Repubblica Nazionale 2014-07-06

la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2014 NUMERO 487
Cult
La copertina. Gli economisti sono le nuove star
Straparlando. Morandini: “Vita da critico”
La poesia. La misteriosa Contessa di Dia
Hey
Jimi
“Quando non ci sarò più
non smettete
di metter su i miei dischi”
Nell’autobiografia
di Jimi Hendrix
il testamento di un genio
della musica
JIMI HENDRIX
A
SCUOLA SCRIVEVO un sacco
di poesie, e la cosa mi rendeva felice. I miei versi
parlavano soprattutto di
fiori, natura e gente in tunica. Volevo diventare un attore o un
pittore. Mi piaceva dipingere paesaggi di altri pianeti. Pomeriggio estivo su
Venere. Roba così. L’idea dei viaggi
spaziali mi esaltava più di qualunque
altra cosa. Di solito la professoressa ci
chiedeva di dipingere tre paesaggi, e
io facevo cose astratte, tipo: Tramonto
marziano, non scherzo! Lei allora diceva: «Come stai?». E io me ne uscivo con
qualcosa di stralunato, tipo: «Be’, dipende da come si sentono le persone
su Marte». Non ne potevo più di ripetere: «Bene, grazie».
Ho mollato la scuola molto presto.
Mio padre disse che avrei dovuto trovarmi un lavoro. E così ho fatto, per un
paio di settimane. Ho lavorato per lui.
Trasportavamo sacchi di calce e grosse pietre da mattina a sera. Non mi pagava. Quindi ho cominciato ad andarmene in giro con altri ragazzi. Capitava che prendessimo di mira un poliziotto, e mezz’ora dopo si scatenava
l’inferno. A volte si finiva in galera, dove però si mangiava bene.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’immagine. Se i rifiuti
della società sono belli
La storia. Come e perché
Giorgio Bocca disse sì
alla biografia di Togliatti
Spettacoli. Polanski
racconta il suo Dreyfus:
“Vedrete, sarà un thriller”
Next. Che cosa ci possiamo
ancora inventare?
L’incontro. Cesare
Colombo, “L’Italia non è
un paese per fotografi”
GINO CASTALDO
I
N QUEL SUO ARDITO modo di mescolare candore e perversione, Jimi
Hendrix ha volato alto, drammaticamente in alto, portando
con sé un’intera famelica generazione in cerca di sogni impossibili.
Per una volta sono le sue stesse parole
a dircelo, parole messe in fila una dopo l’altra, in un auto-racconto che ha il
sapore di un lunghissimo, interminabile assolo. È musica anche questa, veloce, sovraccarica, luminosa quanto
basta per illustrare un percorso che ha
tutte le caratteristiche per assomigliare a una svariata serie di immagi-
ni mitologiche, dall’Icaro che si avvicina troppo al sole (“bruciare” e “fuoco” sono termini ricorrenti nella sua
storia) ai tanti patti col diavolo che assicurano genio in cambio, ovviamente, dell’anima. In effetti dal suo racconto, montato come un puzzle meticoloso di diari, lettere e interviste,
emerge una vita, ahinoi brevissima,
costruita su un’utopia visionaria, partita da una lunga e faticosa gavetta
nei bassifondi della scena americana,
esplosa come una supernova nella
Londra beatlesiana, lanciata all’inseguimento di un costante superamento di ogni possibile sfida.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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LA DOMENICA
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La copertina.Hey Jimi
Dall’infanzia nel ghetto alla prima chitarra
fino a un’ultima straordinaria jam session
Attraverso diari, appunti e interviste
Hendrix racconta la sua vita brevissima
<SEGUE DALLA COPERTINA
JIMI HENDRIX
I
L MIO PRIMO STRUMENTO è stato un’armonica. Credo di averla ricevuta a quattro anni. Poi un violino. Ho sempre avuto un debole per gli strumenti a corda e i pianoforti, ma desideravo qualcosa da poter portare a casa con me, e non è che puoi
portarti a casa un piano. Così ho cominciato a darci dentro con le chitarre. Sembrava essercene una in ogni casa, poggiata da qualche parte. Una sera, un amico
di mio padre era sbronzo e mi ha venduto la sua per cinque dollari. Ho iniziato a
suonarla a quattordici, quindici anni. Suonavo nel cortile e i ragazzi venivano a
sentirmi. Dicevano che ero bravo. Poi l’ho messa da parte. Ma quando ho sentito
Chuck Berry la passione è rinata. Il mio primo ingaggio è stato un posto della
Guardia nazionale; abbiamo guadagnato 35 centesimi a testa e tre hamburger.
All’inizio è stata dura. Conoscevo sì e no tre canzoni, e quando era il momento di
salire sul palco me la facevo sotto. È la classica situazione da cui puoi farti scoraggiare: ascolti le altre band che suonano in giro e il loro chitarrista ti sembra sempre parecchio migliore di te. A questo punto la stragrande maggioranza getta la spugna, ma devi
resistere. Tenere duro e basta.
PERCHÉ SUONO COI DENTI
Siccome non mi dimenavo granché dei tizi hanno cercato di convincermi a suonare la
chitarra dietro la testa. Io rispondevo: «Ehi,
ma chi ha voglia di stronzate del genere?».
Però quando suoni davanti a un pubblico che
non si accontenta mai, prima o poi inizi a trovarti noioso tu stesso. L’idea di suonare la
chitarra coi denti mi è venuta in un posto in
Tennessee. Laggiù o suoni coi denti o ti sparano! C’era una scia di denti rotti su tutto il
palco. Quando suoni coi denti devi sapere
quello che fai, altrimenti può rivelarsi spiacevole. Per molti ciò che faccio con la chitarra è volgare. Non sono d’accordo. Forse è erotico, ma quale musica con un buon ritmo non
lo è? La musica è una forma di espressione
così intima che è destinata a evocare il sesso.
E cosa c’è di sbagliato? È davvero tanto osceno? Più osceno di una qualunque pubblicità
erotica che si può trovare nei giornali o in televisione?
VI SEMBRO UNO CATTIVO?
Sai qual è il vero problema? Non sono capace di guardare dritto in camera e sorridere se non ne ho voglia. È più forte di me, non
ce la faccio. È come doversi sentire felice a comando! Comunque i fotografi cercano sempre di farmi apparire cattivo. E questo mi ha
reso una specie di mostro. A dirla tutta non
capisco perché la gente voglia vedermi a tutti i costi come un personaggio da film dell’orrore. Se avessi l’aspetto di un cannibale
andrebbero in visibilio! A New York i tassisti
accostavano, e dopo avermi dato una rapida
occhiata ripartivano. Certe persone vorreb-
bero tutti omologati. Be’, io non finirò mai così. Perché dovrei somigliare a un tassista?
Finché non è giunta voce che gli inglesi apprezzavano la mia musica, in America ero un
perfetto sconosciuto. Ora invece nei locali
del Village veniamo accolti come divinità.
Non faccio nulla di eccezionale, eppure Life
e Time hanno improvvisamente iniziato a
scrivere di me. Si tratta della stessa gente
che prima mi prendeva in giro. Ah, Ah! Adesso non sono più Jimi lo stupido, ma Mister
Hendrix. Mi analizzano, si presentano con
dossier da psicologi, faticano a capire cosa
mi scorra nelle vene. Viviamo in mondi diversi. Il mio? Fame, bassifondi, odio razziale, un posto dove l’unica felicità che possiedi
è quella che puoi tenere in mano.
L’ACCORDO PERDUTO
Il numero della chitarra sfasciata è iniziato per caso. Stavo suonando a Copenaghen e
mi hanno trascinato giù dal palco. Tutto andava alla grande. Dopo aver ributtato la chitarra sul palco l’ho seguita con un salto, ma
quando l’ho raccolta ho trovato una grossa
incrinatura nel mezzo. Allora ho perso la pazienza e ho fatto a pezzi quel dannato arnese. Il pubblico è andato in delirio — sembrava che avessi finalmente scoperto “l’accordo
perduto” o roba del genere. Così, ogni volta
che c’era la stampa o mi andava, ho riproposto la scenetta. È una voglia improvvisa di
agire in assoluta libertà — insomma di fare
ciò che faresti se i tuoi genitori non ti tenessero d’occhio. Non sono un tipo violento, ma
ormai la gente pensa che lo sia. Sfasci tre o
quattro chitarre e la gente ne deduce che tu
Il mio
funerale
sarà
elettrico
“Suoneremo la nostra musica
e il volume sarà alto. Per una cosa
così vale la pena anche morire”
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Parola dopo parola
il “voodoo child”
che si bruciò volando
IL RITRATTO
JIMI HENDRIX NEL 1967.
L’ARTISTA MORIRÀ TRE ANNI
DOPO, A VENTISETTE ANNI.
COME BRIAN JONES, JANIS
JOPLIN, JIM MORRISON, KURT
COBAIN, AMY WINEHOUSE
<SEGUE DALLA COPERTINA
non faccia altro. Invece succede solo quando
ci prende quella voglia. La frustrazione è al
massimo, la musica si fa sempre più forte, e
a un tratto crash, bang, ecco levarsi il fumo.
Certe sere capita che tutto vada storto e allora, se sfasciamo qualcosa è perché lo strumento che amiamo profondamente non
funziona a dovere. Non risponde, così ti viene voglia di ammazzarlo.
CREDI IN TE STESSO
Vivere richiede una serenità mentale che
ognuno deve cercare dentro di sé. Occorre
avere fiducia in se stessi. In un certo senso
penso che credere in Dio consista in questo.
game con le Pantere Nere, intendiamoci. Mi
sento parte di ciò che stanno facendo. Agire
è necessario, e in termini di serenità e condizioni di vita siamo noi quelli che se la passano peggio. Però non sono per la guerriglia.
Non sono per lanciare una bottiglia molotov
o fracassare la vetrina di un negozio. Così è
inutile. In particolare se lo fai nel tuo quartiere. Non provo odio per altri esseri umani
perché, alla luce del mio percorso, sarebbe
come fare un passo indietro. È indispensabile condividere il dolore, sforzarsi di comprendere quale parte è andata perduta. Allargare la prospettiva. Dare ai pensieri una
dimensione universale è un’ottima cosa.
GINO CASTALDO
H
L’AMICO E PRODUTTORE ALAN DOUGLAS HA SELEZIONATO
RACCOLTO E MESSO INSIEME I SUOI PENSIERI
“ERA UNO SCRITTORE INCALLITO, SCRIVEVA SU CARTA
D’ALBERGO, FOGLIETTI, PACCHETTI DI SIGARETTE,
TOVAGLIOLI E TUTTO CIÒ CHE GLI CAPITAVA SOTTOMANO”
Se esiste un Dio ed è Lui ad averci creato, allora credere in se stessi è credere in Lui. E
quando cominci a portare Dio dentro di te diventi parte di Lui. Questo non significa credere al Paradiso e all’Inferno, ma che la religione è ciò che sei e ciò che fai. Quando salgo
sul palco e canto, quella è tutta la mia vita. La
mia religione. Io sono la Religione Elettrica.
