Protagonisti accaDmenti «Il Tricolore? È nato a Milano, non a Reggio» Meglio soli che in cattiva compagnia Roberto Gandini racconta la genesi della bandiera italiana L’Europa che vogliamo è quella solidale che rispetta i singoli stati pagina 7 pagina 14 149 by Ceramicanda Il giornale di tendenza che non grava sulle casse dello stato DSTRISCIO La Banca d’Italia non è il Parlamento! anno 6 numero 149 • 1 Novembre 2014 • euro 1,00 Grandi opere: politica e sprechi senza controllo L segue a pagina 3 Mercato Sfumata la Majorca, Colli rileva il marchio Vallelunga Marco Manni, presidente di Ceramica Colli, spiega cosa ha impedito il salvataggio della storica azienda scandianese, che qualche settimana fa ha avviato il procedimento fallimentare Di Roberto Caroli pagina 5 LA PRIMA WEB TV IN ITALIANO E INGLESE INTERAMENTE DEDICATA ALLA CERAMICA DI TUTTO IL MONDO www.ceramicandainternational.com a Banca Centrale Europea ha bocciato 13 banche di cui 2 italiane, il Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Risparmio di Genova, risultate sprovviste di 2,3 miliardi di euro la prima, e di appena (si fa per dire) 860 milioni di euro la seconda. Una notizia alla quale i principali giornali italiani hanno dedicato le prime pagine proponendoci, oltre ai soliti articoli di cronaca, anche diverse tabelle di comparazione che hanno portato alla luce aspetti del sistema bancario italiano e di altri paesi dell’Unione Europea. In primo luogo i giornali hanno sottolineato il differente sostegno dato dai governi ai rispettivi sistemi bancari nel momento topico della crisi finanziaria: la Germania ha elargito risorse per 250 miliardi, la Spagna per 60 miliardi, l’Irlanda e i Paesi Bassi per 50 miliardi, la Grecia per 40 miliardi, il Belgio e l’Austria per 19 miliardi, il Portogallo per 18 miliardi, l’Italia per soli 4 miliardi netti. Il nostro Governo ha letteralmente voltato le spalle al proprio sistema bancario non andando oltre una piccola “mancia”. Una decisione che potrebbe aver inciso sul costo dei servizi bancari, a danno ovviamente di lavoratori, pensionati, casalinghe, giovani al primo approccio con un conto corrente: d’altra parte se non te li da il Governo i soldi li devi recuperare sul mercato, quindi nelle nostre tasche. DISTRETTO CERAMICO La migliore comunicazione ceramica si arricchisce di un nuovo strumento web: CERAMICANDA INTERNATIONAL ossia una all news 24 ore su 24 sul mondo ceramico. NEWS E INNOVAZIONE TECNOLOGICA DI PROCESSO ALLA BASE DEL FORMAT Maranello WhatsApp: arriva lo smartvigile La Polizia Municipale si dota del nuovo sistema di messaggistica online pagina 9 Q uando il gatto non c’è i topi ballano. Il Dstretto prende a prestito la saggezza popolare e prova a capire perché, in Italia e solo in Italia, le opere pubbliche non hanno mai tre requisiti fondamentali, ovvero la certezza dei tempi, quella dei costi e soprattutto l’economicità. Tre requisiti che, se presenti, farebbero dell’Italia un paese normale e non quello che sprofonda, anno dopo anno, in un debito-monstre ingrossato quotidianamente da sprechi dei quali nessuno si fa carico e soprattutto nessuno si assume (mai) le responsabilità. Anche perchè nessuno controlla... a pagina 2 e 3 BAR DELLE VERGINI Neroverdi a sinistra? Al Bar delle Vergini si parla di calcio e dell’euforia scatenata dai sette punti conquistati dal Sassuolo nelle ultime tre partite: un punto per ognuno dei pesantissimi gol subiti contro l’Inter! Il cammino dei neroverdi sembra inarrestabile: caricati dal pareggio con la Juve è arrivata anche la vittoria tra le mura amiche del Mapei Stadium. Ora il calendario propone Chievo, Atalanta e Verona, incontri abbordabili per la compagine guidata da Di Francesco, che potrebbe ritrovarsi nella colonna di sinistra della classifica. Posizione ottimale per i sassolesi: a parte la veloce comparsata di Caselli è la sinistra a dettar legge da almeno 50 anni! Castellarano Bowling chiuso, la crisi ha fatto strike Troppe spese e poche entrate: La storica struttura serra i battenti pagina 10 Rubriche Ecco perchè continua la fuga dei cervelli Le responsabilità sono principalmente di politica ed imprese pagina 13 Programmi d’abbonamenti anno VI, n° 149 di Novembre 2014 del bisettimanale “Il Dstretto” - Poste Italiane Spa Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L- 27/02/2004 n.46) art.1 comma 1 - aut. N° 080032 del 28/05/2008 - DCB - BO 2 DSTRISCIO anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 I politici spendono, tanto paga lo Stato! L’unico modo per modificare una prassi che contribuisce a far lievitare il nostro debito pubblico sarebbe la creazione di un ente terzo che controlli l’operato delle istituzioni Q uando il gatto non c’è i topi ballano, poche parole pescate nella saggezza popolare d’altri tempi che da sole potrebbero riassumere le ragioni per le quali in Italia le opere pubbliche, soprattutto quelle grandi, non hanno tre requisiti fondamentali: tempi e costi certi, economicità. Una triade negativa che ha contribuito e non poco all’esplosione del nostro debito pubblico. Il Dstretto vuole raccontarvi uno degli sprechi più eclatanti degli ultimi anni, l’Alta Velocità, anche per cercare di comprendere il meccanismo che porta i nostri politici a scialacquare risorse pubbliche come nessun’altro paese al mondo. Nel lontano 7 agosto 1991 veniva presentato il progetto dell’alta velocità ferroviaria italiana, opera monstre che doveva essere completata in sette anni, ne sono passati già 15 e per vederla terminata si dovrà attendere il 2020. Il progetto del lontano 7 agosto 1991, quando per capirci c’era ancora la lira, non utilizzavamo gli smartphone, WhatsApp e neppure Facebook, era stato contrattualizzato per una cifra di 14.156 milioni di euro; gli ultimi dati disponibili sui costi effettivamente sostenuti sono del 2010 e sono lievitati fino a 96.850 milioni di euro! Un aumento esponenziale che può solo in parte essere giustificato dal fatto che nel 1991 non erano state prese in considerazione tre voci: i costi diretti (personale e servizi) ed indiretti (studi, consulenze, comitati, progetti, pubblicità) sostenuti dalle società pubbliche che l’hanno realizzata (Fs, Tav, Italferr, Rfi, Infrastrutture); i costi per le opere compensative o indotte concordate con gli Enti locali; i costi per la realizzazione delle nuove stazioni Av dedicate. “Per le Spa pubbliche”, leggiamo su “Il libro nero dell’Alta velocità” di Ivan Ciccone, la stima è di circa 3.900 milioni di euro, per le opere compensative è di 9.200 milioni di euro e per le nuove stazioni 6.350 milioni di euro”. Fatto 100 il costo del 1991 arrivati al 2010 siamo ad un costo stimato pari a 684, se invece escludiamo le tre voci di L’opinione Mancano una corte, un processo e tante condanne costo non valutate inizialmente, si è passati da un indice 100 ad un indice 547, con un aumento percentuale del 447%. La conferma che qualcosa non ha funzionato come dovrebbe la troviamo nel confronto con il costo delle linee ad Alta velocità realizzate altrove: la tratta che collega Tokio ad Osaka, in Giappone, è costata 9,3 milioni di euro al chilometro, la ParigiLione 10,2 milioni, la Madrid-Siviglia 9,8 milioni. Questi invece i costi, stimati al 2010, delle tratte italiane: Torino - Milano 66,4 milioni contro gli 8,6 ipotizzati nel 1991, Milano – Bologna 43,7 milioni contro gli 8,1 del progetto iniziale, Bologna – Firenze 84,8 milioni di euro contro i 13,6 preventivati, Roma – Napoli 35,3 a fronte dei previsti 9,8. Com’è possibile tanta differenza nei costi? Le nostre tratte sono più efficienti? Più belle? Più avanzate tecnologicamente? Purtroppo no. A spiegarci il perché di tanti e tali sprechi di danaro pubblico è il professor Marco Guido Ponti, docente di economia dei trasporti al politecnico di Milano: “Sono cose che accadono perché c’è un pagatore in ultima istanza, tutti gli attori del gioco, i decisori politici centrali e locali, le ferrovie, i costruttori, sanno che alla fine lo Stato pagherà comunque tutto, quindi non hanno alcun reale incentivo a ridurre i costi”. Una situazione che porta con se un paradosso incredibile: “Pensate che sulle linee italiane di alta velocità”, prosegue il professore, “potrebbero passare anche treni merci ad alta velocità, peccato che non esistono convogli di questo tipo, nessuno li ha ancora realizzati. Una modifica questa che ha fatto lievitare del 40% i costi dei binari”. Molte responsabilità vanno ascritte anche agli Enti locali, Regione, Province e Comuni che hanno fatto richieste per opere aggiuntive ed accessorie, come le stazioni. “A Bologna è stata realizzata una stazione interrata che è costata 10 volte in più rispetto ad un accesso a raso, ed è stato fatto su richiesta delle istituzioni locali. Pensate che nella logica italiana le città di Firenze e Bologna si sono viste costruire stazioni avveniristiche interrate come compensazione dell’aver accettato il passaggio dell’Alta velocità”. Un assurdo a ben vedere visti i vantaggi strategici dei collegamenti veloci che le nuove tratte hanno consentito alle due città. La sola stazione di Bologna, situata a 23 metri di profondità, è parte di un progetto da 500 milioni di euro, la Stazione Mediopadana affidata all’archistar Calatrava è costata 79 milioni di euro, soldi pubblici naturalmente, ma spesi su richiesta degli enti locali. “Lo Stato è un pagatore in ultima istanza e l’assenza di vincoli di bilancio in queste opere si traduce in un incentivo a spendere da parte di ministri, presidenti di regione e sindaci, questi ultimi poi sono certi che quando i soldi arrivano da Roma non mordono sul consenso elettorale, perché non si traducono in nuove imposte. Dovremmo prendere esempio dagli inglesi che hanno una cultura assoluta della gestione della spesa pubblica in termini di economicità”. Il tema è