3.6 Cronaca di una strage di Stato

CRONACA
DI UNA STRAGE DI STATO
TORINO 1864
Presentazione
Il documento qui trascritto è tratto dal carteggio intercorso tra il deputato torinese Pier Carlo Boggio ed
Emilio Olivier, deputato al corpo legislativo di Francia.
Olivier scrive a Boggio interrogandosi su quanto accaduto a Torino, meravigliato delle notizie che ha
ricevuto al riguardo, incredulo del fatto che i torinesi abbiamo manifestato con tanta violenza nelle piazze
della città.
Boggio quindi prende spunto dalla domande di Olivier per spiegare in dettaglio quanto accaduto in quelle
tristi giornate del 21 e 22 settembre 1864.
Boggio, in quanto testimone diretto dei tragici avvenimenti, smentisce le informazioni false e tendenziose
diffuse da certi giornali pilotati dal Ministero, da cui prendevano spunto le domande di Ollivier.
Difende strenuamente l’operato del Municipio, della Guardia Nazionale e il comportamento della
popolazione torinese scesa in piazza a manifestare pacificamente per aver appreso, solo attraverso i
giornali, del traslocamento della capitale a Firenze.
Si tratta quindi di un documento che riporta la testimonianza diretta di un protagonista di quelle tristi
giornate, ne narra dettagliatamente la successione degli avvenimenti, avendoli vissuti da protagonista.
Copia del documento originale, dato alle stampe il 23 ottobre 1864, sotto il titolo “Lettere a Emilio Ollivier I casi di Torino” è reperibile presso l’Archivio Storico Città di Torino (Collocazione SI/CN N. 4627).
Qui lo presentiamo, rivisto nella forma , ma assolutamente fedele all’originale, quale testimonianza dei
tragici fatti del settembre 1864, resa da un protagonista delle vicende che hanno portato al trasferimento
della capitale d’Italia da Torino a Firenze.
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LETTERE TRE
DEL DEPUTATO
P. C. BOGGIO
Il solo che possa pensare e che pensi al traslocamento della sede del Governo è il Deputato Conte
Ricciardi…cogli Austriaci accampati al Mincio è egli possibile un cambiamento che non mancherebbe di
produrre in tutta Italia una profonda perturbazione, prescindendo anche dalle sue lontane conseguenze
politiche?
Il Giornale l’Opinione.
PRESSO I PRINCIPALI LIBRAI D’ITALIA.
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Sommario
I. Olivier si informa sui fatti di Torino ................................................................................................................ 5
II. Olivier ha vissuto a Torino ............................................................................................................................. 6
III. Narrazione oggettiva dei fatti ....................................................................................................................... 6
IV. Domande di Olivier....................................................................................................................................... 7
V. Giudizio sul comportamento della Guardia Nazionale ................................................................................. 7
VI. Dissipati i dubbi sulla condotta di Torino ..................................................................................................... 9
VII. Inaccettabile il traslocamento della capitale a Firenze ............................................................................. 10
VIII. Grossi investimenti per lo sviluppo della città di Torino .......................................................................... 12
IX. Diffusa la notizia del traslocamento della capitale..................................................................................... 12
X. Polemiche e recriminazioni per come la notizia è stata diffusa .................................................................. 13
XI. 15 settembre. Firmato l’accordo con Napoleone III................................................................................... 13
XII. Nota dell’Opinione sulla Convenzione stipulata con la Francia................................................................. 13
XIII. Il Governo prende tempo ......................................................................................................................... 14
XIV. Si tace sulle condizioni della Convenzione ............................................................................................... 14
XV. Colloquio con il Conte di Castiglione, l’ammiraglio Persano, e il Commendatore Quintino Sella ............ 15
XVI. 18 Settembre. La Gazzetta del Popolo diffonde la notizia del traslocamento della Capitale a Firenze .. 17
XVII. Considerazioni apparse sui giornali del 18 settembre ............................................................................ 18
XVIII. 19 settembre. Convocazione straordinaria del Consiglio comunale ..................................................... 19
XIX. Considerazioni apparse su l’Opinione, la Gazzetta di Torino e la Stampa il 20 settembre ...................... 20
XX. Svariate menzogne riportate in una nota de La Stampa........................................................................... 22
XXI. Dubbi sull’effettivo scopo della Convenzione con la Francia ................................................................... 23
XXII. 20 settembre. Prime manifestazioni di piazza ........................................................................................ 24
XXIII. 21 settembre. La popolazione manifesta sotto la sede della Gazzetta di Torino .................................. 24
XXIV. Responsabilità del Ministero dell’Interno e delle Guardie di Pubblica Sicurezza .................................. 27
XXV. Menabrea partecipa al Consiglio comunale............................................................................................ 29
XXVI. Comportamento ambiguo del Generale Menabrea .............................................................................. 30
XXVII. Ruolo di Minghetti................................................................................................................................. 30
XXVIII. Traslocamento della capitale come condizione irrevocabile del trattato ........................................... 32
XXIX. Delibera della Riunione tenutasi nel Consiglio Comunale ..................................................................... 32
XXX. Deputazione del Consiglio inviata in Piazza San Carlo ............................................................................ 34
XXXI. 21 settembre, sera. In piazza Castello si spara sulla folla ...................................................................... 35
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XXXII. Responsabilità degli Allievi Carabinieri ................................................................................................. 38
XXXIII. Testimonianze circa la responsabilità degli Allievi Carabinieri............................................................. 39
XXXIV. Perché si è fatto fuoco sulla folla? ....................................................................................................... 41
XXXV. La paura guida le decisioni dei Ministri................................................................................................. 42
XXXVI. Da dove è partito il primo colpo?......................................................................................................... 43
XXXVII. Si pensa che sulla folla si stia sparando a salve .................................................................................. 44
XXXVIII. Il giovane Andolfato provoca il Capitano Vigo ................................................................................... 45
XXXIX. Tardiva richiesta di intervento della Guarda Nazionale ....................................................................... 47
XL. Provocatori non torinesi mischiati nella folla ............................................................................................ 47
XLI. Alcuni provocatori organizzano di bruciare la Camera dei Deputati ........................................................ 49
XLII. 22 settembre. Nuovo proclama del Sindaco Rorà ................................................................................... 50
XLIII. Boggio difende la Guardia Nazionale ...................................................................................................... 51
XLIV. 22 settembre, ore 7. Chiamata a raccolta la Guardia Generale ............................................................. 55
XLV. Pubblicati diversi proclami ...................................................................................................................... 56
XLVI. Una delegazione di deputati e senatori inviata dal ministro Peruzzi ..................................................... 58
XLVII. Discussione concitata tra Boggio e diversi Ministri ............................................................................... 60
XLVIII. Un proclama del Prefetto Pasolini viene smentito da un articolo della Stampa ................................. 64
XLIX. 22 settembre. Disposizione delle truppe in Piazza San Carlo ................................................................. 66
L. La Guardia Nazionale viene accusata di non difendere la popolazione ...................................................... 67
LI. Rapporto di Corsi e Moretta ....................................................................................................................... 68
LII. Testimonianze ............................................................................................................................................ 70
LIII. Rapporto sulle vittime .............................................................................................................................. 74
LIV. Relazione Rizzetti ...................................................................................................................................... 76
LV. Notizie tendenziose sul comportamento della popolazione ..................................................................... 79
LVI. Il Re dimette i Ministri e incarica Lamarmora di formare un nuovo Ministero........................................ 84
LVII. Il Ministero nasconde la notizia della propria destituzione .................................................................... 86
LVIII. Torino torna alla calma ........................................................................................................................... 87
LIX. Notizie false diffuse nei giorni immediatamente successivi ai sanguinosi fatti di Torino. ....................... 88
LX. Olivier è invitato a formulare un proprio giudizio sui fatti narrati ............................................................ 94
LXI. Boggio difende il comportamento di Torino............................................................................................. 95
LXII. Unico interesse di Torino è l’Unità Nazionale.......................................................................................... 96
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I.
Olivier si informa sui fatti di Torino
Grazie della vostra lettera - grazie del vivo e cordiale interessamento che prendete alle cose nostre grazie sovratutto dello avere esitato a credere tutto il male che della mia Torino hanno detto prima i
telegrammi falsati da Spaventa, poi le corrispondenze prezzolate per mentire da quell’oro che il Peruzzi,
con un cinismo senza esempio nella nostra storia parlamentare, dichiarava un giorno alla Camera aver egli
l’abitudine di spendere per illuminare (le mot est joli direste voi nella vostra simpatica lingua francese) la
pubblica opinione…
In altro momento, e in altre circostanze avrei considerato come una offesa anche il semplice dubbio e la
mia risposta sarebbe stata fiera e laconica. - Venite e vedete - vi avrei detto.
Ma ora invece io mi sento stretto a voi da gratitudine anche solo perché prima di credere alle accuse con
tanta insistenza e larghezza prodigate alla mia Torino, avete voluto interrogare ed informarvi; imperocché
in verità quand’io guardo al linguaggio che tuttodì tengono finanche alcuni giornali d’Italia, comprendo che
non avrei diritto di dolermi se voi, lontano, aveste, con maggiore facilità, accolte le accuse che si
scagliarono contro di noi.
Non mi è forse toccato di leggere, ieri ancora, in un diario che pur si stampa a tre ore da Torino, in un
diario milanese che non nominerò, perché voglio evitare fin l’apparenza delle recriminazioni, queste
parole?
« Lo spavento si impossessò (in Torino) delle alte classi, e a della autorità cittadina, che, invece di
calmare, si studiarono di sovreccitare l’effervescenza popolare. Si vide il Municipio sospendere a un tratto
tutte le costruzioni, vale a dire compiere l’atto più rivoluzionario che si possa concepire, gettando sul
lastrico qualche centinaio d’operai senza lavoro, affamati, irritati…
L’esempio fatale fu imitato dagli imprenditori privati, e dai « capi di fabbrica.
Dopo ciò la sommossa era certa! »
Ebbene tutto questo è falso!
Il Municipio non ha sospeso alcuno suo lavoro.
Il Municipio non solo ha continuato i propri lavori, ma esortò, e con pieno successo, gli altri costruttori a
farne altrettanto.
Il Municipio mandò attorno vari fra i più reputati cittadini a far queste esortazioni.
E fra questi cittadini volete che ve ne citi uno?
Quintino Sella, l’attuale Ministro delle finanze fu tra coloro che ebbero e disimpegnarono col maggior
zelo tale incarico!
E tanto è vero che i lavori non furono sospesi, che nessuna ragunata di operai ebbe luogo di giorno!
Grazie adunque, anche una volta, grazie a voi, che forestiero e lontano, usaste a Torino maggiore
giustizia di quella che essa abbia trovato presso alcuni in Italia.
E ripensando come sia accaduto che in voi tanta prudenza abbia temperato la impressione, certo a
prima giunta sfavorevolissima, che sopra di voi eziandio dovettero produrre le false notizie mandate fuori
da Peruzzi e da Spaventa, ne trovai anzitutto la ragione nella nobiltà e delicatezza dell’animo vostro che
non sa, non può, non vuole essere corrivo ai tristi e ingiuriosi giudizi.
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II.
Olivier ha vissuto a Torino
Ma inoltre io sono persuaso che in voi, più delle avventate accuse contro la mia Torino poté il ricordo
ancora recente di ciò che cogli occhi vostri avevate veduto, cogli orecchi vostri avevate udito, soggiornando,
non ha guari, fra noi.
In quella occasione voi aveste opportunità di conoscere ed apprezzare il carattere e il valore degli
uomini politici di tutta Italia qui in allora congregati al Parlamento.
Ministeriali ed oppositori, conservatori e progressisti, voi li avete conosciuti tutti in quell’epoca, perché
tutti andarono a gara nell’onorare in voi l’ingegno, la dottrina, la virtù, e il carattere di rappresentante
popolare di quella Francia, alla quale l’Italia è unita in nodo indissolubile di riconoscenza e di affetto.
E se i Ministri d’allora i Peruzzi, i Minghetti vi corteggiarono, e se gli stessi capi della estrema sinistra, i
Mordini, i Crispi vi furono larghi di cortesi ed oneste accoglienze, volle caso, di cui assai ora mi rallegro, che
il più del vostro tempo voi lo passaste coi deputati che nacquero in questa provincia Piemontese, ora tanto
calunniata.
Gli Ara, i Chiaves, i Ferraris, e chi vi scrive furono i vostri compagni più assidui durante il vostro soggiorno
in Torino: voi ci udiste non solo nei pubblici e solenni convegni, ma sì, e più ancora negli amichevoli ritrovi,
nelle conversazioni famigliari, in quelle occasioni cioè, in quei momenti nei quali l’abbandono della intimità
fa che i più reconditi sentimenti, e le più segrete opinioni si palesano senza mistero, senza velo, senza
reticenze.
Voi li udiste questi municipali arrabbiati, li udiste nella confidenza degli amichevoli colloqui, aprire tutti i
meandri dell’animo loro: li udiste come parlassero della unità nazionale, quali sorti augurassero alla Italia,
quale giudizio portassero del presente, quali voti formassero per l’avvenire; voi poteste, nel partirvi da
Torino, recare con voi la convinzione di averli conosciuti e giudicati.
E questa convinzione, questo giudizio che dei pretesi municipali del Piemonte vi formaste voi stesso col
criterio vostro personale vivendo in mezzo a noi; questa convinzione questo giudizio furono quelli che il
giorno in cui ci udiste accusar dal telegrafo adulterato, e da una stampa venduta, di volere sagrificata la
nazione al Municipio - quel giorno voi non avete potuto credere all’accusa: quel giorno voi avete detto a voi
medesimo: « non è possibile. »
III.
Narrazione oggettiva dei fatti
E mi avete scritto, e mi avete chiesto la verità, la verità, nulla altro che la verità…
Ebbene rallegratevi con voi medesimo che anche questa volta il vostro cuore sarà pienamente d’accordo
colla vostra ragione.
La fiducia che la generosità del vostro animo vi spinse ad avere nella onestà nostra, sarà giustificata
anche dal severo apprezzamento dei fatti.
E per ciò appunto io pubblicamente rispondo alla privata inchiesta vostra, perché intendo che la
pubblica coscienza faccia testimonianza a voi della rigorosa esattezza dei fatti che sto per narrarvi.
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IV.
Domande di Olivier
« Torino ha fatto le barricate? » voi mi chiedete.
« Torino è in rivoluzione?
Torino si ribella all’autorità, offende la maestà delle leggi, proclama il disordine e l’anarchia?
Torino minaccia morte ai ministri?
Torino fa fuoco sui valorosi soldati dell’esercito italiano, uccide proditoriamente ufficiali e gregari,
minaccia l’incendio e la strage?
Torino trasporta il governo in piazza, fa violenza al Re, disfa il Ministero, impone col tumulto e la
sommossa gli uomini del suo capriccio all’Italia?
Torino non vuole più che si vada a Roma?
Torino intende imporsi perpetuamente alla Nazione?
E non solo la plebe tumultua e gavazza nel disordine e nel sangue, ma le stesse autorità costituite danno
l’esempio, l’impulso e l’incoraggiamento?
Il Municipio che ha una sola missione, l’applicazione della legge nel comune, prende esso medesimo la
iniziativa di simili atti?
Il Municipio osa sostituirsi al Governo, trattare alla pari col Ministero, comunicar direttamente col Re,
imporgli l’allontanamento dei ministri in officio, designargli quelli che li debbano surrogare?
E la Guardia Nazionale seconda queste assurde, queste inique, queste sovvertitrici pretese?
La Guardia Nazionale fa causa comune coi tumultuanti, li accomoda de’ suoi tamburi perché possano
chiamare a raccolta i fautori del disordine, li accomoda de’ suoi fucili, e sta inerte spettatrice d’ogni
eccesso, e si ricusa alla chiamata dei suoi capi?
E il Sindaco di Torino, che è pur deputato al Parlamento, che per le opinioni sue, per i suoi precedenti
appartiene alla scuola dei liberali temperati, il Sindaco osa passare attraverso i cadaveri e il sangue delle
vittime del 21 e 22 settembre per gettare dall’alto del balcone municipale in volto all’Italia la cinica sfida:
Torino ha vinto? »
V.
Giudizio sul comportamento della Guardia Nazionale
« Queste cose hanno potuto accadere in Torino, nella città esemplare, nella città modello, estremo
rifugio della libertà italiana dal 1848 al 1859; asilo sicuro, ospitale, generoso, benefico di tutti i proscritti
italiani per ben quindici anni; prima sempre fra tutte le città italiche ad assumere l’iniziativa
dell’abnegazione e dei sagrificii?
Torino che nel 1821 per organo dei suoi Decurioni, nel 1847 per organo de’ suoi rappresentanti
domandava al Re assoluto la promulgazione di uno Statuto costituzionale che ritemprasse nel dritto
popolare il principio dell’autorità regia - Torino che nel 1848 resisteva incrollabile a tutte le seduzioni, a
tutte le tentazioni della demagogia irrompente tutt’intorno a lei, in ogni parte d’Italia; Torino che nel 1849,
nel 1850 con eguale fermezza e costanza sfidava, le minacce e le ire della reazione imperversante in tutta
Europa - Torino poté a un tratto mutar sentimenti, opinioni, contegno?
L’opera della rivoluzione, iniziata dalla Francia nel febbraio 1848, in breve si svia, si corrompe, svanisce
presso tutte le altre nazioni: e la Francia medesima, dopo pochi mesi di convulsioni anarchiche,
s’addormenta nelle spire del secondo impero; in Italia Napoli, la Sicilia, la Toscana, Roma, Venezia, un
momento libere, un momento emancipate, ricadono da capo l’una dopo l'altra sotto il giogo del dispotismo
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indigeno o straniero: il solo Piemonte, attraverso ogni sorta di pericoli, malgrado Custoza, malgrado
Novara, mantiene illeso e vivace il sacro fuoco; resiste all’aggressore esterno, doma le dissensioni intestine,
e malgrado la ribellione a Genova, e il presidio austriaco in Alessandria, fa salva la libertà, e splende nella
notte buia che s’addensa sull’Italia e sull’Europa come faro luminoso che addita sicuro il porto ai naviganti…
Di questo meraviglioso successo del Piemonte, la coscienza universale dà il primo merito al senno, alla
temperanza, alla fermezza di Torino, divenuta a un tempo il cuore e il cervello d’Italia…. Ed ora a un tratto,
questa Torino medesima, mutata improvvisamente natura, disfarebbe l’opera propria, porterebbe una
mano sacrilega sull’ara santa che essa per tanti anni e con tanti sagrificii mantenne incolume ed inviolata?
Non è questa la Torino che in marzo 1848, al primo annunzio dei moti di Milano, interrotti i pubblici ed i
privati negozi, chiusi i fondaci, le officine, riversavasi tutta quanta sulle piazze e per le vie chiedendo ad alte
grida che senza perdere un giorno, un’ora, l’esercito varcasse il Ticino, e volasse in soccorso alla Lombardia?
Non è questa la Torino che allora e poi dava a migliaia e migliaia i volontari che non a parole, ma col sangue
e colla vita suggellavano su dieci campi di battaglia il patto dell’unione fraterna, e inauguravano col
battesimo del fuoco, la nazione a Goito, a Custoza, a S. Lucia, a Monzambano, a Staffalo?
Ed ora questa medesima Torino poté meritare che Milano le ricambiasse il beneficio ponendole in fronte
il lurido marchio del municipalismo?
E la ragione di sì repentina e strana, obbrobriosa mutazione quale sarebbe?
Il trasporto della Capitale?
Ma fin dal 1848, non appena dopo l’esempio della magnanima Brescia e delle nobili città dell’Emilia,
Milano ebbe votata la unione, non fu già posta in campo immediatamente, e in nome della Lombardia non
ancora interamente sgombra dai lurchi tedeschi la questione della Capitale?
Il primo premio offerto a Torino per l’aiuto recato ai fratelli oppressi, non fu fin d’allora la proposta di
portar a Milano la Capitale?
E non si dichiarò fin d’allora pronta Torino al sacrificio sol che l’Italia in Parlamento lo dichiarasse giusto
e necessario?
D’onde ora tanta e così improvvisa riluttanza?
Ma Torino medesima, per bocca del più grande fra i suoi cittadini, Torino per bocca del conte di Cavour,
non ha già essa nella tornata del 25 marzo 1861 proclamata in pieno Parlamento la propria decadenza?
Quando il conte di Cavour ebbe detto che sola capitale possibile d’Italia è Roma, i deputati applaudirono
tutti, e con essi i deputati di Torino. Gli spettatori che affollatissimi ingombravano la pubblica galleria
applaudirono tutti e con essi i Torinesi che erano il maggior numero di quella accolta.
Or come adunque Torino poteva disvolere nel 1864 ciò che sempre ha voluto fin qui, ciò che
solennemente ha dichiarato di volere fin dal 1861?
Torino che sin dal 1821, tentando la sua prima rivoluzione politica, intitolava Regno d'Italia gli atti del
suo governo provvisorio; Torino che nel 1848 accettava la costituente; Torino che nel 1851 applaudiva alla
guerra di Crimea; Torino che nel 1859 offrivasi olocausto all’esercito austriaco; Torino poté ad un tratto
rinnegare tutto il suo passato, disdire le sue aspirazioni, i suoi precedenti, le sue dichiarazioni, i suoi atti, e
posporre la nazione al municipio?
Oh! se alcuno lo dee credere, tolgansi prima, tolgansi dall’atrio del palazzo del Comune le tavole
marmoree sulle quali sono registrati i molti nomi delle vittime numerose che sempre la città di Torino
consacrò agli Dei Mani, su tutti i campi di battaglia sui quali abbia sventolato il vessillo Italiano!…
E la Guardia Nazionale, quella Guardia Nazionale che fu esempio e sprone a tutte le altre del Regno:
quella Guardia Nazionale che appena era formata nel maggio 1848, già meritava che il Re Martire
nell’accorrere coll’esercito in soccorso ai Milanesi le confidasse la sicurezza della famiglia Augusta, la difesa
del territorio, e la tutela dell’ordine; quella Guardia Nazionale grazie alla quale il Piemonte dava nel 1859
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questo spettacolo senza precedenti, che cioè fin l’ultimo soldato potesse entrare in campagna, e non
rimanesse più un solo militare nella città, e nelle fortezze del Regno; questa Guardia Nazionale che in tutte
le circostanze le più critiche, e le più gravi, ha sempre dati così splendidi esempi di zelo, di coraggio e di
disciplina, ora a un tratto sarebbesi fatta strumento di disordine, complice del tumulto, solidaria della
ribellione? »
VI.
Dissipati i dubbi sulla condotta di Torino
Tali certamente le domande, o a un dipresso, che nel vostro senno, nella vostra giustizia, nella vostra
onestà, voi, Emilio Olivier, che volete giudicare con calma e con verità, avete dovuto indirizzare a voi
medesimo, ripensando i casi di Torino, e leggendo le strane, le incredibili narrazioni che la passione, o la
malvagità ne mandarono attorno.
E in realtà io comprendo assai bene come l’animo di ogni savio e leale uomo abbia dovuto rimanere
perplesso ai dì scorsi; perché da un lato non dovea parer possibile che si osasse in faccia all’Europa,
asseverare con tanta franchezza così nere ed atroci accuse, se non avessero un fondamento di vero: e
d’altro canto esse presupponevano una mutazione così radicale, e repentina nell’indole della città nostra,
da dovere, anche a prima giunta riuscire incredibili.
Ma se per una parte lo interesse e la passione di chi accusava, spiega come tant’oltre sia trascorsa la
calunnia, lo esame accurato delle circostanze che hanno preceduto od accompagnato i luttuosi casi del 21 e
22 settembre suppediterà facile e sicuro il criterio per ben giudicarli, ed è questo esame appunto che io ora
per voi intraprendo e il quale varrà quale categorica e completa risposta alle domande vostre.
Ed è questo il momento più opportuno a tali indagini, perché le passioni cominciando a sbollire, molti
già si ricredono dalle prevenzioni ingiuste e lasciali aperto l’adito alla verità ed equità dei giudizi; la
inchiesta giudiziaria, e la inchiesta amministrativa ormai già recate a buon segno, ed anzi, compiuta già
quest’ultima dalla coscienziosa operosità dell’egregio Ara, che voi ben conoscete, hanno messo in piena
luce i singoli fatti: la pubblicazione del testo della convenzione 15 settembre e dei documenti ad essa
relativi, nonché gli apprezzamenti della stampa europea ed il contegno dei governi direttamente e
indirettamente interessati ci forniscono un adeguato criterio a ben giudicarne il valore: la deliberazione
esplicita e formale del nuovo nostro Ministero in ordine allo intendimento suo di lealmente eseguire quegli
accordi, con tutte le lor conseguenze, ha dissipato ogni equivoco, e tolto di mezzo ogni dubbio: cosicché,
eliminato dalla discussione ogni elemento eterogeneo, amo lusingarmi che l’ora della verità e della giustizia
sia giunta, anche per la mia Torino, - e ne traggo il lieto e dolce augurio dalla nobile gara colla quale già
molti Municipi delle varie provincie d’Italia, seguendo la generosa e bella iniziativa della popolazione di
Napoli, mandano offerte per le nostre vittime e indirizzi di condoglianza e di conforto alla nostra Città compenso a noi sopra ogni altro gradito per le amarezze delle quali fummo ai dì scorsi ricolmi, e per i danni,
ormai inevitabili, ai quali la nostra devozione per l’Italia ci fa fin d’ora rassegnati.
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VII.
Inaccettabile il traslocamento della capitale a Firenze
Non è da oggi o da ieri che Torino sa di dover cedere ad altra città il primato sull’Italia.
Geograficamente, Torino non è abbastanza centrale, strategicamente non è abbastanza munita,
economicamente non è abbastanza popolosa e ricca per lusingarsi che altre maggiori città della penisola
possano accettarla definitivamente a loro capitale.
I dissidi che subito dopo le cinque giornate suscitò Milano nel 1848 fin d’allora fecero comprendere ai
Torinesi che essi promuovendo la emancipazione d’Italia, preparavano la propria decapitazione.
Non per questo essi tralasciarono o rallentarono l’opera della redenzione nazionale.
E questo sarà per Torino titolo imperituro di onoranza, questo sarà argomento di conforto che niuna
passione, niuna gelosia, niuna ingiustizia potrà rapirle…
Quando i casi del 1860 ebbero precipitato il corso del lavorio di unificazione, soverchiando le previsioni,
e anticipando sui desideri dei capi e guidatori del moto italico normale; quando dalla unione imprevista, e
subitanea delle provincie meridionali al rimanente della penisola, nacque il nuovo Stato, che sarebbe in
breve il Regno d’Italia, la mente arguta e profonda del conte Cavour intuì la necessità di preconizzare
immediatamente una capitale che s’imponesse da sé a tutte le altre città italiane.
E nella memoranda seduta del 25 marzo 1861 egli proclamò Roma capitale d’Italia, fra il plauso, e
coll’approvazione unanime del Parlamento e della Nazione.
Ma mentre il conte di Cavour indicava Roma quale meta finale alle aspirazioni degli italiani; mentre, per
dirlo colle stesse sue parole ei la proponeva all’Italia come la Stella polare nella quale dovesse del continuo
affissare lo sguardo per trarne lume ed auspicii al cammino da percorrere, il conte di Cavour soggiungeva
che la conquista di Roma non si poteva fare colla forza, ma si doveva ottenere dalla opinione.
Riprovando così ogni tentativo violento sopra Roma, proclamando in faccia all’Europa che non altrimenti
noi entrassimo nella città eterna, eccetto che col suffragio e il consenso del mondo cattolico, il conte
Cavour rimandava ad epoca lontana ed incerta la traslazione della capitale.
Egli non credea di morire pochi mesi dopo quella memorabile adunanza!
Prematuramente rapito, e nel miglior uopo, all’Italia, il conte di Cavour, e succedutogli il barone Ricasoli,
questi a più riprese lusingavasi di poter sciogliere il nodo gordiano e dare Roma agli italiani: ma egli
sdrucciolava alla sua volta dal seggio ministeriale, lasciandosi cadere nel vuoto che gli aveva fatto intorno
quella maggioranza fiacca, disgregata, arenosa, che gli moltiplicava i voti di fiducia, senza dargli mai autorità
ed efficacia.
Il ministero Rattazzi riappiccò le trattative, e si arrivò alla celebre lettera del 20 maggio 1862 - ma in
breve andare Aspromonte rese necessaria una vittima espiatoria il cui sacrificio attutisse il fermento delle
passioni che sempre agita ogni tentativo di guerra civile.
Il Minghetti e il Peruzzi i quali erano stati ufficiati dal Rattazzi per mezzo del Sella affinché entrassero nel
ministero, e che un momento - massime il primo - eransi mostrati disposti ad accettare, ravvisarono partito
più spediente ai loro scopi di valersi della impopolarità che Aspromonte aveva accumulato sul nome di
Rattazzi, per cacciarlo di seggio, e prenderne il posto. Essi non esitarono a stringere una coalizione di fatto
colla estrema sinistra, e l’Italia vide - spettacolo mai visto prima - un ministero cadere a terra sotto i colpi
riuniti di Boncompagni e di Mordini, per aver fatto salvo il principio d’autorità.
Surto da un equivoco artificiale il ministero Minghetti-Peruzzi, per non mentire alla propria origine,
doveva vivere e morire nell’equivoco.
E così fu.
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Quasi arrossissero di lor medesimi, i due capi della nuova amministrazione non osarono darle il proprio
nome, e la battezzarono con quello di un illustre uomo di Stato, caro a tutta Italia, ma già in quel momento
colpito dai primi insulti di quel morbo che dovea tra brevissimo infliggergli la più grande sventura dalla
quale possa essere colpita una nobile intelligenza.
E fu visto l’infelice Farini, di cui il Parlamento aveva le tante volte ammirato la feconda parola, e la
potente eloquenza, farsi innanzi ai rappresentanti della Nazione con una cartolina spiegata e legger loro
balbettando il programma del nuovo Ministero!
E in questo programma non era cenno di Roma!
E tuttavia la Camera applaudiva, il paese approvava perché nella coscienza di tutti, la questione Romana
consideravasi esser entrata in una nuova fase - in una fase di aspettazione e di sosta - durante la quale il
Regno d’Italia dovesse prepararsi a rivendicare più tardi le parti che ancora gli mancano, col dare intanto
stabile e normale assetto a quelle che già stavano unite in fascio.
Due anni passarono così, durante i quali più non fu discorso di Roma.
Due anni passarono, durante i quali Ministero, Parlamento e giornalismo furono unanimi nel dichiarare
ad ogni tratto, che, aggiornato ogni più largo, proposito, e come preparazione all’attuazione completa del
programma nazionale, dovesse intanto ogni pensiero, ogni sforzo convergere alla unificazione legislativa,
all’assetto amministrativo, ed al restauro delle finanze del Regno.
Qualche rara volta in due anni alzaronsi voci isolate nel Parlamento e nella stampa a chieder conto di
Roma, e sempre la coscienza pubblica rispose: Non è ancora tempo.
L’antico alleato del Ministero Minghetti - Peruzzi contro Rattazzi, il capo della sinistra, Mordini,
introdusse un giorno risolutamente la questione in Parlamento. E ricordò al Peruzzi com’egli avesse in un
suo discorso, che dicea famoso, dichiarato che da Torino era impossibile governar l’Italia.
E il Peruzzi rispose che o non aveva detto questo, o l’aveva detto come Deputato di opposizione, o in
ogni caso la parola era corsa oltre la intenzione, perché invece egli credeva di poter benissimo governar il
regno e fare l’Italia stando a Torino.
E siccome il Mordini insisteva (e fu detto di poi che era d’accordo col Peruzzi) e poneva innanzi il
concetto della convenienza di portar altrove la Capitale. I Ministri rispostavano la sede del Governo non
potersi e non doversi muovere da Torino salvo che per trasferirla a Roma.
Il deputato conte Ricciardi che s’era fatto il paladino del trasporto immediato della Capitale a Napoli
trovando nell’amministrazione, nel Parlamento, e nella stampa una opposizione risoluta ed inflessibile,
spinta fino allo scherno, usciva dalla Camera protestando che non ci avrebbe più messo il piede.
E sempre quando accadesse che d’una od altra parte si mettesse fuori la diceria della possibilità che si
mutasse la sede del Governo, subito in coro i diari del Ministero, a illuminare, (direbbe Peruzzi), la pubblica
opinione, protestando contro simili insinuazioni.
Recentemente ancora uno di questi giornali illuminatori, e quello precisamente che da quattordici anni
trova modo di servire tutti i Ministeri qualunque siano, la Opinione, a proposito appunto della diceria che la
capitale dovesse venir portata altrove, stampava queste dichiarazioni:
« Diventata insostenibile la voce di un ministero militare e quella di un colpo di Stato, fu messa fuori
l’altra del TRASLOCAMENTO DELLA CAPITALE.
Da ventiquattr’ore questa notizia si ripete di bocca in bocca.
Chi fu il primo a spargerla? Si ignora. E una di quelle novellate che vengono propagate a disegno, che non si
sa donde partano, ma si sa a che mirino, che si confermano nei caffè intanto che si protesta di non prestarci
fede, e si procura che faccia la sua strada, finché riconoscendosi che anch’essa è una fiaba, cade da sé e gli
autori anonimi di essa ricominciano con voce assidua l’ingrata opera di inventarne qualche altra.
11
È anche a questa notizia che voleva alludere la Gazzetta del Popolo? Forse sì, e noi l’abbiamo accennata
appunto per poter far rilevare come non sia più fondata adesso che la si ripete per la centesima volta di ciò
che fosse la prima. Il solo che possa pensare, e, secondo noi, pensi al traslocamelo della sede del governo, è
il deputato conte Ricciardi. È una sua idea fissa, ed a niuno può venire in mente di guarirnelo. Sarebbe
tempo e fatica sprecata. Ma che uomini politici credano per un solo istante che si agiti nei Consigli della
Corona la questione del cambiamento della capitale provvisoria, ed attribuiscano al ministero un’idea
siffatta, noi non possiamo ammetterlo. Cogli Austriaci accampati al Mincio è egli possibile un cambiamento,
che non mancherebbe di produrre in tutta Italia una profonda perturbazione, prescindendo dalle sue
lontane conseguenze politiche?
VIII.
Grossi investimenti per lo sviluppo della città di Torino
A fronte di siffatte dichiarazioni poteva la città di Torino credere probabile un improvviso mutamento
della sede del Governo per andare in altra città che non fosse Roma?
Intanto la popolazione erasi rapidamente accresciuta: fatta centro a tanti e così gravi interessi, Torino
prendeva un rapido sviluppo; in breve essa riusciva città troppo angusta al numero degli abitanti ed agli
svariati molteplici bisogni dei pubblici servizi.
Era necessario ed urgente provvedere alla sua ampliazione, ma d’altro canto la certezza che il Governo si
trasferirebbe a Roma era impedimento e ritegno ai capitalisti, che non osavano avventurare i loro averi
sopra alea così pericolosa.
Il Municipio trattò la delicata questione col Ministero.
N’ebbe, al solito, le più lusinghiere assicuranze: non muoversi da Torino il Governo che per mettere sede
in Roma.
Il Municipio diede allora esso medesimo lo esempio dell’iniziativa di grandi e costosi lavori. Le opere
pubbliche nelle quali esso si è direttamente impegnato in questi ultimi due anni rappresentano esse sole un
valore di circa cinquanta milioni.
Privati speculatori, società industriali del paese e straniere rincuorate da uguale fiducia si misero
anch’esse all’opera: e non è punto una esagerazione il calcolare in cencinquanta milioni allo incirca i valori
impegnati in queste imprese fondate tutte sulla fiducia ispirata ed alimentata dal Ministero, che l’Italia non
avrebbe altra capitale che Roma.
IX.
Diffusa la notizia del traslocamento della capitale
Nel momento in cui questa fiducia è più profonda; nel momento in cui più ferve il lavoro operoso da cui
dipende il pane di diecimila operai chiamati per le nuove costruzioni in Torino, e di migliaia di famiglie i cui
capitali sono impegnati in quelle opere - egli è in tale momento che ad un tratto scoppia fra i Torinesi
inattesa, imprevista, imprevedibile la notizia - la Capitale è trasferita a Firenze!…
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X.
Polemiche e recriminazioni per come la notizia è stata diffusa
Dopo le scene di sangue che la strana, e inconcepibile imprevidenza del Ministero Minghetti - Peruzzi ha
inflitte a Torino, si è molto recriminato nei diari illuminatori intorno al modo con cui quella notizia fu gittata
in mezzo alla popolazione. Gioverà pertanto il rifarci un passo addietro, e veder come quell’annunzio,
inatteso, impreveduto, imprevedibile, si divulgasse a un tratto con tutti i caratteri di un fatto compiuto.
XI.
15 settembre. Firmato l’accordo con Napoleone III
Il giorno 15 settembre io facea ritorno a Torino dopo un’assenza di qualche giorno. Recatomi verso il
mezzodì al caffè del Cambio, vi incontrai in allora ministro della Marina, generale Cugia.
Dopo i primi saluti.
- A quando, gli chiesi, la convocazione del Parlamento?
- Dicono per l’ottobre, rispos’egli.
- Sempre prudente! ripostai io celiando. Siamo a mezzo settembre e mi rimandi all’ottobre, come a
mezz’agosto ci rimandavate al settembre. E quando saremo al principio di ottobre rinvierete la cosa al
novembre, e così vi prolungate l’agonia…
E il Cugia interrompendomi.
- Mi hai detto che arrivi dalla provincia: abbi adunque pazienza. Sospendi il tuo giudizio per
ventiquattr’ore: domani forse ne sentirai di quelle grosse…
- Purché sian buone oltre all’esser grosse, diss’io.
Il Ministro si strinse nelle spalle e la conversazione ebbe fine così.
Lo stesso giorno narrai quel colloquio a taluni colleghi del Parlamento; fu tra loro chi mi disse vociferarsi
di trattative in corso colla Francia in ordine a Roma, nessuno accennò punto al trasporto della Capitale.
All’indomani (16 settembre) va attorno con molta persistenza la voce che si era firmata fra il Re d’Italia e
lo Imperator dei francesi una convenzione per la quale i francesi sgombreranno Roma fra due anni.
Ma nessuno sa o parla di trasferimento della Capitale.
Il 17 settembre l’Opinione, quel medesimo organo officioso del Ministero Minghetti che aveva pochi dì
innanzi protestato che il pensiero di trasportare altrove la sede del Governo poteva solo pullulare nel
cervello balzano del conte Ricciardi - l’Opinione pubblica una nota del tenore che segue con tutti i caratteri
di una comunicazione ufficiale.
XII.
Nota dell’Opinione sulla Convenzione stipulata con la Francia
« Siamo informati che iersera, 15, è stata sottoscritta una convenzione tra il Governo francese ed il
Governo italiano riguardante la cessazione dell’occupazione francese di Roma nel termine di due anni.
Hanno sottoscritto per la Francia il sig. Drouyn de Lhuis; per l’Italia il cavaliere Costantino Nigra, primo
plenipotenziario ed il marchese Gioachino Pepoli, plenipotenziario in missione straordinaria.
Ci viene pure annunziato che il Governo del Re nell’intento di rendere sollecitamente partecipe il
Parlamento Nazionale delle fatte stipulazioni, ha deliberato di convocare le Camere pel giorno 4 del
prossimo mese di ottobre ».
13
XIII.
Il Governo prende tempo
Così il Governo facea dal suo solito organo ufficioso annunciare al paese la Convenzione intorno a Roma.
E non era in questo annuncio il più lontano indizio che si dovesse mutare la capitale.
E sì che era ormai tempo di preparare a questo fatto lo spirito pubblico, e sovratutto l’opinione della
città che aveva in esso un così grande e vitale interesse.
Era ormai tempo - giacché se alcuna cosa poteva lenire il dolore ben naturale, e legittimo della
popolazione Torinese per tale evento; se qualche cosa poteva meglio farla rassegnata al danno enorme che
per tale fatto le sovrastava, ciò sicuramente era il pensiero che il sagrificio di se medesima giovasse
all’Italia.
Laonde consigliava la più volgare prudenza, consigliava la più elementare previdenza di collegare
insieme i due fatti, cosicché presentandosi la traslazione della capitale quale un fatto indissolubilmente
connesso con quello della restituzione di Roma all’Italia sorgesse contemporaneo al dispiacere per il danno
municipale, il conforto che lo compenserebbe il vantaggio nazionale.
Invece il Governo annunzia il trattato per l’evacuazione di Roma, nasconde la traslazione della Capitale.
La nasconde il 17 settembre, nell’atto stesso in cui convoca il Parlamento per il 4 ottobre.
Ossia, fra due settimane egli dovrà comunicare al Parlamento il testo della convenzione, coi documenti
che vi si riferiscono; dovrà per conseguenza far noto anche il patto indeclinabile del trasporto della capitale
impostogli dall’Imperatore come condizione assoluta dell’abbandono di Roma: eppure, ciò malgrado tace e
dissimula ora!
Quasi che un periodo di due settimane fosse soverchio per preparare una città di dugento mila abitanti,
che da tre anni viene del continuo eccitata ad estendersi ed ampliarsi, - fossero soverchie, dico, due
settimane per prepararla ad essere decapitata.
E qui comincia la serie di quegli errori, e di quegli equivoci che dovevano con fatale concatenamento
trascinare colla logica inesorabile dei fatti, il ministero Minghetti nell’abisso che esso medesimo si scavava
sotto i piedi, e nel quale precipitava per una via, lubrica del sangue che esso aveva sparso, e dei cadaveri
che esso aveva fatti.
XIV.
Si tace sulle condizioni della Convenzione
E in verità il silenzio sulla condizione della capitale non era la sola reticenza improvvidamente colpevole
che si contenesse in quella Nota del Governo.
Essa era scritta così da far credere a chiunque leggesse che fra due anni senza più Roma sarebbe degli
Italiani.
Per nulla accennavasi in quella carta agli altri obblighi del Governo Italiano, che possono rendere
illusoria la evacuazione di Roma, e gravosa alle nostre finanze la convenzione 15 settembre.
Nulla era detto dell’obbligo del Governo Italiano di interdire a se medesimo ogni intervento nel
territorio che rimane al Papa.
Nulla era detto dell’altro più grave patto, di impedire colle armi nostre ogni aggressione contro il
territorio pontificio.
Nulla era detto della clausola che ci addossa una parte del debito papalino.
Cosicché il primo inevitabile effetto di quella Nota doveva essere e fu di trarre in inganno la Nazione
italiana.
14
Il Ministero ingannò la Nazione, perché le fece credere che entro due anni i francesi senz’altro
evacuerebbero Roma; entro due anni senz’altro Roma sarebbe resa all’Italia.
Questo disse il Ministero Minghetti al paese.
Questo credette il paese.
