DIREPUBBLICA - La Repubblica

LADOMENICA
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
NUMERO 464
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
Istruzioni
per l’uso
perché viviamo
facendo da soli
RAFFAELLA DE SANTIS
e MAURIZIO FERRARIS
Il romanzo
Kyung-Sook Shi
e la rivoluzione
dei giovani
fantasmi di Seul
ELENA STANCANELLI
Straparlando
Lorenza Mazzetti
“Mi sono salvata
testimoniando
il male dei nazisti”
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
UNA SCENA DI “SHINING” DI STANLEY KUBRICK
ANTONIO GNOLI
Il bambino di “Shining” oggi fa il medico
ha poteri paranormali e parecchi brutti ricordi
In esclusiva il sequel dell’horror
firmato Stephen King
La storia
Se a raccontare
Little Bighorn
sono gli indiani
SIEGMUND GINZBERG
e VITTORIO ZUCCONI
L’incontro
Castrogiovanni
“Un futuro
da Bud Spencer”
MASSIMO CALANDRI
STEPHEN KING
G
ennaiodel 2007. Nella torretta di Rivington House, la
stufa di Dan era al massimo, ma la stanza era ancora
gelida. Una bufera accompagnata da raffiche di vento che soffiavano a cinquanta nodi era scesa dalle
montagne, facendo cadere una media di quindici centimetri di neve all’ora sulla città di Frazier ancora avvolta nel sonno. Il pomeriggio successivo, alla fine della tempesta, alcuni cumuli sui lati dei palazzi di Cranmore Avenue esposti a nord e a est avrebbero superato
i tre metri. A Dan non dispiaceva il freddo; raggomitolato sotto due
piumoni, era al calduccio come un topo nel formaggio. Però il vento gli era penetrato nel cervello, proprio come si era insinuato attraverso le fessure delle finestre e delle porte della vecchia dimora vittoriana che era diventata la sua casa. Nel sogno, lo sentiva ululare
nell’albergo dove da bambino aveva trascorso un inverno. Anzi, nel
sogno lui era quel bambino.
(segue nelle pagine successive)
Il teatro
ANTONIO MONDA
S
NEW YORK
tephen King cominciò a parlare di un sequel di Shining
(anno 1977) durante il tour promozionale di Under the
Dome (2009), ma aveva iniziato a pensarci subito dopo
la realizzazione del film di Stanley Kubrick (1980) — che
ha sempre considerato un tradimento imperdonabile di uno dei
suoi romanzi prediletti.
Ne discusse una prima volta durante una conversazione pubblica con David Cronenberg: pur parlandone nei termini di una
semplice ipotesi narrativa, il solo riferimento ai fantasmi dell’Overlook Hotel bastò a scatenare l’entusiasmo dei fan. Cronenberg
si congratulò, perché ci vuole coraggio a riprendere un testo di culto, e aggiunse che grazie alla straordinaria capacità di King di creare grandi personaggi e plot efficacissimi il cinema attingeva continuamente ai suoi libri. Oltre a lui e a Kubrick lo hanno fatto De Palma, Reiner, Kasdan, Carpenter e molti altri.
(segue nelle pagine successive)
Le anime perse
di Emma Dante
regalano un pieno
di emozioni
RODOLFO DI GIAMMARCO
La serie
La poesia
del mondo
La ninnananna
di Torquato Tasso
WALTER SITI
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
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LA DOMENICA
La copertina
Stephen King
Avevamo lasciato il piccolo Danny
tra i fantasmi dell’Overlook Hotel
Oggi è un signore che aiuta i malati a morire
e che deve combattere con i suoi incubi
Tutti lo chiamano Doctor Sleep
DORMI, NONAVEREPAURA
STEPHEN KING
(segue dalla copertina)
al secondo piano dell’Overlook. Mamma sta dormendo e papà è in cantina a
controllare vecchi giornali. Si sta DOCUMENTANDO. Ne ha bisogno per il libro che sta scrivendo. Danny non dovrebbe trovarsi lì, né avere il passe-partout che stringe in mano, ma non è riuscito a resistere. In quel preciso istante sta fissando la manichetta di un estintore inchiodato al muro. È ripiegata su se stessa decine di volte e sembra un
serpente con la testa di ottone. Un serpente in letargo. Naturalmente non lo è, lui sta guardando una
manichetta di tela e non una pelle di squame, però
ci somiglia parecchio.
A volte è un serpente.
Forza, gli sussurra Danny nel sogno. Trema di
paura, ma qualcosa lo spinge a continuare. Perché?
Perché si sta DOCUMENTANDO, ecco perché. Forza, mordimi! Non puoi, vero? Sei solo uno stupido
TUBO!
Il beccuccio dello stupido tubo si muove e all’improvviso, invece che osservarlo di lato, lui può guardare direttamente dentro la sua apertura. O forse
nella sua bocca. Una sola goccia trasparente compare sotto il buco nero, allungandosi. Dentro ci può
vedere riflessi i suoi occhi sgranati.
Una goccia d’acqua o di veleno?
Un serpente o un estintore?
E chi può dirlo, mio caro Redrum, Redrum mio caro? Chi può dirlo?
Il tubo vibra rumoroso, e per lo spavento il cuore
gli balza impazzito in gola. Solo i serpenti a sonagli
fanno quel suono.
Il beccuccio del serpente-estintore rotola via dalla manichetta alla quale era appoggiato, cadendo
sul tappeto con un tonfo sordo. Vibra di nuovo e lui
sa che dovrebbe indietreggiare prima di essere attaccato e morso, ma è paralizzato dalla paura, non
riesce a muoversi e il beccuccio vibra...
«Svegliati, Danny!» gli urla Tony da chissà dove.
«Svegliati, svegliati».
Ma lui non ce la fa, proprio come non può spostarsi, quello è l’Overlook, sono bloccati dalla neve,
e tutto è cambiato. Gli estintori si trasformano in
serpenti, le donne morte spalancano gli occhi, e suo
padre... oddio DOBBIAMO SCAPPARE VIA PERCHÉ PAPÀ STA IMPAZZENDO!
Il serpente a sonagli vibra. Vibra. Vi...
È
Dan sentì l’ululato del vento, ma non fuori dall’Overlook. No, fuori dalla torretta di Rivington
House. I fiocchi di neve colpivano la finestra rivolta
a nord. Sembravano granelli di sabbia. L’interfono
vibrò. Scostò i piumoni e scese dal letto, facendo
una smorfia quando appoggiò i piedi caldi sul pavimento gelato. Accese la lampada da tavolo, soffiando fuori il fiato. Non si condensava in vapore, ma
anche se le resistenze della stufetta luccicavano roventi, la temperatura della stanza non doveva superare i sette gradi.
Una nuova vibrazione.
Premette il tasto dell’interfono. «Sono qui, sono
qui. Chi mi cerca?».
«Sono Claudette, Doc. Credo ci sia un paziente
pronto per te».
«La signora Winnick?». Era quasi certo si trattasse di lei. Da una settimana la vita di Vera era appesa a un filo: era in stato comatoso, con il respiro di
Cheyne-Stokes che andava e veniva, e per di più
quello era esattamente il genere di notte che i pazienti agli sgoccioli sceglievano per andarsene. Di
solito alle quattro del mattino. Controllò l’orologio
da polso. Soltanto le tre e venti, ma nessuno era infallibile.
La risposta di Claudette Albertson lo sorprese.
«No, il signor Hayes, giù da noi al primo piano».
«Sicura?». Dan aveva giocato a scacchi con Charlie Hayes proprio quel pomeriggio, e per essere un
uomo affetto da leucemia mieloide acuta, gli era
sembrato vispo come un grillo.
«No, ma Azzie è lì con lui. E se è vero quello che dici...».
Dan sosteneva che Azzie non si sbagliava mai,
una conclusione a cui era arrivato dopo quasi cinque anni di esperienza. Azrael vagabondava liberamente per i tre edifici che costituivano il complesso
dell’ospizio, passando la maggior parte dei pomeriggi acciambellato sul divano della sala comune,
anche se di tanto in tanto lo si vedeva allungato su
un tavolinetto pieghevole, come uno scialle buttato
lì per caso, magari vicino a un puzzle appena completato. Tutti gli ospiti lo adoravano (se c’erano state delle lamentele sul micio di casa, Dan non ne era
al corrente) e Azzie ricambiava l’affetto. Talvolta saltava in grembo a un paziente anziano in fin di vita...
ma con delicatezza, senza fargli male. Un’impresa
notevole, considerata la sua mole. Quell’animale
pesava almeno sei chili.
Non entrava mai in una camera privata, a meno
che il suo occupante non fosse in punto di morte. In
tal caso, si infilava dentro (se la porta era socchiusa)
o restava seduto fuori con la coda avvoltolata intorno alle zampe posteriori, chiedendo di entrare con
un miagolio basso e discreto. Quando gli aprivano,
balzava sul letto dell’ospite (i vecchi di Rivington
House erano più ospiti che pazienti) e se ne restava
fermo a fare le fusa. Se per caso la persona che aveva scelto era sveglia, in genere lo accarezzava. Dan
non aveva mai sentito che qualcuno avesse ordinato di cacciare via Azzie. Sembravano capire che era
là in veste di amico.
«Chi è il medico di guardia?» chiese Dan.
«Tu», rispose immediatamente Claudette.
«Dai, quello vero».
«Emerson, ma quando l’ho chiamato in ospedale, la sua assistente mi ha detto di non essere ridicola. Le strade sono interrotte da qui a Timbuctù. Ha
aggiunto che persino gli spalaneve aspetteranno
l’alba, tranne che per gli sfortunati bloccati in autostrada».
«E va bene. Sto arrivando».
Dopo avere lavorato per un po’ nell’ospizio, Dan
aveva compreso che esisteva una divisione in classi
anche per chi era in punto di morte. Le stanze del
corpo centrale erano più grandi e costose di quelle
delle strutture laterali. Nella dimora vittoriana dove
un tempo Helen Rivington aveva vissuto e scritto i
suoi romanzi rosa, le camere venivano chiamate
«suite» e prendevano il nome da figli famosi del New
Hampshire. Charlie Hayes era nell’Alan Shepard.
Per raggiungerla, Dan dovette oltrepassare la zona
ristoro ai piedi delle scale, dove si trovavano i distributori automatici e qualche sedia in plastica rigida.
Su una c’era stravaccato Fred Carling, occupato a
sgranocchiare cracker al burro d’arachidi e a leggere un vecchio numero di Popular Mechanics. L’uomo era uno dei tre inservienti del turno di notte. Gli
altri due lavoravano di giorno a rotazione un paio di
volte al mese; Carling mai. Amava definirsi un animale notturno ed era un corpulento scansafatiche
le cui braccia, coperte da un intrico di tatuaggi, suggerivano un passato da biker.