arcinoto e riguarda la mancanza di una diretta responsabilità dei politici per le loro azioni: “Ho scritto un libro su questo tema ed uscirà a breve”, prosegue Ponti, “si intitola L’arbitrio del principe: non c’è responsabilità economica di chi spende, un politico eletto può buttare soldi dalla finestra e nessuno gliene chiederà conto. In teoria la Corte dei Conti è l’organo deputato ad analizzare queste storture ma non ha capacità sanzionatoria, può denunciare lo spreco di denaro pubblico ma non emettere sanzioni in proposito”. L’unico modo per modificare questa prassi che contribuisce a far lievitare il nostro debito pubblico è la creazione di un ente terzo che controlli l’operato delle istituzioni: “Serve un’autorità indipendente che possa applicare sanzioni e che sia forte della propria terzietà, qualcosa che somigli all’Antitrust, che funziona bene ma può occuparsi solo dei privati e non dello Stato”. (Daniela D’Angeli) Dati ufficiali 1991 Stime 2010 Indice 2010 (1991=100) Tratte 9.254 48.700 526 Materiale rotabile 2.454 8.200 334 Voci di costo progetto TAV 1991 (milioni di €) Nodi 1.064 Infrastrutture aeree Interessi intercalari 8.400 789 614 3.200 8.700 1.130 547 770 521 Totale voci ufficiali progetto TAV 1991 14.156 77.400 Studi, progettazione e realizza- zione delle nuove stazioni per l;alta velocità con finanziamenti pubblici non previsto 6.350 Costi diretti (Struttura) e indiretti (Comitati, garanti, consulenti, con- ferenze, promozione , pubblicità, etc.) sostenuti da FS, RFI, TAV, Italferr, ISPA, per l;Alta velocità non previsto 3.900 Opere indotte e/o compensative connesse con l'alta velocità fuori dai contratti per le tratte stipulati con i general contractor non previsto 9.200 Totale voci non previste 19.450 Totale costi progetto TAV 14.157 96.850 684 (Tab.4 - Variazione delle voci di costo del Progetto TAV, dal 1991 al 2010 Nuove tratte AV della linea Torino-Napoli Contratti Indice di costo Costo Dati Fs 2006 Stime 2010 1991 nel 2010 €/km milioni di € milioni di € milioni di € (1991=100) 1991 Costo €/km 2010 Torino-Milano 1.074 7.788 8.300 773 8,6 Milano-Bologna 1.482 7.150 7.950 536 8,1 43,7 Bologna-Firenze 1.074 5.954 6.700 624 13,6 84,8 Roma-Napoli TOTALE LINEA TO-NA 1.994 5.624 6.235 7.200 27.127 30.150 360 536 9,8 9,4 66,4 35,3 51,1 (Tab.5 - Costi delle infrastrutture a terra delle nuove tratte della linea Torino-Napoli) TRENO AV (PAESE) KM FORMA DI REALIZZAZIONE TRATTA COSTO A KM (MILIONI DI EURO) Shinkansen(Japan) (1) 550 Tokio-Osaka 9,3 TGV(France) (1) 417 Parigi-Lione 10,2 AVE(Espana) (1) 470 Madrid-Siviglia 9,8 TAV(Italia) (5) (7) 589 Torino-Napoli 60,7 TAV(Italia) (5) (6) (830) Appalti gestiti dalla Società ferroviaria nazionale Appalti gestiti dalla Società ferroviaria nazionale Appalti gestiti dalla Società ferroviaria nazionale Affidamenti a trattativa privata a TavSpa e General Contractors (Inclusa la tratta Firenze-Roma realizzata con appalti gestiti da FS) (Torino-Napoli) (48,9) TAV (2) 87 General-Contractor FIAT Torino-Novara 74,0 TAV (3) 38 General-Contractor FIAT Novara-Milano 79,5 TAV (3) 182 General-Contractor CEPAV UNO Milano-Bologna 53,0 TAV (3) 78 General-Contractor FIAT Bologna-Firenze 96,4 TAV (4) (241) Appalti affidati e gestiti da Ente FFSS Firenze-Roma (20,3) TAV (2) 204 General-Contractor IRICAV UNO Roma-Napoli 47,3 Mi inserisco nella discussione sugli sprechi per segnalare e sottolineare l’editoriale scritto nel numero 147 del Dstretto dal titolo forte ma incisivo: “Una nuova Norimberga tutta italiana”. Perché quella corte suprema di vigilanza da me invocata, in grado di controllare, processare, ed eventualmente condannare politicamente amministratori pubblici artefici di scelte scellerate per l’interesse dell’Italia, potrebbe essere il terzo soggetto suggerito dal prof. Marco Ponti. I cittadini, quelli onesti, pagano le tasse fino in fondo perché sanno che in caso contrario potrebbero subire un controllo da parte della Guardia di Finanza, con relative sanzioni economiche e penali. Non ci fossero gli spettri dei controlli e delle relative pene forse vedremmo crescere nel Paese i cittadini disonesti. Nella politica, nella pubblica amministrazione dovrebbe succedere la stessa cosa: fino a quando anche loro non vivranno nel loro agire lo spettro del controllo, del processo con relativa condanna, continueranno a spendere fregandosene dei conti dello Stato, del debito pubblico, della tegola di 35mila euro che pende su ogni nuovo nato. L’alta velocità, il regalo operato dallo Stato all’Autostrade del Brennero spa, relativamente al prolungamento della concessione per la gestione della A22, sono solo piccoli esempi della cattiva gestione del danaro pubblico. Le nomine di Emilio Sabatini alla presidenza di Autocs, direttamente da Presidente della provincia di Modena; quella di Graziano Pattuzzi in qualità di consigliere nel Cda di Autostrade del Brennero spa, dopo che da Sindaco di Sassuolo si era reso responsabile di un buco di 50 milioni di euro con la Sgp, e dal 2010 è presidente della Cispadana; sono la conferma della devastante penetrazione della politica nell’economia reale, la dove trova voti e risorse per alimentarsi e sopravvivere. A volte anche con l’appoggio di associazioni di categoria e degli imprenditori!. (Roberto Caroli) (Elaborazione, aprile 2008, di Ivan Cicconi su dati e documenti ufficiali) Via Pietro Nenni, 8 - 42048 Rubiera (RE) - Tel. +39 0522 621162 - Fax. +39 0522 262589 - Email: [email protected] 3 DSTRISCIO anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 A22: lo Stato regala miliardi di euro L Emilio Sabattini La concessione all’Autobrennero è scaduta ad aprile, non si farà la gara d’appalto e il rinnovo avverrà per decreto. Arriveranno sanzioni dall’Europa e perderemo anche gli introiti dei pedaggi a fantasia della politica italiana nello sprecare fondi pubblici non si limita alle opere di nuova realizzazione, si applica con creatività anche nel non far fruttare quelle già realizzate. Nel decreto “Sblocca Italia” in corso di approvazione l’articolo 5 concede alle società autostradali di ottenere la proroga delle concessioni con «l’unificazione di tratte interconnesse» impegnandosi a fare investimenti e mantenendo «un regime tariffario più favorevole all’utenza». Tra le arterie interessate da questo articolo c’è la A22 del Brennero: un’autostrada matura, già ammortizzata, che non richiede grandi investimenti e che ogni anno genera un margine operativo lordo di 150 milioni di euro, in arrivo dai pedaggi. E’ quindi un oggetto molto appetibile per gli investitoti che potrebbero partecipare alla gara d’appalto, peraltro obbligatoria per legge, ma sarebbe un bell’introito anche per l’Anas alla quale potrebbe tornare in carico garantendo con quei 150 milioni di euro la copertura del 10% di quanto spende ogni anno per la manutenzione delle strade che percorriamo ogni giorno. Ebbene di fronte a queste due opzioni lo Stato sceglie la terza via, l’unica senza benefici economici: il rinnovo all’Autobrennero. Una vicenda strettamente legata con la realizzazione della Bretella Campogalliano-Sassuolo, arteria che il distretto attende da 30 anni e sulla quale sono già stati desti- nati 234 milioni di euro dal Cipe, mentre i restanti 363 necessari per la realizzazione arriveranno dal project financing. E chi è la capofila dell’associazione temporanea di imprese Autocs che ha vinto l’appalto della Bretella? Naturalmente Autobrennero, insieme a Pizzarotti, Coopsette, Coseam, Wipptal, Oberslet e Cordioli. Se l’Autobrennero perdesse la concessione della A22 automaticamente perderebbe anche l’interesse strategico alla realizzazione della Bretella, impossibile quindi scindere le due operazioni. E giusto per non farci mancare nulla ecco che alla guida di Autocs è arrivato Emilio Sabattini, ex presidente della provincia di Modena, una nomina che ha scatenato polemiche feroci; lo abbiamo contattato per sapere come rispondesse alle tante accuse mosse a suo carico ma non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione in merito. Ci limitiamo quindi a sottolineare che ancora una volta la politica persevera nel vizio di “piazzare” i fuoriusciti dalle istituzioni nelle società partecipate, come l’analogo caso dell’ex sindaco di Sassuolo Graziano Pattuzzi destinato prima all’Autobrennero ed ora alla Cispadana. Prepariamoci dunque ad una nuova procedura d’infrazione europea, con conseguente supermulta, per una gara d’appalto che non ci sarà mai, come sempre “per gli amici le leggi si interpretano”. (Daniela D’Angeli) tro le direttive della Banca d’Italia. Di certo in un paese “normale” la legge è sovrana e nessun soggetto, pur economicamente fortissimo, dovrebbe metterla in discussione. A maggior ragione la Banca d’Italia nel cui assetto proprietario sono presenti le banche stesse: Gruppo Intesa (27,2%), Gruppo San Paolo (17,23%), Gruppo Capitalia (11,15%), Gruppo Unicredito (10,97%), Assicurazioni Generali (6,33%), Banca Carige (3,96%), BNL (2,83%), Monte dei Paschi di Siena (2,50%), Gruppo La Fondiaria (2%), Gruppo Premafin (2%), Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%), INPS (5%), RAS (1,33%), privati (5,65%). In attesa di vedere crescere all’interno della stessa una preponderante, auspicabile e maggioritaria quota pubblica (lo Stato con il ministero del tesoro) a discapito di quelle private, il conflitto d’interessi continuerà ad animare il panorama del sistema bancario italiano. (Roberto Caroli) La Banca d’Italia non è il Parlamento! segue dalla prima pagina Q uando calcoliamo la pressione fiscale dettata dallo Stato, oltre alle imposte dirette, dovremmo annoverare anche le spese indirette che sono conseguenza di scelte politiche discutibili. Si inserisce in questa casistica il costo dei servizi bancari divenuti sempre più esosi, perché stabiliti dagli