Ci hanno chiesto di tenere un concerto di
beneficenza per le Pantere Nere. Ma per
quanto ne fossi onorato eccetera, ancora
non ci siamo esibiti. Negli Stati Uniti sei sempre costretto a prendere una posizione. Che
tu sia un ribelle o un tipo alla Frank Sinatra.
Quand’ero più giovane ho scritto canzoni di
protesta cariche di rancore. Adesso non lo
faccio più perché ci sono questioni politiche
da cui preferisco tenermi alla larga. Prima di
dire una qualunque cosa devo sentirmi coinvolto. Invece non mi sento coinvolto. Anzi,
ora come ora mi sento smarrito. Slegato dalla quasi totalità delle cose. Sono dispiaciuto
per le minoranze, ma nessuna m’ispira un
senso di appartenenza. Io sto dalla parte di
chi è svantaggiato, ma il mio obiettivo non è
convincere chi è svantaggiato a fare questo
o quello. Non guardo le cose da una prospettiva razziale. Guardo le cose dalla prospettiva degli esseri umani. Non penso a neri o
bianchi. Penso a ciò che è vecchio e a ciò che
è nuovo. Non sto tentando di negare il mio le-
Quando avrò la sensazione di non avere altro da offrire a livello musicale diventerò irrintracciabile. Se non avrò moglie e figli sparirò dalla faccia della terra. Non avendo nulla da comunicare attraverso la musica non
avrò niente per cui valga la pena vivere. Non
so se arriverò a 28 anni, ma mi sono accadute cose meravigliose negli ultimi tre.
Il mondo non mi deve nulla.
Il corpo è un veicolo fisico utile a condurti
da un posto all’altro senza troppi problemi.
Il proposito è tenere i nervi saldi, capire come prepararsi al meglio per il mondo che
verrà, perché ne esiste uno. Spero vi piaccia.
Alla mia morte ci sarà una jam, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si
sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale. Il volume
sarà alto, e ci sarà la nostra musica. Non voglio canzoni dei Beatles, ma qualche pezzo di
Eddie Cochran e parecchio blues. Roland
Kirk verrà di certo, e farò di tutto perché non
manchi Miles Davis, sempre che abbia voglia di passare. Per una cosa così varrebbe
quasi la pena morire. Quando non ci sarò più
non smettete di mettere su i miei dischi.
Da Starting At Zero © 2013 Gravity Ltd
All rights reserved
© 2014 Giulio Einaudi ed.s.p.a., Torino
Traduzione di Alessandro Mari
Published by arrangement with
Agenzia Letteraria Roberto Santachiara
SONO NATO
A SEATTLE, STATO
DI WASHINGTON,
IL 27 NOVEMBRE 1942
CHE AVEVO ZERO ANNI
MIO PADRE ERA
SEVERISSIMO, UN UOMO
CON LA TESTA
SULLE SPALLE
MIA MADRE AMAVA
METTERSI IN GHINGHERI
E DIVERTIRSI
DESIDERAVO
QUALCOSA
DA POTER PORTARE
CON ME, COSÌ HO
COMINCIATO A DARCI
DENTRO CON LE CHITARRE.
SUONAVO NEL CORTILE
DI CASA E I RAGAZZI
DICEVANO CHE ERO BRAVO.
POI HO LASCIATO STARE
FINO A QUANDO NON HO
SENTITO CHUCK BERRY
BISOGNA FARE UN PASSO AVANTI
FOTO © TERENCE DONOVAN/MASTERS/GETTY IMAGES
NON SO SE ARRIVERÒ AI 28
ENDRIX era la sua musica, senza alcuna
separazione tra arte e vita, tutto confuso in
una corsa inarrestabile e avvincente. Con lui
ci si dimenticava che la chitarra era pur
sempre una macchina, uno strumento
elettromeccanico che amplificava lampi del pensiero,
sembrava che fosse tutt’uno, che con la chitarra ci fosse
nato, che fosse un’estensione naturale del corpo, tanto
facile e naturale sembrava il suo modo di suonare, che
facile e naturale non era affatto, o almeno non lo era per gli
altri comuni mortali. Un modo di suonare che invece
lasciava stupefatti, pubblico e musicisti, compresi i grandi
chitarristi inglesi dell’epoca (Clapton e compagni) che
quando lo videro suonare la prima volta pensarono per un
momento che forse la loro chitarra dovevano buttarla via,
che non aveva molto senso continuare dopo aver visto
quel prodigio vivente. Hendrix girava continuamente il
mondo, sembrava non avere, o non volere,
una fissa dimora, come se avesse esteso
all’epoca della rivoluzione psichedelica
quella vocazione errabonda che era dei
primi bluesmen (anche loro del resto
indiziati di patti col diavolo stretti
all’incrocio di notturne strade di
campagna). Viveva come se nascere,
morire e rinascere fosse un’abitudine
quotidiana, incideva dischi nei quali
fissare il suo lampeggiante viaggio, ma
non perdendo mai di vista, come racconta
a ogni occasione, che in fin dei conti l’unica
vera possibile celebrazione del suo credo
era la performance, il concerto dal vivo,
dove la musica poteva fino in fondo
IL LIBRO esplodere nella sua massima
“ZERO. LA MIA STORIA” imprevedibilità, a contatto con la gente,
DI JIMI HENDRIX (EINAUDI, con la bruciante urgenza del tempo
250 PAGINE, 22 EURO),
presente. Se abbiamo dimenticato tutto
TRADUZIONE
DI ALESSANDRO MARI, questo, se abbiamo perso quella possibilità
SARÀ IN LIBRERIA DA MARTEDÌ di affidare alla musica i nostri sogni
supremi, l’idea che alzando il ritmo del
battito delle nostre ali si possa scoprire che dietro un
orizzonte ce n’è sempre un altro, allora vale la pena rileggere
la storia del “voodoo child”, nato dal fuoco e scomparso in un
vortice. Dentro c’è un prezioso segreto da scoprire. Parola di
Jimi Hendrix.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SICCOME NON MI
DIMENAVO GRANCHÉ,
DEI TIZI HANNO
CERCATO DI CONVINCERMI
A SUONARE LA CHITARRA
DIETRO LA TESTA.
L’IDEA DI SUONARLA
COI DENTI MI È VENUTA
IN UN POSTO IN TENNESSEE
LAGGIÙ O SUONI COI DENTI
O TI SPARANO. C’È UNA SCIA
DI DENTI ROTTI SUL PALCO
NON FACCIO NULLA
DI ECCEZIONALE
EPPURE “LIFE”
E “TIME” D’IMPROVVISO
SCRIVONO SU DI ME.
MI ANALIZZANO.
FATICANO A CAPIRE COSA
MI SCORRA NELLE VENE
VIVIAMO IN MONDI
DIVERSI. IL MIO?
FAME, BASSIFONDI
E ODIO RAZZIALE
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LA DOMENICA
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L’immagine. Differenziata
Bicchieri di plastica, lattine, fustini, giocattoli. Trovati, raccolti
riordinati e infine mostrati. A che scopo? Seguendo le tracce
dell’arte e della letteratura un fotografo e uno scrittore spiegano
perché dobbiamo guardare in faccia ciò che buttiamo
FOTO BARRY ROSENTHAL
Irifiuti
BEPPE SEBASTE
PASOLINI SCRISSE
SULLO SCIOPERO
DEGLI “SCOPINI”
ROMANI: “SONO
COME ANGELI
SCESI SULLA TERRA”
N
EL GIUGNO 2010 andai in provincia di Napoli e Caserta
per descrivere quello che gli abitanti chiamavano l’olocausto bianco dei rifiuti. Sporgendomi sulle voraginose discariche legalizzate e militarizzate dal governo
di allora, guardando le distese di spaventose ecoballe
che svettavano come megaliti nella campagna di pomodori e peschi inondata di percolato, mi sembrò che i
rifiuti disegnassero una nuova, monumentale e grottesca frontiera del “sacro”. “Sacrare”, ricordava il filosofo Giorgio Agamben, significa separare dall’uso comune, così come il suo contrario, profanare, vuol dire
restituire all’uso comune. Non solo i rifiuti, gli scarti,
ma anche le “vite di scarto” dell’omonimo libro di Zygmunt Bauman rimanderebbero a questo orizzonte di senso. Ricordo che mi colpì, come se fosse il massimo dell’insensato e dello scabroso, un oggetto sfuggito a un’ecoballa, nudo e fuori contesto, un flacone di plastica bianca e azzurra con la scritta AMMORBIDENTE. Avevo
già imparato che supermercati e discariche sono l’uno lo specchio dell’altro: non solo perché l’edificazione dei primi serviva a creare e coprire le seconde sotto un manto d’asfalto, e così via; ma perché sono fatte della stessa sostanza, nel costante di-
venire scarti delle merci in vendita.
È passata un’era dallo sciopero dei netturbini a Roma nel 1970, le cui condizioni di lavoro erano disumane, filmato da Pier Paolo Pasolini, che riprese volti e gesti degli spazzini all’alba, l’assemblea ai Mercati Generali, dedicando loro una poesia: «... oggi 24 Aprile 1970/ è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini è entrato
nella storia, / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra…». In perfetta continuità col suo amore per gli umili, l’attenzione di Pasolini a
quel rimosso sociale che coincideva col «basso materialismo» di Georges Bataille
anticipava la celebre frase di Bauman: «I raccoglitori d’immondizie sono gli eroi
non celebrati della modernità».
Da allora la letteratura e l’arte non hanno cessato di misurarsi col variegato
mondo dei rifiuti. Tra i pettegolezzi della garbology, l’arte di frugare nella spazzatura dei famosi, e le grandi questioni ecologico-ambientali, si trattava di dare
il tu ai rifiuti, di guardare in faccia le cose che buttiamo via, da Michel Tournier
(Le Meteore) a Don DeLillo (Underworld), passando per Italo Calvino, Paul Auster e tanti altri. Se il tema degli scarti è oggi onnipresente grazie alle estetiche
del riciclo, la condizione ontologica di separatezza dei rifiuti e la sua relazione con
l’arte fu indagata forse per la prima volta da una mostra al Mart di Rovereto, a cura di Lea Vergine come l’omonimo libro: Quando i rifiuti diventano arte. TRASH
rubbish mongo (Skira 2006). Quanto al problema della plastica, e a parte l’industria e il design del riuso, neanche qui manca la poesia — dalle drammatiche pla-
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LE OPERE
ALCUNI LAVORI DI BARRY
ROSENTHAL REALIZZATI CON
OGGETTI TROVATI PER STRADA
O SULLA SPIAGGIA. DA SINISTRA:
“SCARPE”; “BOTTIGLIE DI VETRO
E BARATTOLI”, “FORCHETTE,
COLTELLI E CUCCHIAI”.
SOTTO, DA SINISTRA, “OLIO, ALCOL
E DROGHE”, “GRIGLIA”, “NESSUN
PUNTO DI FUGA” (RIFERITO
ALL’USO DELLA PROSPETTIVA
IN QUESTA COMPOSIZIONE)
E “OCEANO BLU”
della società
stiche bruciate di Alberto Burri, in polemica col piano Marshall e l’inizio dell’americanizzazione delle nostre vite, allo struggente sacchetto di cellophane che
danza nel vento in American beauty.
