Incontro con il personale della scuola

APPUNTI DALL’INCONTRO DI JULIÁN CARRÓN CON
APPUNTI DALLʼINCONTRO DI
JULIÁN CARRÓN
CON IL PERSONALE DELLA
FONDAZIONE SACRO CUORE
IL PERSONALE
APPUNTI DALL’INCONTRO DI JULIÁN CARRÓN
CON IL PERSONALE DELLA FONDAZIONE SACRO CUORE
Milano, 20 febbraio 2014
Marco Bersanelli. Buongiorno a tutti. Abbiamo un’occasione davvero straordinaria di continuare un dialogo che è già cominciato in altre occasioni,
ma che oggi ha un punto di verifica, di rilancio, di paragone veramente eccezionale. Lo scopo, come sempre, è quello di aiutarci a capire sempre di
più qual è il nostro compito in questa opera di educazione che ha una sua
originalità che non vogliamo mai dare per scontata. Ciascuno, secondo il
lavoro che svolge in questa scuola, è chiamato a contribuire all’educazione
dei ragazzi che vengono qui. Questa è una prospettiva che desideriamo
mettere al centro sia nel Consiglio di amministrazione, sia nel Consiglio
di Presidenza, sia in tutti i nostri momenti di lavoro comune: non dare per
scontato l’orizzonte, l’origine. Abbiamo provato a scrivere in una pagina
qual è in sintesi il tipo di educazione che qui vogliamo realizzare, per paragonarci, senza pretendere di essere già arrivati; anzi, siamo in cammino,
e siamo guidati in questo cammino. Oggi abbiamo l’occasione di paragonarci con don Julián Carrón, che ringrazio tantissimo di essere con noi.
Quello che Julián dimostra a me, e credo a tutti noi, attraverso l’esperienza
che vive e per come ce la comunica, è una passione educativa che non è
un discorso o una teoria, ma è proprio un livello dell’esperienza. In particolare, recentemente, tu sei intervenuto più di una volta centrando un tema
che a me sembra cruciale per noi, per noi uomini della nostra epoca, ma
più precisamente per noi che siamo impegnati in un’opera educativa. E ancora di più perché si tratta di questa opera educativa, il Sacro Cuore, che
nasce da una tradizione così ricca e potente come quella generata dal carisma di don Giussani, una tradizione ineguagliabile per certi versi. Ma come
ha sottolineato Julián, bisogna capire bene che cosa fonda un rapporto sano
tra la tradizione e l’educazione, cioè il fare diventare grandi dei ragazzi.
Proporrei questo spunto a Julián, poi ci sarà spazio per un dialogo al quale
tutti siamo chiamati a contribuire.
Julián Carrón. Grazie. È un piacere condividere con voi questo momento,
anche per gli spunti che, sono sicuro, io porterò a casa da questo dialogo
con voi, per continuare una riflessione che per me è costante davanti alle
sfide educative che viviamo nella nostra storia. Voglio partire facendo
un’osservazione di metodo, perché il mio è un particolare punto di osservazione; non voglio dilatarlo a tutte le materie o aspetti dell’insegnamento
con cui ciascuno di voi ha a che fare, per questo dovete prenderlo come
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spunto per un dialogo, non è che io abbia la pretesa di allargare le mie osservazioni a tutto genericamente, ma ciascuno ha il suo punto di osservazione e io non ho altro che questo per guardare tutto. Per me è stato
decisivo un fatto recente, capitato agli Esercizi spirituali degli universitari,
che mi ha colpito e mi ha fatto riflettere, a proposito di ciò che diceva
adesso il nostro presidente. Rileggendo, poi, don Giussani, ne Il rischio
educativo dice: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo
nuovo» (p. 103), cioè di generare un uomo. Se scopo dell’educazione è
questo, come tutti potremo condividerlo? Non c’è un altro scopo se non
che la persona che ci troviamo davanti (i bambini tra le braccia del papà e
della mamma, i ragazzi che arrivano a scuola o anche quelli che incrociamo
nella vita) possa diventare se stessa in tutta la portata della sua umanità, in
tutta la sua grandezza. Ogni tentativo educativo va giudicato a partire da
questo criterio: la capacità o meno di generare l’umano, di aiutare ciascuno
a diventare se stesso.
Durante gli Esercizi del CLU, dopo una lezione in cui avevo provato a
identificare perché tante volte le esperienze che facciamo non generano
sempre di più il nostro io, mi sono trovato davanti a una serie di domande
dei ragazzi che mi hanno colpito profondamente perché molti di loro appartengono alla nostra tradizione, hanno partecipato a GS o hanno frequentato scuole gestite da persone del movimento; non nego che, almeno
tentativamente, si sia provato a comunicare questa tradizione, in un certo
modo. Io sono sicuro che se avessi domandato agli universitari quali sono
gli elementi di questa tradizione, avrebbero potuto rispondere correttamente, non è che non sappiano certi contenuti che gli sono stati comunicati.
Ma poiché il contesto era diverso (gli Esercizi spirituali), è come se, quasi
inconsapevolmente, non avendo il problema di azzeccare la risposta giusta,
sono venute fuori delle domande che mi hanno fatto riflettere. Per esempio,
fanno fatica a capire la differenza tra cuore e sentimento; oppure tante volte
confondono la propria esperienza umana con un aspetto di essa: «Ho un
carattere ribelle di fronte alla realtà. È questo il modo in cui mi accorgo
del mio cuore. Il mio cuore è anche la mia arrabbiatura». «Tante volte la
mia umanità, invece di essere una risorsa, è un’occasione per una crudeltà
con me stesso. Come tutto questo può essere una risorsa per il mio cammino umano? Quando mi alzo con un sentimento tutto avverso, cosa vuol
dire che questa umanità può essere occasione per riscoprire me stesso?».
