LADOMENICA DOMENICA 26 GENNAIO 2014 NUMERO 464 DIREPUBBLICA CULT All’interno La copertina Istruzioni per l’uso perché viviamo facendo da soli RAFFAELLA DE SANTIS e MAURIZIO FERRARIS Il romanzo Kyung-Sook Shi e la rivoluzione dei giovani fantasmi di Seul ELENA STANCANELLI Straparlando Lorenza Mazzetti “Mi sono salvata testimoniando il male dei nazisti” DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI UNA SCENA DI “SHINING” DI STANLEY KUBRICK ANTONIO GNOLI Il bambino di “Shining” oggi fa il medico ha poteri paranormali e parecchi brutti ricordi In esclusiva il sequel dell’horror firmato Stephen King La storia Se a raccontare Little Bighorn sono gli indiani SIEGMUND GINZBERG e VITTORIO ZUCCONI L’incontro Castrogiovanni “Un futuro da Bud Spencer” MASSIMO CALANDRI STEPHEN KING G ennaiodel 2007. Nella torretta di Rivington House, la stufa di Dan era al massimo, ma la stanza era ancora gelida. Una bufera accompagnata da raffiche di vento che soffiavano a cinquanta nodi era scesa dalle montagne, facendo cadere una media di quindici centimetri di neve all’ora sulla città di Frazier ancora avvolta nel sonno. Il pomeriggio successivo, alla fine della tempesta, alcuni cumuli sui lati dei palazzi di Cranmore Avenue esposti a nord e a est avrebbero superato i tre metri. A Dan non dispiaceva il freddo; raggomitolato sotto due piumoni, era al calduccio come un topo nel formaggio. Però il vento gli era penetrato nel cervello, proprio come si era insinuato attraverso le fessure delle finestre e delle porte della vecchia dimora vittoriana che era diventata la sua casa. Nel sogno, lo sentiva ululare nell’albergo dove da bambino aveva trascorso un inverno. Anzi, nel sogno lui era quel bambino. (segue nelle pagine successive) Il teatro ANTONIO MONDA S NEW YORK tephen King cominciò a parlare di un sequel di Shining (anno 1977) durante il tour promozionale di Under the Dome (2009), ma aveva iniziato a pensarci subito dopo la realizzazione del film di Stanley Kubrick (1980) — che ha sempre considerato un tradimento imperdonabile di uno dei suoi romanzi prediletti. Ne discusse una prima volta durante una conversazione pubblica con David Cronenberg: pur parlandone nei termini di una semplice ipotesi narrativa, il solo riferimento ai fantasmi dell’Overlook Hotel bastò a scatenare l’entusiasmo dei fan. Cronenberg si congratulò, perché ci vuole coraggio a riprendere un testo di culto, e aggiunse che grazie alla straordinaria capacità di King di creare grandi personaggi e plot efficacissimi il cinema attingeva continuamente ai suoi libri. Oltre a lui e a Kubrick lo hanno fatto De Palma, Reiner, Kasdan, Carpenter e molti altri. (segue nelle pagine successive) Le anime perse di Emma Dante regalano un pieno di emozioni RODOLFO DI GIAMMARCO La serie La poesia del mondo La ninnananna di Torquato Tasso WALTER SITI la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 26 LA DOMENICA La copertina Stephen King Avevamo lasciato il piccolo Danny tra i fantasmi dell’Overlook Hotel Oggi è un signore che aiuta i malati a morire e che deve combattere con i suoi incubi Tutti lo chiamano Doctor Sleep DORMI, NONAVEREPAURA STEPHEN KING (segue dalla copertina) al secondo piano dell’Overlook. Mamma sta dormendo e papà è in cantina a controllare vecchi giornali. Si sta DOCUMENTANDO. Ne ha bisogno per il libro che sta scrivendo. Danny non dovrebbe trovarsi lì, né avere il passe-partout che stringe in mano, ma non è riuscito a resistere. In quel preciso istante sta fissando la manichetta di un estintore inchiodato al muro. È ripiegata su se stessa decine di volte e sembra un serpente con la testa di ottone. Un serpente in letargo. Naturalmente non lo è, lui sta guardando una manichetta di tela e non una pelle di squame, però ci somiglia parecchio. A volte è un serpente. Forza, gli sussurra Danny nel sogno. Trema di paura, ma qualcosa lo spinge a continuare. Perché? Perché si sta DOCUMENTANDO, ecco perché. Forza, mordimi! Non puoi, vero? Sei solo uno stupido TUBO! Il beccuccio dello stupido tubo si muove e all’improvviso, invece che osservarlo di lato, lui può guardare direttamente dentro la sua apertura. O forse nella sua bocca. Una sola goccia trasparente compare sotto il buco nero, allungandosi. Dentro ci può vedere riflessi i suoi occhi sgranati. Una goccia d’acqua o di veleno? Un serpente o un estintore? E chi può dirlo, mio caro Redrum, Redrum mio caro? Chi può dirlo? Il tubo vibra rumoroso, e per lo spavento il cuore gli balza impazzito in gola. Solo i serpenti a sonagli fanno quel suono. Il beccuccio del serpente-estintore rotola via dalla manichetta alla quale era appoggiato, cadendo sul tappeto con un tonfo sordo. Vibra di nuovo e lui sa che dovrebbe indietreggiare prima di essere attaccato e morso, ma è paralizzato dalla paura, non riesce a muoversi e il beccuccio vibra... «Svegliati, Danny!» gli urla Tony da chissà dove. «Svegliati, svegliati». Ma lui non ce la fa, proprio come non può spostarsi, quello è l’Overlook, sono bloccati dalla neve, e tutto è cambiato. Gli estintori si trasformano in serpenti, le donne morte spalancano gli occhi, e suo padre... oddio DOBBIAMO SCAPPARE VIA PERCHÉ PAPÀ STA IMPAZZENDO! Il serpente a sonagli vibra. Vibra. Vi... È Dan sentì l’ululato del vento, ma non fuori dall’Overlook. No, fuori dalla torretta di Rivington House. I fiocchi di neve colpivano la finestra rivolta a nord. Sembravano granelli di sabbia. L’interfono vibrò. Scostò i piumoni e scese dal letto, facendo una smorfia quando appoggiò i piedi caldi sul pavimento gelato. Accese la lampada da tavolo, soffiando fuori il fiato. Non si condensava in vapore, ma anche se le resistenze della stufetta luccicavano roventi, la temperatura della stanza non doveva superare i sette gradi. Una nuova vibrazione. Premette il tasto dell’interfono. «Sono qui, sono qui. Chi mi cerca?». «Sono Claudette, Doc. Credo ci sia un paziente pronto per te». «La signora Winnick?». Era quasi certo si trattasse di lei. Da una settimana la vita di Vera era appesa a un filo: era in stato comatoso, con il respiro di Cheyne-Stokes che andava e veniva, e per di più quello era esattamente il genere di notte che i pazienti agli sgoccioli sceglievano per andarsene. Di solito alle quattro del mattino. Controllò l’orologio da polso. Soltanto le tre e venti, ma nessuno era infallibile. La risposta di Claudette Albertson lo sorprese. «No, il signor Hayes, giù da noi al primo piano». «Sicura?». Dan aveva giocato a scacchi con Charlie Hayes proprio quel pomeriggio, e per essere un uomo affetto da leucemia mieloide acuta, gli era sembrato vispo come un grillo. «No, ma Azzie è lì con lui. E se è vero quello che dici...». Dan sosteneva che Azzie non si sbagliava mai, una conclusione a cui era arrivato dopo quasi cinque anni di esperienza. Azrael vagabondava liberamente per i tre edifici che costituivano il complesso dell’ospizio, passando la maggior parte dei pomeriggi acciambellato sul divano della sala comune, anche se di tanto in tanto lo si vedeva allungato su un tavolinetto pieghevole, come uno scialle buttato lì per caso, magari vicino a un puzzle appena completato. Tutti gli ospiti lo adoravano (se c’erano state delle lamentele sul micio di casa, Dan non ne era al corrente) e Azzie ricambiava l’affetto. Talvolta saltava in grembo a un paziente anziano in fin di vita... ma con delicatezza, senza fargli male. Un’impresa notevole, considerata la sua mole. Quell’animale pesava almeno sei chili. Non entrava mai in una camera privata, a meno che il suo occupante non fosse in punto di morte. In tal caso, si infilava dentro (se la porta era socchiusa) o restava seduto fuori con la coda avvoltolata intorno alle zampe posteriori, chiedendo di entrare con un miagolio basso e discreto. Quando gli aprivano, balzava sul letto dell’ospite (i vecchi di Rivington House erano più ospiti che pazienti) e se ne restava fermo a fare le fusa. Se per caso la persona che aveva scelto era sveglia, in genere lo accarezzava. Dan non aveva mai sentito che qualcuno avesse ordinato di cacciare via Azzie. Sembravano capire che era là in veste di amico. «Chi è il medico di guardia?» chiese Dan. «Tu», rispose immediatamente Claudette. «Dai, quello vero». «Emerson, ma quando l’ho chiamato in ospedale, la sua assistente mi ha detto di non essere ridicola. Le strade sono interrotte da qui a Timbuctù. Ha aggiunto che persino gli spalaneve aspetteranno l’alba, tranne che per gli sfortunati bloccati in autostrada». «E va bene. Sto arrivando». Dopo avere lavorato per un po’ nell’ospizio, Dan aveva compreso che esisteva una divisione in classi anche per chi era in punto di morte. Le stanze del corpo centrale erano più grandi e costose di quelle delle strutture laterali. Nella dimora vittoriana dove un tempo Helen Rivington aveva vissuto e scritto i suoi romanzi rosa, le camere venivano chiamate «suite» e prendevano il nome da figli famosi del New Hampshire. Charlie Hayes era nell’Alan Shepard. Per raggiungerla, Dan dovette oltrepassare la zona ristoro ai piedi delle scale, dove si trovavano i distributori automatici e qualche sedia in plastica rigida. Su una c’era stravaccato Fred Carling, occupato a sgranocchiare cracker al burro d’arachidi e a leggere un vecchio numero di Popular Mechanics. L’uomo era uno dei tre inservienti del turno di notte. Gli altri due lavoravano di giorno a rotazione un paio di volte al mese; Carling mai. Amava definirsi un animale notturno ed era un corpulento scansafatiche le cui braccia, coperte da un intrico di tatuaggi, suggerivano un passato da biker. «Ma guarda chi c’è», esordì Fred. «Il piccolo Danny. O hai già assunto la tua identità segreta?». Dan non era in vena di scherzi, ancora