Ci sono poi i rifiuti “naturali”, oggetti smarriti il cui eteroclita repertorio è
espresso in lingua tedesca da una parola bella e strana, Strandgut. I dizionari traducono “relitti”, ma significa esattamente i beni o le cose che il mare lascia sulla
spiaggia (strand), quelle che tutti contempliamo passeggiando lungo il mare
d’inverno, con cui i bambini giocano da sempre costruendo capanne e altri sogni:
pezzi di legno o di tronchi, alghe, conchiglie, pezzi di barca, lattine, bottiglie, oltre che, ancora, tanta plastica. Quegli oggetti ci raccontano storie, spiegava la
poetessa tedesca Eva Taylor, e non a caso tanti artisti li raccolgono per inserirli
nelle loro opere.
Uno di essi è il newyorchese Barry Rosenthal, scultore e fotografo degli oggetti trovati che si vedono in queste pagine. Confesso di avere trovato kitsch il suo
tentativo di redimere rifiuti disponendoli in file ordinate, come fanno i bambini
con le conchiglie o i maccheroni. Più che salvare il trash delle cose buttate via, mi
sembrava che lo producesse, rimuovendone ogni implicazione tragica. Ma Rosenthal mi ha spiegato che un’evoluzione c’è stata nei suoi allestimenti: se prima
disponeva gli oggetti in modo sistematico e ordinato, è subentrato un gusto per
l’affollamento e la densità, un’apertura al caos e all’incompiutezza. Cerca di comunicare la sensazione che gli danno le cose che trova nell’acqua — bicchieri e po-
sate di plastica, flaconi di medicine, cannucce colorate, palle da tennis — e stabilire tra loro delle relazioni. Non pretende suggerire comportamenti virtuosi né
aprire le coscienze, ma solo «portare alla luce» le cose anonime che buttiamo via.
Gli oggetti senza più contesto né appartenenza sono pur sempre simboli di una
deriva, ed è difficile per noi separare le installazioni degli artisti — abiti dismessi o
altri oggetti separati e orfani di un uso — senza pensare alle montagne di occhiali o
di scarpe tramandatici dall’iconografia di Auschwitz. Quanto agli oggetti portati
dalle onde, che siano nel Mediterraneo o nel porto di New York dove va su e giù Barry
Rosenthal, è il mare a conferire loro il pathos avventuroso di un messaggio nella bottiglia. La loro versione più tragica la vidi negli oggetti sommersi e poi salvati dal mare di Ustica, dopo l’inabissamento dell’aereo colpito da un missile il 27 giugno 1980.
Prima di stipare quegli oggetti strazianti, irriducibili a un’estetica, dentro casse nere, e sottrarli allo sguardo, li elencai con l’artista Christian Boltanski in un piccolo libro fatto dal Museo per la Memoria delle vittime di Ustica a Bologna.
Che i rifiuti siano specchio del mondo, come il cielo lo è della terra, lo mostrò ancora una volta Pasolini nel 1967 nel film Che cosa sono le nuvole? Nell’ultima scena
Totò e Ninetto Davoli, attori-marionette buttati dal camion della spazzatura in una
discarica, semisepolti dall’immondizia, rifiuti tra i rifiuti, vedono per la prima volta le nuvole informi nel cielo azzurro. «Che cosa sono?» Ninetto ride di stupore, Totò
beato le contempla: «Ah, straziante e meravigliosa bellezza del creato!».
BAUMAN
“I RACCOGLITORI
D’IMMONDIZIE
SONO GLI EROI
NON CELEBRATI
DELLA MODERNITÀ”
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La storia. I migliori
ICORDO BENE la sera che il Bocca, tornato da Roma, sedette a
R
tavola e, gli occhi sul piatto, annunciò: «Ho firmato il contratto per una biografia di Togliatti». Esplosi: «Sei pazzo!».
Erano gli anni che, lasciato l’insegnamento, aiutavo il Bocca per i suoi libri. L’accordo era che io facevo di tutto e i progetti si facevano assieme. Ma ora lui si serviva, agguantava la forchetta,
cominciava a mangiare e io, immobile, in piedi, strillavo i motivi per cui
l’impresa era impossibile. «Noi due, a vedercela con due guerre mondiali,
SILVIA GIACOMONI
e la guerra di Spagna, e la Terza Internazionale, e Stalin, porca
miseria! Come fai, sempre in giro per Il Giorno, a scrivere la biografia di Togliatti! Ci saranno mille libri da leggere, mille vecchi
da intervistare! E gli archivi! Hai idea di cosa sia, il lavoro d’archivio, per uno come Togliatti?». Masticando lentamente, il Bocca mangiava. Sul volto, l’espressione concentrata di chi non
ascolta. Fece un gesto con la destra, a cacciar via le mie obiezioni come una mosca. Quindi, le posate strette nei pugni, diritte:
«Agli archivi ci pensi tu».
i eravamo conosciuti nel ‘65, quando lavorava alla Storia della guerra partigiana, quindi sapevo benissimo
come il Bocca scriveva i suoi libri. Andava dal cartolaio
e comprava venti cartellette arancioni, le numerava
e ci scriveva sopra, illeggibili, i titoli dei capitoli. Poi iniziava la
raccolta del materiale: ritagli di giornale, sunti e citazioni da articoli e libri, appunti di interviste, fotocopie di testi d’ogni genere. Il materiale raccolto veniva sistemato nella cartelletta appropriata. Quando una cartelletta gli appariva abbastanza gonfia, la prendeva, esaminava il materiale e faceva la prima stesura di quel capitolo. Quando tutti i capitoli erano scritti, cominciava la seconda stesura, quindi passava alla revisione. Sovente, anziché ricopiare dei passi, li tagliava da un foglio
incollandoli con lo scotch sul foglio pulito, e pazienza se il nome
dell’autore del testo andava perduto. I suoi manoscritti erano
patchwork bizzarri che inducevano alla disperazione i redattori della casa editrice Laterza. Ma questa era la sua ricetta, e ancora ricordo la stupefazione di Antonio Cederna la sera che —
eravamo a Ponte in Valtellina — il Bocca gliela espose. Succedeva sempre così, con gli amici intellettuali. Non si capacitavano che libri tanto belli, e a volte importanti, fossero il frutto di
una tecnica così elementare. Ignoravano — lui non ne parlava
C
mai — il grande lavoro sugli autori e sulla lingua che — perfetto autodidatta — era andato facendo instancabilmente per anni. Da parte mia, ero impressionata dalla quantità di lavoro che,
robustissimo, riusciva a smaltire, passando da un articolo a un
libro, dai campi di sci alla cucina alla scrivania. Aveva il fisico
dell’atleta, e un orecchio finissimo per la lingua, e anche per la
musica; aveva occhio per la pittura, ma di queste cose non amava parlare; anzi, ostentava nei loro confronti un gran disinteresse. Certo, lui si mascherava, ma veramente gli interessavano solo i fatti, gli eventi, le idee su cui si sentiva di poter intervenire da protagonista.
IL LIBRO
“TOGLIATTI”
DI GIORGIO BOCCA
(FELTRINELLI, 656 PAGINE,
22 EURO) CON PREFAZIONE
DI LUCIANO CANFORA
SARÀ IN LIBRERIA
DA MERCOLEDÌ 9 LUGLIO.
È UNA RIEDIZIONE,
A CINQUANT’ANNI
DALLA MORTE,
DELLA BIOGRAFIA
DEL LEADER COMUNISTA.
USCÌ PER LA PRIMA VOLTA
PER LATERZA
NEL 1973.
NELLA PAGINA ACCANTO
NE PUBBLICHIAMO
UN ESTRATTO
N
el mio spavento per l’impresa Togliatti giocava anche
questo. I suoi precedenti libri di storia patria erano stati accolti dagli intellettuali e dagli storici di professione con grande freddezza. Giorgio Bocca era un giornalista, non si poneva nessuna questione di metodo, scriveva di
cose che aveva vissuto, metteva sullo stesso piano fonti d’archivio e fonti orali: un disastro. E ora sfidava la pletora degli storici del Pci, una congrega ancora più numerosa di quella degli
architetti socialisti! Ne avremmo sentite delle belle! Chi ci
avrebbe aiutato?
L’indomani il Bocca andò dal cartolaio e numerò venti cartellette. Lo trovai che passava in rassegna gli scaffali. Dissi: «Comincio da Pillo». Era il soprannome di un grande amico, Paolo
Spriano, lo storico del Partito che era stato, giovanissimo, partigiano di Giustizia e Libertà. Era l’aiuto che occorreva a me. Leggevo, segnavo le pagine da fotocopiare, sunteggiavo e ben presto mi sentii in sella. Il Partito era, nel campo storico, doppio come in tutto il resto, e a fronte degli intellettualini bravi a strillare nutriva i tipi come Pillo. Il quale indicava nelle note le fonti per
la ricostruzione dei fatti che l’autocensura piciista gli impediva
di raccontare diffusamente. Presa nota delle sue note, me ne andavo tranquilla in via Andegari e passavo meravigliose mezze
giornate col naso nelle riviste e gli archivi dell’Istituto Feltrinelli. Arrivavo a una ricostruzione più estesa e veritiera dei singoli accadimenti. Ma quelle verità erano scritte in una lingua
che non conoscevo, stese in un gergo ideologico e burocratico,
una langue russe il cui senso profondo poteva essere svelato solo da chi, quella lingua, aveva collaborato a costruire, aveva parlato e subìto.
Ecco perché la divisione dei compiti — lui i testimoni, io i documenti — risultava impraticabile. Le “verità” dei documenti andavano vagliate dai testimoni. Le “verità” dei testimoni rendevano urgenti altre ricerche. I risultati dei due lavori andavano costantemente incrociati perché non restassero privi di senso.
Quando
il Bocca Q
incontrò
Togliatti
uando il Bocca tornava dai suoi servizi per Il Giorno a
Torino, a Palermo o a Parigi e infilava nelle cartellette
arancioni il frutto dei suoi colloqui coi testimoni agganciati in quelle città, ci trovava gli appunti delle mie
letture e dei documenti di archivio. E iniziava il confronto, la discussione scatenata dalla difficoltà dell’impresa investigativa,
dal fermo proposito autoriale di ricostruire la misteriosa vicenda del comunismo italiano in tutti i suoi agganci con la grande
storia del Novecento vista da Mosca: individuando, a ogni snodo, la parte che ci aveva avuto “il Migliore”. A volte accompagnavo il Bocca a parlare con i testimoni.