«Ma guarda chi c’è», esordì Fred. «Il piccolo
Danny. O hai già assunto la tua identità segreta?».
Dan non era in vena di scherzi, ancora mezzo addormentato. «Che cosa puoi dirmi del signor
Hayes?».
«Solo che è in compagnia del gatto e che quindi finirà presto sottoterra».
«Non sta perdendo sangue?».
L’omaccione alzò le spalle. «Sì, niente di che, dal
naso. Ho infilato gli asciugamani sporchi in un “saccone tossico”, come da ordini. Sono nella lavanderia A, se ti va di controllare».
A Dan venne in mente di chiedergli come facesse
a considerare una robetta di poco conto una perdita di sangue tamponata con più di un asciugamano,
ma decise di lasciare correre. Carling era un idiota
insensibile; restava un mistero come fosse riuscito
a procurarsi un lavoro a Rivington House, anche se
nel turno di notte, quando quasi tutti gli ospiti dormivano o rimanevano in silenzio per non disturbare gli altri. Dan sospettava che qualcuno avesse
mosso le leve giuste. Così girava il mondo. Suo padre non aveva fatto lo stesso per ottenere il suo ultimo posto, come custode dell’Overlook? Magari non
era la prova lampante che fosse una porcata trovare
un’occupazione grazie alle proprie conoscenze, ma
di sicuro ci andava vicino. «Goditi la serata, Dottor
Sonnoooooo», gli urlò dietro Carling, senza preoccuparsi di abbassare il tono di voce.
In infermeria, Claudette stava spuntando la lista
delle medicine mentre Janice Barker fissava un piccolo televisore con il sonoro abbassato.
«Potete dirmi qualcosa di sostanziale su Charlie?
Carling non mi è stato di alcun aiuto».
Claudette lanciò un’occhiata lungo il corridoio
per assicurarsi che Fred non fosse nei paraggi e poi
abbassò comunque la voce. «Quel tipo è più inutile
di un venditore di frigoriferi al Polo Nord. Spero
sempre che venga licenziato».
Dan la pensava allo stesso modo, ma rimase in silenzio. Aveva scoperto che la sobrietà costante faceva miracoli per la capacità di discrezione.
«L’ho controllato un quarto d’ora fa», rispose Jan.
«Non li perdiamo d’occhio quando un certo Signor
Micio viene a trovarli».
«Da quanto Azzie è con lui?».
«Stava miagolando fuori dalla porta quando abbiamo iniziato il turno a mezzanotte», intervenne
Claudette. «E così l’ho fatto entrare. È saltato immediatamente sul letto. Sai come fa. Mi è venuto in
mente di chiamarti già allora, ma Charlie era sveglio
e cosciente. Ha ricambiato il mio saluto e ha cominciato a coccolare Az. Ho deciso di aspettare. Circa
un’ora dopo, ha preso a sanguinargli il naso. Fred
l’ha pulito».
«In bocca al lupo», gli augurò Jan. «Chiamaci se
hai bisogno di qualcosa».
«D’accordo. Tra parentesi, perché stai guardando la pubblicità di un prodotto per la pulizia del colon? O è una domanda troppo personale?».
La donna sbadigliò. «A quest’ora, l’unica alternativa è la televendita di reggiseni in microfibra. E io ne
ho già uno».
La porta dell’Alan Shepard Suite era socchiusa,
ma Dan bussò lo stesso. Non ricevendo alcuna risposta, la spalancò. Charlie Hayes era coperto dal
lenzuolo fino al torace. Aveva novantun anni, era
scheletrico, e talmente pallido da sembrare trasparente. Dan fu costretto a restare immobile per una
trentina di secondi prima di essere certo che la casacca del pigiama dell’uomo si alzasse e abbassasse. Azzie era accoccolato vicino alla sporgenza appena accennata di un’anca. Quando Dan entrò, il
gatto lo squadrò con i suoi misteriosi occhi.
«Signor Hayes? Charlie?»
Il vecchio non mosse ciglio. Le palpebre erano
bluastre. La pelle appena sotto era ancora più scura,
livida e violacea. Quando Dan si avvicinò alla sponda del letto, notò due crosticine rosse intorno alle
narici e una terza all’angolo della bocca serrata. Con
la Repubblica
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“Dobbiamo scappare, papà sta impazzendo,
ma io non riesco a muovermi, sono bloccato”
Esce anche in Italia
il più atteso tra i sequel
Eccone un assaggio in anteprima
delicatezza, Dan pulì il naso di Charlie dal sangue stato un grande peccatore e comunque non credo
rappreso. Quando passò alla bocca, il vecchio sol- esista un posto del genere. Ho paura che non ci sia
levò le palpebre. «Dan. Sei tu, vero? Ho gli occhi un niente». Gli mancava il respiro. Nell’angolo dell’occhio destro si stava allargando una goccia di sanpo’ appannati».
Più che altro erano un intrico di ragnatele rossa- gue. «Non c’era niente prima, lo sappiamo tutti, e
dunque non è logico che non ci sia niente dopo?».
stre.
«Invece c’è». Dan gli passò il panno umido sul vi«Come stai, Charlie? Senti dolore? Se vuoi, posso
chiedere a Claudette di portarti una pastiglia».
so. «Noi non finiamo mai veramente, Charlie. Non
«No, non ho male», affermò il vecchio. Spostò lo ho idea di come sia possibile o di che cosa significhi,
sguardo su Azzie, per poi riportarlo su Dan. «So per- so solo che è così».
ché è qui. E anche perché sei arrivato tu».
«Mi puoi aiutare nel momento del trapasso? Gli
«Sono sceso perché mi ha svegliato il vento. In altri mi hanno detto che ne sei capace».
quanto al gatto, probabilmente cercava compa«Sì. Posso farlo». Afferrò anche l’altra mano del
gnia. È un animale notturno, in fondo».
vecchio. «Ti addormenterai. E quando ti risveglieDan gli rimboccò la manica del pigiama per sen- rai... perché succederà, ne sono certo... tutto sarà intirgli il polso e si accorse di quattro segni bluastri al- finitamente meglio».
lineati sul braccio scheletrico. I pazienti leucemici
«Il paradiso? Stai parlando del paradiso?».
in fase terminale si riempivano di lividi per un non«Non lo so, Charlie».
nulla, ma quelle erano impronte di dita, e Dan saQuella sera il potere era molto forte. Riusciva a
peva perfettamente chi era stato a lasciarle. Car- sentirlo scorrere come una corrente elettrica attraling, brutto figlio di puttana. Che cos’è successo? Era verso le loro mani unite e si ripromise di essere detroppo lento per te? Oppure eri incazzato di doverlo licato. Una parte di lui abitava il fragile corpo che
pulire quando invece avresti voluto leggere le tue ri- stava cedendo e i deboli sensi
viste e ingozzarti di quei fottuti cracker gialli? In al(sbrigati per favore)
tre circostanze, Dan avrebbe afche erano sul punto di spefrontato la questione di petto,
gnersi. Abitava una mente
però aveva problemi più urgenti
(sbrigati per favore è venuto il
momento)
di cui occuparsi. Az ci aveva azancora lucida e consapevole
zeccato di nuovo. Gli bastava
che stava formulando i suoi ultisfiorare l’uomo per capirlo.
mi pensieri... almeno nei panni
«Sono spaventato», ammise
di Charlie Hayes.
Charlie, la voce poco più che un
Gli occhi iniettati di sangue si
sussurro. Il cupo, costante lachiusero per poi riaprirsi. Molto
mento del vento quasi la soverlentamente.
chiava. «Non avrei mai pensato,
«Va tutto bene», affermò Dan.
ma eccomi qui».
«Hai solo bisogno di dormire. Il
«Non c’è nulla di cui avere
sonno ti farà sentire meglio».
paura».
Invece di controllare inutil«È così che lo chiami?».
IL LIBRO
«Sì. Sonno. E dormire non è
mente le pulsazioni, Dan gli preLa copertina del seguito
se la mano. Vide i figli gemelli di
pericoloso».
di Shining,
Charlie a quattro anni sull’alta«Non andartene».
Doctor Sleep,
«No. Sono qui con te». Non
lena. La moglie abbassare la serdi Stephen King
randa della stanza da letto, inscherzava. Era il suo terribile priSarà in libreria
dossando solo le mutandine di
vilegio.
da martedì 28 gennaio
pizzo francese che lui le aveva reGli occhi del vecchio si richiuper Sperling&Kupfer
galato per il loro primo anniversero. Dan fece lo stesso e vide una
(518 pagine, 19,90 euro,
sario; la coda di cavallo ricaderle
luce blu pulsare lenta nelle tenetraduzione
su una spalla, mentre si girava a
bre. Uno... due... stop. Uno...
di Giovanni Arduino)
guardarlo, il volto illuminato da
due... stop. Fuori il vento contiun sorriso che era un grande,
nuava a soffiare. «Dormi, Charenorme sì. Vide un trattore Farlie. Te la stai cavando bene, ma
mall con un ombrello a strisce
sei stanco e devi riposare».
aperto sopra il posto di guida. Annusò il profumo di
«Vedo mia moglie». In un sussurro appena perpancetta e sentì Frank Sinatra cantare Come Fly cettibile. «Davvero?».
With Me, riecheggiando da una malconcia Moto«Dice che...».
rola appoggiata a un tavolo da lavoro ingombro di
E poi basta, solo l’ultimo lampo blu dietro le palattrezzi. Vide un coprimozzo colmo d’acqua piova- pebre e l’ultimo respiro dell’uomo sul letto. Dan
na riflettere un fienile rosso. Sentì il sapore dei mir- aprì gli occhi e restò ad ascoltare il vento, in attesa.
tilli e sventrò un cervo e pescò in qualche lago lon- Dopo pochi secondi, una nebbia rosso cupo si spritano punteggiato dalle gocce di un acquazzone au- gionò dal naso, dalla bocca e dagli occhi di Charlie.
tunnale. Ballò a sessant’anni con la moglie alla fe- Era quello che una vecchia infermiera di Tampa,
sta dei veterani. Spaccò la legna a trenta. Tirò un car- graziata da un briciolo di luccicanza proprio come
rettino rosso a cinque, con indosso un paio di pan- Billy Freeman, aveva definito «il rantolo». Aveva
taloncini corti. Poi tutte le immagini si fusero detto di averlo visto parecchie volte.
insieme, come un mazzo di carte mescolato da una
Dan lo vedeva sempre.