mezzo addormentato. «Che cosa puoi dirmi del signor Hayes?». «Solo che è in compagnia del gatto e che quindi finirà presto sottoterra». «Non sta perdendo sangue?». L’omaccione alzò le spalle. «Sì, niente di che, dal naso. Ho infilato gli asciugamani sporchi in un “saccone tossico”, come da ordini. Sono nella lavanderia A, se ti va di controllare». A Dan venne in mente di chiedergli come facesse a considerare una robetta di poco conto una perdita di sangue tamponata con più di un asciugamano, ma decise di lasciare correre. Carling era un idiota insensibile; restava un mistero come fosse riuscito a procurarsi un lavoro a Rivington House, anche se nel turno di notte, quando quasi tutti gli ospiti dormivano o rimanevano in silenzio per non disturbare gli altri. Dan sospettava che qualcuno avesse mosso le leve giuste. Così girava il mondo. Suo padre non aveva fatto lo stesso per ottenere il suo ultimo posto, come custode dell’Overlook? Magari non era la prova lampante che fosse una porcata trovare un’occupazione grazie alle proprie conoscenze, ma di sicuro ci andava vicino. «Goditi la serata, Dottor Sonnoooooo», gli urlò dietro Carling, senza preoccuparsi di abbassare il tono di voce. In infermeria, Claudette stava spuntando la lista delle medicine mentre Janice Barker fissava un piccolo televisore con il sonoro abbassato. «Potete dirmi qualcosa di sostanziale su Charlie? Carling non mi è stato di alcun aiuto». Claudette lanciò un’occhiata lungo il corridoio per assicurarsi che Fred non fosse nei paraggi e poi abbassò comunque la voce. «Quel tipo è più inutile di un venditore di frigoriferi al Polo Nord. Spero sempre che venga licenziato». Dan la pensava allo stesso modo, ma rimase in silenzio. Aveva scoperto che la sobrietà costante faceva miracoli per la capacità di discrezione. «L’ho controllato un quarto d’ora fa», rispose Jan. «Non li perdiamo d’occhio quando un certo Signor Micio viene a trovarli». «Da quanto Azzie è con lui?». «Stava miagolando fuori dalla porta quando abbiamo iniziato il turno a mezzanotte», intervenne Claudette. «E così l’ho fatto entrare. È saltato immediatamente sul letto. Sai come fa. Mi è venuto in mente di chiamarti già allora, ma Charlie era sveglio e cosciente. Ha ricambiato il mio saluto e ha cominciato a coccolare Az. Ho deciso di aspettare. Circa un’ora dopo, ha preso a sanguinargli il naso. Fred l’ha pulito». «In bocca al lupo», gli augurò Jan. «Chiamaci se hai bisogno di qualcosa». «D’accordo. Tra parentesi, perché stai guardando la pubblicità di un prodotto per la pulizia del colon? O è una domanda troppo personale?». La donna sbadigliò. «A quest’ora, l’unica alternativa è la televendita di reggiseni in microfibra. E io ne ho già uno». La porta dell’Alan Shepard Suite era socchiusa, ma Dan bussò lo stesso. Non ricevendo alcuna risposta, la spalancò. Charlie Hayes era coperto dal lenzuolo fino al torace. Aveva novantun anni, era scheletrico, e talmente pallido da sembrare trasparente. Dan fu costretto a restare immobile per una trentina di secondi prima di essere certo che la casacca del pigiama dell’uomo si alzasse e abbassasse. Azzie era accoccolato vicino alla sporgenza appena accennata di un’anca. Quando Dan entrò, il gatto lo squadrò con i suoi misteriosi occhi. «Signor Hayes? Charlie?» Il vecchio non mosse ciglio. Le palpebre erano bluastre. La pelle appena sotto era ancora più scura, livida e violacea. Quando Dan si avvicinò alla sponda del letto, notò due crosticine rosse intorno alle narici e una terza all’angolo della bocca serrata. Con la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 27 “Dobbiamo scappare, papà sta impazzendo, ma io non riesco a muovermi, sono bloccato” Esce anche in Italia il più atteso tra i sequel Eccone un assaggio in anteprima delicatezza, Dan pulì il naso di Charlie dal sangue stato un grande peccatore e comunque non credo rappreso. Quando passò alla bocca, il vecchio sol- esista un posto del genere. Ho paura che non ci sia levò le palpebre. «Dan. Sei tu, vero? Ho gli occhi un niente». Gli mancava il respiro. Nell’angolo dell’occhio destro si stava allargando una goccia di sanpo’ appannati». Più che altro erano un intrico di ragnatele rossa- gue. «Non c’era niente prima, lo sappiamo tutti, e dunque non è logico che non ci sia niente dopo?». stre. «Invece c’è». Dan gli passò il panno umido sul vi«Come stai, Charlie? Senti dolore? Se vuoi, posso chiedere a Claudette di portarti una pastiglia». so. «Noi non finiamo mai veramente, Charlie. Non «No, non ho male», affermò il vecchio. Spostò lo ho idea di come sia possibile o di che cosa significhi, sguardo su Azzie, per poi riportarlo su Dan. «So per- so solo che è così». ché è qui. E anche perché sei arrivato tu». «Mi puoi aiutare nel momento del trapasso? Gli «Sono sceso perché mi ha svegliato il vento. In altri mi hanno detto che ne sei capace». quanto al gatto, probabilmente cercava compa«Sì. Posso farlo». Afferrò anche l’altra mano del gnia. È un animale notturno, in fondo». vecchio. «Ti addormenterai. E quando ti risveglieDan gli rimboccò la manica del pigiama per sen- rai... perché succederà, ne sono certo... tutto sarà intirgli il polso e si accorse di quattro segni bluastri al- finitamente meglio». lineati sul braccio scheletrico. I pazienti leucemici «Il paradiso? Stai parlando del paradiso?». in fase terminale si riempivano di lividi per un non«Non lo so, Charlie». nulla, ma quelle erano impronte di dita, e Dan saQuella sera il potere era molto forte. Riusciva a peva perfettamente chi era stato a lasciarle. Car- sentirlo scorrere come una corrente elettrica attraling, brutto figlio di puttana. Che cos’è successo? Era verso le loro mani unite e si ripromise di essere detroppo lento per te? Oppure eri incazzato di doverlo licato. Una parte di lui abitava il fragile corpo che pulire quando invece avresti voluto leggere le tue ri- stava cedendo e i deboli sensi viste e ingozzarti di quei fottuti cracker gialli? In al(sbrigati per favore) tre circostanze, Dan avrebbe afche erano sul punto di spefrontato la questione di petto, gnersi. Abitava una mente però aveva problemi più urgenti (sbrigati per favore è venuto il momento) di cui occuparsi. Az ci aveva azancora lucida e consapevole zeccato di nuovo. Gli bastava che stava formulando i suoi ultisfiorare l’uomo per capirlo. mi pensieri... almeno nei panni «Sono spaventato», ammise di Charlie Hayes. Charlie, la voce poco più che un Gli occhi iniettati di sangue si sussurro. Il cupo, costante lachiusero per poi riaprirsi. Molto mento del vento quasi la soverlentamente. chiava. «Non avrei mai pensato, «Va tutto bene», affermò Dan. ma eccomi qui». «Hai solo bisogno di dormire. Il «Non c’è nulla di cui avere sonno ti farà sentire meglio». paura». Invece di controllare inutil«È così che lo chiami?». IL LIBRO «Sì. Sonno. E dormire non è mente le pulsazioni, Dan gli preLa copertina del seguito se la mano. Vide i figli gemelli di pericoloso». di Shining, Charlie a quattro anni sull’alta«Non andartene». Doctor Sleep, «No. Sono qui con te». Non lena. La moglie abbassare la serdi Stephen King randa della stanza da letto, inscherzava. Era il suo terribile priSarà in libreria dossando solo le mutandine di vilegio. da martedì 28 gennaio pizzo francese che lui le aveva reGli occhi del vecchio si richiuper Sperling&Kupfer galato per il loro primo anniversero. Dan fece lo stesso e vide una (518 pagine, 19,90 euro, sario; la coda di cavallo ricaderle luce blu pulsare lenta nelle tenetraduzione su una spalla, mentre si girava a bre. Uno... due... stop. Uno... di Giovanni Arduino) guardarlo, il volto illuminato da due... stop. Fuori il vento contiun sorriso che era un grande, nuava a soffiare. «Dormi, Charenorme sì. Vide un trattore Farlie. Te la stai cavando bene, ma mall con un ombrello a strisce sei stanco e devi riposare». aperto sopra il posto di guida. Annusò il profumo di «Vedo mia moglie». In un sussurro appena perpancetta e sentì Frank Sinatra cantare Come Fly cettibile. «Davvero?». With Me, riecheggiando da una malconcia Moto«Dice che...». rola appoggiata a un tavolo da lavoro ingombro di E poi basta, solo l’ultimo lampo blu dietro le palattrezzi. Vide un coprimozzo colmo d’acqua piova- pebre e l’ultimo respiro dell’uomo sul letto. Dan na riflettere un fienile rosso. Sentì il sapore dei mir- aprì gli occhi e restò ad ascoltare il vento, in attesa. tilli e sventrò un cervo e pescò in qualche lago lon- Dopo pochi secondi, una nebbia rosso cupo si spritano punteggiato dalle gocce di un acquazzone au- gionò dal naso, dalla bocca e dagli occhi di Charlie. tunnale. Ballò a sessant’anni con la moglie alla fe- Era quello che una vecchia infermiera di Tampa, sta dei veterani. Spaccò la legna a trenta. Tirò un car- graziata da un briciolo di luccicanza proprio come rettino rosso a cinque, con indosso un paio di pan- Billy Freeman, aveva definito «il rantolo». Aveva taloncini corti. Poi tutte le immagini si fusero detto di averlo visto parecchie volte. insieme, come un mazzo di carte mescolato da una Dan lo vedeva sempre. La nebbia si sollevò, galleggiando sopra il corpo mano esperta, e il vento soffiava cumuli di neve giù dalle montagne, e dentro c’erano solo il silenzio e lo del vecchio. E poi svanì. sguardo solenne di Azzie. In momenti come quelDan armeggiò con la manica destra del pigiama lo, Dan sapeva perché era venuto al mondo. In mo- per sentirgli il polso. Una pura formalità. menti come quello, non rimpiangeva il dolore e la pena e la rabbia e l’orrore che aveva dovuto patire, © 2013 by Stephen King perché l’avevano portato lì, in quella stanza, menPublished by agreement with the author tre fuori ululava la bufera. Charlie Hayes aveva