istituti di credito in ragione delle proprie esigenze finanziarie. Una situazione che potrebbe avere portato le nostre banche ad applicare tassi di interesse e commissioni vicinissimi ai valori di usura indicati dalla legge 108 del 7 marzo 1996 numero 52, la quale precisa all’articolo 2 che “il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse”. Secondo la società Sdl di Brescia, nella persona di Giovanni Pastore, questo significa che “il tasso di interesse effettivamente applicato dalla mia banca deve includere anche le spese sostenute dall’utente per i servizi vari : commissioni, diritti ed ogni altro onere che troviamo nell’estratto conto; e non escluderle come da indicazione della Banca d’Italia”. Il tema è molto delicato ed è oggetto proprio in questi ultimi mesi di schermaglie giuridiche tra chi, testo di legge alla mano, è convinto di avere subito usura e le banche che si difendono trincerandosi die- Dell’Orco, M5S “La nomina di Sabattini è un palese conflitto d’interessi” Michele Dell’Orco, La nomina di Sabattini in Autocs ha scatenato anche la reazione del Movimento cinque stelle che ha denunciato senza mezze misure l’ennesimo intreccio tra le lobby delle autostrade e la politica, così stigmatizzato da Michele Dell’Orco, deputato grillino membro della commissione Trasporti: “E’ veramente assurdo che un politico del Pd che per anni ha combattuto per avere questa inutile Bretella venga nominato a capo della società che la realizzerà, è un palese conflitto di interessi. Una nomina che arriva proprio mentre siamo chiamati a votare il decreto Sblocca Italia che rinnova la concessione alla A22”. Dell’Orco conferma poi il legame tra il rinnovo e la realizzazione della bretella: “Se l’Autobrennero perdesse la concessione sulla A22 potrebbe perderebbe interesse alla realizzazione della Cispadana e della Bretella, quest’ultima poi ha altissimi costi di realizzazione a chilometro che potrebbero crescere ulteriormente come sempre accade con il project financing: si parte con un piccolo contributo regionale e si finisce con un grande contributo pubblico”. Che il Movimento cinque stelle non abbia in simpatia la Bretella è cosa nota ma c’è qualche distinguo da fare: “E’ stata progettata 20 anni fa, quando ancora non c’era la Modena-Sassuolo alla quale correrà parallela creando un inutile doppione. La Bretella è composta di due stralci, il primo che va dallo scalo merci a Marzaglia ha senso, ma quello da Marzaglia fino a Sassuolo è senza senso. Sarebbe molto meglio se quei soldi venissero dati agli imprenditori del distretto in maniera diretta, tagliando loro le tasse”. 4 DALLE AZIENDE anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 Smaltochimica: ricerca e innovazione al servizio delle ceramica Ivano Piccinini «Il mercato cambia e si evolve, ma il cambiamento va accettato. La sfida – dice Ivano Piccinini, presidente dell’azienda fioranese – è evolvere processi e prodotti, personalizzando e specializzando entrambi» L a sfida è nella tecnologia e nell’innovazione, ma anche nel know how. E Smaltochimica, forte di un’esperienza quasi quarantennale maturata sul campo, offre ai produttori ceramici soluzioni in linea con un mercato che si sta segmentando, chiede specializzazione e personalizzazione, sia a livello di prodotto che di processo. «E gli investimenti in ricerca, da parte di Smaltochimica, in questo senso sono massimi», spiega Ivano Piccinini, presidente e fondatore dell’azienda fioranese. Il consumo mondiale di ceramica cresce, ma il mercato cambia e si evolve, «e con il mercato si evolvono prodotti e processi: la sfida – aggiunge Ivano Piccinini – è saper accetta- re questa evoluzione. Pensiamo al digitale, e alle tante migliorie che sono state aggiunte ai processi produttivi che adottano questa tecnologia che, è assodato, da sola non basta, ed è soggetta a costanti migliorie. Le aziende produttrici, oggi, chiedono personalizzazioni in grado di aderire sia ai mercati di destinazione che alle peculiarità produttive delle aziende stesse, ed è compito di chi, come noi, fa ricerca, proporre soluzioni che possano fare la differenza». La ceramica, dice Piccinini, va avanti, e la competitività passa anche e soprattutto dalla capacità di intercettare e proporre il cambiamento: la prossima tappa? «La flessibilità, anche relativamente ai lotti produttivi e alle loro dimensioni, e la possibilità di garantire un’identità, in senso proprio, alle soluzioni che si propongono». E l’identità di Smaltochimica è scritta in oltre trent’anni di storia e in una capacità «di proporre a livello globale quanto possiamo proporre in Italia: le nostre tante sedi e unità produttive estere rappresentano, da questo punto di vista, un vantaggio irrinunciabile». La politica e la crisi: come Badoglio l’8 settembre di Claudio Sorbo Ad agosto, in pieno periodo di ferie (per chi le ha fatte), l’ISTAT, l’Istituto Centrale di Statistica, ha dichiarato che l’Italia è in “recessione tecnica”. Cioè, per due trimestri consecutivi il PIL, ovvero il fatturato del paese, ha registrato una crescita negativa: nel trimestre aprile, maggio e giugno 2014 è stato dello 0,2% inferiore al trimestre precedente, in cui già era calato dello 0,1% rispetto all’ultimo trimestre del 2013. Il dato dell’ISTAT non ha sorpreso nessuno: non c’è bisogno dei numeri per capire che le cose vanno male. Semmai, l’Istituto ha dichiarato che questo doppio risultato negativo ha avuto “un impatto nullo” sul mercato interno (eravamo già ai consumi di sopravvivenza), mentre i danni li hanno subiti le esportazioni: sui mercati internazionali hanno manifestato una minore competitività che è coincisa con la maggiore, contestuale attrattività delle imprese estere sugli stessi mercati. In pratica, hanno venduto gli altri al posto nostro. Come mai? Per tre ragioni: i nostri prodotti sono ormai poco interessanti per i clienti esteri perché poco innovativi a causa di anni e anni di mancati investimenti in Ricerca e Sviluppo, i nostri prezzi sono poco attraenti perché troppo alti a causa dell’ec- cessivo costo del lavoro e di una pressione fiscale senza precedenti e, infine, le nostre imprese hanno sull’estero strutture commerciali insufficienti numericamente e mal disposte sui territori. Il risultato? Cresce la preoccupazione dei cittadini, quale che sia la loro attività, perché il tempo passa, la situazione economica peggiora e nulla cambia. Nei sette anni trascorsi da quando si è manifestata la crisi abbiamo attraversato varie fasi: dapprima, l’abbiamo osservata, increduli, come fosse una cosa che riguardasse gli altri, poi ci siamo accorti che riguardava anche noi ma scaramanticamente ci siamo detti che sarebbe durata poco, infine abbiamo capito che c’eravamo dentro fino al collo, e senza via d’uscita. Anche i Governi che si sono succeduti in questi sette anni (Governo Prodi fino al 6 maggio 2008, poi il Berlusconi IV fino al 2011, infine, in rapida successione, i Governi Monti, Letta e ora Renzi) non ci sono stati di aiuto: o hanno manifestato una preoccupante paralisi operativa (8 leggi in otto mesi, nel 2011, da parte del Berlusconi IV) o si sono affannati in sterili e disordinate iniziative che con la ripresa dell’economia non avevano nulla a che fare, ad esempio la Legge Fornero. Il risultato? Sette anni buttati via, dal 2007 al 2014, durante i quali le imprese, già strutturalmente im- perfette, si sono trovate ad affrontare la crisi da sole, senza uno straccio di politica industriale, di concrete iniziative governative, di indirizzi di programma realistici. In pratica, una situazione da 8 settembre 1943, quando Badoglio annunciò l’armistizio ma non diede ordini all’esercito: andò a finire che ognuno si arrangiò come poté e altrettanto sta succedendo oggi, con imprenditori che hanno ingaggiato un surreale braccio di ferro con la crisi e non fanno niente sperando che finisca prima dei loro risparmi, con altri che hanno chiuso in Italia e aperto all’estero (persino in Cina), senza contare le decine di migliaia che non ce l’hanno fatta ed hanno assistito alla morte delle loro aziende e, infine, quelli che hanno scelto di farla finita col mondo. Il tutto, in immeritata e umiliante solitudine. Personalmente sono convinto che i nostri politici non abbiano fornito ricette per far ripartire l’occupazione (perché in fondo si tratta di questo, solo di questo) per una sola ragione: perché non sanno come fare. E dire che le cause della crisi sono semplici e si riassumono nei tre punti che abbiamo citato: prodotti poco attraenti, eccessiva pressione fiscale, strutture commerciali scadenti. Tutto ciò ha generato uno sviluppo abnorme della disoccupazione, la caduta dei consumi, la caduta del PIL, la recessione. In tale situazione, anche se il costo del lavoro fosse uguale a zero la disoccupazione crescerebbe lo stesso, perché le aziende assumono se hanno qualcosa da far produrre, ma se non si vende non si ha niente da far produrre e se non si ha niente da far produrre non si assume. Quindi, in estrema sintesi, oggi l’unica priorità è vendere, non abbassare il costo del lavoro, prova ne sia che quando non c’era la crisi si vendeva e il costo del lavoro era sopportato dalle imprese come sempre (e tutti facevano i soldi). Dove bisognerebbe andare a vendere oggi? Dove non c’è la crisi, cioè nell’80% dei paesi industrializzati e in via di sviluppo del mondo: non è un caso che, ad esempio, le uniche aziende ceramiche che oggi vanno bene sono quelle che hanno una sede produttiva e commerciale negli Stati Uniti, dove la crisi è finita. Che fare, quindi? Qualcosa dovrebbero suggerirci quelli che ci guidano: in fondo è il loro mestiere. Al momento, invece, non dicono niente di utile: parlano, parlano, parlano, sì, ma di altro, del patto del Nazareno, dell’abolizione del Senato, della Legge elettorale, dell’abolizione