«Prendere sul serio la mia umanità non è una fregatura? A me sembra che
a volte prendere sul serio la mia umanità sia una fregatura», e così via. Se
il cuore è così confuso, come possono usarlo questo come criterio di giudizio? Se nel contesto della nostra tradizione diciamo loro che il cuore è il
criterio di giudizio e se invece per loro il cuore è così confuso, se la loro
umanità è come la descrivono quelle domande, questo fa emergere una difficoltà generale a stare di fronte a se stessi e a usare il cuore come criterio
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del vivere. Addirittura arrivano a domandare: «Ma il cuore è davvero infallibile come criterio? Se tutti abbiamo lo stesso cuore, quindi lo stesso
criterio per giudicare, perché di fronte a uno stesso fatto capita che i giudizi, invece che unire, dividono?». La differenza tra il cuore come criterio
di giudizio infallibile e l’applicazione di esso non si capisce, anzi, si teorizza l’impossibilità di giudicare. Diceva un universitario: «Ma io non sono
in grado di fare esperienza, io non ne sono capace. La mia umanità, invece
di essere una risorsa o un criterio di giudizio per il mio cammino umano,
diventa un grande ostacolo spesso. Cosa vuol dire giudicare?». Ma se io
non arrivo a giudicare, è la fine della parabola del mio cammino! «Hai
detto che tutti possiamo giudicare. Mi accorgo che è vero, ma vedo che
tante volte io ho come bisogno di una conferma esterna all’esperienza che
faccio». Cercano una risposta al di fuori dell’esperienza che vivono, perché
nella loro esperienza personale non hanno tutti i dati per rispondere.
Se noi guardiamo tutti questi indizi, che cosa ci dicono? Che cosa rimane
se quando cambia il contesto i ragazzi si trovano a percepire se stessi così?
Che sfida ci pongono? Mi è sorta una domanda: che tipo di soggetto, di
persona, nasce dalla modalità educativa – qualsiasi essa sia – che stiamo
portando avanti? Poi, all’inizio dell’anno, mi è capitato di andare a Londra,
dove ho fatto un incontro con persone del nord Europa, Irlanda, Inghilterra,
Paesi Bassi eccetera, e là ho visto che praticamente in due anni si è duplicata la presenza di gente proveniente dall’Italia e dalla Spagna (Paesi dove
la presenza del movimento ha una certa rilevanza). Allora mi sono domandato: che tipo di soggetti stiamo educando per vivere in questi contesti?
Le persone, infatti, arrivano nei luoghi più sperduti, dove non ritrovano alcuno dei tratti del contesto in cui hanno vissuto. Domandiamoci se noi
stiamo educando, generando persone che possano vivere in un contesto
sempre più globalizzato, perché dovremo spostarci sempre di più, i nostri
ragazzi dovranno andare ovunque perché la situazione è quella che è, e
non occorre insistere perché è evidente. Da questa prospettiva, mi veniva
una domanda. Lo dico soltanto come esemplificazione, per spiegarmi, non
perché io voglia che la scuola abbia come unico scopo questo: quando don
Giussani ha incominciato il movimento, perché lo ha fatto? Perché percepiva indizi di questo tipo e tanti altri in un contesto in cui, negli anni ’50
del secolo scorso, apparentemente si trasmetteva la tradizione, non c’era
alcun problema di eterodossia negli anni ’50, ma lui vedeva certi segni che
dimostravano che questa trasmissione non incideva a sufficienza, lo abbiamo sentito dire da alcuni dei nostri amici di recente: «Io leggo tutto questo [la Scuola di comunità] e lo ritengo vero, ma non è un’esperienza e
quindi non è incidente sul vivere». Allora come rendere costantemente viva
la tradizione che abbiamo ricevuto, in modo tale che i ragazzi non soltanto
possano ripetere certe formule, ma che esse diventino loro? Non è una questione soltanto di adesso, don Giussani aveva già riflettuto su questo, so3
prattutto dopo il ’68. Vi leggo alcuni brani dalla Vita di don Giussani: «A
me sembra un segno dei tempi che non è più il discorso sulla tradizione,
non è più la storia che fonda o che può fondare un richiamo o una adesione
[…] [in questo caso lo diceva riferendosi al fatto cristiano, poi farò qualche
rilievo anche su questo] occorrerà che rivediamo alla radice tutto il discorso
che abbiamo sempre fatto […] [perché] non può essere motivo per aderire
al cristianesimo né la tradizione, né una teoria, né la concezione, né una
teoresi; non la filosofia» (p. 404). Non basta. E questo lo vediamo adesso
davanti all’emergenza educativa, perché quando parlo della tradizione del
cristianesimo non sto pensando soltanto alla trasmissione della fede − questa riguarderà prima di tutto ogni persona davanti a quello che incontra qui
o altrove, sarà un problema a cui dovrà rispondere il singolo davanti all’incontro che fa −. Ma la questione fondamentale, secondo me, è che don
Giussani allora indicava già quello che adesso è palese a tutti, cioè che la
vera emergenza educativa non è che i ragazzi possano acquisire certe attitudini o certe competenze; no, il problema è che occorre ridestare prima il
soggetto per poterlo poi coinvolgere nel processo educativo. È questo il
punto veramente cruciale perché se questi ragazzi, con la propria umanità,
con tutto quel loro essere ingarbugliati nel proprio umano, non sono ridestati, che cosa resterà in loro oltre certe competenze acquisite? L’emergenza educativa non dipende dal fatto che manchino loro certe capacità,
ma dal fatto che occorre ridestare l’umano perché, come don Giussani ci
ha sempre detto, il grande problema è la riduzione dell’umano e del desiderio. È questa la vera questione: se durante il processo educativo i ragazzi
non sono ridestati nella loro umanità e poi ci pongono tutta quella serie di
domande che ho elencato – non è che mi scandalizzino; mi sfidano –, come
possiamo noi rispondere a questa situazione? Questo ci fa capire di più
qual è la sfida che abbiamo davanti. Io ne sono contento e quando qualcuno
mi domanda: «Ma tu sei triste per questo?», rispondo di no, per niente,
perché questo mi fa capire, fa capire a tutti, che dobbiamo renderci conto
di come stiamo cercando di trasmettere quello che abbiamo ricevuto, per
cui abbiamo generato questa scuola (come un esempio per tutti). Perché
dico questo? Perché può essere un’occasione per renderci ancora più consapevoli di alcune delle cose che don Giussani ci ha detto e che possono
essere veramente cruciali per rispondere alla sfida che abbiamo davanti.