ragc/o The Lotts Agency, Ltd giunto l’estremo confine. © 2014 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. «Non sono spaventato dall’inferno. Non sono Per gentile concessione dell’Agenzia Santachiara Al passato non si sfugge ANTONIO MONDA (segue dalla copertina) Q uando Cronenberg disse che il film di Kubrick era a suo avviso diventato un classico del cinema, King rispose invitando gli spettatori ad andarsi a vedersi, invece, la serie televisiva che su Shining lui stesso aveva realizzato: sei puntate fedelissime al romanzo, ma modestissime da un punto di vista cinematografico. Poi diede alcune indicazioni su ciò che aveva in mente per il sequel: Dan Torrance, il protagonista dotato dello “shining”, della “luccicanza”, è ormai adulto. Ma quanto vissuto da bambino nell’Overlook Hotel ha provocato nella sua psiche traumi irreparabili. King non era ancora convinto di questa prima intuizione, e ipotizzò di fondere le vicende dei personaggi originali con la storia di un gatto chiamato Oscar in grado di prevedere la morte dei malati terminali. Nelle settimane successive avviò un sondaggio sul proprio website, nel quale chiese ai lettori se avessero preferito il sequel di Shining o un nuovo romanzo della serie Dark Tower: il risultato non lasciò dubbi e King vinse le residue resistenze. Doctor Sleep nasce da queste premesse narrative (e commerciali), e chi segue King sa bene con quanta attenzione affidi sempre il verdetto ultimo al suo pubblico. Un approccio mantenuto con tutti i cinquanta romanzi realizzati finora e dei quali ha venduto trecentosessanta milioni di copie. In questo sequel di Shining, che ha avuto numerose versioni e che è stato lanciato sul mercato americano con nove mesi di ritardo rispetto alla data annunciata, King immagina che Dan, il Danny sopravvissuto al papà Jack Torrance-Jack Nicholson, sia oggi un quarantenne perseguitato da quanto vissuto da bambino nell’Overlook Hotel. Dopo esser riuscito a vincere gravi problemi di alcolismo (proprio come lo stesso King) ha trovato la serenità ritirandosi a vivere in un piccolo centro del New Hampshire dove mette a disposizione dei malati terminali i propri poteri paranormali con l’aiuto di un gatto che ne prevede la fine imminente. È lui il Doctor Sleep di cui parla il titolo, da intendere anche ironicamente se si pensa che questo passeggero stato di grazia verrà sconvolto da una serie di violentissimi eventi che gli faranno perdere, appunto, il sonno. Come sempre la scrittura di King è veloce, a tratti di servizio, ma la trama è molto avvincente, a dispetto dello sconfinamento quasi immediato nel paranormale più estremo: Danny deve contrastare da un lato i fantasmi della stanza 217 dell’Overlook Hotel, da un altro è costretto ad affrontare un gruppo chiamato True Knot (in italiano “Vero Nodo”), alleandosi con Abra, una ragazzina di dodici anni dotata a sua volta del dono dello shining ma all’ennesima potenza. La storia si sviluppa attraverso scontri telepatici e scene di tortura, ma King riesce a fondere il paranormale con il realismo di ambientazioni che conosce alla perfezione: il New Hampshire descritto nel libro non è molto diverso dal Maine dove lo scrittore vive e in cui ha ambientato gran parte dei suoi libri. King è ugualmente abile nel descrivere la psicologia dei personaggi, e a suggerire l’idea che è impossibile sfuggire ai propri demoni e, più in generale, alla presenza del Male. Nonostante segua con attenzione tutti i canoni del genere, e privilegi la costruzione della suspense, riesce sempre a non perdere di vista un approccio sinceramente umanista all’interno della battaglia continua tra il Bene ed il Male. Ed è proprio questo tipo di sguardo ad averlo reso diverso da tutti gli altri scrittori che si cimentano con l’horror. E che ha portato Margaret Atwood a paragonarlo sul New York Times a Nathaniel Hawthorne, Henry James e Edgar Allan Poe. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 28 LA DOMENICA L’attualità Nuovi schiavi “Dovevamo stare sempre in silenzio. La notte con le luci accese ci guardavamo per vedere chi di noi si ammalava”. Jiang Chengfen è da poco tornata a casa dopo un anno e tre mesi passati in uno dei campi di “rieducazione attraverso il lavoro”. Che Pechino ha promesso di chiudere entro la fine di questo mese GIAMPAOLO VISETTI «P PECHINO referirei essere morta. Se resisti a certe umiliazioni, la vita poi non ha più senso». Jiang Chengfen ha quarant’anni, ne dimostra settanta ed è appena tornata a casa a Neijiang. Tra pochi giorni passerà il capodanno lunare in famiglia, nel Sichuan. «Ma ho conosciuto l’inferno — dice — e ho abolito la felicità». Era una contadina, ha osato protestare contro i funzionari che le avevano requisito la risaia per costruire un palazzo. È una tra gli ultimi prigionieri liberati dei laojiao cinesi. I “campi di rieducazione attraverso il lavoro” furono aperti da Mao Zedong nel 1957 per punire “controrivoluzionari” e “sovversivi”. Nell’immenso arcipelago gulag cinese, in cinquantasei anni, sono stati rinchiusi senza processo circa 1,7 milioni di cittadini. Gli “inghiottiti” finiti nelle fosse comuni, secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero decine di migliaia. In novembre il plenum del Partito comunista ha annunciato la chiusura dei laojiao. A fine dicembre il Congresso nazionale del popolo ha ratificato la decisione. Entro gennaio i trecentocinquanta campi, prigioni per torture e lavori forzati, saranno ufficialmente chiusi. «Sono rimasta nel campo della contea di Zhizhong — racconta Chengfen — un anno e tre mesi. Avrei dovuto starci quattro anni. Altri prigionieri erano lì da quasi dieci. L’altra mattina una guardia mi ha portato al cancello. Mi ha fatto uscire, senza una parola. Ho capito che ero libera». I laojiao sono arrivati a essere oltre seicento, disseminati ovunque. Nel 2011 i prigionieri della polizia erano ancora 450mila. Ai primi oppositori anti-maoisti, si sono aggiunti dissidenti, fedeli di varie religioni, cristiani del Falun Gong, firmatari di petizioni contro le autorità. A essi sono stati mescolati ladri, prostitute, tossicodi- 1957 Mao istituisce i “Laojiao”, “campi di rieducazione attraverso il lavoro” per “controrivoluzionari” pendenti, criminali comuni, giocatori d’azzardo e persone definite “malate di mente”. La “rieducazione” consisteva nei lavori forzati: tra 12 e 15 ore al giorno in miniere, fabbriche, laboratori artigianali, aziende agricole. La Cina, per oltre mezzo secolo, si è assicurata una massa di schiavi che potevano essere sfruttati, torturati e uccisi, lasciati morire di fame e di freddo. «La sveglia nei dormitori — dice Chengfen — suonava alle 6. Eravamo in dodici, in celle di nove metri. Dieci minuti per lavarci, in bagni per 200 prigionieri, mezz’ora a piedi per arrivare alla mensa. Altri dieci minuti per un panino al vapore, in sale per 900 detenuti, in silenzio. Tra le 8 e le 20 dovevamo assemblare parti di televisioni, o di automobili. Chi apriva bocca veniva picchiato, o condannato a stare in piedi fino a mezzanotte». È la prima volta che l’ex prigioniero di un laojiao, non coperto da pseudonimo, racconta la giornata-tipo nei campi comunisti ispirati ai lager nazisti. Chi non è morto sconta il senso di colpa di un destino meno spietato rispetto a quello dei compagni: migliaia di fosse comuni, in tutta la Cina, ospitano i resti di chi non ce l’ha fatta. «A pranzo mangiavamo una zuppa o una fetta di zucca. Il cibo era sporco, emanava un odore strano, l’acqua era scura, piena d’insetti». Le guardie passavano il tempo a giocare a mahjong, o davanti alla tv. L’ordine era assicurato dall’esercito dei du jin, gli “individui d’oro”. «Venivano registrati come drogati — dice Chengfen — ma erano gangster, o criminali. Per assicurarsi un trattamento di riguardo davano ordini impossibili e punivano. Chi resisteva veniva pestato, condannato al digiuno, privato del sonno. Per ottenere pietà non restava che la corruzione. Qualcuno riusciva a farsi mandare soldi da casa». Da anni i laojiao non erano più prigioni politiche, ma centri di sfruttamento e ricatto appaltati a funzionari locali e polizia. Le vittime dei lavori forzati pagavano fino a 1650 dollari, 1,7 mln Il numero di persone rinchiuse nei campi dal 1957. Alcune ong parlano di 10-15 milioni ogni sei mesi, per vitto e alloggio. La libertà costava settemila dollari: i parenti dei prigionieri si consegnavano agli usurai, complici dei carcerieri. «Alle 20 venivamo messi davanti a un programma tv scelto dalle guardie. Altri scrivevano alla famiglia. Ho scoperto poi che le lettere servivano per accendere le stufe. Non si poteva parlare: il silenzio è stato il simbolo del nostro annullamento personale. Alle 21 dovevamo sederci sulle brande. La luce restava accesa tutta la notte. Ci guardavamo per capire chi veniva aggredito dalle malattie». Negli ultimi trent’anni la crescita economica cinese è esplosa anche grazie al basso costo del lavoro. Gli arresti di decine di migliaia di cinesi, ridotti in schiavitù, sono stati condannati invano. Pechino ha definito le accuse «ingerenze indebite in affari interni». La scintilla che ha costretto i nuovi leader a chiudere i campi è partita nell’agosto 2012 a Yongzhou, nello Hunan. «Mia figlia di undici anni — ricorda Tang Hui — era stata violentata da sei uomini. La obbligarono a prostituirsi. Li ho denunciati. Non ricevemmo alcun risarcimento, i funzionari cittadini insabbiarono il caso. Ho chiesto giustizia a Pechino: la polizia mi arrestò, diciotto mesi di laojiao». Grazie al web, anche la Cina è insorta. La storia della madre perseguitata dal partito-Stato per aver difeso la figlia stuprata divenne uno scandalo mondiale. «Fu