La nebbia si sollevò, galleggiando sopra il corpo
mano esperta, e il vento soffiava cumuli di neve giù
dalle montagne, e dentro c’erano solo il silenzio e lo del vecchio. E poi svanì.
sguardo solenne di Azzie. In momenti come quelDan armeggiò con la manica destra del pigiama
lo, Dan sapeva perché era venuto al mondo. In mo- per sentirgli il polso. Una pura formalità.
menti come quello, non rimpiangeva il dolore e la
pena e la rabbia e l’orrore che aveva dovuto patire,
© 2013 by Stephen King
perché l’avevano portato lì, in quella stanza, menPublished by agreement with the author
tre fuori ululava la bufera. Charlie Hayes aveva ragc/o The Lotts Agency, Ltd
giunto l’estremo confine.
© 2014 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
«Non sono spaventato dall’inferno. Non sono
Per gentile concessione dell’Agenzia Santachiara
Al passato
non si sfugge
ANTONIO MONDA
(segue dalla copertina)
Q
uando Cronenberg disse che il film di Kubrick era a
suo avviso diventato un classico del cinema, King rispose invitando gli spettatori ad andarsi a vedersi, invece, la serie televisiva che su Shining lui stesso aveva realizzato: sei puntate fedelissime al romanzo, ma modestissime da un punto di vista cinematografico. Poi diede alcune indicazioni su ciò che aveva in mente per il sequel: Dan
Torrance, il protagonista dotato dello “shining”, della “luccicanza”, è ormai adulto. Ma quanto vissuto da bambino
nell’Overlook Hotel ha provocato nella sua psiche traumi
irreparabili. King non era ancora convinto di questa prima
intuizione, e ipotizzò di fondere le vicende dei personaggi
originali con la storia di un gatto chiamato Oscar in grado
di prevedere la morte dei malati terminali. Nelle settimane
successive avviò un sondaggio sul proprio website, nel quale chiese ai lettori se avessero preferito il sequel di Shining
o un nuovo romanzo della serie Dark Tower: il risultato non
lasciò dubbi e King vinse le residue resistenze.
Doctor Sleep nasce da queste premesse narrative (e
commerciali), e chi segue King sa bene con quanta attenzione affidi sempre il verdetto ultimo al suo pubblico. Un approccio mantenuto con tutti i cinquanta romanzi realizzati finora e dei quali ha venduto trecentosessanta milioni di copie.
In questo sequel di Shining, che ha avuto numerose versioni e che è stato lanciato sul mercato americano con nove mesi di ritardo rispetto alla data annunciata, King immagina che Dan, il Danny sopravvissuto al papà Jack Torrance-Jack Nicholson, sia oggi un quarantenne perseguitato da quanto vissuto da bambino nell’Overlook Hotel.
Dopo esser riuscito a vincere gravi problemi di alcolismo
(proprio come lo stesso King) ha trovato la serenità ritirandosi a vivere in un piccolo centro del New Hampshire dove
mette a disposizione dei malati terminali i propri poteri paranormali con l’aiuto di un gatto che ne prevede la fine imminente. È lui il Doctor Sleep di cui parla il titolo, da intendere anche ironicamente se si pensa che questo passeggero stato di grazia verrà sconvolto da una serie di violentissimi eventi che gli faranno perdere, appunto, il sonno.
Come sempre la scrittura di King è veloce, a tratti di servizio, ma la trama è molto avvincente, a dispetto dello
sconfinamento quasi immediato nel paranormale più
estremo: Danny deve contrastare da un lato i fantasmi
della stanza 217 dell’Overlook Hotel, da un altro è costretto ad affrontare un gruppo chiamato True Knot (in
italiano “Vero Nodo”), alleandosi con Abra, una ragazzina di dodici anni dotata a sua volta del dono dello shining
ma all’ennesima potenza. La storia si sviluppa attraverso
scontri telepatici e scene di tortura, ma King riesce a fondere il paranormale con il realismo di ambientazioni che
conosce alla perfezione: il New Hampshire descritto nel
libro non è molto diverso dal Maine dove lo scrittore vive
e in cui ha ambientato gran parte dei suoi libri. King è
ugualmente abile nel descrivere la psicologia dei personaggi, e a suggerire l’idea che è impossibile sfuggire ai
propri demoni e, più in generale, alla presenza del Male.
Nonostante segua con attenzione tutti i canoni del genere, e privilegi la costruzione della suspense, riesce sempre a non perdere di vista un approccio sinceramente
umanista all’interno della battaglia continua tra il Bene
ed il Male. Ed è proprio questo tipo di sguardo ad averlo
reso diverso da tutti gli altri scrittori che si cimentano con
l’horror. E che ha portato Margaret Atwood a paragonarlo sul New York Times a Nathaniel Hawthorne, Henry James e Edgar Allan Poe.
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la Repubblica
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LA DOMENICA
L’attualità
Nuovi schiavi
“Dovevamo stare sempre in silenzio. La notte con le luci accese ci guardavamo
per vedere chi di noi si ammalava”. Jiang Chengfen è da poco tornata a casa
dopo un anno e tre mesi passati in uno dei campi di “rieducazione
attraverso il lavoro”. Che Pechino ha promesso di chiudere entro la fine di questo mese
GIAMPAOLO VISETTI
«P
PECHINO
referirei essere morta. Se resisti a certe umiliazioni, la vita poi non ha più senso». Jiang
Chengfen ha quarant’anni, ne dimostra settanta ed è appena tornata a casa a Neijiang.
Tra pochi giorni passerà il capodanno lunare
in famiglia, nel Sichuan. «Ma ho conosciuto
l’inferno — dice — e ho abolito la felicità». Era
una contadina, ha osato protestare contro i
funzionari che le avevano requisito la risaia
per costruire un palazzo. È una tra gli ultimi
prigionieri liberati dei laojiao cinesi.
I “campi di rieducazione attraverso il lavoro”
furono aperti da Mao Zedong nel 1957 per punire “controrivoluzionari” e “sovversivi”. Nell’immenso arcipelago gulag cinese, in cinquantasei anni, sono stati rinchiusi senza processo circa 1,7 milioni di cittadini. Gli “inghiottiti” finiti nelle fosse comuni, secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero decine di migliaia. In novembre il plenum del Partito
comunista ha annunciato la chiusura dei
laojiao. A fine dicembre il Congresso nazionale del popolo ha ratificato la decisione. Entro
gennaio i trecentocinquanta campi, prigioni
per torture e lavori forzati, saranno ufficialmente chiusi.
«Sono rimasta nel campo della contea di
Zhizhong — racconta Chengfen — un anno e
tre mesi. Avrei dovuto starci quattro anni. Altri
prigionieri erano lì da quasi dieci. L’altra mattina una guardia mi ha portato al cancello. Mi ha
fatto uscire, senza una parola. Ho capito che
ero libera».
I laojiao sono arrivati a essere oltre seicento,
disseminati ovunque. Nel 2011 i prigionieri della polizia erano ancora 450mila. Ai primi oppositori anti-maoisti, si sono aggiunti dissidenti,
fedeli di varie religioni, cristiani del Falun Gong,
firmatari di petizioni contro le autorità. A essi sono stati mescolati ladri, prostitute, tossicodi-
1957
Mao istituisce i “Laojiao”, “campi
di rieducazione attraverso il lavoro”
per “controrivoluzionari”
pendenti, criminali comuni, giocatori d’azzardo e persone definite “malate di mente”. La “rieducazione” consisteva nei lavori forzati: tra 12 e
15 ore al giorno in miniere, fabbriche, laboratori artigianali, aziende agricole. La Cina, per oltre
mezzo secolo, si è assicurata una massa di schiavi che potevano essere sfruttati, torturati e uccisi, lasciati morire di fame e di freddo.
«La sveglia nei dormitori — dice Chengfen —
suonava alle 6. Eravamo in dodici, in celle di nove metri. Dieci minuti per lavarci, in bagni per
200 prigionieri, mezz’ora a piedi per arrivare alla mensa. Altri dieci minuti per un panino al vapore, in sale per 900 detenuti, in silenzio. Tra le
8 e le 20 dovevamo assemblare parti di televisioni, o di automobili. Chi apriva bocca veniva
picchiato, o condannato a stare in piedi fino a
mezzanotte».
È la prima volta che l’ex prigioniero di un
laojiao, non coperto da pseudonimo, racconta
la giornata-tipo nei campi comunisti ispirati ai
lager nazisti. Chi non è morto sconta il senso di
colpa di un destino meno spietato rispetto a
quello dei compagni: migliaia di fosse comuni,
in tutta la Cina, ospitano i resti di chi non ce l’ha
fatta.
«A pranzo mangiavamo una zuppa o una fetta di zucca. Il cibo era sporco, emanava un odore strano, l’acqua era scura, piena d’insetti». Le
guardie passavano il tempo a giocare a
mahjong, o davanti alla tv. L’ordine era assicurato dall’esercito dei du jin, gli “individui d’oro”. «Venivano registrati come drogati — dice
Chengfen — ma erano gangster, o criminali.
Per assicurarsi un trattamento di riguardo davano ordini impossibili e punivano. Chi resisteva veniva pestato, condannato al digiuno,
privato del sonno. Per ottenere pietà non restava che la corruzione. Qualcuno riusciva a farsi
mandare soldi da casa».
Da anni i laojiao non erano più prigioni politiche, ma centri di sfruttamento e ricatto appaltati a funzionari locali e polizia. Le vittime
dei lavori forzati pagavano fino a 1650 dollari,
1,7 mln
Il numero di persone rinchiuse
nei campi dal 1957. Alcune ong
parlano di 10-15 milioni
ogni sei mesi, per vitto e alloggio. La libertà costava settemila dollari: i parenti dei prigionieri si consegnavano agli usurai, complici dei
carcerieri.
«Alle 20 venivamo messi davanti a un programma tv scelto dalle guardie. Altri scrivevano alla famiglia. Ho scoperto poi che le
lettere servivano per accendere le stufe.
Non si poteva parlare: il silenzio è stato il
simbolo del nostro annullamento personale. Alle 21 dovevamo sederci sulle brande. La luce restava accesa tutta la notte. Ci
guardavamo per capire chi veniva aggredito dalle malattie».
Negli ultimi trent’anni la crescita economica cinese è esplosa anche grazie al
basso costo del lavoro. Gli arresti di decine di migliaia di cinesi, ridotti in schiavitù,
sono stati condannati invano. Pechino ha
definito le accuse «ingerenze indebite in affari interni». La scintilla che ha costretto i
nuovi leader a chiudere i campi è partita nell’agosto 2012 a Yongzhou, nello Hunan.