Per esempio, pensiamo a tutto il tema dell’esperienza. Mi ha colpito che
quello che può capitare rispetto a certe cose che spieghiamo ai ragazzi
possa succedere anche in quello che facciamo: diceva don Giussani che
certe attività possono non generare personalità, cioè non fare maturare la
nostra persona, la nostra mentalità e quindi non generare questo uomo
nuovo che noi vogliamo ridestare, per cui l’io sarà poi in balia di tutto. Allora che cosa ci ha detto lui che secondo me è importante capire? Che non
serve soltanto la trasmissione di certi contenuti, e che questi contenuti siano
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adeguatamente esposti, ma che per poter generare una persona (che è lo
scopo dell’educazione, come dicevamo prima) occorre dare ai ragazzi tutti
gli strumenti invitandoli costantemente a fare esperienza, e non mollare
mai. E qui mi sembra che tocchiamo un punto cruciale. Perché mi ha colpito che noi ci troviamo davanti a ragazzi con quelle domande? Perché
questo dice che non sono cresciuti, che, non avendo fatto esperienza, non
è diventato loro il riconoscimento che hanno un criterio di giudizio, che
questo criterio è infallibile e che hanno tutto per fare esperienza, e che nella
loro esperienza hanno tutto ciò di cui hanno bisogno per chiarirsi. E perché
non succede questo? Perché per fare esperienza non basta provare delle
cose, l’esperienza è vivere ciò che mi fa crescere e quindi è connotata dal
fatto di «accorgersi di crescere». E mi domando: se dopo anni trascorsi
con noi questi ragazzi non hanno chiaro alcuni degli strumenti fondamentali della loro umanità per fare il proprio percorso umano, tutto quanto vivono, invece di generare in loro certezza, genererà solo confusione. Per
questo mi preoccupa, è un’insistenza a cui noi non possiamo rinunciare,
non possiamo mollare su questo: che cosa si esige da noi nella proposta,
nel lavoro educativo affinché i ragazzi possano fare esperienza fino al
punto di accorgersi di crescere? Facevo sempre questo esempio ai ragazzi,
anni fa: uno può risolvere un problema di matematica per caso, e domani
sbagliare perché non ha capito, non si è accorto di averlo capito. A volte
in una classe facevo una domanda e il primo che rispondeva azzeccava la
risposta, ma non capiva perché, non si era accorto e io avrei potuto prenderlo in giro per tutta l’ora di lezione. Perché? Perché non basta che uno
risponda giusto e che risolva il problema per un caso, perché, se non se
non si è reso conto della ragione pe cui lo ha risolto, un istante dopo, al
primo contraccolpo, alla prima obiezione, è finita. Ciò che succede col problema di matematica accade anche con la vita: basta che uno si trovi con
una persona che la pensa in un altro modo, se non si è reso conto di quello
che vive, che quello che pensa è vero e perché è vero, chiunque lo può
mettere in discussione. Non è una questione secondaria o una sottigliezza,
perché senza «accorgersi di crescere» non c’è persona. Domani chiunque
altro può obiettare senza che il ragazzo abbia nessuna risorsa per rispondere. È per questo che don Giussani insiste così tanto ne Il rischio educativo sulla verifica, infatti dice: «Per rispondere in modo adeguato alle
esigenze educative […] non basta proporre con chiarezza un significato
delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre
suscitare nell’adolescente personale impegno con la propria origine; occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo
dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. Una delle caratteristiche più gravi di una personalità è la “forza della convinzione” […]: l’apporto costruttivo di una personalità dipende da essa, come continuità e
solidità. Ora, la convinzione deriva dal fatto che l’idea abbracciata o rice5
vuta viene scoperta in connessione vitale con le proprie situazioni, pertinente alle proprie esigenze e progetti. [Perciò] La convinzione sorge come
una verifica in cui l’idea o la visione di partenza si dimostra chiave di volta
per tutti gli incontri, profondamente riferita a ciò che si vive, e quindi luce
risolutiva per le esperienze. […] [Da qui sorge l’urgenza di invitarli a fare
esperienza. E quindi:] L’urgenza di questa sperimentazione personale implica una sollecitazione instancabile alla personale “responsabilità” del
giovane […]. La sollecitazione [chiarifica subito] alla responsabilità personale è ben lontana dall’essere un richiamo astratto – accademico – a un
principio, e più ancora è lontana dal diventare più o meno sottile istigazione
a sbarazzarsi di ogni tradizione; essa deve diventare metodo di educazione.
Non basta che il giovane senta presente a sé l’annuncio ideale: occorre che
renda presente se stesso al valore ideale, “facendolo”. [Perché è soltanto
facendolo che può diventare suo] […] L’educazione oggi è manchevole
per quel razionalismo di impostazione che dimentica l’importanza dell’impegno esistenziale come condizione per una genuina esperienza di verità»
(pp. 87-89). Tante volte tra di noi pensiamo che non occorra fare niente e
che basti soltanto «esserci», senza sollecitare questo impegno, dire la parola “lavoro” è quasi un peccato mortale. Invitare a questa verifica sembra
una pretesa, oppure diciamo che è moralismo, quando invece è l’unica possibilità che diventi suo ciò che il ragazzo riceve. Ma questo è un problema
che hanno i ragazzi o piuttosto è un problema che abbiamo noi adulti, e
che trasmettiamo ai ragazzi? In questo senso dico che è una bella sfida per
noi, perché ci aiuta a capire certe sottolineature di metodo che sono cruciali
e senza le quali noi, non rendendocene conto, perdiamo il carisma per la
strada, non perché non trasmettiamo certi contenuti, ma nel modo di trasmetterli non li trasmettiamo secondo l’accento con cui hanno raggiunto
noi.
Noi siamo veramente fortunati, perché il fatto che don Giussani abbia dato
la vita per questa verifica ci ha messo in mano tutti gli strumenti per affrontare la sfida; tutte queste cose, e tante altre, indicano fino a che punto
era consapevole della sfida e del fatto che abbiamo le risorse per affrontarla. Per questo non sono affatto depresso, anzi, sono ancora più curioso
perché se noi prendiamo consapevolezza di tutto quanto abbiamo ricevuto,
se noi ci rendiamo conto del tesoro che abbiamo e delle sue implicazioni
metodologiche, questo può essere veramente il nostro contributo ai ragazzi
e alla società, in un momento di emergenza educativa in cui la maggioranza
delle persone non sa da che parte girarsi per ricominciare, perché non ha
minimamente l’idea di che cosa può rigenerare, ridestare il desiderio dell’io. Per questo non bastano le idee chiare (meglio che confuse, per carità,
ma questo non basta!), perché senza che il ragazzo le verifichi nella propria
vita non diventeranno sue. «L’evidenza più geniale non diviene convinzione se l’“io” non familiarizza con l’oggetto, se non si apre con attenzione
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e con pazienza all’oggetto, non gli dà tempo, non convive con esso: cioè
non lo ama. Il razionalismo moderno dimentica e rinnega la fondamentale
dipendenza dell’io; dimentica o rinnega la grande, originale sorpresa che
è l’evidenza [e non va dietro a questa evidenza] […] La mentalità moderna
insegna, purtroppo, ai giovani a seguire le cose fino a una misura [questo
è l’uso razionalistico della ragione: “fino a una misura”, e questo possiamo
farlo non soltanto nell’ora di religione, ma nella filosofia, nella letteratura,
nell’arte, nella matematica, possiamo introdurli a seguire la cose “fino a
una misura”] a essi comunque gradita, e poi basta. Per cui quella “presenza” è affrontata come spunto per affermare proprie preoccupazioni, propri schemi [e qui ciascuno di noi è in gioco: se noi quando facciamo questo
a un certo punto ci fermiamo, non lo seguiamo fino in fondo e quindi non
educhiamo, non introduciamo alla totalità del reale. Perché? Questa è la
cosa più interessante: per una paura]. […] Ecco […] quella diffusa paura,
quella strana incapacità nei giovani [e tante volte in noi] ad affermare l’essere. Questa paura ad affermare l’essere sorge proprio da un mancato impegno con l’essere, sia che quella paura si traduca nel disinteresse in cui i
più vivono, sia che si esprima nel “terrore d’ubriaco” di Montale» (pp. 9091). Questa è la parola: «Disinteresse». E non basta qualunque cosa per ridestare l’interesse; il problema è: chi è in grado di ridestare l’interesse?
