la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 NUMERO 487 Cult La copertina. Gli economisti sono le nuove star Straparlando. Morandini: “Vita da critico” La poesia. La misteriosa Contessa di Dia Hey Jimi “Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi” Nell’autobiografia di Jimi Hendrix il testamento di un genio della musica JIMI HENDRIX A SCUOLA SCRIVEVO un sacco di poesie, e la cosa mi rendeva felice. I miei versi parlavano soprattutto di fiori, natura e gente in tunica. Volevo diventare un attore o un pittore. Mi piaceva dipingere paesaggi di altri pianeti. Pomeriggio estivo su Venere. Roba così. L’idea dei viaggi spaziali mi esaltava più di qualunque altra cosa. Di solito la professoressa ci chiedeva di dipingere tre paesaggi, e io facevo cose astratte, tipo: Tramonto marziano, non scherzo! Lei allora diceva: «Come stai?». E io me ne uscivo con qualcosa di stralunato, tipo: «Be’, dipende da come si sentono le persone su Marte». Non ne potevo più di ripetere: «Bene, grazie». Ho mollato la scuola molto presto. Mio padre disse che avrei dovuto trovarmi un lavoro. E così ho fatto, per un paio di settimane. Ho lavorato per lui. Trasportavamo sacchi di calce e grosse pietre da mattina a sera. Non mi pagava. Quindi ho cominciato ad andarmene in giro con altri ragazzi. Capitava che prendessimo di mira un poliziotto, e mezz’ora dopo si scatenava l’inferno. A volte si finiva in galera, dove però si mangiava bene. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’immagine. Se i rifiuti della società sono belli La storia. Come e perché Giorgio Bocca disse sì alla biografia di Togliatti Spettacoli. Polanski racconta il suo Dreyfus: “Vedrete, sarà un thriller” Next. Che cosa ci possiamo ancora inventare? L’incontro. Cesare Colombo, “L’Italia non è un paese per fotografi” GINO CASTALDO I N QUEL SUO ARDITO modo di mescolare candore e perversione, Jimi Hendrix ha volato alto, drammaticamente in alto, portando con sé un’intera famelica generazione in cerca di sogni impossibili. Per una volta sono le sue stesse parole a dircelo, parole messe in fila una dopo l’altra, in un auto-racconto che ha il sapore di un lunghissimo, interminabile assolo. È musica anche questa, veloce, sovraccarica, luminosa quanto basta per illustrare un percorso che ha tutte le caratteristiche per assomigliare a una svariata serie di immagi- ni mitologiche, dall’Icaro che si avvicina troppo al sole (“bruciare” e “fuoco” sono termini ricorrenti nella sua storia) ai tanti patti col diavolo che assicurano genio in cambio, ovviamente, dell’anima. In effetti dal suo racconto, montato come un puzzle meticoloso di diari, lettere e interviste, emerge una vita, ahinoi brevissima, costruita su un’utopia visionaria, partita da una lunga e faticosa gavetta nei bassifondi della scena americana, esplosa come una supernova nella Londra beatlesiana, lanciata all’inseguimento di un costante superamento di ogni possibile sfida. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 26 La copertina.Hey Jimi Dall’infanzia nel ghetto alla prima chitarra fino a un’ultima straordinaria jam session Attraverso diari, appunti e interviste Hendrix racconta la sua vita brevissima <SEGUE DALLA COPERTINA JIMI HENDRIX I L MIO PRIMO STRUMENTO è stato un’armonica. Credo di averla ricevuta a quattro anni. Poi un violino. Ho sempre avuto un debole per gli strumenti a corda e i pianoforti, ma desideravo qualcosa da poter portare a casa con me, e non è che puoi portarti a casa un piano. Così ho cominciato a darci dentro con le chitarre. Sembrava essercene una in ogni casa, poggiata da qualche parte. Una sera, un amico di mio padre era sbronzo e mi ha venduto la sua per cinque dollari. Ho iniziato a suonarla a quattordici, quindici anni. Suonavo nel cortile e i ragazzi venivano a sentirmi. Dicevano che ero bravo. Poi l’ho messa da parte. Ma quando ho sentito Chuck Berry la passione è rinata. Il mio primo ingaggio è stato un posto della Guardia nazionale; abbiamo guadagnato 35 centesimi a testa e tre hamburger. All’inizio è stata dura. Conoscevo sì e no tre canzoni, e quando era il momento di salire sul palco me la facevo sotto. È la classica situazione da cui puoi farti scoraggiare: ascolti le altre band che suonano in giro e il loro chitarrista ti sembra sempre parecchio migliore di te. A questo punto la stragrande maggioranza getta la spugna, ma devi resistere. Tenere duro e basta. PERCHÉ SUONO COI DENTI Siccome non mi dimenavo granché dei tizi hanno cercato di convincermi a suonare la chitarra dietro la testa. Io rispondevo: «Ehi, ma chi ha voglia di stronzate del genere?». Però quando suoni davanti a un pubblico che non si accontenta mai, prima o poi inizi a trovarti noioso tu stesso. L’idea di suonare la chitarra coi denti mi è venuta in un posto in Tennessee. Laggiù o suoni coi denti o ti sparano! C’era una scia di denti rotti su tutto il palco. Quando suoni coi denti devi sapere quello che fai, altrimenti può rivelarsi spiacevole. Per molti ciò che faccio con la chitarra è volgare. Non sono d’accordo. Forse è erotico, ma quale musica con un buon ritmo non lo è? La musica è una forma di espressione così intima che è destinata a evocare il sesso. E cosa c’è di sbagliato? È davvero tanto osceno? Più osceno di una qualunque pubblicità erotica che si può trovare nei giornali o in televisione? VI SEMBRO UNO CATTIVO? Sai qual è il vero problema? Non sono capace di guardare dritto in camera e sorridere se non ne ho voglia. È più forte di me, non ce la faccio. È come doversi sentire felice a comando! Comunque i fotografi cercano sempre di farmi apparire cattivo. E questo mi ha reso una specie di mostro. A dirla tutta non capisco perché la gente voglia vedermi a tutti i costi come un personaggio da film dell’orrore. Se avessi l’aspetto di un cannibale andrebbero in visibilio! A New York i tassisti accostavano, e dopo avermi dato una rapida occhiata ripartivano. Certe persone vorreb- bero tutti omologati. Be’, io non finirò mai così. Perché dovrei somigliare a un tassista? Finché non è giunta voce che gli inglesi apprezzavano la mia musica, in America ero un perfetto sconosciuto. Ora invece nei locali del Village veniamo accolti come divinità. Non faccio nulla di eccezionale, eppure Life e Time hanno improvvisamente iniziato a scrivere di me. Si tratta della stessa gente che prima mi prendeva in giro. Ah, Ah! Adesso non sono più Jimi lo stupido, ma Mister Hendrix. Mi analizzano, si presentano con dossier da psicologi, faticano a capire cosa mi scorra nelle vene. Viviamo in mondi diversi. Il mio? Fame, bassifondi, odio razziale, un posto dove l’unica felicità che possiedi è quella che puoi tenere in mano. L’ACCORDO PERDUTO Il numero della chitarra sfasciata è iniziato per caso. Stavo suonando a Copenaghen e mi hanno trascinato giù dal palco. Tutto andava alla grande. Dopo aver ributtato la chitarra sul palco l’ho seguita con un salto, ma quando l’ho raccolta ho trovato una grossa incrinatura nel mezzo. Allora ho perso la pazienza e ho fatto a pezzi quel dannato arnese. Il pubblico è andato in delirio — sembrava che avessi finalmente scoperto “l’accordo perduto” o roba del genere. Così, ogni volta che c’era la stampa o mi andava, ho riproposto la scenetta. È una voglia improvvisa di agire in assoluta libertà — insomma di fare ciò che faresti se i tuoi genitori non ti tenessero d’occhio. Non sono un tipo violento, ma ormai la gente pensa che lo sia. Sfasci tre o quattro chitarre e la gente ne deduce che tu Il mio funerale sarà elettrico “Suoneremo la nostra musica e il volume sarà alto. Per una cosa così vale la pena anche morire” Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 27 Parola dopo parola il “voodoo child” che si bruciò volando IL RITRATTO JIMI HENDRIX NEL 1967. L’ARTISTA MORIRÀ TRE ANNI DOPO, A VENTISETTE ANNI. COME BRIAN JONES, JANIS JOPLIN, JIM MORRISON, KURT COBAIN, AMY WINEHOUSE <SEGUE DALLA COPERTINA non faccia altro. Invece succede solo quando ci prende quella voglia. La frustrazione è al massimo, la musica si fa sempre più forte, e a un tratto crash, bang, ecco levarsi il fumo. Certe sere capita che tutto vada storto e allora, se sfasciamo qualcosa è perché lo strumento che amiamo profondamente non funziona a dovere. Non risponde, così ti viene voglia di ammazzarlo. CREDI IN TE STESSO Vivere richiede una serenità mentale che ognuno deve cercare dentro di sé. Occorre avere fiducia in se stessi. In un certo senso penso che credere in Dio consista in questo. game con le Pantere Nere, intendiamoci. Mi sento parte di ciò che stanno facendo. Agire è necessario, e in termini di serenità e condizioni di vita siamo noi quelli che se la passano peggio. Però non sono per la guerriglia. Non sono per lanciare una bottiglia molotov o fracassare la vetrina di un negozio. Così è inutile. In particolare se lo fai nel tuo quartiere. Non provo odio per altri esseri umani perché, alla luce del mio percorso, sarebbe come fare un passo indietro. È indispensabile condividere il dolore, sforzarsi di comprendere quale parte è andata perduta. Allargare la prospettiva. Dare ai pensieri una dimensione universale è un’ottima cosa. GINO CASTALDO H L’AMICO E PRODUTTORE ALAN DOUGLAS HA SELEZIONATO RACCOLTO E MESSO INSIEME I SUOI PENSIERI “ERA UNO SCRITTORE INCALLITO, SCRIVEVA SU CARTA D’ALBERGO, FOGLIETTI, PACCHETTI DI SIGARETTE, TOVAGLIOLI E TUTTO CIÒ CHE GLI CAPITAVA SOTTOMANO” Se esiste un Dio ed è Lui ad averci creato, allora credere in se stessi è credere in Lui. E quando cominci a portare Dio dentro di te diventi parte di Lui. Questo non significa credere al Paradiso e all’Inferno, ma che la religione è ciò che sei e ciò che