«Mia figlia di undici anni — ricorda Tang
Hui — era stata violentata da sei uomini. La obbligarono a prostituirsi. Li ho denunciati. Non
ricevemmo alcun risarcimento, i funzionari
cittadini insabbiarono il caso. Ho chiesto giustizia a Pechino: la polizia mi arrestò, diciotto
mesi di laojiao». Grazie al web, anche la Cina è
insorta. La storia della madre perseguitata dal
partito-Stato per aver difeso la figlia stuprata
divenne uno scandalo mondiale. «Fu allora —
dice l’avvocato Li Fangping, difensore di dissidenti e povera gente — che le autorità compresero che la repressione era sfuggita di mano».
Chiudere i campi di lavoro ideati da Mao non
era facile. Gli schiavi sono stati una miniera d’oro per la polizia e per i colossi pubblici, l’arma
istantanea del regime.
«Mio marito — dice Lui Fengming, professoressa in pensione — aveva postato su internet un
appello per la legalità. Fu rinchiuso in una fattoria-prigione della Mongolia interna. Per avere
350
I campi arrivarono a essere 600,
oggi ne sono rimasti attivi 350:
dovranno chiudere entro gennaio
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
L’APPELLO
Un poliziotto davanti a un gruppo
di detenuti nel campo di lavoro
di Kunming (provincia dello Yunnan)
FOTO GETTY
■ 29
Per la prima volta parlano gli ex prigionieri
E raccontano l’altra faccia del miracolo cinese:
“Per guarire dovevamo stampare biglietti
di Natale da esportare in Occidente...”
Gli ultimi
giorni
dell’arcipelago
Laojiao
notizie sono rimasta in piedi cinque giorni davanti al cancello di un laojiao. Alla fine uscì il
capo delle guardie. Scorreva con il dito i nomi scritti su un quaderno. Si fermò, pronunciò il nome di mio marito. Pensavo
stesse per rivelarmi dov’era. “Morto —
disse — un mese fa”».
Ora che i campi chiudono, affiorano i
racconti della grande tragedia ignorata.
Le strutture smantellate restano inaccessibili. I funzionari tacciono. Ogni
giorno migliaia di prigionieri vengono
liberati e accompagnati a casa dagli ex
carcerieri, con l’ordine del silenzio.
Anche i governi stranieri evitano di
chiedere la verità: la nuova forza economica dell’autoritarismo cinese
spaventa le democrazie occidentali in
crisi. I laojiao ufficialmente sono in
corso di “riconversione”: diventano
comunità di recupero dalla droga, prigioni per condannati dai tribunali, istituti psichiatrici. Avvocati e organizzazioni internazionali lanciano l’allarme.
«Pechino cambia le insegne — dice Shen
Tingting, direttrice di Asia Catalyst — e
smantella gli edifici più vecchi. La repressione violenta, necessaria alla stabilità del
regime, però non finisce. Invece che nei
campi di lavoro, chi pone problemi scompare in carceri nere e comunità per prostitute. Il
rischio è rendere abusi e torture formalmente
tollerabili». I nuovi “campi di custodia e di educazione” sono luoghi per il lavaggio del cervello.
Ren Jianyu, 27 anni di Chongqing, è finito in
un ex laojiao per aver diffuso in Rete «informazioni negative». Il tribunale lo ha giudicato
«malato di mente». Ha trascorso un anno in un
blocco di cemento a Xinhe, a nord di Pechino.
«Per guarire — dice — dovevamo stampare biglietti d’auguri di Natale, esportati in Europa e
negli Usa. L’altra mattina una guardia vestita
da infermiere mi ha portato fuori e mi ha la-
50mila
Il numero di persone
ancora detenute nei “laojiao”
Nel 2013 erano 160mila
sciato alla fermata della metropolitana perché
non ho più una casa».
Per il governo ciò che conta è aver abolito detenzioni prive della sentenza di un tribunale. I
giuristi ricordano però che in Cina la magistratura non è indipendente. È al servizio del potere: ognuno può essere arrestato e condannato
per un’accusa qualsiasi. «Chiudere i campi —
dice Yang Xiangui, autore della storia censurata sulla strage di Jiabiangou, dove sono morti
1500 detenuti — apre un vuoto. Non credo che
il Partito pensi realmente di colmarlo con qualcosa di legale, di trasparente, o rispettando le
persone».
I laojiao chiudono, ma a nessuno è permesso di visitarli. Presentare domanda espone alla
rappresaglia dei funzionari. Gli ex detenuti
vengono minacciati: raccontare comporta il rischio di una condanna nelle nuove strutture.
Anche migliaia di ex carcerieri, in queste ore,
vengono trasferiti e riformati, come “assistenti
medici e custodi dei penitenziari”. La Cina di
miserabili e schiavi resta off-limits.
Guo Qinghua ha 46 anni e fino a marzo puliva le latrine del comitato permanente del Congresso del popolo. Un buon posto, a Pechino.
Ha avuto problemi per la paga ed è stata l’ultima a essere ufficialmente deportata in un
laojiao. È finita a Daxing, sei edifici per settecento prigionieri. Li hanno chiusi martedì.
«Ora sono libera e posso scegliere tra la disoccupazione e l’assemblaggio di giocattoli nel
nuovo centro anti-droga. Sono comunque
condannata a morte. L’inaccettabile è diventato presentabile, vince sempre il più forte». Non
esistono dittature cattive che si trasformano in
dittature buone. Ci sono soli nomi che fanno
vergognare che all’improvviso diventano nomi pronunciabili senza vergogna. Anche Guo
Qinghua, come Jiang Chengfeng, resta una prigioniera libera, vittima dell’eterna giornata cinese nell’ultimo ex laojiao.
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50%
Oggi circa la metà dei detenuti
nei campi di lavoro
è tossicodipendente
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
■ 30
LA DOMENICA
La storia
Far West
Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio
le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn
Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani
ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne
SIEGMUND GINZBERG
l giornalista ci ricamò
una storia. Mischiò notizie vere ad altre di sua
invenzione. Scrisse che
l’album era stato rinvenuto in una sepoltura indiana
a Little Bighorn, il sito della battaglia
in cui i Sioux avevano annientato Custer e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era
vero. Che i disegni erano stati eseguiti
sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno
dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di
settantasette disegni rappresentava le
gesta, era l’autobiografia, di un capo di
nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
Ledger books vengono chiamati gli
album disegnati dagli “indiani” di
metà Ottocento sulle pagine già
usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui
fogli dei ruolini dell’esercito Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra, e ciò ne aumentava enormemente il valore agli occhi dei possessori.
Esattamente come per gli indiani delle
praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o
meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una
questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in
mancanza di prede con marchi autentici, i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri
cavalli.
È il western per una volta raccontato
dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito),
la guerra raccontata dagli sconfitti e
non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i
propri fatti di coraggio, su quaderni e
registri sottratti ai bianchi, non era
solo un must, lo status symbol
per eccellenza. Era anche possesso di un oggetto magico,
I
propiziatorio. Anche se a un certo punto divenne scomodo, perché gli album
cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata.
Tra i molti album del
genere che si sono conservati, questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un
unico autore. È uno scambio
IL DISEGNO
Un guerriero
Cheyenne salvato
dal compagno
Lakota: ha con sé
la sacra lancia
che può rendere
gli uomini invisibili
in battaglia
di cortesie cerimoniali a più mani. Gli
artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei
propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere
niente meno che il leggendario capo
guerriero Nuvola Rossa. Così almeno
sostiene l’antropologo Castle McLaughlin nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little
Bighornpubblicato dalla Peabody Mu-
seum Press e dalla Houghton Library
dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic “Autobiography of Half Moon”,
si riferisce al titolo che alla raccolta era
stato dato da un reporter del Chicago
Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded) al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente, aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion
Howard — questo lo pseudonimo con
cui il giornalista firmava dal fronte —
sosteneva di aver avuto i disegni da un
sergente del Secondo Cavalleria, uno
dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di
Custer quando ormai il generale e il suo
reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano, rimasto ucciso probabilmente
in un altro scontro, di appena qualche
giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e
dai monumenti funerari degli indiani
uccisi album di disegni tipo questo.
Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con
scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni.
Howard lo fece
smembrare e ricomporre in
modo che
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
■ 31
L’alfabeto delle grandi pianure
VITTORIO ZUCCONI
I
sembrasse un’unica narrazione autobiografica. E si inventò un personaggio
inesistente. Per sbaglio, perché aveva
equivocato come nome proprio un
simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea. Oppure forse perché sperava che potesse riscuotere un successo
di pubblico simile a quello di un’altra
“biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei
giorni successivi allo shock per la fine di
Custer e dei suoi soldati: quella di Toro
Seduto. Era stato il New York Herald a
pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi
giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei
disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità, barbarie» tratti dall’autobiografia disegnata di suo pugno
del gran capo Sioux. Era un modo per
incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di
tali atrocità. E in effetti l’essersi
poi arreso,
anzi integrato fino al
punto di esibirsi nel circo
di Buffalo Bill,
non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama
bin Laden. Esattamente come finì ammazzato, quando si era già consegnato,
l’irriducibile “testa calda” Cavallo Pazzo. Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro
la “politica di pace” di Washington nei
confronti dei “ribelli”, denunciando —
con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo
scandalo di un traffico di licenze sulle
riserve indiane in cui era implicato lo
stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il ledger book di Howard,
aveva invece il difetto di evocare al pubblico più l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper
che l’orrore per la barbarie del selvaggio. Illustra le imprese compiute negli
anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel
corso del decennio precedente i fatti di
Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma
anche imprese di caccia, dove l’elemento principale non è affatto la crudeltà o la truculenza ma il coraggio.
Scorre sangue, vengono uccisi soldati e
ufficiali in divisa, anche civili e donne, e
soprattutto altri indiani: le odiate guide
Shoshone che accompagnavano la cavalleria Usa, o membri di tribù avversarie dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente sul coraggio, sul cavalcare in
mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul
rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull’aiutare i compagni che
hanno perso la cavalcatura, sulla prati-
‘‘
Nuvola Rossa
Il leggendario capo tribù
era desideroso di celebrare
il coraggio e le gesta
dei suoi uomini
‘‘
Phocion Howard
Il giornalista embedded
ritrovò i disegni e vi aggiunse
una sua introduzione
lavorando di fantasia
LE IMMAGINI
Raccolti in A Lakota War Book
from The Little Bighorn
(Peabody Museum Press)
i disegni qui pubblicati
sono stati ritrovati nella tomba
di un capo indiano sepolto
a Little Bighorn
senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei
bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei
“dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e
dei segni.
Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza
immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche
che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all’Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella
buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi
della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si
vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le
loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo
del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti, gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché
avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole.
ca del “contare i colpi” sul nemico,
semplicemente toccandolo, mentre è
ancora vivo o impugna un’arma, con la
punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un
gioco, un rito, una questione di faccia e
di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse esserlo per i cavalieri erranti del medioevo. C’è anche una storia d’amore,
di rapimento della donzella da parte
dell’innamorato, ma solo in un disegno
su settantasette.
Ma non è neppure solo un romanzo,
una graphic novel. Il curatore insiste
con dovizia di argomenti, attenzione
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meticolosa ai particolari (dalle armi al
vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a
fatti e protagonisti storici. Eppure nel
suo secolo ebbe notorietà brevissima.
Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per
quasi un secolo. Malgrado l’America
avesse nel frattempo riscoperto
una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico
dei suoi cavalieri della prateria.
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© MS AM 2337, HOUGHTON LIBRARY, HARVARD UNIVERSITY
n principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano
l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e
il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente, le guerre.
Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come
loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di
immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri
scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini,
vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima
vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong
Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella
memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta.
L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa
di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video,
la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
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LA DOMENICA
Spettacoli
Pubblicata negli Usa la corrispondenza privata del compositore globetrotter
GUIDO ANDRUETTO
usicista carismatico e versatile, compositore
dal talento prodigioso, Leonard Bernstein è stato certamente uno tra i più importanti e influenti personaggi nella storia della musica del secolo
scorso. La carriera che intraprese dopo essersi formato
fra gli anni Trenta e Quaranta all’università di Harvard e
al Curtis Institute of Music di Philadelphia, gli spalancò
le porte non solo delle grandi sale da concerto, dove diresse le più prestigiose orchestre, dalla New York City
Symphony Orchestra all’Orchestra sinfonica di Tel Aviv,
M
La musica e la vita
in seicento pagine
ma anche quelle del mondo intero, che Bernstein ebbe
il privilegio di girare senza mai mettere un freno all’indomabile curiosità che lo animava. La testimonianza
più vibrante della vita in movimento di questo “globetrotting Maestro”, come gli piaceva essere chiamato, è
ora raccolta nelle seicento pagine del libro The Leonard
Bernstein Letters, curato dal saggista e musicologo inglese Nigel Simeone e edito dalla Yale University Press:
ne emerge un fiume in piena di inchiostro che l’autore di
West Side Story, scomparso nell’ottobre del 1990, ha utilizzato per riempire decine di migliaia di fogli manoscritti tuttora conservati negli archivi dedicati alla musica della Library of Congress a Washington. Tra i quattrocentomila documenti appartenuti a Bernstein, che sono stati catalogati in parte come registrazioni audio e video, fotografie e spartiti, un ampio spazio è occupato
dalla corrispondenza privata che si compone invece di
lettere, telegrammi, annotazioni, messaggi, biglietti di
auguri e cartoline spedite o ricevute in un lungo arco di
tempo che va dal 1932 sino alla fine dei suoi giorni.
Il libro si sofferma su una selezione di lettere che mettono in luce da un lato la grande e forse indefinibile personalità musicale di Bernstein (a un amico lui stesso
scrisse «sono un direttore d’orchestra, un compositore
e un pianista. E nessuno dei tre») e dall’altro la sfera più
intima della sua esistenza che si svela nelle tante missive indirizzate all’amante e mentore Aaron Copland, o alla moglie, l’attrice Felicia Montealegre, dove esprime
con sincerità i suoi pensieri e i suoi tormenti sulla famiglia, sugli amori e sul matrimonio. Ma nella collezione
delle lettere di Bernstein sono anche molte quelle che vedono la musica e il lavoro al centro dello scambio epistolare: tanti i personaggi illustri con cui Bernstein intrattenne un rapporto anche per iscritto, da Jacqueline
Kennedy a Ingmar Bergman, fino a John Cage e
Karlheinz Stockhausen. Tra tutte ne spicca una scrittagli dall’appena compianto Claudio Abbado. Il Maestro
ci teneva a dichiarargli la sua più profonda gratitudine
per come il suo esempio lo aveva aiutato a migliorarsi.
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FOTO © WILLIAM P. GOTTLIEB
Maestri
‘‘
Alla moglie (Milano, 4 febbraio 1955)
È
una gioia essere qui: di nuovo immerso nelle prove, il cast nel pomeriggio e il coro la mattina, e le conferenze la sera con Luchino [Visconti],
con cui è meraviglioso lavorare. Sono tutto entusiasmato per La sonnambula, come
per Medea, mi vengono idee folli per l’incisione, l’esibizione, i tempi. Luchino ha progettato una piccola produzione, perfetta in ogni dettaglio stilistico, proprio come io ho progettato una piccola orchestra, giovane ed esuberante. Mi piacerebbe che
tu arrivassi in tempo per vederla. La prima sarà il 19,
l’ultima intorno al 25. La Callas è più grande che
mai. È dimagrita in modo impressionante ed è
straordinariamente bella, anche fuori dalla scena.
Ha i capelli biondo cenere e si veste molto meglio:
e canta come una bambola. L’altra sera l’ho sentita fare Maddalena nell’Andrea Chénier ed era una
civetta divina di 17 anni o giù di lì, assolutamente
credibile! Oggi abbiamo fatto la prima lettura della
Sonnambula, e mi ha fatto piangere.
Da K. Stockhausen (Colonia, 8 novembre 1959)
Non ha alcuna ragione per essere triste. Lei è il
solo artista da molto tempo a questa parte che mi
abbia dato l’impressione di essere qualcosa di più
di un artista «serio», può riempire una stanza di vita, di Unbefangenheit, di Aufgeräumtheit solo con
la sua presenza, solo parlando e ridendo di qualsiasi cosa. È un dono d’oro, senza alcun merito: e le
auguro con tutto il mio cuore che nessuno possa
mai rovinare o distorcere la sua anima. Noi viviamo per la musica, sì, ma possiamo anche dire che
la musica esiste per noi.
C’è una relazione segreta fra la sua anima e l’anima di Mozart, forse lo sa: rare stelle splendenti che
appaiono di tanto in tanto nel cielo di questa terra,
leggere e trasparenti come angeli, capaci di rendere tutti felici per un piccolo momento di questa storia seriosa… senza casa come solo i senza casa possono essere.
So quello che dico: metà della mia anima è come
la sua, come quella di Mozart; ma io sono uno strano miscuglio di paradiso e inferno.
Claudio Abbado
Grazie a lei ho imparato a non fare
il dittatore con gli orchestrali
Francis Ford Coppola
La prego di sopportarmi: sarebbe
un piacere collaborare appieno con lei
Da Claudio Abbado (Berlino, 28 ottobre 1963)
Caro Maestro,
desidero ringraziarla di cuore per tutto quello
che ho imparato da lei durante le settimane che ho
trascorso a New York con la Philharmonic.
Quello che ho imparato dalle sue prove, dal punto di vista musicale e umano, ho cercato di metterlo in pratica nelle prove dei miei ultimi concerti, e
sono sempre riuscito a trovare un contatto umano
con l’orchestra, dimenticando completamente
l’atteggiamento dittatoriale che avevo negli anni
passati.
I risultati sono magnifici e ho potuto musizieren
in modo completamente nuovo negli ultimi concerti a Roma, Venezia e Berlino.
la Repubblica
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
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A scrivergli i più grandi artisti del mondo
Miles Davis
Se scegli di essere te stesso
potresti essere un grande pianista
John Cage
Ammiro il tuo coraggio nel presentare
il mio lavoro davanti al tuo pubblico
Karlheinz Stockhausen
Lei può riempire una stanza di vita
solo con la sua presenza
Adolph Green
Tu sei brillante, impulsivo, giovane
Io sono grasso, vecchio e debole
A John Cage (ottobre 1963)
Caro John,
che cosa ti fa pensare che le nostre improvvisazioni orchestrali debbano rappresentare in qualche modo un «commento» alla tua opera e a quella dei tuoi colleghi?
E ancora, cos’è che ti dà l’idea che ogni cosa
in questa parte del programma debba essere confinata all’ambito in cui lavorate voi? Il
concetto generale è Music of Chance [musica
del caso, delle possibilità] e ci sono tantissime
possibilità nel tuo lavoro come in quello di
Brown e Feldman, come anche nell’improvvisazione totale. Stiamo cercando di gettare uno
sguardo sul mondo aleatorio, lo sguardo più
esaustivo che si possa avere in metà di un programma completo: e a me sembra chiaro che
l’improvvisazione è un elemento essenziale di un
approccio del genere.
E infine, come puoi dire che la tua musica non
lascia «libero sfogo al gusto e alla memoria»,
quando scrivi per un’orchestra che può o non
può suonare in un dato momento, e che, se suona, esegue delle approssimazioni?
Se può farti sentire meglio, sarò felice di
suonare l’improvvisazione prima della tua
opera, evitando in questo modo l’idea tendenziosa che si tratti di un commento finale alla musica precedente. Spero che questo possa alleviare le tue preoccupazioni e
dimostrarti l’integrità delle mie intenzioni. Con la massima cordialità.
A Ingmar Bergman (11 agosto 1970)
LE IMMAGINI
In alto e qui sopra: Israele,
1948, le lettere alla madre
illustrate dall’amico pittore
Yossi Stern
Al centro, un disegno
di Bernstein nella lettera
a Stephen Sondheim (1980)
Nelle foto, il Maestro
alla Carnegie Hall nel 1946
Ci tengo a dirle personalmente
quanto mi piacerebbe poter avere
l’opportunità di lavorare insieme,
specialmente su un progetto affascinante e impegnativo come il Tristano.
L’idea sarebbe di metterlo in scena al festival di
Bayreuth nel 1973, e poi di registrarlo e filmarlo. Mi
rendo conto che forse lei non sarà interessato a
mettere in scena l’opera a Bayreuth, ma non riesco
a pensare a nessuno più adatto di lei per una versione cinematografica libera, fresca e con un’impronta personale.
Potremmo parlarne di persona? Il mese prossimo sarò in Giappone, poi tornerò a New York da
metà settembre fino a gennaio del 1971. A inizio
febbraio andrò a Parigi a seguire dei concerti, e poi
in generale sarò in giro per l’Europa e Israele fino alla fine di aprile. Sono un suo profondo ammirato-
re e voglio lavorare con lei! Con amicizia
Leonard Bernstein
Da F. Ford Coppola (San Francisco, 7 marzo 1980)
“Ecco, voglio darvi un cinema musicale. Portare
il musical a un livello più alto, un mezzo di espressione che il mondo intero possa vedere e rapportarcisi”. Questo è il mio sogno e so che è anche il suo.
La prego di sopportarmi: magari lavoreremo in
modo più informale nei prossimi sei mesi, o anche
un anno.