Le donne e gli uomini della Terza Internazionale, della clandestinità, l’esilio, le guerre, sopravvissuti alle lotte, la galera,
la tortura, le purghe, al terrore, a ogni genere di contrasto e prevaricazione, ci accoglievano, sorridenti o severi, nelle loro semplicissime case, specchio deformante di individualità ultra
complesse. Emarginati dal partito, coglievano volentieri l’oc-
LA COPPIA
GIORGIO BOCCA
E LA MOGLIE
SILVIA GIACOMONI
AUTRICE
DI QUESTO ARTICOLO
A cinquant’anni dalla morte del leader comunista
viene ripubblicata la biografia scritta dal grande
giornalista. Lo aiutò una persona molto speciale
Che qui svela i retroscena di “un’impresa folle”
Repubblica Nazionale 2014-07-06
la Repubblica
DOMENICA 6 LUGLIO 2014
31
I PROTAGONISTI
Non me ne sono
innamorato
gli ho solo dato
ciò che meritava
IL GIORNALISTA
E SCRITTORE
GIORGIO BOCCA
(1920-2011)
E IL SEGRETARIO
DEL PARTITO
COMUNISTA
ITALIANO
PALMIRO TOGLIATTI
(1893-1964)
GIORGIO BOCCA
E È LECITO un confronto con i grandi
personaggi risorgimentali, direi
che il più simile a Togliatti mi pare
Cavour, non solo perché entrambi
sono torinesi, piemontesi non solo
per l’anagrafe, ma perché lo sono stati come
cultura, come formazione; perché entrambi
sono stati sovversivi d’ordine, creatori o
ricercatori di ordini nuovi che riproducessero,
migliorandolo, il vecchio. Il Togliatti di sempre,
di fondo, come il Cavour di sempre e di fondo è
quello della scuola ben fatta, della cultura
seria, dei vecchi valori dell’onestà, del lavoro,
della tenacia; più un gusto, un orgoglio
aristocratico di chi appartiene a una élite.
Perché Togliatti è stato un personaggio di
importanza mondiale? Perché ha svolto nello
stalinismo, per Stalin, la stessa funzione che i
grandi monaci umanisti svolsero presso i re
franchi, Carlomagno in particolare, o
longobardi: tradurre la forza della loro barbarie
e delle loro armi in nuova cultura, in nuovo
jure, almeno formale, ecco, nel dare una forma
alla forza bruta. Togliatti fu anche chiamato il
giurista del Komintern non tanto perché
avesse il compito di dare una parvenza legale
alle purghe e ai processi dei comunisti europei,
o fosse un furbo abile azzeccagarbugli, ma
perché sentiva la necessità, e la comunicava a
Stalin, di forme civili per il comunismo. (...)
Uno dei misteri della vicenda Togliatti è la sua
popolarità che si manifestò in modi
impressionanti per i suoi funerali con milioni di
persone in vero autentico lutto e che già si era
rivelata quando fu vittima dell’attentato di
Pallante. Come era possibile che fosse così
amato dalla gente un uomo così schivo,
superbo, scostante, elitario? Uno che alla
Camera o nella sede del partito se si avvicinava
un compagno sconosciuto o non facente parte
del sinedrio smetteva di parlare e con lo
sguardo gelido gli ordinava di allontanarsi?
Uno che non aveva alcuna vita sociale,
conviviale con i compagni? Uno che quando
scriveva sull’Unità aveva il tono del professore
insofferente degli errori altrui?
Difficile rispondere. Forse fu il mito della
guerra e dell’antifascismo, il mito di quel capo
misterioso, Ercoli, che doveva arrivare dalla
Russia e che avrebbe posto riparo a tutte le
ingiustizie italiche; forse l’altro mito, di tipo
staliniano, del capo onnipotente, rispettato e
temuto; o forse più semplicemente il
riconoscimento anche da parte degli avversari
che era un uomo di qualità, un intellettuale,
uno che aveva il sentimento tragico della
storia; non un avventuriero o un opportunista.
(...). Dicono che i biografi si innamorino
sempre un po’ del loro personaggio. Io di
Togliatti non mi sono innamorato, ma gli ho
reso i meriti che aveva.
(da Togliatti, di Giorgio Bocca, Feltrinelli)
S
casione di fare i conti col Migliore e, data l’età e la situazione, a
volte parevano disposti persino a fare un po’ di conti pure con
se stessi. Apparenza ingannevole. Ciascuno era un caso a sé, ma
in comune avevano la granitica certezza che, se erano sopravvissuti a tanto, era perché in quella o l’altra occasione si erano
comportati a quel modo, avevano pronunciato quelle parole,
avevano taciuto quel fatto. Da qui la loro memoria di ferro.
A Roma, Umberto Terracini ci ricevette in Senato. Pietro Secchia in uno studio arredato con dei confessionali; Camilla Ravera in un appartamentino da vecchia maestra; Giuseppe Berti in
un elegante soggiorno; il figlio di Franco Rodano ci chiese, sprezzante, perché non scrivessimo di Angelo Tasca — il primo a denunciare il terrore — anziché di Togliatti. A Torino scovammo
Andrea Viglongo (l’editore di Salgari) in una villetta sommersa dai libri. Nella casa triestina di Vittorio Vidali era ospite la figlia di Cesare Battisti. Da alcune di quelle dimore uscimmo immalinconiti o scocciati. Ma generalmente il Bocca poteva tranquillo sedere sulla seggiola, o sulla poltroncina che gli erano state offerte e rilassato, il busto un po’ piegato in avanti, parlare in
tutta fiducia con chi gli stava di fronte.
A
veva fiducia, fondamentalmente, in se stesso, nella
propria capacità — empatica — di entrare nel mondo
degli altri e discernere, nel groviglio di quelle vite, i fili
che portavano a Togliatti. Era, il suo, il ruolo del giudice istruttore. Anni dopo, parlando del giudice Falcone, il Bocca
ammirato diceva: «Un vero mafioso!» per dire che solo chi conosce perfettamente il modo di pensare dei mafiosi è in grado di
combatterli. E io, ripensando a quelle ore nelle case degli uomini della Terza Internazionale, ridacchiavo pensando di lui: «Il vero rivoluzionario di professione!».
Era un lavoro intenso, stupendo, che invadeva la nostra vita.
In studio, in auto, in spiaggia, in cucina: non parlavamo che di
Bordiga e Bucharin, di Tasca e Kamenev, della Noce e Humbert
Droz, e di lui, soprattutto di lui, il Migliore, Ercoli, Palmi, in tutte le declinazioni. Le cartellette ingrassavano, molte figliarono
due o tre altri capitoli, su fatti e problemi non preventivati. Le
risse, fra noi, erano all’ordine del giorno: entrambi sentivamo il
bisogno di riaffermare la nostra identità, in una situazione di intesa troppo intima e tesa.
Il Bocca scrisse il capitolo sul socialfascismo, quindi partì per
non so più per che servizio. Io trovai nel Fondo Tasca, all’Istituto Feltrinelli, una serie di documenti che ne davano uno sfondo
più ampio. Quando lui rientrò, e scoprì che avrebbe dovuto rifare quella fatica, quasi mi uccise. Ho riletto il capitolo incriminato, titolato “La resa a Stalin”. Anzi, l’ho divorato come un giallo
appassionante. Avevo dimenticato tutto, tranne la frase con cui
il compagno Kuusinen commentò la terribile vicenda: Togliatti
— disse — “a dejà joliment appris la langue russe”.
P
enso di aver dimenticato tutto, o quasi, di questo libro
perché mi costò una fatica spropositata. Non per quanto riguardò la pur faticosa ricerca, ma per quanto significava svolgerla con occhi non miei. Natalia Aspesi
mi avrebbe poi sgridata perché non avevo chiesto la firma: francamente, la cosa non mi passò per la testa. Studiavo, mi appassionavo, leggevo e correggevo i capitoli nelle varie stesure, ma
mi era chiaro che quello era il libro del Bocca, frutto di un bisogno tutto suo. Quando il lavoro fu terminato, fui contenta che le
mie previsioni fossero state contraddette, ma avevo una gran
voglia di rileggere Pinocchio e le Operette Morali. (Non avevo
ancora scoperto la Bibbia). Lessi la prima stesura della nota al
testo in cui Bocca, ringraziandomi per la collaborazione, parlava del libro come del nostro “figlio di carta”. Mi parve troppo.
LA FOLLA
NELLA FOTOGRAFIA
I FUNERALI
DI PALMIRO TOGLIATTI,
IL 25 AGOSTO 1964,
A ROMA
Il desiderio di staccarmi dall’opera non mi impedì di condividere le emozioni di Giorgio mentre si manifestavano le reazioni
funeste del partito alla pubblicazione — l’intervista dell’isterico Giancarlo Pajetta su Tempo illustrato, la stroncatura di Luciano Gruppi su Rinascita — anche se mi parevano scontate. Alle presentazioni del libro mi tenevo defilata. Solo a Bari — il Bocca era raffreddato — toccò a me di parlare al suo posto. Sempre
a Bari, tanti anni dopo, mi toccò nuovamente quell’onore, quando, grazie a Luciano Canfora, mio marito fu insignito della laurea in storia honoris causa.
Ma la partita coi comunisti italiani era già stata chiusa quando il libro era stato messo in vendita, a buon prezzo, in edicola,
per i lettori dell’Unità.
L
a sera che il Bocca, tornato da Roma, mi annunciò il contratto per una biografia di Togliatti, fui tanto angosciata che non gli domandai da chi era venuta l’idea. Mi sono posta il problema solo quando Gianluca Foglia mi ha
chiesto una testimonianza per questa edizione Feltrinelli.
Ho allora telefonato a Donato Barbone, che in quegli anni era
direttore editoriale della Laterza, perché m’è sembrato probabile che la proposta fosse venuta da lui, e volevo sapere in base
a quali indizi si fosse messo in testa che il Bocca era adatto all’impresa. Donato mi ha detto che no, l’idea non era stata sua.
«Di Vito Laterza?» ho chiesto io, stupefatta. «Nemmeno» ha detto Donato. «Non sono sicuro, ma penso che Vito abbia accolto con
molto entusiasmo un’idea proposta timidamente da Giorgio,
un’idea che in lui maturava da anni». «Ma tu — lo ho incalzato
sentendo rinascere in me l’antico spavento — quando ti ha detto la cosa, come hai reagito?». «Come te» ha risposto Donato.
«Gli ho domandato come pensava lui, sempre in giro per il Giorno, di affrontare gli archivi. E Giorgio — al telefono ho sentito un
risolino — mi ha detto che ci avresti pensato tu. È stata la prima
volta che ti ho sentita nominare».
