica sulle modalità di esercizio delle funzioni locali è strumentale), si accompagnano infatti anche più immediate criticità per l’autonomia locale (i singoli Comuni – che pure rimangono i titolari formali delle funzioni – non potendosi autodeterminare nelle modalità di gestione delle stesse). Ci si deve chiedere quindi se un obbligo etero-determinato, che incide sull’esercizio di una funzione pur affidata formalmente alla titolarità di un’autonomia territoriale, si sostanzi di fatto in una espropriazione della funzione medesima; in latri termini, va apprezzato quale sia il livello di conformazione che gli obblighi connessi all’esercizio devono raggiungere per essere considerati equivalenti ad una rideterminazione della titolarità delle funzioni, e presentarsi quindi come – eventualmente – illegittimi. A questo riguardo, non pare tanto significativo l’obbligo di gestione associata di per sé considerato, ma le modalità concrete che si prescrivono per quella gestione associata. Non è cioè lesivo dell’autonomia locale il semplice fatto che essa non si possa autodeterminare (in assoluto) nelle modalità di esercizio di funzioni e servizi comunali, ma il grado di autonomia che residua – in ogni caso – a seguito della etero-determinazione delle forme di gestione, nel concreto dispiegarsi delle stesse. La condizione formale di obbligo gestorio può infatti essere del tutto analoga – nei fatti – a una facoltatività delle modalità di esercizio fortemente incentivata attraverso una normativa premiale o sanzionatoria, che renda sconveniente gestire individualmente le competenze (di cui – pur astrattamente – continua ad essere possibile l’esercizio non associato: l’incentivazione economica etero-determinata può cioè raggiungere in concreto lo stesso risultato impositivo che il legislatore statale ha perseguito con la normativa sopra analizzata). Tanto un obbligo di gestione associata, quanto un pervasivo regime incentivante della gestione associata, possono quindi concorre a una etero-conformazione delle modalità di esercizio delle funzioni formalmente «proprie» del Comune, e la tutela dell’autonomia va allora piuttosto apprezzata – in entrambi i casi – valutando quale sia il grado di auto-determinazione delle scelte di esercizio che residua per il singolo piccolo Comune all’interno delle forme associate imposte (o fortemente sollecitate) dal cen( 97 ) Cfr. supra al § 1 per la distinzione di come le scelte centrali incidano diversamente su entrambe le sfere, dell’autonomia legislativa statale e amministrativa locale. 172 GIURISPRUDENZA tro. L’analisi non va cioè arrestata all’esame della portata concreta della funzione di coordinamento sulla formale titolarità delle funzioni e sulla obbligatorietà delle modalità di gestione, ma si deve osservare anche quanto il coordinamento possa legittimare una gestione (obbligatoria e estesa a tutte le funzioni) nella quale il singolo ente costitutivo perda eventualmente ogni potere di determinazione degli indirizzi amministrativi. Per apprezzare le ripercussioni sull’autonomia locale è pertanto determinante il come – pur a fronte di un obbligo di esercizio associato – l’autonomia locale continui o meno ad essere garantita nei meccanismi istituzionali di funzionamento della sede unitaria cui sono state (obbligatoriamente) affidate le funzioni. In questo senso, la normativa statale analizzata, pur caratterizzando come necessarie le modalità di esercizio associato, non svuota in concreto le gestioni pubbliche dell’autonomia locale determinando una piena etero-determinazione delle scelte finali. La vera garanzia dell’autonomia perdura invece negli strumenti e meccanismi di effettiva rappresentanza per i piccoli Comuni aggregati, apprestati in sede di disciplina delle Unioni o delle convenzioni. Ciò in coerenza con la funzione di coordinamento, che non deve appunto manifestarsi in un’avvocazione gerarchica delle decisioni concrete verso sedi rappresentative unitarie, ma che – per come ricostruita dalla giurisprudenza costituzionale – si pone quale funzione strettamente strumentale alle esigenze finanziarie, al di fuori delle quali deve potersi manifestare pienamente la potestà legislativa regionale e l’autonomia organizzativa e amministrativa comunale. Flavio Guella Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Veneto – sentenza n. 84/2014 del 9 aprile 2014 La disposizione recata dall’art. 1, comma 1, della legge 20/94 non consente di ritenere sottratte al sindacato del giudice contabile le condotte assunte in violazione di legge ovvero comunque economicamente irragionevoli sul piano economico, laddove abbiano cagionato un danno erariale. L’azione amministrativa è dunque sindacabile sotto il profilo della illegittimità-illiceità, oltre che dell’irragionevolezza, in ragione della incongruità, illogicità ed irrazionalità della scelta dei mezzi rispetto ai fini, nonché del rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa (nella fattispecie è stata ritenuta sindacabile ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, la scelta discrezionale di un Comune, di costituire una ulteriore società a partecipazione pubblica finalizzata alla realizzazione di un servizio di tramvia, piuttosto che ricorrere all’utilizzo di un ufficio interno all’Azienda di Trasporti Municipale) La ratio della disposizione di cui all’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nel testo risultante dalle disposizioni correttive introdotte dal d.l. 3 agosto 2009, n. 103, convertito dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, lungi dal richiedere, quale presupposto legittimante dell’attività istruttoria, l’irrealistica pre-costituzione eteronoma di una notitia damni puntualmente definita in tutti i suoi presupposti oggettivi e soggettivi, si risolve esclusivamente nell’interdire un’attività inquirente che si traduca in un controllo sostanzialmente indifferenziato della Pubblica Amministrazione, azionabile sulla scorta di notizie estremamente labili e incerte e dunque inidonee a lumeggiare distintamente la presumibile sussistenza di una specifica fattispecie di danno erariale. L’illecito amministrativo-contabile non si perfeziona al tempo del comportamento antigiuridico ma, coerentemente con la struttura di questa peculiare tipologia di responsabilità, nel momento in cui, verificandosi gli effetti causalmente riconducibili alla condotta dell’agente, si realizza l’eventus damni,quale effettivo depauperamento del patrimonio e/o della finanza pubblica, così abilitando il Requirente all’esercizio dell’actio damniin precedenza invece concretamente inammissibile. Conseguentemente la prescrizione inizia a decorrere solo nel momento in cui la condottacontra iusabbia prodotto l’evento dannoso avente i caratteri della concretezza e dell’attualità, ovverosia, la decorrenza della prescrizione va individuata, quindi, nella data del pagamento. Tale concezione interpretativa risulta maggiormente coerente sia rispetto alla struttura dell’illecito amministrativo contabile che con riguardo alla disciplina di ordine generale in materia di decorso della prescrizione (art. 2935 c.c: contra non valentem agere non currit praescriptio). L’affermazione di una responsabilità amministrativa presuppone il rilievo diri- 174 GIURISPRUDENZA mente del riscontro circa la sussistenza di un danno diretto per l’erario. In tal senso, nei rapporti tra ente pubblico ed autonoma società da questo partecipata, la piena autonomia patrimoniale di quest’ultima non consente di riferire al patrimonio dell’ente pubblico socio il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio della società, che è e resta privato, cosicché l’autonomia patrimoniale della società partecipata impedisce di configurare come erariali le perdite che restino esclusivamente della società, che è regolata come ogni altro soggetto sovrapersonale di diritto privato. Omissis Svolgimento del processo Con atto di citazione del 16 novembre 2010 (depositato il giorno seguente e ritualmente notificato con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza) la Procura Regionale della Corte dei conti per il Veneto conveniva, dinanzi questa Sezione Giurisdizionale, i signori ....omissis..... per sentirli condannare al pagamento, in favore del Comune di Verona e della Difesa, della somma di P 1.094.027,51 quali responsabili in concorso tra loro e nelle percentuali specificamente indicate, quale danno pubblico cagionato ad AMT spa o in subordine ed in via indiretta al Comune di Verona, unico socio proprietario della predetta società, o nel diverso e maggior danno che il Collegio riterrà di giustizia, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, interessi legali e spese di giudizio. Quanto alla ricostruzione fattuale, la vicenda ha preso le mosse da un esposto presentato da un Comitato di cittadini denominato «Comitato contro la tramvia a rotaia» del dicembre 1999, cui hanno fatto seguito un ulteriore segnalazione con contenuti similari o connessi, quello dello studio legale Trabucchi di Verona (del 21.10.2004), e vari articoli di quotidiani veronesi sui lavori di realizzazione della linea tramviaria nel Comune di Verona. Conseguentemente, la Procura della Corte dei conti presso questa Sezione giurisdizionale ha quindi affidato specifica delega istruttoria alla Guardia di finanza, adempiuta con relazione depositata presso la magistratura contabile inquirente in data 6.3.2007 (prot. 59529). L’attività delegata, avviata dopo la definizione del contenzioso tra i contraenti dell’appalto per la realizzazione della tramvia di Verona, da un lato, comune di Verona e l’Azienda Municipalizzata Trasporti (AMT) S.p.a – (appaltante) e, dall’altro, l’associazione temporanea d’imprese con a capo la Siemens – (appaltatrice), conclusosi con una transazione a seguito della quale la Siemens riconosceva all’appaltante un risarcimento pari a P 20.500.000,00), evidenziava in particolare l’irragionevolezza/ diseconomicità dei costi derivanti dal rapporto di collaborazione tra AMT S.p.a. e SI.TRAM. S.r.l. In particolare, la Guardia di Finanza analizzava i servizi resi da quest’ultima società, costituita in base ad una espressa previsione della convenzione tra Comune di Verona e AMT del 12.01.2001, che conferiva a SITRAM attribuiva le funzioni e le seguenti competenze correlate alla realizzazione e, successivamente, alla gestione della tramvia: – «responsabilità della progettazione, della costruzione, dell’ingegneria verso AMT per tutte le attività connesse alla realizzazione del sistema metrotramviario di Verona»; – «responsabilità del procedimento»; – «redazione degli studi, piani e progetti preliminari definitivi ed esecutivi»; – «su richiesta di AMT, esecuzione di ulteriori attività/servizi, anche non inclusi dei documenti previsionali, purché accessori e connessi all’oggetto della convenzione» In ragione dell’attribuzione di tali d’incarichi, AMT S.p.a. subentrava al Comune di Verona nella fase di aggiudicazione definitiva dei lavori relativi al primo lotto, assumendo di conseguenza tutti gli obblighi e i diritti nascenti dal contratto d’appalto. Rilevante per il caso in esame, risulta il punto della convenzione in cui si prevede, proprio per RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 175 l’esercizio dei compiti trasferiti ad AMT, la costituzione di un’apposita struttura interna denominata «Ufficio Tramvia», oppure, in alternativa, la nascita di un’apposita società mista