fai. Quando salgo sul palco e canto, quella è tutta la mia vita. La mia religione. Io sono la Religione Elettrica. Ci hanno chiesto di tenere un concerto di beneficenza per le Pantere Nere. Ma per quanto ne fossi onorato eccetera, ancora non ci siamo esibiti. Negli Stati Uniti sei sempre costretto a prendere una posizione. Che tu sia un ribelle o un tipo alla Frank Sinatra. Quand’ero più giovane ho scritto canzoni di protesta cariche di rancore. Adesso non lo faccio più perché ci sono questioni politiche da cui preferisco tenermi alla larga. Prima di dire una qualunque cosa devo sentirmi coinvolto. Invece non mi sento coinvolto. Anzi, ora come ora mi sento smarrito. Slegato dalla quasi totalità delle cose. Sono dispiaciuto per le minoranze, ma nessuna m’ispira un senso di appartenenza. Io sto dalla parte di chi è svantaggiato, ma il mio obiettivo non è convincere chi è svantaggiato a fare questo o quello. Non guardo le cose da una prospettiva razziale. Guardo le cose dalla prospettiva degli esseri umani. Non penso a neri o bianchi. Penso a ciò che è vecchio e a ciò che è nuovo. Non sto tentando di negare il mio le- Quando avrò la sensazione di non avere altro da offrire a livello musicale diventerò irrintracciabile. Se non avrò moglie e figli sparirò dalla faccia della terra. Non avendo nulla da comunicare attraverso la musica non avrò niente per cui valga la pena vivere. Non so se arriverò a 28 anni, ma mi sono accadute cose meravigliose negli ultimi tre. Il mondo non mi deve nulla. Il corpo è un veicolo fisico utile a condurti da un posto all’altro senza troppi problemi. Il proposito è tenere i nervi saldi, capire come prepararsi al meglio per il mondo che verrà, perché ne esiste uno. Spero vi piaccia. Alla mia morte ci sarà una jam, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale. Il volume sarà alto, e ci sarà la nostra musica. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di Eddie Cochran e parecchio blues. Roland Kirk verrà di certo, e farò di tutto perché non manchi Miles Davis, sempre che abbia voglia di passare. Per una cosa così varrebbe quasi la pena morire. Quando non ci sarò più non smettete di mettere su i miei dischi. Da Starting At Zero © 2013 Gravity Ltd All rights reserved © 2014 Giulio Einaudi ed.s.p.a., Torino Traduzione di Alessandro Mari Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara SONO NATO A SEATTLE, STATO DI WASHINGTON, IL 27 NOVEMBRE 1942 CHE AVEVO ZERO ANNI MIO PADRE ERA SEVERISSIMO, UN UOMO CON LA TESTA SULLE SPALLE MIA MADRE AMAVA METTERSI IN GHINGHERI E DIVERTIRSI DESIDERAVO QUALCOSA DA POTER PORTARE CON ME, COSÌ HO COMINCIATO A DARCI DENTRO CON LE CHITARRE. SUONAVO NEL CORTILE DI CASA E I RAGAZZI DICEVANO CHE ERO BRAVO. POI HO LASCIATO STARE FINO A QUANDO NON HO SENTITO CHUCK BERRY BISOGNA FARE UN PASSO AVANTI FOTO © TERENCE DONOVAN/MASTERS/GETTY IMAGES NON SO SE ARRIVERÒ AI 28 ENDRIX era la sua musica, senza alcuna separazione tra arte e vita, tutto confuso in una corsa inarrestabile e avvincente. Con lui ci si dimenticava che la chitarra era pur sempre una macchina, uno strumento elettromeccanico che amplificava lampi del pensiero, sembrava che fosse tutt’uno, che con la chitarra ci fosse nato, che fosse un’estensione naturale del corpo, tanto facile e naturale sembrava il suo modo di suonare, che facile e naturale non era affatto, o almeno non lo era per gli altri comuni mortali. Un modo di suonare che invece lasciava stupefatti, pubblico e musicisti, compresi i grandi chitarristi inglesi dell’epoca (Clapton e compagni) che quando lo videro suonare la prima volta pensarono per un momento che forse la loro chitarra dovevano buttarla via, che non aveva molto senso continuare dopo aver visto quel prodigio vivente. Hendrix girava continuamente il mondo, sembrava non avere, o non volere, una fissa dimora, come se avesse esteso all’epoca della rivoluzione psichedelica quella vocazione errabonda che era dei primi bluesmen (anche loro del resto indiziati di patti col diavolo stretti all’incrocio di notturne strade di campagna). Viveva come se nascere, morire e rinascere fosse un’abitudine quotidiana, incideva dischi nei quali fissare il suo lampeggiante viaggio, ma non perdendo mai di vista, come racconta a ogni occasione, che in fin dei conti l’unica vera possibile celebrazione del suo credo era la performance, il concerto dal vivo, dove la musica poteva fino in fondo IL LIBRO esplodere nella sua massima “ZERO. LA MIA STORIA” imprevedibilità, a contatto con la gente, DI JIMI HENDRIX (EINAUDI, con la bruciante urgenza del tempo 250 PAGINE, 22 EURO), presente. Se abbiamo dimenticato tutto TRADUZIONE DI ALESSANDRO MARI, questo, se abbiamo perso quella possibilità SARÀ IN LIBRERIA DA MARTEDÌ di affidare alla musica i nostri sogni supremi, l’idea che alzando il ritmo del battito delle nostre ali si possa scoprire che dietro un orizzonte ce n’è sempre un altro, allora vale la pena rileggere la storia del “voodoo child”, nato dal fuoco e scomparso in un vortice. Dentro c’è un prezioso segreto da scoprire. Parola di Jimi Hendrix. © RIPRODUZIONE RISERVATA SICCOME NON MI DIMENAVO GRANCHÉ, DEI TIZI HANNO CERCATO DI CONVINCERMI A SUONARE LA CHITARRA DIETRO LA TESTA. L’IDEA DI SUONARLA COI DENTI MI È VENUTA IN UN POSTO IN TENNESSEE LAGGIÙ O SUONI COI DENTI O TI SPARANO. C’È UNA SCIA DI DENTI ROTTI SUL PALCO NON FACCIO NULLA DI ECCEZIONALE EPPURE “LIFE” E “TIME” D’IMPROVVISO SCRIVONO SU DI ME. MI ANALIZZANO. FATICANO A CAPIRE COSA MI SCORRA NELLE VENE VIVIAMO IN MONDI DIVERSI. IL MIO? FAME, BASSIFONDI E ODIO RAZZIALE Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 28 L’immagine. Differenziata Bicchieri di plastica, lattine, fustini, giocattoli. Trovati, raccolti riordinati e infine mostrati. A che scopo? Seguendo le tracce dell’arte e della letteratura un fotografo e uno scrittore spiegano perché dobbiamo guardare in faccia ciò che buttiamo FOTO BARRY ROSENTHAL Irifiuti BEPPE SEBASTE PASOLINI SCRISSE SULLO SCIOPERO DEGLI “SCOPINI” ROMANI: “SONO COME ANGELI SCESI SULLA TERRA” N EL GIUGNO 2010 andai in provincia di Napoli e Caserta per descrivere quello che gli abitanti chiamavano l’olocausto bianco dei rifiuti. Sporgendomi sulle voraginose discariche legalizzate e militarizzate dal governo di allora, guardando le distese di spaventose ecoballe che svettavano come megaliti nella campagna di pomodori e peschi inondata di percolato, mi sembrò che i rifiuti disegnassero una nuova, monumentale e grottesca frontiera del “sacro”. “Sacrare”, ricordava il filosofo Giorgio Agamben, significa separare dall’uso comune, così come il suo contrario, profanare, vuol dire restituire all’uso comune. Non solo i rifiuti, gli scarti, ma anche le “vite di scarto” dell’omonimo libro di Zygmunt Bauman rimanderebbero a questo orizzonte di senso. Ricordo che mi colpì, come se fosse il massimo dell’insensato e dello scabroso, un oggetto sfuggito a un’ecoballa, nudo e fuori contesto, un flacone di plastica bianca e azzurra con la scritta AMMORBIDENTE. Avevo già imparato che supermercati e discariche sono l’uno lo specchio dell’altro: non solo perché l’edificazione dei primi serviva a creare e coprire le seconde sotto un manto d’asfalto, e così via; ma perché sono fatte della stessa sostanza, nel costante di- venire scarti delle merci in vendita. È passata un’era dallo sciopero dei netturbini a Roma nel 1970, le cui condizioni di lavoro erano disumane, filmato da Pier Paolo Pasolini, che riprese volti e gesti degli spazzini all’alba, l’assemblea ai Mercati Generali, dedicando loro una poesia: «... oggi 24 Aprile 1970/ è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini è entrato nella storia, / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra…». In perfetta continuità col suo amore per gli umili, l’attenzione di Pasolini a quel rimosso sociale che coincideva col «basso materialismo» di Georges Bataille anticipava la celebre frase di Bauman: «I raccoglitori d’immondizie sono gli eroi non celebrati della modernità». Da allora la letteratura e l’arte non hanno cessato di misurarsi col variegato mondo dei rifiuti. Tra i pettegolezzi della garbology, l’arte di frugare nella spazzatura dei famosi, e le grandi questioni ecologico-ambientali, si trattava di dare il tu ai rifiuti, di guardare in faccia le cose che buttiamo via, da Michel Tournier (Le Meteore) a Don DeLillo (Underworld), passando per Italo Calvino, Paul Auster e tanti altri. Se il tema degli scarti è oggi onnipresente grazie alle estetiche del riciclo, la condizione ontologica di separatezza dei rifiuti e la sua relazione con l’arte fu indagata forse per la prima volta da una mostra al Mart di Rovereto, a cura di Lea Vergine come l’omonimo libro: Quando i rifiuti diventano arte. TRASH rubbish mongo (Skira 2006). Quanto al problema della plastica, e a parte l’industria e il design del riuso, neanche qui manca la poesia — dalle drammatiche pla- Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 29 LE OPERE ALCUNI LAVORI DI BARRY ROSENTHAL REALIZZATI CON OGGETTI TROVATI PER STRADA O SULLA SPIAGGIA. DA SINISTRA: “SCARPE”; “BOTTIGLIE DI VETRO E BARATTOLI”, “FORCHETTE, COLTELLI E CUCCHIAI”. SOTTO, DA SINISTRA, “OLIO, ALCOL E DROGHE”, “GRIGLIA”, “NESSUN PUNTO DI FUGA” (RIFERITO ALL’USO DELLA PROSPETTIVA IN QUESTA COMPOSIZIONE) E “OCEANO BLU” della società stiche bruciate di Alberto Burri, in polemica col piano Marshall e l’inizio dell’americanizzazione delle nostre vite, allo struggente sacchetto di cellophane che danza nel vento in American beauty. Ci sono poi i rifiuti “naturali”, oggetti smarriti il cui eteroclita repertorio è espresso in lingua tedesca da una parola bella e strana, Strandgut. I