Q
uel giorno è venuto a pranzo mio nipote Luca, sedici
anni. Gli ho raccontato questa storia e l’ho conclusa dicendo: «Vedi che tipo era tuo nonno? Mi ha messa davanti a un fatto compiuto!» E lui: «Il modo migliore per
non sentirsi dire di no». Dato che si parlava del nonno, Luca mi
ha detto che gli è molto piaciuto il capitolo del Provinciale in cui
parla della vita di famiglia. Allora ho aperto anch’io una copia
del Provinciale, ma al capitolo “Viaggio per il comunismo”. Inizia così: “Avevo scritto per Laterza la storia della guerra fascista
e della guerra partigiana. Mi mancava però la faccia nascosta,
quei comunisti rispuntati l’8 settembre come da una cantina segreta della casa comune”. Sono risalita al capitolo sulla guerra
partigiana, titolato “La guerra di casa” e ho trovato il primo incontro del comandante Giorgio coi comunisti: «In Varaita i garibaldini erano arrivati prima di noi, occupavano già il versante
sinistro della valle, noi ci sistemammo sul destro e Sampeyre fu
la capitale di entrambi. Noi dei comandi ci trovavamo a cena al
Leon d’oro, il ristorante sulla piazza, a tavola assieme ad Ezio, il
commissario politico, emiliano, comunista, gran brav’uomo, e
a Medici, il comandante militare: risotto ai funghi e le risate di
Ezio, da Rigoletto che arrivassero anche nel loggione, quando io
attaccavo con la libertà e lui tirava fuori dal suo povero ma convinto armamentario ideologico “ma sì, e tu dagli da mangiare la
libertà alla gente e vedrai, noi gli daremo la libertà dal bisogno,
mio bel Giorgino”».
Dunque, come tutte le cose del Bocca, anche questo Togliatti
ha radici autobiografiche; come tutte le sue migliori, ha le sue
fondamenta nella lotta partigiana.
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“Ai suoi funerali milioni di persone in vero
autentico lutto. Un mistero: come era possibile
che fosse così amato dalla gente un uomo
tanto schivo, superbo, scostante, elitario?”
Repubblica Nazionale 2014-07-06
LA DOMENICA
la Repubblica
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Spettacoli. Remake
FOTO NICOLAS GUERIN/CONTOUR BY GETTY IMAGES
Roman
Polanski
Il mio
caso Dreyfus
Repubblica Nazionale 2014-07-06
la Repubblica
DOMENICA 6 LUGLIO 2014
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Il regista girerà un film sull’“affaire”. Qui ne parla
con lo scrittore (Robert Harris)che gli ha suggerito
come fare: “Trasformalo in un thriller”
M
ENTRE LA RICERCA storica tende a riabilitare la figura di Alfred Dreyfus, Roman Polanski ha scelto di raccontare l’affaire dal punto di vista di Georges Picquart, l’uomo che appurò la colpevolezza di Esterházy e l’innocenza del capitano. Perché privilegiare questa figura? Forse la risposta
sta nel fatto che Picquart non fosse né ebreo (era anzi vagamente antisemita) né politicamente impegnato (se si
eccettua il suo anticlericalismo)?
ROMAN POLANSKI
«C’è un’espressione usata in inglese, whistle-blower,
che indica le persone che lanciano l’allarme, per intederci gente come Edward Snowden. È
un argomento questo che mi interessa da molto tempo. Sono almeno dieci anni che cerco di
fare un film su questo tema, ma non riuscivo a vedere un modo per adattarlo efficacemente
su Dreyfus. Per diverse ragioni. La prima è che come eroe Dreyfus non è molto interessante. Non era né particolarmente seducente né particolarmente simpatico, anche secondo il
giudizio delle stesse persone che lo sostenevano. La seconda ragione, ed è la più importante, è che trascorse il grosso del periodo che ci interessa su un’isola deserta, l’Isola del Diavolo, e che per molto tempo veniva incatenato al letto quando dormiva. Insomma, non riuscivo a trovare un modo per affrontare degnamente il soggetto. Poi Robert Harris ha avuto l’idea geniale di adottare il punto di vista dell’uomo che, come sappiamo, è stato quello che lo
ha scagionato. Miracolosamente il libro di Robert (L’ufficiale e la spia, in Italia pubblicato
quest’anno da Mondadori, ndt)offre tutta la struttura di un film. Attraverso Picquart, il nostro racconto poteva prendere le tinte di un film giallo, addirittura di un thriller. Con lui, con
Picquart, c’è quello che a Hollywood chiamano l’arch».
ROBERT HARRIS
«Un cliché tipico di Hollywood vuole in
effetti che il personaggio cambi nel corso
della trama, durante le due ore del film. È
chiamato the arch of development, ovvero
l’arco narrativo, la curva che ogni trama
deve seguire. A Hollywood Picquart sarebbe diventato naturalmente un filosemita.
Mentre la realtà è più sfumata. Nella realtà
Picquart non cambiò granché, ma era un
uomo dotato di un grande senso morale,
posseduto dal dovere, dall’onore, e questo
lo ha reso interessante ai nostri occhi. Era
una figura complessa, non necessariamente molto simpatica, ma davvero notevole. Cambiò veramente opinione sugli
ebrei? Secondo me riteneva che l’errore
giudiziario fosse qualcosa di assai più grave di un crimine. E valutava molto semplicemente che il suo onore era assolutamente incompatibile con il fatto di lasciare un
colpevole in libertà mentre un innocente
veniva punito al suo posto. Per l’esercito
francese sarebbe stato un disastro. La dimensione politica dello scandalo venne solo dopo. In prima battuta la storia di Dreyfus era una storia di spionaggio; in seconda
battuta un fallimento della giustizia; solo
in terza battuta diventò una questione politica. Per creare qualcosa sei obbligato a
scegliere».
ROBERT HARRIS
«Il caso Dreyfus ha largamente ispirato la letteratura, sia quella “alta” che il romanzo popolare. Personalmente per documentarmi mi sono letto Proust e parecchio Zola, ma non tutti gli altri. E ciò che più mi ha affascinato nell’affaire sono gli elementi legati a una modernità ancora in embrione. Ogni giorno venivano spediti a New York telegrammi da seicento
parole per informare il pubblico americano degli ultimi sviluppi. Il fatto che fosse stato possibile riprodurre la lettera (il principale documento a carico di Dreyfus, pubblicato da Le Matin nel 1896, ndt) sulla prima pagina di altri giornali, grazie a nuove tecniche di facsimile, è
uno degli elementi che spiegano come avesse fatto lo scandalo ad assumere queste dimensioni. Vent’anni prima non sarebbe stato possibile. Si può dire che sia stato il primo evento
mediatico globale. La regina Vittoria inviò il presidente della Corte suprema inglese ad assistere al processo. Beh, affascinante».
1894, L’UFFICIALE
EBREO ALSAZIANO
È RICONOSCIUTO
COLPEVOLE DI
ALTO TRADIMENTO,
DEGRADATO
E CONDANNATO
AI LAVORI FORZATI
GEORGES
PICQUART
ROMAN POLANSKI
«Io non ricordo esattamente cosa sia stato a far scattare in me l’interesse per questa storia. Penso di essere stato molto influenzato anche dal film di Carol Reed, Fuggiasco (1947,
racconta di una caccia all’uomo contro un nazionalista irlandese per le strade di Belfast,
ndt). Sono questi i tipi di personaggi che mi interessano. E una volta individuati amo raccontare la loro storia dal loro reale punto di vista, con tutto il rigore che ciò possa richiedere:
spesso, quando si comincia a lavorare a questo genere di storie, si è tentati di far dire al vostro eroe qualcosa di interessante anche se non fa parte della sua storia. Beh, bisogna invece essere capaci di mantenere una certa disciplina. Comunque, tornando a noi, la molla che
mi ha spinto verso Dreyfus dev’essere scattata in me una decina d’anni fa, poco dopo Il pianista. Volevo che il mio prossimo film avesse un senso al di là del puro divertissement. Quanto al modo in cui mi sono documentato mi piacerebbe rispondere come Billy Wilder fece con
Volker Schlöndorff in un documentario che quest’ultimo aveva girato su di lui. «Signor Wilder», gli chiede Schlöndorff, «lei si scrive da solo tutte le sceneggiature. Ritiene che un regista debba saper scrivere?». E Billy Wilder risponde: «No, no, ma deve almeno saper leggere». Sul caso Dreyfus ho letto una quantità
di libri incredibile, solo che alla fine non trovavo la maniera di raccontare la storia. Almeno fino a che non è arrivato Robert con la
sua idea di Picquart. Come tutti i registi ricevo molte sceneggiature. Ma non mi è mai
capitato di leggere un copione che mi facesse dire: «Voglio assolutamente farlo». Solo
con Chinatown è successo. Le sceneggiature, in realtà, sono soltanto delle “istruzioni
per l’uso”, no? Con il libro di Robert invece è
stato pazzesco. Un approccio formidabile.
Purtroppo in un film non si può essere sfumati come in un libro. È un medium differente. Non si può raccontare la storia nello
stesso modo in cui la si racconta in un romanzo. Forse solo le serie televisive possono
avvicinarsi alla letteratura. Ci sono delle scene a cui abbiamo dovuto rinunciare. In compenso, certi episodi (penso al processo, o alla degradazione) sono eventi molto visivi,
che si prestano perfettamente a un adattamento cinematografico».
A New York il pubblico attendeva
avidamente notizie da Parigi
Si può dire che sia stato il primo
evento mediatico globale
ROBERT HARRIS
«Sì, prendiamo proprio la cerimonia della
degradazione, 5 gennaio 1895. Una scena
che ha cambiato il corso della storia mondiale. Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, era tra la folla e fu da quel momento che pensò che il popolo ebraico doveva avere un suo Stato. La degradazione di
Dreyfus rappresentò un punto di svolta».
ROMAN POLANSKI
«Lavorando a questo progetto mi sono
reso conto che quando cominci a chiedere
alle persone che cosa conoscono dell’affaire Dreyfus, scopri che ne sanno davvero poco o nulla, anche quelle istruite. Quando dico che farò un film sull’affare Dreyfus mi dicono che è una cosa fantastica, che sarà interessantissimo, e basta… La gente ignora
che i francesi bruciavano per strada i libri
di Zola insieme a L’Aurore (il giornale che
aveva pubblicato il famoso J’accuse dello
scrittore, ndt). In buona sostanza non sa
che quello scandalo ha letteralmente cambiato la storia della Francia. Non ricorda
che all’epoca in cui Zola scrisse il J’accuse,
gran parte dell’opinione pubblica gli era
ostile».
ALFRED DREYFUS
IL COLONNELLO
SCOPRE IL VERO
COLPEVOLE.
NEL 1896 FA
RIAPRIRE IL CASO
MA VIENE RIMOSSO
DALL’INCARICO
EMILE ZOLA
IL 13 GENNAIO 1898
“L’AURORE”
PUBBLICA
L’EDITORIALE
DELLO SCRITTORE
PRO DREYFUS
CON IL TITOLO
“J’ACCUSE”
ROBERT HARRIS
LO SCRITTORE
INGLESE RACCONTA
DI PICQUART
NEL SUO ULTIMO
ROMANZO
“L’UFFICIALE
E LA SPIA”
(MONDADORI 2014)
ROMAN POLANSKI
«La Cour des Invalides, dove ebbe luogo,
oggi è inutilizzabile per i nostri scopi. C’è il
prato, è pavimentata, mentre a quell’epoca
non lo era: dovremo ricorrere a degli effetti
speciali. Vedremo. Comunque c’è tempo.
Dobbiamo ancora cominciare a girare. Il film
non sarà pronto prima del gennaio 2016».