dedicata. La AMT S.p.a. optava per la seconda soluzione, ragione per cui, in data 23.04.2001, costituiva la società denominata SI.TRAM. S.r.l., individuando successivamente nella francese «RATP» il partner strategico cui cedeva il 25% delle quote di capitale della controllata. Il 25.07.2001, AMT S.p.a. e SI.TRA.M. S.r.l. sottoscrivevano la Convenzione quadro con il fine di disciplinare la gestione della attività e dei servizi di progettazione, costruzione e gestione del sistema metrotramviario. Premesso che la convenzione in parola riconosce (art. 12) ad AMT il potere di recedere prima della scadenza, fissata al 31.12.2008, qualora, a proprio insindacabile giudizio, ciò si rendesse necessario per tutelare l’interesse pubblico, con nota del 11.11.2002, il Comune di Verona comunicava ad AMT l’intendimento di avviare una verifica sugli atti formali e sugli impegni contrattuali assunti dalla società verso la SI.TRA.M. S.r.l. e allo scopo chiedeva l’invio di documenti e chiarimenti. Il 12.12.2002 si teneva un’assemblea ordinaria della AMT S.p.a. avente all’ordine del giorno anche la discussione sulle suddette richieste comunali, il cui esito era tuttavia stigmatizzato come non esauriente da una nota del sindaco di Verona datata 24.12.2002, nella quale si riportavano per giunta alcuni gravi rilievi avanzati dal collegio sindacale dell’azienda. La lettera del Collegio sindacale di AMT inviata al sindaco Zanotto e al Presidente di AMT Zaninelli, evidenziava alcune irregolarità ed anomalie riguardanti SITRAM e AMT emerse nel corso della verifica dei 21.11.2002. In particolare, il terzo punto della lettera del Collegio sindacale osserva: «il contratto attuativo convenzione quadro tra AMT spa e SITRAM srl per l’anno 2002 approvato dal CdA in data 21.01.2002 presenta alcuni dubbi in quanto da un«attenta lettura emerge che vengono assegnate a SITRAM una serie di funzioni e compili che non sono strettamente riconducibili allo scopo per cui SITRAM è stata costituita. Si apprende che questo contratto non è stato visionato dall’ufficio legale di AMT spa e che solamente nel mese di giugno 2002 si è acquistato un parere dell’Avv. Cacciavillani che esprime fortissimi dubbi sul contratto in merito ad aspetti sostanziali in quanto AMT si troverebbe nella condizione di mero soggetto erogatore di somme per il finanziamento o per la copertura di costi derivanti dalle scelte di SITRAM ....». Il quarto punto prevede: «Nel contratto disciplinante la prestazione di servizi di AMT. spa a favore di SITRAM srl non è indicato espressamente il termine in cui deve essere emessa la fattura e di conseguenza il relativo pagamento» ... Il sesto punto della lettera del Collegio osserva: «Il Collegio appura inoltre che nel corso dell’anno 2001 sono state corrisposte delle somme ad alcuni dipendenti di AMT spa per un valore complessivo lordo di P 17.400,00 e a dirigenti di AMT spa per P 10.000,00 quale premio per l’attività svolta a favore di SITRAM srl. Detto bonus non risulta essere mai stato deliberato dal CdA in quanto i rapporti e le prestazioni tra AMT spa e SITRAM srl risultano essere regolate con appositi contratti e convenzioni. Da un’analisi contabile non risulta che SITRAM srl abbia rimborsato detta somma ad AMT spa». Quindi, nella seduta di Giunta del Comune di Verona del 24.03.2003 (ali. nr. 10), venivano evidenziati i seguenti punti: «– considerato che il piano economico finanziario 2000 non prevede oneri di funzionamento di una struttura societaria, bensì esclusivamente quelli relativi all’ufficio tramvia, quivi compresi i costi dello staff e il compenso ai membri esterni, per una somma di lire 2.236.000.000, che – al di la di sempre possibili aggiornamenti – appare insufficiente per i costi di gestione di una società dedicata; – rilevato che la considerazione di cui sopra – coniugata con le strategie d’azione in fase di studio per la riorganizzazione societaria di AMT S.p.a., anche in vista delle procedure concorsuali per la messa in gara del trasporto pubblico locale a far tempo dall’1 gennaio 2004 induce quest’Amministrazione alla determinazione che si debba procedere con lo scioglimento del rapporto tra AMT e SI.TRA.M. S.r.l., facendo si che le procedura di realizzazione della tramvia siano assunte e curate dall’Ufficio Tramvia, secondo l’opzione in tal senso già prevista dalla convenzione del 2001 sopra citata; tale ufficio infatti, con 176 GIURISPRUDENZA costi di funzionamento senz’altro più contenuti rispetto alla Società di scopo, sembra configurarsi quale struttura tecnica più snella, e maggiormente idonea a recepire con tempestività le indicazioni per la realizzazione dell’opera; – dalle predette considerazioni, sia in ordine all’eccedenza dei costi derivanti dalla convenzione quadro del 25.07.2001 rispetto al piano economico finanziario del 2000, sia in ordine alle nuove funzioni strategiche di ASMT in vista della prossima gara per il trasporto pubblico locale, sussiste il pubblico interesse che giustifica il recesso dal contratto ...». Conseguentemente, con provvedimento nr. 54/2003 (ali. nr. 11), la Giunta comunale demandava al Sindaco o ad un Assessore da lui delegato, il compito di formulare, in sede di apposita Assemblea dei Soci di AMT S.p.a., il seguente indirizzo: «il Comune di Verona, socio unico di AMT S.p.a., chiede al Consiglio di Amministrazione di recedere senza indugio dalla convenzione quadro AMT -SITRAM s.r.l. del 25.07.2001, ai sensi dell’art. 12, comma 1, della convenzione stessa e con il preavviso dal medesimo previsto». Da una visura camerale risultava poi che SITRAM era stata posta in liquidazione volontaria in data 18.11.03, aveva cessato la sua attività in data 25.11.04 ed era stata cancellata dal Registro delle Imprese in data 27.1.2005. Dalla nota integrativa al bilancio finale di liquidazione al 25 novembre 2004 risultava che l’attività di liquidazione era immediatamente iniziata con il trasferimento del personale, dei beni e dei contratti aziendali ad AMT spa, in applicazione dell’accordo di recesso dalla Convenzione quadro stipulato nel corso del 2003 con AMT spa. Nello stesso documento emergeva, tra l’altro, come RATP, il socio francese titolare nominale di una quota pari al 25% di SITRAM srl, diversamente da AMT, avesse recuperato quasi tutto il suo investimento di P 250.000,00, avendo ricevuto nel piano di riparto la somma di P 245.021,53. Quindi, sulla scorta della relazione della Guardia di finanza, la Procura contabile emetteva invito a dedurre nei confronti dei soggetti già in epigrafe individuati, in quanto responsabili, in diversa misura, degli illeciti e dei danni derivati dalla costituzione di Sitram, ovvero dalla costituzione di una società sostanzialmente inutile, in quanto le attività della stessa (analizzate puntualmente dalla GdF) potevano essere svolte da un ufficio interno alla società AMT, con costi assai inferiori. Inoltre, nell’invito a dedurre, così come nella relazione della GDF, si evidenziava come il vertice amministrativo di SITRAM Srl, e precisamente ...omissis..., rivestisse contestualmente la qualifica di presidente di AMT e che il Direttore della controllata, ...omissis..., svolgesse in contemporanea anche l’incarico di Vice Direttore Generale della società capogruppo AMT; emergeva pertanto un illecito anche sotto il profilo del conflitto d’interessi derivante dalla scelta di far coincidere le figure di operatore e di controllore non solo ai vertici amministrativi, ma anche nella direzione delle due società. Quanto all’inutilità/diseconomicità della società costituita, l’indagine svolta ha evidenziato che la SITRAM, nel corso della sua attività, ha fatturato P 2.888.606,79 per attività quasi esclusivamente svolte a vantaggio della controllante AMT (servizi di ingegneria per AMT P 2.706.566,24; servizi di ingegneria per altri soggetti P 7.800; recupero spese varie e cessione cespiti verso AMT Spa P 174.240,55), così smentendo in rebus che vi fosse una qualche utilità nella sua costituzione derivante dalla prospettiva aziendale di fornire servizi a clienti diversi dalla società controllante; tanto più che tali servizi e le conseguenti entrate potevano comunque essere commissionati e conseguiti direttamente da AMT Spa. Analogamente, l’analisi delle fatture ricevute per servizi commissionati all’esterno da SITRAM evidenzia che se AMT avesse provveduto direttamente a commissionare dette prestazioni avrebbe quanto meno risparmiato l’illogico ricarico applicato da SITRAM. L’inutilità/diseconomicità della costituzione è peraltro emersa ancor più, secondo la prospettazione attorea, dall’analisi delle indennità corrisposte agli organi di gestione della Sitram, somme che evidentemente non sarebbero state corrisposte se l’Amt avesse gestito l’attività in questione con un proprio ufficio dedicato. Più in dettaglio, il danno erariale era quantificato in ragione dalle voci di costo di seguito quantificate: RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 177 – di costituzione P 5.465,67 – di governance P 732.788,63 – per l’organo di controllo P 34.079,38 – di revisione P 8.712,00 – di locazione P 101.132,99 – del personale e utenze; P 188.306,00 Danno erariale P 1.070.484,67 Ulteriori spese sono state sostenute da SITRAM srl durante la liquidazione nel corso del 2004 fino al 25.11.2004 (data di redazione del bilancio di liquidazione): – Compensi al Collegio sindacale P 13.367,84 – Emolumenti pagati al liquidatore P 9.975,00 – Spese per cancellazione P 200,00 Danno erariale P 23.542,84 Si sarebbe dunque prodotto un danno erariale complessivo pari ad P 1.094.027,51 (P 1.070.484,67 + P 23.542,84). I soggetti invitati a dedurre opponevano tuttavia alcune eccezioni, rilevando la ritenuta nullità degli atti in ragione della carenza di specifica e concreta notizia di danno ex art. dall’art. 17, comma 30 ter, del d.l 78/2009, il difetto di giurisdizione della Corte dei conti avuto riguardo all’ordinanza delle SS.UU. della Corte di cassazione n. 26806/2009, l’intervenuta prescrizione (che dovrebbe decorrere dalle delibere dell’AMT del 23.3.2001 e del 3.4.2001) del danno, l’insussistenza del danno in ragione della intervenuta transazione con SIEMENS, l’insindacabilità della scelta discrezionale di costituire una società, l’economicità della scelta (in quanto l’affidamento ad ufficio interno sarebbe stato, in tesi, più oneroso), l’esclusiva responsabilità degli amministratori di Sitram. Analizzate le controdeduzioni dei soggetti invitati a dedurre, la Procura contabile ha diffusamente argomentato ex adverso, reputando insussistente un’ipotesi di nullità per genericità della denunzia di danno, ritenendo sussistente la giurisdizione contabile (tenuto conto della sostanza economica pubblica del fenomeno gestorio e di alcuni dati normativi), non ancora maturata la prescrizione (in quanto il dies a quo andrebbe individuato nella data dei concreti esborsi ed essendo intervenuti, entro i 5 anni, atti interruttivi), la piena sussistenza del danno (essendo intervenute spese), la piena sindacabilità della scelta di costituire una nuova società essendo mancata qualsivoglia valutazione motivata della linea gestionale assunta, e la compartecipazione alla condotta dannosa a che da parte di soggetti diversi da quelli inseriti negli organi di Atam. Conseguentemente, la Procura contabile ha citato in giudizio i medesimi soggetti, per sentirli condannare al risarcimento del danno erariale come sopra quantificato, specificando le percentuali addebitande a ciascun convenuto: •40% al sig. ...omissis..., presidente sia dell’Atm che della Sitram, per «colpa gravissima»; • 20% (da ripartirsi in parti uguali) ai consiglieri di AMT A...omissis... per colpa grave; • 20% (da suddividere in parti eguali tra loro) al Sindaco ...omissis... e all’Assessore ...omissis..., sempre per colpa grave; • 10% ciascuno a ...omissis... rispettivamente Direttore generale di AMT e Direttore generale di SITRAM, sempre a titolo di colpa grave. A seguito del deposito dell’atto di citazione, tutti i convenuti, ad eccezione di ...omissis..., si costituivano in giudizio. Tuttavia, in contemporanea, i signori ...omissis... (Presidente del CdA di AMT spa), ...omissis..., consiglieri di AMT, e ...omissis..., Sindaco pro tempore del Comune di Verona dal 1994 al 2002, presentavano un primo ricorso preventivo di giurisdizione (RGN 9472 del 2011), mentre un secondo ricorso era presentato da ...omissis..., anch’esso ex consigliere di AMT (RGN 9583 del 2011), anch’esso eccependo l’inammissibilità dell’azione attivata dalla Procura Regionale per difetto di giurisdizione. In termini similari presentava alle SS.UU. un ricorso incidentale anche ...omissis..., Direttore generale di SITRAM, mentre la Procura contabile avanzava controricorso. 