del CNEL e delle Provincie, tutta roba che con il lavoro non c’entra. Come diceva il Dottor Otternschlag nel film “Grand Hotel”, “Gente che viene, gente che va, tutto senza scopo”. anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 DISTRETTO CERAMICO Sfumata la Majorca, Colli rileva Vallelunga È Marco Manni Il Presidente di Ceramica Colli Marco Manni svela i retroscena che hanno impedito il salvataggio dell’azienda scandianese, che ha avviato il procedimento fallimentare di questi giorni la notizia dell’acquisto, da parte della Ceramica Colli, del ramo di azienda della Vallelunga, azienda del viterbese con il quale il gruppo fioranese punta ad accrescere la sua competitività sui mercati. Una notizia come altre, in un panorama comunque fluido, che vede le sinergie di diverse aziende trovare spesso la quadra in acquisizioni e passaggi, ma del quale il Dstretto ha voluto occuparsi in quanto, prima della Vallelunga, il Gruppo Colli aveva tentato di rilevare anche la Majorca, storica azienda reggiana la cui storia si è chiusa, ad oggi, con un fallimento. Non se ne è fatto nulla, e Colli ha scelto Vallelunga, «e l’opportunità è nata quando è svanita la prima», spiega Marco Manni, Presidente di Ceramica Colli che dell’epilogo della vicenda-Majorca parla senza nascondere «grande delusione per quello che è successo e per quello che è diventato, oggi, il sistema Italia. Noi, sulla possibilità di acquisire Majorca, abbiamo lavorato, abbiamo speso tempo e denaro, e il fatto che la trattativa non si sia chiusa in modo positivo è motivo di grande disappunto». Il Gruppo Colli, spiega ancora Manni, il suo piano di rilancio lo aveva, «e anche a livello personale ci tenevo: mi sarei in un certo senso sdebitato del tanto che, correvano ancora gli anni Settanta, gli allora proprietari di Majorca fecero per me. Purtroppo – racconta Manni - le cose hanno preso un’altra piega e quando siamo stati sul punto di chiudere una trattativa lunga e difficile con i sindacati non ce n’è stato modo. Il disappunto è stato doppio, anche perché come Colli avevamo comunque rapporti già in essere con Majorca». I sindacati, fa capire Manni, si sono messi di traverso bocciando «un piano che avrebbe salvaguardato Majorca per quanto era possibile farlo, in una situazione in cui l’azienda era arrivata a quel punto a causa di errate valutazioni su asset strategici sui quali si è poi innestata la crisi. Avremmo tentato il rilancio di Majorca, confermato una decina di dipendenti con l’obbiettivo magari di riprendere la produzione, ma intanto avemmo lavorato sul magazzino, sul marchio, sulla rete commerciale, e ci è stato risposto, da parte dei sindacati, che il nostro piano mutilava l’azienda». Così, la strada da Fiorano, dove ha sede la Colli, e Scandiano è diventata lunga e accidentata, mentre quella per Nepi, dove ha sede Valllunga, è diventata brevissima per Manni e il suo gruppo, e la Ceramica Colli ha trovato nell’alto Lazio quello che aveva cercato a due passi da casa. E quello che non è riuscito a fare con Majorca, Colli lo farà con Vallelunga, 15 milioni di fatturato l’85% dei quali all’estero, «e su mercati come quello russo o statunitense che per noi diventano strategici anche grazie alle sinergie che creiamo con questa operazione». La Majorca resta, per Manni, soprattutto un rimpianto, oltre il quale bisogna comunque guardare, anche perché «gli orizzonti, per noi, oggi sono diventati in bianco e nero e lavorare in questo sistema paese è sempre più complicato. La vicenda che abbiamo vissuto, io e i miei soci, conferma che il sistema stesso, quello dei rapporti tra le imprese e sindacati e imprese e lavoratori va rimodulato. Non – chiude Manni - per cancellare i diritti, come si sente dire, ma per tutelarli e magari crearne di nuovi». (R.C.) 5 anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 7 PROTAGONISTI Il giallo del tricolore: è Milano la culla della bandiera italiana «La crearono i Patrioti lombardi – dice lo storico scandianese Roberto Gandini – che ne sono padri ed inventori: presero il rosso ed il bianco dallo stemma della città di Milano, e vi aggiunsero il verde dal colore delle divise della fanteria della Legione Lombarda» « E’ ampiamente documentato come il Tricolore Italiano come “bandiera di reparto militare” è nato a Milano, l’8 ottobre 1796». Il tricolore? Roba milanese, non emiliana, checchè se ne dica e se ne festeggi, con Reggio Emilia che il senso comune vuole patria della bandiera italiana. «Un errrore storico», invece, almeno secondo Roberto Gandini, storico scandianese che da’ forza alle sue tesi con un volumetto dal titolo “Contributo allo studio di simboli e bandiere della Repubblica Cispadana” uscito a settembre per i tipi di Corti Linea Stampa. Agile il giusto, altrettanto accurato nella ricostruzione con il quale Gandini accosta il tema, arrivando ad una conclusione a suo dire inconfutabile, ovvero che «quella che si festeggia il 7 gennaio di ogni anno a Reggio Emilia e in Italia è la bandiera di uno stato con co- Roberto Gandini stituito e mancante di sovranità; perchè decretata dal Congresso e, dopo due giorni, dallo stesso, sospesa e non eseguita dal voto di tutti deputati». Il rigore dello storico, nella ricostruzione di Gandini, non lascia mai spazio alla suggestione campanilistica, ma trae forza dallo studio degli atti delle Repubbliche Napoleoniche costituite alla fine del XVIII secolo, ed in particolare da quelli della costituenda Repubblica Cispadana, «uno stato non riconosciuto che ha vissuto una sola estate». Tra i suoi atti, le diverse mozioni dalle quali emerge appunto il tricolore, ma poco altro. «Che si renda universale lo stendardo o bandiera Cispadana in tre colori: verde, bianco e rosso», si legge sulla mozione della discordia, quella del 7 gtennaio 1797, annullata due giorni dopo e resa esecutiva il 21 gennaio dello stesso anno, da cui tuttavia non si hanno altre informazioni riguardanti la disposizione dei colori, la diEnrico Grassi mensione delle bande né se sul vessillo compaiano altri stemmi, dei quali si trovano notizia invece nella mozione del 21 gennaio, che al punto secondo recita «che sia universale lo stendardo o bandiera Cispadana di tre colori: verde, bianco e rosso con il Turcasso». E proprio l’aggiunta del Turcasso, secondo Gandini, Bandiera tricolore con turcasso della Repubblica Cispadana, aprile 1797 (ricostruzione) è decisiva, perchè «siamo di fronte a due bandiere diverse: una con i soli tre colori nazionali e una con i tre colori e, all’interno del bianco, il Turcasso». E siamo di fonte ad uno Stato, ovvero la Repubblica Cipsdana, che ha i giorni contati se è vero che, mentre a Bologna capitale «muoveva con fatica i primi passi – scrive Gandini – il governo Bandiera tricolore della Repubblica Cisalpina, vessillo ufficiale del primo Stato italiano libero e sovrano, maggio 1798 CHI E’ Roberto Gandini è nato a Scandiano il 26 aprile 1929. Laureato in Economia e Commercio all’Università Luigi Bocconi di Milano è stato, per molti anni, membro del Comitato esecutivo dell’AISEC (l’associazione internazionale degli studenti di scienze e conomiche e commerciali) e ha a lungo insegnato matematica nelle scuole medie di Scandiano, Sassuolo e Casalgrande. Socio fondatore e presidente della Pro – Scandiano, ha diretto il periodico “All’ombra del Campanone” e la collana “Quaderni di storia, arte, geografia e tradizioni scandianesi”. Socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le provincie modenesi, ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulle riviste specializzate oltre che su “Bollettino Storico Reggiano” e “Reggio Storia”. della neonata repubblica», già se ne propsettava al’annessione alla Repubblica Cisalpina. Dura 83 giorni la repubblica Cispadana, perchè il 17 luglio del 1797 il Direttorio della Repubblica Cisalpina accetta «l’offerta di riunione de’ popoli di Bologna, Ferrara e della Romagna e li ammette al nuovo stato». Il tricolore della Repubblica Cispadana, e segnatamente quello di gennaio, non ha mai avuto riconoscimento ufficiale, e se c’è stato riconoscimento ufficiale è stato per il trocolore con il turcasso, mentre il riconoscimento ufficiale del tricolore arriva a maggio, e precisamente il 11 maggio 1798, quando «il gran consiglio risolve che la bandiera della Repubblica Cisalpina sia di tre bande parallele all’asta: la possima all’asta verde, la successiva bianca, la terza rossa». Eccolo qua, il primo tricolore, che diventa, nella Milano capitale cisapina, il vessillo ufficiale del primo stato italiano unitario libero e sovrano. E sventola nelle piazze e nelle strede del capoluogo milanese in occasione della festa celebrativa per la nascita della Repubblica Cisalpina. Quanto al tricolore cispadano, è figlio più che altro di suggestioni poiché, argomenta Gandini «il consgresso Ciapsdano non poteva legiferare, la Repubblica Cispadana era solo una “Unione formata e con costituita”, sul suo territorio operavano tre governi provvisori e in nessuno dei 404 articoli che compongono il piano di costituzione della Repubblica Cispadana si nomina la bandiera». Nessuna bandiera ufficiale, dunque, per uno Stato che restò in carica meno di 90 giorni, «e – chiude Gandini – quelle che vediamo esposte in luoghi pubblici e privati che si spacciano per bandiere della Repubblica Cispadana sono solo modelli fondati su ipotesi e proposizioni». (S.F.) anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 SASSUOLO e MARANELLO La Sassuolo che verrà... Ha appena finito di presentarla ai quartieri la Giunta, concludendo un fitto calendario di incontri. Tra idee e progetti più o meno futuribili, eccone una sintesi S ono un simbolo, secondo molti, quei calcinacci che si staccano dal controsoffitto del Carani e rendono inagibile lo storico teatro sassolese, vestigia