Ed affinché si confermasse vieppiù nello errore, l’agenzia telegrafica Stefani, la quale è ormai provato
avere servito di stromento passivo nelle mani del Ministro Peruzzi, e del suo Segretario Generale Spaventa 1,
annunziò a tutte le città del Regno che fra due anni i francesi evacuavano Roma senza condizioni.
E quasi cotesto non bastasse ancora ad accreditare lo errore ed assicurare lo inganno furono visti
Prefetti, e Sotto prefetti annunziare ai loro amministrati la buona novella della presa di possesso di Roma
fra due anni!
Quale meraviglia se le popolazioni delle altre province ingannate a questo modo, non compresero la
ragione dei moti di Torino?
Quale meraviglia se subito li condannarono, quale sfogo impotente di basse passioni municipali?
Esse credevano, in buona fede, che la convenzione 15 settembre significasse: ricupero di Roma fra due
anni: lo credevano perché così suonava lo annunzio datone dal Ministero Minghetti - Peruzzi. Ignorando il
vero tenore di quei patti, illuse sulla indole ed efficacia loro, le popolazioni delle altre province d’Italia
hanno potuto onestamente credere che Torino si agitasse in nome degli interessi propri: hanno potuto
giustamente meravigliare e dolersi che Torino cercasse far prevalere un interesse suo municipale al grande
interesse nazionale che avrebbe l’Italia di ricuperar la sua Roma.
Ma se meno fallace e menzognera fosse stata la Nota che il Governo inserì il 17 settembre sulla Opinione
o se le altre province d’Italia avessero avuto dal telegrafo la narrazione vera ed esatta delle singole
circostanze che intanto venivano mano mano in luce a Torino - oh! ne son persuaso, da tutte le altre città
italiche sarebbesi alzato un grido concorde di riprovazione, e di condanna contro il Ministero Minghetti Peruzzi.
XV.
Colloquio con il Conte di Castiglione, l’ammiraglio Persano, e il Commendatore
Quintino Sella
Poche ore dopo che la Opinione nel mattino del 17 stampava quella Nota infelice, io incontrava sotto i
portici di piazza Castello, e precisamente in faccia al negozio Bellom, in quell’angolo medesimo dove
quattro giorni dopo le conseguenze dell’improvvido operato del Ministero Minghetti Peruzzi, sarebbero
scritte coi cadaveri, e col sangue di tante vittime innocenti - io incontrava il conte di Castiglione, ufficiale
d’ordinanza di S. M.; l’ammiraglio Persano; e, se non vado errato, il Commendatore Quintino Sella, l’attuale
ministro.
Abboccatomi con loro, discorrendosi, come è naturale, della convenzione, io stavo celiando sul grado di
buona fede necessario per credere ad una promessa a così lunga data quale era l’evacuo di Roma fra due
anni, quando uno degli interlocutori, il conte di Castiglione, interrompendomi disse « A quanto vedo ella
ignora » la parte più sostanziale dell’accordo, il trasporto della capitale ».
« A Roma? » diss’io sorridendo.
« No, a Firenze » - mi fu risposto.
1
Vedi la Relazione del cavaliere ARA al Consiglio Comunale di Torino, pag. 36, e fra i documenti annessi, le
dichiarazioni del signor Brenna direttore dell’Agenzia, riferite a pag. 126 e 127.
15
Non dirò com’io rimasi.
Persuaso fin dal primo annunzio della convenzione 15 settembre che lo effetto di essa dovesse dirsi
grandemente problematico, perché la rapidità colla quale in questi momenti gli avvenimenti si incalzano,
rende impossibile a qualunque più accorto uomo politico, sia pur anche Napoleone III, il prevedere quali
abbiano ad essere fra due anni le condizioni proprie e le altrui; ripensando come in due anni tali e tante
novità possano succedere da rendere inattuabili gli accordi presenti, quando pure si voglia fare sicurissimo
assegno sulla sincerità dalle intenzioni e sulla persistenza delle volontà: - preoccupato, dico, da tali
considerazioni le quali mi avevano fino da bel principio fatto accogliere col massimo riserbo la convenzione
15 settembre, io non potei non sentirmi profondamente commosso all’improvviso annuncio della necessità
di trasferire immediatamente la capitale a Firenze quale condizione indeclinabile dell’evacuazione
eventuale di Roma fra due anni.
Cento svariati e molteplici concetti mi si affollarono alla mente, e vi fecero groppo.
Domandai a me stesso - Perché lasciare nel 1864 Torino, se dobbiamo occupare Roma nel 1866?
Se Roma viene restituita agli Italiani, gli Italiani debbono andare a Roma, debbono fissare in Roma la
sede del governo.
Roma è il nostro obbiettivo costante, assiduo, dal 1859 in poi.
Roma fu dal consenso unanime della nazione proclamata capitale d’Italia - anzi la sola capitale possibile
in Italia.
Roma è la città sovrana alla quale tutte le altre glorie italiane, ma alla quale sola, volonterose si piegano.
Roma è la città della quale ogni altra città italiana, sia pure ricca di glorie come Firenze o potente di
popolazione come Napoli o benemerita d’Italia come Torino, può, senza umiliazione, accettare il primato.
Il conte Cavour affermò in faccia all’Europa il diritto dell’Italia su Roma.
Il barone Ricasoli sdrucciolò dal potere per averci promessa Roma, e non esser poi riuscito a darcela.
La impazienza di avere Roma ci è costata il lutto di Aspromonte.
Il Ministero Minghetti - Peruzzi si vanta e si gloria di aver fatto ciò che Cavour, che Ricasoli non erano
riusciti a fare: si vanta, si gloria di avere ricuperato Roma, e ci manda a Firenze?
Ma per chi adunque la ricupera Roma?
In favore di chi ha luogo la partenza dei francesi?
Minghetti e Peruzzi sono tuttavia ministri nostri, o forse tornarono ministri l’uno del Papa, l’altro del
Granduca, che invece di condurci a Roma, ci rilegano a Firenze?
Questi i primi pensieri che confusamente mi balenarono all’intelletto non appena ebbi udito lo strano
annunzio.
Riavutomi dal primo stupore, e rivoltomi a chi mi aveva dato la notizia.
« Ma perché, interrogai, perché andiamo a Firenze? Rinunciamo dunque a Roma?
Il perché ve lo dica il nostro bravo ammiraglio Persano. Egli, che è militare, saprà spiegarvelo per bene.
- O che? domandai allora a Persano, siamo dunque alla guerra?
- Non credo, rispose, ma la traslocazione della capitale da Torino a Firenze è motivata da ragioni
strategiche.
- Da ragioni strategiche? ripetei, con tanto d’occhi.
- Sicuramente. Dopo la cessione della Savoia, il Piemonte è a discrezione della Francia. Un esercito
francese non ha che a lasciarsi scivolar giù dalla cresta delle Alpi per piombarci addosso e schiacciarci.
Torino è indifesa, e indifendibile. Invece gli Appennini coprono Firenze. E perciò il ministero ci ha chiamati
qui ad un congresso per esaminar la questione, e vedere se le ragioni strategiche non consiglino per
avventura di portar la capitale da Torino a Firenze…
- Caro Persano, tu me le conti grosse.
16
Si fa un trattato colla Francia.
Con questo trattato la Francia appaga il nostro voto più ardente.
La Francia promette di evacuare Roma fra due anni, promette di restituire agli Italiani la loro capitale.
Con questo trattato la Francia si rende altamente benemerita dell’Italia, acquista nuovi e maggiori diritti
alla nostra gratitudine, alla nostra simpatia.
Con questo trattato si consolida l’alleanza e l’amicizia fra l’Italia e la Francia.
Ed è in questo momento medesimo, è in questa condizione di cose, è in occasione di questo trattato che
i signori Minghetti e Peruzzi ci dicono: ricoveriamoci tosto in Firenze, se non vogliamo che la Francia,
mentre con una mano ci dà Roma, coll’altra ci porti via la capitale!…
Caro Persano, ci credi tu a queste cose?
— Ti dico, e ti ripeto che, strategicamente parlando, Firenze è più sicura di Torino. E poi, ci sono pur
anche i tedeschi; con una correria vengono a Torino quando vogliono.
— Caro, nel 1859 il solo Piemonte bastò con 60.000 soldati, prima che giungessero i francesi, a
trattenere gli austriaci, e non basterà tutta Italia a farne altrettanto con 300.000 combattenti?
— Caro Boggio, tu sei avvocato e non militare, e di queste cose non te ne puoi intendere.
— Verissimo che di cose militari io non m’intendo, ma davvero che comincio a temere di aver troppo
bene inteso dove si voglia riuscire con queste arti.
Sarà strategia il trasporto della capitale da Torino a Firenze, ma è strategia politica, non militare: è
strategia che significa: rinuncia a Roma. E Persano non disse altro. E ci separammo ammutoliti. »
XVI.
18 Settembre. La Gazzetta del Popolo diffonde la notizia del traslocamento della
Capitale a Firenze
Non fui io certamente il solo a cui nel mattino del 17 settembre fosse data la notizia del trasporto della
capitale a Firenze.
Il ministero Minghetti - Peruzzi che si era abbrancato alla Convenzione 15 settembre come ad un’ultima
tavola per salvare dal naufragio i portafogli, già era sgomento della propria opera, e guardavasi attorno in
cerca di aiuto e di appoggi.
Alcuni fra i membri di quell’amministrazione, e in ispecie lo Amari - chiaritosi così superlativamente
inetto - il Della Rovere che s’era imprudentemente compromesso in taluna discussione della Camera- e il
Manna accennavano a ritirarsi.
Minghetti e Peruzzi vedevano farsi sempre maggiore il vuoto intorno a loro, e perciò mettevano in uso
ogni arte per accaparrarsi amici nuovi.
Appena concordata la Convenzione 15 settembre, e parendo loro dapprima d’aver fornito con ciò una
capitale impresa, chiamavano i più reputati uomini parlamentari delle antiche provincie, profferendo ad
essi con larghissimi patti, un posto al ministero.
Il Lamarmora già era stato uffiziato a tal fine.
Poi lo furono il Lanza, il Sella, il Petiti.
Al Lanza, l’uomo di maggior seguito fra questi, le offerte dicesi fossero amplissime: scegliesse quale
portafoglio meglio gradisse. Peruzzi cederebbegli, all’uopo, il suo: avesse altri due portafogli a libera
disposizione, per chiamare seco due colleghi di sua piena fiducia: proponesse le basi del programma
politico ed amministrativo, e fra queste mettesse pure innanzi anche quella delle larghe economie
sull’esercito.
17
È noto come in tutti questi uomini onorandi tentati a quel modo dai Minghetti e dai Peruzzi per farne i
complici della loro imprudente, inetta e fatale politica, potesse, più che l’ambizione personale, il
sentimento del dovere.
E ricusarono tutti.
Ma intanto questi andirivieni degli uomini politici, le mezze confidenze alle quali essi davano luogo fra
molti, i commenti e le chiose dei politicanti, il congresso dei generali, tutte queste cause insieme fecero sì,
che la notizia del trasporto della capitale si divulgasse il giorno 17 con grandissima celerità per tutta Torino.
Il mattino del 18 il più diffuso, il più popolare fra i giornali di Torino, che giustamente s’intitola Gazzetta
del Popolo annunziando la convenzione 15 settembre, vi appiccicava la notizia del trasporto della capitale.
Immenso, indescrivibile era l’effetto di tale annuncio sulla popolazione torinese.
Dapprima tutti vi negarono fede.
« Non è possibile, diceasi, che il Governo abbia dissimulato fin qui un fatto di tanta gravità. Non è
possibile che la sua imprevidenza vada a simile eccesso. Son poche settimane appena il Governo facea
smentire nei termini più recisi tale diceria. Non ha guari in pien Parlamento Peruzzi e Minghetti
protestavano che la sede del Governo allora solo muoverà da Torino, quando vada a Roma »
Alcuni diari, fra i quali in ispecie la Discussione, rimproverarono la Gazzetta del Popolo di avere
raccattato nei caffè tale notizia per gettarla là come un pomo di discordia prima che sia posta seriamente in
campo dagli uomini di Stato.
Scolpavasi la Gazzetta del Popolo rispondendo di aver dato la notizia dopo averne avuto la certezza nel
modo fatalmente il più irrevocabile.
L’organo officioso di Peruzzi e Spaventa, il giornale la Stampa, interveniva lo stesso giorno nella
controversia con queste dichiarazioni:
« Si ripete con insistenza che, in seguito alla convenzione stipulata fra il Governo Italiano e il Francese,
debba essere provvisoriamente trasferita la capitale da Torino a Firenze. Noi riferiamo per ora questa voce
senza alcun commento, trattandosi di cosa che, quand’anche avesse fondamento di verità, sarebbe
prematuro discutere, non potendo essere definitivamente risolta che dal voto del Parlamento. »
XVII.
Considerazioni apparse sui giornali del 18 settembre
E qui giova fare tre avvertenze.
1° Alla sera del 18 settembre (la Stampa è giornale serotino) il Ministro dell’Interno vuole ancora
dissimulare, e mette in dubbio il trasporto della capitale.
2° Nega ai giornali il diritto di trattar questo argomento, perché il Parlamento nulla ancora ha
deciso.
3° Dichiara che la questione del trasporto della capitale è di competenza del Parlamento.
Lo stesso giorno la Monarchia Nazionale, diario che già apparteneva all’opposizione, ma che poco
tempo innanzi, così fu detto, era passato agli stipendi del ministero dell’interno, annunciava essersi
adunato un consiglio di generali per discutere circa le condizioni strategiche di Torino - ed essere nominato
prefetto a Napoli il sindaco di Torino!…
La quale ultima notizia mentre troppo aperto tradiva la origine delle informazioni di quel diario, dava
giusto argomento alla Gazzetta del Popolo di rinfacciare al ministro dell’interno il basso artificio con cui
cercava di mettere in sospetto alla popolazione torinese il suo sindaco dipingendolo come uomo disposto a
18
portarsi in pace il sacrificio e il danno della città, purché a lui fruttasse il lauto compenso della prefettura di
Napoli!
Infame calunnia degna di quell’altra colla quale gli si fece dire il 23 settembre Torino ha vinto, mentre
quegli stessi che misero attorno tale diceria ben sapevano di mentire a disegno!
XVIII.
19 settembre. Convocazione straordinaria del Consiglio comunale
In questi vari modi, la notizia del trasporto della capitale era passata per la bocca di tutti.
Il sindaco di Torino, convocata in adunanza straordinaria la Giunta per avvisare al da farsi, chiedeva al
prefetto la facoltà di riunire in sessione straordinaria il Consiglio comunale.
Il prefetto esitò due giorni - o per meglio dire, il ministero a cui, com’era naturale, il prefetto chiese la
imbeccata, tentennò fra il desiderio di negare lo assenso, e la grave responsabilità di un rifiuto.
Alla fin fine venne fatta facoltà al prefetto di rispondere affermativamente, ma tanta era la esitanza del
ministero anche in quel supremo momento, che il prefetto dovette scrivere al Municipio una lettera
sibillina che non negava, non concedeva, e mentre tentava con grossolano artifizio di far credere esser
ancora in dubbio la cosa, non riusciva che a fornire un documento di più della insigne dappocaggine dei
ministri.
Giudicate voi stesso dal testo ufficiale del curioso documento.
« In riscontro alla nota del 18 corrente, colla quale il signor sindaco di Torino richiede una convocazione
straordinaria del Consiglio comunale per deliberare sulle risoluzioni da prendersi in vista delle possibili
modificazioni che la città di Torino dovesse subire, il sottoscritto non dubita di consentirvi senza alcuna
esitazione. Crede però il sottoscritto di osservare che se quelle deliberazioni muovono da ciò che è oggetto
della stampa periodica e dei comuni discorsi, nessun atto ufficiale è venuto ancora a porre in vera luce lo
stato delle cose.
Del resto il sottoscritto è pienamente convinto che il Consiglio comunale di Torino colla civile sapienza e
col senno fermissimo di che diede sempre tante prove, anche nelle presenti sue deliberazioni gioverà a
provvedere agli speciali interessi dei suoi cittadini, ed a confermarli in quei sentimenti d’inseparabile
devozione al Re ed alla patria di che furono sempre splendido modello.
Torino, addì 19 settembre 1864.
Firmato: Il prefetto, G. Pasolini. »
La lettera prefettoriale arrivò al Municipio quel giorno, ma sul tardi.
In verità la distanza fra via Bogino, ed il Palazzo di città è così grande che due giorni non sono di troppo a
percorrerla!
Ma intanto la sibilla aveva parlato.
L’organo ufficioso del Presidente del Consiglio, l’Opinione, che due giorni innanzi con tanta disinvoltura
dissimulava la verità, e ingannava il paese, visto che ormai la traslazione della capitale non era più un
mistero per alcuno, determinavasi ad annunziarla solennemente, accompagnando la notizia con un
articolone nel quale, lasciandosi sfuggire inavvedutamente la verità, finiva per dire che l’andata a Firenze
era una condizione che lo Imperatore aveva dovuto imporre a noi, per la sua posizione verso il partito
cattolico (numero del lunedì 19 settembre).
Vero è che affrettavasi a soggiungere che di ciò « non è ora il caso di occuparsi. »
19
Invece il senso pratico della popolazione torinese, matura per tanti anni di esperienza alla vita politica,
vedeva in quella troppo ingenua confessione, la vera caratteristica della clausola addizionale al trattato del
15 settembre.
Napoleone III evacua Roma fra due anni se l’Italia sceglie un’altra capitale? Napoleone III vuole sia scelta
da noi un’altra capitale per non compromettere la sua posizione verso il partito cattolico?
Dunque Napoleone III vuole essere in grado di dire ai cattolici:
Io ritiro, senza danno del papato, le mie truppe da Roma, perché gli Italiani che da quattro anni aveano
dichiarato Roma essere la loro capitale, e venivano ad ogni tratto riaffermando il loro diritto sopra Roma, gli
Italiani disdicono ora il plebiscito e le iterate dichiarazioni del Parlamento, e si scelgono un’altra capitale. Ma se questo è il modo con cui Napoleone III salverà la sua posizione a fronte del partito cattolico, la
convenzione del 15 settembre è, fuor d’ogni dubbio, la rinuncia a Roma!
Tale fu il corollario logico che il buon senso popolare derivò immediatamente dalla preziosa confessione
che il ministero facea nell’Opinione.
Confessione sfuggita al Minghetti malgrado gli ammonimenti e le opposizioni del suo scaltro collega il
Peruzzi - il quale, secondo a questi dì ci rivelava una delle solite corrispondenze ministeriali nel Journal de
Genéve cercò risolutamente di impedire fino all’ultimo che la clausola del cambiamento della capitale si
divulgasse.
XIX.
Considerazioni apparse su l’Opinione, la Gazzetta di Torino e la Stampa il 20
settembre
Il giorno 20, l’Opinione dedicava un lungo articolo al Municipio di Torino; a quel Municipio che tre o
quattro giorni dopo questo stesso diario, e gli altri organi e sotto organi del ministero accuseranno di aver
eccedute le sue facoltà e di essersi ingerito in materia che non lo riguardava!
Il dì innanzi l'Opinione aveva già detto essere necessario che il Consiglio comunale si riunisse, essere
necessario che il Comune interloquisse.
Il mattino del 20 ribadiva il chiodo ed alludendo, pare, alle opposizioni che fino a quel punto il Peruzzi
aveva fatte per impedire si divulgassero le clausole del trattato del 15 settembre prorompeva in questo
volo pindarico. « La diplomazia è bell’e buona quando si tratta fra governo e governo, ma non si può far i
diplomatici in queste nostre faccende. Il municipio di Torino ha ragione di chiedere delle spiegazioni, e
provocare degli schiarimenti che facciano conoscere a noi, all’Italia in quali condizioni siamo ».
E come questo fosse poco soggiungeva lo stesso diario « che se malgrado le spiegazioni leali, che si
otterranno fosse necessario che il municipio intervenisse direttamente a sostegno di alcuni interessi, siamo
certi che non esiterà un momento a farlo, e che conseguirà dalla cittadinanza tutto l’efficace appoggio onde
può abbisognare ».
Ecco adunque l’organo ufficiale del Governo, la ministerialissima Opinione che stimola lo zelo del
Municipio e gli raccomanda di non istarsene colle mani alla cintola, e le promette finanche lo efficace
concorso della cittadinanza!
Per far che? Le barricate forse?
Lo stesso linguaggio tiene l’altro giornale ministeriale la Gazzetta di Torino, organo più speciale del
Ministro Peruzzi.
Giacché fra le caratteristiche del Ministero dimesso era pur questa che ognuno fra i principali suoi
membri avesse il suo giornale a parte, come ognuno aveva la sua chiesuola, la sua consorteria, le quali poi
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non essendo sempre d’accordo fra di loro, davano di quando in quando al paese il singolare spettacolo dei
vari giornali pagati dal Ministero accapigliantisi fra di loro, con episodi da disgradarne talvolta le più
comiche scene delle Baruffe Chiozzotte!
La Gazzetta di Torino appartiene fin dai tempi del Ministero Ricasoli alla consorteria toscana, come la
Stampa era la lancia spezzata della consorteria napoletana.
La Gazzetta di Torino nel suo numero del 20 settembre mentre si chiariva recisamente favorevole alla
convenzione ed al trasporto del Governo in Firenze (sfido io a disdire l’opera propria con tanto amore
vagheggiata, e con tanto machiavellismo preparata!) - facea però l’onore a Torino di dichiarare che la
questione sollevata dal mutamento di capitale, non è questione municipale - e che la preoccupazione della
popolazione torinese nasceva principalmente dal dubbio che l’andata a Firenze significasse rinunzia a
Roma.
E soggiungeva essa pure la Gazzetta di Torino doversi attendere con fiducia le deliberazioni del
Municipio.
La Stampa che fedele alle istruzioni di D. Silvio Spaventa aveva serbato fino a quel punto il silenzio più
assoluto intorno alla questione della capitale, entrava finalmente nello arringo la sera del 20. Annunziata
anzitutto la nota dell’Opinione, la facea seguir da un lunghissimo articolo, tortuoso, intralciato, pieno di
reticenze e di ipotesi, nel quale in sostanza ingegnavasi dimettere ancora in dubbio ciò che ormai era
certezza per tutti. Ma dovendo pure conchiudere qualche cosa, terminava dicendo: « il tramuto della
capitale, è questione certamente subordinata ad altre. Se i motivi che lo determinarono hanno, come è più
naturale di credere, un carattere al tutto strategico, e se la comminatoria estera non ci ebbe, la questione
dovrebbe solo portarsi sul terreno tecnico. »
Una siffatta motivazione non dovea guari piacere al Ministero, e però, quale correttivo dell’articolo, lo
stesso numero del giornale, recava fra le ultime notizie una lunga nota nella quale dopo avere biasimato la
pubblicità data al trattato ed alle sue clausole (e ricordi il lettore che gliela aveva fatta dare il Minghetti per
mezzo dell’Opinione, e ricordi ancora che la corrispondenza officiosa del Journal de Genéve ci rivelò come
Spaventa e Peruzzi tentassero di tardar lo scoppio della bomba così che precipitasse affatto improvvisa in
mezzo alla popolazione Torinese) la Stampa in quella nota aggiungeva:
« Le voci che si sono sparse in Torino, tutti le sanno; e noi le abbiamo riferite cogli altri.
Le condizioni delle cose di Europa, le complicazioni alle quali possono dar luogo, la maggiore intimità del
governo francese ed italiano, che n'è nata, hanno dato luogo a due risoluzioni gravissime, che hanno
insieme una naturale connessione, e scaturiscono amendue da una posizione generale che ai due governi si
è imposta, e che non è in nessuna sua parte dall’uno imposta all’altro.
Le due risoluzioni son note.
Il Governo italiano, conformemente al parere emesso da’ generali dell’Esercito e dal Comitato di difesa,
e confermato nel Consiglio dei generali tenuto ieri a voti unanimi, il Governo italiano ha risoluto di trasferire
la sede del Regno in luogo più sicuro che Torino non fosse: e la città, che è parsa a tutti il luogo più adatto, è
stata Firenze.
Il governo francese ha risoluto, da sua parte, la cessazione dell’occupazione di Roma, cessazione, non
rinviata già a due anni, ma per la quale è fissato come impreteribile il termine di due anni, spazio di tempo
lasciato al pontefice per mettersi in grado di vivere se gli è possibile, in condizioni di principe indipendente
e civile, o dare, come tutti sanno che la darà, prova di non potere né da solo reggersi, né in alcuna maniera
conformarsi alle norme più elementari di uno stato civile.
Noi crediamo che il pubblico avrà nel corso della settimana notizia del testo del trattato colla Francia. di cui non è punto una condizione il trasferimento della capitale, - e delle altre risoluzioni prese dal governo,
21
le quali, in quella parte che entrano nella competenza del potere legislativo, saranno sottoposte al supremo
giudizio della Camera, che sarà convocata per i primi di ottobre. »
XX.
Svariate menzogne riportate in una nota de La Stampa
Con questa nota la Stampa inaugurava la serie di quei molti equivoci, e di quelle non poche fallacie colle
quali cercherebbe ormai di aiutarsi, ultimo scampo, un Ministero che da assai tempo si sentiva esautorato
nella pubblica opinione, e perduto nella coscienza universale.
La Stampa che si dolea non si fosse atteso a comunicare intere le notizie del trattato e delle sue
conseguenze - la Stampa nell’atto stesso in cui fingeva di voler illuminare a pieno la pubblica coscienza,
aveva l’audacia di dimezzare non solo, ma di falsare le circostanze che aveano accompagnato la
convenzione 15 settembre, e che ne costituivano la sostanza!
Taceva la verità, e diceva il falso affermando che la traslazione della capitale non fosse imposta dal
Governo francese.
Il testo della convenzione, le note diplomatiche, la stessa relazione al Re che avean preparato i ministri
dimessi, e che poi non osavano più far pubblica, la solenne, esplicita, testuale dichiarazione che, dopo di
loro, ne faceano i nuovi ministri, convincono di mendacio la Stampa e provano che, purtroppo, il trasporto
della capitale è una condizione imposta da Napoleone III.
Certo è una grande umiliazione per una Nazione che vuol essere libera e indipendente, l’essere posta
così a discrezione di un principe straniero!
Certo Napoleone III mette di tal maniera a ben caro prezzo la alleanza francese!
E cresce la umiliazione quando si consideri che egli toglie a Torino la capitale senza dare Roma all’Italia:
cresce la umiliazione quando si pensa, che da noi esso pretende la esecuzione immediata della durissima
condizione, mentre per se medesimo stipula una esecuzione remota, e la quale per cento possibili e
probabili eventualità può diventare ipotetica affatto…
Ma umiliante che sia o no questo patto, se noi lo vogliamo accettare è pure necessità riconoscerlo tal
quale è, e confessare che il trasporto della capitale è una condizione per suoi fini imposta a noi dal volere
inflessibile di Napoleone III.
Quali saranno questi fini?
Persuadere al Papa, e più che a lui, alla parte cattolica oltre potente in Francia, che la convenzione del
15 settembre è in favore della Santa Sede in quanto che l’Italia accettando a sua capitale Firenze, rinuncia a
Roma?
O ci sta sotto una probabilità anche peggiore: quella che rimossa da Torino la sede del Governo riesca
non difficile la cessione alla Francia di qualche altro versante, il concretamento di qualche altra Idea?
Questo immediatamente fu pensato e detto e stampato in più diari fin dal 18 e 19 settembre al primo
vociferare che la capitale si allontanava…
E tanto più facilmente si disse e si credette, e si crede tuttavia, perché altro solenne mendacio era quello
della Stampa, si fosse, dopo il congresso dei generali, deliberato, per sole ragioni strategiche, il trasporto
della capitale, quando tutti invece sapevano che la convenzione s’era firmata il 15; e il convegno dei
generali aveva avuto luogo il 17 nel pomeriggio.
E cominciava anche a trapelare il tenore di quel convegno, e il modo della interrogazione.
La quale fu astratta e teorica esclusivamente.
Si domandò ai singoli: al punto di vista strategico è più sicura Firenze o Torino?
22
Risposero tutti: un esercito francese può quando che sia calarsi in Piemonte per i versanti cedutigli, e
minacciare seriamente Torino.
Facile e prevedibile risposta - la quale, forse appunto perché tanto facile e prevedibile fu cercata dopo la
firma della convenzione, come scusa postuma di essa, non come causale ed origine.
E diceva altresì cosa non vera la Stampa in quella nota del 20 affermando che non era rinviato a due
anni l’evacuo di Roma, ma sì invece invariabilmente dovea entro due anni essere compiuto; - quando
all’incontro la verità è che i due anni decorrono solamente dall’operata traslazione della capitale.
Ed era infine sottilissima fallacia quella di annunciare che la convenzione si comunicherebbe al
Parlamento in quanto fosse di sua competenza.
Né dovea andar guari che la Stampa medesima chiarirebbe come niuna parte di quella sì volesse
assoggettare alla sanzione della rappresentanza nazionale, ma sì invece si meditasse con un colpo di mano,
per arbitrio di ministri, operare il fatto compiuto e lasciare il paese a meditare i consigli del Mosca appo
Dante.
XXI.
Dubbi sull’effettivo scopo della Convenzione con la Francia
Mentre a questo modo il Ministero mal sicuro di sé, indeciso, esitante, tortuoso ora accennava a far
nota la verità al paese, ed a cercar il suffragio della pubblica coscienza, ora invece s’industriava di fuorviare
la opinione con avvolgimenti, assai più che sottili ed efficaci, mal accorti e disonesti, la popolazione torinese
abbandonata a se medesima, ed alla quale gli indugi e le paure dei Ministri e del Prefetto tardavano persino
il conforto della parola e de’ consigli de’ suoi rappresentanti, fantasticava in cento guise sui danni
imminenti, sui fini del Governo, sulle conseguenze probabili di tutto questo viluppo di cose, che pur
volendo, potendo forsanche essere un grande fatto nazionale, si presentava invece, per il modo
infelicissimo col quale era stato condotto, con tutti i caratteri di un meschino intrigo di portafogli.
Era un domandare reciproco del come si fosse ideata, iniziata, preparata la cosa.
Chi ci ha avuto parte, chiedevasi, con quali uomini politici il Governo si è consultato, prima di prendere
una così grave risoluzione, la quale può essere feconda di conseguenze incalcolabili per la monarchia e per
la dinastia medesima?
- Si dice che La Marmora fu interpellato, ed approvò.
- Ed ecco si mandano lettere e telegrammi a Lamarmora, e Lamarmora risponde essere stato informato
a cose fatte, e non avere approvato.
- Furono interrogati, com’è tradizione di governo costituzionale, i Presidenti delle due Camere, ed hanno
approvato.
- Possibile? - E li interrogano; e per tutta risposta il Presidente del Senato, l’antico Guardasigilli di Re
Carlo Alberto, il Ministro che firmò lo Statuto del 1818, il pubblicista noto estimato in tutta Europa, il conte
Sclopis manda la sua rinuncia dall’officio di Presidente del Senato.
E il Presidente della Camera, l’illustre Cassinis, l’uomo integerrimo, il giureconsulto eminente, l’amico
del conte di Cavour, il collega suo nell’ultimo ministero, il cittadino onesto, disinteressato a cui il Re aveva
affidato lo incarico di formare il gabinetto dopo Aspromonte, e che egli in buona fede aveva creduto di
poter comporre con i Peruzzi e con i Minghetti, sotto la guarentìa del nome di Farini: anch’egli alla sua volta
dichiara di non aver conosciuto le trattative, e di aver disapprovato l’operato del Ministero.
Poi si pronunciavano i nomi di Lanza, del Sella, del Petiti, del Berti: si narrava come a tutti costoro fosse
stato offerto di entrare nell’amministrazione, e come tutti avessero ricusato.
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E di qui faceansi maggiori i sospetti e le apprensioni dell’universale, imperocché questa unanime
disapprovazione, questo concorde rifiuto degli uomini più autorevoli e più reputati, induceva a credere che
veramente la Convenzione 15 settembre dovesse essere una grande illusione o un grande inganno se
operava sopra tutti coloro lo effetto della testa di Medusa…
XXII.
20 settembre. Prime manifestazioni di piazza
Quale maraviglia se in tale condizione di cose gli animi cominciando a commuoversi, il Governo
rimanendo inerte e muto, il Municipio essendo impedito di riunirsi, il giornalismo ufficiale ed ufficioso
parlando un linguaggio così contraddittorio ed ambiguo, e i rumori i più sinistri, le dicerie le più esagerate
rimanendo senza sindacato, senza confutazione, sorgesse nel pensiero di molti il proposito di fare una
dimostrazione politica contro il Ministero?
Lo Statuto consacra il diritto di riunione.
In ogni solenne momento politico le varie città d’Italia hanno offerto esempi numerosi di grandi
ragunanze popolari, le quali, fatto mostra della loro imponenza, enunciato in talun grido o motto il concetto
che le ispirava, solevano per lo più sciogliersi tranquillamente senza che, eccetto in rarissimi casi, fossero a
lamentare violenze d’aggressioni, o di repressioni.
Fu anzi un periodo, quello del primo ministero Peruzzi, in cui l’agitazione legale ebbe gli incoraggiamenti
dell’autorità, e le dimostrazioni di piazza furono elevate a grado e dignità di mezzo di governo…
Oltreché la città di Torino non poteva essa medesima aver dimenticate le numerose, ma pur tuttavia
pacifiche riunioni colle quali negli ultimi mesi del 1847, e nei primordi del 1848 si era espresso il comune
desiderio di vedere ritemprata l’autorità del Re nella libertà popolare, e consacrati da un patto reciproco di
affetto e di fiducia le ragioni del principato e i diritti della Nazione.
Tutte queste cause spiegano come la sera del 20 settembre una accolta di molte centinaia di persone
percorresse le principali vie della città, e le maggiori piazze, gridando viva Roma capitale d’Italia, e
mescendo talvolta a questo grido, l’altro di abbasso il Ministero, e più raro ancora quello di Viva Garibaldi.
Erano persone d’ogni ceto, la più parte assai giovani: erano alquanti operai e in ispecie costruttori,
muratori e simili ma non in grande numero.
Procedevano ordinati e calmi.
Durò forse un’ora o un’ora e mezza il loro transitare per la città.
Poi si sciolsero pacificamente com’eran venuti.
Non un conflitto, non un disordine, non una imprudenza, una provocazione, non intemperanza.
Verso le dieci la città era calma e tranquilla, come se non fossero in discussione i suoi più vitali interessi.
XXIII.
21 settembre. La popolazione manifesta sotto la sede della Gazzetta di Torino
Il mattino del 21 la Gazzetta del Popolo accennando alla dimostrazione della sera innanzi soggiungeva
« In queste gravissime circostanze la fiducia nel Consiglio Municipale è grande. Dio voglia che le sue
deliberazioni possano salvare l’Italia dall’abisso in cui un Ministero dissennato sta per precipitarla! »
L'Opinione in un primo articolo ingegnavasi a dimostrare buona e vantaggiosa la convenzione. Poi,
passando alla questione della Capitale dichiarava « fu una concessione, fu un vero sagrificio che il governo
farebbe nello intento di ottenere un grande risultato politico… » Accennando poi alla dimostrazione,
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constatava che non si trascese oltre le grida, e che tutto rientrò nell’ordine sciogliendosi pacificamente da
sé quella riunione di persone.
Nelle ultime notizie, ricordato che il Consiglio Comunale stava per riunirsi, invitava i cittadini ad aver
fede in esso.
Meno prudente la Gazzetta di Torino alludeva, alla dimostrazione con alcune espressioni che in quei
momenti di pubblica concitazione erano per lo meno imprudenti.
Già un suo articolo del dì innanzi, che a suo discarico vuolsi avvertire esserle stato mandato
direttamente dal Ministero dello Interno, aveva prodotto una spiacevole impressione, ed aveva generata
qualche irritazione. Quelle medesime frasi che parvero offensive in questo giornale, qualche altro fra i diari
della città avrebbe probabilmente potuto pubblicarle senza inconvenienti. Ma parea invece intollerabile
che il giornale il quale si intitolava dalla città stessa di Torino, ed era considerato quasi come l’organo
speciale di essa, dileggiasse in così gravi e dolorosi frangenti la dimostrazione fatta in nome di suoi più sacri
interessi, e di quelli d’Italia.
Per iniziativa di alcuni giovani, ed in ispecie di certi Griotti Luigi, e Ramorino Luigi, si progettò una
riunione in piazza S. Carlo per muovere poscia di lì in corpo e recarsi alla piazza del Municipio ad attendervi
le deliberazioni del Consiglio (Relazione Ara Allegati, pag. 47).
Sgraziatamente la Gazzetta di Torino ha il suo ufficio e la sua stamperia in piazza S. Carlo e ad uno degli
angoli di essa, nel locale già delle Carmelite, ha sua sede la questura.
Il Griotti e il Ramorino recatisi anzitutto al caffè della Lega Italiana (in Doragrossa) ne ottengono in
prestito una bandiera tricolore colla quale intendono farsi guidatori della pacifica e legale riunione.
Ma appena sono in piazza S. Carlo, appena intorno a loro si è aggruppato un certo numero di seguaci, e
di curiosi, il vedersi proprio in faccia gli uffici e la tipografia di quel giornale che aveva offeso la suscettività
della cittadinanza torinese, al quale il titolo pareva imporre un diverso contegno, fa sorgere istantaneo in
molti il pensiero di cominciare con una dimostrazione contro la Gazzetta di Torino.
Una voce incomincia a gridare « abbasso la Gazzetta di Torino »: altri fanno coro: e in un momento per
quella azione e reazione magnetica che sempre si suole produrre in mezzo alle moltitudini per l’esempio, il
contatto, la presenza, l’associazione di tanti individui, ciascuno dei quali, isolatamente preso, sarebbesi
rimasto inerte e pacifico, - tutta quella turba non ha più che un pensiero, che un grido « abbasso la
Gazzetta di Torino ».
I primi vanno innanzi, gli altri seguono, gli ultimi spingono, e la moltitudine accenna a riversarsi sulla
tipografia.
Gli operai addetti a questa non si lasciano intimidire, e armatisi di bastoni, di barre in ferro, di martelli, e
di quanto altro loro capiti alle mani, fannosi innanzi minacciosi in vista più assai che gli assalitori medesimi; i
quali non aveano armi, né bastoni o proiettili e accennavano più che ad altro, a fare schiamazzo e fracasso.
Che cosa succede allora?
Io non ero presente in quel primo inizio del tafferuglio: ma informatone immediatamente, e recatomi
sollecito sul luogo, ebbi a udire pochi istanti dopo le narrazioni dei testi oculari, e più tardi le spiegazioni del
questore medesimo. Siami perciò permesso il fare a Voi, mio egregio amico, quella narrazione stessa che
già ne feci e in occasione della inchiesta amministrativa, e in occasione del procedimento giudiziario.
Verso le ore 3 1/2, io mi trovavo alla tipografia Favale, quando un amico giunse colà a chiamarmi,
dicendomi che in piazza San Carlo le Guardie di Sicurezza investivano, maltrattavano, ferivano, armate, la
popolazione inerme.
Mi avviai sollecito a quella volta, e giunsi sulla piazza al momento in cui si chiudevano le porte del
palazzo della Questura sui prigionieri colà introdotti dalle Guardie.
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Incontrai varie persone di mia conoscenza, le quali presero a dirmi essere le Guardie uscite
improvvisamente, guidarle un uomo tarchiato ed alto della persona, che teneva impugnato un revolver, e le
eccitava dicendo loro: avanti, figliuoli, coraggio! (circostanza questa che mi venne anche dopo confermata
dall’avvocato cavaliere Mongini, ex deputato); essersi le Guardie, senza che precedesse veruna intimazione
od avvertenza, scagliate sulla turba popolana, che s’era avvicinata alla tipografia della Gazzetta di Torino;
aver colle daghe aggredito per di dietro le persone in coda alla dimostrazione ed averne ferite parecchie.
Indignato a tale narrazione, interpellai parecchie persone fra quelle di mia conoscenza domandando se
di questa circostanza mi farebbero una dichiarazione scritta, ed avutane risposta affermativa, mi avviai
verso la Questura.
A pochi passi dalla porta di essa potei constatare come gli intendimenti della folla fossero tutt’altro che
ostili: giacché due o tre carabinieri che stavano sui gradini essendosi mossi per discendere in piazza, tanto
bastò perché tutta la turba dei presenti si muovesse, e indietreggiando cominciasse a fuggire, gridando
alcuni: escono di nuovo, escono di nuovo.
La qual prontezza del ritirarsi elimina ogni pensiero di resistenza, e molto più ogni preconcetto disegno
di provocazione.
Intanto io era entrato sotto l’andito della Questura quasi contemporaneamente alla Deputazione
Municipale. Questa saliva dal Questore a conversare con lui in ordine ai prigionieri: io mi fermavo sotto il
porticato dove stavano schierati un drappello di carabinieri, con un ufficiale, e la Compagnia delle Guardie
di Sicurezza.
Mi rivolsi all’ufficiale dei carabinieri (del quale ignoro il nome ma che facilmente riconoscerei: è un
uomo di statura piuttosto piccola, mingherlino, con baffi sottili, e di apparenza assai giovane) e gli espressi
in termini un po’ concitati la mia meraviglia che si fosse aggredita senza intimazione la folla inerme, e gli
soggiunsi: « I suoi uomini hanno violata la legge non facendo le intimazioni: la responsabilità cade sopra chi
li comandava: ci pensi, perché a lei ne chiederà conto la giustizia. »
Questi mi udì pazientemente, poi facendo il saluto militare: « Non posso accettare i suoi rimproveri, mi
rispose, perché io c’entro per nulla: ho l’onore di appartenere all’arma dei Carabinieri: non sono responsale
di ciò che facciano le Guardie di Sicurezza. »
Allora io domandai del Questore: si presentò un tale, e mi disse: Io rappresento, però se vuole parlare
col signor Chiapussi…
« Non occorre, risposi; se ella è un funzionario della Questura la prego a tenere per detto a sé ed ai suoi
uomini che vedo qui schierati, che essi tutti risponderanno innanzi ai tribunali di ogni ulteriore violazione
delle leggi, e li avverto che intanto io informerò subito il ministro Peruzzi del loro male operato. »
In quel mentre giungevano i Membri del Municipio annunziando che i prigionieri sarebbero rilasciati, e
se ne partivano.
lo uscii, e m’accompagnai al cavaliere Cavalchini agente di cambio.
Quando fummo sui gradini, alcuni popolani ci attorniarono, chiedendo facessimo loro rendere la bandiera.
Risposi loro che dovevano star paghi del rilascio dei prigionieri: la bandiera la lasciassero in Questura,
perché non ne avevano più bisogno, la dimostrazione l’avevano fatta, si calmassero, si sciogliessero,
fidassero nel Municipio.