Ma quando poi metteremo insieme questi abbozzi, sarebbe un piacere collaborare appieno con
lei, con Adolph e con Betty.
Le chiedo scusa se possiedo e ho avviato un nuovo studio cinematografico, lo Zoetrope Studio, che
l’ha spinta a dire che da artista sono diventato un
«magnate». Gli Zoetrope Studios creeranno il più
moderno studio elettronico del mondo e il loro primo lavoro sarà Tucker di Leonard Bernstein, Betty
Comden e Adolph Green (e chi sa, magari anche Jerome Robbins e Francis Coppola). Vorrei proprio
vedere questo film. Magari un giorno dirà: «Non sapevo che sarebbe stato Francis Coppola».
Con affetto sincero, Francis
Da Miles Davis (New York, 28 giugno 1988)
Caro Leonard,
ricevendo il premio Sonning a Copenaghen, che
solo Isaac Stern, Stravinskij, tu e io abbiamo ricevuto, ho pensato a che onore sia essere in tua e loro
compagnia. Penso anche a quella volta che mia
moglie, che era la prima ballerina in West Side Story,
mi disse: «Leonard vuole sapere se ti piacerebbe
suonare questa musica», e io risposi «Come faccio
a suonare questa merda sdolcinata?». Non c’è bisogno di dire che è diventata un classico. Tu sei uno
dei veri geni d’America, insieme a [Thelonius]
Monk, [Dizzy] Gillespie, [Charles] Mingus e [Charlie] Parker. Tu sei un vero musicista e se scegli di essere te stesso potresti essere un grande pianista, oltre che un grande compositore e direttore d’orchestra. In questo tuo settantesimo compleanno, ti auguro tutto il meglio e ti auguro molti altri anni produttivi per deliziare il mondo con la tua musica.
Sinceramente tuo,
Miles Davis
(da The Leonard Bernstein Letters,
Yale University Press)
Traduzione di Fabio Galimberti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 26 GENNAIO 2014
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Next
Cervelloni
L’EVOLUZIONE
1971
1990
2007
Viene teorizzato il memristor,
versione su silicio della sinapsi,
da parte di Leon Chua
dell’Università di Berkeley in California
Carver Andress Mead del California
Institute of Technology (Caltech)
teorizza i computer neuromorfi, macchine
che funzionano imitando il cervello umano
Una versione sperimentale
del memristor viene realizzata
da Stanley Williams
della Hewlett Packard
I prossimi anni saranno decisivi
per realizzare finalmente il sogno
di Asimov: creare l’hardware
in grado di ragionare
IMMAGINI
Oggi
I software possono riconoscere
i volti, usando circa ottanta punti
diversi, e sono in grado di distinguere
elementi che spiccano in una foto,
per esempio un monumento
Domani
I colossi dell’informatica assicurano:
smartphone e tablet potranno
interpretare le immagini
Computer e algoritmi neuromorfi
potranno suddividere le immagini
per categorie, rintracciare stili
iconografici, riconoscere luoghi
anche disponendo di foto parziali
grazie a processi mentali quasi umani
Macchine che (la) pensano come noi
MEDICINA
Oggi
Oggi
Per diagnosticare alcune malattie,
come per esempio certe tipologie
di cancro, sono necessari
gli occhi e l’esperienza di medici
addestrati appositamente
L’analisi automatica delle immagini
dei circuiti di sicurezza
è complicata. Si possono individuare
persone, movimenti e volti, magari
confrontandoli con un database
Domani
Domani
I sistemi di indagine e ricerca
arriveranno a diagnosticare
le diverse patologie
con un’accuratezza e una precisione
superiori a quelle umane
I sistemi di sicurezza potranno
interpretare e determinare
in totale autonomia le eventuali
situazioni di pericolo
o di potenziale pericolo
JAIME D’ALESSANDRO
L
SICUREZZA
a prossima rivoluzione nel campo dell’elaborazione dei dati ha radici antiche, anzi
biologiche, e ambizioni da film di fantascienza. L’obiettivo sono computer che imparano, sbagliano, riescono a distinguere
cose e persone come solo noi umani possiamo fare. Poco importa che sia il rintracciare tutti i video dove viene eseguito un
certo passo di danza, l’individuare con
esattezza un tumore da una immagine istologica o l’eseguire con precisione semantica traduzioni istantanee dal cinese all’italiano. Guardano alla struttura della nostra
mente, alle reti neurali, per risolvere uno
dei grandi nodi che sta bloccando l’evolu-
zione delle macchine e degli algoritmi: la loro inadeguatezza nel riconoscere gli elementi di un’immagine o di un filmato, di
comprendere quel che diciamo, di operare
scelte complesse. In un mondo che si sta
spostando dalle parole alle immagini, entro
il 2017, stando alla Cisco (azienda statunitense leader nel networking), il 70 per cento del traffico sarà formato da video: una
svolta simile apre la strada in primis a motori di ricerca completamente diversi da
quelli attuali, perché in grado di analizzare
il significato. Ma non solo.
«È uno scenario completamente nuovo,
basato su un nuovo tipo di processori, di algoritmi e su una nuova generazione di macchine», racconta al telefono da San Diego
Samir Kumar, direttore del Business Development di Qualcomm. L’azienda californiana, che domina il settore dei microchip
per smartphone e tablet, ha messo in piedi
il suo più ambizioso progetto di ricerca
chiamandolo Zeroth. Una citazione alle tre
leggi della robotica di Isaac Asimov implementate dallo stesso Asimov da una quarta,
la più importante, la Zero: un robot non può
recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno. Il mancato
intervento delle macchine, la loro scarsa
abilità di compiere scelte, dovrebbe essere
superata dai processore “neuromorfi”. Un
dispositivo che imita il funzionamento dei
neuroni ed è basato non più su transistor
ma su “memristor”. Concepito nell’Università di Berkeley nel 1971, è rimasto pura
teoria fino al 2007 quando la Hp realizzò un
prototipo. E ora ci stanno lavorando tutti.
Essendo l’equivalente della sinapsi del
neurone, dovrebbe consentire di programmare software che emulano il pensiero.
«Un microchip neuromorfo non ne sostituisce uno normale, semplicemente fa
cose differenti», racconta Andrea Pagnani,
ricercatore al Politecnico di Torino dove si
occupa di modellizzazione di sistemi biologici. «Parliamo soprattutto della classificazione di pattern complessi», prosegue
Pagnani. «L’uomo è incredibilmente abile
nello svolgere questo compito. Può riconoscere una persona di spalle partendo dal-
la Repubblica
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2011
2012
2012
2014
Un gruppo di ricercatori del Mit
crea il primo processore
in grado di mimare
la comunicazione fra sinapsi
La Intel afferma di stare lavorando
su una sua versione di chip neuromorfo
Un anno dopo, anche Ibm dichiara
di aver avviato un suo progetto
Usando 16mila computer, Google sperimenta
un algoritmo neurale per l’autoapprendimento
delle macchine. Il super computer da solo
comincia a riconoscere le immagini dei gatti
Qualcomm, con altri partner, dà il via ufficiale
e su vasta scala al suo programma Zeroth
per creare processori neuromorfi
per smartphone, tablet e computer
VIDEO
PASSWORD
Oggi
Oggi
I video sul web vengono suddivisi
in base al tag o al titolo che portano
Alcune tecnologie possono
riconoscere certi elementi,
come persone o segnali stradali
La più usata è un codice
alfanumerico. Da qualche tempo
si adoperano anche le impronte
digitali. Ma non sempre sono
sistemi di riconoscimento efficaci
Domani
Domani
Potremo chiedere allo smartphone
di rintracciare tutte le scene di film
in cui si esegue un passo di danza
o di montare un video con le riprese
più divertenti di nostro figlio
Smartphone, tablet e altri dispositivi
saranno in grado di riconoscerci,
con assoluta sicurezza,
in base a una pluralità di segnali
e in qualsiasi condizione
TRADUZIONI
Oggi
I sistemi di riconoscimento
vocale hanno fatto passi da gigante:
consentono di dettare testi
o attivare funzioni. Ma ancora
non capiscono il senso del discorso
Domani
Avremo traduzioni istantanee
accurate, non maccheroniche come
quelle fornite dagli attuali traduttori:
la macchina capirà quel che diciamo
e lo trasporrà in qualsiasi lingua
l’immagine mentale che ha del suo volto,
per esempio. Una cosa che le macchine attuali non sanno fare». Quello che molti
stanno tentando quindi, della partita sono
ovviamente sia la Ibm sia Google, è di imitare la struttura del cervello in modo che i
processori e i software possano apprendere e riconoscere quel che ci circonda come
facciamo noi. Non stiamo parlando dei
semplici comandi vocali o dei programmi
già in uso per l’individuazione dei volti, entrambi si muovono attraverso parole o
punti chiave, ma di qualcosa di molto più
complesso. «Una immagine contiene una
quantità di informazioni straordinaria e
una piccola quantità può cambiare il senso
della foto o del video», spiega Giovanni Ca-
pellini, professore di Fisica e Tecnologia
dei semiconduttori all’università romana
di Tor Vergata. «Quindi si tratta di allenare
un sistema a fare i conti con la diversità».
Peccato che per riprodurre su silicio la
mente umana, o alcune sue funzioni, attualmente serva una potenza di calcolo
fuori scala. A giugno del 2012 Google, usando sedicimila computer e algoritmi neurali per l’autoapprendimento, ha fatto riconoscere alle sue macchine i gatti sfogliando
dieci milioni di immagini. In pratica, sfruttando il suo miliardo di connessioni, il super computer ha inventato il concetto di
gatto e ha potuto dargli un nome. Ha creato una categoria autonomamente, come
avrebbe fatto una persona.
«Il senso di Zeroth è di arrivare invece a
smartphone, tablet e pc che siano efficienti, relativamente facili da produrre e sappiano ragionare» continua Kumar. «Se riuscissimo a produrre dispositivi del genere i
benefici sarebbero vastissimi. Basti pensare al campo della sicurezza. Un computer
neuromorfo gestito da un algoritmo adeguato potrebbe facilmente riconoscere attraverso i circuiti di telecamere ogni possibile pericolo. Oppure operare con facilità
una traduzione istantanea. O ancora andare alla ricerca sul web di tutte le scene di film
dove un attore compie una certa azione. Le
possibili applicazioni sono infinite».
Ma è una sfida complessa. Una combinazione sofisticata di hardware e di softwa-
re, dove la parte più difficile è quest’ultima.