dizionari traducono “relitti”, ma significa esattamente i beni o le cose che il mare lascia sulla spiaggia (strand), quelle che tutti contempliamo passeggiando lungo il mare d’inverno, con cui i bambini giocano da sempre costruendo capanne e altri sogni: pezzi di legno o di tronchi, alghe, conchiglie, pezzi di barca, lattine, bottiglie, oltre che, ancora, tanta plastica. Quegli oggetti ci raccontano storie, spiegava la poetessa tedesca Eva Taylor, e non a caso tanti artisti li raccolgono per inserirli nelle loro opere. Uno di essi è il newyorchese Barry Rosenthal, scultore e fotografo degli oggetti trovati che si vedono in queste pagine. Confesso di avere trovato kitsch il suo tentativo di redimere rifiuti disponendoli in file ordinate, come fanno i bambini con le conchiglie o i maccheroni. Più che salvare il trash delle cose buttate via, mi sembrava che lo producesse, rimuovendone ogni implicazione tragica. Ma Rosenthal mi ha spiegato che un’evoluzione c’è stata nei suoi allestimenti: se prima disponeva gli oggetti in modo sistematico e ordinato, è subentrato un gusto per l’affollamento e la densità, un’apertura al caos e all’incompiutezza. Cerca di comunicare la sensazione che gli danno le cose che trova nell’acqua — bicchieri e po- sate di plastica, flaconi di medicine, cannucce colorate, palle da tennis — e stabilire tra loro delle relazioni. Non pretende suggerire comportamenti virtuosi né aprire le coscienze, ma solo «portare alla luce» le cose anonime che buttiamo via. Gli oggetti senza più contesto né appartenenza sono pur sempre simboli di una deriva, ed è difficile per noi separare le installazioni degli artisti — abiti dismessi o altri oggetti separati e orfani di un uso — senza pensare alle montagne di occhiali o di scarpe tramandatici dall’iconografia di Auschwitz. Quanto agli oggetti portati dalle onde, che siano nel Mediterraneo o nel porto di New York dove va su e giù Barry Rosenthal, è il mare a conferire loro il pathos avventuroso di un messaggio nella bottiglia. La loro versione più tragica la vidi negli oggetti sommersi e poi salvati dal mare di Ustica, dopo l’inabissamento dell’aereo colpito da un missile il 27 giugno 1980. Prima di stipare quegli oggetti strazianti, irriducibili a un’estetica, dentro casse nere, e sottrarli allo sguardo, li elencai con l’artista Christian Boltanski in un piccolo libro fatto dal Museo per la Memoria delle vittime di Ustica a Bologna. Che i rifiuti siano specchio del mondo, come il cielo lo è della terra, lo mostrò ancora una volta Pasolini nel 1967 nel film Che cosa sono le nuvole? Nell’ultima scena Totò e Ninetto Davoli, attori-marionette buttati dal camion della spazzatura in una discarica, semisepolti dall’immondizia, rifiuti tra i rifiuti, vedono per la prima volta le nuvole informi nel cielo azzurro. «Che cosa sono?» Ninetto ride di stupore, Totò beato le contempla: «Ah, straziante e meravigliosa bellezza del creato!». BAUMAN “I RACCOGLITORI D’IMMONDIZIE SONO GLI EROI NON CELEBRATI DELLA MODERNITÀ” © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 30 La storia. I migliori ICORDO BENE la sera che il Bocca, tornato da Roma, sedette a R tavola e, gli occhi sul piatto, annunciò: «Ho firmato il contratto per una biografia di Togliatti». Esplosi: «Sei pazzo!». Erano gli anni che, lasciato l’insegnamento, aiutavo il Bocca per i suoi libri. L’accordo era che io facevo di tutto e i progetti si facevano assieme. Ma ora lui si serviva, agguantava la forchetta, cominciava a mangiare e io, immobile, in piedi, strillavo i motivi per cui l’impresa era impossibile. «Noi due, a vedercela con due guerre mondiali, SILVIA GIACOMONI e la guerra di Spagna, e la Terza Internazionale, e Stalin, porca miseria! Come fai, sempre in giro per Il Giorno, a scrivere la biografia di Togliatti! Ci saranno mille libri da leggere, mille vecchi da intervistare! E gli archivi! Hai idea di cosa sia, il lavoro d’archivio, per uno come Togliatti?». Masticando lentamente, il Bocca mangiava. Sul volto, l’espressione concentrata di chi non ascolta. Fece un gesto con la destra, a cacciar via le mie obiezioni come una mosca. Quindi, le posate strette nei pugni, diritte: «Agli archivi ci pensi tu». i eravamo conosciuti nel ‘65, quando lavorava alla Storia della guerra partigiana, quindi sapevo benissimo come il Bocca scriveva i suoi libri. Andava dal cartolaio e comprava venti cartellette arancioni, le numerava e ci scriveva sopra, illeggibili, i titoli dei capitoli. Poi iniziava la raccolta del materiale: ritagli di giornale, sunti e citazioni da articoli e libri, appunti di interviste, fotocopie di testi d’ogni genere. Il materiale raccolto veniva sistemato nella cartelletta appropriata. Quando una cartelletta gli appariva abbastanza gonfia, la prendeva, esaminava il materiale e faceva la prima stesura di quel capitolo. Quando tutti i capitoli erano scritti, cominciava la seconda stesura, quindi passava alla revisione. Sovente, anziché ricopiare dei passi, li tagliava da un foglio incollandoli con lo scotch sul foglio pulito, e pazienza se il nome dell’autore del testo andava perduto. I suoi manoscritti erano patchwork bizzarri che inducevano alla disperazione i redattori della casa editrice Laterza. Ma questa era la sua ricetta, e ancora ricordo la stupefazione di Antonio Cederna la sera che — eravamo a Ponte in Valtellina — il Bocca gliela espose. Succedeva sempre così, con gli amici intellettuali. Non si capacitavano che libri tanto belli, e a volte importanti, fossero il frutto di una tecnica così elementare. Ignoravano — lui non ne parlava C mai — il grande lavoro sugli autori e sulla lingua che — perfetto autodidatta — era andato facendo instancabilmente per anni. Da parte mia, ero impressionata dalla quantità di lavoro che, robustissimo, riusciva a smaltire, passando da un articolo a un libro, dai campi di sci alla cucina alla scrivania. Aveva il fisico dell’atleta, e un orecchio finissimo per la lingua, e anche per la musica; aveva occhio per la pittura, ma di queste cose non amava parlare; anzi, ostentava nei loro confronti un gran disinteresse. Certo, lui si mascherava, ma veramente gli interessavano solo i fatti, gli eventi, le idee su cui si sentiva di poter intervenire da protagonista. IL LIBRO “TOGLIATTI” DI GIORGIO BOCCA (FELTRINELLI, 656 PAGINE, 22 EURO) CON PREFAZIONE DI LUCIANO CANFORA SARÀ IN LIBRERIA DA MERCOLEDÌ 9 LUGLIO. È UNA RIEDIZIONE, A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE, DELLA BIOGRAFIA DEL LEADER COMUNISTA. USCÌ PER LA PRIMA VOLTA PER LATERZA NEL 1973. NELLA PAGINA ACCANTO NE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO N el mio spavento per l’impresa Togliatti giocava anche questo. I suoi precedenti libri di storia patria erano stati accolti dagli intellettuali e dagli storici di professione con grande freddezza. Giorgio Bocca era un giornalista, non si poneva nessuna questione di metodo, scriveva di cose che aveva vissuto, metteva sullo stesso piano fonti d’archivio e fonti orali: un disastro. E ora sfidava la pletora degli storici del Pci, una congrega ancora più numerosa di quella degli architetti socialisti! Ne avremmo sentite delle belle! Chi ci avrebbe aiutato? L’indomani il Bocca andò dal cartolaio e numerò venti cartellette. Lo trovai che passava in rassegna gli scaffali. Dissi: «Comincio da Pillo». Era il soprannome di un grande amico, Paolo Spriano, lo storico del Partito che era stato, giovanissimo, partigiano di Giustizia e Libertà. Era l’aiuto che occorreva a me. Leggevo, segnavo le pagine da fotocopiare, sunteggiavo e ben presto mi sentii in sella. Il Partito era, nel campo storico, doppio come in tutto il resto, e a fronte degli intellettualini bravi a strillare nutriva i tipi come Pillo. Il quale indicava nelle note le fonti per la ricostruzione dei fatti che l’autocensura piciista gli impediva di raccontare diffusamente. Presa nota delle sue note, me ne andavo tranquilla in via Andegari e passavo meravigliose mezze giornate col naso nelle riviste e gli archivi dell’Istituto Feltrinelli. Arrivavo a una ricostruzione più estesa e veritiera dei singoli accadimenti. Ma quelle verità erano scritte in una lingua che non conoscevo, stese in un gergo ideologico e burocratico, una langue russe il cui senso profondo poteva essere svelato solo da chi, quella lingua, aveva collaborato a costruire, aveva parlato e subìto. Ecco perché la divisione dei compiti — lui i testimoni, io i documenti — risultava impraticabile. Le “verità” dei documenti andavano vagliate dai testimoni. Le “verità” dei testimoni rendevano urgenti altre ricerche. I risultati dei due lavori andavano costantemente incrociati perché non restassero privi di senso. Quando il Bocca Q incontrò Togliatti uando il Bocca tornava dai suoi servizi per Il Giorno a Torino, a Palermo o a Parigi e infilava nelle cartellette arancioni il frutto dei suoi colloqui coi testimoni agganciati in quelle città, ci trovava gli appunti delle mie letture e dei documenti di archivio. E iniziava il confronto, la discussione scatenata dalla difficoltà dell’impresa investigativa, dal fermo proposito autoriale di ricostruire la misteriosa vicenda del comunismo italiano in tutti i suoi agganci con la grande storia del Novecento vista da Mosca: individuando, a ogni snodo, la parte che ci aveva avuto “il Migliore”. A volte accompagnavo il Bocca a parlare con i testimoni. Le donne e gli uomini della Terza Internazionale, della clandestinità, l’esilio, le guerre, sopravvissuti alle lotte, la galera, la tortura, le purghe, al terrore, a ogni genere di contrasto e prevaricazione, ci accoglievano, sorridenti o severi, nelle loro semplicissime