Non ci fu verso di persuaderli, ed anzi un tale mi apostrofò, dicendomi:
« Credete adunque che la bandiera italiana sia un corpo di reato, che volete la tenga in sequestro la
Questura?
- No certo, replicai, ma vi dico di lasciarla dov’è, affinché non diventi occasione di reato per voi o per
altri. »
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Ma continuando le grida per riavere la bandiera, ed io non credendo di dovermi adoperare per questo,
svoltai col cavaliere Cavalchini nella via laterale, verso il caffè Madera, e mi recai alla Camera. Ivi scrissi un
biglietto al Ministro Peruzzi.
Non pensai in quel momento di tener copia di tale biglietto: ne ricordo per altro per bene il contenuto:
un presentimento indefinibile mi facea in esso alludere alla possibilità di maggiori sventure, che non
doveano, pur troppo, tardare ad avverarsi!
« Le Guardie di pubblica sicurezza, io scrivea, hanno aggredito e ferito, senza intimazioni, la popolazione
inerme; col fermento che già c’è, e che questo fatto non può che accrescere, sono a temere nuove
dimostrazioni!
Se si continua in questo modo violando la legge, pensi quali terribili conseguenze ne possono derivare:
io la prevengo fin da ora che se tali fatti si rinnovano, a lei ne chiederà conto la coscienza e la giustizia del
paese.»
Questa lettera veniva immediatamente recata al ministro Peruzzi (erano circa le 4 1/2) da uno degli
uscieri della Camera.
Il Ministro la riceveva, secondo nella notte mi riferiva il Questore cavaliere Chiapussi, e secondo egli
medesimo il Ministro Peruzzi mi dichiarava l’indomani, presenti i suoi colleghi e varie altre persone; ma ciò
malgrado, la stessa sera, poche ore dopo, si faceva peggio tirando a palla senza avviso, senza intimazione,
sul popolo, sotto le finestre stesse del Ministero dell’Interno.
Spedita quella lettera, tornai in piazza S. Carlo, ed ivi udii che la bandiera era stata restituita, gettandola
da un balcone alla folla.
XXIV.
Responsabilità del Ministero dell’Interno e delle Guardie di Pubblica Sicurezza
Le informazioni raccolte di poi, e le numerose testimonianze confermano la prima impressione che
avevo ricevuta dai fatti di Piazza San Carlo; dei torti gravissimi che ebbero in quella occorrenza i funzionari
del Ministero dell’interno e le guardie di Pubblica Sicurezza.
Vuole la nostra legge di Pubblica Sicurezza (art. 78, 79, 80, 81) come vogliono le leggi vostre francesi, che
sempre quando siasi formato un attruppamento, e lo si voglia sciogliere dalla autorità competente, che è
quella di pubblica sicurezza, procedimenti e intimazioni ad ogni uso della forza:
Tre distinte formali intimazioni richiede la legge, ciascuna delle quali deve sempre essere preceduta da
un rullo di tamburo o da uno squillo di tromba.
Solo quando le tre intimazioni siano riuscite infruttuose comincia il diritto di adoperare le armi (art. 81).
Equa, onesta e pietosa disposizione di legge, consigliata dal desiderio di evitare le funeste collisioni, e
l’inutile spargimento del sangue.
Invece le guardie di Sicurezza Pubblica che cosa fanno nel pomeriggio del 21 in Piazza San Carlo?
Lo dicano il deputato Montecchi, testimonio di vista e con lui otto persone che erano in sua compagnia
(e notate, mio caro Olivier, che il Montecchi è Romano non Torinese; è della sinistra non conservatore; fu
uno dei capi del Governo repubblicano di Roma nel 1848 e 1849; lo dica il signor Woolbert, ingegnere
inglese e però affatto disinteressato nella questione della capitale; lo dica un altro deputato indipendente,
imparziale, il Vegezzi-Ruscalla; lo dica l'avvocato Tecchio veneto; lo dica il cavaliere Mantaut incisore di Sua
Maestà; lo dicano il cav. Mongini, il cav. ex deputato Gastaldetti, il dottor Manfredi, il dottor Peyretti, che
non ebbero altra parte in quei fatti fuor quella di spettatori colà casualmente capitati, o chiamati a portar il
sussidio della loro arte alle vittime.
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Dal complesso di queste dichiarazioni, dalle molte altre che la accuratissima relazione del cavaliere Ara
ha registrate risulta nel modo il più incontestabile:
Che le guardie di Pubblica Sicurezza uscirono improvvise e quando niuno le attendeva dal locale della
Questura,
Che si rovesciarono impetuosamente addosso alle inermi pacifiche persone che stavano in coda alla
dimostrazione,
Che le aggredirono alle spalle, quando non che assalire o resistere, neppur prevedevano di essere
assaltate,
Che le aggredirono senza far pur una delle tre intimazioni dalla legge richieste,
Che non vi fu né squillo di tromba, né rullo di tamburo.
E ciò basterebbe già per chiarire colpevoli di violazione della legge le Guardie di Pubblica Sicurezza e chi
le comandava.
Ma di più, queste guardie erano avvinazzate.
Queste guardie volevano, di proposito deliberato, infierire sulla popolazione.
Esse « sguainate le spade menarono colpi a diritta e sinistra sulla folla che fuggiva » dice l’inglese
Woolbert; « esse inseguivano i fuggitivi, percuotendoli benché non vi fosse il menomo esempio di
resistenza; esse in gruppi di tre a cinque guardie maltrattavano colle loro armi individui isolati. » (Relazione
Ara, allegati, pag. 44).
E il deputato Montecchi alla sua volta dice « vedemmo scene da far rabbrividire; uomini isolati battuti e
trascinati da quattro o a cinque guardie. » ( A pag. 45).
Giuseppe Filippi ha visto vari cittadini riportare gravi ferite. (Pag. 48).
L’avv. Tecchio vide nella farmacia Cesola, in via Nuova ricoverarsi un vecchio grondante sangue per
ferita al fronte (Pag. 49).
Ricca Carlo vide quattro guardie colle daghe sguainate maltrattare un giovinetto: le rimprovera, è
malmenato anch’esso ed arrestato (Pag. 51, dichiarazioni Truccone e Piazza).
Le guardie erano visibilmente ubbriache, dice il cav. Mantaut (Pag. 51).
Antonio Gibello e il medico Manfredi attraversano casualmente la piazza, e sono inseguiti, fermati e
malconci.
Martino Bossi Alberto vide arrestar due, feriti l’uno al collo e l’altro al fronte, e maltrattarli anche dopo
l’arresto.
Canavesio Giovanni vide colpir di daga alla testa un vecchio di 60 anni, seduto a un tavolo del caffè.
Salvador Vita Jona d’anni 57 è ferito al fronte, nella galleria Natta.
Tali sono, a ricordarli per brevissimi capi, i risultati di parte delle testimonianze raccolte in ordine ai fatti
del pomeriggio del 21 in piazza S. Carlo.
È necessaria alcuna chiosa per mostrare che la legge fu violata, che si commisero atti di brutalità
incredibile, e che la responsabilità versa sui funzionari che hanno dato simili ordini, o che non hanno saputo
impedire simili disordini?
Se mai un dubbio fosse stato possibile lo avrebbe tolto di mezzo l’operato stesso del Ministero caduto, il
quale ha sciolto il corpo delle Guardie di Sicurezza Pubblica, in omaggio alla pubblica coscienza.
Ma è questa una sufficiente, una vera riparazione?
Le Guardie furono gli agenti esecutori, furono i mandatari.
Ma il mandante dovrà andare impunito?
Si è, dicesi, sospeso per due mesi il Questore di Torino e lo si è già anzi surrogato con altra persona.
Ma è veramente il Questore Chiapussi il colpevole?
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Non sarebbe invece vero che egli da alcun tempo non era più Questore che di nome, e che, in quei giorni
specialmente, il direttore generale di sicurezza Biancoli, e l’ispettore Bottrigari tacevano le veci del
Questore, ed erano arbitri del bene e del male?
L’onorevole Ara nella sua relazione ha creduto, a questo proposito, dover essere riserbatissimo. Ma
tanto ne disse che basta a far comprendere come egli abbia in mano i documenti che provano avere il
Ministro dell’interno in quei dì levata ogni efficace ingerenza al cavaliere Chiapussi, per affidare invece lo
esercizio dell’autorità per la pubblica sicurezza, e per la tutela dell’ordine ad altro impiegato di sua
particolare fiducia.
XXV.
Menabrea partecipa al Consiglio comunale
Mentre queste scene luttuose, addentellato ed origine ad altre vieppiù funeste ed esiziali, succedevano
in Piazza San Carlo, il Consiglio Comunale, numeroso molto più che non soglia essere 2 udiva prima dal
Sindaco la indicazione dell’oggetto della convocazione, poi dal Generale Menabrea la narrazione delle
trattative occorse per la convenzione 15 settembre.
Si fu in quella occasione che il nostro ottimo Sindaco destava un vivo entusiasmo e strappava caldi ed
unanimi applausi agli astanti quando venendo a toccar dei compensi che il Ministero avevagli fatto
presentire darebbonsi a Torino, narrava come fieramente rispondesse « La città di Torino ha troppo alto
concetto di se medesima per vendersi ».
Risultava dalla sua stessa narrazione come nessuna comunicazione avesse egli ricevuta dal Ministero,
cosicché la notizia gli giunse dopo che tutto era deciso, da un privato suo conoscente.
Il neo conte Menabrea, ex caporione della estrema destra, avversario per tanti anni della politica del
conte di Cavour, convertito recentemente ai nuovi ordini, già ministro col Ricasoli, e ministro poscia con
Minghetti e Peruzzi, era pure fra i consiglieri comunali.
Esitò alquanto se dovesse o no presenziare la seduta del 24.
Esitò perché ben si sapeva inviso e sospetto: inviso e sospetto perché sempre la sua fede politica aveva
mostrato d’ispirarsi più alle convenienze personali, che non alle convinzioni; inviso e sospetto perché in
ordine al trattato del 15 settembre erano corse gravissime dicerie sul conto suo. Si era detto cioè, che
allorquando il Minghetti, dopo aver portate quasi a termine le trattative coll’imperatore, lasciando affatto
ignorare al Re la dura ed umiliante clausola della capitale, si vide nella necessità di informarlo anche di
questo, Vittorio Emanuele se ne mostrò oltremodo spiacente ed offeso e dichiarò che mentre egli era
pronto a fare qualunque sagrificio per l’Italia, non si poteva però persuadere che l’alleato, amico e
congiunto suo gli volesse imporre una così acerba ed umiliante condizione. E siccome il Minghetti
sacramentava essere proprio quella la volontà inflessibile di Napoleone III e non esservi altra alternativa
che subirla, o rinunciare al trattato, il Re desiderò mandare persona di sua fiducia all’Imperatore.
2
Ecco ad onore del loro zelo e del loro coraggio i nomi dei Consiglieri Comunali i quali erano accorsi alla chiamata, abbenchè
fossero assenti da Torino molti di essi. Agodino, Albasio, Ara, Balbo, Barbaroux, Baruffi, Benintendi, Bollati, Bottero, Cassinis, Ceppi,
Chiaves, Colla, Corsi, Bosnasco, Duprè, Fabre, Farcito di Vinca, Ferraris, Galvano, Gamba, Gay di Quarti, Gerbaix di Sonnaz, Juva,
Lavini, Menabrea, Moris, Nuyts, Panizza, Paleri, Peyron, Pomba, Ponza di San Martino, Prato, Bey, Rignon, Rossetti, Sclopis di
Salerano, Sella Quintino, Sommeiller, Tasca, Tecchio, Thaon di Revel, Trombotto, Valperga di Masino, Vegezzi e Villa.
In totale, col Sindaco, N. 50.
29
E fu soggiunto che Minghetti, mentre annuiva al reale desiderio, adoperavasi però in modo, che
messaggero fosse stato il Menabrea. E si affermò che egli v’aveva in questo il suo perché.
XXVI.
Comportamento ambiguo del Generale Menabrea
È naturale che voi, mio caro Olivier, da quell’uomo serio ed arguto che siete, mi domandiate: dove io le
ho pescate queste notizie e le altre, e quale guarentigia di credibilità possa dare per esse?
Dovrei pronunciare il nome di più di uno dei nostri maggiori uomini di Stato e ministri per indicarvi gli
autori delle mie informazioni.
Vi bastino due chiarimenti.
Questi particolari intorno al Menabrea li ho già rivelati fin dal 20 settembre in un opuscolo (Roma è
Firenze?) che menò un qualche rumore appunto per le rivelazioni che conteneva. E mi meritò l’onore di
figurare il secondo sulla lista delle persone che il 23 doveano essere arrestate, appena proclamato lo stato
di assedio, che non poté aver luogo, prima per la resistenza del generale Della Rocca, poi per il congedo
dato in quel giorno stesso dal Re a quei ministri. Or bene, mentre si cercò con sottilissima accuratezza di
appuntare tutto ciò che potesse parer meno esatto nelle mie asserzioni, su questo argomento non si osò
fiatare.
Ne volete di più?
Se il Ministero Minghetti non lo ha bruciato, deve esistere fra le carte relative al trattato 15 settembre
un dispaccio di La Marmora; l’attuale presidente del nostro Ministero, il quale scrive al Minghetti che
sappia come FINALMENTE esso sia riuscito a vincere la resistenza del Re.
E se per caso il signor Minghetti non avesse lasciata traccia di questo scritto, l’attuale ministro dello
interno potrebbe forse saperne tanto che basti dal deputato Lanza…
XXVII.
Ruolo di Minghetti
Chiudo la parentesi e torno al Menabrea.
II mattino del 21 settembre egli esitava a presentarsi innanzi al Consiglio comunale.
Il roseo Minghetti, sempre impreveggente e utopista al solito, vero facilitone, come direbbe un
lombardo, lo spingeva invece a recarvisi.
Assisteva al dibattito un egregio membro del Parlamento il quale verso il mezzodì incontratomi mi
diceva com’egli pure avesse cercato di persuadere il Minghetti a non fare che Menabrea presenziasse
quell’adunanza. E mi sovviene che io ne rimbrottai il mio interlocutore dicendogli: « Per il bene che voglio a
questa gente, avrei anzi eccitato Menabrea a intervenire. Uomini di questo calibro si hanno da far demolire
colle proprie mani. »
Non tenterò dimostrarvi che il mio voto fosse molto cristiano e caritatevole, ma non vi dissimulerò che
fu grande la mia soddisfazione quando poche ore dopo seppi che Menabrea aveva scelto il partito peggiore.
E fu, al solito, Minghetti che ve lo spinse.
Minghetti, che un arguto mio collega chiama monsignore in reminiscenza del tempo in cui serviva il Papa
ed i Cardinali - Minghetti credette di aver trovato modo di salvar tutto, e persuase al Menabrea di andare al
Consiglio comunale, e di protestare che interveniva semplicemente come consigliere comunale e non come
ministro!
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Così, dicea Minghetti, non potranno le vostre parole compromettere né voi, né il Ministero.
Docile il Menabrea ai suggerimenti del capo scuola, studiò pur benino la lezione, compose il volto e le
parole, e se ne andò quatto quatto in Consiglio comunale.
Come se la cavasse lascerò che per me ve lo dica il testo ufficiale del processo verbale della seduta del
21 settembre che qui letteralmente vi trascrivo:
« Apertasi la discussione generale sulla questione, il consigliere Menabrea dichiara di voler dare
schiarimenti come consigliere e non come appartenente al governo (ministro dei lavori pubblici), perché
reputa dover suo in tanta emergenza il porgere un giusto indirizzo alle deliberazioni che il Consiglio sarà per
prendere.
Avverte però che per la sua posizione egli non intende di provocare, né di accettare discussione alcuna
sopra quanto sta per dire, e di rimettersi anzi, quanto alle sue parole, alla discrezione dei consiglieri, perché
le sue informazioni di carattere confidenziale non devono figurare nel verbale.
Ciò premesso, ricorda le trattative apertesi dal conte di Cavour dopo la formazione del regno d’Italia per
ottenere Roma evacuata dall’occupazione francese, e proclamata capitale d’Italia, trattative che erano
fondate sul principio che non si dovesse andare a Roma che per forza morale e d’accordo colla Francia.
Queste trattative non ebbero esito, e del pari infruttuose riescirono quando posteriormente furono riprese
dalle amministrazioni succedute al conte di Cavour.
Il Parlamento con voto solenne decretò Roma capitale d’Italia, ma la Francia oppose sempre di non
poter togliere da Roma le sue armi per non lasciar alla discrezione del popolo italiano il Pontefice.
Soggiunge l’oratore che, in relazioni personali avute a Vichy con S. M. l’imperatore dei francesi, egli ebbe a
ragionargli delle gravi condizioni in cui versa ora l’Italia, delle importanti questioni di Venezia e di Roma,
della questione finanziaria, dicendogli da lui dipendere se non in tutto delle altre, almeno interamente la
soluzione della questione romana.
Avere l’imperatore risposto non essere alieno dal ritirare da Roma le sue truppe, ma desiderare dal
governo italiano una sufficiente guarentigia che nulla sarebbesi tentato contro il pontefice; non bastargli
perciò la guarentigia morale, base delle trattative del conte di Cavour, abbisognargli una guarentigia
materiale.
Conosciute queste intenzioni del governo francese dal ministero di Torino, si giudicò opportuno di
riprendere le trattative iniziate dal conte Cavour.
Venne affidato incarico al marchese Gioachino Pepoli, e con esso al nostro inviato straordinario e
ministro plenipotenziario in Parigi (cavaliere Nigra) di entrare nei negoziati.
L’imperatore loro ripeté quanto a lui aveva detto, che cioè senza una guarentigia materiale del governo
italiano egli assolutamente non poteva abbandonare il Pontefice. Si cercò quali guarentigie potesse offrirgli
il governo italiano. Il marchese Pepoli parlò di traslocamento della capitale, traendo argomento forse da
che già si era riconosciuto come in caso di minaccia per parte dell’Austria la posizione di Torino come
capitale fosse pericolosa, e tale giudicata da valenti generali dell’Esercito; e da ciò ancora che di trasporto
della capitale già erasi parlato, e forse in prossimo avvenire analoga proposta sarebbesi posta innanzi.
L’imperatore fermò su tale proposizione la sua idea, trovò che ciò mediante non sarebbesi usata
violenza alcuna al pontefice, ivi trovò la desiderata guarentigia materiale, e dichiarò che con questa
avrebbe ritirato i suoi soldati.
Di qui l’origine della convenzione.
Il ministero considerò gravissima cosa il trasporto della capitale a Firenze. Egli allora ebbe dal Re
mandato di recarsi a Parigi, ed esporre all’imperatore la gravità della questione, i vari interessi che vi erano
complicati, ma non ottenne che rinunciasse alle sue decisioni. Se non avete altra garanzia a darmi - ei disse
- io lascerò i soldati francesi a Roma.
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Si cercò e si fece al possibile negli impegni verso il governo francese di ovviare ai danni recati a Torino.
Conoscendosi però quanto stia a cuore del Re il vedere ritirate le truppe francesi da Roma, il ministero
non credette di fargli alcuna contraria proposta.
A questo punto vari consiglieri interrompono l’oratore sorgendo vivamente e protestando acciò la
persona del Sovrano sia lasciata in disparte da ogni discussione.
Il consigliere Menabrea prosegue quindi osservando che a fronte dei reiterati rifiuti dell’imperatore, il
ministero si preoccupò vivamente delle conseguenze di non fare il trattato per l’avvenire d’Italia.
Per gravi considerazioni si preferirono gli interessi generali ai locali, e si conchiuse il trattato.
L’oratore respinge le voci sparse e le supposizioni di altre condizioni; accenna al dolore che egli ha
provato per la legge di separazione delle province di Savoia e Nizza dal regno italiano e conchiude
ricordando di nuovo aver creduto necessario d’informare il Consiglio di quanto si tratta in via affatto
officiosa, insistendo anzi perché non se ne parli nel verbale.
A ciò però non aderisce il Consiglio pronunziandosi invece perché l’esposizione del consigliere Menabrea
sia in quello riferita.
Il consigliere Revel trova che per il fatto delle comunicazioni date dal consigliere Menabrea la
rappresentanza municipale resterebbe quasi trasformata in corpo politico; che il ministro consigliere se si
valse di questa facoltà per far confidenze che, come ministro, non doveva fare, queste fatte in seno al
Consiglio devono rimanere negli atti di questo. »
XXVIII.
Traslocamento della capitale come condizione irrevocabile del trattato
A farla apposta il malcapitato Menabrea non avrebbe potuto mostrarsi più inetto, più imprudente, e più
incauto!
Dopoché rivelazioni ormai irrefragabili avean posto in sodo che il trasporto della capitale era condizione
irrevocabile del trattato, esso voleva insinuare che liberamente lo aveva acconsentito il Governo Italiano,
come se con ciò non peggiorasse anzi le condizioni di questo nella pubblica opinione! E intanto
proseguendo il discorso, egli finiva col narrare aver fatto il Ministero, e più ancora il Re, ogni sforzo per
rimuovere lo Imperatore da tale pretesa, ma non esservi riuscito!
Affermava che le trattative riprese erano la continuazione di quelle iniziate già dal conte di Cavour, e
poco stante era tratto a confessare che il Conte di Cavour non volle mai conceder altro a Napoleone che
una guarentìa morale, e che sempre egli ricusò risoluto il trasporto della Capitale.
E infine ingarbugliatosi nella sua stessa narrativa, finì per tirare in scena la persona del Re e cercare di
coprire con essa se medesimo e gli altri ministri, cosicché un solenne rabbuffo di tutta l’assemblea l’ebbe a
richiamare a segno…
XXIX.
Delibera della Riunione tenutasi nel Consiglio Comunale
Quale impressione potesse fare un tale discorso sull’animo di chi udiva è facile prevedere.
Gli uomini più autorevoli. Sclopis, Tecchio, Revel, San Martino, Sella, che tutti furono già ministri, e con
loro Chiaves, Ara, Agodino, Ceppi, protestano tutti contro l’operato del Ministero; e fra essi l’attuale
Ministro delle finanze Quintino Sella dichiara « convenire coll’onorevole Ara nell’idea che il Governo abbia
commesso una serie di sconvenienze veramente inaudite. »
32
Il Conte di San Martino dicendosi da lunghi anni avvezzo a rispettare e far rispettare la legge, si dichiara
addolorato di veder il Consiglio comunale trascinato a deliberare in cose politiche, « ma poiché l’onorevole
Menabrea, ministro dei lavori pubblici, ha posto innanzi tali questioni, egli soggiunge, è costretto ad
abbandonare l’idea per cui aveva chiesta la parola, cioè per gli interessi materiali della città di Torino, ed è
obbligato di seguitare l’oratore nel campo che ha aperto.
« Si professa profondamente rincrescente dei fatti presenti; dichiara che nelle relazioni che egli ebbe
cogli uomini i quali resero più vivace l’idea d’Italia con tutti gli Italiani delle altre province vegnenti in questa
per accelerare il compimento delle idee italiane, non ha mai udito emettere opinioni che non tendessero
all’unità completa. Deplora che si appoggi l’idea di traslocamento provvisorio della capitale da Torino a
ragioni di strategia. Nelle passate guerre dell’indipendenza italiana, Torino ebbe poco lungi dalle sua mura i
nemici, e la città che allora avrebbe saputo conservare e difendere la sede del governo, non è al certo
venuta meno ai suoi propositi, né la geografica sua posizione si è cangiata dappoi, né allora è venuto in
mente al consigliere Menabrea o ad altri generali di proporre che non si facesse la guerra. Non vale
adunque la ragione strategica. »
Continua l’oratore esaminando la natura della guarentigia materiale offerta al governo francese: dice
che « se l’imperatore vuole una guarentigia materiale e non morale, ciò significa che esso intende creare
interessi permanenti che impediscano, ora e poi, di attaccare il papa, e di andare a Roma.
La Camera mai non ebbe di mira questioni municipali. L’iniziativa dell’estero offende la dignità
nazionale.
Fu tutta opera dei negoziatori attuali se vedesi ora convertita la grande questione dell’unità nazionale in
questione tra campanile piemontese e campanile toscano. Soggiunge che il Consiglio dovrebbe trattenersi il
più che sia possibile nei limiti suoi naturali, rappresentare gli interessi degli amministrati che vennero
gravemente lesi senza alcun bene della comune patria, per la quale i Subalpini, che hanno sempre aspirato
all’idea dell’unità, sono pronti a qualunque sacrificio.
Opina perciò il consigliere di San Martino che, mentre il Municipio si riserverà di fare quelle
rappresentanze che da ulteriori esami risulteranno convenienti, basti intanto per gli interessi dell’Italia in
cui si fondono quelli di Torino, di consegnare le cose esposte dal consigliere Menabrea in una petizione da
rassegnarsi al Parlamento, perché custode qual è dell’idea dell’unità italiana ne tenga conto nelle sue
deliberazioni. »
Chiaves osserva che da molti già si annunzia e si teme una cessione di territorio italiano alla Francia.
Tecchio appoggia questa opinione a talune circostanze speciali di fatto relative alla Sardegna. Agodino
viene in uguale sentenza per talune circostanze speciali alla valle di Aosta; - e infine, chiusa la discussione, il
Consiglio:
« Udite le comunicazioni del sindaco,
Considerando che se il Municipio torinese fu sempre nella sfera della sua azione cooperatore agli atti
che potevano condurre all’unità italiana, e se la cura degli interessi municipali non lo trattenne dall’essere il
primo ad applaudire il Ministero che proclamava Roma capitale d’Italia, ora però deve grandemente
commuoversi all’annunzio di una proposta la quale senza rispondere a quel grande concetto, viene a
colpire in modo così doloroso ed inaspettato quella condizione di fatto che tante dichiarazioni delle
podestà legittime avevano pronunziato;
Il Consiglio facendosi sicuro interprete di quei sentimenti di antica fede nelle sorti nazionali che stanno
nel cuore di questa popolazione;
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Delibera
Si debbano usare tutti i mezzi che la legge accorda per antivenire ai danni ed ai pericoli da cui trovansi
minacciati gli interessi municipali tanto connessi alle sorti della patria italiana.
Intanto incarica la Giunta acciocché dopo aver chiesto al governo del re categoriche spiegazioni sullo
stato della questione attuale, stenda una relazione particolarizzata sulla condizione e sull’attitudine della
città di Torino a fronte degli avvenimenti che si preparano e di sottoporla quindi nel più breve termine
possibile alle deliberazioni del Consiglio.
Posto ai voti l’ordine del giorno proposto dal sindaco, viene accettato all’unanimità dal Consiglio,
facendo però istanza il consigliere Balbo, perché dal verbale si faccia risultare esser egli come cattolico
contrario alle parole « Roma capitale d’Italia. »
Prima di sciogliere la seduta, il sindaco avverte che stante la gravità delle circostanze, la Giunta si è
dichiarata in permanenza; e quindi a di lui invito il Consiglio delibera unanime che una parte dei consiglieri
debba pure, per ogni emergenza e per coadiuvare la Giunta, restare in permanenza nel civico palazzo.
Ed intanto a tranquillare la popolazione si pubblica questo proclama:
Concittadini.
Il Consiglio comunale è altamente penetrato dell’estrema gravità della proposta, il cui annunzio ha così
dolorosamente commossi gli animi vostri.
Il Consiglio ha pienamente compreso quanto fossero preziosi gli interessi che deve tutelare, quanto i sacri
diritti che gli spetta di difendere.
A questo compito egli sente essere suo debito di consacrare tutte le sue forze e tutti i mezzi che gli
consente la legge; ma sente del pari che grande aiuto verrà all’opera sua dal contegno severamente
ordinato della popolazione.
In altre occasioni il popolo torinese ha veduto pesare sulla bilancia dal lato del buon diritto l’opinione sua,
perché pacatamente manifestata, e non sarà questa la prima volta che avrà provato come, anche quando i
suoi municipali interessi non vi siano estranei, le deliberazioni dei poteri della nazione possano nelle sue
mura emanare sempre con tutta libertà di opinione e di parola.
Il vostro Municipio ha fede in voi, ora massimamente che si tratta di scansare non tanto un danno agli
interessi municipali quanto un pericolo alle sorti d’Italia.
Voi abbiate fede nei vostri rappresentanti i quali soprattutto non vorranno mai aver meritato il
rimprovero di non aver fatto il loro dovere.
Torino, dal palazzo municipale addì 21 settembre 1864.
Per il Consiglio comunale
firmato: Il Sind. RORÀ. »
XXX.
Deputazione del Consiglio inviata in Piazza San Carlo
Durante la seduta del Consiglio comunale erasi recato da alcuni cittadini lo annunzio della illegale
aggressione delle guardie di Pubblica Sicurezza contro la popolazione inerme.
Seduta stante il Consiglio aveva deputato i suoi membri Rignon, Pateri, Moris e Villa per recarsi in nome
del Municipio ad invitare i cittadini a rientrare nella solita quiete. Recatisi questi immediatamente in piazza
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S. Carlo e risaputo dello arresto di alcuni individui si presentavano al questore, e udendo come la folla al di
fuori con molte grida domandasse la liberazione degli arrestati, gli domandavano se avesse forze sufficienti
per resistere.
« Il questore ammettendo di non avere mezzi sufficienti di difesa prese sulla propria responsabilità di
liberare i prigionieri. » -(Allegato ARA pag. 15) Valga questo cenno a smentire perentoriamente coloro che perfidiando contro il Municipio, dopo di
averlo essi medesimi invitato a intervenire nel penoso conflitto dalla loro improntitudine sollevato, lo
accusavano poi di ambizione politica, e lo minacciavano di scioglimento!
Essi fecero dire e ripetere nei loro diari che il Municipio aveva costretto il questore a liberare i
prigionieri; invece il questore li ha spontaneo rilasciati, sotto la propria responsabilità, perché ben sentiva
come fosse stata ingiusta, illegale, arbitraria la loro cattura - così pure sotto la propria responsabilità, e
senza che più fosse presente alcun membro del Municipio, esso più tardi restituiva la bandiera.
XXXI.
21 settembre, sera. In piazza Castello si spara sulla folla
Queste concessioni calmarono la folla, che continuò a diminuire, ed infine, persuasa anche dalle
esortazioni di alcuni influenti cittadini, si dissipò affatto, e pareva allontanato il pericolo di ogni conflitto.
Io mi ero ritirato in casa verso le cinque.
Quando uscii di nuovo erano circa le sette: giunto in piazza Castello mi fermai, discorrendo con un
crocchio di amici e conoscenti ivi capitati, al pari di me, come curiosi.
Poco stante giunse una banda di 100 o 150 persone, la più parte giovinetti appena adolescenti.
Precedeva un di essi con una bandiera; seguivano gli altri cantando, e, a quando a quando, si udivano le
grida: Viva Roma capitale d'Italia! Roma o Torino! Abbasso Minghetti! Abbasso Peruzzi!
Dato un giro per la piazza scomparvero.
Mezz’ora circa o tre quarti d’ora dopo, tornando io dalla Camera dove mi era nel frattempo recato, vidi
la stessa banda colla solita bandiera; ai due lati di questa vidi portarsi in alto qualche cosa che dapprima
non capii che fosse. Appressatomi meglio e coll’aiuto del lume dei lampioni vidi ch’erano due di quelle
insegne in metallo colorito, che servono ad indicare il locale degli uffici di sezione della Pubblica Sicurezza.
La banda si arrestò in faccia al palazzo Madama; poi un giovanetto, che mostrava avere 17 o 18 anni al più,
salì sopra la cornice del basamento, all’angolo destro della facciata, quasi sotto al lampione, e di là fece un
discorso in italiano che non raccapezzai per intero, ma nel quale il concetto dominante era in sostanza: che
Roma è la capitale nostra; che si deve andare a Roma, che andare a Firenze è un rinunciare a Roma e cose
simili. Poi la colonna si mise di nuovo in marcia, sempre colla bandiera in testa e le due insegne sopra due
aste, e si dileguò per Doragrossa.
M’avviai allora verso piazza S. Carlo, dove trovai alquanti capannelli di gente, e due, parmi, squadroni di
cavalleria, nonché un drappello di guardia nazionale, con un tenente che non conobbi e il capitano Bechis.
La cavalleria percorreva la piazza in varie direzioni cercando d’impedire ingrossasse in alcun punto
l'assembramento. E in ispecie portavasi verso i portici del caffè, dove sta la tipografia della Gazzetta di
Torino, che continuava ad esser presa di mira e contro la quale si lanciavano sassi a quando a quando.
Ad un tratto udii un rumore sordo come di corpi pesanti che si trascinano qua e là. Avvicinatomi vidi che
molti popolani portavano dalla via Santa Teresa grosse lastre di pietre, che quivi erano accumulate per farvi
il selciato, e le deponevano sulla piazza così da impedire il passo ai cavalli.
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In poco più di mezz’ora il lato destro della piazza, ossia la parte più prospiciente il caffè, si trovò per
modo coperta da quelle grosse lastre che la cavalleria più non potette appressarsi.
Intanto il capitano Bechis aveva disposto il suo drappello in faccia alla tipografia della Gazzetta di Torino,
e collocate ad una certa distanza sentinelle, le quali, colle buone parole e cogli atti cortesi riuscivano a
tenere in rispetto e in pace la folla.
E vuole giustizia, che io soggiunga come il contegno veramente ammirabile per moderazione e calma
degli ufficiali e soldati di cavalleria, contribuisse non poco ad evitare le collisioni.
Ma intanto la turba ingrossava; e in quel punto stesso il drappello di Guardia nazionale col suo tenente si
allontanava chiamato altrove, e il capitano Bechis rimase pressoché solo.
Egli mi pregava andassi a cercargli un rinforzo.
Testimoni del buon effetto che aveva prodotto la presenza della Guardia nazionale, persuaso che essa
efficacemente aiuterebbe a mantenere l’ordine senza spargimento di sangue, mi avviai in cerca di rinforzo.
Giunto in via Santa Teresa incontrai una compagnia di Bersaglieri che accorreva alla corsa; ciò mi fece
parere vieppiù urgente l’intervento della Guardia nazionale, corsi sollecito al Municipio, e trovato il sindaco
nella sua anticamera gli dissi con molto calore « essere imminente un conflitto tra la forza e il popolo: solo
mezzo di evitarlo la presenza della Guardia nazionale: mandasse subito quanti uomini avesse in piazza San
Carlo: e si battesse senz’altro la generala. »
L’avvocato Ferraris (Carlo) stava egli pure in quel mentre raccomandando la stessa cosa.
Il Sindaco mi risponde: « Peruzzi non vuole si suoni a raccolta mandai già due volte a dirgli che senza di
ciò non è possibile avere la Guardia nazionale. »
« Se io fossi il sindaco, risposi, batterei la generala, e lascerei che Peruzzi dicesse quel che vuole; primo
nostro dovere è ora lo evitare collisioni fra le truppe e il popolo; e solamente la Guardia nazionale può,
dopo il fatto d’oggi in piazza San Carlo, mantenere l’ordine senza spargimento di sangue. »
Il sindaco esitava tuttavia, quando tornò una deputazione che intanto si mandava per la terza volta a
Peruzzi per l’assenso della chiamata e recò risposta affermativa.
Corsi a casa a indossar l’uniforme, e mi avviai al luogo di riunione della mia legione (la IV) che è in piazza
San Carlo.
Passai in piazza Castello: tutto parea tranquillo: quasi vuota la prima metà della piazza: alquanta gente
verso la via Nuova: e al fondo, verso la via di Po schierati gli alunni carabinieri, e in faccia a loro molta onda
di popolo, inerme per altro, curiosi quasi tutti, e molte donne e bambini.
Attraversai piazza Carignano soffermandomi un momento al palazzo della Camera, dove incontrai, fra gli
altri, i deputati Marazio e Sineo, e il cavaliere Trompeo; poi giunsi in piazza San Carlo.
Vi ero da pochi minuti, e stavo discorrendo col signor Cesana, il quale fra le altre cose mi narrava come
l’articolo della Gazzetta di Torino per il quale infuriò la popolazione, non fosse dell’avv. Piacentini, ma glielo
avesse mandato il Ministero - quando giunge il cav. Ferrero, e mi dice: In piazza Castello tirano sul popolo.
Io esito a crederlo, quando sopraggiunge un caporal tamburo della III legione, certo Rovella, il quale mi
dice che si tira davvero; che si hanno già morti e feriti.
Mi avvio sollecitamente con lui verso piazza Castello; per via si unisce a me un drappello di Guardie
nazionali, fra le quali ricordo in ispecie il cav. avv. Vignola, ed un tenente. Appena sbocco in piazza, mi si fa
incontro una frotta di gente che vociferando, e gridando: « Venga, mi dice, venga a vedere le tracce
dell’assassinio: ecco, qui stavan due morti, la son caduti due giovanetti; più lungi fu colpita una donna, tutte
persone inermi ed innocue; hanno tirato senza provocazione, non hanno fatto intimazioni, le palle ci
fischiarono attorno, e fecero strage sulla fitta calca, quando meno vi si pensava: credemmo tirassero a
polvere: i morti ci hanno purtroppo disingannati rapidamente! È il capitano Vigo che fece far fuoco. » E qui
tenean dietro epiteti e imprecazioni che è inutile qui riferire.
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Lasciato il drappello dei militi in piazza io mi avvicinai con tre o quattro popolani al caffè Dilei. Svoltai
l’angolo di via delle Finanze e vidi quivi un crocchio di gente, od essendomisi detto che nel caffè doveano
esservi feriti, m’accostai alla porta che era chiusa, e bussai. Meco si appressò all’imposta e si chinò a
bussare un altro individuo che di poi seppi essere un tale Achillini di Parma. Vedendo che non aprivano, io
busso più forte, e dico in piemontese: « Aprite, sono il deputato Boggio. » Appena pronunziate queste
parole sento dietro le mie spalle una voce che grida: « Ah! birbante te li do io i feriti …..» e ad un tempo il
mio vicino rotola a terra gridando « son morto ».
Allora mi volto, sguaino la sciabola, e vedo un individuo alto della persona e bruno di carnagione che
teneva ancora fra le mani una mazza. La più parte dei popolani presenti si rovesciano con me sopra costui
per farlo prigioniero. Due individui ne prendono la difesa, uno dei quali, che teneva un pugnale, dopo
qualche minuto fugge. L’altro rimane nelle nostre mani, e dichiarò poi chiamarsi Corsali, ed essere emigrato
veneto.
Succede un parapiglia ed una lotta; alcuni gridano, accennando al percussore, essere egli un agente
provocatore, averlo visto parlare col capitano Vigo un momento prima della strage.
Il popolo allora infuria e gli si scaglia di nuovo addosso: a gran fatica riesco a sottrarlo alla vendetta
popolare: nel frattempo è giunto alla corsa un drappello di militi ai quali consegno l’arrestato, ed ordino sia
tradotto alla questura. E siccome taluni fra gli astanti tumultuano tuttavia e lo minacciano, penso bene di
accompagnarlo io medesimo, il che faccio seguitato da alcuni popolani che continuano a protestare non
doversi consegnare alla questura perché essa lo favorirà come uno dei suoi. Tengo fermo, dico che lo
consegnerò io, e che sto garante non sarà fatto fuggire, noto che d’altronde egli ha già tre ferite, e riesco, a
grande fatica, a tradurlo alla questura.
Erano le undici della sera.
Colà trovo, con altri parecchi, il signor Bottrigari, che da due giorni aveva, di fatto, surrogato il questore
Chiapussi, trovo il medico municipale signor Gabbia, che in tutte queste circostanze fece prova di uno zelo
infaticabile, e il quale appena è cominciato l’interrogatorio dell’arrestato, lo fa trasportare all’ospedale
ravvisando pericolosa molto una delle costui ferite.
Nelle tasche dell’arrestato si rinvennero un coltello serra-manico ed uno scudo.
Sopraggiunge il signor questore Chiapussi, il quale mi interpella dicendomi che il ministro Peruzzi nella
giornata lo fece chiamare in seguito ad una lettera per chiedergli spiegazioni del fatto diurno di piazza San
Carlo.
Rispondo che io credetti mio dovere di mandar quella lettera dacché in piazza San Carlo le guardie di
Pubblica Sicurezza avevano violate le leggi e maltrattata la popolazione inerme. E in ciò dire, vedendo
presente quel tale assessore di Pubblica Sicurezza, a cui nel pomeriggio io aveva rimproverati i mali modi
delle sue guardie, lo interpello alla mia volta se mi riconosca e sovvengasi dei fattigli rimproveri.
Al che egli mi risponde affermativamente.
Allora il questore cavalier Chiapussi prende a dire essere dolentissimo del fatto di piazza San Carlo, e
non averci colpa: avere date le istruzioni le più precise e prudenziali alle guardie: per maggior precauzione
aver anzi ritirate loro le pistole e messele sotto chiave: essere accaduto che allorquando la turba si avvicinò
alla tipografia della Gazzetta di Torino gli operai di questa uscissero con bastoni, barre di ferro ed utensili
affrontando minacciosi la folla: un conflitto pareva imminente, in quel punto le guardie uscirono per
evitarlo, collo sciogliere detto assembramento.
« Singolar modo, risposi, di evitare il conflitto, questo di far assalir colle daghe sguainate le persone che
stando in coda alla folla non eran certo quelle che avevano il conflitto coi tipografi.
Non era forse meglio fare le intimazioni? Il rullo del tamburo bastava a metterli tutti in fuga. »
37
« Le intimazioni, rispose il questore, non erano più necessarie, perché vi era già un principio di
esecuzione di reato nella minaccia dei tipografi armati. »
« Sia pure, dissi ancora, ma in tal caso gli è su questi e non sulla popolazione inerme che dovevano
scagliarsi le guardie. »
Qui il questore si strinse nelle spalle come uomo che si sente trascinato da una fatalità implacabile in un
abisso che indarno vorrebbe evitare.
E il discorso finì lì.
Me ne partii per recarmi al Municipio; strada facendo incontrai il capitano Ferrero, e, se non erro, anche
il capitano Moretta, i quali mi dissero che l’arrestato Corsali, era tuttavia al palazzo Madama, e mi fu
soggiunto che egli diceva di essere mio amico intrinseco, e di avere in quella sera cenato con me alla
trattoria Pastore. Ciò mi diede nuovo sospetto, perché nulla era di vero in quest’asserzione. Mi recai
immediatamente al palazzo Madama, ed ivi i militi che avevano operato l’arresto mi dissero avergli
sequestrato una canna collo stocco, ed avere raccolti alcuni proclami scritti a mano che egli gettava lungi da
sé mentre lo stavano traducendo, e più precisamente quando fu presso al giardino del palazzo.