178 GIURISPRUDENZA In data 13/4/2011, all’esito dell’udienza di discussione, questa Sezione Giurisdizionale ordinava (n. 33/2011) la sospensione del giudizio ai sensi dell’articolo 367, comma 1 c.p.c., come novellato dall’art. 61 della legge 26 novembre 1990 n. 363, in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione sul Regolamento preventivo di Giurisdizione. La Corte dei cassazione, con ordinanza n. 10299/2013 del 26 febbraio 2013, depositata il successivo 3 maggio, richiamato il proprio recente orientamento (Sezioni unite nn. 26806/2009, 519/2010, 4609/2010, 10063/2011, 14655/2011, 14957/2011, 20941/2011; 3692/2012 e l’ordinanza n. 8352/ 2013), ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti dei soggetti con cariche sociali nella partecipata pubblica Atam spa, non potendosi ravvisarvi gli estremi di una c.d. società in house providing, aggiungendo tuttavia che «non v’è ragione per dubitare della giurisdizione del giudice contabile in ordine all’azione proposta nei confronti del sindaco e dell’assessore del comune di Verona, restando evidentemente poi rimessa a quel medesimo giudice, in sede di merito, ogni valutazione circa la possibilità d’individuare nel caso di specie un danno imputabile ad azioni o omissioni di quei soggetti e riferibile (non già al patrimonio della società partecipata, bensì) direttamente all’ente pubblico comunale». Con atto di riassunzione ex art. 367 c.p.c., la Procura regionale, ritenendo la sussistenza dei relativi presupposti, ha chiesto la continuazione del giudizio di danno erariale nei confronti dei signori ...omissis... rispettivamente sindaco e assessore pro tempore, per sentirli condannare al pagamento delle somme già richieste con l’atto di citazione depositato il 17.11.2010 e precisamente nella quota del 10% ciascuno dell’importo di P 1.094.027,51, o nel diverso e maggior danno che il Collegio riterrà di giustizia, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, interessi legali e spese di giudizio. Quanto alla natura diretta del danno arrecato all’erario, in sede di riassunzione la Procura contabile ha evidenziato che il comune di Verona ha sempre detenuto il 100% del capitale, nonché che l’ente pubblico ha l’obbligo di stabilire le tariffe del servizio e di versare alla partecipata i corrispettivi annui (trasferiti dal bilancio regionale) pubblici previsti dal DGR n. 326/2001 al fine di garantire i servizi minimi essenziali, come previsto dalla legge regionale n. 25/1998. La rilevanza di detti trasferimenti per il bilancio di AMT, ha sottolineato la Procura contabile, risulta comprovata da due note a firma del segretario generale del comune datate rispettivamente 10.5.2013 e 24.5.2013, nelle quali vengono quantificati i contributi regionali dal 2001 al 2004, con importi oscillanti da un minimo di P 10.604.005,92 ad un massimo di P 13.518.430,72. Pertanto, ha chiosato la Procura, «in uno scenario di questo tipo di contribuzione sistematica, annuale, regolata da norme di legge ed amministrative per oltre il 50% del fabbisogno del servizio stesso (come comprovate da una relazione sulla gestione prodotta dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti del 2002), il danno alla società di T.P.L. che svolge tali servizi è un danno diretto all’Erario (Stato italiano, Regione Veneto e Comune di Verona) in senso ampio, e non un mero danno al patrimonio della società partecipata, ossia ad AMT spa». Relativamente al contributo causale individuale e all’elemento soggettivo sia del sindaco che dell’assessore comunale, la procura contabile, in sede di riassunzione, ha analiticamente ripreso le contestazioni già avanzate nell’atto di citazione originario. In particolare, quanto al sindaco, la procura ha evidenziato che: La prof.ssa ...omissis.... inviava una sua lettera in data 11.4.2001 ad AMT, con cui sollecitava la costituzione della società partecipata di AMT e si riservava di indicare entro il 18 aprile seguente i nomi dei membri del CdA, oltre ad indicare come forma di governo della società costituenda la figura dell’Amministratore Delegato. In tale lettera il Sindaco palesava inoltre la volontà di essere informato circa la definizione degli emolumenti spettanti al CdA della nuova società. Dunque, il rappresentante del socio unico di AMT esprimeva la sua precisa volontà di costituire la partecipata, e la rappresentava ai membri del CdA, che avevano la competenza di costituire la nuova società, senza attendere la verifica della necessità o utilità della nuova compagine societaria e senza volersi confrontare con eventuali dissensi o perplessità dello stesso CdA o del Collegio sindacale di AMT (che qualche osservazione l’avevano fatta su aspetti non marginali della vicenda). RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 179 Poi, con lettera del 4.6.2001, la ...omissis... individuava i predetti compensi, che sarebbero stati successivamente recepiti dalla società. In sede di controdeduzioni anche l’allora Direttore generale di AMT ...omissis... metteva in evidenza come il Sindaco ebbe un ruolo rilevante, sollecitando direttamente la costituzione di SITRAM; Anche la memoria del Presidente ...omissis..., inviata per l’udienza svolta presso la Sezione Veneto, chiama pesantemente in causa il ruolo del Sindaco per la decisione di costituire la SITRAM. La lettera del Collegio sindacale del 10.4.2001, nella quale si lamenta l’assenza di un piano dei costi dei tre Services costitutivi di SITRAM, era sì indirizzata al Presidente e ai membri del CdA di AMT, ma fu oggetto di discussione nei CdA di AMT del 18 e 19 aprile 2001, dove risultava presente l’Assessore ...omissis... che, in quanto delegato, doveva avere relazionato al Sindaco Sironi sulla lettera medesima e sulle risposte evanescenti fornite da ...omissis... e altri. Quanto all’assessore ...omissis... nell’atto di riassunzione si riferisce che: – è stato delegato dal Sindaco all’assemblea costitutiva di Sitram; – come già riferito, l’assessore era presente nelle sedute del CdA di AMT del 18 e 19 aprile nelle quali si è discusso della lettera del Collegio sindacale del 10.4.2001, nella quale si lamenta l’assenza di un piano dei costi dei tre Services costitutivi di SITRAM. In detta seduta, a fronte dei rilievi del collegio sindacale a delle perplessità del consigliere Arieti, l’assessore ha perorato la tesi della opportunità di costituire la nuova società, sostenendo l’irrilevanza delle ricadute negative sul patrimonio AMT in quanto i nuovi costi di SITRAM sarebbero stati capitalizzati; – ...omissis... era presente nella seduta dell’11.4.2001, quando esibì (e condivise) la lettera del Sindaco sulla società costituenda. Quanto alla difesa della prof.ssa ...omissis..., costituitasi con comparsa depositata il 23 marzo 2011, il sindaco pro tempore del comune di Verona ha eccepito innanzitutto il difetto di giurisdizione della Corte dei conti, menzionando la giurisprudenza del giudice della Giurisdizione nella quale, tra l’altro, si afferma che, nell’ipotesi di danno cagionato al patrimonio di società pubblica, «non sussiste un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della su indicata società sia socio». Infatti, la distinzione «tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociale abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato» (Cass. Sez. U. n. 26806/2009). Principio peraltro successivamente ribadito dal giudice della giurisdizione nella ordinanza n. 674/2010, nella quale si è ribadita «la non configurabilità della giurisdizione della Corte dei conti relativamente ai danni arrecati dall’amministratore direttamente alla società e solo mediatamente al soggetto pubblico socio della società che subisca la diminuzione del valore della sua partecipazione societaria», «anche con riferimento al caso in cui la società intrattenga un rapporto di servizio od un analogo rapporto funzionale con la pubblica amministrazione ai fini del perseguimento di fini della medesima». Inoltre, la prof.ssa ...omissis... ha eccepito la nullità dell’azione ex art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, evidenziando come la vertenza sia stata aperta dalla procura nel 2000, sulla base di un mero esposto presentato nel dicembre 1999 da un comitato di cittadini, che «sembra davvero difficile pensare ... contenesse una concreta e specifica notizia di un fatto ancora da accadere», ovvero le missive del 2001 contestate al Sindaco. Il convenuto contestava altresì l’intervenuta prescrizione dell’azione risarcitoria, in quanto le lettere contestate alla prof.ssa ...omissis... risalgono ad aprile e giungo 2001, mentre l’unico atto effettivamente interruttivo del decorso risale al novembre 2006, non essendo qualificabile come messa in mora la nota datata 26/08/2005 spedita dall’allora presidente di AMT su sollecitazione della procura contabile, essendo priva, in tesi, della «esplicitazione della specifica pretesa» (ovvero del credito e del suo titolo giuridico). La ...omissis... contestava altresì la stessa imputabilità del fatto dannoso, essendo la costituzione della società Sitram di competenza dell’assemblea della ATM, e non del sindaco. 