martedì 18 febbraio 2014 Stop the pounding heart Roberto Minervini, USA/Italia, 2013, 98’ Roberto Minervini è forse il miglior “nuovo” talento cinematografico italiano. Infatti vive in Texas. Stop the Pounding Heart è girato in una comunità texana suddivisa tra giovani bull rider (i ragazzi dei rodei) e una famiglia timorata di Dio in parte già incontrata nel suo primo lungometraggio, The Passage (2011). Tecnicamente parlando siamo dalle parti del documentario: non-attori che si sono prestati a vivere per un po’ con una troupe leggera al loro fianco, quasi sempre molto discreta e laterale ma a volte, invece, “perlustrante”. La cosa formidabile, in questo secondo caso, è che Minervini e il direttore della fotografia Diego Romero (co-autore anche del soggetto) si sono fatti sorprendere loro per primi dagli avvenimenti, come nella stupefacente sequenza finale della “confessione” di Sara a sua mamma, improvvisa. La realtà accade. Minervini la coglie. Pare Rossellini con lo stile di Malick. Non sembrino paragoni esagerati: in questo film c’è una luce nuova, esaltante. Poi ad affascinare è anche il contesto, certo; rurale bianco sudista dove l’Antico Testamento è ancora preso alla lettera, il dibattito filosofico ruota intorno al calibro delle cartucce e una croce fiammeggiante si contempla come un bel tramonto. Mai nessuna irrisione nel raccontare queste persone, né critica sociale. Il fremito è tutto per Sara, che si innamora del suo giovane cowboy senza che la Bibbia, la madre, il padre o il regista, possano in alcun modo ostacolare i battiti del suo cuore. Mauro Gervasini FilmTV L’abbraccio, come necessità, dimostrazione d’essere i due una cosa sola, esito che dava senso al vagare senza meta del ragazzino di Low Tide, in Stop the Pounding Heart, ultima regia di Roberto Minervini che chiude la sua Trilogia del Texas cominciata con The Passage, diventa stretta soffocante, che opprime e sopprime il singolo a compiacenza della comunità. Quella in cui cresce Sara, adolescente educata secondo i precetti dell’ortodossia biblica, che le insegnano a sottomettersi all’autorità paterna per essere poi pronta ai doveri coniugali. Dove non si va a scuola, perché si è istruiti in casa dai propri genitori, e si impara presto a contribuire all’azienda di famiglia. Un mondo paradossalmente chiuso quello della sterminata provincia proletaria statunitense, cameratesco, in cui i ragazzi hanno come unico divertimento giocare ai cowboys nei rodei e le ragazze come solo orizzonte il matrimonio. Tutti devoti a Dio e al Secondo emendamento della Costituzione, quello che garantisce il diritto inviolabile a possedere armi, maneggiate con disinvoltura anche dalle donne incinte, quasi che volessero, inconsapevolmente, trasmettere al loro feto l’ancestrale vibrazione del rinculo. In questa legione di redneck Sara conosce Colby, un giovane allevatore di tori. Quando stanno assieme sono impacciati, incapaci di sciogliere quel grumo di timidezza che strozza le parole in gola. Non riescono ad andare al di là della reciproca curiosità. Eppure questo già basta a mettere in crisi Sara, che si scopre inadatta alla vita, inconsolabile dalla fede. Un materiale umano e sociale, quello a cui si è trovato di fronte Minervini, che sarebbe stato facile adoperare come bersaglio di critica subordinata a convinzioni ideologiche. Ma, come ricorda Deleuze, una critica concepita unicamente come rappresentazione di conflitti rimane interna a un sistema rappresentativo precodificato e, quindi, sostanzialmente inefficace. Minervini non vuole avere a che fare con un occhio vuoto, uno spettatore passivo,controllato, assoggettato alla narrazione, identificato con i personaggi e soggiogato da schemi preliminarmente predisposti, e lo pone davanti a una visione che lo obbliga a dimenticare le abitudini stereotipate del guardare e del pensare. «Come dice Bergson noi non percepiamo la cosa o l’immagine intera, ne percepiamo sempre meno, ne percepiamo solo quel che siamo interessati a percepire, o piuttosto quel che abbiamo interesse a percepire, in ragione dei nostri interessi […]. Abitualmente percepiamo dunque soltanto cliché», conflitti istituzionalizzati, normalizzati, che ingenerano un’idea estremamente semplificata e banalizzata del reale, ridotto alla somma di azioni concatenate secondo un semplice legame causale, un gioco di stimolo e risposta, di coercizione e resistenza. Minervini sfugge da questi cliché per cercare di ritrovare tutto quel che non si vede nell’immagine, tutto quel che le è stato sottratto, o aggiunto, per renderla “interessante”, conforme ai parametri delle logiche spettacolari. Vuole restituire un’immagine intera e senza metafora, che mostri le cose in sé, nei propri eccessi d’orrore o di bellezza, nel loro essere radicali o ingiustificabili. Da parte sua non c’è mai un’inquadratura giudicante, un eccesso didascalico. La sua m.d.p. «tollera o sopporta […] ogni cosa, dal momento che è presa in un sistema» di relazioni. Il regista è lì, affianco alla sua protagonista, la segue, la sostiene con lo sguardo, senza mai condizionarla alle strutture ingabbianti della narrazione. Un’immersività trasmessaci per mezzo dell’uso ininterrotto della macchina a mano, non finalizzata all’identificazione ma alla partecipazione. La regia si apre agli stimoli esterni, per poter essere continuamente interagente con ciascun altro corpo con cui condivide quello spazio e quel tempo comuni. Per Minervini è necessario non nascondere il proprio coinvolgimento fisico, tangibile, perché soltanto così può riuscire a mettersi in relazione con gli altri. Un tentativo di esistenza, ché essere è essere presenti a qualcuno. È cinema come impresa inaudita, sforzo di fare della visione un mezzo di conoscenza e di azione. Come sostiene Giovanni Bottiroli «il mondo reale deve essere conosciuto, l’involucro della vita fittizia dev’essere oltrepassato». Che poi, ci ricorda Alessandro Simoncini, è un po’ lo stesso di quello che suggeriva Delezue, secondo cui «Occorre credere al mondo proprio sondando l’impensato del mondo, il suo nuovo e le possibilità che giacciono inascoltate nelle sue stesse pieghe. Occorre credervi costruendo le condizioni di possibilità di una inedita conoscenza di questo stesso mondo». Matteo Marelli CineforumWeb
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