Perché sappiamo come funziona una rete
neurale, ma ci sfugge ancora molto del perché certi processi mentali avvengono. Non
a caso Kumar, al di là dell’importanza strategica di un settore del genere che è sotto gli
occhi di tutti e della velocità con la quale la
tecnologia ormai si evolve, sui tempi non si
vuole sbilanciare. C’è chi ha scritto che la
sua compagnia sarebbe pronta a lanciare
sul mercato il primo processore neuromorfo quest’anno. Ma lui smentisce, e non
azzarda previsioni. Lo fa, dopo richieste insistenti, Andrea Pagnani: «Tra almeno cinque anni, ma potrebbero facilmente diventare dieci».
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la Repubblica
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LA DOMENICA
I sapori
Sono tra i sette e i dodici milioni gli italiani che hanno
rinunciato parzialmente o del tutto al più dolce dei riti
Perduti
Per convincerli a ripensarci abbiamo
preparato loro il breakfast perfetto
(versione invernale)
Sunday
morning
LICIA GRANELLO
on abbiamo tempo. Non abbiamo voglia. Ci piacerebbe, se la trovassimo
pronta. La facciamo volentieri, ma quando siamo in vacanza. Perché la
quotidianità lavorativa ci regala risvegli facilmente faticosi: stomaco chiuso, un ricordo di mal di testa, l’ansia già in agguato, il mondo in salita. Altro che famigliola della pubblicità, tutta sorrisi, tavole apparecchiate e tazze fumanti.
Non esiste pasto più bistrattato della colazione. Ignorato, malinteso, spesso cancellato del
tutto, sepolto sotto tonnellate di giustificazioni del tipo: un caffè e un bicchiere d’acqua, non
riesco a ingoiare niente altro. Oppure: ho mangiato troppo ieri sera, devo dimagrire, se mi viene fame mangio una brioche a metà mattina. O ancora, io no, ma guai se i bambini vanno a
scuola a stomaco vuoto, loro devono crescere.
Solo il Generale Inverno riesce in qualche modo a scalfire tanta indifferenza, tra l’eredità
delle vacanze di fine anno (complici le ultime riserve di dolci da esaurire) e le temperature
rigide. Se il freddo fa bruciare più calorie, pensiamo, possiamo permetterci un biscotto in
più. E con qualcosa di caldo nello stomaco si affronta meglio la giornata.
In realtà, non sono tanto le quantità di cibo, ma la qualità e il timing a fare la differenza.
N
Almeno oggi
prima la colazione
Infatti, non esiste momento migliore della colazione per nutrire il corpo, farlo stare bene,
perfino indurlo ad azzerare i rotolini di grasso accumulati a Natale. Una consapevolezza
nuova che vale quanto una vera rivoluzione cultural-alimentare, capace di trasformare in
piacere di stomaco e palato l’obbligo della colazione, vissuto come tale da oltre un terzo degli italiani, cancellando a colpi di datteri e spremute i sette milioni di breakfast skippers—
tanti sono i saltatori della colazione — a cui aggiungerne altri cinque milioni che “la fanno qualche volta”.
Gli ultimi studi sull’associazione strettissima tra nutrizione, benessere e prevenzione convergono su una sola parola d’ordine: stress glucidico. Cioè cominciare la giornata con un apporto ricco e complesso di carboidrati “buoni” per
tenere sotto controllo il bioritmo del cortisolo, l’ormone surrenalico dello
stress, che intossica gli organi e abbassa le difese immunitarie.
Il nutrizionista milanese Vanni Zacchi traduce il concetto in termini gastronomici: «Per stare bene, bisogna fare colazione sempre, sempre abbondante, sempre con frutta fresca e secca, pane integrale, miele, yogurt, semi oleosi, muesli. Pensare di dimagrire saltando la colazione è
sbagliatissimo. Al mattino bisogna alzare la glicemia e fornire minerali alcalinizzanti per mantenere il giusto equilibrio acido-basico del corpo. Questa è la regola. Ma qualche strappo è il benvenuto perché i cibi
appaganti e confortanti aiutano a sopportare gli stress che ci aspettano nella giornata. Ben venga una cioccolata con panna ogni tanto!».
Così sdoganate le calorie buone e i gusti golosi, ci si può avventurare
anche nel territorio dei salati, montando una crema di ricotta (meglio
di capra) con yogurt, un filo d’olio di semi di lino, semi di zucca e qualche fiocco di sale da spalmare sul pane. Se poi vi è scappata una fetta di
pane, burro e marmellata in più, pazienza: qualche rampa di scale al
posto dell’ascensore vi rimetterà in pari con la coscienza.
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Torta casalinga
Miele
Frutta fresca
Cioccolato
Fette integrali
Dà la possibilità di scegliere
gli ingredienti: farine integrali,
olio o yogurt al posto di burro
e margarina, fruttosio
al posto dello zucchero
Il rapporto tra gli zuccheri
che lo compongono determina
maggiore fluidità (più fruttosio)
o tendenza alla cristallizzazione
(più glucosio)
Tre porzioni, anche di varietà
differenti, purché di stagione
e biologiche, per introdurre
vitamine e minerali
con effetto alcalinizzante
Polifenoli, magnesio
e teobromina, a basso
dosaggio di zucchero
nel fondente. Spesso abbinato
a due gherigli di noci (Omega 6)
Pane o biscottate a scelta,
di farro, avena, kamut...
Meglio verificare la percentuale
di farina integrale, troppo
spesso inferiore al 20 per cento
la Repubblica
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Gli indirizzi
TORINO
PASTICCERIA GERTOSIO
Via Lagrange 34
Tel. 011-5621942
MILANO
BIANCOLATTE
Via Turati 30
Tel. 02-62086177
LONIGO (VI)
PASTICCERIA IL CHIOSCO
Viale della Vittoria 4
Tel. 0444-830021
BOLOGNA
LA CARAMELLA
Via Cadriano 27/2
Tel. 051-505074
CAMPI BISENZIO (FI)
TUTTOBENE
Via di San Quirico 296/302
Tel. 055-8969529
ROMA
SETTEMBRINI CAFFÈ
Via Settembrini 19
Tel. 06-97610325
PESCARA
PASTICCERIA CAPRICE
P.zza Giuseppe Garibaldi 29
Tel. 085-691633
NAPOLI
FOLLIE DI CAFFÈ
Corso Vittorio Emanuele 484
Tel. 081-5642961
BARI
IL BARETTO
Via Roberto da Bari 122
Tel. 338-4443885
NOTO (SR)
CAFFÈ SICILIA
Corso V. Emanuele III 125
Tel. 0931-835013
LA RICETTA
Ciambella
al punch di yogurt
Ingredienti
Simone Finazzi è il pasticcere
del Relais Chateau
(tre stelle Michelin)
“Da Vittorio” (Bergamo),
che vanta una spettacolare
colazione con menù
degustazione
Magnifici i dolci,
come quello ideato
per i lettori di Repubblica
110 g. burro
110 g. di zucchero
1 baccello di vaniglia
1 pizzico di sale, 2 uova
50 g. di yogurt intero
10 g. di succo di limone
80 g. di farina da dolci fritti
40 g. di fecola
4 g. di lievito secco
Per il punch
45 g. di zucchero
40 g. di acqua
10 g. di succo di limone
40 g. di yogurt intero
✃
FOTO PHOTOTECNICA
Mescolare e portare a bollore acqua e zucchero,
unendo a freddo yogurt e limone. Conservare
Miscelare burro, zucchero, sale e i semini
del baccello. Aggiungere le uova, poi yogurt
e limone. Setacciare insieme farina, fecola
e lievito, quindi aggiungerli delicatamente
all’impasto. Stendere il composto in uno stampo
a ciambella (20 cm di diametro, 8 cm di foro)
imburrato e infarinato. Cuocere in forno a 150°C
per circa 25 minuti. All’uscita dal forno, capovolgere e fare
riposare per 5 minuti. Levare con dolcezza lo stampo e imbibire
con il punch. Fare freddare e spolverare con zucchero a velo
Servire a temperatura ambiente
Sulla strada
Un numero civico
due modi di essere caffè
GIAN LUCA FAVETTO
l caffè è un’appendice personale. Non il caffè che bevi, ma il locale dove vai a berlo la
mattina. Il luogo della colazione fuori casa è la prosecuzione dell’idea di casa con bancone e pareti diverse attorno: è un’intimità che continua ancora un po’ prima che il
giorno cominci. Quando uno lo sceglie, difficile che lo cambi. Lo abita per anni, il tempo
fondamentale di una tazzina e un croissant. Ma così come a volte ci sono due case, a volte ci sono due caffè. E dipende dall’umore, dall’estro di giornata, se infili la porticina a destra o quella a sinistra: a destra o a sinistra del portone di corso Fiume 2, Torino. Si trovano entrambi lì, i caffè, aperti dalle 6.15, separati soltanto da un portone, uniti dallo stesso numero civico. A pochi metri dal Po e dal ponte di corso Vittorio Emanuele.
A destra, c’è la Caffetteria Crimea; a sinistra, il Caffè Maggiora. A sinistra c’è Sergio,
da trent’anni, e c’è la tradizione di una vecchia pasticceria, l’ambiente raccolto, tre tavolini di marmo, arredamento in legno, vetrinette antiche, luce calda, i pasticcini, le
paste e un buonissimo caffè. A destra, da sette anni, ci sono Vincenzo e Fabio, che a ottobre hanno ristrutturato il locale, ambiente hi-tech, sedie e tavolini bianchi, acciaio e
vetri, un grande schermo, due iPad a disposizione, un caos allegro, bella luminosità, le
paste, i tramezzini e un buonissimo caffè.
Da Maggiora non puoi non assaggiare le vipere, croissant al burro, di forma allungata, vuoti e ricoperti di zucchero. Alla Crimea, non puoi non provare i biciulan, brioche tipica del vercellese, una sfoglia a forma di U compatta con la marmellata dentro.
E se riesci a farti prima una e poi l’altra, e a prenderti il tempo per due chiacchiere, beh,
è la felicità. La giornata comincia con la coccola giusta.