case, specchio deformante di individualità ultra complesse. Emarginati dal partito, coglievano volentieri l’oc- LA COPPIA GIORGIO BOCCA E LA MOGLIE SILVIA GIACOMONI AUTRICE DI QUESTO ARTICOLO A cinquant’anni dalla morte del leader comunista viene ripubblicata la biografia scritta dal grande giornalista. Lo aiutò una persona molto speciale Che qui svela i retroscena di “un’impresa folle” Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 31 I PROTAGONISTI Non me ne sono innamorato gli ho solo dato ciò che meritava IL GIORNALISTA E SCRITTORE GIORGIO BOCCA (1920-2011) E IL SEGRETARIO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO PALMIRO TOGLIATTI (1893-1964) GIORGIO BOCCA E È LECITO un confronto con i grandi personaggi risorgimentali, direi che il più simile a Togliatti mi pare Cavour, non solo perché entrambi sono torinesi, piemontesi non solo per l’anagrafe, ma perché lo sono stati come cultura, come formazione; perché entrambi sono stati sovversivi d’ordine, creatori o ricercatori di ordini nuovi che riproducessero, migliorandolo, il vecchio. Il Togliatti di sempre, di fondo, come il Cavour di sempre e di fondo è quello della scuola ben fatta, della cultura seria, dei vecchi valori dell’onestà, del lavoro, della tenacia; più un gusto, un orgoglio aristocratico di chi appartiene a una élite. Perché Togliatti è stato un personaggio di importanza mondiale? Perché ha svolto nello stalinismo, per Stalin, la stessa funzione che i grandi monaci umanisti svolsero presso i re franchi, Carlomagno in particolare, o longobardi: tradurre la forza della loro barbarie e delle loro armi in nuova cultura, in nuovo jure, almeno formale, ecco, nel dare una forma alla forza bruta. Togliatti fu anche chiamato il giurista del Komintern non tanto perché avesse il compito di dare una parvenza legale alle purghe e ai processi dei comunisti europei, o fosse un furbo abile azzeccagarbugli, ma perché sentiva la necessità, e la comunicava a Stalin, di forme civili per il comunismo. (...) Uno dei misteri della vicenda Togliatti è la sua popolarità che si manifestò in modi impressionanti per i suoi funerali con milioni di persone in vero autentico lutto e che già si era rivelata quando fu vittima dell’attentato di Pallante. Come era possibile che fosse così amato dalla gente un uomo così schivo, superbo, scostante, elitario? Uno che alla Camera o nella sede del partito se si avvicinava un compagno sconosciuto o non facente parte del sinedrio smetteva di parlare e con lo sguardo gelido gli ordinava di allontanarsi? Uno che non aveva alcuna vita sociale, conviviale con i compagni? Uno che quando scriveva sull’Unità aveva il tono del professore insofferente degli errori altrui? Difficile rispondere. Forse fu il mito della guerra e dell’antifascismo, il mito di quel capo misterioso, Ercoli, che doveva arrivare dalla Russia e che avrebbe posto riparo a tutte le ingiustizie italiche; forse l’altro mito, di tipo staliniano, del capo onnipotente, rispettato e temuto; o forse più semplicemente il riconoscimento anche da parte degli avversari che era un uomo di qualità, un intellettuale, uno che aveva il sentimento tragico della storia; non un avventuriero o un opportunista. (...). Dicono che i biografi si innamorino sempre un po’ del loro personaggio. Io di Togliatti non mi sono innamorato, ma gli ho reso i meriti che aveva. (da Togliatti, di Giorgio Bocca, Feltrinelli) S casione di fare i conti col Migliore e, data l’età e la situazione, a volte parevano disposti persino a fare un po’ di conti pure con se stessi. Apparenza ingannevole. Ciascuno era un caso a sé, ma in comune avevano la granitica certezza che, se erano sopravvissuti a tanto, era perché in quella o l’altra occasione si erano comportati a quel modo, avevano pronunciato quelle parole, avevano taciuto quel fatto. Da qui la loro memoria di ferro. A Roma, Umberto Terracini ci ricevette in Senato. Pietro Secchia in uno studio arredato con dei confessionali; Camilla Ravera in un appartamentino da vecchia maestra; Giuseppe Berti in un elegante soggiorno; il figlio di Franco Rodano ci chiese, sprezzante, perché non scrivessimo di Angelo Tasca — il primo a denunciare il terrore — anziché di Togliatti. A Torino scovammo Andrea Viglongo (l’editore di Salgari) in una villetta sommersa dai libri. Nella casa triestina di Vittorio Vidali era ospite la figlia di Cesare Battisti. Da alcune di quelle dimore uscimmo immalinconiti o scocciati. Ma generalmente il Bocca poteva tranquillo sedere sulla seggiola, o sulla poltroncina che gli erano state offerte e rilassato, il busto un po’ piegato in avanti, parlare in tutta fiducia con chi gli stava di fronte. A veva fiducia, fondamentalmente, in se stesso, nella propria capacità — empatica — di entrare nel mondo degli altri e discernere, nel groviglio di quelle vite, i fili che portavano a Togliatti. Era, il suo, il ruolo del giudice istruttore. Anni dopo, parlando del giudice Falcone, il Bocca ammirato diceva: «Un vero mafioso!» per dire che solo chi conosce perfettamente il modo di pensare dei mafiosi è in grado di combatterli. E io, ripensando a quelle ore nelle case degli uomini della Terza Internazionale, ridacchiavo pensando di lui: «Il vero rivoluzionario di professione!». Era un lavoro intenso, stupendo, che invadeva la nostra vita. In studio, in auto, in spiaggia, in cucina: non parlavamo che di Bordiga e Bucharin, di Tasca e Kamenev, della Noce e Humbert Droz, e di lui, soprattutto di lui, il Migliore, Ercoli, Palmi, in tutte le declinazioni. Le cartellette ingrassavano, molte figliarono due o tre altri capitoli, su fatti e problemi non preventivati. Le risse, fra noi, erano all’ordine del giorno: entrambi sentivamo il bisogno di riaffermare la nostra identità, in una situazione di intesa troppo intima e tesa. Il Bocca scrisse il capitolo sul socialfascismo, quindi partì per non so più per che servizio. Io trovai nel Fondo Tasca, all’Istituto Feltrinelli, una serie di documenti che ne davano uno sfondo più ampio. Quando lui rientrò, e scoprì che avrebbe dovuto rifare quella fatica, quasi mi uccise. Ho riletto il capitolo incriminato, titolato “La resa a Stalin”. Anzi, l’ho divorato come un giallo appassionante. Avevo dimenticato tutto, tranne la frase con cui il compagno Kuusinen commentò la terribile vicenda: Togliatti — disse — “a dejà joliment appris la langue russe”. P enso di aver dimenticato tutto, o quasi, di questo libro perché mi costò una fatica spropositata. Non per quanto riguardò la pur faticosa ricerca, ma per quanto significava svolgerla con occhi non miei. Natalia Aspesi mi avrebbe poi sgridata perché non avevo chiesto la firma: francamente, la cosa non mi passò per la testa. Studiavo, mi appassionavo, leggevo e correggevo i capitoli nelle varie stesure, ma mi era chiaro che quello era il libro del Bocca, frutto di un bisogno tutto suo. Quando il lavoro fu terminato, fui contenta che le mie previsioni fossero state contraddette, ma avevo una gran voglia di rileggere Pinocchio e le Operette Morali. (Non avevo ancora scoperto la Bibbia). Lessi la prima stesura della nota al testo in cui Bocca, ringraziandomi per la collaborazione, parlava del libro come del nostro “figlio di carta”. Mi parve troppo. LA FOLLA NELLA FOTOGRAFIA I FUNERALI DI PALMIRO TOGLIATTI, IL 25 AGOSTO 1964, A ROMA Il desiderio di staccarmi dall’opera non mi impedì di condividere le emozioni di Giorgio mentre si manifestavano le reazioni funeste del partito alla pubblicazione — l’intervista dell’isterico Giancarlo Pajetta su Tempo illustrato, la stroncatura di Luciano Gruppi su Rinascita — anche se mi parevano scontate. Alle presentazioni del libro mi tenevo defilata. Solo a Bari — il Bocca era raffreddato — toccò a me di parlare al suo posto. Sempre a Bari, tanti anni dopo, mi toccò nuovamente quell’onore, quando, grazie a Luciano Canfora, mio marito fu insignito della laurea in storia honoris causa. Ma la partita coi comunisti italiani era già stata chiusa quando il libro era stato messo in vendita, a buon prezzo, in edicola, per i lettori dell’Unità. L a sera che il Bocca, tornato da Roma, mi annunciò il contratto per una biografia di Togliatti, fui tanto angosciata che non gli domandai da chi era venuta l’idea. Mi sono posta il problema solo quando Gianluca Foglia mi ha chiesto una testimonianza per questa edizione Feltrinelli. Ho allora telefonato a Donato Barbone, che in quegli anni era direttore editoriale della Laterza, perché m’è sembrato probabile che la proposta fosse venuta da lui, e volevo sapere in base a quali indizi si fosse messo in testa che il Bocca era adatto all’impresa. Donato mi ha detto che no, l’idea non era stata sua. «Di Vito Laterza?» ho chiesto io, stupefatta. «Nemmeno» ha detto Donato. «Non sono sicuro, ma penso che Vito abbia accolto con molto entusiasmo un’idea proposta timidamente da Giorgio, un’idea che in lui maturava da anni». «Ma tu — lo ho incalzato sentendo rinascere in me l’antico spavento — quando ti ha detto la cosa, come hai reagito?». «Come te» ha risposto Donato. «Gli ho domandato come pensava lui, sempre in giro per il Giorno, di affrontare gli archivi. E Giorgio — al telefono ho sentito un risolino — mi ha detto che ci avresti pensato tu. È stata la prima volta che ti ho sentita nominare». Q uel giorno è venuto a pranzo mio nipote Luca, sedici anni. Gli ho raccontato questa storia e l’ho conclusa dicendo: «Vedi che tipo era tuo nonno? Mi ha messa davanti a un fatto compiuto!» E lui: «Il modo migliore per non sentirsi dire di no». Dato che si parlava del nonno, Luca mi ha detto che gli è molto piaciuto il capitolo del Provinciale in cui parla della vita di famiglia. Allora ho aperto anch’io una copia del Provinciale, ma al capitolo “Viaggio per il comunismo”. Inizia così: “Avevo scritto per Laterza la storia della guerra fascista e della guerra partigiana. Mi mancava però la faccia nascosta, quei comunisti rispuntati l’8 settembre come da una cantina segreta della casa comune”. Sono risalita al capitolo sulla guerra partigiana, titolato “La guerra di casa” e ho trovato il primo incontro del comandante Giorgio coi comunisti: «In Varaita i garibaldini erano arrivati prima di noi, occupavano già il versante sinistro della valle, noi ci sistemammo sul destro e Sampeyre fu la capitale di entrambi. Noi dei comandi ci trovavamo a cena al Leon d’oro, il ristorante sulla piazza, a tavola assieme ad Ezio, il commissario politico, emiliano, comunista, gran brav’uomo, e a Medici, il comandante militare: risotto ai funghi e le risate di Ezio, da Rigoletto che arrivassero anche nel loggione, quando io attaccavo con la libertà e lui tirava fuori dal suo povero ma convinto armamentario ideologico “ma sì, e tu dagli da mangiare la libertà alla gente e vedrai, noi gli daremo la libertà dal bisogno, mio bel Giorgino”». Dunque, come tutte le cose del Bocca, anche questo Togliatti ha radici autobiografiche; come tutte le sue migliori, ha le sue fondamenta nella lotta partigiana. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA “Ai suoi funerali milioni di persone in vero autentico lutto. Un mistero: come era possibile che fosse così amato dalla gente un uomo tanto schivo, superbo, scostante, elitario?” Repubblica Nazionale 2014-07-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 32 Spettacoli. Remake FOTO NICOLAS GUERIN/CONTOUR BY GETTY IMAGES Roman Polanski Il mio caso Dreyfus Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 33 Il regista girerà un film sull’“affaire”. Qui ne parla con lo scrittore (Robert Harris)che gli ha suggerito come fare: “Trasformalo in un thriller” M ENTRE LA RICERCA storica tende a riabilitare la figura di Alfred Dreyfus, Roman Polanski ha scelto di raccontare l’affaire dal punto di vista di Georges Picquart, l’uomo che appurò la colpevolezza di Esterházy e l’innocenza del capitano. Perché privilegiare questa figura? Forse la risposta sta nel fatto che Picquart non fosse né ebreo (era anzi vagamente antisemita) né politicamente impegnato (se si eccettua il suo anticlericalismo)? ROMAN POLANSKI «C’è un’espressione usata in inglese, whistle-blower, che indica le persone che lanciano l’allarme, per intederci gente come Edward Snowden. È un argomento questo che mi interessa da molto tempo. Sono almeno dieci anni che cerco di fare un film su questo tema, ma non riuscivo a vedere un modo per adattarlo efficacemente su Dreyfus. Per diverse ragioni. La prima è che come eroe Dreyfus non è molto interessante. Non era né particolarmente seducente né particolarmente simpatico, anche secondo il giudizio delle stesse persone che lo sostenevano. La seconda ragione, ed è la più importante, è che trascorse il grosso del periodo che ci interessa su un’isola deserta, l’Isola del Diavolo, e che per molto tempo veniva incatenato al letto quando dormiva. Insomma, non riuscivo a trovare un modo per affrontare degnamente il soggetto. Poi Robert Harris ha avuto l’idea geniale di adottare il punto di vista dell’uomo che, come sappiamo, è stato quello che lo ha scagionato. Miracolosamente il libro di Robert (L’ufficiale e la spia, in Italia pubblicato quest’anno da Mondadori, ndt)offre tutta la struttura di un film. Attraverso Picquart, il nostro racconto poteva prendere le tinte di un film giallo, addirittura di un thriller. Con lui, con Picquart, c’è quello che a Hollywood chiamano l’arch». ROBERT HARRIS «Un cliché tipico di Hollywood vuole in effetti che il personaggio cambi nel corso della trama, durante le due ore del film. È chiamato the arch of development, ovvero l’arco narrativo, la curva che ogni trama deve seguire. A Hollywood Picquart sarebbe diventato naturalmente un filosemita. Mentre la realtà è più sfumata. Nella realtà Picquart non cambiò granché, ma era un uomo dotato di un grande senso morale, posseduto dal dovere, dall’onore, e questo lo ha reso interessante ai nostri occhi. Era una figura complessa, non necessariamente molto simpatica, ma davvero notevole. Cambiò veramente opinione sugli ebrei? Secondo me riteneva che l’errore giudiziario fosse qualcosa di assai più grave di un crimine. E valutava molto semplicemente che il suo onore era assolutamente incompatibile con il fatto di lasciare un colpevole in libertà mentre un innocente veniva punito al suo posto. Per l’esercito francese sarebbe stato un disastro. La dimensione politica dello scandalo venne solo dopo. In prima battuta la storia di Dreyfus era una storia di spionaggio; in seconda battuta un fallimento della giustizia; solo in terza battuta diventò una questione politica. Per creare qualcosa sei obbligato a scegliere». ROBERT HARRIS «Il caso Dreyfus ha largamente ispirato la letteratura, sia quella “alta” che il romanzo popolare. Personalmente per documentarmi mi sono letto Proust e parecchio Zola, ma non tutti gli altri. E ciò che più mi ha affascinato nell’affaire sono gli elementi legati a una modernità ancora in embrione. Ogni giorno venivano spediti a New York telegrammi da seicento parole per informare il pubblico americano degli ultimi sviluppi. Il fatto che fosse stato possibile riprodurre la lettera (il principale documento a carico di Dreyfus, pubblicato da Le Matin nel 1896, ndt) sulla prima pagina di altri giornali, grazie a nuove tecniche di facsimile, è uno degli elementi che spiegano come avesse fatto lo scandalo ad assumere queste dimensioni. Vent’anni prima non sarebbe stato possibile. Si può dire che sia stato il primo evento mediatico globale. La regina Vittoria inviò il presidente della Corte suprema inglese ad assistere al processo. Beh, affascinante». 1894, L’UFFICIALE EBREO ALSAZIANO È RICONOSCIUTO COLPEVOLE DI ALTO TRADIMENTO, DEGRADATO E CONDANNATO AI LAVORI FORZATI GEORGES PICQUART ROMAN POLANSKI «Io non ricordo esattamente cosa sia stato a far scattare in me l’interesse per questa storia. Penso di essere stato molto influenzato anche dal film di Carol Reed, Fuggiasco (1947, racconta di una caccia all’uomo contro un nazionalista irlandese per le strade di Belfast, ndt). Sono questi i tipi di personaggi che mi interessano. E una volta individuati amo raccontare la loro storia dal loro reale punto di vista, con tutto il rigore che ciò possa richiedere: spesso, quando si comincia a lavorare a questo genere di storie, si è tentati di far dire al vostro eroe qualcosa di interessante anche se non fa parte della sua storia. Beh, bisogna invece essere capaci di mantenere una certa disciplina. Comunque, tornando a noi, la molla che mi ha spinto verso Dreyfus dev’essere scattata in me una decina d’anni fa, poco dopo Il pianista. Volevo che il mio prossimo film avesse un senso al di là del puro divertissement. Quanto al modo in cui mi sono documentato mi piacerebbe rispondere come Billy Wilder fece con Volker Schlöndorff in un documentario che quest’ultimo aveva girato su di lui. «Signor Wilder», gli chiede Schlöndorff, «lei si scrive da solo tutte le sceneggiature. Ritiene che un regista debba saper scrivere?». E Billy Wilder risponde: «No, no, ma deve almeno saper leggere». Sul caso Dreyfus ho letto una quantità di libri incredibile, solo che alla fine non trovavo la maniera di raccontare la storia. Almeno fino a che non è arrivato Robert con la sua idea di Picquart. Come tutti i registi ricevo molte sceneggiature. Ma non mi è mai capitato di leggere un copione che mi facesse dire: «Voglio assolutamente farlo». Solo con Chinatown è successo. Le sceneggiature, in realtà, sono soltanto delle “istruzioni per l’uso”, no? Con il libro di Robert invece è stato pazzesco. Un approccio formidabile. Purtroppo in un film non si può essere sfumati come in un libro. È un medium differente. Non si può raccontare la storia nello stesso modo in cui la si racconta in un romanzo. Forse solo le serie televisive possono avvicinarsi alla letteratura. Ci sono delle scene a cui abbiamo dovuto rinunciare. In compenso, certi episodi (penso al processo, o alla degradazione) sono eventi molto visivi, che si prestano perfettamente a un adattamento cinematografico». A New York il pubblico attendeva avidamente notizie da Parigi Si può dire che sia stato il primo evento mediatico globale ROBERT HARRIS «Sì, prendiamo proprio la cerimonia della degradazione, 5 gennaio 1895. Una scena che ha cambiato il corso della storia mondiale. Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, era tra la folla e fu da quel momento che pensò che il popolo ebraico doveva avere un suo Stato. La degradazione di Dreyfus rappresentò un punto di svolta». ROMAN POLANSKI «Lavorando a questo progetto mi sono reso conto che quando cominci a chiedere alle persone che cosa conoscono dell’affaire Dreyfus, scopri che ne sanno davvero poco o nulla, anche quelle istruite. Quando dico che farò un film sull’affare Dreyfus mi dicono che è una cosa fantastica, che sarà interessantissimo, e basta… La gente ignora che i francesi bruciavano per strada i libri di Zola insieme a L’Aurore (il giornale che aveva pubblicato il famoso J’accuse dello scrittore, ndt). In buona sostanza non sa che quello scandalo ha letteralmente cambiato la storia della Francia. Non ricorda che all’epoca in cui Zola scrisse il J’accuse, gran parte dell’opinione pubblica gli era ostile». ALFRED DREYFUS IL COLONNELLO SCOPRE IL VERO COLPEVOLE. NEL 1896 FA RIAPRIRE IL CASO MA VIENE RIMOSSO DALL’INCARICO EMILE ZOLA IL 13 GENNAIO 1898 “L’AURORE” PUBBLICA L’EDITORIALE DELLO SCRITTORE PRO DREYFUS CON IL TITOLO “J’ACCUSE” ROBERT HARRIS LO SCRITTORE INGLESE RACCONTA DI PICQUART NEL SUO ULTIMO ROMANZO “L’UFFICIALE E LA SPIA” (MONDADORI 2014) ROMAN POLANSKI «La Cour des Invalides, dove ebbe luogo, oggi è inutilizzabile per i nostri scopi. C’è il prato, è pavimentata, mentre a quell’epoca non lo era: dovremo ricorrere a degli effetti speciali. Vedremo. Comunque c’è tempo. Dobbiamo ancora cominciare a girare. Il film non sarà pronto prima del gennaio 2016». LA SCENA IL 5 GENNAIO 1895 DREYFUS VIENE DEGRADATO CON UNA PUBBLICA CERIMONIA ALL’INTERNO DELLA COUR DES INVALIDES. “INSIEME AL PROCESSO È UNO DEGLI EVENTI PIÙ CINEMATOGRAFICI DI TUTTA LA STORIA” RACCONTA IL REGISTA CERTO, UN FILM NON PUÒ AVERE TUTTE LE SFUMATURE DI UN ROMANZO. FORSE SOLO ALCUNI TELEFILM POSSONO AVVICINARSI ALLA LETTERATURA. MA IN QUESTA STORIA CI SONO ALMENO UN PAIO DI EPISODI CHE SEMBRANO FATTI PER IL CINEMA POLANSKI PICQUART È UNA FIGURA PIÙ COMPLESSA DELLO STESSO DREYFUS. NON GLI INTERESSAVA TANTO LA QUESTIONE POLITICA LEGATA ALL’ANTISEMITISMO RITENEVA SEMPLICEMENTE CHE L’ERRORE GIUDIZIARIO FOSSE PIÙ GRAVE DI UN CRIMINE HARRIS © 2014 Le Monde (Testo raccolto da Nicolas Weill Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA MI SONO RESO CONTO DI QUANTO IN REALTÀ LA GENTE SAPPIA POCO DI QUESTA VICENDA, ANCHE QUELLI PIÙ ISTRUITI. VOGLIO DIRE: I FRANCESI BRUCIAVANO PER STRADA I LIBRI DI ZOLA, È UN CASO CHE HA CAMBIATO PER SEMPRE QUESTO PAESE POLANSKI Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 34 Next.Eureka C’è chi sostiene che le scoperte più innovative siano ormai alle nostre spalle. Siamo andati al meeting annuale di Berlino per capire se è vero RICCARDO STAGLIANÒ N BERLINO ELLA VENEZIA DEL XVsecolo i vetrai di Murano pretendevano di dormire sonni tranquilli. Se una bottega inventava un nuovo sistema per soffiare il vetro non voleva che il primo arrivato glielo copiasse. Così presero a comunicare le loro innovazioni al Doge, che a sua volta emanava un decreto per proteggerle per dieci anni. Il sistema moderno dei brevetti nasce allora, ricorda il portavoce dell’European Patent Office, in un’algida stanzetta del Quadriga Forum di Berlino. È l’unica slide della sua presentazione in cui gli italiani fanno una bella figura. Nella torta sui maggiori produttori di brevetti, occupata per il 37 per cento dalla Germania, il nostro Paese non è pervenuto. Ci spartiamo le briciole nella miscellanea “other countries”. E non rientriamo nemmeno nella top 20 di chi produce più innovazione per milione di abitanti, che ha la Svizzera in testa. Per non infierire troppo il relatore omaggia il vicentino Federico Faggin, papà del primo microchip commerciale, il mattoncino di silicio che ha dato il via all’informatica moderna. Che però è dovuto emigrare nella Silicon Valley per far realizzare la sua rivoluzionaria intuizione. «Le idee, senza la loro esecuzione, sono allucinazioni» è una frase attribuita, forse apocrifamente, a Thomas Edison. Qualunque imprenditore concorderebbe. Servono soldi per la ri- cerca. Laboratori funzionanti. E una cultura che tolga lo stigma dal fallimento, considerandolo invece la cicatrice necessaria di chi è caduto cercando di correre più forte di altri. Che Roma abbia dimezzato l’uno per cento che investiva in ricerca nel 2005 e Berlino, che partiva dal tre per cento, ci abbia messo sopra altri 13 miliardi, la dice lunga sul perché dal Fraunhofer Institute che ci fanno visitare siano usciti, per stare agli ultimi anni, il formato di compressione dell’audio mp3 (che però è stato creato anche con il contributo di un altro italiano, l’ingegnere Leonardo Chiariglione) e il Voip, la telefonia via Internet. Ma nonostante il contesto attuale cerchi di mettere tutti i bastoni possibili tra le ruote degli innovatori italiani, finalista dell’European Inventor Award, che quest’anno si è celebrato proprio nella capitale tedesca, è Luigi Cassar. Per Italcementi ha inventato il cemento che non si sporca e addirittura assorbe lo smog, contribuendo all’abbattimento dell’inquinamento urbano. Investimenti nella ricerca o meno, c’è comunque chi pensa che le invenzioni più importanti le abbiamo ormai alle spalle. Sostiene infatti l’economista americano Robert Gordon che l’iPad non è il transistor e che la crescita economica di cui gli Stati Uniti hanno goduto per più di un secolo si è fermata anche per questo motivo. In attesa di scoprire se la teoria di Gordon sia corretta oppure no, a Berlino tre, tra gli inventori premiati (la lista completa su www.epo.org), li abbiamo voluti incontrare ugualmente. Perché comunque andranno le cose domani hanno intravisto ieri il next in cui viviamo oggi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Alla fiera delle invenzioni Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 35 QR Code “Adesso siamo pronti per un codice più sicuro” UANDO l’interprete Q INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI MASAHIRO HARA COL SUO TEAM HA DIFFUSO GRATIS IL QR CODE GUADAGNANDO SOLDI DAI LETTORI chiede a Masahiro Hara (premio popolare a Berlino) se si è pentito di non aver fatto pagare la licenza per usare l’evoluzione del QR Code, scoppia a ridere in singulti. «Abbiamo scelto di stampare il QR Code su carta perché volevamo che fosse il più diffuso possibile. Se avessimo preteso una licenza avremmo ottenuto l’effetto contrario. E poi noi i soldi volevamo farli con i lettori». Però ora che qualsiasi smartphone può decrittare quei quadratini che contengono informazioni incomprensibili a occhio umano Hara e il suo team si devono inventare altro. Tipo? «Un QR sicuro. Perché ci siamo resi conto che c’è chi contraffà il codice per spedire chi lo legge in siti che non hanno niente a che vedere con l’indirizzo originario. Il QR sicuro sarà immune da questi rischi». Stampante 3D “La brevettai trent’anni fa ma solo ora ne parlano tutti” GGI ne parlano tutti. O CHUCK W. HULL È IL DESIGNER FRUSTRATO DAI TEMPI MORTI CHE VOLEVA CREARE I PROTOTIPI IN MANIERA PIÙ VELOCE 4G LTE “E vedrete cosa potrete fare quando raggiungeremo il 5” E POTETE vedere la tv sul telefonino, ringraziate Eric Dahlman, Muhammad Kazmi, Stefan Parkvall e Robert Baldemair, ricercatori della Ericsson che hanno contribuito alla realizzazione della quarta generazione di trasmissione dati per la telefonia mobile, il cosiddetto Long Term Evolution. Il Lte è il frutto di decine di tecnologie che si combinano una sull’altra. Da buoni innovatori, sono già oltre. «Il 5G dovrebbe essere pronto nel 2020» ha spiegato Dahlman a Berlino «e sarà molto più ambizioso del 4G. Questo riguardava la velocità, quello la sicurezza e come varie macchine diverse si connetteranno l’una con l’altra». S ERIC DAHLMAN È UNO DEI RICERCATORI ERICSSON CHE HA CONTRIBUITO A CREARE LA TRASMISSIONE DATI 4G Dicono che è il viatico della terza rivoluzione industriale. Ma quando nel 1983 Chuck W. Hull (premio alla carriera a Berlino) ha inventato la stereolitografia, ovvero la tecnica di realizzare oggetti tridimensionali a partire da file digitali, solo i giornali di settore registrarono l’evento della nascita della stampa 3D. «Ero un designer» spiega questo settantatreenne affabile, «e disegnare un prototipo, affidarlo a uno stampatore che doveva creare la matrice, provarlo, correggerlo era un processo frustrante, lungo mesi». Così si mise a ragionare su una macchina che aggiungeva, come in un castello di sabbia computerizzato, strati di filamenti plastici fino a creare l’oggetto voluto. «Nell’86 depositai il brevetto e allora i nostri primi clienti furono quelli del settore automobilistico. Immaginai che ci sarebbero voluti 25 anni perché diventasse di uso diffuso, e ne è servito qualcuno in più». Ma non teme che la sua invenzione finirà per uccidere la manifattura di massa, togliendo altro lavoro alla classe media già in crisi? «Non sono un futurologo. La delocalizzazione però c’era già e la mia invenzione sta consentendo a parte di quel lavoro di rientrare. Forse altri operai perderanno il posto, ma ne guadagneranno i designer che personalizzeranno i prodotti». Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 36 Sapori. Capricciosi IN PRINCIPIO FU IL BASILICO. DA ALLORA SOPRA E DENTRO IL CIBO PIÙ ADDENTATO D’OCCIDENTE (DOPO LA PASTA) È STATO MESSO DI TUTTO E NON SEMPRE A PROPOSITO. ORA LE COSE STANNO CAMBIANDO. ECCO COME Non la solita pizza. Tra impasti e ingredienti dove osano gli chef LICIA GRANELLO C’ Il panificio Dopo aver nobilitato la scrocchiarella romana a “La Pizzeria del Teatro”, Gabriele Bonci amplierà in autunno il suo panificio di via Trionfale a Roma con un mercato di frutta e verdure biologiche, mulino a pietra e pizzeria-trattoria È A CHI PIACE SOTTILE, chi la vuole croccante. Chi ama che debordi dal piatto, bollente e filante. Chi non transige sul cornicione, chi la piega a libretto, e guai a usare coltello e forchetta. Chi impazzisce per la Marinara, mater originaria, e chi non prescinde da funghi e prosciutto. Per un tempo lunghissimo, la pizza è stata solo il più facile degli spezza-fame: pasta di pane, pomodoro e poco altro, qualche morso avido camminando e stando attenti a non macchiarsi. La madre di tutte le declinazioni gourmand risale a fine ‘800, quando il basilico trasformò la pizza in bandiera tricolore per omaggiare la regina Margherita. Da quel momento in poi, sopra la pizza è finito di tutto, con le farciture utilizzate sempre più frequentemente per mascherare la qualità mediocre degli ingredienti. Un’involuzione figlia della crisi economica, che ha fatto delle pizzerie luoghi della socialità sempre più popolari