Dicacitas di Vespasiano

PROFILO
LETTERARIO
L’ETÀ DI TRAIANO E DI ADRIANO
Dicacitas di Vespasiano
(Divus Vespasianus, 22; 23, 1-4)
I motti di spirito, le battute, i giochi di parole sono riferiti volentieri da Svetonio, non solo per divertire il lettore, ma perché egli assegna anche a queste minuzie la funzione di ritrarre la personalità dell’imperatore. Nella vita di Vespasiano c’è una rubrica appositamente dedicata alla dicacitas
(definita peraltro dal biografo come sovente scurrilis et sordida), a illustrazione del carattere allegro e della presenza di spirito del principe, nonché della sua capacità di utilizzare questa dote per
rendere accetto alla gente «il solo difetto che gli si può a buon diritto imputare, l’avidità di denaro» (paragrafo 16, 1).
(22, 1) Et super cenam autem et semper alias comissimus multa ioco transigebat; erat enim dicacitatis plurimae, etsi scurrilis et sordidae, ut ne praetextatis quidem verbis abstineret. Et tamen nonnulla eius facetissima exstant, in
quibus et haec. Mestrium Florum consularem, admonitus ab eo “plaustra”
potius quam “plostra” dicenda, postero die “Flaurum” salutavit1. (2) Expugnatus autem a quadam, quasi amore suo deperiret, cum perductae pro concubitu sestertia quadringenta donasset, admonente dispensatore, quem ad
modum summam rationibus vellet inferri: «Vespasiano», inquit, «adamato».
(23, 1) […] Maxime tamen dicacitatem adfectabat in deformibus lucris, ut
invidiam aliqua cavillatione dilueret transferretque ad sales. (2) Quendam e
caris ministris dispensationem cuidam quasi fratri petentem cum distulisset,
(22, 1) Affabilissimo sia durante la cena sia sempre nelle altre circostanze, molte cose liquidava con uno scherzo; aveva in effetti uno spirito quanto mai mordace, anche se di un
genere buffonesco e volgare, tanto che non si preoccupava di evitare neppure le parole
oscene. Tuttavia si ricordano ancora di lui alcune battute molto fini e spiritose, come ad
esempio le seguenti. Un ex console di nome Mestrio Floro lo aveva corretto rammentandogli che si dice plaustra e non plostra [= carri]; ed egli il giorno dopo lo salutò chiamandolo Flauro1. (2) Conquistato da una donna, che si mostrava perdutamente innamorata di
lui, se la portò a letto e le donò in cambio quattrocentomila sesterzi; all’amministratore
che gli chiedeva sotto quale voce voleva che quella somma comparisse nei suoi conti, rispose: «Per Vespasiano follemente amato». (23, 1) […] Esercitava però la sua mordacità
soprattutto a proposito dei suoi profitti indecorosi, per diminuire con qualche spiritosaggine l’odiosità che gliene derivava e volgere la cosa in ridere. (2) Uno dei suoi dipendenti
favoriti gli chiese un posto di contabile per un tale che spacciava per suo fratello. Vespasia1. La chiusura in o¯ del dittongo au caratterizzava una pronuncia del latino dialettale o volgare. La spiritosaggine di Vespasiano, che inserisce a sproposito il dittongo nel nome del suo pedante correttore, non è così scipita come può apparire: in greco phlaúros significa “dappoco, sciocco”, un epiteto appropriato per chi aveva
dato dello zotico all’imperatore.
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SVETONIO
PROFILO
LETTERARIO
ipsum candidatum ad se vocavit; exactaque pecunia, quantam is cum suffragatore2 suo pepigerat, sine mora ordinavit; interpellanti mox ministro: «Alium
tibi» ait «quaere fratrem; hic, quem tuum putas, meus est». […] (3) Reprehendenti filio Tito quod etiam urinae vectigal commentus esset3, pecuniam
ex prima pensione admovit ad nares, sciscitans num odore offenderetur; et
illo negante, «Atqui», inquit, «e lotio est». Nuntiantis legatos decretam ei publice non mediocris summae statuam colosseam, iussit vel continuo ponere,
cavam manum ostentans et «paratam basin» dicens. (4) Ac ne in metu quidem ac periculo mortis extremo abstinuit iocis. Nam cum inter cetera prodigia
Mausoleum4 derepente patuisset et stella crinita in caelo apparuisset, alterum
ad Iuniam Calvinam e gente Augusti pertinere dicebat, alterum ad Parthorum
regem qui capillatus esset5; prima quoque morbi accessione «Vae», inquit,
«puto, deus fio»6.