sgarruppata, tanto spesso fredda quanto spesso vuota, di una città che si confronta con il tanto che non piace ed invecchia e andrebbe cambiato, ristrutturato e/o abbattuto. Mica si parla del Carani, ovvio, che tra l’altro è bene privato ed è patrimonio storico della città, ma di altro, che alla città non è più funzionale, né utile e, detta come va detta, la abbruttisce ben oltre le colpe degli architetti e dei geometri che l’hanno disegnata, costruita e magari lasciata a metà. O abbandonata a se se stessa: spesso per questione di soldi, altrettanto spesso per questioni di cura ed estetica, temi non carissimi al tumultuoso sviluppo della Sassuolo che fu. Che oggi, ma anche l’altro ieri, non si sviluppa più, ma prova a ripensarsi, e a restituirsi al terzo millennio un tantino rinnovata e, perché no, anche visivamente più gradevole. Fattibile? Forse: di sicuro servono idee, servono soldi e ruspe, e non necessariamente in quest’ordine. E serve un’idea di futuro che viene inevitabilmente affidata alla politica. Fu così sotto l’amministrazione Caselli, è così sotto l’amministrazione Pistoni, che proprio in settimana chiude un ciclo di incontri nei quartieri aventi ad oggetto, oltre alle madonne di chi nei quartieri abita e ne critica brutture e inefficienze, anche la Sassuolo che verrà. Più bellina, per quanto mai potrà di- ventare bellina una Sassuolo quasi mai in grado – dal punto di vista architettonico ed estetico – di badare a se stessa, rappresentata bene dal chilometro scarso di Circonvallazione sul quale si affacciano, in successione, i Gerani (1, sgombrati e inagibili da anni) e il caseggiato azulgrana (2) di Circovallazione 189 e, a chiudere, il Diamante (3). “Palazzacci”, li chiama l’amministrazione nelle note stampa in cui ne ipotizza abbattimenti e ricostruzioni, riconversioni e riqualificazioni, scrivendone un futuro che chissà quando arriva e ai quali si può tranquillamente aggiungere altro, nemmeno troppo distante dal quel tratto di circonvallazione. Perché su quell’asse ci sono anche via Adda (4, il civico 77 venne sgomberato nel 2010, oggi è inabitabile) e l’area a di Cisa-Cerdisa (5), ma anche, non troppo distanti, altre aree: via San Pietro (6), dove una volta c’erano i palazzoni abbattuti da Pattuzzi, e la ex Pedemontana. Fosse un foglio bianco, la Sassuolo che verrà la si potrebbe ridisegnare su progetti avveniristici e funzionali, ci fossero i soldi, si potrebbe anche pensare di riqualificare, ma dentro i primi 15 anni della Sassuolo del terzo millennio si vede una Sassuolo complicata assai da cambiare, perché la Sassuolo di oggi non è un foglio bianco su cui disegnare la Sassuolo che verrà, ma un foglio già scritto, e non solo sull’asse che si dipana lungo la circonvallazione. Passate pure al parco, dove a due passi dal polmone verde del centro storico giganteggia l’ex Goya (7), o in centro, dove fanno bella mostra di se la ex caserma dei carabinieri (8), attigua al Municipio, o tornate verso Braida per riammirare Diamante e Gerani, non senza passare dal piazzale-parcheggio retrostante la stazione, su cui giganteggiano i ruderi del cosiddetto “consorzio” (9). Ricette? Qualcuna, non senza la doverosa precisazione che l’articolo mescola – volutamente – beni pubblici e privati, destini già scritti e altri ancora da scrivere, giusto a dare un’idea di insieme che tuttavia dell’insieme, in senso tecmnico, non ha l’omogeneità… Di 1 4 2 3 5 6 7 9 Cisa-Cerdisa si sa, e si sa che alla riqualificazione del’aera è legata a doppio filo anche il futuro di via Adda, mentre il Diamante verrà abbattuto e ricostruito grazie all’intervento di un privato, lo stabile di via Circonvallazione 189 verrà solo abbattuto ma non ricostruito, mentre altri edifici verranno riadattati. E’ il caso dell’edificio delle ex Monari, che potrebbe diventare “la 8 10 casa delle associazioni”, o della ex caserma dei carabinieri, futuribile sede di uffici comunali, ma la lista non finisce qui. Si prevede, un domani, anche l’alienazione dell’edificio che, sempre a Braida, ospita le scuole Vittorino da Feltre (10) a favore della realizzazione di un’altra struttura scolastica, si lavora a restituire alla città, almeno come area di sosta, l’area dell’ex ospedale e si coltivano ancora speranze di andare a buon fine con alcune alienazioni rimaste finora lettera morta, come quella dei magazzini comunali. Sogni? Miraggi? Roba fattibile? Lo diranno, più che i prossimi mesi – entro i quali il via lo dovrebbero prendere solo il Diamante e i lavori sull’area parcheggio tra la stazione e piazzale Tien An Men – i prossimi anni. (S. F.) legato ad Internet e la dotazione di questo strumento da parte della Polizia Municipale di Maranello rappresenta un’innovazione sotto il profilo tecnologico che permetterà all’amministrazione comunale di aprire un nuovo canale di comunicazione con i cittadini utilizzando le potenzialità di strumenti come smartphone e tablet. Utilizzando WhatsApp, ad esempio, sarà possibile segnalare in modo immediato e veloce episodi di degrado urbano quali danneggiamenti a strutture pubbliche o disagi di altra natura e problematiche inerenti alla circolazione stradale, inviando un semplice messaggio di testo, vocale e anche delle fotografie. I cittadini che hanno a disposizione uno smartphone o un tablet. A raccoglierle sarà il numero di cellulare 3297504432, attivato all’uopo, complice il quale: la Polizia Municipale si adopererà per prendere in carico la problematica segnalata, garantendo la privacy e la riservatezza di chi ha inviato il messaggio, e nel caso in cui l’intervento non sia di propria competenza, provvederà all’inoltro della segnalazione al servizio responsabile. (E. A.) Il vigile digitale In corso, a Maranello, la sperimentazione che collega, attraverso WatsApp la Polizia Municipale e i cittadini che potranno inviare segnalazioni e doglianze in tempo reale, e corredate di immagini. La delazione corre sul web Maranello I vigili? A Maranello sono smart, e arrivano con WhatsApp. La Polizia Municipale di Maranello si è infatti dotata di un nuovo strumento per raccogliere le segnalazioni da parte dei cittadini attivando il servizio di messaggistica WhatsApp. Chiunque, dotato di uno smartphone, potrà inviare agli agenti, in tempo reale, messaggi con segnalazioni. «L’adozione di questo sistema rientra in un progetto più ampio che vede l’utilizzo delle tecnologie per favorire la comunicazione tra ente pubblico e cittadini», ha detto il sindaco Massimiliano Morini, mentre ad avviso di Carlo Alberto Romandini, comandante della municipale maranellese, «una scelta del genere rientra in un’idea di prossimità e vicinanza al territorio e può contribuire a rendere più efficace anche il nostro lavoro». WhatsApp, ovvero l’applicazione di messaggistica istantanea multi-piattaforma per smartphone, si è molto diffuso negli ultimi anni come sistema per mettere in comunicazione i possessori di un dispositivo col- Via Sacco e Vanzetti, 58 - 41042 - Fiorano Modenese (MO) Tel. : 0536 830445 - Fax: 0536 838134 - Cell. 360 1052586 www.ecomoviter.it - [email protected] SERVIZIO DI SPAZZAMENTO AREE URBANE E PRIVATE CON GESTIONE DEI RIFIUTI PRODOTTI – SPURGHI CIVILI E INDUSTRIALI 9 10 CASTELLARANO e CASALGRANDE anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 La crisi ha fatto strike, ma i birilli sono il bowling… in un punto strategico facilmente raggiungibile dalla strada che porta al passo delle Radici e per anni è stato il punto di ritrovo di tantissime generazioni di giovani. Vi era persino una squadra in “made in Castellarano” che partecipava ai tornei di bowling in giro per l’Italia. Poi la crisi… i costi dell’energia sono andati alle stelle e un simile locale ne consumava parecchia. Aumento dei costi di gestione e calo di entrate, con la drastica contrazione di quanto, anche solo fino a qualche anno fa, si spendeva per hobbies e tempo libero, e bowling che fa strike…. Ora non rimane che visitare la pagina di Facebook con il giudizio a quattro stelle delle oltre duecento persone che hanno lasciato la loro traccia su quel profilo e notare le offerte che venivano fatte per i compleanni dedicati ai bambini e per la ristorazione che veniva preparata nel locale. Un punto di ritrovo dove oltre al ristorante erano presenti alcune piste per il gioco del bowling, una sala giochi e un angolo dedicato al bigliardo. Un locale con un offerta completa dove potevano recarsi le famiglie per passare una serata in compagnia. La crisi taglia i consumi, taglia il superfluo e l’in più. E abbassa serrande e preoccupa: la metafora del “cane che si morde la coda”, dove la coda è la riduzione dei consumi e il cane siamo noi e le nostre attività, ha fatto un’altra vittima. Strike! (Paolo Ruini) decidere in maniera definitiva cosa fare per il futuro». Ovvio chiedersi se l’amministrazione comunale non stia facendo nulla per impedire la chiusura dell’ultimo cinema rimasto sul territorio, altrettanto ovvio sentirsi rispondere che «abbiamo avuto alcuni incontri con il proprietario del cinema e abbiamo offerto la nostra disponibilità a finanzia- re delle rassegne cinematografiche e a favorire la nascita di un cinema d’essai dove si possano proiettare dei film destinati ad un pubblico di nicchia. Ad oggi - prosegue Vaccari - stiamo aspettando una risposta definitiva anche perché non vi è ancora la comunicazione della chiusura di questa attività. Se il cinema chiudesse per il nostro comune sarebbe sicuramente una grossa perdita e ci stiamo impegnando al massimo per riuscire ad evitarlo con una serie di offerte dove l’amministrazione comunale si impegnerebbe economicamente. Non nascondo che vi siano delle problematiche da risolvere come quella del nuovo adeguamento degli impianti e il fatto che sempre meno persone vanno al cinema, e chi ci va predilige multiplex od offerte combinate