LA SCENA
IL 5 GENNAIO 1895 DREYFUS VIENE DEGRADATO CON UNA PUBBLICA CERIMONIA
ALL’INTERNO DELLA COUR DES INVALIDES. “INSIEME AL PROCESSO È UNO DEGLI EVENTI
PIÙ CINEMATOGRAFICI DI TUTTA LA STORIA” RACCONTA IL REGISTA
CERTO, UN FILM NON PUÒ
AVERE TUTTE LE SFUMATURE
DI UN ROMANZO. FORSE
SOLO ALCUNI TELEFILM
POSSONO AVVICINARSI
ALLA LETTERATURA.
MA IN QUESTA STORIA
CI SONO ALMENO UN PAIO
DI EPISODI CHE SEMBRANO
FATTI PER IL CINEMA
POLANSKI
PICQUART È UNA FIGURA
PIÙ COMPLESSA
DELLO STESSO DREYFUS.
NON GLI INTERESSAVA TANTO
LA QUESTIONE POLITICA
LEGATA ALL’ANTISEMITISMO
RITENEVA SEMPLICEMENTE
CHE L’ERRORE
GIUDIZIARIO FOSSE
PIÙ GRAVE DI UN CRIMINE
HARRIS
© 2014 Le Monde
(Testo raccolto da Nicolas Weill
Traduzione di Fabio Galimberti)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
MI SONO RESO CONTO
DI QUANTO IN REALTÀ
LA GENTE SAPPIA POCO
DI QUESTA VICENDA,
ANCHE QUELLI PIÙ ISTRUITI.
VOGLIO DIRE: I FRANCESI
BRUCIAVANO PER STRADA
I LIBRI DI ZOLA, È UN CASO
CHE HA CAMBIATO
PER SEMPRE QUESTO PAESE
POLANSKI
Repubblica Nazionale 2014-07-06
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 6 LUGLIO 2014
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Next.Eureka
C’è chi sostiene che le scoperte più innovative
siano ormai alle nostre spalle. Siamo andati
al meeting annuale di Berlino per capire se è vero
RICCARDO STAGLIANÒ
N
BERLINO
ELLA VENEZIA DEL XVsecolo i vetrai di
Murano pretendevano di dormire
sonni tranquilli. Se una bottega inventava un nuovo sistema per soffiare il vetro non voleva che il primo
arrivato glielo copiasse. Così presero a comunicare le loro innovazioni
al Doge, che a sua volta emanava un
decreto per proteggerle per
dieci anni. Il sistema moderno dei brevetti nasce allora, ricorda il portavoce dell’European
Patent Office, in un’algida stanzetta del Quadriga Forum di Berlino. È l’unica slide della
sua presentazione in cui gli italiani fanno una
bella figura. Nella torta sui maggiori produttori di brevetti, occupata per il 37 per cento
dalla Germania, il nostro Paese non è pervenuto. Ci spartiamo le briciole nella miscellanea
“other countries”. E non rientriamo nemmeno nella top 20 di chi produce più innovazione per milione di
abitanti, che ha la Svizzera in testa. Per non infierire troppo
il relatore omaggia il vicentino Federico Faggin, papà del primo
microchip commerciale, il mattoncino di silicio che ha dato il via
all’informatica moderna. Che però è dovuto emigrare nella Silicon Valley per far realizzare la sua rivoluzionaria intuizione.
«Le idee, senza la loro esecuzione, sono allucinazioni» è una
frase attribuita, forse apocrifamente, a Thomas Edison. Qualunque imprenditore concorderebbe. Servono soldi per la ri-
cerca. Laboratori funzionanti. E una cultura che tolga lo stigma
dal fallimento, considerandolo invece la cicatrice necessaria di
chi è caduto cercando di correre più forte di altri. Che Roma abbia dimezzato l’uno per cento che investiva in ricerca nel 2005
e Berlino, che partiva dal tre per cento, ci abbia messo sopra altri 13 miliardi, la dice lunga sul perché dal Fraunhofer Institute che ci fanno visitare siano usciti, per stare agli ultimi anni, il
formato di compressione dell’audio mp3 (che però è stato creato anche con il contributo di un altro italiano, l’ingegnere Leonardo Chiariglione) e il Voip, la telefonia via Internet. Ma
nonostante il contesto attuale cerchi di mettere tutti i bastoni possibili tra le ruote degli innovatori
italiani, finalista dell’European Inventor
Award, che quest’anno si è celebrato proprio
nella capitale tedesca, è Luigi Cassar. Per
Italcementi ha inventato il cemento che non
si sporca e addirittura assorbe lo smog, contribuendo all’abbattimento dell’inquinamento urbano. Investimenti nella ricerca o
meno, c’è comunque chi pensa che le invenzioni più importanti le abbiamo ormai alle spalle. Sostiene infatti l’economista americano Robert Gordon che l’iPad non è il transistor e che la crescita economica
di cui gli Stati Uniti hanno goduto per più di un secolo si è fermata anche per questo motivo. In attesa di scoprire se la teoria
di Gordon sia corretta oppure no, a Berlino tre, tra gli inventori
premiati (la lista completa su www.epo.org), li abbiamo voluti
incontrare ugualmente. Perché comunque andranno le cose domani hanno intravisto ieri il next in cui viviamo oggi.
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Alla fiera
delle
invenzioni
Repubblica Nazionale 2014-07-06
la Repubblica
DOMENICA 6 LUGLIO 2014
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QR Code
“Adesso siamo pronti
per un codice più sicuro”
UANDO l’interprete
Q
INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI
MASAHIRO
HARA
COL SUO
TEAM
HA DIFFUSO
GRATIS
IL QR CODE
GUADAGNANDO
SOLDI
DAI LETTORI
chiede a Masahiro Hara
(premio popolare a
Berlino) se si è pentito di non
aver fatto pagare la licenza per
usare l’evoluzione del QR Code,
scoppia a ridere in singulti.
«Abbiamo scelto di stampare il
QR Code su carta perché
volevamo che fosse il più diffuso
possibile. Se avessimo preteso
una licenza avremmo ottenuto
l’effetto contrario. E poi noi i
soldi volevamo farli con i lettori».
Però ora che qualsiasi
smartphone può decrittare quei
quadratini che contengono
informazioni incomprensibili a
occhio umano Hara e il suo team
si devono inventare altro. Tipo?
«Un QR sicuro. Perché ci siamo
resi conto che c’è chi contraffà il
codice per spedire chi lo legge in
siti che non hanno niente a che
vedere con l’indirizzo originario.
Il QR sicuro sarà immune da
questi rischi».
Stampante 3D
“La brevettai trent’anni fa
ma solo ora ne parlano tutti”
GGI ne parlano tutti.
O
CHUCK W.
HULL È
IL DESIGNER
FRUSTRATO
DAI TEMPI
MORTI
CHE VOLEVA
CREARE
I PROTOTIPI
IN MANIERA
PIÙ VELOCE
4G LTE
“E vedrete cosa potrete fare
quando raggiungeremo il 5”
E POTETE vedere la tv sul
telefonino, ringraziate
Eric Dahlman,
Muhammad Kazmi, Stefan
Parkvall e Robert Baldemair,
ricercatori della Ericsson che
hanno contribuito alla
realizzazione della quarta
generazione di trasmissione
dati per la telefonia mobile, il
cosiddetto Long Term
Evolution. Il Lte è il frutto di
decine di tecnologie che si
combinano una sull’altra. Da
buoni innovatori, sono già oltre.
«Il 5G dovrebbe essere pronto
nel 2020» ha spiegato Dahlman
a Berlino «e sarà molto più
ambizioso del 4G. Questo
riguardava la velocità, quello la
sicurezza e come varie
macchine diverse si
connetteranno l’una con l’altra».
S
ERIC DAHLMAN
È UNO DEI
RICERCATORI
ERICSSON
CHE HA
CONTRIBUITO
A CREARE LA
TRASMISSIONE
DATI 4G
Dicono che è il viatico
della terza rivoluzione
industriale. Ma quando nel 1983
Chuck W. Hull (premio alla
carriera a Berlino) ha inventato
la stereolitografia, ovvero la
tecnica di realizzare oggetti
tridimensionali a partire da file
digitali, solo i giornali di settore
registrarono l’evento della
nascita della stampa 3D. «Ero un
designer» spiega questo
settantatreenne affabile, «e
disegnare un prototipo,
affidarlo a uno stampatore che
doveva creare la matrice,
provarlo, correggerlo era un
processo frustrante, lungo
mesi». Così si mise a ragionare
su una macchina che
aggiungeva, come in un castello
di sabbia computerizzato, strati
di filamenti plastici fino a creare
l’oggetto voluto. «Nell’86
depositai il brevetto e allora i
nostri primi clienti furono quelli
del settore automobilistico.
Immaginai che ci sarebbero
voluti 25 anni perché diventasse
di uso diffuso, e ne è servito
qualcuno in più». Ma non teme
che la sua invenzione finirà per
uccidere la manifattura di
massa, togliendo altro lavoro
alla classe media già in crisi?
«Non sono un futurologo. La
delocalizzazione però c’era già e
la mia invenzione sta
consentendo a parte di quel
lavoro di rientrare. Forse altri
operai perderanno il posto, ma
ne guadagneranno i designer
che personalizzeranno i
prodotti».
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la Repubblica
LA DOMENICA
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Sapori. Capricciosi
IN PRINCIPIO
FU IL BASILICO.
DA ALLORA SOPRA
E DENTRO IL CIBO
PIÙ ADDENTATO
D’OCCIDENTE
(DOPO LA PASTA)
È STATO
MESSO DI TUTTO
E NON SEMPRE
A PROPOSITO. ORA
LE COSE STANNO
CAMBIANDO.
ECCO COME
Non la solita pizza.
Tra impasti e ingredienti
dove osano gli chef
LICIA GRANELLO
C’
Il panificio
Dopo aver nobilitato
la scrocchiarella romana
a “La Pizzeria del Teatro”,
Gabriele Bonci amplierà
in autunno il suo panificio
di via Trionfale a Roma
con un mercato di frutta
e verdure biologiche, mulino
a pietra e pizzeria-trattoria
È A CHI PIACE SOTTILE, chi la vuole croccante. Chi ama che debordi dal piatto, bollente e filante. Chi non transige sul cornicione, chi la piega a libretto, e guai a usare coltello e forchetta. Chi impazzisce per la Marinara, mater originaria, e chi non
prescinde da funghi e prosciutto.
Per un tempo lunghissimo, la pizza è stata solo il più facile degli spezza-fame: pasta di pane, pomodoro e poco altro, qualche morso avido camminando e stando attenti a non macchiarsi. La madre di tutte le declinazioni gourmand risale a fine ‘800, quando il basilico trasformò la pizza in bandiera tricolore per omaggiare la regina Margherita.