allora — dice l’avvocato Li Fangping, difensore di dissidenti e povera gente — che le autorità compresero che la repressione era sfuggita di mano». Chiudere i campi di lavoro ideati da Mao non era facile. Gli schiavi sono stati una miniera d’oro per la polizia e per i colossi pubblici, l’arma istantanea del regime. «Mio marito — dice Lui Fengming, professoressa in pensione — aveva postato su internet un appello per la legalità. Fu rinchiuso in una fattoria-prigione della Mongolia interna. Per avere 350 I campi arrivarono a essere 600, oggi ne sono rimasti attivi 350: dovranno chiudere entro gennaio la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 L’APPELLO Un poliziotto davanti a un gruppo di detenuti nel campo di lavoro di Kunming (provincia dello Yunnan) FOTO GETTY ■ 29 Per la prima volta parlano gli ex prigionieri E raccontano l’altra faccia del miracolo cinese: “Per guarire dovevamo stampare biglietti di Natale da esportare in Occidente...” Gli ultimi giorni dell’arcipelago Laojiao notizie sono rimasta in piedi cinque giorni davanti al cancello di un laojiao. Alla fine uscì il capo delle guardie. Scorreva con il dito i nomi scritti su un quaderno. Si fermò, pronunciò il nome di mio marito. Pensavo stesse per rivelarmi dov’era. “Morto — disse — un mese fa”». Ora che i campi chiudono, affiorano i racconti della grande tragedia ignorata. Le strutture smantellate restano inaccessibili. I funzionari tacciono. Ogni giorno migliaia di prigionieri vengono liberati e accompagnati a casa dagli ex carcerieri, con l’ordine del silenzio. Anche i governi stranieri evitano di chiedere la verità: la nuova forza economica dell’autoritarismo cinese spaventa le democrazie occidentali in crisi. I laojiao ufficialmente sono in corso di “riconversione”: diventano comunità di recupero dalla droga, prigioni per condannati dai tribunali, istituti psichiatrici. Avvocati e organizzazioni internazionali lanciano l’allarme. «Pechino cambia le insegne — dice Shen Tingting, direttrice di Asia Catalyst — e smantella gli edifici più vecchi. La repressione violenta, necessaria alla stabilità del regime, però non finisce. Invece che nei campi di lavoro, chi pone problemi scompare in carceri nere e comunità per prostitute. Il rischio è rendere abusi e torture formalmente tollerabili». I nuovi “campi di custodia e di educazione” sono luoghi per il lavaggio del cervello. Ren Jianyu, 27 anni di Chongqing, è finito in un ex laojiao per aver diffuso in Rete «informazioni negative». Il tribunale lo ha giudicato «malato di mente». Ha trascorso un anno in un blocco di cemento a Xinhe, a nord di Pechino. «Per guarire — dice — dovevamo stampare biglietti d’auguri di Natale, esportati in Europa e negli Usa. L’altra mattina una guardia vestita da infermiere mi ha portato fuori e mi ha la- 50mila Il numero di persone ancora detenute nei “laojiao” Nel 2013 erano 160mila sciato alla fermata della metropolitana perché non ho più una casa». Per il governo ciò che conta è aver abolito detenzioni prive della sentenza di un tribunale. I giuristi ricordano però che in Cina la magistratura non è indipendente. È al servizio del potere: ognuno può essere arrestato e condannato per un’accusa qualsiasi. «Chiudere i campi — dice Yang Xiangui, autore della storia censurata sulla strage di Jiabiangou, dove sono morti 1500 detenuti — apre un vuoto. Non credo che il Partito pensi realmente di colmarlo con qualcosa di legale, di trasparente, o rispettando le persone». I laojiao chiudono, ma a nessuno è permesso di visitarli. Presentare domanda espone alla rappresaglia dei funzionari. Gli ex detenuti vengono minacciati: raccontare comporta il rischio di una condanna nelle nuove strutture. Anche migliaia di ex carcerieri, in queste ore, vengono trasferiti e riformati, come “assistenti medici e custodi dei penitenziari”. La Cina di miserabili e schiavi resta off-limits. Guo Qinghua ha 46 anni e fino a marzo puliva le latrine del comitato permanente del Congresso del popolo. Un buon posto, a Pechino. Ha avuto problemi per la paga ed è stata l’ultima a essere ufficialmente deportata in un laojiao. È finita a Daxing, sei edifici per settecento prigionieri. Li hanno chiusi martedì. «Ora sono libera e posso scegliere tra la disoccupazione e l’assemblaggio di giocattoli nel nuovo centro anti-droga. Sono comunque condannata a morte. L’inaccettabile è diventato presentabile, vince sempre il più forte». Non esistono dittature cattive che si trasformano in dittature buone. Ci sono soli nomi che fanno vergognare che all’improvviso diventano nomi pronunciabili senza vergogna. Anche Guo Qinghua, come Jiang Chengfeng, resta una prigioniera libera, vittima dell’eterna giornata cinese nell’ultimo ex laojiao. © RIPRODUZIONE RISERVATA 50% Oggi circa la metà dei detenuti nei campi di lavoro è tossicodipendente la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 30 LA DOMENICA La storia Far West Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne SIEGMUND GINZBERG l giornalista ci ricamò una storia. Mischiò notizie vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che l’album era stato rinvenuto in una sepoltura indiana a Little Bighorn, il sito della battaglia in cui i Sioux avevano annientato Custer e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile. Ledger books vengono chiamati gli album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui fogli dei ruolini dell’esercito Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra, e ciò ne aumentava enormemente il valore agli occhi dei possessori. Esattamente come per gli indiani delle praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in mancanza di prede con marchi autentici, i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli. È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito), la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso di un oggetto magico, I propiziatorio. Anche se a un certo punto divenne scomodo, perché gli album cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata. Tra i molti album del genere che si sono conservati, questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale. Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio IL DISEGNO Un guerriero Cheyenne salvato dal compagno Lakota: ha con sé la sacra lancia che può rendere gli uomini invisibili in battaglia di cortesie cerimoniali a più mani. Gli artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little Bighornpubblicato dalla Peabody Mu- seum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic “Autobiography of Half Moon”, si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del Chicago Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded) al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente, aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion Howard — questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte — sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano, rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima. Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo. Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni. Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 31 L’alfabeto delle grandi pianure VITTORIO ZUCCONI I sembrasse un’unica narrazione autobiografica. E si inventò un personaggio inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea. Oppure forse perché sperava che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il New York Herald a pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità, barbarie» tratti dall’autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti l’essersi poi arreso, anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato, quando si era già consegnato, l’irriducibile “testa calda” Cavallo Pazzo. Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando — con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant. L’album, il ledger book di Howard, aveva invece il difetto di evocare al pubblico più l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio. Illustra le imprese compiute negli anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel corso del decennio precedente i fatti di Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma anche imprese di caccia, dove l’elemento principale non è affatto la crudeltà o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide Shoshone che accompagnavano la cavalleria Usa, o membri di tribù avversarie dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente sul coraggio, sul cavalcare in mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull’aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla prati- ‘‘ Nuvola Rossa Il leggendario capo tribù era desideroso di celebrare il coraggio e le gesta dei suoi uomini ‘‘ Phocion Howard Il giornalista embedded ritrovò i disegni e vi aggiunse una sua introduzione lavorando di fantasia LE IMMAGINI Raccolti in A Lakota War Book from The Little Bighorn (Peabody Museum Press) i disegni qui pubblicati sono stati ritrovati nella tomba di un capo indiano sepolto a Little Bighorn senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei “dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e dei segni. Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all’Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti, gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole. ca del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse esserlo per i cavalieri erranti del medioevo. C’è anche una storia d’amore, di rapimento della donzella da parte dell’innamorato, ma solo in un disegno su settantasette. Ma non è neppure solo un romanzo, una graphic novel. Il curatore insiste con dovizia di argomenti, attenzione © RIPRODUZIONE RISERVATA meticolosa ai particolari (dalle armi al vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a fatti e protagonisti storici. Eppure nel suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per quasi un secolo. Malgrado l’America avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria. © RIPRODUZIONE RISERVATA © MS AM 2337, HOUGHTON LIBRARY, HARVARD UNIVERSITY n principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente, le guerre. Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini, vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta. L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video, la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 32 LA DOMENICA Spettacoli Pubblicata negli Usa la corrispondenza privata del compositore globetrotter GUIDO ANDRUETTO usicista carismatico e versatile, compositore dal talento prodigioso, Leonard Bernstein è stato certamente uno tra i più importanti e influenti personaggi nella storia della musica del secolo scorso. La carriera che intraprese dopo essersi formato fra gli anni Trenta e Quaranta all’università di Harvard e al Curtis Institute of Music di Philadelphia, gli spalancò le porte non solo delle grandi sale da concerto, dove diresse le più prestigiose orchestre, dalla New York City Symphony Orchestra all’Orchestra sinfonica di Tel Aviv, M La musica e la vita in seicento pagine ma anche quelle del mondo intero, che Bernstein ebbe il privilegio di girare senza mai mettere un freno all’indomabile curiosità che lo animava. La testimonianza più vibrante della vita in movimento di questo “globetrotting Maestro”, come gli piaceva essere chiamato, è ora raccolta nelle seicento pagine del libro The Leonard Bernstein Letters, curato dal saggista e musicologo inglese Nigel Simeone e edito dalla Yale University Press: ne emerge un fiume in piena di inchiostro che l’autore di West Side Story, scomparso nell’ottobre del 1990, ha utilizzato per riempire decine di migliaia di fogli manoscritti tuttora conservati negli archivi dedicati alla musica della Library of Congress a Washington. Tra i quattrocentomila documenti appartenuti a Bernstein, che sono stati catalogati in parte come registrazioni audio e video, fotografie e spartiti, un ampio spazio è occupato dalla corrispondenza privata che si compone invece di lettere, telegrammi, annotazioni, messaggi, biglietti di auguri e cartoline spedite o ricevute in un lungo arco di tempo che va dal 1932 sino alla fine dei suoi giorni. Il libro si sofferma su una selezione di lettere che mettono in luce da un lato la grande e forse indefinibile personalità musicale di Bernstein (a un amico lui stesso scrisse «sono un direttore d’orchestra, un compositore e un pianista. E nessuno dei tre») e dall’altro la sfera più intima della sua esistenza che si svela nelle tante missive indirizzate all’amante e mentore Aaron Copland, o alla moglie, l’attrice Felicia Montealegre, dove esprime con sincerità i suoi pensieri e i suoi tormenti sulla famiglia, sugli amori e sul matrimonio. Ma nella collezione delle lettere di Bernstein sono anche molte quelle che vedono la musica e il lavoro al centro dello scambio epistolare: tanti i personaggi illustri con cui Bernstein intrattenne un rapporto anche per iscritto, da Jacqueline Kennedy a Ingmar Bergman, fino a John Cage e Karlheinz Stockhausen. Tra tutte ne spicca una scrittagli dall’appena compianto Claudio Abbado. Il Maestro ci teneva a dichiarargli la sua più profonda gratitudine per come il suo esempio lo aveva aiutato a migliorarsi. © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO © WILLIAM P. GOTTLIEB Maestri ‘‘ Alla moglie (Milano, 4 febbraio 1955) È una gioia essere qui: di nuovo immerso nelle prove, il cast nel pomeriggio e il coro la mattina, e le conferenze la sera con Luchino [Visconti], con cui è meraviglioso lavorare. Sono tutto entusiasmato per La sonnambula, come per Medea, mi vengono idee folli per l’incisione, l’esibizione, i tempi. Luchino ha progettato una piccola produzione, perfetta in ogni dettaglio stilistico, proprio come io ho progettato una piccola orchestra, giovane ed esuberante. Mi piacerebbe che tu arrivassi in tempo per vederla. La prima sarà il 19, l’ultima intorno al 25. La Callas è più grande che mai. È dimagrita in modo impressionante ed è straordinariamente bella, anche fuori dalla scena. Ha i capelli biondo cenere e si veste molto meglio: e canta come una bambola. L’altra sera l’ho sentita fare Maddalena nell’Andrea Chénier ed era una civetta divina di 17 anni o giù di lì, assolutamente credibile! Oggi abbiamo fatto la prima lettura della Sonnambula, e mi ha fatto piangere. Da K. Stockhausen (Colonia, 8 novembre 1959) Non ha alcuna ragione per essere triste. Lei è il solo artista da molto tempo a questa parte che mi abbia dato l’impressione di essere qualcosa di più di un artista «serio», può riempire una stanza di vita, di Unbefangenheit, di Aufgeräumtheit solo con la sua presenza, solo parlando e ridendo di qualsiasi cosa. È un dono d’oro, senza alcun merito: e le auguro con tutto il mio cuore che nessuno possa mai rovinare o distorcere la sua anima. Noi viviamo per la musica, sì, ma possiamo anche dire che la musica esiste per noi. C’è una relazione segreta fra la sua anima e l’anima di Mozart, forse lo sa: rare stelle splendenti che appaiono di tanto in tanto nel cielo di questa terra, leggere e trasparenti come angeli, capaci di rendere tutti felici per un piccolo momento di questa storia seriosa… senza casa come solo i senza casa possono essere. So quello che dico: metà della mia anima è come la sua, come quella di Mozart; ma io sono uno strano miscuglio di paradiso e inferno. Claudio Abbado Grazie a lei ho imparato a non fare il dittatore con gli orchestrali Francis Ford Coppola La prego di sopportarmi: sarebbe un piacere collaborare appieno con lei Da Claudio Abbado (Berlino, 28 ottobre 1963) Caro Maestro, desidero ringraziarla di cuore per tutto quello che ho imparato da lei durante le settimane che ho trascorso a New York con la Philharmonic. Quello che ho imparato dalle sue prove, dal punto di vista musicale e umano, ho cercato di metterlo in pratica nelle prove dei miei ultimi concerti, e sono sempre riuscito a trovare un contatto umano con l’orchestra, dimenticando completamente l’atteggiamento dittatoriale che avevo negli anni passati. I risultati sono magnifici e ho potuto musizieren in modo completamente nuovo negli ultimi concerti a Roma, Venezia e Berlino. la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 33 A scrivergli i più grandi artisti del mondo Miles Davis Se scegli di essere te stesso potresti essere un grande pianista John Cage Ammiro il tuo coraggio nel presentare il mio lavoro davanti al tuo pubblico Karlheinz Stockhausen Lei può riempire una stanza di vita solo con la sua presenza Adolph Green Tu sei brillante, impulsivo, giovane Io sono grasso, vecchio e debole A John Cage (ottobre 1963) Caro John, che cosa ti fa pensare che le nostre improvvisazioni orchestrali debbano rappresentare in qualche modo un «commento» alla tua opera e a quella dei tuoi colleghi? E ancora, cos’è che ti dà l’idea che ogni cosa in questa parte del programma debba essere confinata all’ambito in cui lavorate voi? Il concetto generale è Music of Chance [musica del caso, delle possibilità] e ci sono tantissime possibilità nel tuo lavoro come in quello di Brown e Feldman, come anche nell’improvvisazione totale. Stiamo cercando di gettare uno sguardo sul mondo aleatorio, lo sguardo più esaustivo che si possa avere in metà di un programma completo: e a me sembra chiaro che l’improvvisazione è un elemento essenziale di un approccio del genere. E infine, come puoi dire che la tua musica non lascia «libero sfogo al gusto e alla memoria», quando scrivi per un’orchestra che può o non può suonare in un dato momento, e che, se suona, esegue delle approssimazioni? Se può farti sentire meglio, sarò felice di suonare l’improvvisazione prima della tua opera, evitando in questo modo l’idea tendenziosa che si tratti di un commento finale alla musica precedente. Spero che questo possa alleviare le tue preoccupazioni e dimostrarti l’integrità delle mie intenzioni. Con la massima cordialità. A Ingmar Bergman (11 agosto 1970) LE IMMAGINI In alto e qui sopra: Israele, 1948, le lettere alla madre illustrate dall’amico pittore Yossi Stern Al centro, un disegno di Bernstein nella lettera a Stephen Sondheim (1980) Nelle foto, il Maestro alla Carnegie Hall nel 1946 Ci tengo a dirle personalmente quanto mi piacerebbe poter avere l’opportunità di lavorare insieme, specialmente su un progetto affascinante e impegnativo come il Tristano. L’idea sarebbe di metterlo in scena al festival di Bayreuth nel 1973, e poi di registrarlo e filmarlo. Mi rendo conto che forse lei non sarà interessato a mettere in scena l’opera a Bayreuth, ma non riesco a pensare a nessuno più adatto di lei per una versione cinematografica libera, fresca e con un’impronta personale. Potremmo parlarne di persona? Il mese prossimo sarò in Giappone, poi tornerò a New York da metà settembre fino a gennaio del 1971. A inizio febbraio andrò a Parigi a seguire dei concerti, e poi in generale sarò in giro per l’Europa e Israele fino alla fine di aprile. Sono un suo profondo ammirato- re e voglio lavorare con lei! Con amicizia Leonard Bernstein Da F. Ford Coppola (San Francisco, 7 marzo 1980) “Ecco, voglio darvi un cinema musicale. Portare il musical a un livello più alto, un mezzo di espressione che il mondo intero possa vedere e rapportarcisi”. Questo è il mio sogno e so che è anche il suo. La prego di sopportarmi: magari lavoreremo in modo più informale