Una cosa che non prende la totalità dell’io può ridestare l’interesse? Per
questo mi colpisce tanto l’esempio della Rose. Davanti alle donne malate
di Aids il suo primo pensiero è stato di offrire loro le medicine, ma quelle
dopo un po’ non le prendevano più. Noi pensiamo che questa sia la cosa
concreta, che questa sia la risposta, ma vediamo che non ridesta l’interesse,
infatti a un certo momento smettono di curarsi. La Rose ha fatto qualche
tentativo, non è che non lo abbia fatto. Ed essendo leale, si è accorta che
questo non bastava per ridestare l’interesse dal momento che le donne si
lasciavano andare fino a morire. Allora ha cominciato ad andare fino in
fondo scoprendo il valore di quelle persone, proprio per aiutarle a capire
il loro valore. A quel punto hanno avuto una ragione per prendere le pasticche, perché nient’altro basta per ridestare tutto l’interesse e quindi per
muovere la totalità dell’io. Potremmo fare mille altri esempi. A partire dal
caso concreto della Rose, noi vediamo se abbiamo fatto esperienza. In che
cosa facciamo la verifica ogni volta che apriamo la bocca? Nel come affrontiamo il bisogno, perché se noi non abbiamo fatto esperienza che non
basta una qualunque “medicina”, allora ci accontentiamo di una risposta
qualunque e poi ci lamentiamo perché l’altro non ci segue: «Ma se ti ho
dato le medicine?», che cosa potresti fare di più? È come se tante volte ci
fossimo dimenticati − perché non siamo cresciuti − che quello che ha dato
a noi il gusto del vivere non è stato qualcuno che ci ha offerto delle medicine. Siccome non siamo cresciuti, allora ci poniamo davanti alle nuove
sfide con una consapevolezza ridotta. Tutto questo è interessante perché il
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primo problema siamo noi – non i ragazzi −, perché soltanto se noi facciamo esperienza e cresciamo come persone possiamo veramente non accontentarci, non fermarci a una risposta parziale. Che cosa può vincere in
noi questa paura di affermare l’essere? Questa è la domanda, perché senza
rispondere adeguatamente la paura vince e per questo, a un certo momento,
ci blocchiamo.
Qui entra in gioco la portata dell’esperienza cristiana. Soltanto una Presenza presente, come è Cristo, può vincere la paura di affermare l’essere.
Se grazie alla familiarità con Cristo non abbiamo più questa paura, possiamo accompagnare i ragazzi a entrare nell’essere. Solo così potranno
percepire, in ogni esperienza che fanno, la pertinenza della proposta che
facciamo loro alle proprie esigenze del vivere, che è il motivo per cui don
Giussani ha cominciato tutto. «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io [come se fosse una sorta di indottrinamento o di
plagio], ma per insegnarvi un metodo [per darvi lo strumento] vero per
giudicare le cose che io vi dirò» (Il rischio educativo, p. 20). È un’esaltazione dell’io. È l’opposto del plagio, è mettere costantemente davanti al
ragazzo il criterio di giudizio. Una delle cose che più mi stupisce è quando
tra i nostri ragazzi non passa questo – questa è la modalità con cui noi apparteniamo alla mentalità moderna –, dopo anni passati con noi: il fatto
che il Mistero li abbia buttati nella mischia con un criterio per giudicare
tutto, perché Colui che ha rischiato più di tutti è stato Dio creandoci così.
E come mai ci ha gettato nella mischia con questo criterio? Perché perfino
per riconoscere suo Figlio occorreva questo criterio, altrimenti i discepoli
l’avrebbero confuso con chiunque altro. Quando i ragazzi lo riconosceranno, questo non dipende da noi, dipende dalla grazia di Dio come accadrà, ma poterli ridestare a un’attenzione, a una capacità di intercettare la
risposta, questo mi sembra lo scopo di ogni educazione, che è ben altro
che un indottrinamento.
Mi sembra di avere parlato fin troppo.
Bersanelli. Se ci sono domande… inizio io con una piccolissima. Ti avevo
già sentito raccontare delle domande dei ragazzi del CLU e mi aveva colpito molto. Ma quello che mi ha impressionato adesso è vedere come tu
hai vissuto questa vicenda, perché secondo me questo ha mostrato in tempo
reale ciò di cui stavi parlando; infatti di fronte a quelle domande il 99% di
noi (per essere ottimisti) avrebbe affrettato una giusta risposta oppure si
sarebbe scandalizzato come a dire: ma come è possibile, dopo tanti anni?
E invece quello che abbiamo visto è la testimonianza – lo dico innanzitutto
per me – di che cosa vuol dire non avere paura, stare al dato senza avere
la pretesa, la fretta di chiuderlo, ma lasciandosi sfidare da esso. Io penso
che questo sia un aspetto straordinario che don Carrón ci testimonia.