Entrai nel corpo di guardia, e il Corsali subito mi chiese che lo facessi mettere in libertà, soggiungendo
che egli per caso era capitato colà che egli aveva passato la sera coll’ex capitano Fambri, ora direttore della
Stampa, e colla di lui signora; e che se aveva preso partito per il percussore di Achillini, ciò era avvenuto
solo perché lo vedeva in pericolo. Nulla mi disse dei proclami, ed io non gliene parlai perché i militi mi
avean detto di star a vedere se egli ne farebbe cenno, o se si lusingasse invece che non avessero notato
quando li gettava, e non li avessero trovati.
Io gli risposi che non poteva liberalo, e che oramai egli era a disposizione della giustizia, e raccomandai
venisse al più presto consegnato all’autorità che statuirebbe sul da farsi.
Mi recai poscia al Municipio dove informai il signor sindaco dell’accaduto, e gli mostrai i proclami:
avendo egli desiderato di conservarne presso di sé una copia, gliela lasciai. Le altre furono unite al verbale
di arresto e di consegna.
XXXII.
Responsabilità degli Allievi Carabinieri
Intanto erano giunte da più parti le notizie e le informazioni al Municipio.
Ad ogni momento accorrevano persone che narravano incidenti ed episodi che dicevano aver
presenziati, o constatati, venivano cittadini a chiedere che il Comune provvedesse alla tutela e sicurezza
della città, conducevansi feriti per i quali ad un tempo domandavansi soccorso e vendetta.
Grande era in tutti la esasperazione contro gli allievi carabinieri.
Ciascuno tributava i più schietti elogi alla truppa di linea per il modo veramente umano, temperato,
prudente, longanime anzi, col quale s’era condotta verso i cittadini, portando in pace finanche parole ed
atti meno che misurati, quali non era possibile impedire che per parte di qualche individuo se ne
commettessero in tanta eccitazione degli animi, e in tale e sì diverso concorso di persone. Ma tutti del pari
erano concordi nello accusare i carabinieri di aver tenuto un contegno provocante, e di avere rivelato un
preconcetto disegno di collisioni e di conflitti.
Il sindaco, marchese di Rorà, egli medesimo aveva corso pericolo di cader vittima della sconsigliata e
feroce scarica degli allievi carabinieri, avendo varcato le loro file pochi momenti prima.
E più di lui ancora pericolava il cav. Ara che recatosi in compagnia del sindaco al Ministero dello interno
in quella sera, soffermavasi proprio di fronte ai carabinieri fino a pochissimi minuti prima della fucilata. E fu
38
provvidenziale veramente per lui che gli venisse in pensiero di mutar posto, e passar dietro la linea dei
carabinieri (il che non riusciva a fare senza qualche difficoltà) quando già stavano per spianare le carabine.
E narravano in quella sera, e ripetevano dopo alcuni testimoni di avere udito scattare da una delle sale
del Ministero dello interno un colpo di pistola, come segnale ai carabinieri di tirare sulla popolazione 3.
Ed altri dichiarava aver visto in mano al capitano di quelli, Vigo, un non so che di bianco, quasi a mo’ di
segnale; ed aver egli imbrandito la spada colla sinistra per aver presta la destra ad impugnare un revolver,
od altro che di simile 4.
Né mancò chi affermasse aver veduti pallidi per la paura e sconvolti, alcuni dei Ministri ad un balcone, i
quali seguendo ansiosamente coll’occhio ogni moto della folla, a un dato istante vistola ingrossar più e più,
esclamassero esterrefatti « Rompono, rompono » per indicare che la turba minacciava soverchiare ed
invadere. Al quale grido di paura, interpretato come un ordine, avrebbe tenuto dietro la scarica, cosicché le
sessanta vittime di quella sera sarebbero state una ecatombe alla paura dei Ministri.
E soggiungevano essersi visto andar attorno certe facce di bravacci, nerboruti, robusti, risoluti; e qualche
deputato di là, avendo riconosciute alcune ciere di antichi sgherri dello ex reame, averli interrogati del
come e del perché fossero in Torino ed esserglisi risposto averli qui chiamati Don Silvio Spaventa.
E si dicea che in mezzo alla folla inerme, e per nulla minacciosa ed ostile, eransi notati alcuni agenti
provocatori che soffiavano nel fuoco della pubblica commozione, e cercavano spingere le cose là dove non
era nei desideri del popolo congregato che andassero.
E tutti poi ad una voce protestavano che nessuna aggressione, nessuna provocazione era succeduta la
quale potesse comechessia giustificare le fucilate.
Queste prime impressioni furono in seguito confermate pur troppo nella massima parte.
I numerosi testimoni uditi dal magistrato nella inchiesta giudiziaria promossa per la querela contro
Peruzzi e Spaventa, e quelli non meno numerosi ed autorevoli escussi nella inchiesta amministrativa hanno
pur troppo, nel complesso delle loro dichiarazioni dimostrato che il sangue delle vittime del 21 settembre
fu sparso senza giustizia non solo, ma sì ancora senza motivo e senza ragione.
XXXIII.
Testimonianze circa la responsabilità degli Allievi Carabinieri
Già nei primordi della sera il contegno di alcuni carabinieri fra quelli che erano in piazza S. Carlo aveva
dato luogo a gravi apprensioni.
A più riprese essi aveano investito, coi fucili abbassati o baionetta in canna, alcuni gruppi di cittadini
inoffensivi, ed uno fra questi, il sig. Giordano Giuseppe, fu da loro arrestato perché avendo visto quattro o
cinque carabinieri dar addosso colle baionette a un adolescente di 15 o 13 anni, egli aveva rimproverato
all’ufficiale il contegno dei suoi subalterni 5.
Gli allievi carabinieri schierati in Piazza Castello aveano nel loro contegno un non so che di provocante,
che facea presentire che dovea andar a finir male, dice un teste 6.
Il capitano Vigo fu udito a dire a talune persone: « sarebbe meglio che loro si ritirassero » con un tale
piglio che faceva loro venire immediatamente il sospetto avessero i carabinieri ricevuto l’ordine di tirare 7.
3
4
5
ARA, pag. 72.
ARA, pag. 73.
ARA, pag. 70 e 71.
ARA, pag. 80.
7
ARA, pag. 73.
6
39
Un testimone dopo essersi soffermato assai tempo in prossimità degli allievi carabinieri, notatine il
contegno e gli atti disse al compagno: « partiamoci, perché vedrai che i carabinieri fanno fuoco » 8.
Un altro testimone narra che attraversando la piazza in uniforme di Guardia nazionale, nel passar loro
vicino fu ingiuriato con epiteti villani 9.
In tale stato di cose ecco verso le dieci sboccar dalla via Nuova in piazza Castello una turba di persone,
potevano esser da 150 a 200, la massima parte giovanotti neppure adolescenti.
Precedevali la solita bandiera, e li accompagnava il rullo di un tamburo scordato, che i soliti calunniatori
di Torino dissero poi essere stato concesso ai tumultuanti dalla Guardia nazionale, mentre invece è
provatissimo ormai che fu preso al teatro Balbo, ed infatti è un tamburo da palco scenico, dipinto in colore
oscuro; ciascuno può vederlo nell’ufficio del Giudice istruttore dov’è per il sequestro fattone quella stessa
sera.
Nessuno aveva armi: bensì alquanti portavano abbandonati alla spalla, o per usare la frase di un
testimone, a genio arm, bastoncini che si eran procurati attraversando il pubblico giardino presso il teatro
Balbo, col divellere alcuni rami dagli alberi di quella passeggiata 10.
Lungo via Nuova e piazza S. Carlo le truppe e i carabinieri che avevano incontrato li avean lasciati
passare liberamente 11.
Alzavansi da quella folla a quando a quando le grida di viva Roma capitale d’Italia, abbasso il Ministero,
abbasso Peruzzi e Spaventa; e cose simili 12.
Lo sbocco della via Nuova sulla piazza Castello era guardato da un distaccamento di truppe: essa apresi e
dà loro il passo 13.
La colonna procede oltre, in piazza Castello, e accenna ad attraversarla nella direzione di via di Po 14.
Essa intendeva recarsi all’ufficio del giornale l’Opinione, dicono i testimoni dell’inchiesta, al qual uopo
dovea percorrere tutta la via di Po, fino alla piazza, Vittorio Emanuele 15.
Ricordatevi che l’angolo sinistro dello sbocco della via di Po era guardato dagli allievi carabinieri che di lì
con una diagonale coprivano lo accesso alla via della Zecca, ed ai palazzi del Ministero degl’Interni e
dell’Estero.
Il comandante i carabinieri allo appressarsi della folla fa serrar le file e li porta alcuni passi innanzi verso
la piazza.
Appena questo movimento è eseguito s’ode uno sparo, poi un secondo, poi un fuoco continuato; la
moltitudine fugge urlando in tutte le direzioni, la piazza è sgombra innanzi ai carabinieri, ma numerose
vittime giacciono ai loro piedi, quali già fatti cadaveri, quali altre più o meno gravemente ferite.
8
ARA, pag. 74.
ARA, pag. 75.
10
ARA.
11
ARA.
12
ARA.
13
ARA.
14
ARA.
15
ARA.
9
40
XXXIV.
Perché si è fatto fuoco sulla folla?
Perché si è fatto fuoco?
Chi comandò il fuoco?
Eravi stata provocazione per parte della folla contro gli allievi carabinieri e tale provocazione che
giustificasse lo eccidio di tanti innocenti?
Si disse quella sera medesima da molti che il segnale di tirare sulla popolazione l’avesse dato un colpo di
pistola sparato dal Ministero dello Interno.
Ma questa diceria viene dall’onorevole Ara giudicata insufficiente 16 benché riconfermata, anche dopo i
tristi casi, da talun testimone 17.
Si disse quella sera che il fuoco lo aveva ordinato il capitano Vigo, ed io stesso, giunto sul luogo quasi
subito dopo la scarica, udia la voce pubblica narrare, per mezzo di numerosi astanti, che il Vigo aveva
ordinato di tirare.
Ma il Vigo, con una lettera nella quale il giornale il Diritto riconosceva esso medesimo la impronta del
soldato leale ed onesto, protestava con tutta la energia della sua coscienza contro questa accusa.
Sarà dunque vero che si tirò senza ordine.
Ma fu determinato il fuoco dalle provocazioni della folla?
No, recisamente no.
Il contegno della folla non era stato tale che legittimasse la fucilata.
Si parlò di carabinieri stati feriti dalla folla prima che si aprisse il fuoco.
Ma anzitutto la folla era senza armi.
Non uno che avesse un fucile od una pistola, od una sciabola, od altra arma qualsia.
Portavano alcuni bastoni, improvvisati con rami strappati agli alberi del giardino pubblico.
Ma dalla dichiarazione di parecchi testimoni è escluso che ne abbiano fatto uso prima delle fucilate 18.
Il getto di qualche sasso, ecco la sola circostanza che può dirsi appurata a carico della folla.
E nemmeno è ben certo che abbianli scagliati prima delle fucilate.
Arroge che lo intervallo che passò fra lo arrivo in piazza Castello di quella turba che motivò gli spari, e gli
spari stessi fu troppo breve perché possa aver avuto luogo una vera e seria provocazione del popolo verso i
carabinieri.
« lo mi trovava alla testa vicino al tamburino, narra Carlo Muttis, e perseguii verso i portici dove si trova
il confettiere Anselmo, e quivi trovandosi schierati gli allievi carabinieri mi avvicinai ad essi nello
intendimento che essi aprissero i ranghi come aveva fatto la truppa di linea in via Nuova, ma invece i
carabinieri chiusero i ranghi, e mi appuntarono le baionette…. un ufficiale fece segno ai soldati (carabinieri)
di alzare i fucili, ma in quell’istante partì un colpo di fucile dal punto estremo di sinistra, ed io fuggii
sentendo diversi altri colpi successivi scaricati dai carabinieri nelle diverse direzioni, anche contro i
fuggitivi 19. »
Fiandra Biagio stava con due amici in piazza Castello da alcun tempo, in prossimità dei carabinieri: vede
giungere la colonna da via Nuova, l’accompagna in coda, essa appena è giunta in prossimità dei Carabinieri,
s’ode la scarica, senza intimazione, senza provocazione 20.
16
ARA, pag. 27.
ARA, pag. 25.
18
ARA, pag. 71.
19
ARA, pag. 71.
20
ARA, pag. 73
17
41
Griotti Luigi, Enrico Stara, Brachi Vittorio, Baroni Caloandro, Brocchi Giuseppe, Maissa Francesco, B.
Perucca, persone che hanno tutte una posizione sociale, professionisti, proprietari, impiegati governativi
concordi dichiarano che fu un solo punto il giungere quella inerme e pacifica colonna presso gli allievi
carabinieri e la scarica a brucia pelo.
Tutti concordano col dire che non vi fu, non vi poté essere provocazione.
Si disse, e si dirà forse ancora che parecchi carabinieri erano stati feriti.
Dopo lo sparo è possibile, prima no.
Dopo lo sparo la indignazione fece che molti sprezzassero il pericolo proprio, per gittarsi contro i
carabinieri e vendicare il sangue sparso.
Son più testimoni che dicono aver visto dopo gli spari scagliar sassi ed alzar bastoni contro i carabinieri.
Del resto le tavole officiali desunte dai registri dell’Ospedale Militare dove ogni soldato ferito fu
trasportato, smentiscono anche esse la mendicata scusa della iniqua strage.
Segnano esse otto feriti il dì 21: cioè sette carabinieri ed un sergente. Ma quest’ultimo fu tra le vittime
popolari, colpito dai carabinieri, e però non è da calcolare in questi: gli altri sette ebbero nulla più che
leggere contusioni, per modo che il registro medesimo dello Ospedale Militare li dà già usciti per guarigione
sicurissima tre giorni dopo…
Ma perché hanno tirato se neppure ci fu provocazione?
XXXV.
La paura guida le decisioni dei Ministri
La PAURA, la paura stolta, la paura vigliacca, la paura crudele e sanguinaria nei suoi effetti, senza averne
per lo più la coscienza, o la intenzione…
La paura aveva invaso i Ministri, e in ispecie fra essi il Minghetti e il Peruzzi: la paura invase i subalterni:
la paura preoccupò e traviò gli esecutori, poiché non voglio credere li abbia guidati un più malvagio
sentimento, malgrado il contegno della sera seguente autorizzi tutte le supposizioni…
È difficile ora, a cose finite, formarsi un concetto dello spavento che aveva invaso i nostri Ministri e i loro
agenti in quei giorni.
Minghetti, Peruzzi eransi circondati di guardie, e di carabinieri: malgrado lo spiegamento di grandi forze
per le piazze e le strade, erano i portici, le scale, e gli anditi del Ministero guardati da carabinieri e soldati:
carabinieri e soldati stavano dentro il giardino reale.
Il direttore della polizia Biancoli tremava anch’esso verga a verga, e chiedeva una guardia particolare e
personale.
Nel palazzo della questura si credevano ad ogni momento in pericolo di morte. Un drappello di cinque o
sei individui che si arrestasse nella vicinanza, una conversazione alquanto animata, qualche grido, qualche
evviva, o qualche abbasso, davan loro i brividi, e li facean correre alle armi.
Il Minghetti, sempre imprevidente e leggero, aveva sino all’ultim’ora assicurato i colleghi che nulla era a
temere, conoscere egli Torino e i Torinesi, avere le sue buone informazioni, stare sicurissimo che, malgrado
tutto, anima viva non si sarebbe mossa.
L’amaro disinganno fece perdere la testa a lui ed ai colleghi.
Solo fra tutti conservò, almeno al di fuori, una cinica indifferenza lo Spaventa.
Gli altri, smarritisi d’animo, non consultarono più altro sentimento fuor quello della propria sicurezza,
che parea loro minacciata.
42
Diffidarono delle autorità municipali, diffidarono della Guardia nazionale, ne vollero sotto le armi….
MEZZA COMPAGNIA! e vietarono si suonasse a raccolta 21.
Chiamavansi invece attorno numerosi gli allievi carabinieri, cioè uomini dei quali fra breve esso
medesimo il Minghetti, e con lui il Della Rovere, e il Peruzzi dichiarerebbero non potersi fare sopra di loro
assegno nei momenti critici, perché troppo giovani, inesperti, facili alle vive impressioni, ed alle risoluzioni
inconsiderate; gli uomini dei quali la notte del 23 il generale Della Rocca dirà: « Vedete che soldati sono
costoro! mi hanno persino ucciso il colonnello »
Ma posciacchè li sapevano uomini così mal sicuri, si fossero almeno date loro istruzioni precise e tali che
rendessero meno facili le improntitudini, e, per esse, le sventure!
Invece son mandati innanzi la folla con i fucili carichi e vengono abbandonati, sembra, a lor medesimi,
poscia che tirano quando e come vogliono, tirano senza comando, tirano senza ordine, senza riguardo, a
capriccio, o con premeditato furore…
XXXVI.
Da dove è partito il primo colpo?
Secondo la versione più probabile, come quella nella quale concordano e i Ministri, e il capitano che
comandava i carabinieri, e i testimoni dell’inchiesta, il primo colpo lo tirò un carabiniere che era in
sentinella all’estrema ala sinistra verso il confettiere Anselmo.
Fu un subitaneo terror panico che lo invase nel vedere approssimarsi la folla, secondo i più credono?
O fu l’irritazione prodotta in lui dalla percossa di una pietra scagliatagli contro che lo trasse a far fuoco?
Ammettasi pur anche cotesta più benigna versione: sarà con ciò giustificata la orribile strage del 21
settembre? sarà giustificata la viva e nutrita fucilata sulla popolazione inerme che già il rumore delle prime
scariche aveva messo in fuga?
Imperocché vera strage produsse pur troppo quel fuoco, e sui fuggenti tirarono, senza pietà come senza
utilità, gli allievi carabinieri.
La popolazione stava fidente in piazza Castello.
La popolazione aveva visto che lo eccesso delle guardie di Pubblica Sicurezza era stato disapprovato
anche dal Governo, poscia che si erano rilasciati i prigionieri, restituita la bandiera, consegnate in quartiere
le guardie.
La popolazione non poteva prevedere, non lo avrebbe creduto neppure quando glielo avessero detto,
che sarebbonsi quella sera medesima compiuti sotto gli occhi stessi dei Ministri eccessi ben più gravi e
funesti.
Già in sul far della sera il contegno così savio e temperato della truppa aveva allontanato ogni sospetto
di collisione.
Lo aver visto, pochi momenti innanzi gli spari, la truppa di linea che stava in piazza Castello aprirsi e dare
il passo alla turba dei dimostranti persuadeva essersi date istruzioni miti e prudenti.
« Lasceranno che si gridi, dicea ciascuno, come si è fatto ieri sera: poi, come ieri sera, la dimostrazione si
scioglierà da sé: o alla peggio i curiosi più pertinaci, quelli che non si volessero proprio muovere dal
domicilio pubblico, saranno invitati a ritirarsi: dopo l’esempio di quest’oggi, è impossibile che da capo
stasera ci assaltino senza le intimazioni: se ne debbono fare tre, sentiremo lo squillo della tromba, o il rullo
del tamburo, ed allora chi ha prudenza l’usi, e ce ne andremo. »
21
Lettere del Questore e del Ministro Peruzzi. ARA, pag. 15, lo e 56, 57.
43
Questi i discorsi comuni fra la folla di piazza Castello in quella sera, e però ivi passeggiavano commisti
vecchi e fanciulli, uomini e donne; molti s’erano colla famiglia condotti colà come al luogo del solito
diporto, e tutti erano le mille miglia lontani dal presentire gli orribili avvenimenti che si preparavano.
XXXVII.
Si pensa che sulla folla si stia sparando a salve
Né lo squillo, né il rullo del tamburo, che la legge vuole in modo assoluto precedano l’uso della forza, si
fanno udire.
Nessuna intimazione è fatta alla folla.
Nessun avviso di ritirarsi è dato ai curiosi che sogliono fornire il contingente più numeroso ai pubblici
assembramenti.
E i torinesi, che ricordano tuttavia come nel 1847, ai tempi del Governo assoluto, tenendo il potere i
Lazzari, i La Tour, famigerati per severità di opinioni, e di modi, si erano per molte sere protratte
dimostrazioni politiche come questa, senza che si fosse versata una goccia di sangue, i torinesi
continuavano fidenti e tranquilli la loro passeggiata, o si radunavano in crocchi, o formavan capannelli, o
attorno ai lampioni che rischiaravan la piazza, leggevano i diari della sera 22.
A un tratto s’ode un colpo isolato, poi altri, poi molti, e le turbe si agitano, i crocchi si rompono, lo
scompiglio è nella folla, si fugge, si grida, si impreca…
Ebbene, tanta era la pubblica persuasione che non si sarebbe inferocito contro la popolazione inerme
che molti fra gli spettatori non credono ancora al dramma ferale che si svolge sotto i loro occhi…
« Oh! i paurosi - esclama il cavaliere Enrico Stura, che è a pochi passi dai carabinieri - perché fuggite?
State fermi non capite che tirano a polvere? » 23
Vittorio Brachi dice al nipote: « Vedi con quale calma spianano i fucili e prendon la mira: non c’è dubbio
essi tirano a polvere! » 24
L’avvocato Maissa in compagnia del signor Demichelis giunge presso ai carabinieri, ed ode alla estrema
loro sinistra lo scoppio di un’arma da fuoco. Il suo compagno gli grida andiamo via, e fugge. L’avvocato
Maissa, « non vedi, gli risponde che tirano da burla? » e rimane.
Appena ha detto questo succede una serie di colpi, che cominciando dall’ala sinistra procedono via via
verso la destra; egli nota come alcuni tirino in aria, altri facciano fuoco sulla folla con diversità di direzione
dei fucili cioè i tre quinti circa verso sinistra son rivolti in linea retta, e gli altri due quinti verso destra,
vengono via via diretti obliquamente sulla folla che fuggiva precipitosamente tenendosi sempre a distanza;
e fra gli ultimi carabinieri ne nota pure alcuni, che dopo abbassato il fucile cambiano la direzione
orizzontalmente da destra a sinistra seguendo il movimento della folla fuggente come farebbe cacciatore
che voglia colpire animale corrente o volante. E non parendogli possibile che fosse tanta ferocia in quei
carabinieri da prendere così di mira i pacifici, impauriti, fuggenti cittadini, si persuade affatto che tirano a
polvere.
E ride! ride di ciò che egli crede terror panico dei fuggiaschi, ride della precipite loro corsa, ride di coloro
che cadono a terra, perché li crede inciampati nel correre, ride nel vedere che le scariche hanno cessato, i
tiri son finiti, i caduti non si muovono. E sta per gridar loro « alzatevi che tutto è terminato » quando
dapprima talun gemito, poi le alte imprecazioni, infine, la vista del sangue che macchia il terreno, e riflette
22
ARA, pag. 39, 79.
ARA, pag. 77.
24
ARA, pag. 24 e pag. 81.
23
44
sinistramente la luce dei lampioni lo gela d’orrore e di raccapriccio, - e freme al pensiero che egli irrideva ai
morti ed ai feriti per la scarica micidiale… 25
Sessanta furono le vittime, fra le quali tre donne 26, una di esse colpita mentre sicura transitava sotto i
portici… e la domani i pilastri di questi, e la parete dell’ultimo isolato di piazza Castello verso via di Po, e del
primo isolato di questa, presentavano in numerosi e larghi scrostamenti le tracce sensibili della molteplicità
ed efficacia delle fatte scariche…
Molti fra i caduti aveano due, tre, e fino a quattro ferite 27.
A un miserando vecchio settuagenario dalla lunga e bianca barba, due palle aveano forate e rotte
amendue le cosce 28.
Un’altra donna, Ferrero Maddalena, aveva anch’essa rotte da due palle di moschetto amendue le
gambe; Gerboglio Giovanni toccava tre ferite due nelle braccia, la terza al torace estendentesi fino al dorso
- Picena, Lungo, Meinardi cadeano esamini di palla nel capo.
Né tra le molte vittime posso dimenticare te, Vittorio Gandiglio, che appena diciasettenne, mentre
reduce dalla villa, attraversavi inconscio la funesta piazza, impaziente di abbracciare, dopo alcuni giorni di
separazione, gli amati genitori, stramazzavi al suolo improvvisamente spento dal piombo letale che ti
rompeva il volto, e ti usciva dalla nuca…Ma più ancora di te infelice il padre tuo, che mentre ansioso
accorreva ad incontrarti, sorpreso egli pure dalla scarica nefanda, cercava ricovero entro un caffè, e appena
vi era giunto, vedeva recarvisi un cadavere esangue e sformato; chinatosi con pietosa curiosità a guardarlo,
in quel cadavere ravvisava tutto ciò che gli rimaneva di suo figlio…
La penna qui mi cade di mano, e io domando a me stesso: perché fermar più a lungo il pensiero sopra
queste scene di sangue?
Abbandoniamo questa atmosfera opprimente e perniciosa, abbandoniamola prima che il suo malo
influsso ci turbi nuovamente l’animo e i sensi, e vediamo quali provvisioni suggerisse la sventura del 21
settembre, come rimedio e impedimento a che si rinnovassero simili infortuni.
XXXVIII.
Il giovane Andolfato provoca il Capitano Vigo
La concitazione degli animi era immensa.
Alle prime scariche tutti eransi dati alla fuga, per il naturale istinto della conservazione ed anche perché
moltissimi essendo nella persuasione che si tirasse solamente a polvere, consideravano quelle scariche
come un avvertimento.
Ma non appena furono visti giacere al suolo i cadaveri delle vittime e correre il sangue per la piazza,
operossi immediatamente una reazione. Allora fu un grandinare smanioso di sassi, allora un avventarsi
furioso di molti con i bastoni sopra i carabinieri; allora ebbero luogo quelle alquante contusioni (leggere
però in modo da lasciar guariti i percossi nel secondo, e nel terzo giorno) che toccarono a otto o dieci allievi
carabinieri.
Una lunga imprecazione correa la piazza, e le vie adiacenti: i più obbrobriosi epiteti si prodigavano agli
esecutori dell’opera micidiale.
Era il sangue delle vittime innocenti che gridava vendetta…
25
26
27
28
Le stesse cose narra il Signor Perucca, impiegato al Ministero dei lavori pubblici. ARA pag. 84.
Relazione del dottore RIZZETTI, fra gli allegati di ARA, pag. 130.
Relazione RIZZETTI.
ARA, pag. 85.
45
E ricorrevano più frequenti sulle labbra che imprecavano due nomi, quello di Spaventa che la voce
pubblica - erroneamente secondo fu chiarito poi - accusava di aver dato il segnale del fuoco, - e quello del
capitano Vigo che si dicea averlo comandato.
Gli Allievi Carabinieri subivano in attitudini diverse l’urto della irritazione popolare.
I più stavano come trasognati, e sbalorditi alla vista del male che avevano operato: molti cercavano
scusarsi dicendo aver eseguito gli ordini: altri s’ingegnava con buone parole calmare gli animi concitati:
pochi mostravano risentirsi e davano a vedere essere pronti a ricominciare.
II capitano Vigo fra tutti mostravasi il più addolorato di quanto era succeduto: agitato, confuso, egli al
sentirsi da tante voci gridar colpevole di quella strage - che certo il suo cuore di soldato non avrebbe voluta
- ei balbettava giustificazioni e scuse - sono buon Piemontese, andava dicendo, ho dovuto obbedire,
soggiungea poco stante: poi ripigliava: nessuno ordinò il fuoco, tirarono a caso, fu un terror panico che li
trascinò agli spari, fu un equivoco.
A un tratto si fa innanzi a lui un giovanetto, un veneto, certo Andolfato, giovane di nobili e delicati sensi,
il quale mentre stava tranquillo conversando con un amico, uditi gli spari, erasi a un tratto visto capitar
innanzi il corpo di un morente, col capo spaccato dalle palle, e segnante di larga striscia di sangue il terreno.
Lo portavano quattro adolescenti che da lui richiesti chi avesse ridotto l’infelice a quello stato rispondevano
« il fuoco dei carabinieri, comandato dal loro capo. » - L’Andolfato affretta il passo verso il centro della
strage, e incontra giacenti al suolo due altri corpi, bocconi l’uno sopra l’altro; già fatto cadavere uno di essi,
boccheggiante tuttavia l’altro, col fianco sinistro aperto da larga ferita; più oltre inciampa in due altri corpi e
ode da un crocchio di persone « quasi tutte di condizione signorile, e di età adulta » dice egli, affermare a
più riprese che il fuoco l’ordinò il capitano Vigo. Egli si china ad esaminare quei caduti al lume di un cerino
per vedere se fossero ancora capaci di soccorso, quando lo colpisce il grido « fuggiamo fuggiamo, fanno
una seconda scarica ».
Egli si alza: guarda attorno: il suo compagno è fuggito, son fuggiti gli astanti, e in quel punto vede venire
innanzi il drappello dei carabinieri, guidandolo il Vigo. A tale vista l’Andolfato, vinto da un irresistibile
impeto di indignazione per la scena straziante che aveva sott’occhio, si slancia contro i carabinieri, e
piantatosi in faccia al Vigo « Ferma assassino, gli grida, non ne hai uccisi abbastanza? »
Il capitano Vigo trema convulso, ma egli trova nel sentimento dell’onore tanta forza da reggere
all’insulto, e frenar se medesimo, e sta pago ad afferrar per un braccio l’Andolfato, intimandogli di ritirarsi.
Questi sempre più concitato, e come dissennato, si apre l’abito sul petto e gli grida ancora « se vuoi altro
sangue, prendi il mio » e gli prodiga furente ogni peggior titolo.
Magnanima e santa ira questa dell’Andolfato -, ma certo degna pure di lode e di ammirazione la forza
d’animo del Vigo che seppe sopportare impassibile la provocazione, meritata forse, ma certamente atroce.
Meno paziente di lui alcuno fra i più giovani Carabinieri già minacciava lo Andolfato, quando, e per
interposizione di alcune persone nel frattempo sopraggiunte, e per i buoni uffici finanche di alcuni fra i più
attempati dei Carabinieri, la dolorosa scena ebbe fine col ritirarsi dello Andolfato 29.
29
ARA, pag. 26, 27; e pag. 34 e 49.
46
XXXIX.
Tardiva richiesta di intervento della Guarda Nazionale
Intanto cominciavano a giungere alcuni drappelli di Guardia Nazionale.
Voi ricordate che una lettera di Peruzzi, scritta alle 4 1/2 di questo giorno 21 settembre, e così dopo il
tafferuglio di Piazza S. Carlo, aveva proibito di battere la generala UNICO MEZZO DI CHIAMARE
IMPROVVISAMENTE 30 LA GUARDIA NAZIONALE SOTTO LE ARMI.
Voi ricordate che, due volte alle istanze del Municipio perché gli si consentisse di chiamare a raccolta,
rispondevasi negativamente.
Voi ricordate che solo fra le 9 1/2 e le 10 della sera in seguito alle vive e pressanti istanze di alcuni fra di
noi, erasi dato ordine di chiamare i militi sotto le armi.
Solo avesse il Peruzzi accordato mezz’ora prima la chiestagli facoltà, non sarebbesi sparso il sangue in
Piazza Castello.
Appena eran cadute le ultime vittime quando giunse un primo drappello di Guardia Nazionale in piazza
Castello, e ne posso parlare con sicurezza, giacché lo guidava io medesimo.
L’utilità dello intervento della milizia cittadina fu immediatamente constatato.
Una mano di adolescenti che potevano avere dai tredici ai quindici anni, cedendo anch’essi alla
universale indignazione per lo accaduto, s’erano forniti di sassi.
Girata poscia la piazza, e visto in prossimità di via Doragrossa un drappelletto di carabinieri, comandato
dall’uffiziale Carrara, prendevano ad avventargli pietre, chiamandoli ad un tempo coi nomi più ingiuriosi.
Pazientavano essi alquanto, e di poi cominciarono a far uso delle baionette. Ma quei monelli visto il
drappello a muoversi, scioglievansi fuggendo in tutte le direzioni; non appena i carabinieri avevano ripreso
il loro posto, e quelli da capo colle sassate, e gl’improperi. Il giuoco cominciava a diventare fastidioso e
pieno di pericoli, ed era imminente una nuova collisione; quando per buona ventura sopraggiunge un
manipolo di guardia nazionale, che riesce colla persuasione a farsi cedere il posto dai carabinieri, e pone
fine così alle provocazioni.
Bensì accadde sgraziatamente che quei carabinieri medesimi essendosi recati a pattugliare in via della
Palma, a vece di ritirarsi, come la più volgare prudenza loro consigliava, vidersi scagliate contro alcune
pietre: allora due fra di essi (altra prova del disordine e della indisciplina di quel corpo) fecero fuoco.
Furono questi gli ultimi spari della infausta sera del 21 settembre; ma non però le ultime
preoccupazioni.
Dopo la mezzanotte avvisi sicuri fecero sapere che una mano di giovani avevano aperte e vuotate due
botteghe da armaiolo, esportandone le armi, ed avevano forzato il magazzino di un rivenditore di polvere.
Una compagnia di guardia nazionale, e due squadre di bersaglieri si misero tosto in campagna, e in
breve ebbero raggiunti, accerchiati e disarmati i due drappelli che avevan saccheggiate le armi.
Delle quali non fecero questi alcun uso; ma in parte le gettarono appena le ebbero in mano, perché si
trovaron senza munizioni, e le altre appena giovarono ad un simulacro di tentativo di difesa.
XL.
Provocatori non torinesi mischiati nella folla
In questo frattempo il Municipio aveva seduto, può dirsi, in permanenza. In seguito anche alla
deliberazione del Consiglio, un certo numero di consiglieri era rimasto nel palazzo di Città, fra i quali per
30
ARA, pag. 19 e 49.
47
assiduità e zelo si distinsero in ispecie, oltre il Sindaco, i membri della Giunta, i consiglieri Corsi, Pateri,
Chiaves, Ara, Rignon, Sclopis, Sella, Farcito Ferrati, Pinchia.
E con essi rimanevano in permanenza gli ufficiali dello Stato Maggiore della Guardia Nazionale.
A due riprese molto popolo si era condotto in piazza del Municipio; il sindaco Rorà dal balcone arringava
la moltitudine, raccomandandole la moderazione, la calma, la temperanza; assicurandola che la
rappresentanza comunale avrebbe fatto il suo dovere, ma che appunto all’uopo fosse efficace la sua azione
conveniva non incagliarla con inopportune e pericolose dimostrazioni.
Recatosi verso sera in casa sua per pochi istanti, e riconosciuto da una accolta di molti individui, egli dal
balcone del proprio palazzo volgeva loro di bel nuovo il discorso, pregandoli a stare calmi.
E qui fu notevole un curioso incidente.
Era già andata attorno la voce che in mezzo ai molti onesti cittadini che intendevano protestare
legalmente con pacifiche riunioni contro una convenzione che per essi significava rinunzia a Roma, fossero
pure alcuni mestatori, fossero finanche taluni agenti provocatori.
E pur troppo se ne aveva più tardi la prova, nel fatto di due fra di essi, Gauthier e Ribotta, ucciso l’uno,
ferito l’altro, appunto nel mentre stavano fungendo l’ignobile ufficio 31.
Con arguto pensiero volle il Rorà saggiare di che elementi si componesse la folla che si era agglomerata
sotto le sue finestre, e fattosi al verone, le rivolse il discorso in vernacolo piemontese.
Appena aveva dette poche parole, ecco più voci, in tuono burbero e risentito, gridargli parli italiano…
E questa è anche una prova - e non ultima forse - che di molti elementi eterogenei alla popolazione
torinese andavan confusi in questi assembramenti, cosicché se talun consiglio fu dato, talun progetto
formato, talun atto eseguito, come per esempio le alquante sassate contro le finestre e il portone della
Camera dei Deputati, e la minaccia di incendiarla; se dico alcuni trascorsi possono venir apposti alla
moltitudine in quella sera, i quali sono difformi affatto dalle secolari abitudini e tradizioni di temperanza e
di calma della popolazione torinese, non è improbabile che li abbiano prodotti gli eccitamenti di persone
estranee a questa.
Il sindaco Rorà, alla poco benigna interruzione che gli intimò di parlare italiano rispose, da quel uomo
sagace e pronto che egli è, « vedere in questo eccitamento una prova novella che la questione per la quale
Torino è commossa non è questione di municipio, ma nazionale veramente, poscia che vi prendono
interesse, e parte non i Torinesi essi soli, ma sì ancora i cittadini delle altre province italiane: e in così buon
numero, che parlando alla folla raccoltasi per fare una dimostrazione contro la rinuncia a Roma, diviene
necessario parlare la lingua madre per essere compreso dai più. »
E proseguì dicendo « che appunto perché la questione è nazionale, non si dee portar in piazza, ma
sibbene vuolsi aver fede nelle autorità costituite dalle leggi, e dallo statuto - e lasciare al municipio la cura
di rappresentare il voto della popolazione, al Parlamento l’officio di pronunziare secondo gli interessi della
nazione. »
Savie parole, che avrebbero dovuto esse sole far salvo il Rorà dalle spudorate calunnie che gli si
vomitarono contro: savie parole che sopra tutti gli onesti hanno dovuto fare ottima impressione. Ma
intanto in questa occasione medesima l’incidente ora ricordato constatò la mistura di elementi eterogenei,
non entrati a caso, né certo a buon fine, in mezzo ai buoni, rassegnati e temperanti Torinesi.
31
ARA, pag. 125, e relazione GABBIA (M.S.)
48
XLI.
Alcuni provocatori organizzano di bruciare la Camera dei Deputati
Della quale mistura deplorabile fornisce vieppiù dirette, e vieppiù gravi prove un altro incidente, cioè il
tentativo contro il palazzo della Camera dei Deputati, che riferirò addirittura colle parole del Trucche,
guardaportone.
Egli narra che passando il mattino presso il venditore di giornali che sta sull’angolo della piazza Castello,
e Doragrossa udì a dire, questa sera andiamo a dar fuoco al baraccone della Camera dei deputati. E
prosegue: « mi voltai e vidi 12 o 14 individui che erano laceri così da rassomigliar banditi e che parlavano la
lingua italiana.
Continuai la mia strada, e mi ritirai a casa nel palazzo Carignano.
Poco dopo uscii di nuovo e andai in piazza San Carlo. Erano forse le ore dieci e tre quarti, quando
passando presso un circolo d’individui (numero 30 circa, piuttosto più che meno) che avevano l’apparenza
analoga a quelli veduti in piazza Castello cioè di banditi, meno tre o quattro ben vestiti in frack, uno col
cilindro o cappello nero, un altro con un cappellotto grigio assai bello, un altro con caschetta di panno nero
con visiera larga due dita di forma come le truppe tedesche, cioè cadente sulla fronte che copriva; la
posizione sul capo di tale caschetta era molto avanzata in avanti; tutti stavano ascoltando meno due, cioè
quello del cilindro o cappello nero e quello del cappellotto grigio; questi due in lingua italiana dissero:
siamo intesi, andiamo a bruciare il baraccone della Camera dei deputati. Queste parole furono pronunziate
da quello che aveva il cappello nero; vedendo che parlava anche quello del cappello grigio, girai attorno al
circolo e mi fermai voltando loro la schiena in atto di aggiustare un pacco che aveva in mano, ma
coll’intenzione di ascoltare, ma non potei udire ciò che diceva quello del cappello grigio. Non udendo più a
parlare mi rivoltai e m’accorsi che era sogguardato specialmente da quello del cappello grigio; allora per
prudenza me ne andai a casa per lasciare il pacco di miglio ed altro che aveva acquistato dal risaio presso la
chiesa di San Carlo. Uscii subito da casa ed andai in via della Chiesa n° 7; ritornando a casa, mentre passavo
all’angolo della via della meridiana e piazza Bodoni passai presso un gruppo di otto o nove individui tutti
brutti e mal vestiti, non riconobbi alcuno di quelli che avevo già veduto, udii uno di questi a dire in lingua
italiana: siamo poi intesi di andare a bruciare il baraccone questa sera, siamo intesi. Ritornato a casa, atteso
quanto aveva sentito, ho messo in avvertenza il cavaliere Trompeo (che è il segretario capo della questura
della Camera) e d’accordo col medesimo ci siamo affrettati di far chiudere le due porticine laterali al
portone del palazzo Carignano e quindi anche questo portone barricandolo di dentro, lasciando aperto
l’usciolo per l’opportuno accesso dei deputati. Difatti verso le ore sei e mezza una turba numerosa
proveniente da piazza Castello gettò pietre verso il portone, due delle quali mi percossero l’una sul capo e
l’altra al braccio destro, mentre chiudeva l’usciolo passando un sasso per mezzo d’un vetro nel peristilio, e
quindi dopo inutili sforzi per abbattere il portone l’attruppamento si dissipò 32. »
La veridicità e precisione della quale narrativa, oltreché emerge dal suo tenore medesimo così
particolarizzato e schietto, ha pure la sua conferma e nello avvertimento dato dal Trucche al cavaliere
Trompeo, e nella narrazione che ne faceva immediatamente dopo l’accaduto, a me che capitavo colà
appena seguito il fatto, secondo più sopra narrai, e ad altri deputati fra i quali l’onorevole Sineo, e
l’onorevole Marazio, presenti anche un sergente della Guardia Nazionale ed alcuni militi.
32
ARA, pag. 125 e 126.
49
XLII.
22 settembre. Nuovo proclama del Sindaco Rorà
Non mancava il Municipio di fare informato il Ministro dello Interno di queste circostanze e di tutte
quelle altre che accennassero ad un pericolo da prevenire, o ad un danno da riparare. E già ho narrato
come pochi momenti prima delle scariche fatali in piazza Castello si fosse il Sindaco recato dal Peruzzi, ed
avessero appunto in quella occasione, corso un lieve pericolo egli medesimo e il deputato Ara.
Ma a poco approdavano queste conferenze, perché i Ministri soprafatti dagli avvenimenti che non
aveano saputo né prevedere, né preparare, pentiti della propria opera, sfiduciati, e tementi di peggio,
ondeggiavano incerti fra vari partiti, senza sapersi decidere per alcuno.
Ma quando giunse il luttuoso annunzio della strage di piazza Castello, quando si videro recare in
Municipio morti e feriti, quanti erano presenti Consiglieri o cittadini, precorrendo col pensiero ai maggiori
danni che questi preludi faceano pur troppo temere, ad una voce dissero dovere la rappresentanza
comunale farsi viva, se pur non volea trovarsi esautorata ed essere causa di tal maniera, che la popolazione
rimanesse abbandonata a se medesima senza direzione, senza consigli, in balia, da una parte, al giusto
risentimento che la poteva spingere ad altri estremi, e dall’altra alla forza brutale unico mezzo ormai, unica
ragione di governo di cui si mostrasse ancora capace il Ministero Minghetti - Peruzzi.
Il quale, forse appunto perché sentiva di non aver più la autorità morale necessaria a dominare gli
avvenimenti eccitava esso medesimo il Municipio a prendere una iniziativa verso la popolazione per vedere
di mantenerla nell’ordine e nella calma.