no gli disse di tornare in seguito per la risposta, e fece chiamare l’aspirante contabile; fattasi consegnare la somma che costui aveva pattuito con il suo sostenitore2, senza indugio
gli assegnò quel posto; al dipendente che più tardi sollecitava la risposta disse: «Cercati un
altro fratello; questo, che credi tuo, è diventato mio». […] (3) Al figlio Tito, che lo criticava perché aveva escogitato il modo di tassare persino l’urina3, mise sotto il naso il denaro
ricavato dalla prima esazione di quel balzello, chiedendogli se gli sembrava che puzzasse;
al suo diniego «Eppure», disse, «proviene dal piscio». A degli ambasciatori che gli annunciavano che era stata decretata l’erezione a spese pubbliche, per un importo notevole, di
una sua statua colossale, ordinò di fargliela subito, mostrando il cavo della mano e dicendo: «Il piedestallo è già pronto». (4) Non si astenne dallo scherzare neppure nel timore e
nell’estremo pericolo di morte. Infatti fra gli altri prodigi, essendosi aperto improvvisamente il Mausoleo4 ed essendo apparsa in cielo una cometa, diceva che il primo presagio
riguardava Giunia Calvina, della famiglia di Augusto, il secondo, il re dei Parti, che aveva
una lunga chioma5; persino al primo attacco della malattia, «Povero me!», disse, «mi sa
che sto diventando un dio»6.
2. I termini candidatus e suffragator indicano rispettivamente l’aspirante a una carica pubblica e colui che lo
sostiene con il suo voto (suffragium). Il loro uso in riferimento agli umili personaggi dell’aneddoto è ironico
e scherzoso.
3. Questa tassa era imposta ai fullones (lavandai e tintori), che dell’urina si servivano per sgrassare i panni.
4. Tomba monumentale fatta erigere da Augusto; in essa venivano sepolti gli imperatori e i membri della famiglia imperiale.
5. Il riferimento scherzoso è alla chioma della cometa, la cui comparsa era considerata presagio della morte
di un re.
6. Dopo la morte gli imperatori, salvo quelli che subivano la damnatio memoriae, venivano divinizzati.
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PROFILO
LETTERARIO
L’ETÀ DI TRAIANO E DI ADRIANO
ANALISI DEL TESTO
(Divus Vespasianus, 22; 23, 1-4)
Uno stile semplice,
vicino al linguaggio quotidiano
Svetonio adotta lo stile proprio del genere biografico
(meno elevato rispetto a quello della storiografia),
semplice, chiaro, lineare, ricco di particolari concreti,
spesso molto vicino ai modi del linguaggio quotidiano.
Il biografo non si propone infatti, a differenza dello storico, di “ornare” lo stile per mezzo di artifici retorici, ma
intende suscitare l’interesse del lettore con i fatti stessi che registra, informandolo con cura e precisione,
elencando vizi e virtù degli imperatori, inserendo episodi ed aneddoti spesso vivaci, gustosi e coloriti.
La concisione sintattica
Per quanto riguarda la sintassi, Svetonio ha in comune con Tacito, lo storico a lui contemporaneo, la brevitas, cioè la concisione, ottenuta anche e soprattutto
con l’uso abbondante dei participi e degli ablativi assoluti, ma la semplicità del suo stile gli evita il rischio
dell’oscurità (indotta, in Tacito, dall’eccessiva concentrazione), facendolo incorrere piuttosto nei difetti della secchezza e della monotonia.
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Un lessico senza preoccupazioni puristiche
Per ciò che concerne il lessico, il biografo non ha alcuna preoccupazione puristica; chiama le cose con il loro nome senza evitare (come invece fa Tacito) né i grecismi né i termini tecnici né le espressioni colloquiali.
Queste caratteristiche sono particolarmente evidenti nella enumerazione dei motti arguti di Vespasiano,
basati tutti su espressioni della lingua parlata. Nella
parte omessa (23, 1) sono riferite facezie pronunciate
dall’imperatore in greco e consistenti nella citazione
parodistica di passi di Omero e di Menandro, a conferma del perfetto bilinguismo che caratterizzava la conversazione dei Romani colti.
Un ritratto positivo, arricchito da aneddoti
Il ritratto di Vespasiano, tratteggiato dal biografo in modo molto positivo, è arricchito da questi aneddoti, in cui
l’imperatore assume un atteggiamento informale, simpaticamente disinvolto e improntato a un’autoironia che
raggiunge il culmine nella battuta finale: in essa Vespasiano, in punto di morte, ha il coraggio e la presenza di
spirito di evocare l’apoteosi che lo attende, per deriderla.