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Carrón. Questo è decisivo, secondo me, perché se noi non stiamo davanti
alle nostre domande, non staremo neppure davanti a quelle dei ragazzi. Invece di cavalcare le domande con i ragazzi, così da portarli all’essere, noi
le risolviamo in fretta perché abbiamo paura, e pensiamo di doverli mandare a casa con la riposta! Come mai? Perché non abbiamo la pazienza di
stare con loro. E invece dobbiamo dare loro il tempo necessario affinché
lo scoprano. Non lo scoprono se diamo loro subito la risposta confezionata,
piuttosto che caricare ancora di più la domanda. Cristo non è venuto per
darci una soluzione pronta, ma per ridestare in noi il senso religioso, cioè
per ridestare ancora di più la domanda. Ma noi diciamo queste cose e non
vediamo i nessi, diciamo una cosa dopo l’altra, come se la tradizione che
riceviamo e che tutti abbiamo ricevuto fosse a pezzi, non vediamo i nessi
e quindi l’incidenza educativa è cento volte minore di quanto potrebbe essere. E non per cattiveria, ma perché ci piacerebbe che quello che è dato a
noi arrivasse «subito» a tutti. Ma innanzitutto occorre che sia per me, per
l’adulto prima che per i ragazzi. Poi sarà per tutti gli altri, ma prima di tutto
deve essere per me, come fascino per il mio cammino umano.
Don Giussani dice che c’è una modalità di trasmettere la tradizione che è
tradizionalismo, mentre la vera trasmissione della tradizione è il riaccadere
dell’evento iniziale. E l’evento iniziale riaccade soltanto se riaccade in noi,
se noi siamo disponibili ad esso, altrimenti non si trasmette. Come al tempo
di Gesù: non bastava citare l’Antico Testamento, occorreva che riaccadesse
davanti a loro, con Gesù la Scrittura non era una citazione. «Questa scrittura si compie oggi», dice Cristo a Nazareth. Senza di questo figuratevi a
chi sarebbe interessato! Gesù sarebbe stato uno tra i tanti scribi dell’epoca.
Don Franco Berti. Dopo quattro o cinque mesi da quando mi hai chiesto
di venire al Sacro Cuore, mi domando ancora che cosa significhi fare il
rettore. E allora, parlandone insieme, è venuto fuori che si tratta di vivere
una paternità, l’ho ripetuto tante volte. Questo mi ha molto colpito e preso
fino in fondo. Certo, io vengo da una lunga e mirabile storia per quello che
ho ricevuto, feconda e bellissima. Ma mi sono accorto che, predisponendomi a venire qui, avevo subito una tentazione: stare attento a quel che accade, essere prudente, come per una sorta di difesa. Allora mi è venuto in
mente che cosa significa paternità: davanti a volti, persone, situazioni
anche complesse, magari non sempre condivisibili, difficili, lasciare tutto
e avere l’unica certezza di porsi dinanzi a ciò che mi capitava. E questa è
stata per me una novità. Però capisco che una novità, assolutamente diversa
e nuova rispetto a ciò che mi è capitato fino ad ora, non si può mai ripetere,
ma si può solo vivere di continuo. Detto questo, mi premerebbe capire
sempre di più, se si è padri, che cosa significa accompagnare nella generazione, oltre che destare l’io ad affrontare tutta la realtà. È un cammino
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in cui mi piacerebbe che, prima di tutto, tu e poi tutti voi che mi siete vicini
mi aiutaste a capire, perché in questa cosa non si è mai preparati, mai.
Carrón. Grazie a Dio, perché il giorno che pensassimo di essere preparati
ci saremmo già fermati. Nella parola paternità possiamo trovare una chiave
di volta, perché quanti di voi professori hanno dei figli possono esercitare
la paternità in un modo o in un altro. E don Giussani ha vissuto la paternità
in un modo diverso da tanti altri. Alcuni pensano alla paternità soltanto
come una ripetizione di una cosa ricevuta, per vedere poi che cosa accade
nei propri figli o nei propri studenti; e questa è una modalità di essere
padre: non è che uno se ne freghi, fa qualcosa, ripete certe formule, certi
principi (per carità, utili). Oppure uno è padre vivendo davanti agli studenti
e ai figli. L’alternativa, dunque, è se la paternità è la trasmissione di un discorso e di una serie di principi o se è il riaccadere di nuovo di un padre.
Questo riaccadere di un padre faceva sì che la gente si attaccasse a Gesù,
perché solo questo genera. E come ci siamo sempre detti ripetendo don
Giussani, «nessuno genera se non è generato», cioè nessuno può essere
padre se non diventa costantemente figlio, perché, come dice don Franco,
questo non si finisce mai di impararlo. E questo interessa innanzitutto noi,
perché altrimenti, a un certo momento, la noia stravince anche facendo il
mestiere bellissimo di insegnare. Per questo la vita di un educatore sarà
interessante sempre, quella di un padre sarà interessante sempre, se questo
processo non finisce mai, cioè se uno partecipa al processo educativo come
un’esperienza per sé. Con la stessa parola si possono fare minestre diverse:
uno può esercitare la paternità in un modo o in un altro. Per questo imparare la vera paternità è un essere costantemente disponibili a lasciarci interrogare e sorprendere. Per questo, mi sembra, stare davanti alle domande
che emergono, alle sfide, fa parte dell’amore ai ragazzi, dell’amore ai figli.
Quante volte vi preoccupate – è inevitabile che sia così quando si è padri
− davanti a certe cose che vedete non generare niente; non è che vi giriate
da un’altra parte.
Intervento. Spero di documentare con un esempio qualcosa che mi sembra
in linea con quanto stiamo dicendo. Qualche giorno fa, mentre pioveva,
venivo a scuola in moto e pensavo a quanta poca voglia avessi di fare
quello che dovevo fare e di quante poche ragioni avessi di insegnare le
cose belle che mi sono date di insegnare: Storia e Filosofia. Durante una
lezione in una classe, parlando della Repubblica di Platone e dei diversi
modelli politici, a un certo punto, arrivando ai governi corrotti, Platone
nomina la democrazia, e io un po’ stancamente spiego queste cose. Si alza
una mano e uno studente domanda: «Ma scusi, prof, come mai il filosofo
ateniese Platone, uno dei grandi geni dell’Occidente, dice che la democrazia è un sistema di governo corrotto?». Mi ha molto colpito, perché la do10
manda ha suscitato e ha aperto tutta una serie di ragioni, un interesse, una
passione per quello che io ho studiato e che studio. In fondo dico: la risorsa
che ho scoperto in quell’occasione e che riscopro in fondo tutti i giorni, è
il fatto che davanti a loro stessi, alla loro umanità e alle loro domande, e
per certi versi anche alla loro purezza davanti alle cose, se un insegnante
non ha una ragione per insegnare, anche davanti a cose belle ci si annoia.