Da quel momento in poi, sopra la pizza è finito di tutto, con le
farciture utilizzate sempre più frequentemente per mascherare la qualità mediocre degli ingredienti. Un’involuzione figlia della crisi economica, che ha fatto delle pizzerie luoghi della
socialità sempre più popolari e praticati, in alternativa ai ristoranti di piccolo cabotaggio. Si
mangia per stare insieme spendendo poco, e pazienza se la pizza si ricomporrà nello stomaco
come se avessimo ingoiato un frisbee e ci addormenteremo abbracciati a una damigiana d’acqua. Ma un’altra pizza è possibile, come ben testimonia il manipolo di pizzaioli illuminati che
sta cambiando l’identità del cibo secondo solo alla pasta nella classifica dei consumi alimentari del mondo occidentale.
Tutto è cominciato con lieviti e farine, fronMa i nuovi pizza-star si spingono oltre, ritiere obbligate di un’alimentazione sempre valeggiando con gli chef nella selezione delle
meno sana. L’esplosione di intolleranze e al- migliori gourmandise in circolazione e negli
lergie ha costretto gli artigiani più sensibili a accostamenti creativi, che trasformano le
interrogarsi sulla salubrità della chimica ne- pizze in piatti d’autore a piccoli prezzi. Una rigli impasti, dagli acceleratori ai miglioratori, voluzione che si traduce in veri percorsi di depassando per conservanti e sbiancanti.
gustazione: le pizze vengono servite tagliate
Chi ha deciso di cambiare, oggi sceglie fari- a spicchi per l’intero tavolo, offerte in succesne diverse — avena, farro, segale... — o di gra- sione dalle più semplici e delicate a quelle deni antichi, macinate a pietra, da coltivazioni gne di una tavola stellata. Per accompagnarbiologiche e biodinamiche. Il lievito di birra le, niente bibite — orrore! — ma un ventaglio
viene dosato col bilancino del farmacista — 5 di birre rigorosamente artigianali prodotte
grammi per quasi 20 kg di farina! — da solo o nelle centinaia di microbirrifici sparsi in tutinsieme al lievito madre, a sua volta nutrito e ta Italia, raccontate e consigliate con perizia
coccolato come una creatura. L’olio è rigoro- da sommelier, mentre l’opzione vino si gioca
samente extravergine, il sale è marino, la alla pari tra rosé e bianchi sfiziosi. Se le pizze
mozzarella arriva da allevamenti virtuosi gourmand vi attraggono, regalatevi una gita
(niente trinciati di mais), i pomodori dall’ari- nei nuovi santuari del forno a legna. L’unico
docoltura, la pratica “senz’acqua” che obbli- rischio che correrete sarà provare un certo apga la pianta a cercare in profondità, arric- petito ben prima di andare a dormire.
chendosi di minerali.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il libro
La nuova guida “Pizzerie
d’Italia” del Gambero Rosso
recensisce 450 locali in tutta
Italia. Ben 45 le pizze con Tre
Spicchi (al piatto) e Tre Rotelle
(al taglio). Premio Maestri
d’impasto a Enzo Coccia
(vedi ricetta) e Renato Bosco
(Saporè, Verona)
La ricetta
Friggitelli, pomodori secchi e baccalà
così rileggo la tradizione
INGREDIENTI PER QUATTRO PIZZE:
½ LITRO D’ACQUA; 27 G. DI SALE MARINO; 5 G. DI LIEVITO DI BIRRA
20 ML. DI EXTRAVERGINE (PER L’IMPASTO); 3 G. DI ZUCCHERO;
850-900 G. DI FARINA; 80 ML. DI EXTRAVERGINE BIO “LE PERACCIOLE”
320 G. DI FRIGGITELLI (PEPERONCINI VERDI); 320 G. DI BACCALÀ
320 G. DI MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA “LA FENICE”
160 G. DI POMODORI SEMISECCHI; 1 MAZZETTO DI BASILICO FRESCO
LO CHEF
ersate l’acqua in una zuppiera, sciogliendo in successione sale, lievito, zucchero, olio e il 30% della farina. Cominciate a impastare
e versate il resto della farina fino alla consistenza
desiderata. Coprite l’impasto, senza estrarlo dalla zuppiera, con un panno umido. Lasciare lievitare 10-12
ore a temperatura ambiente. Estraete dalla zuppiera l’impasto e dividetelo in quattro. Ungete le teglie e foderatele
con gli impasti. Lasciate riposare altri 10’. Aprire a
metà i friggitelli, svuotandoli dei semi, affettarli sottili, saltarli in padella con aglio e olio. Sciacquate il
baccalà e tagliatelo a sfoglie. Accendete il forno a
230°-250° C. Irrorate gli impasti di extravergine,
poi disponete il baccalà coperto dalla mozzarella.
Cuocete per 10’, aggiungete i friggitelli e reinfornate altri 10’. Togliete dal forno, aggiungete i pomodorini semisecchi e il basilico spezzettato.
V
La app
È anche in forma di app,
la “Guida alle Migliori Pizzerie
di Napoli e della Campania”
firmata da Monica Piscitelli,
che comprende notizie
sulla città, il “glossario
del pizzajuolo” e le migliori pizze
per categoria: margherite,
ripiene, marinare e creative
IL NAPOLETANO
ENZO COCCIA,
UNO DEI PIÙ GRANDI
MAESTRI PIZZAIOLI
ITALIANI, SI DIVIDE
TRA LE DUE SEDI
DE “LA NOTIZIA”,
AL VOMERO:
DA UNA PARTE,
TRADIZIONE,
DALL’ALTRA,
CREATIVITÀ FIGLIA
DI PRODOTTI LOCALI
COME IN QUESTA
RICETTA IDEATA
PER REPUBBLICA
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37
L’hardware
buono
per ogni
software
tipi con...
MARINO NIOLA
NA VOLTA LA PIZZA era il
pronto soccorso dello
stomaco. Colazione, pranzo
e cena in dose unica per
saziare la fame atavica del
popolo napoletano. Adesso Oliviero
Toscani l’ha proclamata migliore
oggetto di design del pianeta, insieme ai
jeans. Con la differenza che dei jeans si
può fare a meno. Perfetta nel sapore,
nella forma e nell’immagine, l’icona
mondiale dell’Italian food riassume un
intero capitolo della fisiologia del gusto
in pochi centimetri di pasta lievitata.
Popolare e ricercata, locale e globale.
Così globale che una studentessa
americana della Columbia University un
giorno mi ha chiesto se esista una parola
italiana per dire pizza. L’ingenuità è solo
apparente, dal momento che il totem
alimentare partenopeo è anche lo street
food più diffuso sulla faccia della Terra.
Quello che ha colonizzato l’immaginario
gastronomico del nostro tempo facendo
del mondo una sconfinata pizza
connection. Certo più la marinara e la
margherita si allontanano dal Vesuvio
più diventano delle approssimazioni.
Delle opinioni da forno. Ciascuno ha la
sua. A Ulan Bator, in Mongolia, la fanno
con il montone, che per digerirla ci vuole
lo sciamano. Mentre a Mumbay pollo,
mandorle e curry piovono sulla
“bollywood”. E adesso l’ex cibo povero si
trasforma in piatto esclusivo. Luxury
pizza. Si chiama così quella che
l’albanese Nino Selimaj serve nel suo
locale di New York. Tre varietà di caviale
— beluga, sevruga e osetra — aragosta
selvaggia q.b. e per finire erba cipollina e
panna. Mangiarla è come entrare a
Disneyland, con le uova di pesce che
schizzano e frizzano in bocca, ha detto Bo
Dietl, uno dei Goodfellas di Scorsese.
Prezzo, 1.200 dollari per quella intera e
95 per un trancio. E poi ci sono le versioni
educational. Come la “quattro frazioni”,
pensata dall’Amministrazione comunale
di Napoli. Con ingredienti in
quadricromia, per rendere appetibile la
differenziata. Bianco come la carta,
verde come il vetro, giallo come gli
imballaggi e marrone come l’organico.
Eppure nonostante venga spesso
nominata invano, la pizza sempre pizza
rimane. Perché è un hardware
gastronomico compatibile con qualsiasi
software. Supporta gli ingredienti più
fantasiosi. Dal coccodrillo, come a
Sidney, alle cicale funghi e peperoni,
come in Missouri. Fino alla mizza-pizza,
con base di riso, che va alla grande a
Taiwan e in Corea. Ma fortunatamente si
può fare una pizza gourmet anche senza
scadere nell’horror culinario. Bastano
associazioni sapienti e ingredienti
eccellenti. Tonno fresco e cipolla di
Tropea. Ceci, scarole e pancetta di
maialino casertano. Melanzane e ricotta
di pecora. Ed è proprio questa infinita
capacità di adattamento la ragione della
fortuna glocale della pizza. Una
vocazione fusion che la fa essere di casa a
Tallinn come a Nashville, a Dubai come a
Shanghai. Facendo circolare un po’ di
Napoli nelle vene del mondo.
U
Conciato romano
Crema di carciofi
Artigiano della pizza,
Patrick Ricci prepara varianti
dagli ingredienti rigorosi,
come quella con friarielli,
olive taggiasche
e conciato romano Dop
Vitaliano Fronterrè integra
la farina doppio zero
con farina di soia e rigenera
l’impasto per tre giorni
Fragrante la pizza con crema
di carciofi di Menfi
POMODORO E BASILICO
VIA MARTIRI DELLA LIBERTÀ 103
SAN MAURO TORINESE (TO)
TEL. 011-8973883
DA VITALIANO E ROSANNA
VIALE ALDO MORO 13
ROSOLINI (SR)
TEL. 0931-859994
Pistacchio
Culatello
Recupera la tradizione
delle farine miste Bruno
de Rosa, che impasta avena
e mais giocando con inusuali
ingredienti, come nella pizza
pinoli, pistacchi e frutti rossi
Nella sua “pizzeria
a degustazione”, Edoardo
Papa ha scelto di lavorare
con farine bio e ingredienti
da ristorante stellato come
culatello e robiola di capra
MONTEGRIGNA BY TRIC TRAC
VIA GRIGNA 12
LEGNANO (MI)
TEL. 0331-546173
LA FUCINA
VIA LUNATI 25/31
ROMA
TEL. 06-5593368
Tonno fresco
Lardo di maialino
Olio extravergine
e impasti fermentati “come
il panettone”, nelle pizze
di Riccardo Antoniolo
Squisita quella con cipolla
di Tropea e tonno fresco
Nel laboratorio-locanda
ricavato in un palazzo
del Settecento, Franco Pepe
seleziona materie prime
locali come ceci del caiatino,
scarola e maialino casertano
OTTOCENTO SIMPLY FOOD
CONTRÀ S. GIORGIO 2
BASSANO DEL GRAPPA (VI)
TEL. 0424-503510
PEPE IN GRANI
VICO S. GIOVANNI BATTISTA 3
CAIAZZO (CE)
TEL. 0823 862718
In trancio
Mora romagnola
Ricotta di pecora
Gamberetti, wurstel,
cipolla, funghi,
salame, patatine fritte,
mais: a ciascuno
il suo trancio di pizza
Stagionale, etica, buona
da mangiare e da digerire,
la slow-pizza associata
al celebre marchio bio, con
mora romagnola, asparagi,
pancetta e pecorino sardo
Farine alternative per celiaci
nei locali con degustazione
“a metro” di Alessandro
Coppari (l’altro a Senigallia)
Terragna e squisita la pizza
ricotta ovina e melanzane
ALCE NERO & BERBERÈ
VIA PETRONI 9/C
BOLOGNA
TEL. 051-2759196
MEZZOMETRO
VIA GIACOMO LEOPARDI 1
JESI (AN)
TEL. 0731-213290
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Repubblica Nazionale 2014-07-06
la Repubblica
LA DOMENICA
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L’incontro. Impegnati
HO CAPITO PRESTO
CHE UNO SCATTO
DI LOTTA
NON ERA BUONO
SOLO PERCHÉ
ERA GIUSTO
LO SLOGAN
DELLO STRISCIONE
CHE AVEVI
INQUADRATO.
