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La razza come mito
1. Montaigne: il relativismo culturale
L’importanza del fattore ‘razza’
“Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non
abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea
delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il
perfetto governo, l’uso perfetto
e compiuto di ogni cosa”.
Queste sono le parole con cui
Montaigne apre il saggio Dei
cannibali, scritto negli anni ‘70
del Cinquecento.
Il contesto storico è quello
successivo
alle
grandi
esplorazioni geografiche del
Cinquecento
in
cui
si
definirono selvaggi molti popoli
delle Americhe. Il colonialismo
europeo ridusse in schiavitù
molte delle popolazioni indigene
dell’America
Centrale
e
dell’Africa perché considerate
inferiori,
giudizio
questo
suffragato dalla tendenza a
vedere nella razza un fatto
determinante dello sviluppo civile di una società, secondo ipotesi e concetti ricavati
dalle scienze naturali a volte distorti in funzione polemica.
Il concetto di razza da un punto di vista zoologico è l’insieme d’individui
appartenenti alla stessa specie e aventi una serie di caratteri comuni. Questo viene
utilizzato a sostegno di due teorie: il monogenismo e il poligenismo. La prima,
nella teologia cattolica, sostiene che l’origine del genere umano sia da un unico ceppo
originario dal quale avrebbero avuto origine tutte le razze; la seconda, al contrario,
afferma l’esistenza di ceppi diversi.
L’atteggiamento europeo e il punto di vista di Montaigne
Gli europei si considerano i depositari dell’unica civiltà e della religione
universale di fronte alle popolazioni caraibiche incontrate da Colombo, un’umanità
ritenuta inferiore e barbara per usi e costumi, rituali religiosi, tecniche militari e
organizzazione politica. La fama di antropofagi poi è testimoniata proprio dal termine
‘cannibale’ che fu derivato da Canibales, nome spagnolo dei Caraibi delle Piccole
Antille.
Questo panorama di voci è ben caratterizzato dalle parole di Gonzalo Hernández de
Oviedo: “genti selvagge e bestiali, dedite a peccati grandi, enormi e abominevoli,
quali cannibalismo e incesto” (Sumario del la natural y general historia de la Indias).
Michel de Montaigne si discosta dal ‘coro’ con un nuovo punto di vista di assoluta
rottura.
Bartolomé de Las Casas, vescovo cattolico difensore degli indigeni, il si era già
impegnato in prima linea nell’attività di denuncia del sistema di sfruttamento degli
indios; egli vedeva la condizione dei “selvaggi primitivi” come vicina alla perfezione
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di Adamo. Montaigne, però, è il primo a evidenziare il pregiudizio eurocentrico
attraverso il quale erano giudicati gli usi e costumi di questi popoli e ad argomentare
in loro difesa per mezzo del relativismo culturale.
Il relativismo culturale
L’origine del concetto di ‘relativismo culturale’ appartiene al movimento sofistico
greco. Protagora, filosofo del V secolo, afferma che “l’uomo è misura di tutte le
cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non
sono”: questo assioma diventato famosissimo è considerato la magna charta del
relativismo occidentale: Protagora intende negare l’esistenza di una verità
assoluta al di sopra delle parti, il vero non è più qualcosa che una volta scoperto è
così per tutti allo stesso modo. Si riconosce nell’utilità il criterio di scelta: il
sapiente è perciò colui che sa riconoscere questo criterio e sa convincere anche gli
altri a riconoscerlo e attuarlo.
Montaigne evidenzia la tendenza di ciascun popolo a proiettare sul diverso la
propria immagine culturale, a dipingere come barbarie ciò che non è nei suoi usi.
La valutazione della psicanalisi
Nel Novecento, lo psicanalista Sigmund Freud riterrà il meccanismo della
proiezione strumento di difesa per rendere conto di alcune psicopatologie come
la paranoia; tuttavia egli sostiene il carattere ‘normale’ del meccanismo, che sta alla
base di alcune manifestazioni psicologiche e delle rappresentazioni
mitologiche e antropologiche.
Dunque, la proiezione è sia una difesa di origine arcaica, in azione in modo
particolare nella paranoia e nelle fobie, sia un meccanismo proprio di comuni forme
di pensiero, come ad esempio la superstizione.
L’infinita varietà dell’umano
All’assimilazione forzata, Montaigne oppone l’argomento dell’infinita varietà dei
singoli popoli, frutto degli usi e della consuetudine, per cui il punto di vista
dell’altro è semplicemente diverso, non inferiore e per questo in grado di
rivelarci la nostra idiosincrasia culturale e il nostro grado di barbarie. Montaigne non
considera negativamente gli extraeuropei perché qualitativamente diversi dagli
europei, ma afferma che la forza e l’universalità delle consuetudini di un popolo
portano a giudicare naturali
i propri costumi e strani gli
altrui.