e praticati, in alternativa ai ristoranti di piccolo cabotaggio. Si mangia per stare insieme spendendo poco, e pazienza se la pizza si ricomporrà nello stomaco come se avessimo ingoiato un frisbee e ci addormenteremo abbracciati a una damigiana d’acqua. Ma un’altra pizza è possibile, come ben testimonia il manipolo di pizzaioli illuminati che sta cambiando l’identità del cibo secondo solo alla pasta nella classifica dei consumi alimentari del mondo occidentale. Tutto è cominciato con lieviti e farine, fronMa i nuovi pizza-star si spingono oltre, ritiere obbligate di un’alimentazione sempre valeggiando con gli chef nella selezione delle meno sana. L’esplosione di intolleranze e al- migliori gourmandise in circolazione e negli lergie ha costretto gli artigiani più sensibili a accostamenti creativi, che trasformano le interrogarsi sulla salubrità della chimica ne- pizze in piatti d’autore a piccoli prezzi. Una rigli impasti, dagli acceleratori ai miglioratori, voluzione che si traduce in veri percorsi di depassando per conservanti e sbiancanti. gustazione: le pizze vengono servite tagliate Chi ha deciso di cambiare, oggi sceglie fari- a spicchi per l’intero tavolo, offerte in succesne diverse — avena, farro, segale... — o di gra- sione dalle più semplici e delicate a quelle deni antichi, macinate a pietra, da coltivazioni gne di una tavola stellata. Per accompagnarbiologiche e biodinamiche. Il lievito di birra le, niente bibite — orrore! — ma un ventaglio viene dosato col bilancino del farmacista — 5 di birre rigorosamente artigianali prodotte grammi per quasi 20 kg di farina! — da solo o nelle centinaia di microbirrifici sparsi in tutinsieme al lievito madre, a sua volta nutrito e ta Italia, raccontate e consigliate con perizia coccolato come una creatura. L’olio è rigoro- da sommelier, mentre l’opzione vino si gioca samente extravergine, il sale è marino, la alla pari tra rosé e bianchi sfiziosi. Se le pizze mozzarella arriva da allevamenti virtuosi gourmand vi attraggono, regalatevi una gita (niente trinciati di mais), i pomodori dall’ari- nei nuovi santuari del forno a legna. L’unico docoltura, la pratica “senz’acqua” che obbli- rischio che correrete sarà provare un certo apga la pianta a cercare in profondità, arric- petito ben prima di andare a dormire. chendosi di minerali. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il libro La nuova guida “Pizzerie d’Italia” del Gambero Rosso recensisce 450 locali in tutta Italia. Ben 45 le pizze con Tre Spicchi (al piatto) e Tre Rotelle (al taglio). Premio Maestri d’impasto a Enzo Coccia (vedi ricetta) e Renato Bosco (Saporè, Verona) La ricetta Friggitelli, pomodori secchi e baccalà così rileggo la tradizione INGREDIENTI PER QUATTRO PIZZE: ½ LITRO D’ACQUA; 27 G. DI SALE MARINO; 5 G. DI LIEVITO DI BIRRA 20 ML. DI EXTRAVERGINE (PER L’IMPASTO); 3 G. DI ZUCCHERO; 850-900 G. DI FARINA; 80 ML. DI EXTRAVERGINE BIO “LE PERACCIOLE” 320 G. DI FRIGGITELLI (PEPERONCINI VERDI); 320 G. DI BACCALÀ 320 G. DI MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA “LA FENICE” 160 G. DI POMODORI SEMISECCHI; 1 MAZZETTO DI BASILICO FRESCO LO CHEF ersate l’acqua in una zuppiera, sciogliendo in successione sale, lievito, zucchero, olio e il 30% della farina. Cominciate a impastare e versate il resto della farina fino alla consistenza desiderata. Coprite l’impasto, senza estrarlo dalla zuppiera, con un panno umido. Lasciare lievitare 10-12 ore a temperatura ambiente. Estraete dalla zuppiera l’impasto e dividetelo in quattro. Ungete le teglie e foderatele con gli impasti. Lasciate riposare altri 10’. Aprire a metà i friggitelli, svuotandoli dei semi, affettarli sottili, saltarli in padella con aglio e olio. Sciacquate il baccalà e tagliatelo a sfoglie. Accendete il forno a 230°-250° C. Irrorate gli impasti di extravergine, poi disponete il baccalà coperto dalla mozzarella. Cuocete per 10’, aggiungete i friggitelli e reinfornate altri 10’. Togliete dal forno, aggiungete i pomodorini semisecchi e il basilico spezzettato. V La app È anche in forma di app, la “Guida alle Migliori Pizzerie di Napoli e della Campania” firmata da Monica Piscitelli, che comprende notizie sulla città, il “glossario del pizzajuolo” e le migliori pizze per categoria: margherite, ripiene, marinare e creative IL NAPOLETANO ENZO COCCIA, UNO DEI PIÙ GRANDI MAESTRI PIZZAIOLI ITALIANI, SI DIVIDE TRA LE DUE SEDI DE “LA NOTIZIA”, AL VOMERO: DA UNA PARTE, TRADIZIONE, DALL’ALTRA, CREATIVITÀ FIGLIA DI PRODOTTI LOCALI COME IN QUESTA RICETTA IDEATA PER REPUBBLICA Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica DOMENICA 6 LUGLIO 2014 8 37 L’hardware buono per ogni software tipi con... MARINO NIOLA NA VOLTA LA PIZZA era il pronto soccorso dello stomaco. Colazione, pranzo e cena in dose unica per saziare la fame atavica del popolo napoletano. Adesso Oliviero Toscani l’ha proclamata migliore oggetto di design del pianeta, insieme ai jeans. Con la differenza che dei jeans si può fare a meno. Perfetta nel sapore, nella forma e nell’immagine, l’icona mondiale dell’Italian food riassume un intero capitolo della fisiologia del gusto in pochi centimetri di pasta lievitata. Popolare e ricercata, locale e globale. Così globale che una studentessa americana della Columbia University un giorno mi ha chiesto se esista una parola italiana per dire pizza. L’ingenuità è solo apparente, dal momento che il totem alimentare partenopeo è anche lo street food più diffuso sulla faccia della Terra. Quello che ha colonizzato l’immaginario gastronomico del nostro tempo facendo del mondo una sconfinata pizza connection. Certo più la marinara e la margherita si allontanano dal Vesuvio più diventano delle approssimazioni. Delle opinioni da forno. Ciascuno ha la sua. A Ulan Bator, in Mongolia, la fanno con il montone, che per digerirla ci vuole lo sciamano. Mentre a Mumbay pollo, mandorle e curry piovono sulla “bollywood”. E adesso l’ex cibo povero si trasforma in piatto esclusivo. Luxury pizza. Si chiama così quella che l’albanese Nino Selimaj serve nel suo locale di New York. Tre varietà di caviale — beluga, sevruga e osetra — aragosta selvaggia q.b. e per finire erba cipollina e panna. Mangiarla è come entrare a Disneyland, con le uova di pesce che schizzano e frizzano in bocca, ha detto Bo Dietl, uno dei Goodfellas di Scorsese. Prezzo, 1.200 dollari per quella intera e 95 per un trancio. E poi ci sono le versioni educational. Come la “quattro frazioni”, pensata dall’Amministrazione comunale di Napoli. Con ingredienti in quadricromia, per rendere appetibile la differenziata. Bianco come la carta, verde come il vetro, giallo come gli imballaggi e marrone come l’organico. Eppure nonostante venga spesso nominata invano, la pizza sempre pizza rimane. Perché è un hardware gastronomico compatibile con qualsiasi software. Supporta gli ingredienti più fantasiosi. Dal coccodrillo, come a Sidney, alle cicale funghi e peperoni, come in Missouri. Fino alla mizza-pizza, con base di riso, che va alla grande a Taiwan e in Corea. Ma fortunatamente si può fare una pizza gourmet anche senza scadere nell’horror culinario. Bastano associazioni sapienti e ingredienti eccellenti. Tonno fresco e cipolla di Tropea. Ceci, scarole e pancetta di maialino casertano. Melanzane e ricotta di pecora. Ed è proprio questa infinita capacità di adattamento la ragione della fortuna glocale della pizza. Una vocazione fusion che la fa essere di casa a Tallinn come a Nashville, a Dubai come a Shanghai. Facendo circolare un po’ di Napoli nelle vene del mondo. U Conciato romano Crema di carciofi Artigiano della pizza, Patrick Ricci prepara varianti dagli ingredienti rigorosi, come quella con friarielli, olive taggiasche e conciato romano Dop Vitaliano Fronterrè integra la farina doppio zero con farina di soia e rigenera l’impasto per tre giorni Fragrante la pizza con crema di carciofi di Menfi POMODORO E BASILICO VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ 103 SAN MAURO TORINESE (TO) TEL. 011-8973883 DA VITALIANO E ROSANNA VIALE ALDO MORO 13 ROSOLINI (SR) TEL. 0931-859994 Pistacchio Culatello Recupera la tradizione delle farine miste Bruno de Rosa, che impasta avena e mais giocando con inusuali ingredienti, come nella pizza pinoli, pistacchi e frutti rossi Nella sua “pizzeria a degustazione”, Edoardo Papa ha scelto di lavorare con farine bio e ingredienti da ristorante stellato come culatello e robiola di capra MONTEGRIGNA BY TRIC TRAC VIA GRIGNA 12 LEGNANO (MI) TEL. 0331-546173 LA FUCINA VIA LUNATI 25/31 ROMA TEL. 06-5593368 Tonno fresco Lardo di maialino Olio extravergine e impasti fermentati “come il panettone”, nelle pizze di Riccardo Antoniolo Squisita quella con cipolla di Tropea e tonno fresco Nel laboratorio-locanda ricavato in un palazzo del Settecento, Franco Pepe seleziona materie prime locali come ceci del caiatino, scarola e maialino casertano OTTOCENTO SIMPLY FOOD CONTRÀ S. GIORGIO 2 BASSANO DEL GRAPPA (VI) TEL. 0424-503510 PEPE IN GRANI VICO S. GIOVANNI BATTISTA 3 CAIAZZO (CE) TEL. 0823 862718 In trancio Mora romagnola Ricotta di pecora Gamberetti, wurstel, cipolla, funghi, salame, patatine fritte, mais: a ciascuno il suo trancio di pizza Stagionale, etica, buona da mangiare e da digerire, la slow-pizza associata al celebre marchio bio, con mora romagnola, asparagi, pancetta e pecorino sardo Farine alternative per celiaci nei locali con degustazione “a metro” di Alessandro Coppari (l’altro a Senigallia) Terragna e squisita la pizza ricotta ovina e melanzane ALCE NERO & BERBERÈ VIA PETRONI 9/C BOLOGNA TEL. 051-2759196 MEZZOMETRO VIA GIACOMO LEOPARDI 1 JESI (AN) TEL. 0731-213290 © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-07-06 