nei prossimi sei mesi, o anche un anno. Ma quando poi metteremo insieme questi abbozzi, sarebbe un piacere collaborare appieno con lei, con Adolph e con Betty. Le chiedo scusa se possiedo e ho avviato un nuovo studio cinematografico, lo Zoetrope Studio, che l’ha spinta a dire che da artista sono diventato un «magnate». Gli Zoetrope Studios creeranno il più moderno studio elettronico del mondo e il loro primo lavoro sarà Tucker di Leonard Bernstein, Betty Comden e Adolph Green (e chi sa, magari anche Jerome Robbins e Francis Coppola). Vorrei proprio vedere questo film. Magari un giorno dirà: «Non sapevo che sarebbe stato Francis Coppola». Con affetto sincero, Francis Da Miles Davis (New York, 28 giugno 1988) Caro Leonard, ricevendo il premio Sonning a Copenaghen, che solo Isaac Stern, Stravinskij, tu e io abbiamo ricevuto, ho pensato a che onore sia essere in tua e loro compagnia. Penso anche a quella volta che mia moglie, che era la prima ballerina in West Side Story, mi disse: «Leonard vuole sapere se ti piacerebbe suonare questa musica», e io risposi «Come faccio a suonare questa merda sdolcinata?». Non c’è bisogno di dire che è diventata un classico. Tu sei uno dei veri geni d’America, insieme a [Thelonius] Monk, [Dizzy] Gillespie, [Charles] Mingus e [Charlie] Parker. Tu sei un vero musicista e se scegli di essere te stesso potresti essere un grande pianista, oltre che un grande compositore e direttore d’orchestra. In questo tuo settantesimo compleanno, ti auguro tutto il meglio e ti auguro molti altri anni produttivi per deliziare il mondo con la tua musica. Sinceramente tuo, Miles Davis (da The Leonard Bernstein Letters, Yale University Press) Traduzione di Fabio Galimberti © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 34 Next Cervelloni L’EVOLUZIONE 1971 1990 2007 Viene teorizzato il memristor, versione su silicio della sinapsi, da parte di Leon Chua dell’Università di Berkeley in California Carver Andress Mead del California Institute of Technology (Caltech) teorizza i computer neuromorfi, macchine che funzionano imitando il cervello umano Una versione sperimentale del memristor viene realizzata da Stanley Williams della Hewlett Packard I prossimi anni saranno decisivi per realizzare finalmente il sogno di Asimov: creare l’hardware in grado di ragionare IMMAGINI Oggi I software possono riconoscere i volti, usando circa ottanta punti diversi, e sono in grado di distinguere elementi che spiccano in una foto, per esempio un monumento Domani I colossi dell’informatica assicurano: smartphone e tablet potranno interpretare le immagini Computer e algoritmi neuromorfi potranno suddividere le immagini per categorie, rintracciare stili iconografici, riconoscere luoghi anche disponendo di foto parziali grazie a processi mentali quasi umani Macchine che (la) pensano come noi MEDICINA Oggi Oggi Per diagnosticare alcune malattie, come per esempio certe tipologie di cancro, sono necessari gli occhi e l’esperienza di medici addestrati appositamente L’analisi automatica delle immagini dei circuiti di sicurezza è complicata. Si possono individuare persone, movimenti e volti, magari confrontandoli con un database Domani Domani I sistemi di indagine e ricerca arriveranno a diagnosticare le diverse patologie con un’accuratezza e una precisione superiori a quelle umane I sistemi di sicurezza potranno interpretare e determinare in totale autonomia le eventuali situazioni di pericolo o di potenziale pericolo JAIME D’ALESSANDRO L SICUREZZA a prossima rivoluzione nel campo dell’elaborazione dei dati ha radici antiche, anzi biologiche, e ambizioni da film di fantascienza. L’obiettivo sono computer che imparano, sbagliano, riescono a distinguere cose e persone come solo noi umani possiamo fare. Poco importa che sia il rintracciare tutti i video dove viene eseguito un certo passo di danza, l’individuare con esattezza un tumore da una immagine istologica o l’eseguire con precisione semantica traduzioni istantanee dal cinese all’italiano. Guardano alla struttura della nostra mente, alle reti neurali, per risolvere uno dei grandi nodi che sta bloccando l’evolu- zione delle macchine e degli algoritmi: la loro inadeguatezza nel riconoscere gli elementi di un’immagine o di un filmato, di comprendere quel che diciamo, di operare scelte complesse. In un mondo che si sta spostando dalle parole alle immagini, entro il 2017, stando alla Cisco (azienda statunitense leader nel networking), il 70 per cento del traffico sarà formato da video: una svolta simile apre la strada in primis a motori di ricerca completamente diversi da quelli attuali, perché in grado di analizzare il significato. Ma non solo. «È uno scenario completamente nuovo, basato su un nuovo tipo di processori, di algoritmi e su una nuova generazione di macchine», racconta al telefono da San Diego Samir Kumar, direttore del Business Development di Qualcomm. L’azienda californiana, che domina il settore dei microchip per smartphone e tablet, ha messo in piedi il suo più ambizioso progetto di ricerca chiamandolo Zeroth. Una citazione alle tre leggi della robotica di Isaac Asimov implementate dallo stesso Asimov da una quarta, la più importante, la Zero: un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno. Il mancato intervento delle macchine, la loro scarsa abilità di compiere scelte, dovrebbe essere superata dai processore “neuromorfi”. Un dispositivo che imita il funzionamento dei neuroni ed è basato non più su transistor ma su “memristor”. Concepito nell’Università di Berkeley nel 1971, è rimasto pura teoria fino al 2007 quando la Hp realizzò un prototipo. E ora ci stanno lavorando tutti. Essendo l’equivalente della sinapsi del neurone, dovrebbe consentire di programmare software che emulano il pensiero. «Un microchip neuromorfo non ne sostituisce uno normale, semplicemente fa cose differenti», racconta Andrea Pagnani, ricercatore al Politecnico di Torino dove si occupa di modellizzazione di sistemi biologici. «Parliamo soprattutto della classificazione di pattern complessi», prosegue Pagnani. «L’uomo è incredibilmente abile nello svolgere questo compito. Può riconoscere una persona di spalle partendo dal- la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 35 2011 2012 2012 2014 Un gruppo di ricercatori del Mit crea il primo processore in grado di mimare la comunicazione fra sinapsi La Intel afferma di stare lavorando su una sua versione di chip neuromorfo Un anno dopo, anche Ibm dichiara di aver avviato un suo progetto Usando 16mila computer, Google sperimenta un algoritmo neurale per l’autoapprendimento delle macchine. Il super computer da solo comincia a riconoscere le immagini dei gatti Qualcomm, con altri partner, dà il via ufficiale e su vasta scala al suo programma Zeroth per creare processori neuromorfi per smartphone, tablet e computer VIDEO PASSWORD Oggi Oggi I video sul web vengono suddivisi in base al tag o al titolo che portano Alcune tecnologie possono riconoscere certi elementi, come persone o segnali stradali La più usata è un codice alfanumerico. Da qualche tempo si adoperano anche le impronte digitali. Ma non sempre sono sistemi di riconoscimento efficaci Domani Domani Potremo chiedere allo smartphone di rintracciare tutte le scene di film in cui si esegue un passo di danza o di montare un video con le riprese più divertenti di nostro figlio Smartphone, tablet e altri dispositivi saranno in grado di riconoscerci, con assoluta sicurezza, in base a una pluralità di segnali e in qualsiasi condizione TRADUZIONI Oggi I sistemi di riconoscimento vocale hanno fatto passi da gigante: consentono di dettare testi o attivare funzioni. Ma ancora non capiscono il senso del discorso Domani Avremo traduzioni istantanee accurate, non maccheroniche come quelle fornite dagli attuali traduttori: la macchina capirà quel che diciamo e lo trasporrà in qualsiasi lingua l’immagine mentale che ha del suo volto, per esempio. Una cosa che le macchine attuali non sanno fare». Quello che molti stanno tentando quindi, della partita sono ovviamente sia la Ibm sia Google, è di imitare la struttura del cervello in modo che i processori e i software possano apprendere e riconoscere quel che ci circonda come facciamo noi. Non stiamo parlando dei semplici comandi vocali o dei programmi già in uso per l’individuazione dei volti, entrambi si muovono attraverso parole o punti chiave, ma di qualcosa di molto più complesso. «Una immagine contiene una quantità di informazioni straordinaria e una piccola quantità può cambiare il senso della foto o del video», spiega Giovanni Ca- pellini, professore di Fisica e Tecnologia dei semiconduttori all’università romana di Tor Vergata. «Quindi si tratta di allenare un sistema a fare i conti con la diversità». Peccato che per riprodurre su silicio la mente umana, o alcune sue funzioni, attualmente serva una potenza di calcolo fuori scala. A giugno del 2012 Google, usando sedicimila computer e algoritmi neurali per l’autoapprendimento, ha fatto riconoscere alle sue macchine i gatti sfogliando dieci milioni di immagini. In pratica, sfruttando il suo miliardo di connessioni, il super computer ha inventato il concetto di gatto e ha potuto dargli un nome. Ha creato una categoria autonomamente, come avrebbe fatto una persona. «Il senso di Zeroth è di arrivare invece a smartphone, tablet e pc che siano efficienti, relativamente facili da produrre e sappiano ragionare» continua Kumar. «Se riuscissimo a produrre dispositivi del genere i benefici sarebbero vastissimi. Basti pensare al campo della sicurezza. Un computer neuromorfo gestito da un algoritmo adeguato potrebbe facilmente riconoscere attraverso i circuiti di telecamere ogni possibile pericolo. Oppure operare con facilità una traduzione istantanea. O ancora andare alla ricerca sul web di tutte le scene di film dove un attore compie una certa azione. Le possibili applicazioni sono infinite». Ma è una sfida complessa. Una combinazione sofisticata di hardware e di softwa- re, dove la parte più difficile è quest’ultima. Perché sappiamo come funziona una rete neurale, ma ci sfugge ancora molto del perché certi processi mentali avvengono. Non a caso Kumar, al di là dell’importanza strategica di un settore del genere che è sotto gli occhi di tutti e della velocità con la quale la tecnologia ormai si evolve, sui tempi non si vuole sbilanciare. C’è chi ha scritto che la sua compagnia sarebbe pronta a lanciare sul mercato il primo processore neuromorfo quest’anno. Ma lui smentisce, e non azzarda previsioni. Lo fa, dopo richieste insistenti, Andrea Pagnani: «Tra almeno cinque anni, ma potrebbero facilmente diventare dieci». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 36 LA DOMENICA I sapori Sono tra i sette e i dodici milioni gli italiani che hanno rinunciato parzialmente o del tutto al più dolce dei riti Perduti Per convincerli a ripensarci abbiamo preparato loro il breakfast perfetto (versione invernale) Sunday morning LICIA GRANELLO on abbiamo tempo. Non abbiamo voglia. Ci piacerebbe, se la trovassimo pronta. La facciamo volentieri, ma quando siamo in vacanza. Perché la quotidianità lavorativa ci regala risvegli facilmente faticosi: stomaco chiuso, un ricordo di mal di testa, l’ansia già in agguato, il mondo in salita. Altro che famigliola della pubblicità, tutta sorrisi, tavole apparecchiate e tazze fumanti. Non esiste pasto più bistrattato della colazione. Ignorato, malinteso, spesso cancellato del tutto, sepolto sotto tonnellate di giustificazioni del tipo: un caffè e un bicchiere d’acqua, non riesco a ingoiare niente altro. Oppure: ho mangiato troppo ieri sera, devo dimagrire, se mi viene fame mangio una brioche a metà mattina. O ancora, io no, ma guai se i bambini vanno a scuola a stomaco vuoto, loro devono crescere. Solo il Generale Inverno riesce in qualche modo a scalfire tanta indifferenza, tra l’eredità delle vacanze di fine anno (complici le ultime riserve di dolci da esaurire) e le temperature rigide. Se il freddo fa bruciare più calorie, pensiamo, possiamo permetterci un biscotto in più. E con qualcosa di caldo nello stomaco si affronta meglio la giornata. In realtà, non sono tanto le quantità di cibo, ma la qualità e il timing a fare la differenza. N Almeno oggi prima la colazione Infatti, non esiste momento migliore della colazione per nutrire il corpo, farlo stare bene, perfino indurlo ad azzerare i rotolini di grasso accumulati a Natale. Una consapevolezza nuova che vale quanto una vera rivoluzione cultural-alimentare, capace di trasformare in piacere di stomaco e palato l’obbligo della colazione, vissuto come tale da oltre un terzo degli italiani, cancellando a colpi di datteri e spremute i sette milioni di breakfast skippers— tanti sono i saltatori della colazione — a cui aggiungerne altri cinque milioni che “la fanno qualche volta”. Gli ultimi studi sull’associazione strettissima tra nutrizione, benessere e prevenzione convergono su una sola parola d’ordine: stress glucidico. Cioè cominciare la giornata con un apporto ricco e complesso di carboidrati “buoni” per tenere sotto controllo il bioritmo del cortisolo, l’ormone surrenalico dello stress, che intossica gli organi e abbassa le difese immunitarie. Il nutrizionista milanese Vanni Zacchi traduce il concetto in termini gastronomici: «Per stare bene, bisogna fare colazione sempre, sempre abbondante, sempre con frutta fresca e secca, pane integrale, miele, yogurt, semi oleosi, muesli. Pensare di dimagrire saltando la colazione è sbagliatissimo. Al mattino bisogna alzare la glicemia e fornire minerali alcalinizzanti per mantenere il giusto equilibrio acido-basico del corpo. Questa è la regola. Ma qualche strappo è il benvenuto perché i cibi appaganti e confortanti aiutano a sopportare gli stress che ci aspettano nella giornata. Ben venga una cioccolata con panna ogni tanto!». Così sdoganate le calorie buone e i gusti golosi, ci si può avventurare anche nel territorio dei salati, montando una crema di ricotta (meglio di capra) con yogurt, un filo d’olio di semi di lino, semi di zucca e qualche fiocco di sale da spalmare sul pane. Se poi vi è scappata una fetta di pane, burro e marmellata in più, pazienza: qualche rampa di scale al posto dell’ascensore vi rimetterà in pari con la coscienza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Torta casalinga Miele Frutta fresca Cioccolato Fette integrali Dà la possibilità di scegliere gli ingredienti: farine integrali, olio o yogurt al posto di burro e margarina, fruttosio al posto dello zucchero Il rapporto tra gli zuccheri che lo compongono determina maggiore fluidità (più fruttosio) o tendenza alla cristallizzazione (più glucosio) Tre porzioni, anche di varietà differenti, purché di stagione e biologiche, per introdurre vitamine e minerali con effetto alcalinizzante Polifenoli, magnesio e teobromina, a basso dosaggio di zucchero nel fondente. Spesso abbinato a due gherigli di noci (Omega 6) Pane o biscottate a scelta, di farro, avena, kamut... Meglio verificare la percentuale di farina integrale, troppo spesso inferiore al 20 per cento la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 37 Gli indirizzi TORINO PASTICCERIA GERTOSIO Via Lagrange 34 Tel. 011-5621942 MILANO BIANCOLATTE Via Turati 30 Tel. 02-62086177 LONIGO (VI) PASTICCERIA IL CHIOSCO Viale della Vittoria 4 Tel. 0444-830021 BOLOGNA LA CARAMELLA Via Cadriano 27/2 Tel. 051-505074 CAMPI BISENZIO (FI) TUTTOBENE Via di San Quirico 296/302 Tel. 055-8969529 ROMA SETTEMBRINI CAFFÈ Via Settembrini 19 Tel. 06-97610325 PESCARA PASTICCERIA CAPRICE P.zza Giuseppe Garibaldi 29 Tel. 085-691633 NAPOLI FOLLIE DI CAFFÈ Corso Vittorio Emanuele 484 Tel. 081-5642961 BARI IL BARETTO Via Roberto da Bari 122 Tel. 338-4443885 NOTO (SR) CAFFÈ SICILIA Corso V. Emanuele III 125 Tel. 0931-835013 LA RICETTA Ciambella al punch di yogurt Ingredienti Simone Finazzi è il pasticcere del Relais Chateau (tre stelle Michelin) “Da Vittorio” (Bergamo), che vanta una spettacolare colazione con menù degustazione Magnifici i dolci, come quello ideato per i lettori di Repubblica 110 g. burro 110 g. di zucchero 1 baccello di vaniglia 1 pizzico di sale, 2 uova 50 g. di yogurt intero 10 g. di succo di limone 80 g. di farina da dolci fritti 40 g. di fecola 4 g. di lievito secco Per il punch 45 g. di zucchero 40 g. di acqua 10 g. di succo di limone 40 g. di yogurt intero ✃ FOTO PHOTOTECNICA Mescolare e portare a bollore acqua e zucchero, unendo a freddo yogurt e limone. Conservare Miscelare burro, zucchero, sale e i semini del baccello. Aggiungere le uova, poi yogurt e limone. Setacciare insieme farina, fecola e lievito, quindi aggiungerli delicatamente all’impasto. Stendere il composto in uno stampo a ciambella (20 cm di diametro, 8 cm di foro) imburrato e infarinato. Cuocere in forno a 150°C per circa 25 minuti. All’uscita dal forno, capovolgere e fare riposare per 5 minuti. Levare con dolcezza lo stampo e imbibire con il punch. Fare freddare e spolverare con zucchero a velo Servire a temperatura ambiente Sulla strada Un numero civico due modi di essere caffè GIAN LUCA FAVETTO l caffè è un’appendice personale. Non il caffè che bevi, ma il locale dove vai a berlo la mattina. Il luogo della colazione fuori casa è la prosecuzione dell’idea di casa con bancone e pareti diverse attorno: è un’intimità che continua ancora un po’ prima che il giorno cominci. Quando uno lo sceglie, difficile che lo cambi. Lo abita per anni, il tempo fondamentale di una tazzina e un croissant. Ma così come a volte ci sono due case, a volte ci sono due caffè. E dipende dall’umore, dall’estro di giornata, se infili la porticina a destra o quella a sinistra: a destra o a sinistra del portone di corso Fiume 2, Torino. Si trovano entrambi lì, i caffè, aperti dalle 6.15, separati soltanto da un portone, uniti dallo stesso numero civico. A pochi metri dal Po e dal ponte di corso Vittorio Emanuele. A destra, c’è la Caffetteria Crimea; a sinistra, il Caffè Maggiora. A sinistra c’è Sergio, da trent’anni, e c’è la tradizione di una vecchia pasticceria, l’ambiente raccolto, tre tavolini di marmo, arredamento in legno, vetrinette antiche, luce calda, i pasticcini, le paste e un buonissimo caffè. A destra, da sette anni, ci sono Vincenzo e Fabio, che a ottobre hanno ristrutturato il locale, ambiente hi-tech, sedie e tavolini bianchi, acciaio e vetri, un grande schermo, due iPad a disposizione, un caos allegro, bella luminosità, le paste, i tramezzini e un buonissimo caffè. Da Maggiora non puoi non assaggiare le vipere, croissant al burro, di forma allungata, vuoti e ricoperti di zucchero. Alla Crimea, non puoi non provare i biciulan, brioche tipica del vercellese, una sfoglia a forma di U compatta con la marmellata dentro. E se riesci a farti prima una e poi l’altra, e a prenderti il tempo per due chiacchiere, beh, è la felicità. La giornata comincia con la coccola giusta. I © RIPRODUZIONE RISERVATA Semi oleosi Marmellata Fichi secchi Spremuta Yogurt Lino, in primis, per l'acido alfalinolenico. Decorticati ma non frullati, perché il calore ossida. L’olio è concentrato ma delicatissimo Le migliori evitano i conservanti e utilizzano frutta biologica matura per ridurre lo zucchero (integrale di canna o fruttosio) da aggiungere in preparazione Semplici o farciti con frutta secca (quelli cilentani) ma anche datteri e frutta disidratata per dare energia, grazie a fruttosio e