CAMBOGIA una notte d’orrore. Testo e foto di GIOVANNI PORZIO - il Venerdì di Repubblica 29 Agosto 2014 SIHANOUKVILLE. Si fa portare un'altra birra. Scambia due parole in khmer con la meebon, la tenutaria del barbordello, poi si attacca alla bottiglia. È da un po' che lo osservo: francese, sulla sessantina, viso scavato, barba incolta e i radi capelli grigi annodati sulla nuca. Dev'essere un habitué perché le ragazze non lo filano, indaffarate a farsi il trucco, a pettinarsi e a chattare sul telefonino. La notte è appena cominciata nelle bettole del porto di Sihanoukville: la meebon frigge il pesce in una padella annerita, le ragazze si sistemano sulle seggiole di plastica in attesa dei primi clienti e il barang, lo straniero, pagata la tariffa scompare dietro una tenda nel retrobottega. «Qui gli avventori sono di bassa lega» spiega Youn, che mi fa da guida nel sordido sottobosco della prostituzione cambogiana. «Operai, scaricatori del porto, guidatori di tuk-tuk, poliziotti e pensionati europei a caccia di minorenni. Il prezzo per un'ora di sesso non supera i 5 dollari. Ma sono più del salario giornaliero di un insegnante delle scuole elementari!». Salgo sulla moto di Youn per un giro nei quartieri a luci rosse. La zona dei karaoke è frequentata da cinesi e cambogiani. Nel parco di Victoria Hill bazzicano i lady boys e gli spacciatori di amfetamine, mentre i barang con il portafoglio grasso scandagliano i locali del centro, i bistrò sul lungomare, i massage parlour e le discoteche: le ragazze sono più care, ma masticano qualche parola di inglese. La Cambogia è una delle principali piattaforme del traffico internazionale di esseri umani: il terzo mercato al mondo più redditizio dopo quello delle armi e della droga. Ed è in rapida espansione. Le vittime della tratta, stimano le Nazioni Unite, sono 2,7 milioni, di cui l'80 per cento bambini. Ogni anno almeno 33 mila persone, secondo il dipartimento di Stato americano, vengono illegalmente trasportate oltreconfine. E la Cambogia, che ancora fatica a superare il trauma del brutale genocidio perpetrato dai Khmer rossi negli anni Settanta (il 20 per cento delia popolazione massacrata, il tessuto famigliare e sociale distrutto, milioni di contadini ridotti in miseria), è al tempo stesso il terminale e uno dei grandi serbatoi dello sfruttamento sessuale dei giovani e dei minori. Talvolta la magistratura si muove. In marzo un pedofilo inglese, Richard Fruin, 36 anni, è stato condannato a due anni di galera per avere abusato di tre fratelli di 8,10 e 11 ann i. Nel 2010 è stato arrestato il figlio di un diplomatico russo che si divertiva con le bambine. Ma sono casi sporadici, a beneficio dei media. «L'industria del sesso gode di protezioni ai più alti livelli» denuncia Mu Sochua, ex ministro degli Affari femminili, oggi attivista nel partito dì opposizione Sam Rainsy. «La maggior parte dei consumatori è cambogiana; sono coinvolti militari, poliziotti, funzionari dell'amministrazione, ricchi businessmen». La chiusura di alcuni bordelli a Phnom Penh, nel quartiere di Svay Pak, si è tradotta in un incremento delle attività underground, facilitate dalla crescente diffusione di internet, dei social network, dei cellulari e della messaggistica istantanea, ampiamente utilizzati dai trafficanti di sesso e di droga e dai loro clienti. Un rapporto di Ecpat (acronimo per End Child Prostitution, Abuse and Trafficking), la rete internazionale di Ong creata nel 1995 per contrastare lo sfruttamento sessuale dei minori, chiarisce molti aspetti di questa piaga cambogiana. «L'endemica corruzione» si legge «ostacola la lotta alla criminalità e contribuisce ad alimentare il clima di impunità... Alti dirigenti della polizia percepiscono mazzette dai tenutari dei bordelli in cambio dì protezione... La subordinazione della magistratura al potere politico, la debolezza del sistema legale, il timore di rappresaglie e l'assenza di tutele per le vittime impediscono che sia fatta giustizia». Nel suo libro II rumore dell'erba che cresce Marco Scarpati, fondatore di Ecpat-Italia, racconta come nel 1997 riuscì a comprare tre bambine in un bordello di Phnom Penh: il tenutario cinese gli fornì regolare ricevuta con la dicitura «ragazze vendute». A cercare i minori di 18 anni e le bambine sono soprattutto i clienti locali e asiatici, spinti dalla folle credenza che fare sesso con una vergine potenzi la virilità e sia un antidoto al virus dell'aids. Col risultato che le donne rappresentano oggi più della metà dei