180 GIURISPRUDENZA Peraltro, secondo la parte resistente, la costituzione della società costituiva un atto legittimo e anzi utile in quanto l’ufficio dedicato «non avrebbe avuto le risorse necessarie ma avrebbe dovuto acquisirle ad un costo di cui quanto meno si sarebbe dovuto tenere conto nella determinazione del danno», ed in ogni caso espressione di discrezionalità sottratta al sindacato del giudice contabile ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994. La prof.ssa...omissis... ha altresì eccepito l’insussistenza del danno, tenuto conto che la transazione che ha definito il contenzioso tra Comune di Verona e AMT, da un lato, e la Siemens dall’altro, si è chiusa con il riconoscimento a favore della parte pubblica e alla sua partecipata di un risarcimento pari a euro 20.500.000,00, «espressamente quantificato tenendo conto dei costi di progettazione e consulenze». In particolare, secondo la difesa dell’ex sindaco, «il bilancio consuntivo di A.M.T. del 2004 certifica che con la somma di 20.500.000,00 A.M.T. ha recuperato tutti i costi sostenuti e capitalizzati». Inoltre, la prof.ssa ...omissis... ha lamentato l’assenza di gravità della colpa, essendosi limitata a impartire un’indicazione strategica che, all’epoca della sua assunzione, appariva oggettivamente giustificata dalle specifiche competenze che la costituzione avrebbe consentito di acquisire». Infine, parte convenuta ha richiesto a questa Corte, in via del tutto subordinata, l’ampio esercizio del potere riduttivo. Il convenuto ...omissis ... non risulta costituito. Alla pubblica udienza del 12 marzo 2014 il magistrato requirente richiamava l’atto introduttivo del giudizio e la citazione in riassunzione, insistendo nelle conclusioni ivi rassegnate. In particolare, riconosciuto che la nota datata 26/08/2005 spedita dall’allora presidente di AMT, in disparte la quaestio della sua qualificabilità in termini di atto interruttivo, non risulta indirizzata al Sindaco, insisteva per una più corretta individuazione del dies a quo della prescrizione, non certo rinvenibile nelle date delle missive a firma del primo cittadino, ma semmai nel momento della concreta individuazione del danno, e dunque nella data della delibera di giunta n. 54/2003, ovvero, quanto meno, nel dies di concreta verificazione della deminutio patrimoniale. Il pubblico ministero contabile ha altresì sostenuto la piena sindacabilità della «soluzione gestionale» prescelta, e la sua manifesta irragionevolezza avuto riguardo all’assenza di una compiuta pianificazione dei costi della costituzione ne gestione di una ulteriore struttura societaria. Da ultimo, parte attrice ha insistito in ordine alla natura diretta del danno cagionato all’amministrazione pubblica, detrimento peraltro non venuto meno a seguito della transazione stipulata con l’Ati Siemens, negozio che non avrebbe previsto la refusione delle maggiori spese legate al modulo organizzativo prescelto. Dal canto suo, il patrono della prof.ssa ...omissis..., dopo aver ribadito l’eccezione di nullità ex art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009 già avanzata nella memoria di costituzione, ha contestato la valutazione di illiceità/inutilità, in un’ottica ex ante, della soluzione organizzativa prescelta, consentita e dalla normativa e dalla convenzione tra Comune ed ATM, con la quale la partecipata intendeva rinvenire ulteriori competente tecniche per la costruzione dell’opera e per la gestione del servizio (come evidenziato dalla scelta del qualificato socio di minoranza di Sitram, ovvero Ratpe). Quanto al danno, parte resistente ha eccepito l’intervenuta immutatio libelli da parte della Procura contabile, che nell’originario atto di citazione ha espressamente qualificato il detrimento contestato come indiretto con riguardo al patrimonio pubblico, salvo poi riqualificarlo in termini di danno erariale diretto in sede di citazione in riassunzione. Danno diretto che peraltro sarebbe del tutto assente nella specie, non essendo stato comprovato da parte attrice che le contestate voci di danno abbiano arrecato una specifica deminutio patrimoniale al pubblico erario. Peraltro, ha aggiunto la difesa della prof....omissis..., l’ammontare contestato andrebbe comunque ridotto sia con riferimento alle spese da locazione (avendo la Sitram lavorato in locali dell’ATM) che con riguardo a quelle del personale, avendo la stessa Procura riconosciuto che la Sitram si è in concreto avvalsa anche di personale dell’Atm. RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 181 Diritto [1] In via pregiudiziale, occorre innanzitutto evidenziare, in limine litis, come, a seguito della sospensione del presente giudizio disposta da questa Corte con ordinanza n. 33/2011 e della successiva comunicazione dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione n. 10299/2003 che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti dei soggetti con cariche sociali nella partecipata pubblica Atam spa e che «non v’è ragione per dubitare della giurisdizione del giudice contabile in ordine all’azione proposta nei confronti del sindaco e dell’assessore del comune di Verona», la Procura regionale presso questa Sezione abbia, coerentemente con la menzionata pronunzia del giudice della giurisdizione, citato in riassunzione, entro i termini previsti dall’articolo 367, comma 2, c.p.c., esclusivamente i sigg.ri ... omissis... a fronte di un atto di citazione originariamente rivolto a n. 10 convenuti. Conseguentemente, il Collegio ritiene doversi dichiarare d’ufficio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 308, commi 3 e 4, del c.p.c., la parziale estinzione del giudizio con riguardo ai convenuti ...omissis.... In proposito, non v’è luogo a provvedere sulle relative spese processuali, che, secondo quanto disposto dall’art. 310, ultimo comma, c.p.c., rimangono a carico delle parte e, ai sensi del combinato disposto dell’art. 3 comma 2 bis del d.l. n. 543/1996 e dell’art. 10 bis comma 10 del d.l. n. 203/2005 (per come interpretato dalle SS.RR. di questa Corte con sentenza n. 3/QM/2008, con riguardo alle sentenze di definizione in rito), non danno luogo a rimborso da parte dell’Amministrazione pubblica. [2] Inoltre, in via pregiudiziale e all’esito dell’accertata ritualità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio, il Collegio dichiara la contumacia del convenuto ...omissis... ai sensi e per gli effetti degli articoli 291 e 171 c.p.c. [3] Ancora in via pregiudiziale, deve esser rigettata l’eccezione, avanzata dalla parte costituita, fondata sulla pretesa insindacabilità, ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, della scelta discrezionale di costituire una ulteriore società a partecipazione pubblica finalizzata alla realizzazione del servizio tramvia, piuttosto che ricorrere all’utilizzo di un ufficio interno all’ATM. Infatti, la giurisprudenza contabile ormai consolidata (ex multis: sentenza di questa Sezione n. 222/2013), coerentemente con gli orientamenti del giudice della giurisdizione (Corte Cass., Sez. Unite, n. 7204/06; id., n. 1376/06; id., n. 5083/2008), è pacifica nel consentire il sindacato delle scelte discrezionali, in presenza di atti contra legem o palesemente irragionevoli ovvero ancora altamente diseconomici (così, tra le tante, Corte Conti, Sez. III, 23 settembre 2008, n. 281; Corte Conti, Sez. giur. Abruzzo, 7 gennaio 2004, n. 1; id. Sez. I, 1 aprile 2003, n. 115/A). In buona sostanza, la disposizione recata dall’art. 1, comma 1, della legge 20/94 non consente di ritenere sottratte al sindacato del giudice contabile le condotte assunte in violazione di legge ovvero comunque economicamente irragionevoli sul piano economico, laddove abbiano cagionato un danno erariale (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Campania, 26 marzo 2012, n. 377; id., Sezione giur. Lombardia, 27 gennaio 2012, n. 30; id. Sezione giur. Campania, 24 gennaio 2011, n. 104; id., Sezione giur. Sicilia, 15 ottobre 2010, n. 2152)». Tanto premesso in linea generale, risulta evidente dagli atti come, nel caso in esame, la Procura regionale abbia contestato la presunta irragionevolezza della soluzione gestionale adottata di costituire una (in tesi) ridondante, anzi dannosa (ovvero funzionale alla lievitazione opportunistica della spesa, a cominciare da quella per la retribuzione degli organi societari), ulteriore società partecipata funzionale all’espletamento di compiti più efficientemente assolvibili, in un’ottica di adeguata valutazione costi-benefici, mediante un mero ufficio interno all’ATM, scelta discrezionale peraltro assunta in assoluta assenza di una puntuale pianificazione comparativa ex ante dei relativi costi gestionali (come peraltro successivamente evidenziato nella seduta di giunta comunale del 24.03.2003). In base alle predette considerazioni, ritiene il Collegio sindacabile l’azione amministrativa sotto il profilo della illegittimità-illiceità, oltre che dell’irragionevolezza, in ragione della incongruità, illogicità ed irrazionalità della scelta dei mezzi rispetto ai fini, nonché del rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa. 182 GIURISPRUDENZA [4] Parimenti il Collegio non ritiene di poter condividere l’eccezione, avanzata dalla sola parte costituita, di nullità degli atti istruttori e processuali ex art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nel testo risultante dalle disposizioni correttive introdotte dal d.l. 3 agosto 2009, n. 103, convertito dalla legge 03 ottobre 2009, n. 141, che testualmente recita: «Le Procure della Corte dei Conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge...Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». La disposizione testè riportata, ad avviso del Collegio, subordina l’avvio dell’attività istruttoria alla sussistenza di una notizia, comunque acquisita, relativa a fattispecie di danno distintamente individuabile come tale, quand’anche ancora necessitante di una più puntuale ricostruzione. In buona sostanza, la ratio della disposizione, lungi dal richiedere, quale presupposto legittimante l’attività istruttoria, l’irrealistica pre-costituzione eteronoma di una notitia damni puntualmente definita in tutti i suoi presupposti oggettivi e soggettivi, si risolve esclusivamente nell’interdire un’attività inquirente che si traduca in un controllo sostanzialmente indifferenziato della Pubblica Amministrazione, azionabile sulla scorta di notizie estremamente labili e incerte e dunque inidonee a lumeggiare distintamente la presumibile sussistenza di una specifica fattispecie di danno erariale. Tale interpretazione, teleologicamente orientata, del dato normativo appare del resto sostanzialmente in linea con quanto ritenuto dalla stesso giudice delle leggi che, nel mentre ha stigmatizzato gli atti istruttori caratterizzati da genericità «soggettiva e oggettiva» in quanto sintomatici di «...attribuzioni esercitate in modo eccedente, rispetto ai confini necessariamente tipizzati dall’ordinamento...» sì da produrre «...una menomazione nella sfera presidiata dalle garanzie di autonomia...» (cfr. Corte Costituzionale n. 337/2005), nel contempo ha riconosciuto alla Procura contabile il potere-dovere di richiedere atti singolarmente individuati e necessari all’accertamento di responsabilità in relazione all’eventuale causazione di danni erariali (cfr. Corte Cost. n. 100/1995). Potere istruttorio che, secondo la Consulta, «...deve essere ispirato a un criterio di obiettività, d’imparzialità e neutralità, specie perché ha un fondamento di discrezionalità...diretta a un interesse giurisdizionale» e che deve essere «...determinato da elementi specifici e concreti e non da mere supposizioni» (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 104/1989). Ricorda la Sezione che ulteriori e più puntuali indicazioni in merito si devono alla recente giurisprudenza delle Sezioni Riunite di questa Corte, che, in una statuizione nomofilattica vincolante per il giudice di merito (n. 12/2011/QM, del 09 giugno – 03 agosto 2011), hanno testualmente affermato che «..il termine notizia, comunque non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi, secondo la comune accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure percepibile da strumenti d’informazione di pubblico dominio; l’aggettivo specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di fatti, tale da non apparire generica, bensì ragionevolmente circostanziata; l’aggettivo concreta è da intendersi