BISOGNAVA
ANDARE
ALLE RADICI
DEI CONFLITTI.
MAGARI
AVVISTARNE
DI NUOVI
Il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma e lo ha
scomposto in tutti i suoi mestieri: fotografo, ma poi anche grafico,
editor, archivista. Ora, dopo cinquant’anni dedicati “a un medium
che da noi non è mai interessato a nessuno”, raccoglie le sue memorie e ammette la quasi sconfitta: “Non sono così certo di averci visto
giusto. Gli intellettuali italiani ci hanno sempre considerati i parenti
poveri. Quanto all’oggi la nostra
grafica italiana, be’, in fondo loro, con tutte le loro geometrie levigate e sfumarivendicavano quella dignità e autonomia al linguaggio della fotografia, che
di questo paese non ha mai riconosciute».
missione, far conoscere il visibi- te,la cultura
Assunto per qualche anno all’Agfa, la sfidante tedesca dell’industria fotografica italiana, ma sospetto di intelligenza col nemico (scriveva anche per la ridella concorrente Ferrania, bibbia mensile del fotoamatorismo anni Cinle, sembra esaurita per ridon- vista
quanta), poi grafico pubblicitario in proprio, specialità fotografia industriale,
oggi diremmo immagine corporate. E intanto però fotografo “sociale”, di strada, engagé, nella Milano della Vita Agra, dove incrociava i Mulas, i Dondero, i
danza. Se non perdo del tutto la De
Biasi, i Nicolini, i Lucas. «Ho vissuto senza troppi problemi una doppia esistenza, durante la settimana costruttore d’immagine dell’impresa, nel tempo
contestatore visuale col movimento studentesco...». Lo dice con un’omsperanza è solo perché una buo- libero
bra di ironia. «Vedo le cose in prospettiva. Avevamo molta fiducia in lei, ma la fotografia è un medium gracile. Riesce splendidamente a creare relazioni di senspazio, ma non sa andare oltre la cornice. Guardi: una celebre foto di calna reflex costa poco più di uno socio,nello
una magnifica rovesciata. Ma poi, avrà fatto gol? Vedo la tensione dei muscoli, l’espressione del viso, nessuno saprebbe descriverli in parole. Ma non so
com’è andata a finire. La fotografia ha bisogno delle parole».
smartphone”
Quando arrivò il ‘68, sembrava facile. «C’era un corteo ogni giorno, o quasi.
Cesare
Colombo
MICHELE SMARGIASSI
MILANO
«S
ONO SICURO di aver visto giusto? E soprattutto: che cosa ho vi-
sto?». Un “libretto rosso” non dovrebbe concludersi così,
con un dubbio esistenziale. Ma Cesare Colombo è stato, per
oltre mezzo secolo di cultura visuale italiana, un rivoluzionario senza dogmi e senza diktat, e non si pentirà adesso, a
un anno dagli ottanta tondi.
Almeno alla seconda domanda, comunque, è facile rispondere per lui: ha visto tutto quel che c’era da vedere attorno a lui, e non ha soltanto visto, ha fatto,
e ha fatto vedere. Fotografo, grafico, critico, storico, giornalista, editor, docente, archivista, curatore: il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma, lo ha scomposto in tutti i suoi mestieri. Chiunque si è occupato di fotografia, negli ultimi decenni, ha incrociato le molte strade di Cesare Colombo, pivot
schivo, non esibizionista, di una generazione di “vedenti”.
Il riassunto di tutto sta adesso in un libro dalla copertina rossa, La camera del
tempo, edito da Contrasto e scritto assieme a Simona Guerra, qualcosa tra
un’autobiografia intellettuale, un album, un’antologia. Ma prima ancora sta sugli scaffali di questo studiolo bianco soppalcato, in moderato produttivo disordine, che dà su un cortile “di ringhiera”, che dà su una sponda del Naviglio Grande, un distillato di Milano, la città delle immagini, «la città che butta via le immagini... Guardi cos’hanno fatto di questo tratto di Naviglio...». Zatteroni da
cocktail con erba finta, megaschermi per i Mondiali, lame di pubblicità che
squartano la prospettiva più pittoresca della città. «È la logica conclusione di un
percorso... Un paese che non crede nel vedere».
Immagine, nel Novecento, è stata un sinonimo di fotografia, la mamma di
tutte le immagini meccaniche. Figlio e nipote di artisti, svezzato fin da piccolo ai traumi dell’arte per via di quelle modelle nude nello studio di papà,
in posa «vicino alla stufetta elettrica, mi immunizzarono da turbamenti psicologici vari». Usava la fotocamera di papà, la sua camera oscura, approdò
al curioso turbolento mondo dei «sacri weekend estetici», l’accanito clan dei
fotoamatori delle gite domenicali e dei concorsi con le medaglie di vermeil,
QUANDO LE IMPRESE MI CHIAMAVANO PER UN LAVORO
MI DICEVANO “FAMMI QUESTO E FAMMELO COSÌ E COSÌ”
MENTRE I GRANDI INVIATI MI PRESENTAVANO
COME “IL MIO FOTOGRAFO”, PROPRIO COME
UN ESPLORATORE DIREBBE DEL “SUO” SHERPA
che a Milano aveva, ed ha ancora, una casa nobile, il Circolo Fotografico Milanese, dove Cesare ragazzino assisteva agli epici scontri fra il formalismo crociano di
Giuseppe Cavalli e l’umanesimo impegnato di Pietro
Donzelli, battaglia fra titani che non lasciava scampo,
o di qua o di là, e Cesare andò di là, con gli impegnati, e
con la penna in mano, sempre stato bravino a scrivere,
incrociò le spade con gli “esteti”, ma adesso un po’ è
pentito: «Vedendo come è andata poi la vicenda foto-
Le immagini andavano sui giornali, quelli della sinistra soprattutto. Ma ci siamo chiesti se era proprio quella, la fotografia impegnata. Capimmo abbastanza
presto che una foto di lotta non era buona solo perché era giusto lo slogan dello
striscione che avevi inquadrato. Che bisognava risalire la corrente, andare alle
radici dei conflitti, magari avvistare quelli nuovi». In una sua foto del ‘69, la parete trasparente del grattacielo Galfa, presa di sera, col buio ma con gli uffici ancora attivi e illuminati, un alveare dove ogni impiegato abita da solo la sua celletta, è un simbolo potente dell’alienazione post-industriale.
Aveva «visto giusto», quindi? Sorride: «Posso dire di essermi occupato per cinquant’anni di un medium che in Italia non è mai interessato a nessuno, meno
che mai alla nostra classe intellettuale. L’espressione “fotografia italiana” è una
contraddizione in termini. Questo non era un paese destinato alla fotografia.
Tutto lo spazio era già occupato dalla massa imponente della nostra tradizione
d’arte. Gli intellettuali italiani non hanno mai degnato di uno sguardo questa
parente povera, questa sorella disabile dell’arte che si fa a macchina. Il posto per
lei è rimasto quello che le assegnò Baudelaire: umile servetta, senza autonomia
espressiva. Quando le imprese mi chiamavano per un lavoro su commissione,
mi dicevano “fammi questo, e fammelo così e così”: persone che magari non sapevano neppure cos’era un esposimetro. I grandi giornalisti inviati dicevano “il
mio fotografo”, come un esploratore direbbe “il mio sherpa”... In America, paese visualmente vergine, il fotografo Walker Evans e lo scrittore James Agee lavorarono alla pari un libro celebre, da noi invece Vittorini strapazzò Luigi Crocenzi per Conversazione in Sicilia».
Il cinema ce l’ha fatta, però, a bucare quel muro supponente e dorato. «Fino a
un certo punto. Il neorealismo è stato una versione del melodramma. La fotografia invece non aveva madri nobili a cui rifarsi». Ma Il Mondo di Pannunzio, lei
ci ha collaborato, valorizzò la fotografia... «Purché genuflessa alla parola. Non
erano foto, erano elzeviri visuali scelti e ”orientati” dallo scrittore. Il Mondo era
UNA FOTO DI CALCIO, UNA MAGNIFICA
ROVESCIATA. MA POI, AVRÀ FATTO GOL?
VEDO LA TENSIONE DEI MUSCOLI,
A PAROLE NON POTREI DESCRIVERLA.
MA NON SO COME È ANDATA A FINIRE
pieno di foto, ma nella sua storia ha dedicato due soli articoli alla fotografia, tutti e due per la mostra romana di Cartier-Bresson».
Eppure, o forse per questo, per una missione di salvataggio, per uno spirito di
rivincita, Colombo aggiunse un giorno alle sue mostre celebri, come L’occhio di
Milano, ai suoi reportage, alle collaborazioni con le riviste d’architettura, insomma ai suoi mestieri, anche quello dell’archivista. Salvatore di foto altrui, altrimenti destinate all’oblio o alla pattumiera. Studioso di fondi considerati poco più che scatoloni di cartacce. Gli archivi delle grandi aziende,
quelli delle istituzioni, quelli degli studi fotografici dell’Ottocento, dei fotografi freelance del Novecento, fino a quelli del
Mozambico post-rivoluzionario che lo chiamò a Maputo a rimettere in ordine la memoria visiva orgogliosa di un paese
intero.
Troppo tardi ormai per salvare la “sorella disabile”? La fotografia oggi è ovunque, quindi non è più nulla in sé. Dissolta nell’ambiente, inavvertita come il respiro. “Siamo tutti fotografi”, ha certificato perfino Paris Match. Con qualche
anno di ritardo, si chiude il Novecento della fotografia? «Apparentemente nulla scuote più l’osservatore. La missione fotografica originaria, far conoscere il visibile, sembra esaurita
per ridondanza. In effetti, il fotografo del futuro prossimo potrebbe essere un super-editor che deve solo rimescolare
il già visto». Ma lei non crede che finirà così, dico bene?
«Ho una fiducia, diciamo, statistica. Milioni di persone incontrano la fotografia. Nel mare della fotografia preterintenzionale, gestuale, della fotografia che vale come un “ciao come stai?”,
sarà comunque più facile che a qualcuno venga voglia di andare oltre. Una buona reflex costa poco più di uno smartphone...». La fotografia è morta? «Non lo dirò mai. Certo, non
sta molto bene. Ma io sono in attesa».
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Repubblica Nazionale 2014-07-06