Anche Montaigne, comunque,
non riesce ad abbandonare
completamente
il
filtro
culturale nella formulazione
del proprio giudizio sui
selvaggi; egli paragona il loro
stato
all’arcadia
o
alla
repubblica ideale platonica o
alla mitica Atlantide, questo
gli permette di accostarli a
un’ideale
di
mondo
incontaminato, non deformato
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dalla società. In questo modo il filosofo presenta gli amerindi come ingenui e
pacifici rispetto alla violenza e alla ferocia subita dai colonizzatori spagnoli e
portoghesi. Egli confronta le pratiche sociali europee e quelle delle popolazioni
autoctone:
“Dopo che essi hanno a lungo trattato bene i loro prigionieri, con tutte le comodità che
si possono immaginare, quello che è il capo fa una grande assemblea di vicinato.
Attacca una corda a uno dei bracci del prigioniero, dal lato da cui lo tiene, si allontana
di qualche passo per paura di essere ferito, e dà l’altro braccio al più caro dei suoi
amici, perché lo tenga allo stesso modo. E quei due, dinanzi a tutta l’assemblea,
l’uccidono a colpi di spada. Fatto questo lo arrostiscono e lo mangiano insieme, e ne
mandano dei pezzi ai loro amici assenti.
Non lo fanno come si pensa per nutrirsi, come facevano anticamente gli Sciiti, ma per
esprimere una vendetta estrema. E che sia così lo prova il fatto che avendo visto i
Portoghesi, alleati ai loro avversari, usare contro di loro quando li catturavano un altro
tipo di esecuzione, cioè interrarli sino alla cintola e lanciare contro il resto del corpo
molti colpi di freccia e dopo impiccarli; pensarono allora che questi popoli di
quest’altro mondo (in quanto gente che aveva diffuso la conoscenza di molti vizi tra i
loro vicini e che erano maestri più grandi di loro in ogni tipo di malizia) non prendeva
senza ragione questo tipo di vendetta e che dovesse essere più spiacevole della loro,
per cui cominciarono ad abbandonare la loro antica consuetudine per seguire questa.
Non m’importa rilevare l’orrore barbarico di una tale azione ma piuttosto questo, che
pur giudicando bene le loro colpe, siamo così ciechi riguardo alle nostre. Penso che c’è
più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto; nel lacerare con
tormenti e supplizi un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo
mordere e dilaniare da cani e da porci piuttosto che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo
che è morto (come noi abbiamo letto e visto anche di recente, non tra antichi nemici,
ma tra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà
religiosa).”
(Michel de Montaigne: Dei cannibali, Saggi, saggio I, 31)
Un punto di vista moderno
Si potrebbe definire opposto e complementare il
punto di vista che emerge dalla riflessione di Jim
Morrison nella canzone People are strange;
quella stessa posizione espressa da Montaigne, per
il quale proprio dal confronto con il diverso si
può valutare sé stessi, le proprie paure e i propri
limiti, è riproposta dal cantante che muove dal
proprio sentirsi diverso, strano, estraneo al
proprio presente, ai valori, agli usi e costumi
della società in cui vive; di conseguenza per lui
la gente è strana. Di contro stravagante,
eccentrico sarà il corrispettivo giudizio, nel
migliore dei casi, nei suoi confronti.
Terzo singolo, tratto dal secondo album Strange
Days, pubblicato dal gruppo rock statunitense The
Doors. Questa canzone racconta di uno dei momenti
di depressione di Jim Morrison, che insieme al suo
chitarrista Robby Krieger si reca nel deserto a tarda
sera e, di fronte al tramonto in un canyon, si rende
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conto del motivo della sua insofferenza: se sei strano, la gente è strana. Il
resto del testo continua sulla scia del sentimento di alienazione, di estraneazione che
si prova non solo di fronte alla consapevolezza della propria diversità, ma anche
alla percezione che l’io si costruisce a partire dal comportamento degli altri
nei propri confronti.
Testo:
People are strange when you’re a stranger
Faces look ugly when you’re alone
Women seem wicked when you’re unwanted
Streets are uneven when you’re down
When you’re strange
Faces come out of the rain
When you’re strange
No one remembers your name
When you’re strange
When you’re strange
When you’re strange
La gente è strana quando sei uno straniero.
I volti ti guardano disgustati quando sei solo.
Le donne sembrano malvagie quando non sei benvoluto.
Le strade sono piene d’imprevisti quando sei giù.
Quando sei strano,
i volti vengono fuori dalla pioggia.
Quando sei strano,
nessuno ricorda il tuo nome.
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