I
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Semi oleosi
Marmellata
Fichi secchi
Spremuta
Yogurt
Lino, in primis, per l'acido
alfalinolenico. Decorticati
ma non frullati, perché il calore
ossida. L’olio è concentrato
ma delicatissimo
Le migliori evitano i conservanti
e utilizzano frutta biologica
matura per ridurre lo zucchero
(integrale di canna o fruttosio)
da aggiungere in preparazione
Semplici o farciti con frutta
secca (quelli cilentani)
ma anche datteri e frutta
disidratata per dare energia,
grazie a fruttosio e minerali
Con due arance si soddisfa
il bisogno quotidiano
di vitamina C (100 mg)
Meglio berla appena fatta
Un limone ne tampona l’acidità
Bianco, di mucca, capra,
pecora, non zuccherato, intero
o magro, associato a muesli
(riso, orzo, avena), semi oleosi
o pezzetti di frutta fresca
la Repubblica
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LA DOMENICA
L’incontro
Massicci
Figlio di biochimici giramondo
ha sangue siciliano, tedesco e indio
nelle vene. Nato in Argentina,
a vent’anni decise di essere italiano
Orco buono e uomo di spettacolo
(sia in campo che in tutù)
è il leader della Nazionale
che da sabato sfiderà
i grandi al Sei Nazioni:
“Sono uno felice,
semplice, solare
Soprattutto sono l’unico
rugbista al mondo
che non beve birra”
Martín
Castrogiovanni
ndossa una maglietta celeste
che gli va stretta ma deve essere
almeno una XXL, e sopra c’è
scritto a grandi lettere: Be free.
Sii libero. Sotto l’occhio sinistro uno
sbrego ricucito di fresco con del filo nero: dieci punti di sutura, l’ultima mischia dell’altro sabato. Tre cani al guinzaglio — un bassotto a pelo lungo, un
bulldog, un pastore belga — ognuno
che tira per conto suo: lui prova a domarli con un urlaccio però gli scappa da
ridere, perché con quei capelli lunghi e
il barbone pare Mangiafuoco, ma si vede benissimo che l’orco è buono. «Sono uno felice», dice di sé. «Semplice. Solare».
Martín Castrogiovanni, pilone dell’Italrugby. Mani enormi, sguardo dolce. Centoventi chili di muscoli e sorrisi.
Un presente da fuoriclasse sul campo:
cento presenze con la maglia azzurra,
sette anni a Leicester con i maestri inglesi, oggi in un club stellare della Costa
Azzurra. Un campione anche in tivù,
tra pubblicità e beneficenza: “Castro”
che carica come un bufalo per le strade
della città, la palla ovale al petto, che
scaraventa lontano pneumatici come
fossero coriandoli. E Castro vestito da
cuoco che spezza cucchiai di legno, che
indossa un tutù e tutto concentrato
prova assurde piroette. Conduttore di
programmi sull’ambiente, ospite del
festival di Sanremo. Grosso, burbero,
ironico. Allegro, amato. Un futuro da
Bud Spencer. «Magari. Me lo dicono
tutti, ci penso. Mi piacerebbe fare del
to, avrei voluto vivere lì per sempre. Ma
con l’ultimo allenatore proprio non andava. Peccato». L’estate scorsa si è trasferito a Tolone, in una multinazionale
di campioni con un presidente che
sembra uscito da un romanzo di Émile
Zola: il cinquantenne Mourad Boudjellal, figlio di un camionista algerino e di
una donna delle pulizie armena, da
bambino sulle bancarelle dell’angiporto vendeva i fumetti disegnati dal
fratello poliomelitico. Ha fatto fortuna
con una casa editrice e ha mollato tutto per investire solo nella squadra di
rugby della città: geniale e un po’
sbruffone, sempre a caccia di guai e di
rivincite come la gente del Midi, non
bada a spese per avere i giocatori più
forti del pianeta. Wilkinson, Giteau,
Fernandez Lobbe, Habana, Williams.
Inglesi, australiani, argentini, sudafricani, neozelandesi. Più i migliori atleti
francesi. E Castro l’italiano, naturalmente. «Che tipo, monsieur Boudjellal.
All’inizio avevo un po’ di soggezione,
Mia mamma
non voleva
giocassi
Per convincerla
mi feci buttare fuori
dal torneo di basket
prendendo l’arbitro
per la collottola
FOTO CORBIS
I
TOLONE
cinema. Però mi sa che con questa cicatrice in faccia ho chiuso prima ancora di cominciare», sbuffa bugiardo. Enrico Vanzina ha appena detto che sarebbe l’interprete perfetto per la parte
del Gigante sfregiato, libro di successo
e presto film.
Da sabato prossimo sarà di nuovo ad
azzuffarsi con francesi e britanni nel Sei
Nazioni, il torneo più antico del mondo. L’anno prossimo, i Mondiali in Inghilterra: per Martín la quarta edizione
da protagonista. Ma, prima, il matrimonio con Giulia Candiago, campionessa di sci ora commentatrice alle
Olimpiadi di Sochi. «Ci sposiamo a giugno 2015. Giuro. Viaggio di nozze in
motorhome per l’America, senza una
meta precisa. Niente scarpe strette,
giacca e cravatta, fotografie con gli invitati, ore e ore seduti a tavola. No, grazie: non fa per me. Sarà una festa in
spiaggia, con le infradito ai piedi. Una
cosa semplice tra amici veri, compagni
e avversari di battaglie sui prati di tutto
il mondo: in quel periodo non ci sono
partite internazionali, verranno in tanti. E dopo il Mondiale, basta Nazionale.
Voglio riposarmi».
Una vita ovale. Nonostante la mamma. «Non voleva giocassi. Troppo pericoloso. Così ho provato con il nuoto,
poi la pallacanestro. Un giorno mi è venuta un’idea: ho strattonato un arbitro,
l’ho preso per la collottola. Mi hanno
squalificato, addio basket. Mamma si è
arresa, e mi ha dato il permesso». Aveva diciotto anni, ora ne ha appena compiuti trentadue. «Vivevamo a Paranà,
Argentina. Un fratello e una sorella più
piccoli, i miei genitori sono biochimici:
ci piaceva fare lunghi viaggi in macchina, tutti insieme. Siamo sempre stati
così: liberi. E quindi felici. Vengo da uno
strano miscuglio di razze: la nonna è di
Enna, poi c’è sangue tedesco, indio. A
vent’anni ho dovuto scegliere: argentino o italiano? Fai quello che ti dice il
cuore, noi ti saremo sempre accanto:
così hanno detto i miei. I miei eroi. E allora sono partito per questa avventura,
che chissà quando finisce. Non li ringrazierò mai abbastanza». Il primo
contratto a Calvisano, provincia di Brescia. Cinque anni di mischie e placcaggi. Il ragazzo ha forza e talento. Dalle
parti di Londra s’accorgono di lui. Roba da non crederci: un italiano invitato
da quelli che questo sport l’hanno inventato. «L’esperienza a Leicester è stata straordinaria. Sono diventato un giocatore, un uomo. Il club mi ha dato tut-
mi sembrava come di far parte di una
collezione di oggetti d’arte. Ma la cosa
più bella è che più i campioni sono famosi, più sono umili. Semplici. Puoi solo imparare. Da Jonny Wilkinson, il più
grande di tutti: che ancora oggi, ogni
giorno, dopo l’allenamento si ferma
due-tre ore da solo a fare esercizio. O
Matt Giteau, che fa meno sacrifici ma
ha una classe immensa». Gli piace proprio, Giteau: «Mi alleno duro. Ma come
a lui, mi piace godermi la vita. Che è una
sola». Cita Arancia meccanica: «Perché
i cervelluti si affidano all’improvvisazione». E poi, il sole della Costa Azzurra. «Vuoi mettere con il freddo e la nebbia inglese? Lassù si chiudono in casa,
cenano alle sei e alle nove sono già a letto. Musoni. Qui c’è passione, orgoglio e
voglia di stare insieme: arrivi allo stadio
prima delle partite e ti aspettano per
stringerti la mano, farti coraggio. Qui si
vive bene, si pensa bene, si gioca bene».
Confessa di non leggere molto, di
preferire la playstation. Però quell’articolo di Giuseppe D’Avanzo, il manifesto del rugby e della nazione italiana alla vigilia dei Mondiali del 2007, se lo ricorda bene. «Bellissimo. Mi hanno detto che D’Avanzo da ragazzo era un
buon giocatore. Un pilone, come me».
“Rugby. Uno sport che istruisce, accultura. La disciplina abbinata al senso di
responsabilità, il servizio alla collettività. Dove si conquista il terreno insieme, spanna dopo spanna. In scandalosa contraddizione con quella specificità
italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La necessità di
una ragione comune in una nazione divisa”. «Il problema di noi italiani è che
pensiamo sempre al quotidiano. Mai al
domani. In Inghilterra ho imparato
tanto: loro programmano, valutano
come saranno le cose tra dieci anni. Allora si organizzano, dettano delle regole precise e le seguono. Chi sbaglia, si
assume le sue responsabilità. E paga. Se
perdono non fanno drammi, non si accusano l’uno con l’altro. Pensano a risolvere il problema. Invece noi se vinciamo siamo eroi, se perdiamo dei falliti». Nella vita e nello sport. «E poi, la
cultura sportiva. Nei paesi anglosassoni è la scuola che ti segue, che ti insegna
il valore della disciplina e il piacere di
stare in campo. Giochi a rugby, a calcio,
a pallacanestro: divertimento e educazione alla vita. In Argentina ci sono i
club: i genitori pagano una quota e gli
affidano i figli per tutta la giornata, sapendo che gli faranno provare almeno
tre o quattro discipline. In Italia? Ti devi arrangiare». Mancano le strutture.
«Se ti fanno costruire un supermercato,
ti obbligano a regalare alla comunità
un bel terreno da gioco: succede in
Francia. Bello, vero?». Ma il rugby può
davvero cambiare l’Italia come sognava D’Avanzo? «Non lo so. Speriamo. Vedo che nonostante le nostre sconfitte,
la gente allo stadio è sempre più numerosa. Apprezzano la voglia di lottare, il
sacrificio comune, il rifiuto degli alibi.
Buon segno». Adesso le mamme non
hanno più paura di portare i bambini a
infangarsi per una palla ovale. Anzi.
«L’importante è che non ci facciamo
contaminare da abitudini, come dire?,
calcistiche. Anche i migliori giovani devono ricordarsi che non si è mai arrivati: servono impegno, umiltà, voglia di
migliorarsi. Altrimenti alla prima difficoltà, al primo dolore, finisce tutto. E
poi, il vero rugby mica lo giocano i
campioni». No? «No. Il vero rugby è
quello delle piccole squadre, degli amici di una vita, delle battaglie e dei terzi
tempi, quelli veri. Mica come noi professionisti, ché ormai dopo la doccia
siamo già sull’aereo».
Qualche anno fa s’era preso a pugni
con l’orco francese, Sebastien Chabal,
per via di un complimento di troppo alla sua Giulia. «Ma no, non è mai successo niente. Per fortuna. Hai presente
quanto è grosso Chabal? Ma soprattutto: quanto è brutto?». Sì, per chiudere ci
vorrebbe una birra. Come da tradizione. «Però io la birra non posso berla. Sono celiaco. Buffo, vero? Un rugbista che
non beve la birra». Sorride. Si vede che
è un gigante di quelli buoni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
MASSIMO CALANDRI