Ad una deputazione composta del Sindaco, e di alcuni Consiglieri si era dichiarato che veramente pareva
anche al Ministero avessero ecceduto le Guardie di Pubblica Sicurezza, ma le fucilate in piazza Castello,
essere state lo effetto delle provocazioni della folla: farebbesi per altro una inchiesta e se ne risultasse che
abbiano sparato senza necessità, provvederebbesi.
Il Sindaco rispondeva che le molteplici informazioni già ricevute lo autorizzavano a credere fin da ora che
pur troppo gli Allievi Carabinieri avessero anch’essi ecceduto: che intanto però il Municipio farebbe ogni
opera per mantenere la calma.
Conseguentemente a queste dichiarazioni si redigea nella notte del 21 per essere pubblicato all’alba del
22 questo proclama:
« Concittadini,
Luttuosi avvenimenti, ignoti prima d’ora alla nostra città, l’hanno ieri pur troppo funestata!
Le esortazioni che il vostro Municipio teste vi dirigeva, ve le ripeto io con tanta maggior istanza ora che
importa non si faccia ricadere sulla popolazione torinese la colpa di quei deplorabili casi. Concorra ognuno
coi mezzi che ha in poter suo a ristabilire la tranquillità e mantenere l’ordine.
A Voi specialmente, Uffiziali e Militi della Guardia Nazionale, rivolgo con tutto l’ardore questo invito, a
Voi ai quali è dalla Legge affidato tale compito, e Voi saprete fedelmente adempierlo, non solo perché è un
dovere, ma sopra tutto perché Voi comprendete che da questo adempimento dipendono in gran parte le
sorti della vostra Città e della patria comune.
Torino, dal palazzo municipale 22 settembre 1864.
Il Sindaco RORA’. »
50
XLIII.
Boggio difende la Guardia Nazionale
Questo proclama indicava come si facesse grandissimo assegno sulla Guardia Nazionale, e come ormai
potessero trovarsi nelle sue mani le sorti di Torino.
Giungeva ancora in tempo questo appello alla Guardia Nazionale?
L’evento provò pur troppo che no…
Per colpa di chi?
Risponda per me la parola autorevole del relatore dell’inchiesta, il deputato Ara:
« Il Ministero dismesso dubitò dell’onestà della nostra Guardia nazionale, e conoscendo il proprio torto
di aver trattato sconvenientemente, senza riguardi, una città, che con tanta cordialità, con tanta
abnegazione, aveva ospitati gl'italiani delle altre Provincie quando esulavano raminghi, temette che la
Guardia nazionale sotto le armi mancasse al proprio dovere lasciasse allo scoperto l’Autorità Governativa.
Questo dubbio ingiurioso, che io non avrei voluto palesare, appare troppo chiaramente da tutto quanto
seguì tra il Ministero ed i Capi della Guardia nazionale.
Il Ministero temeva per la sua sicurezza personale, non aveva fede nei cittadini di Torino, diffidava di
tutti, e così occasionava i luttuosi avvenimenti, che insanguinarono le nostre vie, e che saranno un ricordo
eterno della sua colpevole imperizia.
Giudicate Voi, se un tale mio apprezzamento sia per avventura eccessivo.
Alli 20 settembre il signor Questore Chiapussi, con sua lettera diretta al Sindaco, accennando alla
concitazione destata nel pubblico per la notizia del trasferimento della Capitale a Firenze, mentre si
mostrava convinto che nulla fosse per avvenire essendogli noto, come scriveva, il buon senso della
popolazione, il suo patriottismo, il suo attaccamento alla causa dell’indipendenza italiana, all’oggetto di
prevenire tutte le possibili dimostrazioni, lo pregava a volere a far tempo dal giorno 21, e così nei giorni
successivi, sino a nuovo avviso, ordinare, che dalle ore 9 antimeridiane sino alle ore 8 pomeridiane, si
trovasse pronta una mezza compagnia di Guardia nazionale presso il Comando superiore ai cenni di
quell’Ufficio.
Il Sindaco trasmise subito l’istessa lettera originale al Generalo della Guardia nazionale, ed il medesimo,
come sempre fece in simili circostanze, soddisfece alla richiesta.
La mezza compagnia alle ore 8 antimeridiane del giorno 21 si trovava disponibile in quartiere sotto gli
ordini del sottotenente della 12a compagnia, 4° legione, signor Carlo Aiassa.
Alli 21 settembre alle ore 11 circa del mattino, il signor Sindaco riceveva una lettera dal signor Questore,
nella quale così si esprimeva:
In seguito al foglio di ieri, ed a rettificazione dell'errore in corso nella trascrizione circa il numero
occorrente pel ripristinamento della pubblica quiete e tranquillità quante volte venisse turbata in
dipendenza della notizia diffusasi del traslocamento della capitale a Firenze, il sottoscritto prega il signor
Sindaco a voler disporre subito, perché un mezzo battaglione di Guardia nazionale si trovi pronto nel locale
del Comando superiore dell’arma ai cenni di quell’Uffizio.
Il Sindaco, invitato al Ministero dell’interno con tutti i capi della Guardia nazionale, mandò tale lettera al
Generale Accossato mentre questi erasi già avviato al Ministero dell’interno.
Il signor Generale non ricevette la lettera: ma essendosi abboccato personalmente col signor Chiapussi
sotto i portici di piazza Castello, e quindi col signor Ministro dell’Interno, io trascrivo qui la parte del
rapporto dal medesimo fatto al Generale in capo Visconti d’Ornavasso.
In questo frattempo io riceveva invito di trovarmi dal signor ministro dell’interno per le ore 11
antimeridiane del 21 stesso onde concertare sovra affari di servizio. Uguale invito essendo pure stato
51
diretto alla S. V. illustrissima, amendue vi ci recammo, previa però partecipazione verbale datane al signor
sindaco.
Giunti al portone d’ingresso, incontrammo il signor questore cavaliere Chiapussi che pur era stato
chiamato al nostro convegno, il quale, a me rivoltosi, avvertiva essere occorso sbaglio nella lettera diretta la
sera antecedente al signor sindaco, perché avvece di mezza compagnia fosse sua intenzione di richiedere
un mezzo battaglione; m’interrogava se già avessi ricevuto nuove istruzioni in tale conformità, ed io
rispondeva non essermisi ancora tenuto di ciò parola, ma che al ritorno sarei passato dal signor sindaco a
prendere i necessari ordini.
Saliti dal signor ministro ci trovammo colà riuniti col signor prefetto, col comandante degli Allievi
carabinieri, col questore che si era accompagnato con noi e coi signori comandanti delle quattro legioni
della nostra Guardia Nazionale.
Esordiva il prefato signor ministro con brevi cenni sulla situazione generale delle cose; soggiungeva che
per ordini avuti dal Re era tenuto ad impedire qualsiasi tumulto; avere in proposito già favellato colla S. V.
illustrissima; tuttavia essergli parso opportuno di sentire eziandio l’avviso dei signori capi delle quattro
legioni sul punto di sapere se si potesse far calcolo sull’intervento della Guardia Nazionale nel caso che
venisse l’ordine turbato.
Rispondevasi dalla S. V. illustrissima avere la milizia di Torino compiuto ognora al debito suo e che però
era pienamente persuasa non sarebbe ella mai venuta meno a sé stessa.
Desiderando inoltre il signor ministro dell’interno di conoscere in modo più preciso lo spirito della
Milizia Nazionale in tali circostanze, sorgeva, dopo alcune poche parole a di lui nome, il signor prefetto a
muovere una seconda domanda:
Che il Governo cioè bramava sapere francamente qual contegno avrebbe tenuto la Guardia Nazionale
intervenendo sotto le armi qualora fossero scoppiati disordini, non disconoscendo egli che trattavasi di
fatto per nulla favorevole ai di lei interessi.
Allora risposi io che tutti indistintamente potevamo assumerci la più ampia responsabilità
sull’adempimento, per parte della milizia che sarebbe intervenuta sotto le armi, del suo mandato, e che
non avrebbe per nessun verso disonorata la divisa della quale è rivestita. Soggiunsi conseguentemente che
io ravvisava di tutta necessità:
1° Ch’ella fossevi chiamata per tempo;
2° Che non venisse esautorata la sua azione col far intervenire in pari tempo altro corpo armato, cioè
compagnie o pelottoni di Carabinieri o di guardie di Pubblica Sicurezza.
Tale ultima istanza avendo suscitato alcune osservazioni per parte del colonnello comandante gli Allievi
carabinieri inerentemente al loro servizio di polizia, io allora soggiunsi che tale mia domanda non voleva
per nulla alludere al detto servizio in pattuglie isolate di pochi individui come nei tempi normali.
Instavo in terzo luogo che si dovesse stabilire un’unità di comando ed il modo dell'immediato rapporto
fra tutti quelli che avrebbero preso parte alla repressione dei temuti disordini nel caso che insufficiente si
ravvisasse l’opera della milizia, e ciò al fine di non rinnovare il disgustoso accidente occorso all’epoca dei
tumulti degli studenti dell’Università, in cui poco mancò che questi si trovassero rinchiusi tra una
compagnia di bersaglieri ed una della milizia, togliendo così loro il mezzo di potersi sciogliere alle
intimazioni prescritte dalla legge.
Accennatosi quindi alla forza che doveasi somministrare, secondo la nuova richiesta della Questura, per
la sera (essendo l’assembramento supposto dal signor cavaliere Chiapussi per le ore 8 pomeridiane in
piazza d’Armi) io dichiarai che la medesima sarebbesi trovata immancabilmente per le ore 6 pomeridiane a
disposizione dell’autorità, come fu difatti.
52
Spiegavo che per mancanza di tempo avrei completato il mezzo battaglione richiesto col far intervenire
altri graduati e militi sotto le armi, e col richiamare eziandio al cambio delle guardie in quartiere tutte
quelle smontanti.
Instavo fermamente per ultimo che fossero gli ordini fatti pervenire in iscritto onde escludere ogni
possibile equivoco.
Le suaccennate osservazioni ed istanze furono pure riconosciute giuste dallo stesso signor ministro
dell’interno, per cui la sua risposta fu che si fossero prese al riguardo le opportune intelligenze tra il signor
sindaco ed il signor questore.
Dopo questi concerti ci dipartimmo tutti lasciando soli in compagnia del signor ministro il prefetto, il
questore, ed il comandante degli Allievi carabinieri.
Al mio ritorno credetti di comunicare al signor sindaco il colloquio e gli accordi come sovra intesi, e il
medesimo conformando la nuova domanda della Questura poco prima pervenutagli per mezzo battaglione
ordinavami di provvedervi al più presto. Io gli additai i mezzi con cui avrei ottemperato ai suoi ordini, mezzi
di cui avevo già fatto parola poco prima al Ministero e che mi parevano gli unici per raggiungere il
desiderato scopo.
Ottenuta l’approvazione del signor sindaco da lui mi congedava, e fatto subito ritorno al Comando diedi
le volute disposizioni nel senso suaccennato.
E qui debbo anzitutto fermare la vostra attenzione circa quel supposto errore di trascrizione del signor
questore.
Sembrerà forse che io tenga conto di minutezze, ma, o signori, le minori circostanze sono quelle che per
lo più spiegano meglio il vero carattere degli avvenimenti.
Come poteva il signor Questore alli 21 settembre sull’originale della lettera del 20 conoscere il supposto
sbaglio esistente nella copia trasmessa al signor sindaco?
La Questura alli 20 settembre aveva dimandato un numero di militi della Guardia nazionale insufficiente
al bisogno, conosceva la difficoltà di supplire alla chiamata alli 21 sapendo che non si potevano inviare in
tempo gli avvisi regolari, cercava perciò in tal modo di aprirsi la porta ad una plausibile scusa, supponendo
un errore materiale di trascrizione.
Intanto succedette il doloroso fatto del pomeriggio 21 settembre in piazza San Carlo, ed ecco il signor
ministro dell’interno che con suo dispaccio indicato delle ore 4 1/2 pomeridiane, diretto al generale
comandante superiore della Guardia nazionale, così si esprime:
Il signor questore mi scrive non aver potuto ottenere la Guardia nazionale richiesta, e vedendo come gli
assembramenti continuino, mi affretto a pregare la S. V. illustrissima di mandar subito in piazza San Carlo
un competente numero di Guardia nazionale. Io lo prego di mandare al Ministero il signor Generale
Accossato per prendere più precisi concerti. Raccomando però di non battere la generala.
Notate, o signori, la condotta del signor Ministro dell’interno dopo lo scandaloso fatto succeduto in
piazza San Carlo.
Egli si dirige al Generale in capo della Guardia nazionale e non più al Sindaco.
Ignorava forse egli che la Milizia nazionale dipende dal capo del Municipio?
Diffidava egli dei generosi sentimenti, della devozione al Governo, dell’obbedienza alle Autorità
costituite del nostro egregio Sindaco?
Poteva il signor Ministro, dopo l’abboccamento personale coi Generali, coi Colonnelli della Guardia
nazionale, avvenuto alle 11 del mattino, credere vero quanto gli supponeva il signor Questore, che non
avesse potuto ottenere la Guardia nazionale richiesta?
In presenza dei Capi delle legioni della Guardia nazionale che certificano l’occorso, in faccia al signor
Prefetto, e Comandante dei Carabinieri, il generale Accossato prometteva di completare il mezzo
53
battaglione tardivamente richiesto col fare intervenire altri graduati e militi sotto le armi, e col richiamare
inoltre al cambio delle guardie in quartiere tutte quelle smontanti, e riconosceva il sig. Ministro giuste tali
disposizioni, le quali, d’accordo col Sindaco, furono mandate ad esecuzione.
Signori, sino al momento in cui, per imprevidenza del Governo, non si era sparso sangue cittadino, la
Guardia nazionale era benissimo disposta, ma dopo il fatto del pomeriggio seguito al 21 settembre in piazza
San Carlo, delicatissimo diveniva il compito del Sindaco e dei capi di essa.
I militi con tutta ragione erano disgustati, si lagnavano del Sindaco e dei loro capi diretti, ignorando che
questi non avevano alcun torto e che non potevano essere imputabili delle conseguenze di ordini non dati,
oppure in modo imperfetto comunicati.
Ciò nondimeno il sig. generale Accossato si recò dal sig. Ministro dell’interno, e trovando il segretario
generale sig. Spaventa, mentre lo assicurava che sino alle 7 del mattino si trovava a disposizione della
Questura la mezza compagnia richiesta, ed in quell’istante (ore 6 pomeridiane) il mezzo battaglione, gli
esprimeva il comune rincrescimento per i dolorosi fatti avvenuti in piazza San Carlo, gli rinnovava il voto
espresso nel mattino, che per iscritto fossero emanati gli occorrenti ordini, a scanso di ogni equivoco.
Il sig. Sindaco poi al ritorno dal Ministero del generale Accossato, informato del colloquio suddetto,
ordinava fosse posta sotto le armi la forza presente in quartiere, ed esternava avviso, che si dovesse per
ogni buon fine far battere la generala; ma dietro l’osservazione del sig. generale Accossato, che il sig.
Ministro aveva raccomandato che non si battesse, non insisteva. Continuando in tale frattempo a giungere
notizie che si accresceva la folla, ed era imminente qualche disordine in piazza San Carlo, partiva dal Palazzo
di Città lo stesso sig. Sindaco con tutta la forza disponibile, e già divisa in pattuglie coi rispettivi uffiziali, e la
dirigeva a quella piazza, dove la Guardia nazionale al suo giungere fu ricevuta con applausi, e concorse
nell’impedire quelle sinistre conseguenze che poche ore dopo si verificavano in piazza Castello, dove si
trovavano i soli Allievi Carabinieri.
Queste circostanze che risultano provate coll’indicazione della forza comandata, e cogli estratti dei
registri della guardia nazionale, smentiscono l’ingiurioso supposto che vi sia stato rifiuto di servizio
richiesto, e mettono in evidenza l’inesplicabile condotta del signor ministro dell’interno in quelle gravi
emergenze.
La guardia nazionale doveva in numero sufficiente essere chiamata nel giorno 20. Una tale necessità è
ammessa dal signor questore, il quale suppone uno sbaglio di copia nella sua lettera per iscusare il difetto
di richiesta. In effetto, non fu chiamata che per mezza compagnia.
Questa mezza compagnia a disposizione della questura non venne neanco utilizzata, essendosi
solamente alle 2 pomeridiane del 21 chiesto il numero dei militi da un individuo qualificatosi agente della
polizia.
La guardia nazionale, che pure dovea sapere il signor ministro dell’interno non potersi riunire sotto le
armi salvo per la generala, quando il tempo manca, non fu chiesta in quei momenti di bisogno battendo la
generala, perché ciò era stato vietato dallo stesso signor ministro.
Immensa, o signori, è la responsabilità che peserà sul ministro dell'interno per non essersi a tempo
servito della guardia nazionale nei fatti succeduti a Torino.
Le guardie di sicurezza, ed allievi carabinieri, che gli stessi ministri qualificavano d’inesperti, usarono
contro il popolo inerme delle daghe e dei fucili, mentre invece la guardia nazionale avrebbe impedito
l’effusione del sangue colla sola sua presenza, per la forza morale della sua instituzione e della propria
influenza verso i suoi concittadini. »
54
XLIV.
22 settembre, ore 7. Chiamata a raccolta la Guardia Generale
Malgrado questi precedenti facessero dubitare assai che si potesse ancora concordare col Ministero un
sistema di tutela dell’ordine pubblico che lasciasse luogo all’efficace concorso della Guardia Nazionale, si
deliberò di tentare ogni via per riuscirvi. Il Ministro dell’interno si mostrò non alieno da qualche
temperamento, dichiarando però che si erano date le disposizioni necessarie per avere il dì 22 un buon
nerbo di truppe disponibili, e soggiungendo che al generale Della Rocca avrebbe affidato, sotto la sua
responsabilità personale, il supremo comando.
Erano circa le tre del mattino, nella notte dal 21 al 22 settembre quando furono definitivamente intesi
gli ultimi accordi per la tutela dell’ordine.
La Guardia Nazionale avrebbe avuto in custodia la città, occupando tutti i posti interni, ad eccezione
della piazza Castello, la quale nella parte attigua ai Ministeri dell’Estero e dell’interno sarebbe guardata da
alcune compagnie di fanti.
In piazza d’armi, sui viali che circondano la città ed a’ suoi ingressi principali sarebbero agglomerate in
buon numero truppe dei vari corpi, per essere pronte ad ogni bisogno.
Né Guardie di Pubblica Sicurezza, né Allievi Carabinieri verrebbero più messi in presenza della
popolazione.
Questi gli accordi presi.
Erano presenti al convegno il generale Visconti, il generale Accossato, il colonnello Vitale ed altri ufficiali
superiori della Guardia Nazionale.
Rimaneva si pensasse alla esecuzione, la quale in gran parte dipendeva dall’avere il mattino sotto le armi
un buon numero di militi.
Giova ricordare che per il divieto improvvido del Peruzzi non si era potuto suonare a raccolta fuorché
verso le dieci della sera, e in talun quartiere della città, e più specialmente in quelli che somministrano la
seconda legione.
Per il 22 era necessario chiamarle tutte quattro. Ma si considerò che se fin dal mattino si chiamavan
tutte era a temere che per la sera i militi fossero stanchi e sfiniti, quando appunto avrebbe cominciato ad
essere più necessaria, ma ad un tempo più faticosa, e difficile l’opera loro. Epperò parve più spediente si
cominciasse dal chiamare per il mattino una legione, le altre chiamerebbonsi successivamente. Rimanea a
stabilir l’ordine in cui le singole legioni fossero da chiamare. Secondo il turno spettava alla seconda legione
il prestare servizio.
Bene taluno fece osservare che avendo questa dato un copioso contingente nella giornata, riuscirebbe
difficile ottenere un grande concorso, ma ad ogni altro riflesso parve dovesse prevalere il ruolo di servizio, e
si statuì che la II legione dovesse per le sette del mattino essere sotto le armi.
Ricordatevi che erano le tre del mattino quando fu presa tale decisione; che in fin di settembre l’ora
delle sette è molto mattutina; e che la Guardia Nazionale è costituita nella massima parte da persone
agiate, le quali di rado hanno abitudine d’alzarsi molto per tempo.
E se tutto questo ricordiate non vi farà meraviglia che la Guardia Nazionale, non voluta adoperare il dì
21; non avvertita la sera della sua chiamata per l’indomani; malavvertita il dì 22 da un tardo appello, non sia
accorsa numerosissima al primo convegno troppo mattinale delle ore sette.
Il proclama del Comando Superiore era di una eloquente brevità, ma prima che lo si potesse leggere
affisso alle cantonate delle vie, già era passata l’ora per il convegno prematuramente stabilito. Esso dicea
così:
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COMANDO SUPERIORE
DELLA
GUARDIA NAZIONALE DI TORINO
Atteso i gravi momenti in cui versa la nostra Città, e dietro ordini avuti dal signor Sindaco, questa milizia
è chiamata sotto le armi per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Le quattro Legioni sono perciò chiamate sotto le armi in tenuta ordinaria al loro rispettivo luogo di
convegno.
La 2.a Legione alle ore sette antimeridiane.
Le altre tre quando si batterà a raccolta.
GRADUATI E MILITI!
Mai più necessaria fu l’opera vostra che nessuno di voi manchi all’appello.
Torino, addì 22 settembre 1864.
Il Luogot. Gen. Camand. Superiore
VISCONTI D’ORNAVASSO.
XLV.
Pubblicati diversi proclami
Mentre a questo modo il Municipio e il Comando Superiore della Guardia Nazionale, per eccitamento
anche del Ministero, cercavano calmare gli animi, e antivenire il disordine, tutte le classi della cittadinanza
commosse dal pericolo, si andavano adoperando per veder modo di evitare nuovi danni alla patria.
Il dì innanzi una mano di onesti cittadini, trovatisi, a caso, spettatori degli eccessi delle Guardie di
Pubblica Sicurezza in piazza S. Carlo avevano recata al Municipio, e firmata dei loro nomi una dichiarazione
colla quale, narrato ciò che avevano veduto, protestavano energicamente contro il maleoperato.
Erano le firme e i nomi dei signori avv. cav. Mongini, ex deputato, avv. cav. Spantigati, avv. Guelpa
Antonio, avv. Adriano Malacria, avv. cav. Gastaldetti, ex deputato; Luigi Bechis, capitano della Guardia
Nazionale, Giovanni Mottini, e Francesco Bosio; nomi che è giustizia ricordare per designarli all’affetto ed
alla stima dei loro concittadini.
Imperocché se ora, a cose finite, può per avventura parer molto semplice ed ovvio ciò che essi fecero,
non esiterà invece a tributar loro una larga lode di civil coraggio chi consideri che essi faceansi di tal modo
pubblici accusatori di un Ministero ancora oltre potente, che aveva la forza in mano, e che già mostrava di
essere disposto anche a farne abuso…
Questi medesimi cittadini, ed alcuni altri a loro aggiuntisi pensavano il dì 22 essere opportuno si
costituisse un Comitato, al quale si potesse far capo, e il quale provvedesse, in quei gravi frangenti, secondo
i casi e la opportunità, per evitare a Torino le sciagure che la minacciavano.
E siccome tutti i ceti erano irritatissimi per il sangue innocente versato la sera del 21, e si parlava di
vendette, e si palesava necessaria una qualche soddisfazione che attutisse un po’gli animi colla speranza di
una riparazione, si deliberò la pubblicazione di un proclama a nome del Comitato dei cittadini, il quale riuscì
del tenore seguente:
« Concittadini!
L’esercito è chiamato a soddisfare al compito il più doloroso.
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Nostro dovere è quello dì rispettare la legge della sua disciplina ed evitare all’Italia il danno e l'orrore di
un fraterno conflitto. Il sangue dell’Esercito italiano, il sangue nostro non può essere sparso che sui campi
di battaglia.
Conteniamoci o Cittadini nella legalità ed imponiamo col nostro contegno rispetto alla legge. Il Ministero
darà conto dinanzi all’Italia e sullo sgabello dell'accusa dell’atto antinazionale che egli tentava di compiere
rinunziando a Roma, e che il senno e la virtù del Paese hanno ormai reso impossibile.
Sia dichiarato nemico al Paese chiunque si abbandoni ad un atto di provocazione. Popolo ed Esercito
non hanno che un pensiero, non devono avere che un voto: l’Italia.
Adunque nessuna dimostrazione ostile.
Raccogliamoci attorno ad un solo programma quello di provocare il giudizio legale sul Ministero che volle
infrangere il patto in nome del quale ci siamo stretti a Nazione.
I Cittadini tutti facciano opera di pace e di conciliazione in nome d’Italia, e l’Italia è salva.
Per il Comitato - Gustavo Paroletti - Ignazio di Revel - Celestino Gastaldett - G. G. Pollone - Carlo
Giuseppe Isnardi - Giov. Priotti - Luigi Mongino - G. M. Riccardi - Federico Spantigati - Giulio Spinola - T.
Villa - Ceriana - L. Rey - Pio Rolle - C. A. Gazzelli - B. Solei - F. Petit - G. Demichelis»
Al medesimo scopo di mantener nella calma la popolazione, le varie associazioni torinesi pubblicavano
esortazioni consimili ai loro membri.
La Camera di Commercio ed Arti stampava questo proclama:
« Ai commercianti, industriali ed operai di Torino
All’annunzio dei gravi eventi che minacciano il nostro paese, la vostra Rappresentanza si è vivamente
commossa ed ha creduto bene radunarsi per avvisare ai mezzi più opportuni a prevenirne le conseguenze.
Mentre essa si rivolge nei modi legali ai corpi costituiti dello Stato per far sentire la voce autorevole del
Commercio e dell’industria di questa Città e Provincia, si crede in dovere di dirigere a voi parole di conforto
e di pace.
Principali ed Operai,
Ritornate ai vostri negozi ed alle vostre officine, ripigliate le vostre occupazioni, e confidate nella
giustizia della vostra causa ch’è pur causa nazionale ed abbiate fede nel senno del Parlamento.
Dal Palazzo della Camera il 22 settembre 1864.
Il presidente - G. B. TASCA. »
La Società dei giovani commercianti, che conta molte centinaia di membri, mandava al Sindaco questo
indirizzo:
« I giovani del Commercio Torinese ci mandano a Voi coll’incarico d’informarvi che essi hanno deliberato
di adunarsi affine di manifestare i loro sentimenti liberi di Italiani sulla grave questione che sì
profondamente commuove la Nazione.
Essi si terranno nella più scrupolosa legalità, ma intanto nei possibili eventi s’affidano che loro non
mancherà la protezione naturale e potente di codesto insigne Magistrato. »
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E la Società degli operai prudenzialmente aggiornava le sue riunioni, per evitare ogni occasione di
effervescenza, e di guai.
XLVI.
Una delegazione di deputati e senatori inviata dal ministro Peruzzi
Intanto i senatori e deputati che si trovavano in Torino, commossi per i gravi e acerbi casi sentivano la
convenienza di trovarsi insieme per vedere se fosse da fare alcuna cosa.
Alle dieci del mattino del dì 22 aveva luogo una riunione piuttosto numerosa alla quale intervenivano
non pochi deputati delle altre provincie, fra i quali ricordo specialmente i signori Lacaita, Bargoni, Musolino,
Desanctis, Montecchi, Ballanti, Greco ed altri.
E dei piemontesi eranvi, per citarne alcuni, il Castellani, l’Ara, Saracco, Genero, Brunet, Avezzana, Berti,
Sella, Lanza, Vegezzi, Villa, Ferraris, Chiapusso, Sineo; e Cadorna, Pareto, senatori, e il Cassinis, il Solaro e
non so quanti altri. Versò da prima il discorso, com’era naturale, sulle dolorose scene del dì precedente. Fra
i primi a parlare fu il Desanctis, il quale narrò com’egli la sera fosse vicinissimo a piazza Castello, e lì proprio
allo sbocco della via di Po quando avvenne la fucilata; e gli fosse parsa cosa tanto improbabile si avesse a
far fuoco in quella sera, e in quella località, che vi si tratteneva passeggiando con signore; e tanta era la sua
persuasione di ciò, che uditi i colpi, non credette ancora si facesse da senno, ma pensò e disse: tirano a
polvere, quando vistosi a un tratto cadere spento vicino a sé un infelice vegliardo, gli fu dura forza
ricredersi, e badare a mettere in salvo sé e le persone che erano con lui…
Dopo, un altro napoletano, il Lacaita, imprese a dire com’egli, insieme ad un noto uomo di Stato inglese,
lord Granville, avesse da un balcone dell’albergo dell’Europa assistito a tutto il deplorabile episodio: narrò
come avesse veduto giungere in piazza Castello da Via Nuova una colonna di 130 o 150 persone, alcune
delle quali portavano bastoni, ed avviarsi verso lo sbocco della strada di Po: giunta che fu quella turba in
prossimità dell’albergo di Londra che fa appunto angolo fra la piazza Castello e la via di Po, subito sentirono
egli e il compagno, videro anzi, diceva egli, tirar un colpo sulla linea dei carabinieri; udirono poi due o tre
altri colpi, poi la fucilata fitta e contemporanea. « In un momento, ei soggiungeva, la piazza fu sgombra, e
vedemmo allora sei o sette corpi giacenti al suolo. Discendemmo, lord Granville, ed io sulla piazza, e ci
avviammo nella direzione dei caduti. In prossimità al Londra incontrammo tre caduti, e intorno ad essi
molta gente che smaniosa imprecava ai carabinieri e al ministero e chiedea vendetta per i morti. Lord
Granville spintosi innanzi ove stava l’uffiziale che comandava i carabinieri, gli fece notare come il lasciar
quei cadaveri abbandonati fosse eccitamento e stimolo ai risentimenti e potesse dare occasione a nuovi e
maggiori guai: gli fu risposto che non s’aveva tempo, per allora, di badare a ciò. Poco stante giungeva un
drappello di Guardia nazionale, ed era dal popolo accolto con manifesti segni di simpatia e di fiducia. » E
soggiunse ancora come più tardi avuto lo incontro di un diplomatico estero che indicò, ma esprimendo il
desiderio non se ne divulgasse il nome, per il che io qui lo taccio, ed avergli detto che si trovava in piazza e
vicino ai carabinieri al momento della scarica, che nessun avviso, nessuna intimazione era seguita, cosicché
per poco non rimase anch’egli fra le vittime, e ne conchiudeva irritatissimo « n’avoir jamais vu, ni connu de
bêtises, telle que celle-là »
Proseguì il Lacaita narrando come una schiera di carabinieri passasse poscia in via della Palma, e di colà
nuovamente si fossero uditi vari colpi di fuoco.
Finalmente disse egli ancora, se non erro, che avendo chiesto se si fosse dato l’ordine di far fuoco e da
chi, gli si rispose che un tale capitano Vigo aveva ordinato il fuoco.
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Al quale proposito i deputati Ara e Castellani interrompendolo avvertivano che invece secondo
informazioni da essi avute parea piuttosto avesse la scarica dei carabinieri avuto origine da panico di alcuno
di essi, che trascinò con un primo sparo tutti gli altri a far fuoco.
Fece seguito a queste narrazioni il deputato Montecchi il quale avendo presenziato i casi di piazza San
Carlo li narrò per minuto ai colleghi, giudicando nel modo più severo le Guardie di pubblica sicurezza che
egli vide assaltar gente inerme, inoffensiva, fuggente, e inseguirla rabbiosamente fin oltre la piazza nelle vie
attigue.
Queste narrazioni fecero vivissima impressione sopra gli uditori conoscendo loro autorità ed efficacia la
circostanza che uscivano dal labbro di testimoni oculari, estranei alla città di Torino, ed alle antiche
provincie.
Varii partiti furono messi innanzi: prevalse quello di mandare anzitutto una deputazione al Ministero per
chiedere chiarimenti sullo accaduto, ed assicurarle per l’avvenire.
Andarono Cassinis, Ferraris, Villa, e fu designato anche il Botero, se non erro, aggiornata intanto la
riunione alla una del pomeriggio.
A questa seconda adunanza riferì l’onorevole Cassinis che ricevuti con molto sussiego dal Peruzzi, gli
esposero lo scopo della loro visita, dipingendogli con vive parole la penosa impressione prodotta in ispecie
dalle uccisioni di Piazza Castello, che, nel comune concetto, si consideravano essere stata la conseguenza
del contegno provocante delle Guardie di Sicurezza in Piazza S. Carlo: e gli fecero cenno delle molti e gravi
dicerie che erano in giro.
Il Peruzzi rispose concedendo che forse in Piazza S. Carlo non fu osservata la legalità, e si eccedette nel
modo; avere ordinata una inchiesta: ma in Piazza Castello nessun torto avere avuto gli agenti della pubblica
forza. Ingiuriati, assaliti, essersi per necessità difesi: aver tirato dopoché undici fra di loro erano stati feriti
(asserzione smentita dagli stessi registri dell’ospedale militare, secondo emerge dalla relazione Ara e meglio
ancora dalla relazione medica del Rizzetti).
Proseguì dicendo essere falso che dal Ministero dello Interno siasi dato il segnale con un colpo di pistola:
aver tirato senza ordine i carabinieri: del resto anche sovra di ciò si farà una inchiesta amministrativa.
Soggiunse narrando il Cassinis, avere egli in allora detto al Peruzzi che, più di un’inchiesta sul passato,
premeva intanto si avessero assicurazioni che per lo avvenire si rispetterebbero meglio la legalità, la
convenienza e la umanità.
Al che Peruzzi rispondeva che per evitare ogni nuovo pericolo, si farebbe un grande apparato di forze,
essersi date le disposizioni opportune per avere nella giornata un numero sufficiente di truppe a custodia
della città.
E qui il deputato generale Solaroli interruppe il narratore informando la riunione avergli detto il generale
Della Rocca di avere già in pronto diecimila uomini, e attenderne altri.
Ripigliò poi la narrazione in luogo del Cassinis, il Ferraris, il quale disse essergli sembrato che il Peruzzi
mostrasse quasi di credere che quelle sue spiegazioni e dichiarazioni avessero senza più fatta paga la
deputazione. A toglierlo da tali illusioni essergli sembrato opportuno il dichiarare da capo al Peruzzi che la
opinione pubblica imputava al Ministero i casi di Piazza Castello, considerandoli come la conseguenza
naturale e necessaria delle provocazioni del pomeriggio.
Protestava contro di ciò il Peruzzi, ma il Ferraris tenea fermo replicandogli tale essere veramente la
universale credenza.
Lasciava questa relazione una penosa impressione nell’animo di tutti, imperocché le allegazioni a sua
discolpa messe innanzi dal Ministro dell’Interno fossero troppo contraddicenti a ciò che testimoni imparziali
e ineccepibili, come il De Sanctis e il Lacaita, aveano poco innanzi asseverato con sì franca ed autorevole
parola.
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Si passò allora a ventilar sul da farsi.
E fu chi propose un proclama alla popolazione, per tentare anche questo mezzo per tranquillarla,
parendo a taluni che assai gioverebbe all’ordine pubblico se una parola conciliativa della rappresentanza
nazionale s’interponesse fra la moltitudine esacerbata e la forza materiale ragunata intorno a sé dal potere,
per reprimere ogni tentativo di pubbliche commozioni.
Ma ai più fra i presenti sembrò troppo strana audacia che i rappresentanti della nazione parlassero al
popolo, abbenchè li facessero per consigliare la calma e l’ordine.
Altri propose la nomina di una Commissione permanente che avesse l’incarico, fino a cose quiete, di
convocare, se ne occorresse il bisogno, i senatori e deputati presenti a Torino, per avvisare al da farsi. Ma
questa fu reputata temerità anche peggiore, e la disdissero i più, gridando spaventati, che sarebbe questo
un tramutarci in convenzionali e peggio…
Insomma la conclusione fu, al solito, che si avesse a far niente…
XLVII.
Discussione concitata tra Boggio e diversi Ministri
Senonché avvenne dicesse uno fra i deputati presenti che la Guardia nazionale non aveva fatto il suo
dovere, e che se essa fosse intervenuta in tempo non sarebbe seguita quella strage.
Mi risentii vivamente a tale censura, e risposi che l’onorevole mio collega era nell’errore, che la Guardia
nazionale aveva tutto il desiderio di prestarsi a tutela dell’ordine, ma che il Ministro dell’Interno era stato
quegli che aveva impedito il concorso della Guardia nazionale, vietando si suonasse a raccolta.
Il senatore Castelli Michelangelo prese allora a dire che a lui erasi detto non essere intervenuta la
Guardia nazionale benché chiamata, ed avere domandato di ritirarsi dalla Piazza S. Carlo.
Io obbiettai questo non poter esser vero, perché in mia presenza quella stessa notte, cioè verso le ore 4
del mattino di questo medesimo giorno 22 settembre, nel palazzo del Municipio, il generale comandante, il
generale capo dello stato maggiore, gli uffiziali superiori e molti uffiziali delle varie legioni ivi convenuti,
avevano dichiarato essere prontissimi ad assumere il servizio della città, ed aver fede che basterebbe la
Guardia nazionale a mantenere inviolato l’ordine. Bensì lo assenso del ministro essendosi solamente avuto
alle tre del mattino, essere cosa possibile che per le prime ore si avessero pochi militi ma che
certissimamente, solo si lasciasse facoltà di suonare a raccolta, come era stato inteso, tutte le legioni
accorrerebbero numerosissime.
Allora il senatore Castelli mi replicò che se io volessi accompagnarlo al Ministero, meglio potrebbe
chiarirsi ogni cosa, intanto essersi dato ordine ai vari drappelli di Guardia nazionale di riunirsi tutti nel
palazzo municipale.
Mi recai subito col senatore Castelli e col generale Solaroli al Ministero dell’interno. Colà trovammo i
ministri Minghetti, Peruzzi, Della Rovere, Menabrea, Visconti Venosta, Cugia, Pisanelli e il commendatore
Spaventa; sopraggiunsero, poco stante, il ministro Amari, il generale Della Rocca, il prefetto Pasolini.
Appena entrammo, il ministro Peruzzi mi si fece incontro e mi disse: Non risposi alla vostra lettera di ieri,
ma ho subito fatto chiamare il questore.
«- Lo so, replicai, perché me lo disse egli medesimo stanotte, ma poco giovarono e la mia lettera e la
vostra parlata, giacché poche ore dopo si è fatto peggio, qui in piazza Castello, sotto i vostri occhi. »
Peruzzi tacque e Minghetti, rispondendo per lui: « Fu l’effetto di un doloroso accidente; anche noi ne
siamo dolentissimi; ormai dobbiamo tutti adoperarci per ovviare a che si rinnovino simili disgrazie, e tu
pure dovresti fare buon ufficio. »
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«- L’ho fatto e lo farò, perché finché dura la crisi, abbiamo tutti il medesimo interesse, mantenere
l’ordine e cansare lo spargimento del sangue. Di poi vi chiederemo conto delle opere vostre. Ma se intanto
dobbiamo anche noi aiutarvi a calmare la popolazione, conviene che anzitutto eviti il Governo ogni
provocazione. E provocazione già mi sembra il togliere alla Guardia nazionale la tutela della città per darla
alle truppe. »
« - La Guardia nazionale non venne sotto le armi in numero sufficiente, disse Peruzzi; d’altronde le
truppe non sono compromesse: furono solo gli Allievi Carabinieri a far fuoco. »
« - La Guardia nazionale, ripostai, ha sempre risposto all’appello; ieri notte fu sotto le armi
numerosissima appena la chiamarono; e se ciò avvenne solo dopo le dieci della sera la colpa è vostra che
fino a quell’ora vi opponeste la chiamassero: e ci vollero tre deputazioni del comune per avere un assenso,
del quale, vi dico schietto, io avrei anche fatto senza in circostanze così gravi ed eccezionali. »
« - Non è vero che io abbia vietato si chiamasse la Guardia nazionale, replica Peruzzi. »
« - Come, non è vero? rispondo io. Non è vero? Ma pure ieri sera lo affermò il sindaco a me che gli
chiedevo si battesse la generala, e me lo confermarono i capi della Guardia nazionale; ho visto io tornare
ieri sera dal Ministero dell’interno la terza deputazione ed udii la sua relazione. »
« - Ed io vi ripeto, insistette Peruzzi, che non solamente non vietai si chiamasse la Guardia nazionale, ma
che anzi il questore domandò prima una mezza compagnia, poi un mezzo battaglione che gli fu ricusato… »
« - Signor ministro, io credo che ella sbaglia, e ciò, nelle condizioni sue, in questo momento, di leggeri si
comprende; ma siamo ancora in tempo; sono appena le tre, in un’ora ella avrà tutte le legioni in ordine. »
« - Ormai è troppo tardi, interruppe qui il generale Della Rovere, che sino a quel momento era rimasto in
silenzio, si sono già date le disposizioni per far occupare la città dalle truppe. »
« - Spero, diss’io allora rivolgendomi a lui, spero che si saranno anche date le disposizioni per evitare
nuove stragi. »
Il generale Della Rocca, che stava ritto contro la parete, fece un segno affermativo con il capo.
« - A proposito, ripigliai io continuando a rivolgere il discorso al generale Della Rovere, bramerei un
chiarimento. Sono borghese e profano affatto all’arte militare. Vorrei mi dicesse se sia alcuna cosa nei
regolamenti militari che vieti alle truppe di far uso dell’arma bianca quando sono a fronte di popolazione
inerme. Vogliono i regolamenti militari che si tiri subito a palla sulla turba inerme e sui curiosi inoffensivi? »
Della Rovere sorpreso dal sarcasmo di tale domanda che io feci in tenore anche un po’concitato, esitò.