come obiettivamente attinente alla realtà e non a mere ipotesi o supposizioni. L’espressione nel suo complesso deve, pertanto, intendersi riferita non già ad una pluralità indifferenziata di fatti, ma ad uno o più fatti, ragionevolmente individuati nei loro tratti essenziali e non meramente ipotetici, con verosimile pregiudizio per gli interessi finanziari pubblici, onde evitar che l’indagine del PM contabile sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito controllo generalizzato. Di conseguenza, sono idonei ad integrare gli estremi di una “specifica e concreta notizia di danno”: a) l’esposto anonimo, se riveste i caratteri di specificità e concretezza innanzi precisati; b) i fatti conosciuti nel corso della fase dell’invito a dedurre, anche per soggetti diversi dall’invitato, nei medesimi termini; c) i fatti conosciuti a seguito di delega alle indagini, attribuita dalla Procura regionale ad organismi quali la RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 183 Guardia di Finanza; d) da ultimo, non possono considerarsi specifiche e concrete, secondo quanto innanzi precisato, le notizie relative alla mera condotta, in carenza d’ipotesi di danno, quale presupposto oggettivo della responsabilità amministrativa: ciò a differenza delle ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge...». Orbene, nella specie, nel fascicolo aperto nel 2000 (vertenza n. 43) sono progressivamente confluiti (per evidenti ragioni di connessione) un originario esposto presentato nel dicembre 1999 da un Comitato di cittadini denominato «Comitato contro la tramvia a rotaia» del dicembre 1999 che lamentava la causazione di danni per l’erario in relazione alla costruenda tranvia, un ulteriore esposto del 19 ottobre 2004 a firma di un professionista sempre inerente la suddetta opera pubblica, e n. 2 articoli di giornale pubblicati rispettivamente il 10 e il 14 ottobre 2004 su un quotidiano, ancora un volta inerenti fattispecie di danno erariale connesse a detta opera pubblica. Appare dunque evidentemente legittimo, anzi doveroso, lo svolgimento, da parte della Procura regionale, di attività istruttoria, nella specie effettuata mediante delega alla Guardia di finanza, finalizzata alla verifica della fondatezza della notitia damni, che evidentemente ha preso le mosse da un nucleo fattuale sufficientemente determinato (vicenda della costruzione della tranvia e connessi danni) senza debordare in un «eccedente» controllo, di carattere generalizzato, sull’attività gestionale pubblica. [5] Analogamente, il Collegio ritiene di non poter condividere l’eccezione preliminare di merito, avanzata dall’unica convenuta effettivamente costituitasi nel giudizio riassunto dinanzi a questa Sezione, relativa alla presunta estinzione per prescrizione del danno all’erario contestato, avuto riguardo alla corretta individuazione del dies a quo del termine quinquennale. In particolare, la parte privata argomenta l’eccezione de qua evidenziando come le lettere contestate alla convenuta prof.ssa Sironi risalgano ad aprile e giugno 2001, e che nel contempo l’unico atto effettivamente interruttivo del decorso risalga al novembre 2006, non essendo qualificabile come messa in mora la nota datata 26/08/2005, in ogni caso non indirizzata alla predetta convenuta. Già in sede di originaria citazione, la parte pubblica ha evidenziato come una corretta individuazione del dies a quo del termine prescrizionale non possa prescindere dal requisito dell’attualità del detrimento, in ossequio al consolidato principio secondo cui actio nondum nata non praescribitur (art. 2935 c.c.). Conseguentemente, secondo parte attrice, al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, «deve tenersi conto che la consapevolezza del credito verso i responsabili della inutile costituzione (e della gestione) della Sitram si ha non alla data degli atti necessari per la costituzione societaria, ma solo in alcuni momenti successivi» in cui si fa una ricognizione economica di quanto è costata la SITRAM, ovvero la data di approvazione del bilancio finale di liquidazione (31.12.2003), quando si percepiscono con nitidezza i costi legati alla suddetta partecipata, ovvero il dies (17.07.2003) in cui l’Amt recede dalla convenzione quadro con la partecipata di recesso, ovvero ancora la data (24.03.2003) della delibera di giunta n. 54, con la quale si demandava al Sindaco (o ad un Assessore da lui delegato) il compito di formulare, in sede di apposita Assemblea dei Soci di AMT S.p.a., il seguente indirizzo: «il Comune di Verona, socio unico di AMT S.p.a., chiede al Consiglio di Amministrazione di recedere senza indugio dalla convenzione quadro AMT -SITRAM s.r.l. del 25.07.2001, ai sensi dell’art. 12, comma 1, della convenzione stessa e con il preavviso dal medesimo previsto». Solo in via subordinata, la parte pubblica ha evidenziato come, in ogni caso, «tutte le spese (per e di SITRAM) sono state effettuate dopo il 26.9.2000 (quinquennio prima della messa in mora del presidente Leoni), mentre grandissima parte delle spese causate da SITRAM ed evidenziate come danno dalla relazione della GdF, e ulteriori allegati fomiti da AMT, è stata effettuata dopo il 23.11.2001 (ossia nel quinquennio antecedente alla seconda messa in mora del presidente Ferrari)». Sulla predetta questione, giova richiamare il disposto dell’art. 1, comma 2, della legge n. 20, del 14 gennaio 1994, come innovato dall’art. 3, del d.l. 23 ottobre 1996, n. 453, ove si prevede che «Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta». Osserva il Collegio che il «dies a quo» del termine prescrizionale, tema diffusamente delibato 184 GIURISPRUDENZA dalla giurisprudenza contabile, si identifica, in base al dato testuale, con la «verificazione» del fatto dannoso. La giurisprudenza formatasi in ordine al significato da attribuire al concetto di «verificazione del fatto dannoso», dal quale far decorrere il termine iniziale della prescrizione (ex ordium praescriptionis), è rimasta a lungo oscillante tra due distinte posizioni: l’una che si richiama al concetto di «fatto» piuttosto che «evento dannoso», e che coerentemente individua il termine iniziale per il decorso della prescrizione nella condotta che abbia posto in essere le necessarie ed ineludibili premesse di un evento interpretato in termini di mera ed obbligata conseguenza (Corte dei conti, Sez. III d’app., 30 settembre 2002, n. 300); l’altra, che per converso individua invece il «...fatto dannoso...» nell’esborso di somme da parte della Pubblica Amministrazione e non piuttosto nella condotta che ha determinato tale erogazione. In sostanza, secondo questa ricostruzione interpretativa, l’illecito amministrativo-contabile non si perfeziona al tempo del comportamento antigiuridico ma, coerentemente con la struttura di questa peculiare tipologia di responsabilità, nel momento in cui, verificandosi gli effetti causalmente riconducibili alla condotta dell’agente, si realizza l’eventus damni,quale effettivo depauperamento del patrimonio e/o della finanza pubblica, così abilitando il Requirente all’esercizio dell’actio damni in precedenza invece concretamente inammissibile. Detta seconda interpretazione risulta, ad avviso del Collegio, maggiormente coerente sia rispetto alla struttura dell’illecito amministrativo contabile che con riguardo alla disciplina di ordine generale in materia di decorso della prescrizione (art. 2935 c.c: contra non valentem agere non currit praescriptio; così Corte dei conti, Sezione 2a d’app., sent. n. 20, del 1o febbraio 2010, id. Sezione 1a Centrale, 06 febbraio 2007, n. 17, id. 05 dicembre 2003, n. 427 e 07 ottobre 2002 n. 341). Peraltro, l’interpretazione testè sintetizzata ha recentemente rinvenuto conferma da parte delle Sezioni Riunite di questa Corte, che, con sentenza n. 5/2007/QM del 19 luglio 2007, pronunziata nell’esercizio della funzione nomofilattica, hanno affermato che di decorrenza della prescrizione possa parlarsi solo nel momento in cui la condotta contra ius abbia prodotto l’evento dannoso avente i caratteri della concretezza e dell’attualità, ovverosia la decorrenza della prescrizione va individuata, quindi, nella data del pagamento (cfr. anche, SS.RR. n. 14/2011/QM, del 5 settembre 2011). Quanto alla tematica degli atti interruttivi del decorso della prescrizione, l’art. 2943 c.c. espressamente prevede che «la prescrizione è interrotta», oltre che dalla notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, «da ogni altro che valga a costituire in mora il debitore», sia esso stragiudiziale o giudiziale. Alla costituzione in mora stragiudiziale il codice civile dedica poi l’art. 1219, che al 1o comma così dispone: «Il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto». In tema, la Corte di Cassazione, con orientamento consolidato, ha affermato che «...affinché un atto possa acquisire efficacia interruttiva della prescrizione, a norma dell’art. 2943 quarto comma c.c., esso deve contenere l’esplicitazione di una pretesa, vale a dire un’intimazione o richiesta scritta di adempimento idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto passivo, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora...» (così Cass. Sez. III civ., 12 febbraio 2010, n. 3371, id. 9 marzo 2006, n. 5104, Sez. II civ. n. 7524/2006, n. 5104/2006, n. 10926/2005). Inoltre, l’atto di costituzione, afferma la stessa Suprema Corte, non può ritenersi soggetto all’adozione di formule sacramentali né richiede un puntuale quantificazione del credito (cfr. Cass. sent. n. 4712/1994, id. Sez. Lavoro sent. 12078, del 18 agosto 2003, id. Sez. III civ., n. 5681 del 2006, ma anche Corte dei conti, Sez. 1a, 26 maggio 2006, n. 126/A), potendo quest’ultimo essere solo determinabile nel suo ammontare; deve essere diretto al suo legittimo destinatario ma non esige specifiche modalità di trasmissione (così Cass. sez. III civ. n. 13651/2006). In sostanza, l’atto di costituzione in mora ex art. 1219 c.c., quale atto unilaterale ricettizio non negoziale (conforme Corte dei conti, Sez. III, 24 marzo 2004, n. 202/A), si compendia in una richiesta scritta di adempimento o intimazione di pagamento relativa ad un credito e rivolta a soggetti determinati in quanto ritenuti debitori. Applicando i suddetti principi di ordine normativo e giurisprudenziale alla fattispecie concreta, RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 185 va quindi respinta l’eccezione di prescrizione avanzata dal patrono della prof.ssa ...omissis... nei termini prima descritti. Per converso, occorre evidenziare come la Sitram, formalmente costituita nell’aprile del 2001, abbia concretamente avviato una attività economicamente significativa (come emergente dai relativi bilanci versati in atti) soltanto a partire dal 2002 per poi esser posta in liquidazione volontaria il 18.11.2003 e successivamente cessare l’attività in data 25.11.04 (la cancellazione dal Registro delle Imprese è avvenuta in data 27.1.2005). D’altra parte, occorre riconoscere pieno effetto interruttivo alla nota di costituzione in mora datata 23 novembre 2006, inviata dal presidente pro tempore dell’Amt ...omissis... anche all’ex sindaco ...omissis..., contenente la specifica menzione delle ragioni e dell’ammontare del credito vantato. Pertanto, avuto riguardo al tempo di effettivo esborso delle spese contestate (sostanzialmente quasi tutte effettuate da Sitram in data successiva al 23 novembre 2001, fatta eccezione in sostanza per