cambogiani infettati da Hiv e che il contagio si verifica in età sempre più precoce. Sono spesso i genitori, analfabeti, alcolizzati, in condizione di estrema miseria, a vendere i propri figli ai trafficanti. La crescita economica dell'ultimo ventennio, centrata sulle zone urbane e sui settori trainanti del turismo, del tessile e delle costruzioni, non ha sfiorato le zone rurali dove vive l'85 per cento della popolazione. Il sistema scolastico, azzerato dai Khmer rossi, è di infimo livello e nelle aree più remote solo il 3,9 per cento degli adolescenti ha accesso alla scuola secondaria. La selvaggia deforestazione e la scriteriata svendita dei terreni agricoli spinge i contadini, un tempo autosufficienti, nelle squallide baraccopoli alla periferia delie città, dove la sopravvivenza dipende dal denaro racimolato dai figli: bambini che mendicano, ragazze che lavorano nei karaoke bar, nelle discoteche. E nei bordelli. Le più fortunate hanno un posto in fabbrica. Le vedi arrivare dalla provincia alle 5 del mattino, pigiate nei cassoni di decrepiti camion, su malandati furgoni o stipate sui remork, versione autobus dei tuk-tuk. Operaie dai visi infantili, con sgargianti fazzoletti sul capo e un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia. Per 100 dollari al mese sgobbano fino al tramonto sotto i tetti di lamiera arroventata dei capannoni industriali. Tessuti, borse, camicette, scarpe. Nelle bidonville bambini e genitori lavorano in nero: ogni baracca ha un telaio o una macchina da cucire. Clot Sophy, 45 anni, 4 figli, marito disoccupato, cuce borse per Baskets of Cambodia, una linea per l'esportazione negli Usa. Una borsa, 2 dollari: ne fa un paio al giorno. Una giovane prostituta, se va con i barang, può fare 200 dollari in una notte. Gli stranieri affollano le località turistiche. E dove ci sono i turisti fiorisce l'industria del sesso. Siem Reap, dove sorgono dalla giungla le straordinarie rovine dei templi di Angkor e le megalitiche vestigia dell'impero khmer, richiama ogni anno oltre un milione di visitatori. Le strade luccicano di ristoranti alla moda, boutique, hotel a 5 stelle, alberghi per backpackers, coffee-shops, locali notturni: tutto è in vendita, ragazze e bambini compresi. Sihanoukville, la vecchia Kompong Som, non è da meno: con le sue spiagge, i motoscafi per le escursioni in mare, i resort, il casinò per riciclare il denaro sporco, il ponte costruito dai miliardari russi per raggiungere col Suv o la Rolls-Royce l'isola di Koh Phos, ceduta in affitto dal governo di Hun Sen per 99 anni, dove i cambogiani non possono entrare, eccetto le escort ingaggiate per il sesso. Youn mi accompagna a «Via del campo», il centro di accoglienza per i bambini gestito da Ecpat e dal Cita, una onlus italiana, nello slum di Phum Thmey, la più povera comunità di Sihanoukville. «Quasi tutte le donne» spiega Youn «lavorano nei bordelli e non guadagnano abbastanza per nutrire i figli e mandarli a scuola. Abbiamo 104 bambini tra i 6 e i 18 anni, scelti tra gli orfani e i più vulnerabili; facciamo corsi di lingua khmer, matematica, danza tradizionale e forniamo due pasti caldi al giorno». Uno dei bimbi si chiama Baran: ha 5 anni, pelle chiara, capelli e occhi castani. È figlio di un italiano che ha messo incinta una ragazza ed è sparito. Sua madre è una srey kouc, una «donna spezzata»; ha abbandonato Baran tre mesi dopo il parto e non si è più vista: offre il suo corpo nei bar di Sihanoukville. Baran vive con Tet Oun, prostituta dall'età di 17 anni: ora che ne ha 48, ha quattro bambini ed è malata di Aids ha dovuto smettere; si prende cura dei figli di nessuno e si guadagna da vivere vendendo lattine e bottiglie vuote che raccatta di notte sulla spiaggia. Phum Thmey è una cloaca: stamberghe di cartone e lamiera su palafitte sotto cui scolano i liquami e rotola la spazzatura, niente servizi igienici, malaria e infezioni intestinali. In un vicolo, da una sottile tubatura di plastica esce un filo di poltiglia fangosa. Più avanti una bancarella vende stufato di carne di cane e prahoc, pasta di pesce fermentato. Gli uomini, con il sarong annodato in vita, giocano a carte o si ubriacano dì liquore di palma stravaccati sulle amache. Le donne lavano i panni in un rigagnolo lungo i binari della ferrovia, dove i ragazzini riempiono pesanti secchi d'acqua che trasportano a spalla, due alla volta, appesi a un bastone di legno ricurvo. «Ti stupisci se i genitori spingono i figli a prostituirsi?» mi dice Youn. «E pensi che i bambini si possano