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 6 LUGLIO 2014 38 L’incontro. Impegnati HO CAPITO PRESTO CHE UNO SCATTO DI LOTTA NON ERA BUONO SOLO PERCHÉ ERA GIUSTO LO SLOGAN DELLO STRISCIONE CHE AVEVI INQUADRATO. BISOGNAVA ANDARE ALLE RADICI DEI CONFLITTI. MAGARI AVVISTARNE DI NUOVI Il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma e lo ha scomposto in tutti i suoi mestieri: fotografo, ma poi anche grafico, editor, archivista. Ora, dopo cinquant’anni dedicati “a un medium che da noi non è mai interessato a nessuno”, raccoglie le sue memorie e ammette la quasi sconfitta: “Non sono così certo di averci visto giusto. Gli intellettuali italiani ci hanno sempre considerati i parenti poveri. Quanto all’oggi la nostra grafica italiana, be’, in fondo loro, con tutte le loro geometrie levigate e sfumarivendicavano quella dignità e autonomia al linguaggio della fotografia, che di questo paese non ha mai riconosciute». missione, far conoscere il visibi- te,la cultura Assunto per qualche anno all’Agfa, la sfidante tedesca dell’industria fotografica italiana, ma sospetto di intelligenza col nemico (scriveva anche per la ridella concorrente Ferrania, bibbia mensile del fotoamatorismo anni Cinle, sembra esaurita per ridon- vista quanta), poi grafico pubblicitario in proprio, specialità fotografia industriale, oggi diremmo immagine corporate. E intanto però fotografo “sociale”, di strada, engagé, nella Milano della Vita Agra, dove incrociava i Mulas, i Dondero, i danza. Se non perdo del tutto la De Biasi, i Nicolini, i Lucas. «Ho vissuto senza troppi problemi una doppia esistenza, durante la settimana costruttore d’immagine dell’impresa, nel tempo contestatore visuale col movimento studentesco...». Lo dice con un’omsperanza è solo perché una buo- libero bra di ironia. «Vedo le cose in prospettiva. Avevamo molta fiducia in lei, ma la fotografia è un medium gracile. Riesce splendidamente a creare relazioni di senspazio, ma non sa andare oltre la cornice. Guardi: una celebre foto di calna reflex costa poco più di uno socio,nello una magnifica rovesciata. Ma poi, avrà fatto gol? Vedo la tensione dei muscoli, l’espressione del viso, nessuno saprebbe descriverli in parole. Ma non so com’è andata a finire. La fotografia ha bisogno delle parole». smartphone” Quando arrivò il ‘68, sembrava facile. «C’era un corteo ogni giorno, o quasi. Cesare Colombo MICHELE SMARGIASSI MILANO «S ONO SICURO di aver visto giusto? E soprattutto: che cosa ho vi- sto?». Un “libretto rosso” non dovrebbe concludersi così, con un dubbio esistenziale. Ma Cesare Colombo è stato, per oltre mezzo secolo di cultura visuale italiana, un rivoluzionario senza dogmi e senza diktat, e non si pentirà adesso, a un anno dagli ottanta tondi. Almeno alla seconda domanda, comunque, è facile rispondere per lui: ha visto tutto quel che c’era da vedere attorno a lui, e non ha soltanto visto, ha fatto, e ha fatto vedere. Fotografo, grafico, critico, storico, giornalista, editor, docente, archivista, curatore: il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma, lo ha scomposto in tutti i suoi mestieri. Chiunque si è occupato di fotografia, negli ultimi decenni, ha incrociato le molte strade di Cesare Colombo, pivot schivo, non esibizionista, di una generazione di “vedenti”. Il riassunto di tutto sta adesso in un libro dalla copertina rossa, La camera del tempo, edito da Contrasto e scritto assieme a Simona Guerra, qualcosa tra un’autobiografia intellettuale, un album, un’antologia. Ma prima ancora sta sugli scaffali di questo studiolo bianco soppalcato, in moderato produttivo disordine, che dà su un cortile “di ringhiera”, che dà su una sponda del Naviglio Grande, un distillato di Milano, la città delle immagini, «la città che butta via le immagini... Guardi cos’hanno fatto di questo tratto di Naviglio...». Zatteroni da cocktail con erba finta, megaschermi per i Mondiali, lame di pubblicità che squartano la prospettiva più pittoresca della città. «È la logica conclusione di un percorso... Un paese che non crede nel vedere». Immagine, nel Novecento, è stata un sinonimo di fotografia, la mamma di tutte le immagini meccaniche. Figlio e nipote di artisti, svezzato fin da piccolo ai traumi dell’arte per via di quelle modelle nude nello studio di papà, in posa «vicino alla stufetta elettrica, mi immunizzarono da turbamenti psicologici vari». Usava la fotocamera di papà, la sua camera oscura, approdò al curioso turbolento mondo dei «sacri weekend estetici», l’accanito clan dei fotoamatori delle gite domenicali e dei concorsi con le medaglie di vermeil, QUANDO LE IMPRESE MI CHIAMAVANO PER UN LAVORO MI DICEVANO “FAMMI QUESTO E FAMMELO COSÌ E COSÌ” MENTRE I GRANDI INVIATI MI PRESENTAVANO COME “IL MIO FOTOGRAFO”, PROPRIO COME UN ESPLORATORE DIREBBE DEL “SUO” SHERPA che a Milano aveva, ed ha ancora, una casa nobile, il Circolo Fotografico Milanese, dove Cesare ragazzino assisteva agli epici scontri fra il formalismo crociano di Giuseppe Cavalli e l’umanesimo impegnato di Pietro Donzelli, battaglia fra titani che non lasciava scampo, o di qua o di là, e Cesare andò di là, con gli impegnati, e con la penna in mano, sempre stato bravino a scrivere, incrociò le spade con gli “esteti”, ma adesso un po’ è pentito: «Vedendo come è andata poi la vicenda foto- Le immagini andavano sui giornali, quelli della sinistra soprattutto. Ma ci siamo chiesti se era proprio quella, la fotografia impegnata. Capimmo abbastanza presto che una foto di lotta non era buona solo perché era giusto lo slogan dello striscione che avevi inquadrato. Che bisognava risalire la corrente, andare alle radici dei conflitti, magari avvistare quelli nuovi». In una sua foto del ‘69, la parete trasparente del grattacielo Galfa, presa di sera, col buio ma con gli uffici ancora attivi e illuminati, un alveare dove ogni impiegato abita da solo la sua celletta, è un simbolo potente dell’alienazione post-industriale. Aveva «visto giusto», quindi? Sorride: «Posso dire di essermi occupato per cinquant’anni di un medium che in Italia non è mai interessato a nessuno, meno che mai alla nostra classe intellettuale. L’espressione “fotografia italiana” è una contraddizione in termini. Questo non era un paese destinato alla fotografia. Tutto lo spazio era già occupato dalla massa imponente della nostra tradizione d’arte. Gli intellettuali italiani non hanno mai degnato di uno sguardo questa parente povera, questa sorella disabile dell’arte che si fa a macchina. Il posto per lei è rimasto quello che le assegnò Baudelaire: umile servetta, senza autonomia espressiva. Quando le imprese mi chiamavano per un lavoro su commissione, mi dicevano “fammi questo, e fammelo così e così”: persone che magari non sapevano neppure cos’era un esposimetro. I grandi giornalisti inviati dicevano “il mio fotografo”, come un esploratore direbbe “il mio sherpa”... In America, paese visualmente vergine, il fotografo Walker Evans e lo scrittore James Agee lavorarono alla pari un libro celebre, da noi invece Vittorini strapazzò Luigi Crocenzi per Conversazione in Sicilia». Il cinema ce l’ha fatta, però, a bucare quel muro supponente e dorato. «Fino a un certo punto. Il neorealismo è stato una versione del melodramma. La fotografia invece non aveva madri nobili a cui rifarsi». Ma Il Mondo di Pannunzio, lei ci ha collaborato, valorizzò la fotografia... «Purché genuflessa alla parola. Non erano foto, erano elzeviri visuali scelti e ”orientati” dallo scrittore. Il Mondo era UNA FOTO DI CALCIO, UNA MAGNIFICA ROVESCIATA. MA POI, AVRÀ FATTO GOL? VEDO LA TENSIONE DEI MUSCOLI, A PAROLE NON POTREI DESCRIVERLA. MA NON SO COME È ANDATA A FINIRE pieno di foto, ma nella sua storia ha dedicato due soli articoli alla fotografia, tutti e due per la mostra romana di Cartier-Bresson». Eppure, o forse per questo, per una missione di salvataggio, per uno spirito di rivincita, Colombo aggiunse un giorno alle sue mostre celebri, come L’occhio di Milano, ai suoi reportage, alle collaborazioni con le riviste d’architettura, insomma ai suoi mestieri, anche quello dell’archivista. Salvatore di foto altrui, altrimenti destinate all’oblio o alla pattumiera. Studioso di fondi considerati poco più che scatoloni di cartacce. Gli archivi delle grandi aziende, quelli delle istituzioni, quelli degli studi fotografici dell’Ottocento, dei fotografi freelance del Novecento, fino a quelli del Mozambico post-rivoluzionario che lo chiamò a Maputo a rimettere in ordine la memoria visiva orgogliosa di un paese intero. Troppo tardi ormai per salvare la “sorella disabile”? La fotografia oggi è ovunque, quindi non è più nulla in sé. Dissolta nell’ambiente, inavvertita come il respiro. “Siamo tutti fotografi”, ha certificato perfino Paris Match. Con qualche anno di ritardo, si chiude il Novecento della fotografia? «Apparentemente nulla scuote più l’osservatore. La missione fotografica originaria, far conoscere il visibile, sembra esaurita per ridondanza. In effetti, il fotografo del futuro prossimo potrebbe essere un super-editor che deve solo rimescolare il già visto». Ma lei non crede che finirà così, dico bene? «Ho una fiducia, diciamo, statistica. Milioni di persone incontrano la fotografia. Nel mare della fotografia preterintenzionale, gestuale, della fotografia che vale come un “ciao come stai?”, sarà comunque più facile che a qualcuno venga voglia di andare oltre. Una buona reflex costa poco più di uno smartphone...». La fotografia è morta? «Non lo dirò mai. Certo, non sta molto bene. Ma io sono in attesa». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-07-06
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