quelle di avvio dell’azienda), la maturazione del periodo quinquennale di prescrizione non può evidentemente ritenersi compiuta, tanto più che, come meglio si dirà nel prosieguo, il presente giudizio, in ragione della menzionata pronunzia del Supremo Giudice della giurisdizione, concerne l’accertamento di eventuale responsabilità amministrativa per danni direttamente arrecati ad enti pubblici e non già per meri esborsi effettuati da Sitram ovvero anche da Amt, con tutto ciò che ne consegue anche in termini di individuazione del dies a quo della relativa prescrizione. In buona sostanza, l’aver autorevolmente circoscritto, in ottemperanza al dictum della Corte di Cassazione, la pretesa risarcitoria al solo danno direttamente arrecato al patrimonio della Pubblica Amministrazione, implica una correlata diversa individuazione del dies a quo della prescrizione del relativo credito erariale anche con riguardo alle residuali spese effettuate da Sitram prima del 23 novembre 2001, dies eventualmente individuabile nel tempo in cui dette erogazioni private si sono (in tesi) tradotte in pubblico detrimento. [6] Nel merito, il Collegio osserva come, ai fini della ricostruzione della rivendicata ipotesi di responsabilità amministrativa, assuma rilievo dirimente il riscontro della sussistenza di un danno diretto per l’erario, per come affermato dalla Corte di cassazione in sede di decisione sul regolamento di giurisdizione. Il Supremo Giudice della giurisdizione, infatti, nella già menzionata ordinanza n. 10299/2013 del 26 febbraio – 3 maggio 2013, nel dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti dei soggetti con cariche sociali nella partecipata pubblica Atam spa, ha ritenuto che «non v’è ragione per dubitare della giurisdizione del giudice contabile in ordine all’azione proposta nei confronti del sindaco e dell’assessore del comune di Verona, restando evidentemente poi rimessa a quel medesimo giudice, in sede di merito, ogni valutazione circa la possibilità d’individuare nel caso di specie un danno imputabile ad azioni o omissioni di quei soggetti e riferibile (non già al patrimonio della società partecipata, bensì) direttamente all’ente pubblico comunale». In proposito, occorre innanzitutto evidenziare che la parte pubblica, in sede di originaria citazione in giudizio (pagg. 21, 23 e 66), avesse espressamente qualificato il petitum risarcitorio in termini di «danno indiretto» arrecato al comune di Verona, successivamente riqualificato, in sede di riassunzione (in particolare, pagg. 23 e ss.), in termini di danno diretto; qualificazione espressamente contestata in udienza dal legale della prof. ssa ...omissis..., che ha lamentato la ricorrenza di una non consentita ipotesi di mutatio libelli. Sulla questione, tuttavia, occorre richiamare l’orientamento consolidato della Suprema Corte (Cass. 12 aprile 2005, n. 7524; Cass. 27 luglio 2009 n. 17457; Cass. 19 aprile 2010, n. 9266; Cass. N. 23 luglio 2013, n. 1785) secondo cui si verifica una «mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un “petitum” diverso e più ampio oppure una “causa petendi” fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice “emendatio” quando si incida sulla “causa pe- 186 GIURISPRUDENZA tendi”, in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul “petitum”, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere» (Cass. Cass. 20 luglio 2012, n. 12621). Nella specie, per il vero, sia la consistenza oggettiva della pretesa, (petitum) come anche i relativi fatti costitutivi (causa petendi), sono rimasti ictu oculi inalterati, essendosi limitato l’organo pubblico requirente ad argomentare/riqualificare la natura direttamente pubblica in senso sostanziale del danno contestato. Venendo alla sostanza della questione, ovvero alla verifica processuale della riscontrabilità, nel caso di specie, di «un danno riferibile non già al patrimonio della società partecipata, bensì direttamente all’ente pubblico comunale», occorre innanzitutto rilevare come la parte pubblica non abbia compiutamente documentato, mediante produzione di documenti contabili (bilanci e mandati di pagamento di enti pubblici), la natura direttamente pubblica del danno contestato, ovvero secondo quali «itinerari» procedimentali amministrativo-contabili le specifiche spese affrontate da soggetti privati a partecipazione pubblica (di costituzione, di governance, per l’organo di controllo, di revisione, di locazione, di personale e utenze), confluite nel’ambito del danno erariale contestato, si siano effettivamente tradotte in specifici esborsi a carico di enti pubblici. In buona sostanza, l’organo requirente ha ritenuto di poter ricostruire la natura direttamente pubblica del danno contestato sul terreno logico-deduttivo, secondo una trama ricostruttiva incentrata sulla natura oggettivamente totalitaria (100% del capitale di proprietà del comune di Verona) della partecipazione pubblica in AMT, sul potere-dovere per l’ente pubblico di stabilire le tariffe per l’utenza del servizio e infine sull’obbligo di versare alla società partecipata i corrispettivi annui pubblici (trasferiti dal bilancio regionale) previsti dal DGR n. 326/2001 al fine di garantire i servizi minimi essenziali, come previsto dalla legge regionale n. 25/1998. Obbligo, quest’ultimo, il cui adempimento, relativamente agli esercizi finanziari in questione, l’organo requirente ha documentato mediante la produzione di due note a firma del Segretario Generale del comune di Verona, datate rispettivamente 10.5.2013 e 24.5.2013, nelle quali vengono quantificati i contributi regionali dal 2001 al 2004, con importi oscillanti da un minimo di P 10.604.005,92 ad un massimo di P 13.518.430,72. Tuttavia, occorre innanzitutto rilevare come detta modalità ricostruttiva del danno diretto ad ente pubblico appaia di dubbia conciliabilità, sul terreno giuridico-formale, con la natura di autonomo soggetto giuridico delle partecipate in questione, dotate di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che la distinzione «tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali (ma il principio di separazione dei patrimoni non può che imporsi, mutatis mutandis, anche con riguardo ad attività di amministratori e funzionari pubblici; n.d.r.) abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato» (Cass. Sez. U. n. 26806/2009). Parimenti, più recentemente (Cass. S.U. ord. n. 71/2014) la stessa Suprema Corte, nel confermare l’ormai consolidato indirizzo interpretativo già enunziato, ha ribadito che «l’autonomia patrimoniale ... impedisce di configurare come erariali le perdite che restano esclusivamente della società, che è regolata ..... come ogni altro soggetto sovrapersonale di diritto privato» (S.U. 25 marzo 2013 n. 7374, 5 luglio 2011 n. 14 655, ord. 22 dicembre 2009 n. 27092 e ord. 22 dicembre 2011 n. 23829). Peraltro, anche sul terreno logico-deduttivo, le argomentazioni di ordine sostanziali addotte da parte attrice non si rivelano effettivamente persuasive, alla luce dell’esame dei bilanci della società Amt, correttamente acquisiti e depositati dall’organo requirente. Infatti, dall’esame di detti documenti contabili (dal 2001 al 2004) della società partecipata Atm non si evidenzia alcuna specifica correlazione tra il «ciclo di vita» della Sitram (costituita nel 2001, attiva più intensamente nel 2002, posta in liquidazione nel 2003, cessata dall’attività nel 2004) e l’andamento dei ricavi di esercizio derivanti da «servizi minimi TPL». RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 187 In effetti, l’ammontare di detti specifici ricavi si mantiene sostanzialmente costante nel tempo, essendo stato pari ad euro 10.536.436 nel 2001, ad euro 10.482.868 nel 2002 (esercizio in cui si registra il valore minimo del quadriennio in esame, in corrispondenza della «massima attività» della Sitram), ad euro 10.568.382 nel 2003 e ad euro 10.568.382 nel 2004. Analoga constatazione consegue al raffronto tra il «ciclo di vita» della Sitram e gli importi effettivamente corrisposti dal comune di Verona all’Atm nel quadriennio in esame, pari ad euro 11.770.669,96 nel 2001, ad euro 10.604.005,92 nel 2002 (valore più basso in assoluto, a fronte di una più intensa attività di Sitram), ad euro 13.518.430,72 nel 2003 e ad euro 11.035.884,37 nel 2004. Inoltre, come espressamente attestato nella documentazione acquista dall’organo requirente, queste ultime somme sono state trasferite dal comune di Verona ad Atm genericamente «a titolo di corrispettivo» per un servizio prestato (trasporto pubblico locale), senza dunque una riscontrabile specifica correlazione con l’attività di Sitram. Peraltro, l’esame dei bilanci di ATM evidenzia come, anche al di là del dato giuridico-formale, l’autonomia patrimoniale perfetta della società, lungi dal costituire un mera «fictio iuris» dissimulante una consistenza patrimoniale «di gruppo» sostanzialmente indistinta, si traduca in margini di concreta autonomia di entrata (oltre che ovviamente di spesa), sub specie di non minimali ricavi da «biglietti e abbonamenti» (in questi termini si esprime la classificazione di bilancio). In dettaglio, rimanendo al quadriennio in esame, i ricavi da corrispettivi per biglietti e abbonamenti versati dagli utenti e percepiti da Atm sono stati pari a euro 7.360.807 nel 2001, euro 7.301.546 nel 2002, euro 7.622.049 ed euro 8.056.401 nel 2004. In buona sostanza, dunque, l’Atm non vive esclusivamente di finanza derivata, ovvero non acquisisce provvista finanziaria elusivamente mediante trasferimenti da parte di enti pubblici, potendo al contrario giovarsi anche di cospicue entrate proprie. Tale evidenza non appare coerente, anche al di là del dato giuridico-formale dell’autonomia patrimoniale perfetta, con l’itinerario logico-deduttivo, seguito da parte attrice, di ricostruzione, per così dire, «per propagazione» del danno diretto ad ente pubblico. Non ravvisandosi una compiuta ricostruzione probatoria di un danno erariale diretto ad ente pubblico, il Collegio ritiene evidentemente assorbiti gli ulteriori profili ricostruttivi dell’illecito amministrativo-contabile eccepiti dalla parte privata costituita o comunque implicati nella fattispecie concreta sub iudice e quindi di dover prosciogliere nel merito gli odierni convenuti dagli addebiti contestati dalla Procura Regionale con il libello accusatorio. ...omissis... QUESTIONI IN TEMA DI RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE NELL’AMBITO DELLA COSTITUZIONE DI SOCIETÀ PARTECIPATA PER LA REALIZZAZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO 1. Premessa La articolata pronuncia della Sezione Giurisdizionale del Veneto della Corte dei Conti che qui si annota (e che data la complessità della fattispecie si riporta pressocché integralmente), si segnala per i molti profili di interesse, sia di carattere preliminare e processuale, che di merito, emergenti in relazione alla particolare fattispecie esaminata. 