rifiutare? I cambogiani, i barangei pedofili vengono qui perché costa poco. Negli slum non c'è controllo, la polizia è corrotta e tra i bordelli c'è competizione: i clienti possono avere tutto, maschi, femmine, bambine vergini. Anche Baran è stato abusato quando aveva solo 10 anni». Youn non ha mai conosciuto suo padre. Da piccolo stava in un orfanotrofio di Siem Reap gestito da un Ong italiana. Aveva una bella voce tenorile e nel Duemila era nel gruppo dei cantanti khmer invitati a Modena al concerto di Pavarotti &Friends. «Tornato a Siem Reap» racconta «decisi che volevo dedicarmi ai bambini disagiati. Con l'aiuto di un turista di Seattle ho organizzato una casa di accoglienza: davamo da mangiare e cure mediche gratuite. Ma il tipo dì Seattle era gay: fotografava di nascosto i bambini nudi, li faceva andare da soli nella sua stanza e ci ha provato anche con me. È stata una grande delusione. Per fortuna Marco Scarpati mi ha dato una mano. Sono andato a Torino per un corso e dal 2010 lavoro in questo slum. Alla fine, il mio sogno è diventato realtà». Anche la fidanzata di Youn lavora per una Ong locale. Fa il giro dei villaggì di pescatori a distribuire farmaci antiretrovirali ai ragazzini e alle ragazzine con l'Hiv. «Non c'è verso di convincere i khmer a usare il preservativo» sbotta di rabbia mentre conta le pillole e annota i nomi nel registro dei pazienti. «E la yama, l'amfetamina tagliata con ogni genere di porcherie, fa il resto. Sono le meebon a darla ai bambini: con il cervello bruciato non protestano, fanno qualsiasi cosa e rendono di più». I trafficanti cinesi e vietnamiti sono i più spregiudicati. E i controlli di frontiera sono quasi inesistenti. Neak Loeung, sull'asse stradale Phnom Penh-Saigon, dove i camion e gli autobus sostano per imbarcarsi sul ferry che attraversa il Mekong, è uno dei principali centri di transito e di reclutamento. I bambini circondano in massa i pullmini e i veicoli in attesa del traghetto, cercando di vendere bibite, noci di cocco, insetti fritti. «Ogni tanto qual cuno sparisce» dice Ros Sakhoeur, che dirige il centro del Cifa a Neak Loeung. «I bambini vivono per strada, sniffano colla, non vanno a scuola. Sono prede facili». Persino le Ong, a contatto col viscido mondo sommerso del traffico di esseri umani, rischiano di perdere la verginità. Il caso più eclatante riguarda Somaly Mam, un simbolo della lotta allo sfruttamento sessuale. Nella sua autobiografia del 2005, un bestseller mondiale, Mam descrive la sua tragica infanzia: schiavizzata da un anziano parente, venduta a un mercante cinese, data in moglie a un soldato a 14 anni, violentata e torturata per anni in un postribolo di Phnom Penh e poi salvata da Pierre Legros, un biologo francese che diventerà suo marito e l'aiuterà a realizzare Afesip (Agir Pour Les Femmes en Situation Précaire), l'associazione che ha strappato migliaia di ragazze alla schiavitù dei bordelli. Nel 1998 un documentari o di France 2 fece conoscere la sua vita e la trasformò in un'icona mediatica: insignita del prestigioso premio Principe delle Asturie per la cooperazione inte rnazionale, inserita da Time nel novero delle cento personalità più influenti dei pianeta, ricevuta dal papa e alla Casa Bianca, amica di Bill e Hillary Clinton, della regina di Spagna e delle star di Hollywood, Mam ha creato una Fondazione con ramificazioni nel Sudest asiatico che ha raccolto decine di milioni di dollari in donazioni. Lo scorso maggio, però, un'inchiesta di Newsweek ha messo in luce numerose incongruenze nella bella favola di Somaly Mam. E storie inventate di sana pianta: il rapimento e lo stupro nel 2006 della figlia quattordicenne, l'uccisione nel 2004 di otto ragazze in un raid della polizia in uno dei suoi centri di accoglienza, le ex prostitute istruite a recitare di fronte alle telecamere. «Si è messa in tasca un sacco di soldi» dice Pierre Legros, che ha divorziato da Mam. «Il circo degli aiuti umanitari è diventato un business e Somaly è stata abilissima a sfruttarlo». Può darsi. Nessuno è illibato in Cambogia, tranne i bambini violati. Mi restano in testa, sul volo per Bangkok, le parole di un quindicenne stuprato per mezzo dollaro da un turista americano: «Sono come un uccellino che ha volato a lungo per grandi distanze. Sono stanco e non ho niente da mangiare. Mi fermo a riposare sul ramo di un albero e qualcuno mi colpisce... Cado a terra: mi sembra di morire». lamisera vita nelle baracche di Neak Loeung
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