Il generale Menabrea che sino a quel punto non aveva detto sillaba, e sul di cui volto livido e contratto
leggevansi le torture di questi due giorni, proruppe vivacemente in queste parole:
« - In verità non so comprendere come siasi tirato a palla, quando certamente una carica alla baionetta
avrebbe messo in fuga tutta la dimostrazione senza spargimento di sangue…»
Il ministro degli esteri, Visconti Venosta che era seduto alzandosi in quel punto in piedi, ed accentuando
con un gesto energico della mano la frase:
« - Non mi potrò mai dar pace, disse, che siasi fatto fuoco a quel modo sopra una folla così densa di
curiosi…»
Questo grido della coscienza onesta che eruppe così spontaneo dal cuore del giovine ministro mi
commosse profondamente; succedette un momento di silenzio: tacqui io pure, tenendomi pago a rivolgere
intorno lo sguardo sugli altri ministri, spettatori ammutoliti di questo interessante episodio. Ma intanto
Della Rovere aveva raccapezzate le idee e pigliando la parola disse:
« - Probabilmente ella non conosce o non ricorda i precisi particolari dell’accaduto in Piazza Castello. Lo
sbocco in via di Po e in via della Zecca, e l’angolo di Piazza Castello, formato dal palazzo delle Segreterie
erano guardati dagli Allievi Carabinieri. La folla ingrossava e prorompeva in grida minacciose e provocanti;
passò poscia alle vie di fatto; furono scagliati sassi; fu perfino chi si avventò con bastoni sui carabinieri; essi
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sopportarono tutto, e parecchi fra di loro erano già feriti che non avevano ancora ripostato. Alla estrema
ala a sinistra, e così in prossimità del negozio del confettiere Anselmo e quasi in faccia al caffè Dilei stava
come sentinella avanzata un allievo carabiniere. È colpito da una violenta sassata; egli tira; due altri
carabinieri poco discosti da lui, tirano anch’essi; allora il rimanente della compagnia, credendo ad un
attacco, spiana e fa fuoco. Certo fece assai male a tirare quel primo carabiniere; fecero peggio gli altri
seguendone l’esempio: ma che cosa vuole? Sono giovani, sono inesperti, perdono subito la testa. TUTTO IL
MALE DERIVÒ DALL’AVERE NOI ADOPERATO GLI ALLIEVI CARABINIERI. MA CIÒ NON ACCADRÀ PIÙ. Questa
sera la sola truppa si troverà a fronte della popolazione, ed ha le istruzioni le più precise, per evitare ogni
altro equivoco ed ogni altra simile disgrazia. »
« - Così sia, risposi: ma pur tuttavia la Guardia nazionale potrebbe prestare un utile concorso, in un
momento in cui gli spiriti sono così agitati. »
« - Dovere di buon cittadino, ripigliò qui Minghetti, sarebbe appunto di adoperarsi a calmarli. A questo
dovreste pure concorrere tu e gli altri tutti; e dovrebbe in ispecie la Gazzetta del Popolo smettere quel
linguaggio eccitante che tiene in questi dì, e non accogliere così facilmente ogni insinuazione ingiuriosa
circa le intenzioni nostre. »
« - Ho fatto chiamar io Bottero, disse allora Della Rovere, e credo averlo persuaso. »
« - Quanto a me, ripresi io, nulla più bramerei che di vedere ristabilita ed assicurata la quiete, ma a tal
fine converrebbe che fosse data una qualche soddisfazione per le vittime cadute ieri sera. Torino non è
avvezza a simili scene di sangue. Torino, in nove secoli di dominazione Sabauda, non ha verun precedente
di questa natura. Neppure nel 1821 le cose furono spinte tant’oltre; nel 1847 si fecero dimostrazioni anche
più numerose assai di quelle di ieri, ma il Governo assoluto non bistrattò mai la popolazione come ora si è
fatto in nome del Governo costituzionale. Gli animi sono irritati pel sangue versato. Ora non è più questione
per noi della convenzione 15 settembre o della capitale; queste risoluzioni spettano al Parlamento; ma la
questione è ora fra voi e il nostro popolo; stanno contro di voi il sangue versato, e le vittime innocenti; di
queste vittime, di questo sangue la coscienza popolare chiede conto a voi ministri, che tutti dicono
direttamente responsali dell’accaduto; ed in ispecie fra voi il ministro dell’interno ed il suo segretario
generale. »
Sino a questo momento il commendatore Spaventa che stava assiso sopra un canapè presso a un
tavolino, si era mantenuto spettatore impassibile. A questo punto alzando gli occhi sopra di me, e con un
sorriso sardonico:
« O come questo? » domandò.
« Come? risposi concitato. Chiedete come vi possiamo rendere responsali voi principalmente ministro
dell’interno e voi, suo segretario generale, del sangue versato? E avete bisogno di chiederlo? Delle prime
provocazioni in Piazza San Carlo, chi fu autore? Non forse i funzionari di sicurezza pubblica messi là da voi,
in luogo del questore, investiti della vostra fiducia ad ai vostri ordini diretti ed immediati? Quando hanno
essi fatto uscire i poliziotti colle daghe sguainate? - Quando videro minacciato il giornale che voi ispirate, o
fors’anco, in questi frangenti, scrivete. - E le fucilate di ieri sera chi le fece? Gli Allievi Carabinieri che
dipendono dal Ministero dell’interno. Perché tirarono? - Sapete quel che si dice? Si dice che taluni di voi
eravate al balcone: che pieni di paura per la persona vostra, vedendo ingrossar la folla, a un dato punto
sciamaste trepidando: Rompono, rompono, e che subito dopo quel grido della vostra paura, si udirono i
colpi micidiali, ed altre grida, quelle delle vittime morenti; si dice di più, e questo riguarda personalmente
voi, signor Spaventa; si dice che il segnale ai Carabinieri fu dato con un colpo di pistola tirato dal vostro
gabinetto, signor Spaventa… »
« - È una infame calunnia, interruppe Spaventa, alzandosi, come per iscatto di molla. »
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« Amo credere che così sia: ma ormai, dopo il sangue di ieri sera, le cose son giunte a tale che non è
accusa contro di voi, per quanto grave, la quale non sia facilmente creduta da tutti… »
Spaventa tacque. Minghetti ripigliò a dire doverci tutti adoperare per tener calmi gli spiriti; Della Rovere
disse ancora una volta che ormai non erano più a temere simili disgraziati casi, perché gli allievi carabinieri
non sarebbero più adoperati.
Dopo del che io presi commiato, non senza aver indicato a Minghetti come parecchi deputati, e in
ispecie fra essi il Montecchi, il Lacaita, il De Sanctis, gli potessero dare di assai precise informazioni; e
m’indirizzai verso il Municipio, perché mi rimaneva pur sempre a chiarire ciò che mi aveva affermato il
Peruzzi in ordine alla Guardia nazionale.
Attraversando piazza Castello vedo il generale Visconti con due altri officiali superiori, uno de’ quali, il
colonnello cav. Vitale. Narro loro con qualche vivacità il colloquio avuto col ministro, mi lagno che si lascino
pesare simili sospetti sulla Guardia nazionale, domando quali disposizioni siansi date.
Mi si risponde che il Ministero avendo dichiarato che affidava la città alle truppe, si era rinunciato al
pensiero di chiamare le quattro legioni.
Allora io rappresento loro i gravissimi inconvenienti di tale astensione: « si dirà, conchiudo, che la
Guardia nazionale rifiutò il suo concorso al mantenimento dell’ordine; oserete voi assumere la
responsabilità di tale accusa contro la Guardia nazionale? »
Il generale si arrende a queste osservazioni, torna indietro, viene meco al Municipio, si discute, e si
delibera di battere la generala immediatamente per avere per la sera (eran le quattro circa) il più gran
numero possibile di uomini sotto le armi.
Mezz’ora dopo si sente suonare a raccolta, per poco però, giacché in breve i rulli cessano.
Perché?
Perché il ministro dello interno signor Peruzzi, udito il suono della chiamata a raccolta, fece venire a sé il
generale Accossato, e malgrado le costui osservazioni ordinò che si cessasse tosto dal battere la generala!
Ciò malgrado la Guardia nazionale accorse numerosissima, ma fu dovuta trattenere al Municipio in
seguito alle disposizioni militari che aveva date il Della Rocca.
E intanto come procedono le cose?
Malgrado le formali dichiarazioni del ministro Della Rovere, il giorno stesso, nel colloquio sopra narrato,
e la conferma loro per parte di Minghetti-Peruzzi; malgrado LA FORMALE ASSICURANZA CHE GLI ALLIEVI
CARABINIERI, giovani inesperti, che perdon subito la testa, dice Della Rovere, NON SAREBBERO USCITI, le
porte della Questura a un tratto si spalancano, ESCONO GLI ALLIEVI CARABINIERI, E SENZA AVVISO, SENZA
INTIMAZIONI, tiran sul popolo inerme, tiran sui soldati, tiran fra di loro, e ammazzano soldati e popolani,
vecchi e donne, e feriscono fin anche un colonnello.
E l’indomani un telegramma spedito da quel medesimo Ministero dell’interno (Peruzzi-Spaventa) da cui
dipendono gli allievi carabinieri autori delle due stragi, l’indomani un telegramma bugiardo e calunnioso
annunzia all’Italia che in Torino la plebe armata ha rotto le file della soldatesca; ha fatto fuoco sulla truppa
ha ucciso o ferito un colonnello, e che la truppa dovette far fuoco per necessità di difesa…!
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XLVIII.
Un proclama del Prefetto Pasolini viene smentito da un articolo della Stampa
Ma non anticipiamo sugli avvenimenti.
Mentre il Della Rocca distribuiva le truppe, mentre la Guardia Nazionale prendeva le armi, mentre il
Municipio ed i Comitati facevano adunanze e facean proclami, il Ministero, ecclissatosi volontariamente,
non dava più segno di vita.
Tutti domandavano: perché non esce un proclama del Ministero che spieghi alla popolazione lo
accaduto e la rassicuri per l’avvenire? perché il Governo tace in questi frangenti?
Dicesi che il Ministero deliberò sulla convenienza di dar fuori un proclama, ma lo arrestò la difficoltà
della firma.
Farebbesi a nome del Ministero?
Non osarono: si sentivan già troppo compromessi dal sangue versato per loro colpa.
Metterebbero innanzi il nome del Re?
Il rimedio sarebbe stato peggiore del male, ed avrebbe compromesso quest’ultimo modo di azione
morale che conveniva riserbare per il momento estremo.
Allora si pensò al Prefetto di Torino. Il conte Pasolini ebbe sempre fama di uomo onesto, e seppe
meritarsi la stima de’ suoi amministrati. Prima autorità amministrativa locale, era naturale che egli parlasse
alla popolazione Torinese: e non si poteva temere si facesse sfregio al suo nome, a vece che un proclama
colla firma del Peruzzi, certo sarebbe stato immediatamente lacerato.
Il Pasolini, dopo breve esitazione, si determinò a dar fuori il seguente proclama:
« TORINESI
Onorato da gran tempo del governo di questa provincia e conoscendo per continue prove la saggezza ed
il patriottismo di questa popolazione, io mi rivolgo ad essa colla più viva fiducia e la invito a volere anche
questa volta provare all’Italia ed alla Europa che essa è a niuna altra seconda nello spirito d’ordine e nella
devozione al Re ed alle patrie istituzioni. Il vostro Municipio vi rappresenta degnamente e legalmente
sostiene i vostri interessi.
La convocazione del Parlamento già fatta pel 5 ottobre deve pienamente rassicurarvi. Voi potete contare
sul suo giudizio, senza del quale non può compiersi alcuno di questi fatti, che toccano gli interessi più vitali
d’una Nazione.
TORINESI
lo vi invito alla calma: io scongiuro gli uomini onesti ad astenersi anche da quella curiosità che accresce
gli attruppamenti e può essere occasione di funeste conseguenze.
G. PASOLINI. »
La popolazione lo accolse con favore principalmente perché vi trovò una nuova ricognizione della
legittimità e bontà dell’azione del Municipio, che il proclama dicea rappresentar DEGNAMENTE la
popolazione e sostenerne LEGALMENTE gli interessi; e la conferma dell’assicuranza che la questione per la
quale tanto eran commossi gli animi sarebbe risolta dal Parlamento.
Ma sgraziatamente poche ore dopo il proclama del Prefetto, la Stampa pubblicava un articolo che
contraddiceva nel modo più assoluto a quelle dichiarazioni.
64
La direzione della Stampa era passata pochi giorni innanzi nelle mani del Fambri da quelle del Bonghi
che ebbe, un po’ tardi forse, ma se non altro in tempo per non incontrare maggiore e più odiosa
responsabilità, la buona ispirazione di uscirne.
Il Fambri, emigrato veneto, che ebbi occasione di conoscere fin dal 1858 in Venezia, allorché vi andai per
desiderio del conte di Cavour dopo Plombières ad annunziare per la vegnente primavera la guerra
all’Austria, - il Fambri è giovane d’ingegno e di coltura molta, è buon patriota, soffrì di carcere dall’Austria, e
corse pericolo non lieve. Ma di cuore irrequieto, facile alle risoluzioni estreme, e corrivo alle polemiche
irritanti.
Nel 1859 egli prendea servizio nell’esercito dell’Emilia, poi passava, per la fusione, nell’esercito
nazionale, ed era uno de’ più distinti nostri ufficiali del genio.
Un conflitto d’opinioni col Ministro Della Rovere, lo disgustò del servizio militare, e rinunziò al grado.
Bonghi cercava un’occasione di sbarazzarsi della Stampa: Fambri, che ho il rimorso di aver messo io in più
diretta relazione col Bonghi, ma in tutt’altro carattere, e per tutt’altro fine, parve a costui il Cireneo adatto
a portar la croce che a lui cominciava a pesare: Fambri cedette volentieri alla tentazione di far vedere
quanto valesse, con assumere il patrocinio di una causa disperata quale era quella del Ministero PeruzziMinghetti; e così avvenne che l’esercito perdesse un buon officiale, e il giornalismo acquistasse un
polemista di più.
Il Fambri non approva certo neppur esso il modo col quale si compirono dai ministri Minghetti e Peruzzi i
fatti politici che occasionarono quei pubblici lutti. Ma gli parve buona la convenzione, gli parve bello
resistere all’onda della impopolarità locale, epperò poche ore dopo la strage di piazza Castello, e mentre il
Prefetto, a nome e per incarico del Ministero, cercava tranquillar gli animi colle lodi al Municipio e la
invocazione del Parlamento, la Stampa pubblicava il dì 22 un articolo in cui esordiva dichiarando che il
tramuto della capitale da Torino a Firenze dovesse ormai aversi come un fatto compiuto; censurava il
proclama del Municipio appuntandolo di dar luogo a commentarlo così che significasse dovessero i cittadini
stare in cagnesco col Governo, schierati e paratissimi a tutto.
E avvertite che il corsivo non è mio, ma è della Stampa che credette potere in quei momenti stessi,
accentuare col corsivo le sue frasi, che mi pare già si accentuassero abbastanza da lor medesime.
E continuava dicendo: « ad ogni modo, se il pubblico non vuol farsi capace dei fini della convenzione ne
sappia il fatto, comprenda che è segnato, compiuto, irrevocabile per la sua applicazione politica, che alla
Camera sarà partecipata, non proposta, che la votazione verterà sui fondi necessari alla operazione del
tramuto, non sulla effettuazione o no di esso, e l’assegno che si chiederà a questa non potrebbe essere
negato…»
Più sotto aggiungeva ancora: « Noi abbiamo veduto ogni cosa coi nostri occhi, e siamo troppo rotti ai
casi d’una vita travagliata, abbiamo guardato in faccia a troppi pericoli, perché un funesto spettacolo
qualsiasi abbia a perturbarci i sensi e far velo al giudizio. »
In momenti normali questo linguaggio forse non avrebbe contenuto in sé verun pericolo. Ma la sera del
22 quando gli animi erano esulcerati ed irritatissimi per le morti del dì innanzi, quando le menti erano
preoccupate da ansiosa inquietudine per i pericoli ancora temuti e che si doveano pur troppo avverare,
quelle parole della Stampa furono olio sui carboni ardenti.
Conosco la lealtà del Fambri, epperò non ne metto in dubbio le intenzioni; ma l’effetto fu pessimo.
Ero nel palazzo del Comune dove stava ragunata la Guardia nazionale, quando furono recate ivi alquante
copie di quel numero malaugurato della Stampa: rinuncio a descrivere le esplosioni della generale
indignazione nel vedere, in un momento simile, scagliata in faccia al Municipio ed alla intera popolazione
una censura, che in quei momenti aveva tutti i caratteri di una provocazione.
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Resa anche più grave dacché il giornale la Stampa fosse nella universale credenza tenuto per un giornale
pagato dallo Spaventa col danaro della polizia: e la prevenzione così cieca ed ardente contro lo Spaventa, la
prevenzione per la quale, lo dicevano in un col Peruzzi non alieno anche dal cercare in torbidi provocati, il
pretesto a portar via senz’altro la sede del Governo con un colpo di mano - faceano pensare a molti che
quell’articolo non a caso si fosse scritto. Tanto più che solo giorni dopo il signor Fambri facea sapere come
quello scritto, e gli altri posteriori al 17 settembre fossero roba sua.
E mentre era un imprecar comune contro la imprudenza di quelle parole, si chiedeva da tutti come mai
l’organo officioso del ministero dell’interno smentisse, a così breve intervallo, il proclama del prefetto.
La quale impressione e preoccupazione formulava nettamente la Gazzetta del popolo, quando riferito il
proclama del Pasolini, soggiungeva:
« Questo proclama è affatto in contraddizione con un articolo tristissimo e provocantissimo dell’organo
officioso della sera, di cui è enorme la responsabilità.
Chi dice il falso? il prefetto o l’articolista? »
XLIX.
22 settembre. Disposizione delle truppe in Piazza San Carlo
Intanto la giornata era passata quietamente.
Bensì vedevansi qua e là capannelli di curiosi: bensì appariva su tutti i volti una mestizia profonda
commista ad una mal repressa indignazione.
Ma la speranza che il Parlamento dovesse esso pronunciare, la persuasione che intanto il Municipio
promuoverebbe una severa e coscienziosa inquisizione sui fatti e sulle loro cause, le esortazioni di tutti i
buoni cittadini, i proclami di tutti i comitati erano altrettanti mezzi di pacificazione, che lasciavano sperare
buoni risultati.
Il generale Della Rocca aveva nel frattempo date le disposizioni militari le più opportune per evitare ogni
nuova disgrazia.
In piazza d’arme accampavano le artiglierie e alquanta fanteria.
Piazza Carlo Emanuele era occupata dalla cavalleria.
In piazza Castello stavano più compagnie di fanti.
In alcune delle vie attigue a Strada Nuova erano altre truppe.
Piazza San Carlo, teatro dei primi disordini, e minacciata sempre perché ivi stanno l’ufficio della Gazzetta
di Torino, e la Questura, era militarmente occupata.
Il lato sinistro guardavanlo i fanti del 17° reggimento; il lato destro quelli del 66° reggimento; più era del
continuo la piazza attraversata da forti pattuglie che la teneano sgombra in quanto fosse possibile, e
sopratutto impedivano agli assembramenti di ingrossare, e di far soste pericolose.
Un conflitto in tale condizione di cose pareva impossibile.
Difatti se per avventura una mano di sciagurati avesse voluto tentare qualcosa in piazza San Carlo, non
aveva altra scelta che quella di farsi annientare fra tre fuochi. Essendo cioè occupati i portici, e l’area più
attigua dalle truppe, non rimanea altro passaggio che in mezzo alle due file dei soldati.
Siccome anche nel centro della piazza stavano pattugliando altre schiere, le quali, al primo segnale
avrebbero preso posizione non era possibile un attacco per parte di chi non fosse risoluto a correre alla
propria rovina.
La Guardia Nazionale era tutta congregata al Palazzo di Città.
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Accorsa in buon numero essa chiedeva istantemente di uscire per vegliare all’ordine ed alla sicurezza de’
cittadini: ma in seguito allo intervento della truppa ed alle buone disposizioni militari del generale Della
Rocca parendo cosa superflua, finché tutto era in calma, lo intervento di maggiori forze, il sindaco e i
comandanti della Guardia Nazionale persuadevano, non senza qualche difficoltà, a pazientare.
L.
La Guardia Nazionale viene accusata di non difendere la popolazione
Così durarono le cose fin verso le ore nove.
Stavo al Municipio in servizio di Guardia Nazionale, quando un forte calpestìo, e un confuso rumore di
voci mi faceva accorrere al portone verso la piazza.
Era quivi una frotta di persone, circa una cinquantina, quasi tutti giovanetti, e poveramente vestiti, i
quali smaniando, e imprecando: « In piazza San Carlo uccidono i vostri fratelli, gridavano: si tira sui vecchi,
sui fanciulli, sulle donne: scorre il sangue a rivi: sono di nuovo i carabinieri che fanno fuoco sulla
popolazione inerme: e tutto questo senza provocazioni, senza motivo: e non si fecero le intimazioni, non si
dette avviso alcuno: è un vero assassinio. Che cosa fa la Guardia Nazionale? Aspetterete che ci abbiano
ammazzati tutti per venire in nostro soccorso? »
Rinunzio a descrivere lo effetto di queste parole…
Ricordatevi che era divulgata nello universale la prevenzione che si desiderassero disordini per avere
pretesti ad un colpo di mano; ricordatevi che già erano andate attorno le voci di stato di assedio: ricordate
ancora che si eran date dai ministri ripetute assicuranze che non si farebbe più uso degli allievi carabinieri:
e comprenderete quale sensazione dovesse produrre in tutti il ferale annuncio che da capo erano
ricomparsi in scena gli autori della strage di Piazza Castello, ed erano ricomparsi per rinnovarla, e più grave!
Le fantasie si accesero, le più nere supposizioni parvero giuste, i più eccessivi propositi diventarono
ragionevoli, e dalle file dei militi si alzò insistente il grido « dateci le cartucce, vogliamo uscire. »
Il Sindaco, i Consiglieri e i capi della Guardia Nazionale allora ad adoperarsi a tutt’uomo per trattenerli, o
indugiare se non altro in fino a che si avessero più precise notizie.
E in tanto quella turba di gente che stava fuori s’impazientava della immobilità nostra, e rinnovava sotto
ogni forma gli eccitamenti ad uscire.
« Perché indossate quell’uniforme se non osate mostrarla per le vie, quando il pericolo le passeggia?
Perché portate quelle armi se non sapete, se non volete adoperarle a difesa della vita dei vostri
concittadini? Avete paura? Ebbene date a noi le vostre spade, date a noi i vostri fucili, e faremo noi ciò che
sarebbe dover vostro… Noi non abbiamo paura quando si tratta di fermar il braccio degli assassini… »
I militi smaniavano, fremevano, voleano uscir ad ogni costo: invano gli ufficiali prodigavano loro le
avvertenze e le esortazioni: invano lo stesso Sindaco, e con lui il consigliere Chiaves, il consigliere Ara, ed
altri correvano dall’una all’altra compagnia, dall’uno all’altro quartiere del vastissimo locale:
l’esasperazione facevasi sempre più viva, e turbolente, e minacciò di diventare indomabile quando si videro
giungere altri feriti, che qui venivano chiedendo asilo ed assistenza, e i quali narravano i particolari della
luttuosa scena.
I militi gridavano, si agitavano, piangevano: taluni di rabbia, cercavano altri di uscire alla spicciolata e
non visti; finché per mettere termine ad uno stato di cose ormai intollerabile, il consigliere Corsi e il
capitano Moretta si incaricarono di recarsi in piazza S. Carlo ad informarsi, e riferire immediatamente.
Al tempo istesso, fatta scelta di una mano di militi, furono mandati in pattuglie, e si ottenne così che gli
altri pazientassero in attesa delle notizie che questi recherebbero.
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LI.
Rapporto di Corsi e Moretta
Le prime informazioni raccolte immediatamente, altre che si ebbero poscia dai molti testimoni con
minuta e gelosa cura interrogati, chiariscono come pur troppo anche questa volta fu sparso il sangue di
numerose vittime innocenti per lo inqualificabile contegno dei funzionari di pubblica sicurezza dipendenti
dal Ministero dello interno, e sopratutto per essersi voluto da capo avere ricorso all’opera di quegli Allievi
Carabinieri che poche ore innanzi erasi solennemente promesso di non mettere più in presenza della
popolazione perché avean dato luttuoso saggio di non sapersi contenere.
Chi li ha fatti uscire dal palazzo della Questura dov’erano raccolti, e nel quale doveano rimanere?
Chi ha sostituito al contegno calmo sì, ma imponente ed efficace della truppa, le loro pazze e furibonde
fucilate?
Chi ha voluto che soverchiato, essi i Carabinieri, il drappello di soldati che coll’arma al piede teneva in
rispetto la folla, si fucilasse la moltitudine inerme?
La coscienza della colpa è cattiva consigliera.
Nelle prime dichiarazioni che fecero i funzionari della questura, interrogati pochi momenti dopo
l’accaduto, cercarono di far credere che vi fosse stata provocazione grave per parte della folla: e a tal fine
narravano di numerose fiondate scagliate contro i carabinieri, di numerosi colpi di fuoco tirati sopra di
questi, prima che si decidessero a ripostare.
Ma la bugia ha le gambe corte; - ne giudichi chi legge.
I due delegati del Municipio conte Corsi, Assessore Comunale, e Moretta, Capitano della Guardia
Nazionale, riferivano in questi termini il risultato della loro missione.
« Percorse rapidamente le vie Barbaroux e San Maurizio, incontravansi di frequenti persone fuggenti,
delle quali molte si posero a seguire i sottoscritti, i quali giunti all’angolo di piazza San Carlo ove incomincia
la via Santa Teresa, dovettero pregare coloro che lor tenean dietro, e che ad ogni momento crescevan di
numero, di non più inoltrarsi; al quale invito quelli aderirono, non solo volentieri, ma pur fecero stare a
dovere uno di loro il quale prorompeva in urli e schiamazzi.
Lugubre era l’aspetto della piazza: poche e rare persone ancor disseminate in essa, ma assai più i
cadaveri ed i feriti che in vario modo stesi al suolo ed aggruppati, alla grigia tinta del terreno facevano
negro contrasto.
A mano destra sotto i portici era schierato un reggimento; di rimpetto pure sotto i portici un altro, ed in
fondo della piazza un battaglione schierato davanti alla Questura ed alla chiesa di Santa Cristina.
Nell’avanzare sulla piazza s’incontrò un signore in abito signorile che nella fuga da poco terminata aveva
smarrito il cappello. Si disse polacco, consegnò il suo nome in una carta di visita, e dichiarò esser pronto a
deporre che si era fatto fuoco sulla folla senza le intimazioni legali.
Si presero dapprima informazioni dal reggimento 17° di linea che era quello che occupava i portici dalla
parte dell’Accademia filarmonica. Poche o non ben chiare relazioni sull’origine e conseguenze del tristo
fatto si poterono raccogliere da quegli uffiziali, tutti addolorati per la grave ferita riportata dal loro
colonnello in allora creduta mortale, e dei vari morti e feriti dei loro commilitoni.
Affine di ottenere più particolarizzato ragguaglio, si credette opportuno recarsi senz’indugio alla
Questura. Il capo di essa, seduto ad un tavolo, attorniato da molti impiegati, pregato di dare qualche lume
sull’avvenuto, narrò come verso le ore 9 pomeridiane una folla stragrande di persone irruppe sulla piazza
dalla varie vie per cui si giunge ad essa, e cominciò con gli schiamazzi di prima, quindi prese a lanciare
sassate contro la Questura, di cui parecchi entrarono nell’andito del portone d’ingresso: disse pure che
queste fiondate erano lanciate in gran numero onde non poteva starsi sotto il porticato, quindi soggiunse il
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signor Questore che egli scese di sotto affine di incoraggiare gli agenti di pubblica sicurezza ed i Carabinieri
acciò potessero con fermezza e risoluzione fare testa e poscia sciogliere e sedare il tumulto, ed in caso fare
quelli arresti che sarebbero stati necessari. Che quindi cominciarono colpi d’arma da fuoco, vari dei quali
entrarono e colpirono nel porticato, che egli stesso per non essere colpito dovette porsi di fianco e che
credeva di averne l’abito perforato, il che fortunatamente non era vero; disse che in allora usciti fuori gli
Allievi Carabinieri, fatti in fretta i tre squilli di tromba, essi cominciarono a tirare sulla folla persino dai
gradini della Questura, e molti, rotte le file del battaglione che era schierato davanti alla Questura, aprivano
il fuoco sulla folla.
Era urgente anzitutto il provvedere al trasporto dei feriti agli ospedali; onde si fecero i sottoscritti a
caldamente pregare il signor Questore di far trasportare immediatamente quei feriti che già erano stati
ricoverati alla Questura e quelli che ancora erano sulla piazza, ed accennò come un ufficiale del 17°
reggimento gli avesse offerto i suoi soldati onde più presto si compisse quel pietoso ed urgentissimo ufficio.
All’uscire della Questura nel percorrere il porticato al piano terreno, chiese chi scrive ad una guardia di
pubblica sicurezza, vestita in borghese, se erano stati molti i colpi che erano entrati nel porticato, al che
questi rispose: Dicono che sono stati due; e non sembrava ben certo nemmeno di quelli.
E qui acconcia accade una osservazione: come è egli possibile che molti sassi siano stati lanciati dal
popolo contro la Questura, che molti colpi, siccome disse il signor Questore, sieno stati esplosi contro la
Questura senza che il battaglione ch’era schierato avanti d’essa abbia avuto feriti da sassate o da armi da
fuoco?
La disposizione della truppa era tale che, chiunque abbia la menoma cognizione di cose militari
facilmente è persuaso fosse assoluto intendimento di chi la ordinò in nessun caso la medesima potesse far
fuoco. E infatti questo non avrebbe mai potuto eseguirsi senza la uccisione o ferimento dei soldati fra di
loro, il che pur troppo avvenne.
Se la tutela dell’ordine fosse stata affidata interamente alla truppa; se gli Allievi Carabinieri, che già la
sera prima avevano fatto fuoco sul popolo, non fossero stati chiamati alla Questura, la forza spiegata sulla
piazza era più che sufficiente sia per difendere il palazzo della Questura da qualunque aggressione, sia per
contenere nei giusti limiti qualunque dimostrazione, per quanto imponente essa fosse e per quanto
esacerbato fosse l’animo della folla dalle scene di sangue del giorno precedente.
All’uscire dal palazzo della Questura si recò il sottoscritto a visitare il colonnello ferito, stato trasportato
provvisoriamente alla trattoria della Piazza San Carlo. Vide il dolore di quei prodi soldati ed udì accusarsi il
corpo degli Allievi Carabinieri di precipitazione nel far fuoco, inconcepibile causa di tanti lagrimevoli
avvenimenti.
Attraversata quindi la piazza e prese informazioni da un uffiziale del reggimento che era schierato presso
il caffè di San Carlo udì come i soldati che erano colle armi in fascio, veduto cadere uno dei loro da una palla
venuta dall’angolo ov’è la Questura, abbiano dato di piglio alle armi e senz’ordine risposto al fuoco
micidiale, al quale erano esposti: ma appena sparati alcuni colpi lanciaronsi gli ufficiali ad impedire che si
continuasse, il che si ottenne immediatamente, ubbidienti i soldati alla voce di chi li comandava.
Tali sono i principali fatti e dichiarazioni raccolte da chi scrive dei quali è evidente e logica deduzione:
1° Che la truppa avrebbe potuto bastare ad impedire quei luttuosi avvenimenti se ad essa sola fosse
stato dato l’incarico della tutela dell’ordine;
2° Che gli Allievi Carabinieri fecero fuoco sulla folla penetrando attraverso le file dei soldati schierati
davanti alla Questura, fatto incredibile per parte di un Corpo retto da qualsiasi militare disciplina;
3° Che qualora si credesse di ammettere quanto ebbe a dichiarare in quella sera il signor Questore, che
cioè le violenze avessero cominciato per parte della folla, non si può intendere come gli Allievi Carabinieri
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non abbiano potuto reggere qualche tempo alle medesime senza aprire senza indugio un fuoco micidiale
contro il popolo, aprendo senz’ordine e scompigliando le file dei soldati schierati davanti alla Questura;
4° Che è un fatto inconcepibile come dopo i luttuosi avvenimenti accaduti la sera prima, ed a cui
avevano preso parte gli Allievi Carabinieri, siasi continuato a servirsi della stess’Arma, la quale era
composta non già di provetti, ma di giovani ed inesperti soldati; mentre che d’altra parte era sulla piazza un
imponente apparato di forza. »
LII.
Testimonianze
Le dichiarazioni dei molti testimoni in seguito interrogati confermarono appieno gli apprezzamenti che
lo immediato esame delle località, presenti ancora gli attori e le vittime dell’orribile dramma aveva
suggerito al consigliere Corsi. Udite come narra i tristi fatti un onorevole deputato, il Bellozzi, lombardo,
epperciò non sospetto di parzialità per Torino.
« Mentre stava scrivendo in uno degli uffici della Camera, udito verso le ore 8 frequenti grida, esce e
vide sulla piazza Carignano passare, precisamente innanzi alla porta della Camera, un drappello di quasi 100
soldati seguito da un numeroso stuolo di popolani gridanti: Abbasso le baionette!
I militari non davano alcun segno di risentimento, né mostravano di accorgersi neppure con una parola,
neppure con un gesto, procedendo tranquilli nel loro passo.
Arrivati sulla piazza San Carlo i soldati presero il loro posto cogli altri soldati in quella raccolti; i popolani
si confusero con altro gruppo numeroso di popolani che veniva dalla via Nuova; la maggior parte della
moltitudine così ingrossata andava a confondersi con quella già raccolta innanzi al palazzo della Questura,
mentre altra parte si disperdeva sotto i portici della stessa piazza.
Il deputato Bellazzi recavasi con un amico sotto i portici dell’ala sinistra della piazza venendo da Via
Nuova, si tratteneva tranquillamente a parlare con cittadini ed uffiziali della truppa intorno ai luttuosi casi
del giorno precedente, assicurando che il dignitoso e pacifico contegno de’ soldati avrebbe quella sera
impedito un nuovo spargimento di sangue.
Infatti l’anima dei soldati era così aliena dal temere una scena di sangue che, mentre i loro uffiziali si
intrattenevano in colloqui coi cittadini, essi pure tranquillamente o conversavano, o bevevano il loro vino, o
mangiavano il loro pane in parte, o in parte riposavano dormendo sdraiati sui loro zaini.
Improvvisamente un drappello di gente composta in gran numero di giovinetti si diede a fuggire dalla
parte della Questura in modo disperato mettendo grida di spavento, sotto i portici ove era il 17° di linea;
dando dei pugni e delle ginocchia nelle porte chiuse, da far credere che una gravissima minaccia erasi fatta
dalla Questura. Né poteva essere in altro modo, se si consideri che i fuggenti cercavano ad ogni costo uno
scampo, un asilo. E questo scampo e questo asilo lo trovarono dai generosi soldati che, dopo averli
incoraggiati a nulla temere, ad essi apersero le loro file, preparandosi quasi a difenderli coi loro petti. Cosa
questa che altamente onora il nostro esercito meritevole del più alto encomio, come vedremo in seguito,
per atti di abnegazione e di amore verso i fratelli. Erano appena passati pochi minuti da questo primo fatto,
quando si udì dal deputato Bellazzi uno squillo di tromba che veniva dalla parte della Questura. Pare che
questo squillo sia stato ripercosso dall’eco nella direzione diagonale partendo dalla Questura sull’ala
estrema dei portici che mettono sulla strada di Santa Teresa, a destra di chi viene dalla Via Nuova.
Comunque sia, i tre segnali non furono dati, e tanto ciò è vero, che nessuno della truppa si mosse.
Fu un istante di silenzio poi si udirono uno, due, tre colpi di moschetteria seguiti da moltissimi altri a
frequenti ma incerti intervalli: sempre dalla parte della Questura. Quei colpi, mentre la moltitudine si
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disperdeva fuggente per la piazza, furono seguiti da una grande scarica, sempre dalla parte della Questura.
Fu durante questa scarica che ove trovavasi il deputato Bellazzi cadde il colonnello Colombini ferito
gravemente nel capo, precisamente al di sopra dell'orecchio sinistro, mentre, pare, facesse alcun passo per
uscire dall’arco onde ben distinguere ciò che accadeva. Un tamburino eccitato dagli uffiziali ad uscire pur
esso dall’arcata per battere il rullo, cadde colpito al disopra della mammella sinistra da una palla che lo
freddò poco lontano dal colonnello Colombini. Ma perché i carabinieri dalla Questura tirarono sotto i
portici? Ben sapevano che durante molte ore della giornata vi erano stati ancora i soldati del 17°.
Era naturale che i soldati del 17°, poi quelli della linea estrema verso la Questura facessero fuoco per
propria difesa, ma questo fuoco improvviso venne fatto contro i soldati del 66 che erano di fronte, i quali, a
loro volta per propria difesa fecero un fuoco generale su tutta la linea.
Fu allora che nel punto ove trovavasi il deputato Bellazzi, caduto già il colonnello Colombini ed un
tamburino, cadde ferito nelle gambe un altro soldato; altri soldati che stavano giacenti furono feriti sotto la
pianta dei piedi e nelle caviglie, altri in altre parti in numero di 9. Intanto i borghesi, durante il fuoco
micidiale che sotto i portici faceva la strage dei soldati ed in mezzo la piazza di inermi cittadini fuggenti, i
borghesi raccolti nel punto di cui si è parlato fin qui per consiglio fraterno degli stessi soldati, o entrarono
nelle loro file, o si ripararono stando bocconi a terra, o riparandosi stringendosi ai pilastri del porticato.
Altra prova questa che nell’animo del soldato italiano l’amore ai fratelli parla anche nei supremi momenti in
cui alla vista dei commilitoni uccisi e feriti gli animi potrebbero trascorrere sino al furore contro i cittadini
che a ragione potrebbero essere, sebbene innocenti, ritenuti causa di quei disordini.
Non sarà mai bastantemente lodato il proprietario della trattoria San Carlo per la cura sollecita da lui
usata nel dare ricovero pronto e pronta assistenza, col mezzo de’ suoi bravi camerieri, ai caduti sopra
nominati. Egli e i suoi, ritirato il tamburino morto nel corridoio d’entrata, improvvisarono letti nella prima
sala del piano inferiore, collocarono su questi il colonnello Colombini il quale ebbe le prime cure dall’ottima
sua ordinanza l’egregio giovane signor Venturi, dal bravo medico degli operai signor Gibello, e l’assistenza
del deputato Bellazzi, il quale mise a disposizione del ferito morente la propria casa. Il signor Barnabò
(emigrato veneto) ivi presente corse in traccia dei medici militari, mentre il signor Gibello era solo a
prestare le cure dell’arte ai tanti che ne avevano bisogno. Dico tanti, perché nella stanza superiore erano:
1° Un ufficiale ferito all’occhio in modo da farne temere la perdita con grossa ecchimosi della palpebre
inferiore, stravaso di sangue nell’interno del globo dell’occhio; la quale lesione violenta è stata causata
probabilmente da un sasso o da altro corpo contundente.
2° Un soldato colpito di palla nella coscia e da altra nell'inguine.
3° Nel piano inferiore, o terreno, il tamburino che stava rendendo l’ultimo sospiro.
4° Il colonnello Colombini.
5° Un soldato con una gamba sfracellata.
6° Un soldato ferito di palla nel piede che fu estratta sul momento dal dottore Gibello.
7° Un soldato ferito alla parte inferiore della gamba.
8° Un soldato ferito nel dito grosso del piede.
9° Un furiere offeso da profonda abrasione nella parte inferiore del collo e superiore del dorso.
10° Un soldato ferito di punta nella parte interna del braccio.
La dichiarazioni del deputato Bellazzi sono confermate anche dal dottore Gibello 33.
Da esse appare:
1. Che eransi prese le disposizioni militari le più acconce per evitare ogni conflitto.
33
ARA, pag. 91, e seg.
71
2. Che la truppa aveva un contegno sicuro, ma ad un tempo così mite e calmo da rimuovere ogni paura
di collisioni.
3. Che i carabinieri tirarono senza far precedere le intimazioni.
4. Che diressero i loro colpi anche sotto i portici dove pur sapeano trovarsi soli militari.
5. Che tirarono senza provocazione. »
Un altro testimone, il sig. Silva Giuseppe Mario che ha un fratello ufficiale nel 18° reggimento, quella
stessa sera comandato in piazza Castello, si trovò in condizione di veder tutti per filo e per segno i luttuosi
episodi di quella infausta sera, perché quando cominciò la fucilata stava nella piazza, leggendo un foglio,
sotto il lampione all’angolo dello steccato in legno esistente in essa da alcuni mesi.
Ed egli pure rammenta come la maggior parte della truppa stesse in piena sicurtà coricata al suolo, a
modo di bivacco, colle armi in fascio.
« Quand’ecco sbucare da Via Nuova la turba schiamazzatrice, seguita naturalmente da molto popolo più
che attivo curioso, e con alla testa due piccole bandierucce, fischiando e gridando: Abbasso Minghetti!
Abbasso il Ministero! ecc. Oltrepassato ch’essa ebbe il celebre monumento e restando il drappello
pattugliante, il quale già si era schierato in linea di battaglia su due file, si mise a gridare ripetutamente,
avendo osservato che il drappello teneva le baionette in canna: Abbasso le baionette! senza però arrestarsi,
fuorviare od interrompere il suo corso, il quale decisamente era diretto verso la Questura. La truppa che
occupava l’interno dei portici e che ivi era ancora sdraiata allorché venne a sbucare la turba da Via Nuova in
piazza, al grido: All’armi! dato da una sentinella fu in piedi in un batter d’occhio, ripigliò le armi dal fascio, e
le sentinelle avanzate che passeggiavano fuori dei portici si ritrassero tosto dentro, e così tutti si misero in
linea colle armi al piede alla distanza non più di un metro dai pilastri entro i portici.
Nello stessissimo tempo il drappello succitato, lasciata la linea di battaglia, ripiegò in massa sotto il
colonnato di Santa Cristina ed ivi si formò come in colonna serrata. La piazza tutto lungo il lato destro, vale
a dire dell’Accademia filarmonica, era affollata molto; dal lato sinistro invece in confronto del lato destro
era mediocremente popolata. Si è in questo frattempo che un signore con sotto al braccio una signora
passando vicinissimo a noi due, ancora seduti, e lì presso si fermano entrambi; allora volgendomi al mio
vicino compagno di lettura, gli dico: « È un’imprudenza, per bacco! le signore in questo luogo; » egli
approvando quanto io diceva alla signorina chiede se non abbia paura; appena essa ebbe tempo di
risponderci: « Oh io, signore, non ho paura, non temo niente, » che la turba, già pervenuta dirimpetto alla
Questura gridando e schiamazzando, si pose a tirar pietre contro il portone della medesima, ove erano i
Carabinieri; e tre di queste io sentii distintamente: la prima colpire nei vetri, la seconda e la terza o sulla
porta o su qualche impannata, insomma, a giudicare dal rumore fatto, sopra del legno.
Si fu immediatamente dopo la terza pietra che si udì uno squillo di tromba, composto, direi, di una sola
nota e lunga forse cinque minuti secondi; ne susseguì immediatamente un secondo e terzo squillo, vale a
dire, mi spiego, due mezzi squilli precipitati l’uno dopo l’altro, o, se vuolsi, uno squillo solo, ma composto di
due distinte note le quali fra tutte due impiegarono forse ancor minor tempo del primo squillo; quasi
nell’atto stesso della seconda nota (lo vidi de’ miei propri occhi) partì un primo colpo di carabina dal nucleo
dei Carabinieri, i quali, usciti pendente le sassate dal vestibolo della Questura, ruppero il rango del
picchetto di linea che stava loro davanti e vennero a mettersi o meglio a coprire il picchetto e quel
drappello sopraccitato, distendendosi dalla baracca dei giornali sin quasi all’angolo della chiesa di Santa
Cristina.