Vedere quella curiosità, grezza anche nel modo di porsi, ma che ti pone
una domanda così, mi ha molto colpito per cui in quella giornata, nei giorni
successivi e anche in altre occasioni è nato il rischio, per esempio, parlando
del parlamentarismo inglese, di chiedere ai ragazzi il giorno dopo la caduta
del governo Letta: «Ma avete visto cosa è successo ieri?». E nasce improvvisamente, inaspettatamente in una classe di gente – diciamo – non politicamente educata, una vivace, imprevista discussione su quello che era
avvenuto.
Carrón. Vivace, cioè si ridesta l’io, si coinvolgono in una discussione.
Intervento. Sono entrata qui con una grande domanda proprio sul tema del
rapporto tra l’esperienza e il giudizio; tu hai fatto un passaggio che non
voglio perdere. A un certo punto, dicevi che al giudizio è connesso l’amore,
cioè l’esito di un giudizio non è semplicemente che io ho descritto un’esperienza, gli ho dato i termini giusti eccetera, ma che io aderisco al vero che
emerge nell’esperienza. Vorrei che dettagliassi un po’ questo rapporto tra
esperienza e giudizio e amore come adesione, e anche come capacità di
sacrificio, al vero e all’essere. Tra i ragazzi delle medie si fa molta fatica
a far sì che il bello che si vive insieme − e su cui i nostri ragazzi ci seguono
in toto, infatti quando si è insieme si fa e si fa con gusto, non è che abbiamo
problemi particolari − diventi fonte di un giudizio e di una capacità di aderire personale, nel tempo libero, quando chattano. Che nasca un modo
nuovo di vivere, questo lo vediamo poco, è raro.
Carrón. Secondo te, perché? Che rapporto c’è tra giudizio e amore? Perché
in fondo, carissima, l’amore è un giudizio, tu infatti ami qualcosa veramente, in fondo, per un giudizio che dai; se una cosa non ti interessa, se
per te non ha valore, tu non la ami; se non l’hai scoperta come qualcosa di
valore, non la ami. Tante volte il problema è: come far scoprire il valore di
certe cose cosicché i ragazzi possano aderire? Senza un giudizio non c’è
possibilità di amare, perché non è un problema di volontarismo affettivo;
spesso noi possiamo soccombere alla tentazione di pensare che in fondo il
giudizio vada da una parte e l’amore da un’altra. Ma, comunque la pensiamo, la questione è che io aderisca, e non aderisco se non ho una ragione
adeguata e quindi se non ho un giudizio. Per questo mi piace l’esempio
delle donne della Rose, perché soltanto quando hanno scoperto il valore
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di sé stesse hanno aderito con amore a sé, hanno avuto una ragione adeguata per un amore a sé. Amore e giudizio sono intrinsecamente legati,
perché se io non scopro il valore di una cosa o persona io non la posso
amare, anche se qualcuno mi dice di amarla; se io non ne ho percepito il
valore, il mio amore è puro volontarismo, è come forzarsi a voler bene a
una cosa “turandosi il naso”, ma così non può durare. È per questo che
senza una ragionevolezza, senza scoprire la ragionevolezza delle cose, è
difficile che i ragazzi possano aderire. A volte diciamo loro di aderire a
certe cose che non hanno ancora scoperto, e questo pone di nuovo la questione dell’esperienza: senza che i ragazzi scoprano il valore delle cose
dall’interno della loro esperienza, tutto il nostro tentativo è ultimamente
moralistico, perché non percepiscono loro che una cosa vale. La questione,
allora, è questa: invece di fare costantemente un richiamo moralistico,
come possiamo facilitare e aiutare a scoprire un valore, in modo tale che
per i ragazzi diventi affascinante? Se non è così, non aderiranno, è inevitabile. Proprio per questo don Giussani insiste tanto sulla conoscenza, cioè
sul giudizio, e non per caso, perché se non è per una conoscenza, inevitabilmente noi diventiamo moralisti e insistiamo su certe cose che addirittura
non vanno più di moda, alle quali i ragazzi non potranno aderire, perché
manca loro la ragione per farlo. La tua domanda mi sembra cruciale e ci
fa rendere conto che noi dobbiamo chiarirci su questi nessi e su quale sia
il percorso da fare, così da aiutare i ragazzi, senza dare per scontato che
abbiano già il giudizio solo perché ripetono certe formule e pensando che
occorra solo invitarli ad aderire moralisticamente. Al contrario, quando
scoprono il valore di una cosa, tu non hai più bisogno di insistere, perché
occorre semplicemente sollecitarli a essere leali con quello che hanno visto.
Anche a noi, tante volte, capita di vedere una cosa pur giusta, ma poi fare
altro. Ma è diverso quando uno ha visto e ha giudicato, poi potrà non fare
o fare altro, ma ha comunque visto, e questo è per sempre. Di quanto tempo
avrà bisogno uno, poi, per aderire non lo so, dipende dalla libertà della
persona, dal cammino che fa, ma questo nesso è cruciale, perché se noi
non insistiamo su questo finiremo con l’insistere su un’altra cosa. Se noi
non facilitiamo la persona a vivere l’esperienza da cui emerge il giudizio,
la chiarezza e il valore di quello che vede, inevitabilmente tutto l’impegno
richiesto diventa moralistico.
Intervento. Quando dicevi di caricare la domanda, questo fa parte del metodo per cogliere il valore?
Carrón. Esatto. È sfidarli ancora di più. Questo fa parte dell’impegno col
reale. A me stupisce tanto il fatto che don Giussani parta da un giudizio
sul processo di frammentazione in cui ci troviamo, di cui l’emergenza educativa è l’ultima conseguenza, e dica che tutto questo caos dipende da una
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mancanza di impegno con il reale totale − descrive l’inizio della modernità
come una mancanza di impegno con il reale totale −; notate che tra le parole «impegno» e «reale» aggiunge un aggettivo: «totale». Dunque, una
mancanza di impegno, di curiosità – per non ridurlo a moralismo – con il
reale totale. Se non siamo noi i primi a cavalcare la curiosità dei ragazzi,
la loro domanda, “raddoppiando la dose”, se non siamo noi i primi a spingere nella direzione di quella curiosità, a un certo momento si bloccheranno; e se non lo facciamo, è come se non avessimo fiducia che il loro
uso della ragione fino in fondo li porterà a scoprire la risposta, e allora interrompiamo il loro percorso anticipando noi la risposta, invece di accompagnarli alla risposta, di sostenerli nella ricerca della risposta, di sostenerli
nell’avventura della conoscenza; più che dare loro risposte confezionate,
occorre accompagnarli, perché altrimenti, poi, ti possono ripetere le risposte, ma non sono risposte loro. E questo mi sembra vada chiarito, perché
tante volte noi pensiamo: «Che almeno vadano a casa con qualche idea
chiara», ma questa è un’illusione che ci facciamo, un’illusione totale. Per
questo mi hanno colpito le domande degli universitari che vi ho riproposto
all’inizio, perché quante volte hanno ripetuto il criterio giusto e hanno ripetuto cose pur vere? Ma non sono loro. Appena cambia il contesto in cui
vivono ti trovi davanti al loro smarrimento. Per me è stata una sorpresa,
tanto che mi sono domandato: ma è proprio vero quello che sto leggendo,
queste domande che fanno? Tante volte pensiamo che, poiché hanno ripetuto il contenuto vero, questo sia diventato loro. Neanche per sogno!