sul genere di quelle della multisala». (P.R.) Chiude il bowling di Castellarano, il Grande Lebowsky si arrende alla crisi: troppe spese e poche entrate L PERFETTI MECCANISMI DI ASSISTENZA MACCHINE, IMPIANTI E RICAMBI PER INDUSTRIE CERAMICHE G.P. Service s.r.l. via Atene, 17 41049 Sassuolo (MO) Tel. +39 0536 808876 Fax +39 0536 808877 www.gpserviceitaly.com [email protected] a crisi colpisce ancora e spesso chi chiude lo fa in silenzio e se ne va “in punta di piedi”. L’ultima attività “vittima” di una crisi economica che pare non avere mai fine e che costringe le famiglie a risparmiare su tutto è il Bowling di Castellarano. Da alcune settimane il locale è chiuso, al numero di telefono non risponde nessuno e davanti all’ingresso è comparso un grande striscione “Affittasi -Vendesi” corredato da due recapiti telefonici. Contattati i quali vi verrà spiegato che chi gestiva il locale non ha rinnovato il contratto di affitto e quindi al proprietario dell’edificio non è rimasto che trovare un nuovo affittuario o una persona intenzionata ad acquistare l’intero capannone. Il bowling di Castellarano si trova nell’area artigianale in Via Michelangelo Arrivederci Roma… Nel senso di “Nuovo Roma”, il cinema di Casalgrande che ha interrotto la programmazione e potrebbe non ricominciarla più… Casalgrande L a magia del grande schermo è sparita da Casalgrande. Il comune ceramico vantava pochi anni fa la presenza di ben due sale cinematografiche: il cinema Perla alla Veggia e il cinema Nuovo Roma ai Boglioni di Casalgrande. Dopo la chiusura del Perla è rimasto il Nuovo Roma che alcuni anni fa è stato persino ristrutturato. Una sorpresa amara ha colpito gli amanti del grande schermo che hanno visto interrompere la programmazione. Il sito internet del “Nuovo Roma” non annuncia più i nuovi programmi, la sala è chiusa, e chi la frequentava dovrà emigrare altrove. Non a Sassuolo perché i cinema, lì, sono spariti da un pezzo, ma a Castellarano o a Rubiera o a Scandiano o addirittura a Marnello e Fiorano, Modena o Reggio. Le ragioni sarebbero da imputare alla ne- cessità di dotare il cinema di un nuovo impianto di proiezione perché le nuove pellicole possono essere visionate solamente con dei nuovi proiettori digitali che hanno dei costi d’acquisto molto elevati (circa 60mila euro l’investimento richiesto) e «la palla – spiega il sindaco di Casalgrande Alberto Vaccari- è in mano alla proprietà che deve anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 11 SCANDIANO A Scandiano non ci sono più industrie Negli ultimi dieci anni le aziende scandianesi che hanno chiuso i battenti, portato le produzioni in altri luoghi, sono numericamente molte e comunque più rilevanti che in altri comuni “ A te Scandiano faro gentil…” scriveva il Petrarca dall’interno della Rocca che in una notte buia e piovosa gli aveva dato riparo e ospitalità. Un faro che oggi illumina case, strade, piazze, scuole, gente ma poche, pochissime industrie. Negli ultimi dieci anni le aziende scandianesi che hanno l’ex Cantina Cavalli chiuso i battenti, portato le produzioni in altri luoghi, sono numericamente molte e comunque più rilevanti che in altri comuni (il nostro giornale si sta attivando per il recupero di dati statistici certi e precisi che presto verranno pubblicati). E pensare che un tempo il comune di Scandiano ospitava aziende ceramiche che sprigionavano nell’atmosfera milioni di metri cubi di fumi e vapori acquei; industrie alimentari dalle quali partivano centinaia di autotreni alla volta dell’Italia e dell’Europa; laboratori industriali dove centinaia di donne e uomini tagliano e cucivano tessuti; industrie rivolte ai saloni per parrucchieri; artigiani impegnati nella fabbricazione di divani; falegnami impegnati a dare corpo e forma al legno. Che fine ha fatto tutto questo? C’è una ragione di fondo che attribuisce oggi alla città del Boiardo un primato non certo esaltante e poco spendibile per l’immagine del comune reggiano? Ci sono responsabilità oggettive legate ad una non felice gestione politica del territorio? Di certo l’attuale situazione non favorisce l’occupazione, non aiuta il commercio e l’ex Ceramica AMIC le attività ad essa correlate, la ristorazione. Lo sfogo dell’imprenditore Maletti sull’ultimo numero del “Dstretto” ha portato sotto i riflettori un fenomeno al quale noi abbiamo attribuito nome e cognome: “desertificazione industriale”. Raggiungiamo telefonicamente l’imprenditore Viterbo Burani e il responsabile di zona della Cgil Enrico Felloni, per capire quali siano le ragioni di tale fenomeno e se sia possibile identificare delle responsabilità. Il presidente di Arpa Ceramiche è salomonico e distribuisce in maniera equa le responsabilità tra pubblico e privato: “Scandiano non ha mai avuto una zona industriale ben definita e così le aziende sono sorte a macchia di leopardo, va detto anche che noi scandianesi, tolto Manfredini della Casalgrande padana, non siamo grandi imprenditori. Il territorio ha una vocazione più artigianale, certo in questo hanno un peso anche le scelte delle amministra- zioni che realizzano i piani regolatori, non hanno mai pensato a grandi imprese, l’ultima azione in questo senso è quella delle zone dove è poi sorta la Majorca, ma si trattava di lotti piccoli”. Enrico Felloni della Cgil lo definisce “un fenomeno figlio di politiche industriali che sono andate nel verso opposto a quello che in cui andava l’economia, abbiamo lasciato che i distretti languissero nella più completa solitudine quando invece andava costruito un sistema in rete che garantisse la crescita del territorio attraverso la formazione”. Felloni ne fa una questione più ampia, sottolineando come il ridimensionamento sia di tutto il distretto ma, onestamente, a noi pare che comuni come Casalgrande e Castellarano abbiano saputo tenersi strette grandi aziende: “E’ stata una scelta di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, su questo non ci piove. Di certo la politica non è stata capace di interpretare le trasformazioni del mondo del lavoro e dell’economia, non si è adeguata, non ha fatto selezione”. E se Viterbo Burani ha il coraggio di puntare il dito anche sulla scarsa capacità imprenditoriale degli scandianesi un sassolino dalla scarpa se lo toglie quando gli si parla del sindacato: “le condizioni che ci sono nei nostri contratti sono molto più stringenti di quelle che si trovano a Sassuolo, da noi il sindacato picchia duro ed ha sempre ottenuto molto. Lei pensi che nel nostro contratto c’è la gita aziendale, una cosa che con il tempo ha consentito anche la creazione di rapporti d’amore e d’amicizia ma che non ha eguali al di la del Secchia”. Avremmo voluto chiedere qualcosa anche al Sindaco Alessio Mammi ma i nostri tempi di redazione hanno malamente coinciso con quelli della sua attività, ci riproponiamo di sentirlo nelle prossime settimane. (Roberto Caroli) DIRETTORE RESPONSABILE ROBERTO CAROLI [email protected] DIREZIONE,AMMINITRAZIONE Ceramicanda srl, via De Amicis 4 42013 Veggia di Casalgrande (RE) tel.0536990323 - fax 0536990402 REDAZIONE IL DSTRETTO via De Amicis 4 42013 Veggia di Casalgrande (RE) tel.0536822507 - fax 0536990450 [email protected] REDATTORI Stefano Fogliani, Daniela D’Angeli COLLABORATORI Claudio Sorbo, Paolo Ruini, Edda Ansaloni, Babette, Don Achille Lumetti, Alberto Agazzani, Maple Leaf, Sting EDITORE CERAMICANDA SRL Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Reggio Emilia al n°1202 in data 05/12/07 PUBBLICITA’ Ceramicanda srl, via De Amicis 4 42013 Veggia di Casalgrande (RE) tel.0536990323 - fax 0536990402 [email protected] IMPAGINAZIONE gilbertorighi.com STAMPA SOCIETA’ EDITRICE LOMBARDA SRL- CREMONA CERAMICANDA garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo al responsabile dati Ceramicanda via De Amicis 4 42013 Veggia di Casalgrande (RE). Le informazioni custodite nel nostro archivio elettronico verranno utilizzate al solo scopo di inviare proposte commerciali. In conformità alla legge 675/96 sulla tutela dati personali e al codice di auotisciplina ANVED a tutela del consumatore www.ceramicanda.com 13 RUBRICHE anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 Stelle & Strisce Il resto? Mancia, of course M ancia al ristorante, mancia al tassista, mancia al barista, mancia in albergo: mentre in Italia l’istituzione feudale della mancia è quasi scomparsa, nei civilissimi Stati Uniti è ancora un dovere fastidioso. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? Innumerevoli. Ebbene, è una fesseria. O meglio, è uno dei tanti luoghi comuni che circolano su quel paese. Comunque, nelle lamentele dei nostri connazionali che subiscono il tormento quotidiano delle mance c’è un fondo di verità. Di più: negli stessi Stati Uniti sta crescendo il numero di coloro che vogliono l’abolizione della mancia perché feudale, anacronistica, ipocrita e poco democratica perché classista (chi dà la mancia appare socialmente superiore a chi la riceve): speriamo sia cancellata presto. La mancia è nata negli Stati Uniti oltre due secoli fa; a quei tempi i titolari di saloon e ristoranti, allo scopo di tenere bassi i prezzi, pagavano i dipendenti col minimo retributivo. La mancia era quindi una integrazione al loro guadagno e veniva data dal cliente in base alla soddisfazione per il servizio ricevuto. In tal modo, si diceva (ecco l’ipocrisia) che il dipendente sarebbe stato incentivato a dare un buon servizio nella prospettiva di una mancia generosa. Queste motivazioni erano valide forse qualche secolo fa ma non più oggi: infatti, il comportamento di ogni cameriere o barman è più frutto dell’educazione ricevuta in famiglia che dalla prospettiva di una mancia elevata. Inoltre la mancia non ha mai tenuto bassi i prezzi, perché se alla somma per la portata o la bibita vanno aggiunte le tasse federali e la mancia, il prezzo basso va a farsi benedire. La verità della mancia è una sola: è un espediente attraverso il quale per tradizione il cliente paga una parte della retribuzione del cameriere che lo serve. Ciò premesso, va precisato che la mancia non va riconosciuta a tutti quelli che ci offrono un servizio: se compriamo un vestito dopo averne provati una decina non va riconosciuta alcuna mancia al commesso che ci ha aiutato nella scelta e nemmeno va data la mancia all’impiegata di un Centro Prenotazioni che ci ha trovato un buon albergo a un prezzo umano. La mancia va data a ogni lavoratore dipendente che ci abbia fornito un servizio personalizzato: in pratica, solo ai tassisti (quasi tutti dipendono da società), ai camerieri, ai barman e, negli alberghi, ai facchini che ci portano in camera le valigie o la colazione la mattina. Infine, la mancia va data a chi consegna a domicilio la spesa o un collo. La procedura di riconoscimento della mancia al ristorante è di una certa complessità: il cameriere vi porta il conto, voi gli date la vostra carta di credito, lui va alla cassa e torna poco dopo col conto in cui sono indicati i prezzi delle portate e le tasse federali. Voi aggiungete la mancia e ridate il tutto al cameriere che torna alla cassa e vi porta una nuova striscia in cui appare il conto, le tasse e la mancia. A questo punto, vi alzate, prendete la carta di credito, ringraziate e salutate. Siccome su ogni conto è scritto il nome del cameriere che vi ha servito, a fine giornata il titolare dovrebbe scrivere sui suoi registri tre somme: il totale dei conti (su cui pagherà le tasse locali), il totale delle tasse federali e il totale delle mance spettanti al cameriere, che gli riconoscerà settimanalmente (negli Stati Uniti i lavoratori sono ancora pagati a settimana, come nel 1800. Fanno eccezione i professori universitari e poche altre categorie che sono pagate quindicinalmente). Abbiamo detto “dovrebbe”, perché spesso i ristoratori di recente inizio attività non riconoscono ai camerieri le mance pagate dai clienti, adducendo giustificazioni pretestuose. In tal caso, avete una via molto semplice per combattere questo odioso comportamento: barrate sul conto lo spazio dedicato alla mancia, pagate quel che avete mangiato e bevuto (più le tasse) con carta di credito e date al cameriere in contanti l’ammontare della mancia: vedrete luccicare i suoi occhi, dopo di che luccicheranno anche i vostri per il piacere di aver fottuto un disonesto che deruba i suoi dipendenti. Cosa dare di mancia? Nei ristoranti e nei taxi si è passati dal 10% canonico di una ventina di anni fa all’attuale 15%, con punte del 18% e persino del 20%. In media, a un cameriere o a un tassista si riconosce il 15%. A chi vi porta i bagagli in camera o li sistema nel taxi si riconosce un dollaro a valigia o borsa e si dà un dollaro a bevanda nei bar, sia che consumiate al banco o al tavolo. Ovviamente, la percentuale cambia a seconda dell’hotel in cui pernottate o del ristorante in cui cenate: se siete in un Hotel a cinque stelle o se andate a cena nel ristorante di lusso di uno chef stellato dovete stare sul 20%. Qui, vista l’entità del conto, questo 20% sarà una bella sberla, ma non dovrete lamentarvi, altri- menti fareste la figura di quelli che hanno la Ferrari e si lamentano che la benzina è cara. Dare la mancia, in assenza di una calcolatrice, implica equilibrismi mentali: stanno per fortuna aumentando i locali che vi facilitano – si fa per dire – il compito stampando, sotto il conto e le tasse federali, le percentuali e il relativo ammontare: ad esempio, per 120 dollari di conto compare “15% - 18 dollari, 18% - 21,60 dollari, 20% - 24 dollari”. Una raccomandazione: la mancia si riconosce sul conto, non sul conto più le tasse. Infine, è lecito non dare la mancia, ma solo se il servizio è stato pessimo: cameriere sgarbato, insofferenza verso il vostro inglese primitivo, comportamenti indisponenti. In tal caso, niente mancia ma senza lasciare in bianco lo spazio sul conto: sbarratelo, così nessuno vi addebiterà nulla fraudolentemente. Comunque, la mancia è destinata a scomparire e ciò accadrà con gran confusione sociale nel popolo americano: l’idea che il servizio sia compreso ai loro occhi fa molto “Russia comunista”. Pazienza, se ne faranno una ragione e sopravvivranno, come è sopravvissuta l’umanità alla scomparsa di Leonardo da Vinci. . (Sting) un lavoro – guadagna € 1.024 netti mensili e nei paesi della UE € 1.378. Dopo 5 anni, in Italia raggiunge € 1.586, nella UE € 2.324. Negli anni che seguono, la crescita retributiva allontana sempre più chi è andato all’estero rispetto a chi è rimasto in Italia. Un’eccezione positiva è la inglese Rolls Royce (motori aerei). A Derby (UK) i suoi selezionatori hanno scoperto nel 2008 che gli ingegneri italiani sono migliori degli altri: da quell’anno ne vengono assunti 20 l’anno. Inoltre, l’azienda ha creato un ufficio che perlustra i più importanti atenei del mondo allo scopo di assumere i migliori neo laureati, offrendo loro da subito assunzioni a tempo indeterminato e la formazione al ruolo di un anno pagata 27.000 sterline nette (€ 33.827,22), cui seguono incarichi in responsabilità progressivamente crescenti. Dove vanno i neo laureati italiani? A cinque anni dalla laurea ne troviamo il 16,7% in Inghilterra, il 15% in Francia, il 12% in Germania, l’11,3% in Svizzera, il 7,3% in U.S.A. e in Belgio, l’1% in Spagna. I restanti risiedono un po’ dappertutto, dalla Svezia all’Australia, dalla Norvegia al Canada. Quanti tornano in patria? Quasi nessuno: giunti nel nuovo paese, trovano il lavoro, verso i 30 anni si sono sistemati, incontrano la donna del cuore, si sposano, comprano casa, fanno il primo figlio, poi il secondo e si impegnano ancor di più nella carriera per migliorare la loro situazione economica. Solo noi abbiamo i cervelli in fuga? Basta consultare le statistiche di “Eures”, il portale europeo per il lavoro: la Spagna ha in corso 322.698 richieste di lavoro, poi viene l’Italia con 190.497, poi la Romania con 86.000, poi Portogallo, Polonia, fino all’ultimo, l’Inghilterra con 33.489. La responsabilità di questo disastro è la politica, ma hanno pesanti responsabilità anche un certo numero di nostri imprenditori, spesso espressione di una gerontocrazia convinta della sua indispensabilità e della sua immortalità. Essi continuano a fare da tappo ai loro figli, ma soprattutto ai giovani manager, che se ne vanno all’estero. Intanto, essi continuano a lavorare come 30 anni fa (e spesso senza sapere nemmeno accendere un PC), sottolineando il loro fallimento: avrebbero dovuto preparare successori eccellenti, non castrarli perché non sono le loro copie conformi. Anche questo ci ha dimostrato la crisi che, grazie anche alla generosa collaborazione dei politici, stiamo ancora vivendo. (Sting) Fardelli d’Italia La fuga dei cervelli continua: ecco perchè... P arlar male dei politici è come sparare sulla Croce Rossa o, come si dice a Bologna, “Cumpagn’a ammazèr un ch’al chèga”, ma si sa che i bolognesi sono grassi, comunisti e volgari. D’altra parte, i politici ne fanno talmente tante che viene il sospetto che provino piacere ad essere abbattuti mentre espletano metaforicamente le loro funzioni organiche. Pensiamo ad esempio alle politiche demenziali che hanno generato da almeno un decennio la così detta “Fuga dei cervelli”: come è stato già ricordato, solo negli Stati Uniti i ricercatori e i professori italiani sono 23.000, in media 6,96 in ciascuna delle 3.300 Università, tra pubbliche e private, di quel paese. Se poi ci aggiungiamo i ricercatori e i professori attivi nelle Università europee e in quelle asiatiche arriviamo a cifre da tutto esaurito al Maracanà. Ovviamente, se parlate con un politico lui se ne uscirà con le solite ipocrite geremiadi, “Scontiamo gli errori del passato” (manco i politici succedutisi sino all’ultima legislatura fossero provenuti dal Burkina Faso e dal Paraguay), oppure “Non ci sono soldi, il nostro debito pubblico è quel che è” (manco sia stato creato in una notte da una banda di ignoti sabotatori finanziari). D’altra parte, i politici sono come gli artigia- ni, se ne chiamate a casa vostra uno perché un rubinetto perde lui dirà che la colpa è dell’idraulico che lo ha preceduto e che ha sistemato male la guarnizione. Accanto ai politici, una robusta mano alla fuga dei cervelli l’hanno data anche, paradossalmente, numerosi imprenditori, come vedremo. Poiché il disprezzo è un’opinione, per dimostrare la situazione del “Brain Drain”, “Drenaggio di cervelli”, ci siamo rifatti a una accuratissima indagine realizzata dalla giornalista Francesca Sironi e pubblicata sul numero 9 del 6 marzo 2014 de “l’Espresso”. Eccone un estratto: in primo luogo, quanto costa un laureato? Limitandoci all’Università, un laureato che abbia frequentato un corso di 5 anni costa allo Stato, in media, € 34.950 l’anno. Calcolando che, altrettanto in media, se ne vanno annualmente all’estero in via permanente 5.000 giovani laureati, l’Italia vede volare via dagli aeroporti, insieme ai suddetti 5.000 laureati, anche 175 milioni di Euro l’anno. Qual è la qualità degli studi universitari in Italia? In media, eccellente, grazie anche a scuole secondarie che, per quanto scassate e scricchiolanti, sono pietre preziose rispetto alla qualità degli studi secondari di altri paesi. A testimonianza, la Direttrice dell’Istituto di Fisica Teorica dell’Università di Parigi Orsay ha confessato a un giovane dottorando italiano che era molto grata ai politici italiani: non fanno nulla per trattenere i migliori neo laureati, che così si trasferiscono negli atenei di tutto il mondo senza che i paesi ospitanti abbiano speso un solo centesimo per formarli. Se è così, perché la nostra migliore Università, quella di Bologna, galleggia al 200° posto