Il colpo partito dai Carabinieri si comunicò come scintilla elettrica a tutte le due file già schierate in
ordine di battaglia sotto i portici; in guisa che alzarmi da seduto al primo squillo, udire immediatamente il
secondo, scorgere il primo e secondo sparo di moschetto volgermi repentinamente per fuggire e già
vedermi il fuoco in faccia e su tutta la linea della fronte dei portici di sinistra fu una cosa sola, fu un minuto
72
solo; fuggendo dal fatale lampione dovetti già sopportare la scarica di moschetteria davanti e di dietro sino
all’angolo monco dello steccato in legno che sta dirimpetto alla chiesa San Carlo; ivi giunto e proprio nel
centro di detto angolo monco caddi trasportato e rovesciato dalle due correnti di moltitudine, le quali
comprese di timor panico precipitavano in quel terribile frangente in direzioni, cercando da quel lato
scampo colla fuga; ivi rimasi quasi coperto da un parapetto di carne umana ancor viva, forse 8 o 9 individui;
questo soffice parapetto rimase lì rovesciato immobile ed esposto al più ben nutrito fuoco di fila che mai si
possa immaginare, per quasi tre minuti non secondi ma di sessanta secondi l’uno; ivi io disteso e come
testé dissi, quasi coperto mi misi a gridare: « Per carità, non moviamoci che possiamo esser salvi; colpita la
maggior parte di quelli che mi coprivano, e taluno sfuggito, mi vedo scoperto quasi affatto; m’alzo a solo
mezzo corpo, ed alzandomi, il mio cappello, perduto l’equilibrio, se ne va; per moto istintivo cerco tenerlo
colla mano sinistra, e volgendo la testa si fu in quell’istante che io vidi l’intera piazza, ormai sbarazzata,
folgoreggiante quasi di luce elettrica per la immensa quantità di fuochi che si incrocicchiavano.
Alzatomi come dissi, a solo mezzo corpo percorsi in un baleno in quell’atteggiamento tutto il tratto, circa
trenta passi, sotto il fuoco ancora continuo di quattro arcate sino al ciglio dell’ultima arcata, sano e salvo
senza neppure ricevere la minima ferita; ma ivi giunto con grande quantità di gente che perveniva dalla
direzione ci credemmo in salvo affatto dalla scarica che ancora succedeva in piazza; vana illusione! fummo
ancora esposti tutto il primo isolato di via Alfieri sino al primo volto della strada ad una scarica non
interrotta dei Carabinieri 34. »
Dalle quali premesse di fatto il testimone deriva questi corollari:
1° L’asserzione della Gazzetta uffiziale, che siano caduti feriti due carabinieri da due spari partiti dalla
folla prima dello squillo è inammissibile ed erronea: prima dello squillo non vi furono che sassate; ho inteso
distintamente il fracasso delle pietre, dunque avrei anche inteso lo sparo d’un revolver, d’una pistola o
simili; questi colpi cui accenna la Gazzetta uffiziale, potranno benissimo essere partiti in seguito alla
fucilazione, ma non prima.
2° Contesto con tutte le forze dell’animo che il Questore abbia fatto precedere le tre intimazioni co’
squilli di tromba, in conformità della legge.
Garneri Agostino, Laguzzi Lorenzo, Boeri Giovanni confermano anch’essi che appena furono scagliate
alcune pietre contro la questura i carabinieri uscirono, soverchiata la truppa tirarono pazzamente sui
soldati e sul popolo 35.
Carlo De Driembeski, e Gioanni Sopriski polacchi l’uno e l’altro, narrano che giungendo essi dalla via
dell’Ospedale in piazza san Carlo, videro arrivare la folla verso la questura, scagliarsi tre o quattro pietre, e
immantinente sbucar fuori i carabinieri, cacciarsi attraverso le file dei soldati e far fuoco alla cieca su questi
e su tutti, senza che sia preceduta alcuna intimazione, ed essendosi udito null’altro che uno squillo di
tromba, che dovette essere, dicon essi, il segnale delle fucilate 36.
Le stesse cose confermano Conti Antonio e C. A. Brignone il quale ultimo così si esprime: « Erano circa le
nove quando a un tratto udii un lieve squillo di tromba; veder sortir dalla questura gli allievi carabinieri con
impeto, e dinnanzi al pelottone dei soldati schierarsi e far fuoco, fu un colpo solo. Chi vide come vidi io
questo improvviso atto di barbarie non può far a meno di inorridire. » 37
34
ARA, pag. 98 e 99.
ARA, pag. 98 e 99.
36
ARA, pag. 125, 126.
37
ARA, pag. 90.
35
73
Ottone Napoleone, guardaportone dell’Accademia Filarmonica, dichiarò al Municipio e al Giudice
Istruttore che « appena giunta la folla (100 o 150 individui) avanti la Questura si intese uno squillo breve
come terètètèe, e lo sparo immediato delle carabine che si unì al suono. » 38
« Dalla folla dei curiosi fu scagliata pietra contro la porta della Questura e non sì tosto ciò avvenuto i
Carabinieri fecero fuoco sugli astanti » dice il Filippi 39. - E gli fa eco in termini precisi Paganini Alessandro 40.
Il cav. Bianchi, direttore delle sussistenze militari e Giovanni Mazzano escludono essi pure nel modo più
preciso che siasi fatta intimazione di sorta 41.
Il sig. Cortelezzi, impiegato alle finanze, stava tranquillamente discorrendo con un ufficiale della linea,
quando a un tratto i carabinieri saltano fuori dal portone della Questura, urtano e sospingono le file dei
soldati e attraversatele, sparano…
Che più? Il sig. Negri sorpreso dalla fucilata, accorre da un capitano amico suo, che comandava una delle
compagnie, e gli domanda conto di ciò che accade; questi gli risponde: « nessun colpo essersi tirato contro
la Questura, eccetto quelli dei sassi: i carabinieri sortiti dalla casa, rompono le file della sua compagnia e gli
si schierano davanti: uno di essi percuote col calcio del fucile quello fra i popolani che portava la bandiera,
poi gli fa fuoco addietro, stendendolo morto. Quello fu il primo colpo, dice il capitano: quindi malgrado la
preghiera ed i comandi degli uffiziali di fanteria ai carabinieri di non isparare sul popolo inerme e sugli stessi
soldati che si trovavano davanti, essi fecero un fuoco di pelottone che diede origine alla strage 42.
E in tale occasione, soggiunge il testimone, ebbi campo di osservare la profonda indignazione da cui
erano compresi tutti indistintamente gli uffiziali della truppa, per tale atto barbaro ed illegale, e
specialmente quelli che si trovavano avanti la Questura ».
LIII.
Rapporto sulle vittime
Centoventisette furono le vittime del 22 settembre in piazza San Carlo - e fra essi, come il dì innanzi, tre
femmine, due delle quali rimasero immediatamente sul terreno…
Vent’otto fra le vittime morirono sul colpo: altre ventiquattro soccombettero negli ospedali malgrado le
assidue, intelligenti, affettuose cure loro prodigate con nobile gara dai medici e chirurghi addetti al servizio
degli ospizi, o spontaneamente accorsi a prestare l’opera loro.
Così sommano in tutto a cinquantadue gli estinti.
Si aggiunga a queste cifre il numero di quelli che per essere di agiata condizione e per aver potuto
ricoverarsi subito alle loro abitazioni, non vennero calcolati nella relazione del Dottore Rizzetti, ed i quali
secondo esso medesimo avverte, non son pochi 43, si potrà senza esagerazione portare a 250 almeno il
numero delle persone alle quali riuscirono fatali la imprudenza colpevole del Ministero, e il pessimo
contegno degli Allievi Carabinieri nella sera del 21 e del 22 settembre 1864.
Copra un velo pietoso, come in parte li coprirono le tenebre notturne, i lagrimevoli episodi che
accompagnarono quelle stragi.
Ma se la stessa carità di patria consiglia a non fermar troppo a lungo lo sguardo sopra quelle nefaste
scene son tuttavia alcuni particolari che a forza quasi si impongono a chi scrive di quei tristissimi casi.
38
ARA, pag. 101.
ARA, pag. 102.
40
ARA, pag. 102.
41
ARA, pag. 103, 104.
42
ARA, pag. 104,105.
43
Pagina 130.
39
74
Come tacere affatto di quel miserando vecchio, il quale aveva sfidato incolume il piombo e il ferro
nemico in cento battaglie della epopea napoleonica, e fiero della medaglia di Sant’Elena che attestava le
sue gesta, e il suo valor giovanile, passeggiava fidente la piazza di San Carlo quando a un tratto una palla
fraterna lo stendeva boccheggiante al suolo?
E a far prova degli strani capricci del caso, al suo fianco giaceva esanime un giovanetto non ancora
quindicenne, esercente l’arte tipografica che reduce dalla officina, s’affrettava all’abbraccio materno,
quando il proiettile micidiale troncavagli a un tempo il passo e la vita.
Aliprandi Lucia moglie di un Pisani era uscita, un momento a diporto col marito, ma non appena aveva
visto ingrossare la folla, essa che portava in seno i pegni del casto amor coniugale aveva voluto ritrarsi in
sicuro: e il marito approvando o lodando il savio divisamente, affrettava il passo a torla di mezzo alla gente.
S’odono i primi colpi: fuggiamo, fuggiamo, grida la infelice come spinta da un negro presentimento; e
corrono, corrono, e già son presso allo steccato, già son dietro ad esso, già hanno raggiunto la via Alfieri, già
adocchiano il portone dell’ex convento di San Carlo, che sembra chiamarli a sé colla assicuranza dello
scampo sol che lo tocchino, pochi passi ancora, e sono salvi… A un tratto uno strido acuto, violento, atroce:
uno strido che mi suonerà all’orecchio quanto tempo io viva, mi dicea il collega e caro amico Bertea che
l’udì, domina e vince il rumore delle schioppettate, e il calpestìo della folla.
Era la Lucia Pisani alla quale una palla entrata nell’inguine sinistro spegneva a un tempo due vite, e rendea
per sempre miserrima quella del superstite marito… 44
E tu non eri che una povera operaia, moglie di operaio, o Lodovica Robresto, ma lo amavi il compagno
che il tuo cuore erasi scelto, lo amavi con tutta la potenza di un affetto non suggerito dalle convenienze
sociali, e non infiacchito dalla svogliatezza o dai pregiudizi mondani, e n’eri riamata con ardore e sincerità
pari a quella del cuor tuo. Felicitata la vostra unione da due bimbi, il maggiore dei quali aveva da poche
settimane superati i due anni, erano per voi una benedizione del cielo i sintomi che vi ricordavano prossimo
a maturità un terzo frutto del vostro vivace, e invariabile amore. L’uomo del tuo cuore, saputo in piazza
Carlo Felice che tutto era tranquillo, e che eravi molto apparato di forze, inducevati ad accompagnarlo
passeggiando verso la piazza Castello ove esso dovea recarsi. Appena usciti dalla Via Nuova ed entrati in
piazza S. Carlo, e mentre si trovavano a fianco dell’assito che fu quivi formato per comodo dei lavori di
riparazione alla chiesa, ode il Robresto un breve squillo di tromba; si volta e vede i carabinieri che erano
avanti alla Questura correre innanzi e far fuoco.
Egli fa che la moglie si curvi e rannicchi fra l’assito e il piedestallo del lampadario, poi facendole ancora
scudo col proprio corpo, « non temere, le dice, io ti riparo da ogni colpo… ».
La fucilata dura alcuni minuti: la Lodovica è tranquilla infine, quando a Dio piacque i colpi sostano:
Robresto già ringrazia il cielo di avergli salvata la moglie e la promessa della prossima prole - « Alzati, dice
alla sua Lodovica, alzati, togliamoci di qua, prima che nasca altro. »
La donna non si muove: un dubbio orribile attraversa come punta di ferro nelle vene, il cuore del
Robresto: fa cerchio delle braccia al corpo della moglie, … la sente greve, esanime, fredda… la scuote, la
chiama, essa non risponde: guarda, cerca, e scopre che una palla entrata nelle tempia alla disgraziata
consorte, gliela rese cadavere, mentr’egli, infelicissimo, credeva averla fatta salva col pericolo della propria
vita…
L’orrore, la disperazione lo traggono fuori di sé: lascia rotolar al suolo il corpo insanguinato, e fugge,
fugge a precipizio dal teatro della sua sventura… Ma per poco fugge: che un doloroso pensiero gli conturba
la mente: « Abbandonerò il corpo della mia sventurata consorte, a nuove offese di ciechi colpi? »
44
Relazione RIZZETTI, pag. 156, e relazione.
75
E ritorna sopra i suoi passi, e non curando altro, né preoccupandosi della possibilità di nuove scariche,
accorre di nuovo al lampione nefasto e solleva il cadavere giacente, e se lo stringe al petto, e quasi sperasse
che quegli estremi amplessi potessero riparare l’opera struggitrice del piombo micidiale, lo sostiene fra le
braccia; e poi, il parossismo dell’angoscia raddoppiandogli le forze, egli s’avvia portando seco il doloroso,
ma per lui sacro e prezioso fardello, e attraversando la piazza si mette in via San Filippo, e giunge fino alla
via Bogino; ma qui più che l’amor poté il dolore - le forze lo abbandonano, egli si sente mancare, cade a
terra svenuto, e fino in quell’ultimo istante in cui la vita pare da lui ritirarsi, e i sensi lo abbandonano, egli ha
cura di acconciarsi così che il cadavere della moglie riposi sopra il suo corpo…
Egli non sa quanto tempo è rimasto sulla via svenuto a quel modo: sa che riaprendo gli occhi si vide
attorno alcune persone che cercavano portargli soccorso, meste e ad un tempo inorridite dello spettacolo
che loro si era parato innanzi, e il quale aveva loro rivelato la immensità della sventura ond’era colpito il
povero Robresto.
Saputosi da costoro come la infelice vittima fosse incinta di sette mesi, consigliavano il Robresto a
lasciare che il cadavere fosse trasportato all’ospedale di S. Giovanni, per tentar modo di salvare almeno il
feto.
E aderì volentieri il Robresto, e un’ultima speranza gli balenò al pensiero, e gli parve che non fosse in
tutto morta la moglie sua, se alcuno riuscisse a farle sopravvivere quest’ultimo frutto del loro amore.
Ma anche questa speranza aveva breve durata.
Appena esaminato il corpo della donna, i medici dello Ospedale dichiararono dolenti al Robresto che
non erasi più in tempo.
Allora egli volle ripigliarsi il cadavere: e non fu senza fatica che gli astanti riuscirono a fargli comprendere
come ormai gli fosse necessità rassegnarsi ad una separazione della quale sola può confortarci la Religione
che c’insegna non essere eterna…
LIV.
Relazione Rizzetti
Anche i morti ed i feriti di piazza San Carlo, come quelli della sera precedente in Piazza Castello furono
per lo più trafitti da parecchi colpi: due n’ebbero Gallo Giuseppe, Gannio Antonio, Bello Domenico ecc., tre
n’ebbe Stura Giuseppe, per quattro ferite soccombette Sbitrio Domenico; quattro del pari (non gravi però)
un’altra donna, la Giulia Capra.
La età variò nelle vittime da 12 anni a 75. Sopra i 187 morti e feriti, i due terzi quasi, ossia 112, aveano
meno di 25 anni.
Il maggior contingente lo diedero l’età di 18 anni che ebbe 12 vittime; quella di 20 che n’ebbe 16; di 21,
12; di 22, 13; 19 aveano 23 anni.
Valga del resto a maggiore chiarimento, la tavola che riproduciamo dalla relazione del Dottore Rizzetti
secondo la quale i 187 individui feriti e morti si ripartiscono come segue:
76
ETÀ
SESSO
TOT.
M.
F.
12
1
»
1
13
2
»
14
3
15
ETÀ
SESSO
TOT.
M.
F.
Riporto
117
2
119
2
27
3
1
»
3
28
2
2
»
2
29
16
7
»
3
17
3
»
18
12
19
ETÀ
SESSO
TOT.
M.
F.
Riporto
149
4
153
4
47
2
»
2
»
2
48
1
»
1
2
»
3
50
2
»
2
30
5
»
5
51
»
1
1
7
31
2
»
2
53
1
»
1
»
12
33
2
1
3
54
2
»
2
8
»
8
34
1
»
1
56
1
»
1
20
16
»
16
35
3
»
3
57
1
»
1
21
12
12
36
2
»
2
59
1
»
1
22
13
13
38
1
»
1
60
1
»
1
23
19
19
40
2
»
2
62
1
»
1
24
8
8
41
1
»
1
75
1
»
1
6
42
4
»
4
Ignota
18
1
19
7
44
1
»
1
149
4
153
Totale
181
6
187
25
6
»
»
»
»
»
»
26
5
Da
riportarsi
117
2
2
119
Da
riportarsi
In ordine alla nazionalità delle 187 vittime è da avvertire che di 27 feriti non è nota la patria, fra i quali 8
sono militari, 2 guardie di P. S., ed una donna;
20 sono Torinesi, fra’ quali 1 militare, 2 vecchi ed un ragazzo di 13 anni;
102 appartengono alle varie provincie del Regno d’Italia;
4 sono Romani, fra i quali 1 soldato;
1 di Vicenza;
1 di Mantova;
1 di Trento;
3 Svizzeri.
159
Fra i 28 raccolti cadaveri:
77
5 sono Torinesi;
22 appartengono alle diverse provincie del Regno;
1 di Vicenza;
28
È noto soltanto lo stato civile di alcuni fra i 43 individui, i quali, o si raccolsero cadaveri sul pubblico
suolo, o morirono negli Ospedali.
Fra i primi (28) si contano:
19 celibi;
9 coniugi, e fra questi le due sgraziate femmine.
28
Quanto ai secondi (15) consterebbe che sono tutti celibi.
Fra i 35 feriti a domicilio si contano:
12 celibi;
8 coniugi, con numerosa prole;
1 vedova,
di 14 non è ancor noto lo stato civile.
Quanto alla condizione sociale, si contano;
3 proprietari
30 militari,
2 ex militari;
2 agenti di pubblica sicurezza circa i quali vuolsi avvertire che l’uno ebbe una leggera contusione il dì 21,
l’altro fu ferito lo stesso giorno in una gamba da un furibondo suo compagno.
1 guardia daziaria:
6 negozianti, commessi di banca;
5 scrivani, impiegati di ferrovia;
1 studente;
1 giardiniere;
15 esercenti professioni diverse;
15 servitori, camerieri, ecc.;
97 esercenti industrie varie;
9 non indicati.
Per ciò che riflette la natura delle ferite si può argomentare dalle relazioni gentilmente favorite dagli
egregi signori assistente capo dell’ospedale di San Giovanni dottore Berti e cavaliere dottore col. Borelli,
chirurgo ordinario dell’ospedale Mauriziano, che i ricoverati nell’ospedale maggiore di San Giovanni sei
furono feriti da arma da taglio gli altri da proiettili d’arma da fuoco.
All’ospedale Mauriziano non si contano che tre ferite d’arma da taglio o da punta e tre contusioni, le
altre furono determinate da proiettili d’arma da fuoco.
La direzione delle ferite, è nella maggior parte dei casi, dal di dietro in avanti, il che prova, siccome
notava il cavaliere Borelli ne’ suoi ammalati, che i disgraziati furono colpiti nell’atto in cui fuggivano; alcuni
affetti da ferite dall’avanti all’indietro consta che si trovavano a grandi distanze, e non si accorsero
dell’improvviso sparo; alcuni, poveretti, si credevano al riparo sotto i portici!
78
LV.
Notizie tendenziose sul comportamento della popolazione
Non appena la relazione dei due delegati conte Corsi e capitano Moretta aveva posto il Municipio in
grado di formarsi un concetto adeguato di ciò che era avvenuto in piazza S. Carlo, principiavasi la
discussione fra i membri della Giunta e gli uffiziali superiori della Guardia Nazionale intorno a ciò che
occorresse fare.
Grande era l'abbattimento, ineffabile la mestizia che occupava gli animi, perché ormai nessuno più
sapeva prevedere dove si arresterebbero le sventure e i danni della patria comune…
Durante questa discussione verso la mezzanotte giunge un biglietto del commendatore Peruzzi invitante
il sindaco a recarsi al Ministero.
Il Sindaco, il quale era completamente senza voce, prega i Consiglieri Sella, Rignon e Chiaves a recarsi in
sua vece al Ministero. Questi senza indugio vi si avviano e trovano presso il Ministero un altro messo con
biglietto del commendatore Minghetti che invitava pure il Sindaco a recarsi al Ministero.
Essi sono introdotti dai ministri Minghetti e Peruzzi con i quali erano il generale Della Rocca, un
maggiore (?) dei Carabinieri e il Questore Chiapussi ed ecco in quali precisi termini riferiscono la seguita
conferenza.
« Il commendatore Minghetti dice che ha pregato il Sindaco, o chi per esso, a venire al Ministero, onde
la dolorosa catastrofe di piazza S. Carlo fosse rappresentata al pubblico il meno gravemente possibile.
Rispondono i tre delegati che il Municipio non ha giornali, e che essi altro non possono fare se non
esprimere questo desiderio del Ministero ai membri del Municipio che si trovassero nel palazzo Municipale.
I tre delegati fanno poi ai ministri le più vive, le più sentite lagnanze per il fatto orribile che per la terza
volta si ripeté nelle vie di Torino: cioè che si fa uso delle armi contro una popolazione interamente
inoffensiva, ad eccezione di alcuni perturbatori, che cacciarono sassate, e che forse non sono neppure
Torinesi, ma sono invece gente istigata da nemici comuni; che nell’usare le armi non solo non si ha la
longanimità che merita una popolazione, cui venne fatta grave iattura, sia per gli interessi, come sopratutto
per l’amor proprio, ma non si osserva neppure la forma voluta dalla legge. Aggiungono che non sanno
capire come gli agenti di pubblica sicurezza e gli Allievi Carabinieri usino contro la popolazione di Torino
modi che forse non usarono nè i Croati a Milano, nè i Russi in Polonia, mentre non un solo fucile venne
visto nella folla, non un’arma venne adoprata dalla plebe.
Il ministro Peruzzi dice che le guardie di pubblica sicurezza vennero sciolte ed un’inchiesta intrapresa
contro le medesime, e che vennero tutte mandate fuori di Torino. Dice poi che in quanto alla truppa essa
venne posta per intiero sotto gli ordini del generale Della Rocca.
Il generale Della Rocca dice che ha dato gli ordini i più miti alla truppa, la quale non dovrebbe tirare né
per insulti, né per sassate; ma tutto il disordine provenne dagli Allievi Carabinieri, i quali nè nell’una, nè
nell’altra sera seppero contenersi, e che poi nella sera del 22 spararono perfino contro la truppa. - Si figuri,
diceva il generale Della Rocca, che gli Allievi Carabinieri mi hanno perfino ucciso il colonnello del 17°
reggimento.
Il ministro Peruzzi chiede al Questore Chiapussi perché abbia fatto venir fuori gli Allievi Carabinieri dalla
questura nella sera del 22, invece di far sciogliere gli assembramenti dalla truppa. Perché, risponde il
questore chiunque abbia la più piccola perizia di queste faccende sa che gli assembramenti si disperdono
dalle guardie di Pubblica Sicurezza o dai Carabinieri, che soli possono fare arresti.
I delegati chiedono poi se, dal momento che si procede con tanta illegalità da far uso delle armi senza
intimazione, non siansi pure prese delle precauzioni ponendo la mano sopra i perturbatori, certo estranei
alla città di Torino, che gettarono sassate contro gli Allievi Carabinieri.
79
Il ministro Peruzzi dice, che venne dato ordine al Questore di farne una retata, e che non sa come questi
non abbia già eseguito i suoi ordini.
Il Questore risponde che il ministro gli diede ordine di mandar via le guardie di Pubblica Sicurezza, e che
soltanto queste conoscono cotesti perturbatori, di cui egli ha tutti i connotati. Egli aggiunge poi che riceve
ordini contraddittori.
I delegati fanno quindi ritorno al palazzo Municipale penetrati dalla dolorosa convinzione che non regna
la indispensabile armonia fra il Ministero ed i suoi funzionari 45. »
In seguito a questa narrazione si discusse a lungo sul da farsi.
Tutti ormai erano convinti che rimanenti al potere gli attuali Ministri non era sperabile una felice
soluzione delle dolorose difficoltà nelle quali essi aveano gittato il paese.
Con quale autorità, con quale efficacia ormai poteva il Municipio parlare alla popolazione afflitta e
bistrattata a quel modo parole di pace, e di calma?
Già i morti ed i feriti del 21 gridavano vendetta contro i Ministri, se non malvagi certamente inettissimi,
che aveano dato causa a tante gravi ed irreparabili sventure.
Che sarebbe quando il nuovo giorno recasse in tutte le famiglie l’annunzio della novella strage che aveva
più che raddoppiato il numero delle vittime?
In chi credere ormai, in chi fidare?
Non aveano i Ministri confessato che le disgrazie del 21 erano derivate dalla inesperienza e indisciplina
degli allievi carabinieri?
Non aveano i Ministri dichiarato che essi più non verrebbero adoperati?
E non furono invece essi la causa del nuovo e maggiore eccidio in piazza S. Carlo?
La popolazione Torinese era stata calma durante il giorno del 22 perché Municipio, associazioni, privati
cittadini, tutti le aveano promesso giustizia e legalità, e si erano portati garanti del Ministero.
Dopo i nuovi orribili casi quale guarentìa pel Ministero poteva ancora darsi o riceversi?
D’altronde, come poteva il Municipio ingerirsi più oltre dacché gli organi officiosi del Ministero
cominciavano ad accusarlo di volere escire dalla cerchia delle sue attribuzioni, ed invadere il terreno
politico?
Cosicché la stessa prudenza parea consigliare di attendere quind’innanzi passivamente gli eventi.
Ma d’altro canto si domandava: che cosa avverrà quando la popolazione veggasi abbandonata a sé
medesima? La popolazione è irritatissima, ha cuore, braccia, e nerbo: se finanche il Municipio si ritira in
disparte, essa, rimarrà senza consigli, e senza guida, in braccio ai mestatori che hanno interesse a raggirarla
per rovinarla e pescar essi nel torbido.
Questo riflesso parve decisivo, e quanti erano al Municipio unanimi deliberarono dovesse ancora
tentarsi la via della persuasione con un ultimo proclama, che riusciva concepito così:
Concittadini!
Il vostro Municipio ha la coscienza di aver fatto, nei limiti delle sue attribuzioni, quanto stava in lui per
servire alla causa dell’ordine e degli interessi che gli sono affidati.
Pur tuttavia i luttuosi avvenimenti si sono ieri in modo troppo più grave rinnovati.
La responsabilità a cui tocca!
Col cuore profondamente esulcerato noi ci uniamo a voi nel lamentare il sangue versato.
45
ARA, pag. 117 e 128.
80
Ancora una volta il vostro Municipio vi scongiura a pensare ai mali estremi che minaccerebbero le vostre
famiglie se non si evitasse qualunque atto che potesse dare occasione o pretesto.
A questo fine rinnovi il suo concorso la Guardia Nazionale e lo rinnovino quei benemeriti cittadini che
con tanta abnegazione si associarono all’opera nostra in questi deplorabili eventi.
Torino, dal palazzo municipale, 23 settembre 1864.
Il Sindaco RORA’
Non fu per altro se non dopo una lunga e laboriosa discussione che poté riuscire definitivamente
concordato in tali termini, imperocché a taluno sembrava opportuno si accennasse allo ingente numero di
soldati chiamati ad occupare la città, per inferirne la necessità assoluta di un contegno calmo e misurato
che evitasse conflitti le conseguenze dei quali sarebbero state incalcolabili. Poi si rinunziò a tale proposito
perché si temette che ogni qualunque allusione di tal natura potesse, per avventura, dar luogo ad equivoci.
Tutti invece convenivano circa la opportunità di prender atto in quel proclama stesso, delle confessioni
dei Ministri, esser dovute le disastrose fucilate della prima e seconda sera alla inesperienza, e indisciplina
degli allievi carabinieri. E già era definitivamente intesa la redazione del proclama con una frase che
dichiarava darsi la colpa (dei casi del 22) alla inesperienza degli agenti della pubblica forza, quando si
considerò che forse ciò sarebbesi potuto da taluno applicare anche alle truppe, delle quali invece ognuno
faceva i più larghi elogi; - e quella frase fu cancellata.
Ma ormai le cose erano giunte tant’oltre che poco più valevano i proclami sull’animo dei cittadini.
Andavano attorno le voci più sinistre.
Diceasi che per la sera si stesse apparecchiando una dimostrazione armata, decisa a sfidar ogni pericolo
per avere ragione del sangue sparso.
Soggiungevasi essere venuti dal di fuori molti emissari, con mali propositi, cercar essi di sobillar la
popolazione con promesse di denari e di armi.
D’altro canto affermavasi che il Ministero era determinato alle più estreme risoluzioni.
Narravasi, e poi si seppe che era verissimo, che già fossero in pronto il decreto dello stato d’assedio, ed
un elenco delle persone più invise ai Ministri, o credute più pericolose, da esser messe in arresto.
Soggiungevasi, non so con qual fondamento, che anzi il mattino stesso di quel giorno il Minghetti avesse
voluto proclamare immediatamente lo stato di assedio, ma che il Generale a cui s’era diretto per farlo
eseguire avesse ricusato di obbedire, se non gli si mostrasse il decreto colla firma originale del Re.
Intanto giungevano continuamente truppe d’ogni arma, e bivaccavano a ciel sereno per le piazze e per le
strade, non essendo i quartieri militari capaci di tante milizie.
Il linguaggio dei giornali officiosi, quello stesso della Gazzetta Ufficiale non contribuivano punto a
favorire l’ordine e la calma.
Pubblicando narrazioni evidentemente parziali per gli agenti del Governo, a danno della popolazione
afflitta ed irritata, essi avversavano il mal umore, e facean temer lo scoppio di nuovi risentimenti.
Ed erasi in ispecie notato con grande dispiacenza come l’Opinione avesse ricusata la pubblicazione di
una relazione che il deputato Montecchi, ed otto altre persone attestavano, intorno ai primi fatti di piazza
S. Carlo, nel pomeriggio del 21, per dar luogo invece a narrazioni che il giornale avrà certo accolte in buona
fede, ma che non poteano del pari dirsi vergate in buona fede dai loro autori. Facea peggio la redazione del
foglio ufficiale pubblicando una pretesa esposizione dell’accaduto nei giorni 21 e 22 nella quale il contegno
della popolazione era spudoratamente calunniato.
81
Eccola testualmente: giudicatene voi stesso:
« Gravi disordini perturbarono ieri la tranquillità della città di Torino.
Verso le due pomeridiane varii assembramenti si vennero formando in alcuni punti della città. Essendo
stata tentata una aggressione all’ufficio della Gazzetta di Torino, in piazza San Carlo, un drappello di guardie
di Pubblica Sicurezza disperdeva l’assembramento facendo uso delle sciabole. Per questo fatto riprovevole
il Governo ha immediatamente ordinato un’inchiesta giudiziaria sulla condotta degli agenti di Pubblica
Sicurezza.
Più tardi il tumulto in quella piazza divenne più minaccioso contro l’ufficio della questura che ivi ha sede.
Oltre a parecchi soldati ed a tre ufficiali feriti a colpi di pietre si avevano già a deplorare tre uccisioni
(falsissimo) di due supposti agenti e di una guardia di Pubblica Sicurezza, quando sventuratamente una folla
di persone armate di bastoni, di sassi, ed alcune di pistola, avendo voluto forzare uno squadrone di allievi
carabinieri situato fino dal principio della sera in piazza Castello, tentando di disarmarli, ed investendoli
violentemente, questi fecero per propria difesa e senza comando una scarica di fila delle loro armi. La folla
si disperse immediatamente.
Si rinvennero dieci morti e vari feriti tra i cittadini. Venti carabinieri erano stati feriti con bastoni e pietre,
fra i quali cinque gravemente.» Invece guarirono tutti il secondo e il terzo giorno!
Così preludiavasi ai falsi telegrammi che doveano poi calunniar Torino in faccia all’Italia ed all’Europa.
Faceasi peggio all’indomani, travisando anche più cinicamente, la verità dei fatti, per modo che la stessa
Opinione nel riprodurre la narrazione del foglio ufficiale sentiva la necessità di declinarne la responsabilità.
« I fatti di ieri sera (22) commossero dolorosamente la nostra città.
La stessa versione della Gazzetta Ufficiale non ne nasconde la gravità. Noi la diamo per debito di
cronisti.
Essa è la seguente:
La giornata d’ieri passava tranquilla e così pure le prime ore della sera. Nelle piazze d’Armi, Castello, San
Carlo e Carlo Emanuele II stanziavano delle truppe.
Forti pattuglie venivano poste in giro nelle principali strade onde conservar libera la circolazione.
Tutto progrediva bene e sembrava potersi sperare che non si rinnovassero disgustosi avvenimenti. Ma
verso le ore 9 da alcune parti convenivano in piazza San Carlo diversi gruppi di schiamazzatori. Verso le ore
9 e mezzo una gran folla di popolo trovavasi radunata in tal piazza nella quale erano disposte lungo i portici
le truppe, con una compagnia davanti alla casa della questura onde proteggerla contro le aggressioni del
popolo che appunto contro di essa rivolgeva le sue minacce.
Ad un certo momento siccome venivano scagliati sassi nell’interno del portone della questura, il
questore si decise a far sgombrare la piazza coll’uso della forza, facendo precedere le tre intimazioni e
squilli di tromba in conformità della legge.
Fece in conseguenza uscire fuori del portone, oltre la compagnia di fanteria che già vi era, alcuni
carabinieri che stavano nell’interno della questura, e fatto avanzare sulla porta un assessore munito della
sciarpa tricolore, scortato da due carabinieri, fece eseguire la prima intimazione ed il primo squillo.
Appena eseguito questo e mentre continuavasi a scagliar pietre, i due carabinieri che scortavano
l’assessore caddero feriti da due colpi di fuoco partiti dalla folla. Allora i carabinieri cominciarono il fuoco
contro il gruppo degli aggressori senza che finora siasi potuto venire in chiaro se il comando di far fuoco sia
stato dato.
Per la disposizione che avevano le altre truppe nella piazza suddetta, alcune delle palle tirate colpirono
parecchi soldati ed il colonnello Colombini, comandante del 17°, che appunto guerniva la piazza dal lato di
levante.
82
Alcuni soldati del 17° vedendo colpiti i loro compagni spararono istintivamente qualche colpo, dei quali
alcuno andò a ferire soldati di un battaglione del 66 reggimento, situato dirimpetto sul lato opposto della
piazza, e che teneva le armi al fascio. Lo stesso effetto si produsse anche sopra vari soldati di questo
battaglione, i quali, impugnate le armi, le caricarono pur essi.
I comandanti dei battaglioni fecero cessare tosto questo disordine; ma le conseguenze furono che
caddero morte 26 persone e 66 ferite, fra le quali 2 soldati morti e 14 feriti, compresi alcuni colpiti
gravemente da sassi.
Il rapporto di questa mattina del medico militare, capo del servizio del dipartimento, informa che 4 dei
soldati feriti lo furono da quadrettoni e pallette da caccia sicuramente tirati dagli aggressori.
Il Ministero ha ordinato una pronta inchiesta su questi fatti, diretta principalmente a chiarire se il
comando di far fuoco sia o no stato dato.
Dopo questo doloroso avvenimento nessun altro disordine si è avuto a lamentare. »
In molti punti, avverte qui l’Opinione, le narrazioni degli altri giornali e la voce pubblica discordano dalla
versione della Gazzetta Ufficiale. Si nega, sovratutto, da molti testimoni oculari che la prima scarica contro
il popolo sia stata fatta dopo l’intimazione legale, e si assicura, al contrario, che è stata eseguita
immediatamente dopo lo squillo di tromba e prima che l’assessore avesse intimato all’assembramento di
sciogliersi.
Ad ogni modo si fa un’inchiesta, e da essa verranno, lo speriamo, posti in luce questo e tutti gli altri fatti
di quella funesta sera. »
Tutte queste cause insieme facean più viva e più pericolosa la inquietudine generale, epperò il Sindaco
pubblicava un nuovo proclama, o piuttosto scongiuro alla popolazione:
Concittadini!
Risparmiamo nuovo sangue!
Ad evitare conflitti è necessità che ogni cittadino, a sera, rimanga nella propria casa.
Di questo vi scongiuro.
Confidiamo tutti che il Parlamento salverà l’Italia.
Torino, dal Palazzo Municipale, 23 settembre 1864.
Il Sindaco RORA’.
A questo proclama faceva eco una eletta di cittadini con queste parole:
Concittadini!
Ordine e calma!
Il Ministero deve essere giudicato dalla Nazione.
Attendiamo questo giudizio nella attitudine imponente e severa di chi ha la coscienza del suo diritto.
Non lasciamo che altri abbia pretesti per toglierci la libertà necessaria a provocare solenne questo giudizio.
Ascoltiamo tutti la voce del nostro Sindaco, che con tanta dignità e fermezza seppe rappresentare il voto
comune.
Alle otto tutti gli onesti cittadini si ritrovino nelle loro abitazioni.
83
Nemico della patria è colui che non obbedisce alla voce del Magistrato Cittadino.
Un grido di dolore si levava un giorno dalla terra Lombarda. Quel grido ebbe un eco nel nostro cuore, e
cominciò poderosa l’opera del nostro riscatto - Il grido di dolore che si leva oggi da questa città avrà un eco
per tutta Italia, e salvando il Paese, avremo salvato con esso la libertà e la legge.
Gustavo Paroletti - Tancredi Canonico - Ignazio di Revel - Celestino Gastaldetti - G. G. Pollone - Carlo
Giuseppe Isnardi - Gio. Priotti - Luigi Mongino - G. M. Riccardi -Federico Spantigati - Giulio Spinola - T.
Villa - Ceriana - L. Rey - Pio Rolle - C. A. Gazzelli - B. Solei - F. Petit - G. Demichelis - Alessandro Malvano Giorgio Tommasini.
E contemporaneamente a questo proclama, la Società degli esercenti, quella degli operai, l’associazione
dei commessi negozianti, pubblicano indirizzi e manifesti, nei quali scongiurano tutti i cittadini ad ascoltare
la parola del Sindaco, ad astenersi da ogni provocazione, ad evitare nuovi guai, a fidare nel Municipio e nel
Parlamento.
E per dare una maggiore soddisfazione alla pubblica opinione, alquanti giureconsulti e privati si
riuniscono, e deliberano di prendere essi la iniziativa di una querela per l’accusa solenne dei Ministri,
affinché, se è possibile, moderi la temerità delle loro provocazioni il vedere che malgrado ogni loro abuso
della forza, perdura vivace nell’animo dei cittadini la coscienza dei loro diritti, e la fede nella autorità della
legge.
LVI.
Il Re dimette i Ministri e incarica Lamarmora di formare un nuovo Ministero
Così giungiamo alle due del pomeriggio.
Malgrado tutti gli sforzi fatti per assicurare l’ordine e la calma, fievole assai era la nostra speranza che si
evitassero nuovi e maggiori guai.
Al palazzo del Municipio convenivano del continuo i più noti ed autorevoli cittadini per consigliarsi a
vicenda, e concorrere tutti allo scopo supremo, il mantenimento dell’ordine. Vi andai io pure verso le due e
mezzo per annunciare al Sindaco lo accordo preso dai rappresentanti i vari comitati per la pubblicazione de’
proclami che secondassero i di lui sforzi, e mentre fatta tale comunicazione io me ne partiva incontrai in
capo allo scalone il conte di Castiglione, che appena m’ebbe visto, mi disse sorridendo:
« Sa la notizia? Il Re ha dimesso i Ministri
Davvero? risposi trasecolato.
Davverissimo, e vengo ora a darne lo annunzio formale al Municipio.
In tal caso non è più un mistero. Ella mi autorizza a dire la cosa come certa, e positiva?
Ella può annunziarlo a tutti. - I Ministri furono congedati dal Re, il generale Lamarmora è incaricato di
formare un nuovo Ministero, è giunto or ora a Torino, ed accetta l’incarico. »
Dovrò io dissimularvi, mio caro Olivier, che questa notizia mi colmò di gioia?
Non aveva, non ebbi mai motivo personale di dolermi di quei Ministri. Di alcuni fra essi sono
cordialmente amico da molti anni. Con tutti ero in buone relazioni. Personalmente li stimavo. Ma da assai
tempo io aveva acquistata la convinzione che essi non poteano far il bene d’Italia: non che mancassero loro
le buoni intenzioni, ma fra tutti insieme non formavano un uomo. - Mancava loro lo spirito d’iniziativa,
mancava loro la fermezza dei propositi, mancava loro la virtù della perseveranza, e in tutti i loro atti si
rivelava l’assoluto difetto di quelle salde, robuste convinzioni che sole posson dare ad un uomo politico
l’energia, e le forze necessarie a fare, e a far bene.
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Da oltre un anno essi ormai si erano condotti a vivere alla giornata, barcheggiandosi fra le varie
consorterie nelle quali andava scissa la loro maggioranza, aiutandosi cogli spedienti, e inabilitati a nulla
tentar mai di serio e di grande, appunto perché le grandi imprese suppongono la fede nel domani - ed essi
invece trascinavansi malsicuri finanche dell’oggi.
E questa opinione mia circa la loro inettitudine e la loro impotenza, e la persuasione profonda nella
quale ero che le mani loro deboli e inette mal potessero tenere e indirizzare il timone dello Stato, non una
ma dieci e venti volte io l’aveva loro affermata in faccia, in pieno Parlamento.
Perciò la mutazione dei Ministri, da lunga pezza mi pareva assolutamente necessaria - senza che
entrasse alcunché di personale in tale mio apprezzamento.
Bensì dopo i tristi casi del 21 e del 22, dopo entrata nell’animo mio la ferma, incrollabile convinzione che
quel sangue si è versato per colpa loro: che essi, e tra essi Minghetti, Peruzzi e Spaventa ne sono
moralmente responsabili: preoccupato anche dal pensiero che la loro permanenza al potere dopo quei
luttuosi avvenimenti sarebbe stata causa di nuovi lutti, e che nessun rimedio efficace era possibile fuor
quello della loro dimissione; pieno il cuore e la mente di questi sentimenti e di questi pensieri io mi rallegrai
all’annunzio datomi dal conte di Castiglione, perché vidi in questo fatto l’assicuranza infallibile che l’ordine
e la calma più non sarebbero turbati, e Torino e l’Italia più non avrebbero a rimpiangere nuove vittime.