Intervento. Mi sto rendendo conto di avere come ridotto don Giussani a
quello che volevo io. Cerco di spiegarmi: quando avevamo quattordici,
quindici anni, il momento dell’incontro era una cosa che mi affascinava
tantissimo. Però don Giussani ci ha fatto vivere sempre anche la Settimana
Santa, in cui si vive il momento della morte e resurrezione del Signore. Io
mi rendo conto che questa cosa fino a poco tempo fa non volevo guardarla
in faccia e avevo paura, quindi chiaramente la mia proposta ai ragazzi è
monca perché la mia proposta, per quello che tu dicevi sul giudizio, deve
passare anche dal fatto che il Mistero ci costringe ad affrontare il problema
che Gesù è morto e risorto; nel capitolo ottavo che abbiamo appena meditato nella Scuola di comunità ci dice che dobbiamo accompagnarLo sulla
croce. A me questo fa paura, però capisco che ci devo entrare dentro.
Carrón. La questione fondamentale è che capiamo che cosa significa per
noi che l’esperienza è monca. Qual è la conseguenza per noi, dal punto di
vista educativo? Tante volte, quando vince la paura, è perché noi in fondo
non abbiamo fatto il percorso. E questo introduce il problema del cristianesimo. È impossibile vivere la religiosità fino in fondo – tutta l’avventura
umana della ragione e dell’affezione – senza che vinca la paura se non è
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per una compagnia, per una compagnia presente; senza di questo, come
descrive don Giussani, è così vertiginosa la posizione religiosa che a un
certo momento decade nell’idolatria. Che cosa ci consente che non decada
in idolatria e che cosa ci permette di entrare in questa vertigine senza paura,
ma come abbandonati? Soltanto una presenza. Questa è la proprio la verifica della fede. Perciò se noi non cogliamo che cosa vuol dire la nostra
esperienza di fede nell’accompagnare i ragazzi senza avere fretta di rispondere, e se non capiamo che questo determina il modo di entrare nel reale,
avremo sempre paura. Noi facciamo sempre il test se nel nostro modo di
accompagnare i ragazzi abbiamo paura o no, perché a un certo punto non
siamo più in grado di guardare tutto, tutta la loro umanità, e così non li accompagniamo, non li introduciamo alla totalità del reale, non insegniamo
loro che cos’è la ragione, non insegniamo loro fino in fondo che cos’è l’affezione, perché tutto in noi è razionalistico.
Intervento. Molto più spesso nel rapporto con i ragazzi o con le famiglie
ci troviamo di fronte a situazioni difficili, di disagio umano o anche di dissesto psicologico, sono questioni che ci superano da tutte le parti per difficoltà e richiederebbero uno sforzo di tempo e di energie che non c’è.
Tante volte è come se il lavoro dell’insegnante si avvicinasse pericolosamente a quello del medico o dello psicologo. La domanda è questa: in queste situazioni che cosa significa dare un contributo alla crescita e alla
maturazione delle persone che abbiamo davanti, senza tuttavia naufragare
in questioni che non ci riguardano, continuando a fare il nostro lavoro di
insegnanti? La seconda domanda è su tutto il tema che hai affrontato: si
tocca sempre più con mano che una tradizione cristiana ricevuta, o anche
l’educazione all’interno del movimento, tante volte, invece che essere uno
sprone per entrare nella realtà diventa quasi uno schermo per difendersi.
C’è stato un episodio, una discussione in classe a cui ha partecipato anche
il rettore; con i ragazzi del primo anno delle superiori era nata una discussione sulla libertà, allora abbiamo chiesto: «Ma che cos’è per voi la libertà?». Interviene una ragazza e dà una definizione: «La libertà è seguire
ciò che è vero, ciò che mi compie». Un altro ragazzo subito sbuffa e dice:
«Insomma, sono le solite cose che ci dite sempre». Da qui il dibattito. La
stessa ragazza che era intervenuta per prima dando la risposta “giusta”
dice: «Quando ci sono queste discussioni io non so mai se ascoltare o se
non ascoltare».
Carrón. Vedete? Già in classe, già in classe! Questo è il punto. Immaginate
quando andranno all’università o a Londra in the middle of the world. Questo è il punto: se noi rincariamo la dose spingendo nella direzione delle
domande o se noi ci scandalizziamo pensando: «Come è possibile che in
una scuola cattolica si possano fare queste domande?», e allora cerchiamo
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di chiudere subito il problema, invece di far crescere nei ragazzi la certezza
che lì, in quella scuola, si possono fare tutte le domande del mondo; e mostrando che, se non le fanno loro, le faccio io professore le domande. È diverso se lo vedono in me, perché allora crescono nella certezza di avere
un luogo dove porre le domande e nel quale nessuno si spaventa delle domande, anzi.
Intervento. Questa cosa è molto bella, tanti dicono: «Sono allergico alle
formule, ai soliti discorsi». La cosa che mi ha colpito è stato un altro episodio. Mi fermano all’intervallo e mi dicono: «Professore, lei ci odia».
«Come, vi odio?» «Perché ogni volta che entra in classe ha la faccia arrabbiata».
Carrón. Vedi? Ti fanno lo scanner ogni volta!
Intervento. Io mi sono difeso dicendo che c’erano dei motivi per cui era
giusto che fosse così, poi ho detto: «Fatevi i fatti vostri», però ho pensato:
è vero che da un po’ di giorni sono preoccupato ed entro con l’idea che
devo avere il controllo della situazione e allora ho pensato: questi vedono
tutto, anche se io cerco di nasconderlo. E poi mi sono detto: ma in fondo,
quando io mi comporto così con loro non sono diverso da quando loro mi
ripetono le formule.
Carrón. Perfetto!