188 GIURISPRUDENZA La vicenda concerne infatti una prospettata ipotesi di responsabilità amministrativa nell’ambito della costituzione, da parte di un ente locale, di una società a responsabilità limitata per la realizzazione di un servizio pubblico (realizzazione e successiva gestione di una tramvia). Più esattamente, l’ente locale, attraverso una convenzione intervenuta con la propria azienda municipalizzata dei trasporti (operante nella forma di società per azioni – AMT spa – di cui l’ente locale era socio totalitario), alternativamente alla costituzione di una apposita struttura interna all’azienda dei trasporti (c.d. «Ufficio Tramvia»), decideva di costituire invece una apposita società mista dedicata (SI.TRAM. srl), partecipata al 75% dalla AMT e al 25% dal partner strategico prescelto per la realizzazione e la gestione del servizio. Tuttavia, successivamente, avendo il Collegio Sindacale di AMT rilevato alcune anomalie nel rapporto tra AMT spa e SI.TRAM. srl, anche sulla scorta di un parere reso da un legale, l’ente locale maturava la decisione di procedere allo scioglimento del rapporto tra AMT spa e SI.TRAM. srl, optando per l’affidamento al c.d. Ufficio Tramvia (struttura interna all’AMT spa) della procedura di realizzazione e gestione della tramvia. Su tale base, la Procura regionale della Corte dei Conti conveniva in giudizio due amministratori dell’ente locale (Sindaco ed assessore), i consiglieri, il Presidente e il Direttore generale di AMT spa, nonché il Direttore generale di SI.TRAM. srl, ritenendoli responsabili, secondo differenti quote percentualmente determinate, degli illeciti e dei danni derivati dalla costituzione di SI.TRAM. srl, ovvero (secondo la prospettazione attorea) della costituzione di una società sostanzialmente inutile, in quanto le attività della stessa potevano essere svolte da un ufficio interno alla società AMT spa, con costi assai inferiori. Radicata l’azione, la quasi totalità dei convenuti proponeva ricorso preventivo di giurisdizione, che la Corte di Cassazione, ribadendo il proprio costante orientamento, accoglieva, declarando il difetto di giurisdizione del giudice contabile rispetto ai convenuti consiglieri, amministratori e funzionari dell’azienda di trasporto partecipata in via totalitaria dal Comune e di quelli della società partecipata appositamente costituita per la realizzazione della tramvia. Ed invero, la giurisprudenza della Cassazione è assolutamente ferma nell’affermare che «La controversia riguardante l’azione di responsabilità a carico di amministratori e sindaci di una società per azioni a partecipazione pubblica, anche se totalitaria – ma la cui attività statutaria sia di svolgere un servizio in regime di concorrenza – per il danno patrimoniale subito dalla società a causa della loro condotta illecita appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice contabile, atteso che, da un lato, dette società non perdono la loro natura di enti privati disciplinati dal codice civile e, dall’altro lato, il danno cagionato dall’illecito incide in via diretta solo sul patrimonio della socie- RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 189 tà che resta privato e separato da quello dei soci» (così Cass. S.U. Civ. 5 aprile 2013 n. 8352; ed ancora, oltre a quelle citate nella pronuncia in commento, Cass. S.U. Civ. n. 7374 del 25.3.2013 e n. 20941 del 12.10.2011), ammettendosi la sottoposizione alla giurisdizione della Corte dei Conti in relazione agli illeciti e ai danni cagionati alla società partecipata, solo qualora sussistenti i tre requisiti (nella concreta fattispecie ritenuti non ricorrenti) idonei a configurare lo schema della società in «house providing» e cioè: «l’appartenenza pubblica del capitale sociale, l’inesistenza di margini di libera agibilità sul mercato e la sottoposizione a “controllo analogo”, tali da far scattare la giurisdizione contabile» (così testualmente Cass. S.U. Civ. 16.12.2013 n. 27993). L’ordinanza al riguardo pronunciata dalla Cassazione (la n. 10299 del 26 febbraio – 3 maggio 2013) riconosceva invece la giurisdizione del giudice contabile rispetto alla posizione del Sindaco e dell’assessore comunale, precisando tuttavia (precisazione che è stata, nel seguito del giudizio, valorizzata nel merito dalla Sezione) che restava «evidentemente poi rimessa a quel medesimo giudice, in sede di merito, ogni valutazione circa la possibilità di individuare nel caso di specie un danno imputabile ad azioni o omissioni di quei soggetti e riferibile (non già al patrimonio della società partecipata, bensì) direttamente all’ente pubblico comunale». Il giudizio radicato dalla Procura regionale proseguiva dunque – limitatamente alle quote di responsabilità loro attribuite – solamente nei confronti del Sindaco e dell’assessore comunale. 2. Sindacabilità dell’azione amministrativa Una prima rilevante questione esaminata dalla Sezione riguarda la determinazione dei margini di sindacabilità delle scelte operate dall’amministrazione: si è eccepito, infatti, dai convenuti, che la scelta relativa alla costituzione di una ulteriore apposita società dedicata alla realizzazione e gestione della tramvia, fosse da ritenersi piena espressione di discrezionalità dell’azione amministrativa, come tale sottratta al sindacato del giudice contabile ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994. Sul punto dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice contabile, oltre alla giurisprudenza della Corte dei Conti (citata anche dalla pronuncia in commento), è più volte intervenuta anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, in varie occasioni, hanno avuto modo di affermare che la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini perseguiti dall’ente pubblico: «Infatti, se da un lato, in base alla legge n. 20 del 1994, articolo 1, comma 1, l’esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori 190 GIURISPRUDENZA costituisce espressione di una sfera dfi autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti, dall’altro lato, la legge n. 241 del 1990, articolo 1, comma 1, stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di “economicità” e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall’articolo 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non mera opportunità) dell’azione amministrativa. Pertanto la verifica della legittimità dell’azione amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti (Cass. Sez. Un 9.7.2008 n. 18757; 28.3.2006 n. 7024; 29.9.2003 n. 14488)» (così in motivazione Cass. Sez. Un. n. 10069 del 9 maggio 2011). In altri termini l’insindacabilità «nel merito» delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell’attività amministrativa, anche, per così dire, sotto l’aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruità degli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore. Nella stessa lunghezza d’onda della Corte Suprema, anche le Sezioni Centrali della Corte dei Conti (sentenza n. 278 del 7 agosto 2013) hanno ribadito che: «Il limite dell’insindacabilità va posto in correlazione con l’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di “economicità” e di efficacia, che costituiscono specificazione del principio sancito dall’articolo 97 Cost., e che hanno acquistato dignità normativa, assumendo rilevanza sul piano della legittimità dell’azione amministrativa. Ed infatti, la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti ed i costi sostenuti; e la violazione di tali criteri può assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità dal momento che l’antigiuridicità dell’atto amministrativo costituisce un presupposto necessario (anche se non sufficiente) della colpevolezza di chi lo ha posto in essere. Ne deriva che la Corte dei Conti può verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità». Nella specie la Sezione ha ritenuto di non violare i limiti esterni della propria giurisdizione, e quindi ha ritenuto sindacabile l’azione amministrativa, rilevando, in concreto, che la scelta della costituzione di una ulteriore apposita società dedicata, invece che di un ufficio interno all’azienda municipale, è avvenuta «in assoluta assenza di una puntuale pianificazione comparativa ex ante dei relativi costi gestionali». In tale prospettiva, la Sezione, in concreto, ha quindi ritenuto di poter e dover sindacare la scelta così operata sotto il profilo della illegittimità-illiceità, oltre che RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 191 dell’irragionevolezza, in ragione della incongruità, illogicità ed irrazionalità della scelta dei mezzi rispetto ai fini, nonché del rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa (per un caso particolare ed interessante relativo alla affermazione di sindacabilità degli atti di attribuzione di un incarico professionale, vedi da ultimo Cass. Sez. Un. n. 4283 del 21.2.2013, dove si ribadisce che l’attribuzione di un incarico esterno è legittimo solo previa rigorosa valutazione dell’impossibilità oggettiva, da rappresentare negli atti, di far fronte all’esigenza richiesta con personale interno all’organizzazione – valutazione la cui assenza consente la sindacabilità degli atti adottati dall’amministrazione). In relazione a quanto osservato, si può dunque concludere che la Corte dei Conti rispetta i limiti della «riserva di amministrazione» e non viola i limiti esterni della propria giurisdizione quando, nel valutare se i mezzi liberamente scelti dagli amministratori di un Comune siano adeguati o esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, ritenga illegittimo il ricorso ad incarichi ed operatività esterne in difetto di una motivazione che ne dimostri l’essenzialità e l’impossibilità di provvedere al soddisfacimento ed al perseguimento del fine pubblico con la sola propria organizzazione interna (cfr. ancora Cass. n. 10069/2011). 3. Nullità ex art. 17, comma ter D.L. 78/2009 conv. in Legge n. 102/2009 (e successive modificazioni ed integrazioni) Una seconda interessante questione attiene all’eccezione (ritenuta infondata dalla Sezione) sollevata dai convenuti relativamente alla asserita nullità degli atti istruttori e processuali per violazione dell’art. 17, comma ter D.L. 78/2009 conv. in Legge n. 102/2009, nel testo risultante dopo le modifiche introdotte dal D.L. 3.8.2009 n. 130 convertito in Legge 3 ottobre 2009 n. 141. Tale disposizione recita testualmente: «Le Procure della Corte dei Conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge...Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». Gli orientamenti espressi dalla dottrina e dalla giurisprudenza contabile in ordine alla natura della disposizione sono concordi nel ritenere il requisito di carat- 192 GIURISPRUDENZA tere generale fissato dalla norma quale condizione di procedibilità dell’azione erariale, giacché, si osserva, essa fissa i presupposti dell’avvio, da parte delle procure contabili, dell’attività istruttoria all’esito della quale si valuterà se radicare o meno l’azione di responsabilità. Quanto alle condizioni poste dalla disposizione per un legittimo avvio dell’attività istruttoria, e, dunque, per non incorrere nella sanzione di nullità specificamente prevista (e di carattere assoluto dato che «chiunque vi abbia interesse» può «in ogni momento» farla valere), la giurisprudenza contabile si è da subito orientata ad una interpretazione per così dire «estensiva» del concetto di «specifica e concreta notizia di danno», nella preoccupazione, che ci pare più che legittima, di non porre all’attività inquirente dei limiti tali da renderla sempre potenzialmente esposta all’eccezione di nullità degli atti istruttori (magari sollevata in fase di appello). Già prima della pronuncia delle Sezioni Riunite, ampiamente citata nella decisione della Sezione (la n. 12/2011/QM del 9 giugno – 3 agosto 2011) la giurisprudenza contabile aveva intanto chiarito che «l’espressione «notizia» di danno – la cui esistenza costituisce il presupposto necessario per l’iniziativa del Procuratore regionale – deve essere intesa nel senso» (NDR: più ampio) «di informativa e non come denuncia o querela (o referto); e, pertanto, può consistere anche in fonti innominate od atipiche, quali la comunicazione anonima, la notizia confidenziale e la notizia di stampa» (Corte Conti Sez. Toscana n. 26 del 19.11.2010). Si era inoltre affermato che «La fonte conoscitiva da cui promana l’atto di citazione deve essere tale da indirizzare le indagini in una precisa direzione ed in un determinato ambito operativo, con l’esposizione di una fattispecie storicamente determinata, ma non è necessario che siano indicati né il soggetto responsabile, né i presupposti di responsabilità, ovvero la condotta da lui perpetrata; e, pertanto, costituiscono valide fonti di cognizione dell’ipotizzato danno all’erario, sia il provvedimento giudiziale del rinvio a giudizio del convenuto che una nota informativa della Guardia di Finanza» (Corte dei Conti Sez. Molise n. 168 del 22.12.2010). Sui caratteri di specificità e concretezza si era poi rilevato che «Non si deve attribuire ai concetti di concretezza e specificità della notizia di danno significati estranei quali quello di serietà o di certezza della notizia stessa, perché questi sono requisiti della fondatezza dell’azione e non della legittimità dell’istruttoria, la quale è finalizzata ad accertare tutti gli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità, che verranno poi sottoposti all’esame del giudice» (Corte Conti Sez. Lazio n. 350 del 23.6.2010), ed altresì che «La necessità che l’istruttoria del pubblico ministero contabile tragga origine da una notizia di danno specifica e concreta, non implica il divieto assoluto di una attività di indagine di ampio spettro, allorché una indagine di tal genere sia giustificata dalla vastità del fenomeno dannoso e dalla quantità dei fatti specifici oggetto della notizia di danno da verificare; nella fattispecie è stata ritenuta RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 193 legittima alla stregua dell’art. 17 comma 30 ter del D.L. n. 78/2009, l’acquisizione dell’elenco e della documentazione delle assunzioni e dei conferimenti di incarichi esterni effettuati da un ente pubblico in un certo periodo di tempo al fine di verificare la fondatezza di un esposto molto circostanziato, nel quale si riferivano una serie di fatti dannosi riguardanti l’intera riorganizzazione dell’ente» (Corte Conti Sez. II App. n. 307 del 16.8.2010). A puntualizzare i caratteri degli elementi richiesti per l’esercizio di una legittima attività istruttoria è poi intervenuta la già ricordata decisione delle Sezioni Riunite (ampiamente riportata nella pronuncia della Sezione), che anche successivamente ha trovato conferme negli orientamenti delle Sezioni d’appello: «Premesso che l’art. 17, comma 30 ter, del D.L. n. 78/2009 (legge n. 102) prescrive a pena di nullità, che l’istruttoria contabile sia fondata sulla base di una concreta e specifica notizia di danno erariale, la giurisprudenza contabile specifica che il termine “notizia”, comunque non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure percepibile da strumenti di informazione di pubblico dominio; che l’aggettivo “specifica” è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di fatti, così da apparire non generica, ma ragionevolmente circostanziata; che l’aggettivo «concreta» è infine da intendersi come obiettivamente attinente alla realtà e non a mere ipotesi o supposizioni, ad evitare che l’indagine del P.M. contabile sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito controllo generalizzato» (Corte Conti Sez. III App. n. 787 del 30.11.2012). 4. Profili in tema di decorrenza della prescrizione e di carattere dell’atto interruttivo Interessanti risultano anche i rilievi esposti nella decisione, che si segnala soprattutto per l’analitico esame delle posizioni in passato maturate dalla giurisprudenza contabile sul tema della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione erariale e sui requisiti richiesti per la validità degli atti interruttivi di essa, posizioni che, pur talvolta con qualche puntualizzazione dissonante, sono oggi consolidate nell’affermazione dei principi che anche la Sezione ha fatto propri. Circa la questione della decorrenza della prescrizione, la decisione precisa, doverosamente, e quasi con una sorta di excursus storico, quali elementi siano stati, e debbano essere, considerati come termini di riferimento per il decorso della prescrizione (il compimento della condotta generatrice dell’evento dannoso conseguenziale – secondo una prima e più risalente tesi che anticipa il decorso ad un momento antecedente all’effettivo esborso rilevante per l’erario – piuttosto che il verificarsi del fatto dannoso da identificarsi nel concreto materializzarsi del- 194 GIURISPRUDENZA l’esborso originato dall’atto illegittimo ovvero dalla condotta illegittima del pubblico ufficiale – secondo la tesi più recente, ora assolutamente pacifica e consolidata nella giurisprudenza contabile). Questa seconda tesi (come detto pacifica e consolidata) è stata seguita anche dalla Sezione, sottolineandosi come essa sia anche più aderente al sistema normativo generale portato dalle disposizioni del codice civile, in particolare dalla disciplina dell’art. 2935 cod.civ. È stato invero, al riguardo, osservato che: «Il momento iniziale di decorrenza della prescrizione del credito erariale, coincidendo con la data a partire dalla quale il diritto azionato può essere fatto valere a mente dell’art. 2935 c.c., si rinviene nel momento dell’effettivo pagamento in cui diventi concreto ed attuale il danno erariale, e non nel momento in cui sorge il semplice obbligo giuridico di pagare una somma di denaro, ed il relativo onere probatorio grava sulla parte che eccepisce la prescrizione» (così Corte Conti Sez. Lombardia n. 685 del 28.11.2011, che ribadisce i principi affermati anche dalle pronunce citate in motivazione della Sezione Veneto, in ordine alla necessità che il momento del verificarsi del danno, a partire dal quale inizia a decorrere la prescrizione, corrisponda al momento in cui il danno acquista i caratteri della concretezza e dell’attualità). Si può, inoltre, precisare che nelle ipotesi di illecito erariale che produca effetti, e dunque eventi concretamente e attualmente dannosi, che si protraggono nel tempo (come sostanzialmente accadeva nella fattispecie in esame), il decorso del termine prescrizionale dell’azione erariale (che in passato, in analogia alla fattispecie penalistica del reato permanente, si era sostenuto iniziasse solo al cessare della protrazione dell’evento dannoso), viene solitamente ritenuto iniziare dai singoli pagamenti: «Nell’ipotesi di illecito con effetti che si protraggono nel tempo, i danni si verificano con i singoli esborsi, e pertanto ciascuno di questi è soggetto ad un proprio termine prescrizionale quinquennale, con decorrenza dalla data dei singoli pagamenti» – Corte Conti Sez. Friuli Venezia Giulia n. 215 del 20.12.2010 – «In ipotesi di danno permanente, come quello che si determina dall’assegnazione di personale ad un’unità produttiva non funzionante, la prescrizione decorre dai singoli momenti in cui il danno si produce e si accresce, nella fattispecie con il pagamento degli stipendi al personale illegittimamente assegnato» – Corte Conti, Sez. II App. n. 362 del 20.9.2010). Anche per quanto concerne gli aspetti inerenti alla valutazione dei requisiti di validità ed efficacia degli atti interruttivi della prescrizione, la Sezione ha fatto propri principi ormai (quasi) pacificamente affermati dalla giurisprudenza contabile (ma pure dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza amministrativa). È infatti assolutamente ricorrente l’affermazione di carattere generale che: «Ai sensi dell’art. 2943 c.c., il titolare del diritto può interrompere la prescrizione con la notificazione dell’atto con il quel si inizia un giudizio o con la domanda proposta nel RESPONSABILITÀ ERARIALE DEGLI AMMINISTRATORI DI ENTE LOCALE 195 corso di un giudizio, oppure con “ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”. L’atto di costituzione in mora, avendo natura recettizia, deve essere portato a conoscenza del debitore affinché assuma valore di costituzione in mora nei confronti di questi. In altri termini, il connotato fondamentale dell’atto interruttivo della prescrizione consiste nella sua idoneità a rendere nota al destinatario la volontà del suo autore di far valere un diritto nei suoi confronti» (Cons. Stato Sez. V n. 5480 del 20.11.2013). In tale ordine di considerazioni, e con specifico riguardo all’azione di responsabilità erariale, è stato ribadito che: «Ai fini della validità della costituzione in mora, per il conseguimento dell’efficacia interruttiva della prescrizione del credito erariale, è necessario e sufficiente che l’atto contenga la inequivoca manifestazione di volontà del soggetto titolare del diritto di ottenere l’adempimento dell’obbligazione, a nulla rilevando l’ulteriore requisito della quantificazione del danno» (Corte Conti, Sez. I App. n. 126 del 26.5.2006, che ribadisce i principi già in precedenza affermati da SS.RR. n. 10/A del 10.3.1995). Essenziale è comunque che l’atto contenga «una esplicita richiesta di immediato pagamento e non limitarsi a rinviare e subordinare il soddisfacimento dell’interesse erariale al sopravvenire di una eventuale condanna in giudizio» (così Corte Conti Sez. II App. n. 10 del 9.2.2007). Va puntualizzato che la titolarità all’invio della richiesta idonea a costituire in mora il debitore erariale (e dunque idonea ad interrompere la prescrizione), che un tempo l’orientamento maggioritario tendeva a riconoscere alla sola amministrazione danneggiata, viene ora invece pacificamente riconosciuta anche alla procura contabile. Peraltro, dato per assodato che la procura contabile possa inviare agli inquisiti atti di intimazione e di messa in mora, perfettamente validi ai fini interruttivi, indipendentemente dall’invito a dedurre, si è posto il problema se anche l’invito a dedurre possa costituire di per sé valido atto interruttivo della prescrizione. La soluzione adottata dalla giurisprudenza contabile riconosce validità interruttiva all’invito solo qualora in esso siano rinvenibili anche i requisiti e gli elementi richiesti dagli artt. 2943 e 1219 c.c.: «Il P.M. contabile è legittimato, autonomamente, a porre in essere atti di costituzione in mora nei confronti dei presunti responsabili ai danni erariali devoluti alla giurisdizione della Corte dei Conti, atteso il ruolo dallo stesso rappresentato nei confronti dell’amministrazione danneggiata e dell’ordinamento; pertanto, va riconosciuto effetto interruttivo all’invito a dedurre, ove questo contenga tutti gli elementi richiesti, per produrre tali effetti, dagli artt. 1219 e 2943 c.c.» (v. Corte Conti Sez. Veneto n. 133 del 2.3.2010; idem Corte Conti Sez. Toscana n. 792 del 19.12.2005, ed ancora Corte Conti Sez. II App. n. 342 del 30.10.2007, nonché da ultimo Sez.III App. n. 132 del 10.2.2011). Vittorio Fedato 9!BM CF>:RSR SV! 5!;E ; F:SXUWVU! 00149687 ISBN 978-88-13-34334-7 Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano del DIRITTO dell’AVVOCATURA della GIURISDIZIONE RIVISTA TRIMESTRALE N. 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2014 PANTONE 188
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