minerali Con due arance si soddisfa il bisogno quotidiano di vitamina C (100 mg) Meglio berla appena fatta Un limone ne tampona l’acidità Bianco, di mucca, capra, pecora, non zuccherato, intero o magro, associato a muesli (riso, orzo, avena), semi oleosi o pezzetti di frutta fresca la Repubblica DOMENICA 26 GENNAIO 2014 ■ 38 LA DOMENICA L’incontro Massicci Figlio di biochimici giramondo ha sangue siciliano, tedesco e indio nelle vene. Nato in Argentina, a vent’anni decise di essere italiano Orco buono e uomo di spettacolo (sia in campo che in tutù) è il leader della Nazionale che da sabato sfiderà i grandi al Sei Nazioni: “Sono uno felice, semplice, solare Soprattutto sono l’unico rugbista al mondo che non beve birra” Martín Castrogiovanni ndossa una maglietta celeste che gli va stretta ma deve essere almeno una XXL, e sopra c’è scritto a grandi lettere: Be free. Sii libero. Sotto l’occhio sinistro uno sbrego ricucito di fresco con del filo nero: dieci punti di sutura, l’ultima mischia dell’altro sabato. Tre cani al guinzaglio — un bassotto a pelo lungo, un bulldog, un pastore belga — ognuno che tira per conto suo: lui prova a domarli con un urlaccio però gli scappa da ridere, perché con quei capelli lunghi e il barbone pare Mangiafuoco, ma si vede benissimo che l’orco è buono. «Sono uno felice», dice di sé. «Semplice. Solare». Martín Castrogiovanni, pilone dell’Italrugby. Mani enormi, sguardo dolce. Centoventi chili di muscoli e sorrisi. Un presente da fuoriclasse sul campo: cento presenze con la maglia azzurra, sette anni a Leicester con i maestri inglesi, oggi in un club stellare della Costa Azzurra. Un campione anche in tivù, tra pubblicità e beneficenza: “Castro” che carica come un bufalo per le strade della città, la palla ovale al petto, che scaraventa lontano pneumatici come fossero coriandoli. E Castro vestito da cuoco che spezza cucchiai di legno, che indossa un tutù e tutto concentrato prova assurde piroette. Conduttore di programmi sull’ambiente, ospite del festival di Sanremo. Grosso, burbero, ironico. Allegro, amato. Un futuro da Bud Spencer. «Magari. Me lo dicono tutti, ci penso. Mi piacerebbe fare del to, avrei voluto vivere lì per sempre. Ma con l’ultimo allenatore proprio non andava. Peccato». L’estate scorsa si è trasferito a Tolone, in una multinazionale di campioni con un presidente che sembra uscito da un romanzo di Émile Zola: il cinquantenne Mourad Boudjellal, figlio di un camionista algerino e di una donna delle pulizie armena, da bambino sulle bancarelle dell’angiporto vendeva i fumetti disegnati dal fratello poliomelitico. Ha fatto fortuna con una casa editrice e ha mollato tutto per investire solo nella squadra di rugby della città: geniale e un po’ sbruffone, sempre a caccia di guai e di rivincite come la gente del Midi, non bada a spese per avere i giocatori più forti del pianeta. Wilkinson, Giteau, Fernandez Lobbe, Habana, Williams. Inglesi, australiani, argentini, sudafricani, neozelandesi. Più i migliori atleti francesi. E Castro l’italiano, naturalmente. «Che tipo, monsieur Boudjellal. All’inizio avevo un po’ di soggezione, Mia mamma non voleva giocassi Per convincerla mi feci buttare fuori dal torneo di basket prendendo l’arbitro per la collottola FOTO CORBIS I TOLONE cinema. Però mi sa che con questa cicatrice in faccia ho chiuso prima ancora di cominciare», sbuffa bugiardo. Enrico Vanzina ha appena detto che sarebbe l’interprete perfetto per la parte del Gigante sfregiato, libro di successo e presto film. Da sabato prossimo sarà di nuovo ad azzuffarsi con francesi e britanni nel Sei Nazioni, il torneo più antico del mondo. L’anno prossimo, i Mondiali in Inghilterra: per Martín la quarta edizione da protagonista. Ma, prima, il matrimonio con Giulia Candiago, campionessa di sci ora commentatrice alle Olimpiadi di Sochi. «Ci sposiamo a giugno 2015. Giuro. Viaggio di nozze in motorhome per l’America, senza una meta precisa. Niente scarpe strette, giacca e cravatta, fotografie con gli invitati, ore e ore seduti a tavola. No, grazie: non fa per me. Sarà una festa in spiaggia, con le infradito ai piedi. Una cosa semplice tra amici veri, compagni e avversari di battaglie sui prati di tutto il mondo: in quel periodo non ci sono partite internazionali, verranno in tanti. E dopo il Mondiale, basta Nazionale. Voglio riposarmi». Una vita ovale. Nonostante la mamma. «Non voleva giocassi. Troppo pericoloso. Così ho provato con il nuoto, poi la pallacanestro. Un giorno mi è venuta un’idea: ho strattonato un arbitro, l’ho preso per la collottola. Mi hanno squalificato, addio basket. Mamma si è arresa, e mi ha dato il permesso». Aveva diciotto anni, ora ne ha appena compiuti trentadue. «Vivevamo a Paranà, Argentina. Un fratello e una sorella più piccoli, i miei genitori sono biochimici: ci piaceva fare lunghi viaggi in macchina, tutti insieme. Siamo sempre stati così: liberi. E quindi felici. Vengo da uno strano miscuglio di razze: la nonna è di Enna, poi c’è sangue tedesco, indio. A vent’anni ho dovuto scegliere: argentino o italiano? Fai quello che ti dice il cuore, noi ti saremo sempre accanto: così hanno detto i miei. I miei eroi. E allora sono partito per questa avventura, che chissà quando finisce. Non li ringrazierò mai abbastanza». Il primo contratto a Calvisano, provincia di Brescia. Cinque anni di mischie e placcaggi. Il ragazzo ha forza e talento. Dalle parti di Londra s’accorgono di lui. Roba da non crederci: un italiano invitato da quelli che questo sport l’hanno inventato. «L’esperienza a Leicester è stata straordinaria. Sono diventato un giocatore, un uomo. Il club mi ha dato tut- mi sembrava come di far parte di una collezione di oggetti d’arte. Ma la cosa più bella è che più i campioni sono famosi, più sono umili. Semplici. Puoi solo imparare. Da Jonny Wilkinson, il più grande di tutti: che ancora oggi, ogni giorno, dopo l’allenamento si ferma due-tre ore da solo a fare esercizio. O Matt Giteau, che fa meno sacrifici ma ha una classe immensa». Gli piace proprio, Giteau: «Mi alleno duro. Ma come a lui, mi piace godermi la vita. Che è una sola». Cita Arancia meccanica: «Perché i cervelluti si affidano all’improvvisazione». E poi, il sole della Costa Azzurra. «Vuoi mettere con il freddo e la nebbia inglese? Lassù si chiudono in casa, cenano alle sei e alle nove sono già a letto. Musoni. Qui c’è passione, orgoglio e voglia di stare insieme: arrivi allo stadio prima delle partite e ti aspettano per stringerti la mano, farti coraggio. Qui si vive bene, si pensa bene, si gioca bene». Confessa di non leggere molto, di preferire la playstation. Però quell’articolo di Giuseppe D’Avanzo, il manifesto del rugby e della nazione italiana alla vigilia dei Mondiali del 2007, se lo ricorda bene. «Bellissimo. Mi hanno detto che D’Avanzo da ragazzo era un buon giocatore. Un pilone, come me». “Rugby. Uno sport che istruisce, accultura. La disciplina abbinata al senso di responsabilità, il servizio alla collettività. Dove si conquista il terreno insieme, spanna dopo spanna. In scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La necessità di una ragione comune in una nazione divisa”. «Il problema di noi italiani è che pensiamo sempre al quotidiano. Mai al domani. In Inghilterra ho imparato tanto: loro programmano, valutano come saranno le cose tra dieci anni. Allora si organizzano, dettano delle regole precise e le seguono. Chi sbaglia, si assume le sue responsabilità. E paga. Se perdono non fanno drammi, non si accusano l’uno con l’altro. Pensano a risolvere il problema. Invece noi se vinciamo siamo eroi, se perdiamo dei falliti». Nella vita e nello sport. «E poi, la cultura sportiva. Nei paesi anglosassoni è la scuola che ti segue, che ti insegna il valore della disciplina e il piacere di stare in campo. Giochi a rugby, a calcio, a pallacanestro: divertimento e educazione alla vita. In Argentina ci sono i club: i genitori pagano una quota e gli affidano i figli per tutta la giornata, sapendo che gli faranno provare almeno tre o quattro discipline. In Italia? Ti devi arrangiare». Mancano le strutture. «Se ti fanno costruire un supermercato, ti obbligano a regalare alla comunità un bel terreno da gioco: succede in Francia. Bello, vero?». Ma il rugby può davvero cambiare l’Italia come sognava D’Avanzo? «Non lo so. Speriamo. Vedo che nonostante le nostre sconfitte, la gente allo stadio è sempre più numerosa. Apprezzano la voglia di lottare, il sacrificio comune, il rifiuto degli alibi. Buon segno». Adesso le mamme non hanno più paura di portare i bambini a infangarsi per una palla ovale. Anzi. «L’importante è che non ci facciamo contaminare da abitudini, come dire?, calcistiche. Anche i migliori giovani devono ricordarsi che non si è mai arrivati: servono impegno, umiltà, voglia di migliorarsi. Altrimenti alla prima difficoltà, al primo dolore, finisce tutto. E poi, il vero rugby mica lo giocano i campioni». No? «No. Il vero rugby è quello delle piccole squadre, degli amici di una vita, delle battaglie e dei terzi tempi, quelli veri. Mica come noi professionisti, ché ormai dopo la doccia siamo già sull’aereo». Qualche anno fa s’era preso a pugni con l’orco francese, Sebastien Chabal, per via di un complimento di troppo alla sua Giulia. «Ma no, non è mai successo niente. Per fortuna. Hai presente quanto è grosso Chabal? Ma soprattutto: quanto è brutto?». Sì, per chiudere ci vorrebbe una birra. Come da tradizione. «Però io la birra non posso berla. Sono celiaco. Buffo, vero? Un rugbista che non beve la birra». Sorride. Si vede che è un gigante di quelli buoni. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ MASSIMO CALANDRI
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