nelle classifiche mondiali? Perché quelle cha la precedono sono le Università di eccellenza di tutto INCHIOSTRI VETRIDIGIT VIK “EVO” New Eco Generation VetriDigit, divisione digitale di Vetriceramici spa, presenta la nuova ed esclusiva gamma di inchiostri per ceramica “New EVO”, progettata e prodotta completamente nell’innovativo sito di produzione e ricerca per materie digitali di Casola Valsenio (RA). La nuova serie EVO si contraddistingue dalla precedente, già apprezzata, per essere “amica” dell’ambiente, infatti è composta da prodotti non tossici e conformi alle più severe normative europee REACH. Vetriceramici, per sua natura, continua fortemente ad investire in ricerca sulle nuove tecnologie digitali, e ad oggi la divisione R&S conta più di 20 addetti specializzati. Vetriceramici si conferma leader per qualità prodotto e servizio di assistenza al Cliente. il mondo (delle prime 50, ben 35 sono americane), mentre in Italia non esistono Università eccellenti: da noi ci sono quelle che dicono di essere eccellenti, ma non basta dirlo per esserlo. Chi è lo studente – tipo che espatria? Un giovane di 25 anni, con laurea specialistica ottenuta in cinque anni col massimo dei voti in Ingegneria, Economia, Lingue e letterature contemporanee, Scienze politiche e sociali. Perché va all’estero? A un anno dalla laurea, in Italia – dato e non concesso che abbia trovato 14 accaDmenti anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 Meglio soli che in cattiva compagnia: l’Europa che vogliamo Don Achille Lumetti Gli aspetti cardine dell’Unione sono e devono essere sempre il rispetto delle identità e l’attenzione a coloro che non riescono a marcare il passo. L’Europa che vogliamo è solo l’Europa solidale U na ondata di indipendentismo ha attraversato e attraversa il Vecchio Continente. Aria di secessione nei paesi Baschi, dalla Scozia, dall’Alsazia alla Gran Bretagna. E poi Sardegna, Corsica.... E’ solo utopia, o c’è di più dietro a tutto questo? L’autodeterminazione striscia anche il nostro Paese. La situazione dell’Ucriana è drammatica, e a ben vedere al centro di questi impulsi c’è una tensione “esistenziale”: intesa come modo di esistere, di creare una economia sostenibile. La stessa lingua crea sfaccettature e aspetti diversi culturali che vanno a gonfiare un disagio sempre e ovunque presente. Se non prevale il senso di solidarietà in Europa, si rischia che lo Stato Centrale vada a depredare le risorse, del- le singole nazioni, per ridistribuirle. E per questo, alla base dell’UNIONE degli Stati deve esserci il fondamento degli aspetti sociali, storici e culturali di un singolo popolo. Non devono avere luogo soppressioni o annullamenti, ma questo terzo millennio che muove i primi passi reca con sé scenari di attese e di incognite. Si realizza la globalizzazione del- la cittadinanza: con una qualsiasi carta di credito sali su aerei, e ti sposti dove vuoi sentendoti cosmopolita, cittadino del mondo ma i vari movimenti trasversali tuttavia, non sono del tutto affidabili. Nelle assemblee che l’Unione degli Stati pone in primo piano c’ è l’equilibrio delle forze che eclissano la dignità della persona. La tecnostruttura dell’apparato centrale deve rispettare le singolarità dell’Europa Unita, e gli aspetti cardine dell’Unione sono e devono essere sempre il rispetto delle identità e l’attenzione a coloro che non riescono a marcare il passo. L’Europa che vogliamo è solo l’Europa solidale, senza prepotenze, unita sì ma ricca di solidarietà. (Don Achille Lumetti) Via A. Vespucci, 12 - 41049 Sassuolo (MO) - tel. 0536-807484 - fax 0536-889952 - email: [email protected] 15 Dstensioni anno 6 numero 149 / 1 Novembre 2014 Il pranzo di Babette Le sontuose caldarroste «Per te i tuguri sentono il tumulto or del paiolo che inquïeto oscilla; per te la fiamma sotto quel singulto crepita e brilla: tu, pio castagno, solo tu, l’assai doni al villano che non ha che il sole; tu solo il chicco, il buon di più, tu dai alla sua prole;» C on questi versi Giovanni Pascoli rendeva omaggio al castagno, pianta dal ruolo fondamentale nella civiltà contadina del tempo, capace di riscaldare con l’ardere della corteccia nel focolare e nutrire con la dolcezza dei propri frutti che cuociono nel paiolo. Una manciata di caldarroste fumanti ha la capacità taumaturgica di rendere più sopportabili le prime nebbie d’autunno, le temperature sempre più rigide e quella progressiva mancanza di sole che ci ricorda che la natura si sta avviando alla morte dell’inverno. Frutto sano e nutriente, in passato la castagna era un alimento essenziale del popolo, al punto da guadagnarsi l’appellativo di “pane dei poveri”, cambiano i tempi ed oggi acquistare un chilo di castagne si rivela quasi un investimento da ponderare, complice un parassita che ha ridotto drasticamente i raccolti. Un alimento versatile che può essere consumato arrostito, bollito, secco o ridotto in farina per essere impiegato in numerose ricette, dal castagnaccio al “pane d’albero”, tipico di alcune zone della Francia. L’alto contenuto di carboidrati complessi le rende capaci di sostituire i cereali più pregiati, non a caso infatti lo storico greco Senofonte definì il maestoso castagno come l’albero del pane. Attenzione però al considerevole apporto calorico: 100 grammi di caldarroste sfiorano le 200 calorie ma contengono anche grassi, proteine, sali minerali (soprattutto potassio, fosforo, zolfo, magnesio, calcio, ferro) e vitamine (C, B1, B2 e PP). Volete sapere da dove arriva quel tipico sapore dolciastro delle castagne arrostite o lessate? Ebbene durante la cottura buona parte dell’amido che contengono si riduce in zuccheri semplici, rendendole controindicate a chi soffre di diabete. Sono invece perfette per chi soffre di avitaminosi, anemia e debilitazione, inoltre l’infuso ed il decotto, ricchi di tannini, sono utili in caso di bronchiti e diarrea, mentre i gargarismi con l’infuso di foglie sono un ottimo rimedio contro infiammazioni di gola e bocca. Dimenticando l’economicità il consiglio è quello di scegliere i più pregiati marroni: vantano dimensioni superiori ed una forma ovoidale più bombata ai lati, tendente al cuoriforme. La ricetta più sontuosa e dall’imbarazzante computo calorico è il “Mont Blanc”, un dolce che gode di pessima pubblicistica, viene infatti ritenuto difficile e laborioso da realizzare, un mito che andrebbe sfatato. La fase più ostica è certamente quella della sbuccia- tura dei marroni bolliti che deve avvenire quando sono ancora caldi per poter togliere l’infingarda pellicina interna. Insomma dovrete essere molto veloci e prepararvi a qualche scottatura, una pena che vi consigliamo di condividere con almeno un paio di persone, in modo da velocizzare l’operazione e condirla con qualche chiacchiera in cucina, come avveniva nelle cucine d’un tempo. Il segreto di Babette è aggiungere all’acqua nella quale bollirete i marroni un pizzico di sale ed una stella di anice; uan volta sbucciate rimettete sul fuoco con latte, una bacca di vaniglia raschiata e zucchero per una mezz’ora circa in modo che si impregnino bene e si ammorbidiscano. Quando cominciano a “spappolarsi” spegnetele e scolatele, quindi passate al setaccio fino ad ottenere una purea piuttosto consistente alla quale aggiun- gerete cacao, rum e panna fresca. Amalgamate, fate raffreddare il composto per qualche ora in frigorifero in modo che si compatti e al momento di servire prendete lo schiacciapatate e “siringate” il di Alberto Agazzani Alberto Manfredi. Carni tremule Figlio del suo tempo e della sua storia, ma sempre “semplice”, diretto, emozionante e finalmente divertente, in grado di parlare a tutti A lberto Manfredi è forse il pittore reggiano della sua generazione che più di ogni altro si è guadagnato una ribalta nazionale ed internazionale. La fortuna artistica di Manfredi nasce, non a caso, come disegnatore ed incisore. Sono quelli, infatti, i linguaggi che lo accompagneranno in un crescendo d’eccellenza per tutta la vita e sono quelle le premesse di un’altrettanto fortunata pittura, il cui riconoscimento presto varcherà e si consoliderà ben oltre la natia Reggio Emilia. E’ evidente sin dai primissimi dipinti dei tardi anni ‘40 la forte suggestione, insieme, di echi impressionisti ed espressionisti prima maniera stemprati da una malinconia tutta morandiana. In quelle tele si evince un dilemma, evidenziato da una tendenza al gusto ed all’”impressione” francese, ma riscaldata e resa inquieta da una tavolozza che risente dell’”espressione” tedesca di Grosz, Dix e Beckmann. A quest’ultima espressione si convertirà (rimanendo però anche fortemente francese nel gusto e nello spirito) definitivamente già dagli anni ‘60, riuscendo a definire uno stile assolutamente autonomo ed originale, presto riconosciuto a livello nazionale, sotteso fra malinconia e ironia, quest’ultima di evidente spirito maccariano. Manfredi è un grande pittore in grado di esprimersi sempre con un temperamento sì figlio del suo tempo e della sua ricca e complessa storia, e nel quale si intravvedono immediate e dichiarate “paternità”, ma sempre “semplice”, diretto, emozionante e finalmente divertente, in grado di parlare a tutti, anche a coloro che ignorano i fondamenti culturali ed espressivi della sua natura. Si è spesso parlato di “nostalgia” nella pittura di Alberto Manfredi: immagine semplicistica buona solo a fare della pessima letteratura. Io parlerei, forse, di ben più complessa “malinconia”, ma più ancora di costante, sottile, affilata ironia, quasi il pittore si divertisse a nasconderla fra le pieghe di un’apparenza che, in pittura (ma non solo), inganna sempre. composto cercando di realizzare una montagna e che poi decorerete con sbuffi di panna montata e se le gradite meringhe e marrons glacés. 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