E in verità, pochi momenti innanzi di ricevere quello annunzio io stavo appunto fra me e me pensando
come fosse assurda e dura cosa che si avesse a correr pericolo di nuovi e maggiori lutti, che centinaia di vite
dovessero rimaner compromesse, affinché i signori Minghetti e Peruzzi rimanessero ministri qualche giorno
o qualche settimana di più…
E vi farò ancora un’altra confessione.
Mi parve giustizia che a me toccassero le primizie di quell’annunzio.
Rotto voi pure alle battaglie della vita politica, abbenchè nel vostro paese si agitino entro sfera meno
appassionata ed ardente che non è quella che a noi creano le larghissime nostre libertà e l’indole nazionale
- voi ben comprendete tutte le amarezze, i tedii, e i disgusti di coteste lotte.
Voi comprendete come colui il quale spontaneo si getta nella mischia, e si spinge sulla breccia, e rompe
in visiera alle ambizioni, alle vanità, alle superbie, ed agli egoismi, che si arrovellano e si arruffano
nell’arena politica, non possa guari sperare altra messe che di odii o di invidie; e vuolsi chiamar felice se
almeno eviti la calunnia!…
Epperò voi comprenderete altresì come a me, trepidante per la mia città nativa, amareggiato per il
sangue sparso, attristato dalla paura di nuovi danni, paresse dolcissimo fra tutti questo compenso di essere
tra i primi ad avere, e a diffondere la certezza che nessun disordine più era a temere, e che ormai, se gli
interessi economici di Torino potevano del paro dirsi irreparabilmente compromessi, almeno però la vita
de’ suoi abitanti non sarebbe più minacciata dalla paura dei Ministri, e dagli eccessi dei loro agenti.
85
LVII.
Il Ministero nasconde la notizia della propria destituzione
Precipitate le scale, m’affrettai a dare avviso a quanti incontravo, del fausto avvenimento.
E ricorderò sempre con gratissima impressione come fra i primi ai quali diedi la notizia, fu il
commendatore Galvagno che incontrai in Doragrossa appena usciva dal Palazzo di Città…
Se lo aveste veduto, incredulo dapprima, poi persuaso dalla mia insistenza, commosso, agitato,
rallegrarsi e piangere a un tempo…
Voi lo conoscete l’onorevole Galvagno.
Voi sapete com’egli unisca all’ingegno elevato, ed alla vasta dottrina, una onestà proverbiale, un
patriottismo a tutta prova, un affetto inalterabile, profondo, al Re ed alla dinastia.
E perciò egli non poteva frenar le lagrime.
Non poteva frenar le lagrime perché egli già aveva col pensiero misurata tutta l’ampiezza del pericolo
che correvano le sorti del Regno e della dinastia.
E a quel pensiero erasi commosso il suo cuore.
Erasi commosso fino alle lagrime, perché ragguagliava la importanza del bene conseguito alla gravità del
male evitato…
Mi affrettai alla tipografia Favale, dove si pubblica la Gazzetta Ufficiale, persuaso di trovare in essa il
decreto dell’incarico dato a Lamarmora, od almeno l’annunzio della demissione data al Ministero.
E seppi che la Gazzetta nulla direbbe di tutto questo.
Andai all’ufficio dei telegrafi, e spedii per Alpignano, che voi ben conoscete, a mia moglie un dispaccio
che dicea così:
« Viva Italia! Il Ministero è giù. »
E il mio telegramma non fu lasciato partire.
Seppi quasi contemporaneamente che un altro telegramma indicante la crisi ministeriale, non si spediva.
Tornai al Municipio, quivi seppi non voler il Ministero dimesso che nella giornata si divulgasse tale fatto.
Allora cominciarono, e gravissime le nostre preoccupazioni.
Se la notizia del congedo dei Ministri non sarà ufficialmente data prima della sera, avremo da capo
assembramenti, dimostrazioni e vittime…
Tanto più che questa strana riluttanza autorizzava ogni peggior sospetto verso i Ministri dimessi.
In tali frangenti mi determinai ad assumere, insieme a due egregi colleghi, l’avv. Spantigati, e l’avv.
Marini, la responsabilità dell’annunzio: redigemmo un breve proclama:
« Concittadini, il Re ha congedato i Ministri.
La prima giustizia è fatta.
Il generale Lamarmora è incaricato di formare il nuovo Ministero
Ordine e calma
Viva il Re. »
Mentre stavamo per pubblicarlo ci giunge avviso che il Comitato cittadino ha deliberato di dare esso la
fausta notizia ai cittadini, e noi gli cediamo volenterosi il passo.
Finalmente verso le cinque e mezza il Ministero si arrende alle vive e reiterate istanze del Municipio che
lo fa risponsale dei danni possibili, ed autorizza l’annunzio ufficiale della sua demissione; pochi istanti dopo
leggesi affisso per tutte le strade un estratto del foglio ufficiale che dice così:
86
« SUPPLEMENTO
ALLA GAZZETTA UFFICIALE
Sua Maestà avendo stimato conveniente che il Ministero attuale desse le sue dimissioni, questi le ha
rassegnate nelle Auguste Sue mani.
Sua Maestà ha chiamato S. E. il Generale Lamarmora per incaricarlo della formazione di un nuovo
Gabinetto. »
Il Sindaco a tranquillare maggiormente gli animi pubblica egli pure in termini quasi identici la notizia.
« Notizia Ufficiale
comunicata al Municipio alle ore 5 1/2
S. M. avendo giudicato conveniente che il Ministero attuale desse le sue demissioni, questi le ha
rassegnate nelle Auguste Sue mani.
S. M. ha incaricato S. E. il Generale La Marmora della formazione di un nuovo Gabinetto.
Torino, dal palazzo municipale, 23 settembre 1864.
Il Sindaco RORA’. »
Così il Ministero Peruzzi-Minghetti scivolava il 23 settembre ignominiosamente nel sangue per sua causa
versato il dì 21 e il dì 22.
LVIII.
Torino torna alla calma
Tanto bastò perché Torino, come per incantesimo, mutasse aspetto.
La lieta notizia ebbe in breve corso, e penetrato ogni via più lontana, ogni angolo più remoto, ogni più
oscura abitazione, fu una esplosione universale e concorde di soddisfazione e di gioia.
Non gioia rumorosa, sguaiata, insultante, ma gioia calma, serena, tranquilla.
Non la gioia maligna del vincitore che irride al vinto, ma il gaudio onesto di coloro che si vedono
scampati ad un comune pericolo.
Tale deve essere la gioia del navigante, quando, sorpreso da improvvisa e furibonda burrasca, ha visto il
naviglio sprofondar fra le acque, e aggirarsi disalberato fra gli scogli, e a un tratto, quando meno lo spera,
quando già s’è quasi rassegnato al naufragio, vedesi da un soffio amico di vento, strappato alle sirti, e
spinto in porto.
Gioia composta, ordinata, queta - queta, per modo che mai Torino fu deserta come in quella sera.
Abbenchè ormai la raccomandazione che avevano fatta il Sindaco e i Comitati di non uscir dopo le otto,
potesse parere, e veramente fosse superflua, pure tutti per un tacito accordo parvero dire a lor medesimi:
provi il nostro contegno stesso, la moderazione dei nostri desiderii; provi che la caduta del Ministero è per
noi, non un trionfo, ma uno scampo.
E al pari, e quasi oserei dire più ancora della stessa popolazione, esultò l’esercito a quell’annunzio,
esultarono i valorosi nostri soldati, e i prodi nostri ufficiali.
Schiavi del dovere e della disciplina, essi da due giorni bivaccavano per le piazze e per le strade di
Torino: bivaccavano le artiglierie, i cavalli, i fanti.
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E pesava sopra di essi un incubo tremendo…
Essi in atto di mesta e cupa rassegnazione attendevano gli eventi: essi che cento volte in faccia al
tedesco, e sulle orme dei briganti avevano sfidato la morte, essi numeravano trepidando le ore troppo
tarde e lente; essi stavano inquieti e angustiati in attesa di ciò che potesse succedere, paurosi che nuove
imprudenze e nuovi errori dei Ministri o artifizi ed equivoci di mestatori, o improntitudini e risentimenti
popolari provocassero una collisione, nella quale il loro dovere e i loro sentimenti sarebbersi trovati in urto
dolorosissimo…
E più di un ufficiale fu udito dire che se mai per isventura d’Italia le cose si spingessero tant’oltre che si
avesse l’ordine di attaccar il popolo, obbedirebbesi alla ferrea, inflessibile, inesorabile disciplina, ma
saprebbe trovar modo di cader esso fra le prime vittime…
La misericordia di Dio risparmiò alla nostra Italia questo disonore e questo cordoglio!
E se i casi del 21 e del 22 settembre suoneranno sempre per Torino un ricordo di ineffabile mestizia, non
sarà mai che in nome di essi possa comechessia animarsi o infiacchirsi l’affetto, la simpatia, la fede
incrollabile nelle virtù e nei meriti di quell’esercito, che rappresenta il fior della gioventù Italiana, e il quale
basta da solo a provare al mondo, che malgrado tutto e tutti, l’unità d’Italia è un fatto irrevocabilmente
compiuto.
LIX.
Notizie false diffuse nei giorni immediatamente successivi ai sanguinosi fatti di
Torino.
Il congedo dato dal Re ai Ministri del dicembre 1862, pose fine ai lutti di Torino. Bastò che Peruzzi e
Minghetti cessassero di essere Ministri perché tornasse la città alla sua calma primiera. Ma come avviene
dei fiotti del mare che eziandio dopo cessata la procella, perdurano per alcun tempo agitati e spumeggianti,
così l’influsso del male operato dal Ministero Minghetti - Peruzzi fece sentire le sue conseguenze anche
dopo il loro rinvio.
È da sapere come appo di noi l’agenzia telegrafica è in mano di speculatori che si trovano a discrezione
del Governo. E la rappresenta ora, dopo la morte del suo fondatore che fu il Guglielmo Stefani, emigrato
veneto, persona d’ingegno, di cuore e di probità esemplare, un altro veneto, certo Brenna.
È da sapere inoltre che Peruzzi e Spaventa, non guardando a spese per illuminare, com’essi dicevano, la
pubblica opinione, avevano costituito tutto un sistema di corrispondenze per i giornali delle provincie,
grazie al quale si eran procacciato il monopolio delle informazioni.
Or ecco il giorno 24 e 25 arrivare dalle provincie e dall’estero i giornali con i telegrammi e le
corrispondenze mandate di qui nei giorni 21, 22, e nel mattino del 23; telegrammi e corrispondenze nei
quali la verità era sfacciatamente adulterata per calunniare e vituperare la popolazione di Torino, quasi non
l’avessero già abbastanza martoriata il ferro e il piombo contro di essa rivolti da Peruzzi e Spaventa.
Ecco in quali termini il telegrafo aveva annunciati i fatti del 21
« Torino, 22 settembre. - Iersera la plebe si è ammutinata sulla piazza Castello alle grida di Viva Torino
capitale, ed essendosi sforzata la linea militare per entrare nel palazzo del Ministero, la truppa dovette far
uso delle armi; vi furono pochi morti e feriti. La città rientrò nella sua calma, ed oggi riprese il suo aspetto
ordinario. »
Un altro telegramma annunziava essersi firmata la « Convenzione colla Francia per lo sgombro graduale
del territorio pontificio da compiersi totalmente nei termine di anni due, coll’unico impegno per parte del
Governo Italiano di non aggredire, e d’impedire le invasioni del territorio pontificio. »
88
Poi si affermava che « la stampa liberale torinese dichiaravasi favorevole al trattato eccettuato un solo
giornale, e la stampa clericale; mentre invece la combattevano, fra i diari liberali, la Gazzetta del Popolo, il
Diritto, l’Italia, l’Esercente, il Soldo.
I casi del 22 erano annunziati così: « La sera rinnovaronsi i disordini. Avvennero altri attruppamenti con
grida sediziose: fu attaccato a colpi di fuoco e di pietre il palazzo della Questura le truppe stazionate in
piazza S. Carlo fecero fuoco. »
Tenevan bordone ai telegrammi i giornali salariati dal Ministero. - Così l’uno di essi scrivea alla Gazzetta
di Milano che a Torino « una mano misteriosa fa dispensare a migliaia i ritratti in fotografia del Minghetti,
del Peruzzi, dello Spaventa, affinché la plebe li impari a conoscere, vittime designate ai sicari. »
Ai diari Toscani scrivevano che il popolo Torinese, durante le dimostrazioni, gridava abbasso Firenze.
E il corrispondente torinese dell’Omnibus di Napoli, che si dice essere un tale T… impiegato al Ministero
dell’interno, scrive a:
Ex-Provvisoria, 21 settembre.
« Sono le 11 di sera. Entro in casa con l’anino contristato e conturbato per le turpitudini. Il sangue
cittadino si è versato: e pur non pertanto Torino si è bruttata di fango. Torino, la pacata città, che gettavasi
in faccia alle altre città d’Italia a modello di senno civile, si ha strappata la larva. I vantati suoi 10 anni di
educazione politica erano un’ipocrisia. Come il ladro che non ruba per mancanza di occasione propizia, la
città della Dora era tenuta per non peccatrice sol perché il serpente non ancora l’aveva stuzzicata.
Oggi si radunava alle due il Consiglio municipale, ed una gran calca ne aspettava l’oracolo sotto i balconi.
Stanchi forse di attendere, e come diversivo, hanno creduto bene verso le due fare una passeggiata
preceduti da bandiere, e si son diretti in piazza San Carlo. Una parte è andata ad insultare la tipografia ove
si stampa la Gazzetta di Torino, un’altra si è diretta a pochi passi a chiassare dinanzi alla questura. Le
guardie di Pubblica Sicurezza insultate (falso) hanno reagito ed hanno arrestati due o tre, ferendone
altrettanti. A ciò una pioggia di sassi di lunga durata ne ha rotto i vetri e sconquassati gli stemmi con la
croce Sabauda (falso). Credo che la questura sia stata debole dopo ciò, perché ha restituito i prigionieri e le
bandiere!
Innanzi di procedere oltre nei fatti più positivi, vi dirò che a voce alta si dice che questi tumulti sono
fomentati dai preti, dai padroni di case, dai banchieri - dagli Ebrei (falso). In verità la tema e il dolor della
fine della grassa cuccagna è acerba pei non pochi interessati: e nove decimi di Torino da quattro anni a
questa parte hanno più o meno onestamente speculato sulla propizia occasione della Provvisoria. Se non
che il dolce interesse, l’abito dei guadagni, l’inaspettata fortuna li aveva assopiti in questa precaria
condizione; e la nebbia politica dei tempi presenti faceva lor vedere sì lontana Roma, che essi si erano
addormentati nella lusinghiera credenza che la provvisoria era eterna!
Il fragore del tuono del nuovo trattato li ha destati con un soprassalto, come la serpe al primo tuono di
marzo. Tutti i ripieghi, tutte le calunnie sono state messe in opera. Vassallaggio alla Francia, cessione
dell’Italia cisalpina, rinunzia a Roma! e che so io. Ed eccoti che qualche migliaio di irriflessivi schiamazzatori,
senza aspettar di conoscere per bene le condizioni del trattato, non curando i vani consigli di generali per la
maggior parte piemontesi, sconoscenti al loro Re che pur dicevano di amare, superiori alle imminenti
discussioni del sacro Parlamento pretendono imporre a 22 milioni di Italiani, i quali tutti hanno gioito al
fausto annunzio. Auri sacra fames! Oh la potenza dei 5 franchi! Ma che perderà Torino? Non rimarrà
sempre arcimeglio di quello che era quattro anni fa?
Dopo il fatto della questura di quest’oggi, la maggior parte delle principali botteghe del ghetto si son
chiuse, e grossi stuoli di gente d’ogni condizione percorreva Dora Grossa, piazza Castello, via Nuova e si
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fermava in piazza San Carlo, ingrossata sensibilmente dai curiosi di ogni sesso ed età. Quivi alle 8 di sera
sono ricominciati gli urli, i fischi e gli applausi.
Da prima la Guardia Nazionale è stata indistintamente fischiata (falso) ed applaudita; ma poco dopo il
suo apparire, e dopo aver permesso sotto i suoi occhi ed al suo fianco che a colpi di pietre fosse scassinata
la porta della Tipografia della Gazzetta di Torino e rottine i vetri, ha posto i kepì sui moschetti e si è ritirata
indifferente (falsissimo). In poco d’ora la detta piazza è stata quindi occupata dai bersaglieri, dai carabinieri,
dalla truppa di linea e dai lancieri a cavallo; essendosi fatto venire in fretta dal campo di S. Maurizio quindici
mila uomini. Io ne era spettatore dai gradini della statua di Emmanuele Filiberto. Mi pareva che tutti quei
bravi e prodi soldati avessero dei guanti di seta alle mani, e fossero condotti da un filo di bambagia, tanto
era grande la loro pacatezza e longanimità per gli assordanti fischi che avrebbero scosso un macigno.
Intanto sotto i portici continuava il baccano contro la taciturna Tipografia. La truppa dopo le 3 intimazioni di
rito procurava con bel garbo spazzare la vasta piazza dalla gran folla di temerari e di curiosi; i quali tutti,
come ad un giuoco di fanciulli, disertavano un quadrato per ripopolarne un altro, imperterriti dietro dei
cavalli e dei moschetti. Ma poi, come se ciò fosse stato poco, in un momento la piazza è stata seminata di
grossissimi basoli, tolti all’attigua strada di S. Teresa che è in costruzione; per tal modo la fanteria veniva
alquanto impacciata a marciare in file serrate, la cavalleria dopo poco era moltissimo impedita da questo
nuovo genere di barricate. Lo scappare, ossia il fuggi fuggi, era all’ordine ad ogni momento.
Intanto i Ministri erano tutti radunati al Ministero dell’Interno, guardato internamente ed esternamente
da doppie file di carabinieri. I tamburi della Guardia Nazionale suonavano la generale accompagnati da
fischi e schiamazzi: ma assai pochissimi hanno risposto al grave appello, ossia soli 150. Poco prima delle 10
1/2 era terminato un meeting in piazza d’armi, e la turba preceduta da bandiere, dai tamburi della G.
Nazionale (falsissimo), (erano i tamburi che dovevano battere la generale) si gettarono in piazza S. Carlo
forzando i cordoni della truppa. Molti si recarono in Borgo Nuovo e Via Barbaroux a scassinare alcune
botteghe di armaioli e quivi si provvidero di armi e di munizioni, disarmando una sentinella in piazza
Carlina, ed irruppero da ultimo in piazza Castello per assalire i Ministeri. Uno di essi fu il primo a tirare un
colpo di revolver contro uno dei carabinieri (falso), al che questi risposero con due colpi isolati, e poi con
una scarica di fila, ma in alto. La turba allora a fischiare di nuovo e a gridare: Oh tirano in aria! e quindi
nuovi tentativi di aggressione (falso). Ma la seconda volta i carabinieri tirarono per bene ed a giusta misura,
e si deplorano vari morti e feriti. Il resto a domattina. »
E all’indomani scriveva:
« 22 settembre.
Riprendo la penna. Le botteghe sono chiuse anche quest’oggi Per ora non vi sono dimostrazioni (è l’1
1/2) ma spessi capannelli di curiosi percorrono le vie. Si va a curiosare sotto i portici di S. Carlo per vedere i
danni fatti alla Tipografia, e al bel caffè, ove il questore era stato maltrattato.
Si osservano in piazza Carignano le ceneri dello stemma bruciato e tolto alla porta della Camera
(falsissimo). Sotto i portici della fiera si guardano presso il caffè Dilei e la bottega Bellom le palle incastrate
nel muro, e qualche striscia di sangue.
Si dicono 8 i morti e una 30a di feriti. Un carabiniere fra l’altro pesto di sassate, un uffiziale morto di
stiletto, infine della armata, 6 tra morti e feriti, i più carabinieri (falsità atroci).
Si diceva poco fa che molti dei dimostratori, che or sono tutti armati, volevano andare verso il
Camposanto; ma se vi si recano troveranno un battaglione di linea, incaricato del buon ordine ad ogni
costo. Si spera che la truppa farà il suo dovere.
La Guardia Nazionale era tutta convocata sotto le armi ma ben pochi sono accorsi. Essendo sprovveduta
di munizioni, n’è stato loro certamente offerta (falso) il che, Dio non voglia, importerebbe un conflitto con
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la truppa. La Guardia Nazionale è palesemente opposta al Governo, ed è col popolo di piazza: anche la
seduta del Municipio di ieri ha mostrato quanto gl’interessi peculiari prevalgono sull’interesse della patria.
Si fa correre voce che da Genova specialmente debbano arrivare con la ferrovia vari mazziniani. Ma di
questi non vi ha bisogno, credo, quando Don Margotto fa il Masaniello fra i tumultuanti insieme a Don
Ambrogio rosso e neo protestante; e quando i fabbricanti di case hanno di botto sospesi tutti i lavori, e
gettati arrabbiati sulle piazze da 25 a 30.000 operai! (falsissimo)
I teatri sono tutti chiusi per questa sera. Una sottoscrizione è annunziata con affisso per le vittime della
sera del 21 settembre.
Il gran conforto reale e supremo è che Vittorio Emanuele in tutto e per tutto si è mostrato italiano.
Vari affissi delle diverse Società operaie invitano a tener le botteghe aperte, e dicono parole sagge e di
calma.
Sono giunte tutte le tre divisioni di truppa: ma vi è da credere che non succeda nulla. Auguriamocelo pel
bene di questa povera Italia! »
E proseguiva in altra lettera:
« Torino, 22 settembre.
Una questione di campanile ha dunque potuto cancellare ogni sentimento di nazionalità in persone che
hanno fatti tanti sacrifici! E sì che la questione di campanile per gente che sia un po’ addentro nelle cose
non è grave, poiché voi pure sapete che a Firenze non si trasporta che poco, pochissimo, il puro centro, e
ancora più nominale che di fatto: il trasporto di fatto non si farà che a Roma - a Roma alla quale i Torinesi
furono sempre i primi ad aspirare - a Roma per cui in tutta Italia, in tutta Europa si scrive e decanta da
quattro anni, che Torino è disposto a fare con volto sereno il sacrificio. E la Gazzetta del Popolo, dopo avere
negli scorsi giorni versato tanto fiele ai Torinesi, annunzia stamane con cinica sfacciataggine che i
carabinieri hanno fatto fuoco sopra la popolazione che passeggiava in piazza Castello - E i 22 carabinieri
feriti prima che si tirasse, dove li mette la Gazzetta? E le 10 carabine prese dai bersaglieri d’indosso a’
tumultuanti in piazza S. Carlo erano anche cannini di signori che passeggiavano? È una vergogna che si osi
così indegnamente travisare i fatti - E quanti fatti non sonosi inventati di questi giorni per agitare la pacifica
Torino! Se io vi dicessi che si è fatto anche correr voce che tra i patti segreti della Convenzione vi sia la
cessione del Piemonte alla Francia, lo credereste? Eppure è così. Ma di queste voci vi parlerò altra volta,
poiché se avessi a vuotare il sacco non finirei per la partenza del corriere, e voi non avreste spazio
sufficiente nelle vostre colonne.
Ritorno adunque al principio della mia corrispondenza, alle Autorità cioè che agirono male, o non
agirono abbastanza in questi disordini. E non posso passar sotto silenzio il biasimo che si fa da molti al
Municipio ed al Comando della G. N. Il primo doveva ieri dopo i primi rumori del meriggio in piazza S. Carlo
fare appello alla popolazione ed alla Guardia Nazionale; il secondo doveva corrispondere all’invito
officialmente, e con ogni mezzo di persuasione fatto dal Ministro dell'interno di accorrere colla Guardia
Nazionale, ed evitare che si trovassero petto a petto popolazione e truppa. E qui mi si drizzano i capelli al
pensare che vi è chi sparge anche la voce che il Ministero ha rifiutato il concorso della G. N., mentre vi so
dir io, e lo so per mezzo di un colonnello, che furono ieri mattina tutti chiamati col generale per invitarli a
chiamare le legioni sotto le armi quando ne fosse stato il caso. Oggi vi sono bensì due proclami del Sindaco
ai cittadini ed alla G. N., ma non sono abbastanza forti - Eppoi è tardi!!!
- Il sangue fu versato - E la responsabilità ne deve cadere su quelli che avrebbero potuto e dovuto
impedirlo.
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I Ministri restarono fino alle 7 di stamane al Ministero onde deliberare sul da farsi. Com’è naturale, fu
unanime il consiglio che il Governo dovesse essere Governo, né cedere ai rumori di piazza. Le truppe giunte
dal Campo di San Maurizio, accampate in piazza Castello e piazza S. Carlo, guarentiscono il Governo, e
dovrebbero insieme alle tristi memorie dei disastri succeduti tener calma la popolazione. Speriamo che sia
così - Ma prima speriamo nell’opera dei buoni Torinesi, e nel concorso della Guardia Nazionale!
P. S. Vi dirò ad aures proprio che vi è un sospetto politico faustissimo - Mi è stato confidato che
l’Imperatore Napoleone tratti per la cessione della Venezia - A quali patti, in che speranza di riuscita, chi lo
sa - E una voce di buona fonte (menzogna).
Imposterò questa alle 4 - se vi saranno novità le aggiungerò alla corrispondenza. »
« Torino, 23 settembre.
« Dai giornali saprete i nuovi luttuosi fatti di ieri sera. Nuovo sangue! Però quel fatto non è più politico:
esso è una conseguenza sì dei fatti precedenti, ma non già una continuazione. Tutto prometteva fino alle 9
che non vi sarebbe stato nulla; quando una frotta di plebaglia si pose a scagliare una grandine di sassate
contro i carabinieri ch’erano nella questura, e tirarono due colpi di revolver, contro di essi. I carabinieri
risposero; e la truppa di linea, accampata nella piazza S. Carlo, credendo le fucilate da parte del popolo,
rispose anch’essa. Da ciò vari feriti tra la truppa, tra cui il Colonnello del 17°, poi morto. Sui morti e feritii
furono trovati revolvers, pugnali, proclami con Viva la Repubblica e Viva l’Austria (atroce e infame falsità).
Vari cartelli scritti col carbone furono affissi questa notte con Viva l’Austria. Vedete dunque che non è più
nettamente la questione della capitale, ma sono i partiti estremi che ne traggono profitto »
A questo modo impiegati del Governo scriveano la storia dei casi di Torino alle provincie meridionali,
ricevendo in premio della opera nefanda il denaro dei fondi segreti da Peruzzi e Spaventa!!
A questo modo essi dipingono i nostri popolani come uomini feroci, sanguinari, che scendono in piazza
armati sino ai denti mentre, notate questo, sopra nessuno dei nostri morti o feriti fu trovata un’arma da
fuoco, o da taglio.
Il Lombardo, giornale milanese, stampava una lettera del 21 nella quale si diceva « il morale della truppa
è esacerbatissimo: le provocazioni ricevute, l’eccidio dei camerati, e l’assassinio proditorio di due ufficiali le
fanno uscir di bocca propositi di sangue… »
Infami calunnie colle quali si cercava disonorare a un tempo e la infelice popolazione Torinese, e il
generoso esercito Italiano.
A nome del quale con nobile indegnazione rispondeva un giornale militare, lo Esercito illustrato:
« Noi protestiamo contro tali calunnie: È menzogna l’assassinio di due ufficiali, come è vile menzogna
l’esacerbazione della truppa.
Essa deplora i fatti successi, che se è sempre pronta a dare la sua vita in difesa della patria e contro i
nemici d’Italia, il suo animo rifugge dal versare sangue cittadino. Ed il suo contegno nella sera del 22 in cui
sotto i portici di San Carlo fece schermo del suo petto alla popolazione fuggente, e gli ufficiali che si
lanciarono, a rischio della loro vita, dinanzi i soldati per far cessare il fuoco, sono una brillante prova che il
corrispondente del Lombardo mentisce, non sappiamo per quale interesse.
A parer nostro il corrispondente del Lombardo potrebbe guadagnar meglio i denari, servendo causa
migliore che non quella di denigrare la città che lo ricetta, e d’insultare l’esercito, solo che si rammentasse
che è corrispondente di un giornale italiano e non austriaco. »
E veramente servivano gli interessi austriaci a danno del nome e delle forze italiane, telegrammi e
lettere dell’indole di quelle che da Torino spedivano Peruzzi e Spaventa, imperocché esse erano una
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ardente e terribile face di discordia gittata in mezzo alle varie provincie del Regno, dalla quale poteva
divampare un incendio che niuna forza umana basterebbe a dominare.
E difatti ne avveniva per una parte che oltre il Ticino ed oltre il Po si accendessero gli animi contro il
Piemonte, per quelle false informazioni creduto ribelle alle leggi e al Principe, e per sordido municipalismo
parato a sagrificare gli interessi generali della Nazione ai comodi suoi locali. E di qui avveniva che i diari
della Lombardia, dell’Emilia, della Toscana, del Mezzodì ci prodigassero i rimproveri, le censure e gli
oltraggi.
E d’altro canto la popolazione torinese che già aveva sofferto così ingiusti soprusi e così acerbi danni dal
Ministero, nel vedersi fatta segno per soprassello a quei biasimi immeritati, s’irritava da capo, e
ricominciava a rumoreggiare.
Tanto più che il Generale La Marmora avendo incontrato taluna difficoltà nella formazione del
Gabinetto, per modo che passassero parecchi giorni senza che riuscisse a costituirlo, andò attorno la voce
che gli ex ministri sperando tornar essi, s’infervorassero ad accrescere ed aggravare le difficoltà.
Il che bastava a porre di nuovo la città in combustione.
Il Municipio era impotente a provvedere in quest’ordine di fatti.
I vari comitati di cittadini davano opera assidua a mantenere calma la popolazione con buoni consigli e
savie esortazioni: e s’ingegnavano di rettificare gli errori e le calunnie contrapponendo manifesti e proclami
ed indirizzi.
Ma questi rimedi non toccavano la radice del male, che era in questo: non potersi sperare di far finiti gli
equivoci e le provocazioni finché, rimanendo in ufficio i Ministri caduti, e in ispecie il Peruzzi e lo Spaventa,
potevano essi disporre a capriccio e senza coscienza del telegrafo e dei fondi segreti.
Preoccupatisi di ciò i deputati e senatori presenti a Torino tennero un’altra riunione, e in questa, dopo
ventilate nuove proposte, quali più, quali meno radicali e ardite, si conchiuse infine di eccitare il Generale
La Marmora a prendere subito possesso del Ministero anche solo a titolo provvisorio; il che egli fece la
domenica 25 settembre. E fu di spinta a tale deliberazione il risultato di una indagine praticata in seguito a
mozione dell’onorevole Bargoni, da una Commissione di tre deputati (Bargoni, Montecchi, e Boggio) presso
l’agenzia telegrafica, dal quale apparve dimostrato in modo incontrovertibile che per opera di Peruzzi e
Spaventa venivano i telegrammi che si spedivano in provincia, manipolati prima, non secondo la verità, ma
in quel modo che meglio convenisse ai loro subdoli fini.
Confessò cioè candidamente il Brenna che essendogli stata impedita la trasmissione di talun dispaccio
conforme al vero, egli se ne richiamò al Ministero, osservandogli che di tal maniera si recava pregiudizio
grande allo esercizio della sua industria. E l’esito de’ suoi lagni fu, che per suo consenso, rimase inteso
modificherebbonsi, o formolerebbonsi i dispacci sì e come piacerebbe al Ministero dello Interno, affinché
avessero sempre il colore politico a lui conveniente.
La quale rivelazione somministrando la prova legale di ciò, che già del resto era nella persuasione di
tutti, abusare Peruzzi e Spaventa anche del telegrafo per accendere le passioni in tutta Italia, ne fu dimostra
ad un tempo la urgente necessità che tale efficacissimo mezzo di azione venisse loro sottratto.
La presa di possesso dei dicasteri animosamente compiuta da La Marmora e Lanza, prima ancora di
essere riusciti a costituire il nuovo Ministero, pose fine, come agli abusi di potere dei ministri dimessi, così
alle inquietudini e preoccupazioni funeste della nobile e disgraziata Torino.
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LX.
Olivier è invitato a formulare un proprio giudizio sui fatti narrati
Ed ora che vi ho per filo e per segno esposte, ne’ loro più minuti particolari le vicende della mia città
durante i lagrimevoli casi del 21 e 22 settembre; ora che vi ho messe sott’occhio le cause che li
prepararono, le circostanze in mezzo alle quali si svolsero, le conseguenze che è pur troppo facile
prevederne, ora, dico, che vi sta sotto gli occhi questo quadro completo, che cosa dite, Emilio Olivier, delle
molteplici accuse che fornirono a voi l’occasione di far tante domande, a me quella di rispondervi?
Si può accusare Torino di avere turbato l’ordine, violata la legge, tentata la insurrezione, quando la
severa, minuta, coscienziosa inchiesta ha dimostrato che le pacifiche riunioni di cittadini autorizzate dallo
Statuto, praticate in tutte le città d’Italia, tollerate in questa Torino medesima fin dai tempi dell’assolutismo
dei Latour e dei Lazzari furono aggredite da agenti di pubblica forza avvinazzati e dissennati per modo che si
ferivano finanche fra di loro, e doveano all’indomani essere sciolti, e cacciati via ignominiosamente dallo
stesso Peruzzi, che tentò, ma troppo tardi, riabilitarsi con questo atto di giustizia postuma?
Imperocché questo è appunto il sintomo predominante in tutto il viluppo dei dolorosi casi di Torino:
essi, ormai lo sapete, ripetono la loro origine dalle prime provocazioni in Piazza San Carlo nel pomeriggio
del 21.
Tant’è vero che queste provocazioni furono ingiuste e ingiustificabili, che il corpo degli Agenti di
Pubblica Sicurezza che se ne rese colpevole fu sciolto, e non dal Ministero presente, ma da Peruzzi stesso.
Si potrà dubitare tuttavia della buona volontà, dello zelo, e della operosità della Guardia nazionale?
Risponde ad ogni accusa questo fatto.
Posdomani si riunisce in Torino il Parlamento: alla Guardia nazionale di Torino è affidata, ad essa sola, la
difesa e la sicurezza di quei deputati medesimi che qui convengono posdomani per decretare e rendere
irrevocabile la decapitazione di Torino.
E il Ministero nel dare questa prova della sua fiducia alla nostra Guardia Nazionale le rivolge queste
parole, giusto compenso alle calunnie delle quali essa venne fatta segno.
« Approssimandosi il giorno fissato per la riapertura delle Camere legislative, e gravi essendo le
questioni che devono essere trattate nel seno della rappresentanza della nazione, il governo, quantunque
ritenga che non vi sieno fondati motivi di serii timori, sente però il dovere di prevenire con acconce
disposizioni le dimostrazioni inopportune, che potrebbero essere usufruttate dai mestatori di disordini e
dare occasione a tumulti ed a più disastrose conseguenze.
Esso confida pienamente nella generosità e nel senno di questa patriotica popolazione e intende di
riporre la sua intera fiducia nella Guardia nazionale, che nell’adempimento della importante missione
affidatale dalla legge di tutelare la tranquillità pubblica, seppe in tanti incontri dare luminose prove di
coraggio, di fermezza, di prudenza e di abnegazione. »
Il Municipio ha desso ecceduto i limiti delle sue attribuzioni?
Voi avete sott’occhio tutti i proclami che esso venne pubblicando: giudicate.
Dite se sia in essi una parola, una sillaba che non suoni pace, calma, ordine…
Voi avete inoltre sott’occhio la relazione delle continue istanze fatte dai ministeri al Municipio affinché
parlasse al popolo; voi avete gli articoli dei giornali del ministero, l’Opinione, la Stampa, che si
raccomandano al Municipio affinché usi la sua morale autorità, mostrandosi e indirizzandosi alla
popolazione. Anzi, voi avete più che questo: avete il proclama del prefetto di Torino, che per incarico del
ministero, la sera del 22 settembre, esorta la popolazione ad affidarsi nel Municipio, e dichiara che questo
degnamente e LEGALMENTE la rappresenta.
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- Ma intanto il Ministero è caduto, e caduto sotto la pressione della piazza, è caduto in faccia alle
proteste del popolo di Torino.
- No, mio caro Olivier, il ministero non fu rovesciato dalla pressione della piazza, e molto meno dalla
iniziativa del popolo o del Municipio di Torino - il ministero è scivolato nel sangue da lui sparso…
Quella perfidia medesima che aveva tentato disonorare il Sindaco di Torino offerendogli, per ottenere la
sua adesione alla decapitazione della sua città, il lauto compenso di una prefettura a Napoli: quella perfidia
medesima la quale dopo che era nota a tutti la sdegnosa ripulsa data da quell’egregio e generoso cittadino degno rappresentante di quella aristocrazia piemontese che ci diede nel 1821 i Lisio, i Collegno, i Santa
Rosa, e nel 1848 i Balbo, gli Azeglio, e Camillo Cavour - quella perfidia medesima che tre giorni dopo il suo
rifiuto insinuava ancora nei giornali che egli disporrebbesi infine ad accettare la Prefettura; - poté
benissimo accusarlo, con nuova e peggiore calunnia, di avere dall’alto del balcone municipale annunziato il
congedo dato dal Re ai ministri colle parole che sarebbero state stoltamente ciniche Torino ha vinto; - ma
ormai è palese come questo eziandio non sia stata che una insidia di più tentata da quei ribaldi, i quali,
dopo avere rovinato Torino negli interessi avrebbero ancora voluto rovinarla nella reputazione, onde aprirsi
così la via a nuove e maggiori rovine nelle quali andassero travolte la unità d’Italia e la dinastia.
LXI.
Boggio difende il comportamento di Torino
Ma non riusciranno, ve ne sto garante, non riusciranno.
Invano il giornalismo di quasi tutte le città italiane, ingannate a quel turpe modo che vi narrai, ci getta in
faccia ad ogni momento l’insulto e la provocazione.
Noi diciamo colla sublime parola del Cristo al Golgota: perdonateli, non sanno quello che fanno.
Nol sanno, sono illusi, sono traviati da indegni artificii: ma il tempo è galantuomo, il tempo farà giustizia
a tutti, e non andrà guari che ai nostri insultatori d’oggi rimorderà inesorabilmente la coscienza di avere in
un momento di parossismo, creduto possibile che la città, la quale da sedici anni insegna all’Italia la virtù
del sagrificio, volesse ora a un tratto smentire tutto il suo passato.
E come queste ingiustizie dei nostri connazionali non ci commuovono, così non ci seducono gli elogi, le
lusinghe, e le moine che ci prodiga Mazzini, parato sempre a profittare degli errori altrui per sagrifìcare
nuove vittime agli incorreggibili suoi vaneggiamenti.
Agli uni ed agli altri Torino oppone la calma della rassegnazione.
Torino è fin d’ora pronta al nuovo e supremo sacrificio.
Torino si è commossa al primo annunzio dell’inaspettato evento, perché Torino ha compreso che il
trasporto della capitale a Firenze significa la rinunzia a Roma.
Torino non ha creduto e non crede alla sincerità della convenzione 15 settembre, perché subordinare lo
evacuo di Roma alla scelta di un’altra capitale è togliere con una mano ciò che si finge concedere coll’altra.
Torino, città schiettamente costituzionale, non ha potuto, non ha voluto ammettere che fosse in facoltà
di pochi Ministri il compiere, senza il Parlamento, un fatto, le conseguenze del quale sono incalcolabili.
Torino si è inquietata e offesa per il modo veramente villano e brutale col quale il Ministero MinghettiPeruzzi tentò consumare un’opera che la più volgare prudenza, se non i riguardi dovuti a quanto fece sin
qui Torino per l’Italia, consigliavano dover essere, preceduta da una larga e savia preparazione.
E quando alla sua meraviglia, ed ai suoi lagni fu risposto colle provocazioni insolenti della sbirraglia, e del
giornalismo ministeriale, collo spargimento del sangue dei suoi vegliardi, dei suoi fanciulli, e delle sue
donne, Torino si è sdegnata, Torino ha maledetto il nome di Minghetti, di Peruzzi e di Spaventa - Torino ha
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protestato in faccia a Dio ed agli uomini; ricada quel sangue sul capo agli uomini malvagi o inetti che lo
hanno fatto spargere…
Ma Torino non ha preteso mai di imporre la sua volontà all’Italia.
Torino ha negato e nega ad un Ministero, qualunque esso sia, il diritto di risolvere a capriccio il grande
problema della convenzione 15 settembre. Torino piegherà il capo ossequiosa alla volontà, qualunque essa
sia, dell’Italia riunita in Parlamento.
LXII.
Unico interesse di Torino è l’Unità Nazionale
Poche ore ormai ci separano dal giorno solenne in cui i rappresentanti di tutte le provincie Italiane
sederanno di nuovo nel palazzo Carignano a librarvi colle sorti di Torino quelle di tutta Italia.
Vengano, vengano fiduciosi all’augusto convegno.
Bando ad ogni sospetto, ad ogni preoccupazione.
Il popolo di Torino sta garante per essi.
Il popolo di Torino non avrà per essi che rispetto e simpatia, comunque esso giudichi il voto che eglino
intendono deporre nell’urna.
Il popolo di Torino sa che niuna peggiore sventura potrebbe augurargli il suo più accanito nemico, se
non quella appunto che entro le mura della sua città soffrissero alcuno sfregio i rappresentanti della
Nazione.
Il popolo di Torino veglierà esso medesimo sui tristi che da altri luoghi potessero qui mandare i comuni
nostri nemici, per seminarvi il disordine.
Il popolo di Torino farà scudo di sé contro chiunque ai deputati dell’Italia.
Se Torino non dovrà più essere quind’innanzi la sede del Parlamento nazionale, Torino vuole che almeno
in qualunque tempo, e in qualunque altro luogo i deputati dell’Italia possano dire che a Torino niuna offesa
hanno mai sofferto la libertà e la indipendenza delle loro parole e del loro voto.
Esempio unico nella storia del mondo sarà questo di una città che assiste calma e tranquilla alle
deliberazioni del Parlamento dalle quali può uscire la propria decapitazione…
Ma la storia dirà eziandio che Torino era città degna di dar questo esempio al mondo.
E noi intanto vi diremo: pesate il vostro voto, pesatelo scrupolosamente: pensate alla unità nazionale,
pensate alla dinastia…
Che se il vostro voto imparziale, ponderato, scrupoloso, sarà, o Deputati d’Italia, l’approvazione di quella
convenzione che Torino credette, che Torino crede tuttavia fatale alla Nazione ed alla dinastia, la nostra
popolazione piegherà mesta sì e dolente, ma rassegnata e calma, il capo ai vostri decreti.
E s’alzerà da tutti i nostri cuori la preghiera a Dio, bastino i lutti di Torino a sperdere ogni augurio
funesto all’Italia!…
Torino, 22 ottobre 1864.
P. C. BOGGIO
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