Intervento. Poi mi sono chiesto: ma quante volte io entro in classe attento
a quello che sta per accadere o quante volte vado a una riunione con i miei
colleghi con la domanda: ma che cosa verrà di buono per me adesso? Molte
volte c’è una modalità predefinita: so cosa devo fare, dunque mi comporto
così. Mi ha impressionato perché il cardinale Scola diceva all’incontro in
Duomo: «Noi comunichiamo ciò che siamo». È vero, probabilmente c’è
anche il fatto che i ragazzi sono schematici, ma tante volte lo sono io, sono
io che ho paura di affermare l’essere. La cosa che mi aiuta tanto è vedere
tanti colleghi, invece, per i quali la realtà costituisce un problema. La cosa
che a me impressiona è che per alcuni i problemi si moltiplicano sotto gli
occhi e quindi le iniziative verso l’uno o verso l’altro, cioè la realtà non è
più tutta uguale, uniforme, ma inizia ad avere una fisionomia; e quindi vivere non è più una cosa scontata, ma diventa un’avventura interessante.
Questo mi è sempre di aiuto.
Carrón. Rispondo alla prima domanda dicendo che una delle cose che più
mi colpisce di don Giussani è come lui concepisce l’io: non lo riduce mai
ai suoi fattori antecedenti di tipo psicologico, sociologico, temperamentale
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eccetera. Anche con tutti i problemi di tipo psicologico che possono avere,
i ragazzi rimangono uomini e donne, quindi hanno un cuore, hanno un desiderio, hanno le stesse esigenze, e noi li possiamo trattate soltanto da ammalati o li possiamo trattare da uomini. Questo non vuol dire che se uno
ha male alla testa tu non gli dai la Tachipirina, che se uno ha qualche altro
disagio non lo mandi da chi lo può aiutare, che se si rompe una gamba non
lo mandi dall’ortopedico, ma non lo fai pensando di «risolvergli» così il
problema umano. In tutto questo tu continui a trattarlo da uomo, qualsiasi
sia la sua situazione particolare, perché è un uomo. Altrimenti noi rendiamo
i ragazzi ancora più incapaci perché li riduciamo ai fattori antecedenti, capisci? E questo te lo vedono sulla faccia, tu lo dici loro nel modo di guardarli. Allora è un giudizio, altroché, è un giudizio! Mi ricordo ancora
quando sono andato in visita al carcere di Padova; durante il dialogo con
alcuni di loro, mentre parlavano del tipo di lavoro che facevano e del valore
che aveva per loro, un ergastolano dice: «No, quello che mi ha cambiato è
la modalità con cui io sono stato guardato». C’era stato uno che non lo
aveva guardato per tutti gli altri motivi che si sapevano di lui. L’unica modalità di ridestare veramente l’io e di dare un contributo anche a livello
psicologico è questa. Questo non vuol dire, allora, che i ragazzi non abbiano bisogno a volte, per esempio, di un aiuto psicologico, ma questo sarà
parte del loro cammino, ma il nostro mestiere come uomini e come educatori è questo ridestare il loro io. E tu non hai nessuna giustificazione per
non farlo, nasce da un giudizio, perché tu ti devi domandare sempre: ma
che cos’è questo uomo che ho davanti? Chi è? E nel fare questo tu stai già
dando una risposta. Io lo sto riducendo ai fattori antecedenti o lo sto guardando in tutta la sua verità che non esclude quelli? O il valore della persona
dipende per me dal fatto che abbia problemi psicologici? O che non li
abbia? O questa persona è data e ha lo stesso valore tuo e mio? Questo lo
diciamo ai ragazzi guardandoli, o no? E questo non dipende dal fatto che
l’altro abbia risolto i suoi problemi psicologici. Il problema è se quando li
guardiamo, noi li abbiamo già ridotti o no. Se davanti a una discussione
come quella di cui hai parlato sei tu a scaricare la questione, se tu fai confusione su che cos’è la libertà, se questi ragazzi non capiscono, questo sfida
te perché dire le solite cose non basta, e infatti il ragazzo dice che stiamo
dicendo le solite cose, la solita tradizione ciellina. Non basta trasmettere
un discorso, perché quel ragazzo ti dice: «Sono le solite cose». E anche se
le ripetono come vere, le dicono un po’ scettici, perché quelle parole non
sono incidenti, non sono diventate esperienza e quindi non passano nella
loro vita. Allora proprio lì è la sfida per te: «Ma io che cosa posso dire
loro? Che esempio posso fare? A che esperienza li posso rimandare? Che
cosa posso ridestare nella sua esperienza per fare loro capire se è vero oppure no?». È una sfida per te e per me. Senza questo come puoi fare il professore? È una noia. Invece così tu non potrai tornare a casa senza dire:
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«Io a questo ragazzo domani che cosa dico?». E se non ti viene in mente
qualcosa domani, avrai quella domanda in testa per mesi, fino a quando ti
viene l’esempio, fino a quando ti imbatti in un fatto, fino a quando leggi
qualcosa. È questo che fa di te un uomo, se tu non chiudi la domanda, perché così andrai a fare la Scuola di comunità o leggerai il giornale o starai
con i colleghi con un’attenzione che ti farà intercettare le risposte. Altrimenti noi non possiamo più fare i professori, perché vuol dire che abbiamo
già deciso di fermarci. Invece insegnare è un’educazione permanente, perché i ragazzi non ti lasciano in pace. Proprio per questo è un mestiere strepitoso, perché non ci lasciano in pace. Chi vuole stare comodo è meglio
che cambi mestiere, perché insegnando è impossibile; per chi, al contrario,
vuole vivere non c’è altra cosa che ti provochi di più, perché questi ragazzi
ti mettono il dito nell’occhio!
Intervento. L’anno scorso ho sofferto molto del trasferimento di una mia
alunna dalla nostra scuola a una scuola statale con questa motivazione: che
lei era qui dall’asilo e voleva andare in un’altra scuola per aprirsi al mondo.
Spesso sento dire questa frase.
Carrón. Vedete? O li aprite voi al mondo o se ne vanno loro per aprirsi.
Questo è il vostro problema, capite? È inutile lamentarsi di questo, non c’è
altro da fare: e così ho risposto alla tua domanda.
Questo è un inizio, è l’inizio di un dialogo…
Bersanelli. Che vorremmo continuare e che continueremo nei modi in cui
sarà possibile, ma intensamente e realmente. Io credo che oggi siamo tutti
molto grati di questa occasione.
Grazie, Julián.
© Fraternità di Comunione e Liberazione per i testi di Julián Carrón
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