pediatra per amico bimestrale per i genitori scritto dai pediatri italiani Realizzato e diffuso con la collaborazione dell’Associazione Culturale Pediatri Anno XIV n. 3/2014 - Euro 3,50 un Bimestrale. Poste Italiane s.p.a. Spedizione in AP - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. I, comma I, DCB ROMA Aut. n. 15/2009 Questa volta parliamo di pediatri Editoriale La Cina è vicina è una storia che mi ha sempre colpito: nell’antica Cina il medico dell’imperatore era pagato fin tanto che il suo illustre paziente fosse stato sano, se si ammalava Vincenzo Calia non riscuoPediatra di famiglia, Roma teva più il suo onorario. Più o meno così funziona il lavoro dei pediatri, medici curanti dei moderni imperatori che sono i nostri bambini: il pediatra di famiglia riscuote ogni anno un onorario per ciascuno dei bambini che assiste ed è (o almeno dovrebbe essere) molto interessato alla salute del suo paziente, perché se i suoi assistiti sono sani, lui stesso lavora meno e quindi, di fatto, guadagna di più. Non è stato sempre così, per molti anni i medici di quelle che all’epoca erano le “mutue” venivano pagati a prestazione: più visite, più ricette e più guadagno. Il sistema attuale è stato copiato dal modello inglese, sperimentato da ormai quasi 70 anni: io personalmente lo trovo perfetto, perché ha generato negli anni una cultura della salute e una pratica pediatrica che non ha eguali. I medici, inutile negarlo, sono degli esseri umani come tutti, hanno i loro pregi e le loro debolezze; e anche i loro interessi da coltivare e da difendere. La medicina moderna, nei paesi sviluppati, segue più o meno da vicino il modello americano che è basato sull’espansione continua del C’ consumo: consumo di farmaci, consumo di accertamenti, di visite mediche, di ricoveri ecc. ecc. Ogni medico, ogni specialista, ogni categoria sanitaria tende ad allargare progressivamente la sua sfera di influenza, a moltiplicare le sue diagnosi, a generare nuova domanda di interventi terapeutici fino ad arrivare a quello che viene definito disease mongering, cioè a creare patologie inesistenti (o a ingigantire problemi banali), con l’unico scopo di generare consumi sanitari. Intendiamoci, nessuno (o quasi nessuno) fa queste cose in malafede, con la consapevolezza di ingannare il suo paziente; è come una corrente che nasce e si gonfia alimentata da mille rivoli. La pediatria italiana, secondo me, ha il merito di sfuggire a questa regola, è una medicina in gran parte virtuosa, centrata sull’interesse dei pazienti più che su quello dei medici. Il merito del nostro sistema “cinese” di remunerazione è stato solo quello di aver innescato questo meccanismo, il resto è venuto dopo ed è stato il frutto del lavoro e dell’insegnamento dei nostri grandi Maestri, ma anche dell’elaborazione collettiva di una consistente élite di medici, che è sempre forte ed influente e di cui questo giornale si sente in un certo senso portavoce. Certo, non tutto è rose e fiori, come potete leggere nello speciale al centro di questo numero di UPPA, ma, per quanto mi sforzi di guardarmi intorno, non mi pare di vedere niente di simile nel panorama della medicina italiana. Cosa ne pensate voi, che siete i nostri lettori, ma anche i nostri “clienti”? Fatecelo sapere, il vostro punto di vista ci interessa molto. [email protected] 3 Anno XIV numero 3/2014 foto di copertina Franco Nonne un pediatra per amico www.uppa.it SOMMARIO Bimestrale per i genitori scritto e diffuso dai pediatri in collaborazione con L’Associazione Culturale Pediatri direttore responsabile Vincenzo Calia referente dell’Associazione Culturale Pediatri Laura Reali hanno scritto su questo numero Vincenzo Calia, Alessandra Puppo, Paolo Sarti, Paolo Roccato, Vitalia Murgia, Franco Panizon, Marisa Laura Corgiolu, Sergio Conti Nibali, Costantino Panza, Maria Francesca Siracusano, Daniele Novara, Michele Valente, Costantino Panza, Elisa Bedoni, Elena Uga, Sonia Bozzi, Simona Fiscale, Anna Rita Marchetti, Annibale Rebaudengo, Caterina Vignuda, Rossella Faraglia, Maria Cristina Stasi coordinamento redazionale e raccolta immagini Sonia Bozzi ufficio abbonamenti Lorenzo Besson, Daniela Mantuano ritratti Francesca D’Ottavi illustrazioni dello speciale Federica Fruhwirth impaginazione Phanes srl - Roma redazione piazza Armenia 10 - 00183 Roma telefono 06.89.01.46.22 - fax 06.70.49.75.87 stampa Artigrafiche Boccia spa - Salerno abbonamenti: annuale euro 21,00 - biennale euro 35,00 c.c. postale n° 93275550 intestato a Un pediatra per amico sas editore Un Pediatra Per Amico s.a.s. - www.uppa.it Concessionarie per la pubblicità: QuickLine sas Via Santa Caterina da Siena, 3 34122 Trieste - Tel. 040.77.37.37 Ombretta Bolis - [email protected] Espressione srl Via Vanchiglia, 18, 10124 - Torino Tel. 011.199.13.127 L’IVA è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art.74, primo comma, lettera C, DPR 26/10/1972 n° 633. L’importo non è detraibile. Registrazione al Tribunale di Milano n. 399 del 29/6/2001. I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’articolo 13 D.lgs n. 196/03 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a Un Pediatra Per Amico, responsabile dati. 3 La Cina è vicina di Vincenzo Calia 7 NASCERE Un regalo prezioso… che accettano in pochi di Alessandra Puppo 10 COSA C’È DI VERO La scienza “romantica” di Paolo Sarti 13 La sindrome autistica postvaccinale non esiste Lettera aperta ai genitori dai pediatri dell’ACP 14 LO SPAZIO DELLA MENTE A tutto puzzle di Paolo Roccato 17 CURARSI CON LE PIANTE Mirtillo nero: piacere e salute ASSOCIATO A: di Vitalia Murgia 18 Questo giornale non usufruisce di alcun finanziamento statale. Vive solo con i suoi introiti: abbonamenti (90%) e pubblicità (10%). Accetta tutte le inserzioni pubblicitarie, a condizione che non contrastino con la linea editoriale del giornale, non interferiscano con i suoi contenuti e non violino il Codice Internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno. Le pagine pubblicitarie de La Giostra, Radio Magica, Nati per leggere, Nati per la musica e Medici per i Diritti Umani sono pubblicate a titolo gratuito. COME ERAVAMO 1951: l’inondazione del Polesine di Franco Panizon 20 MEGLIO SAPERLO PRIMA Insegnare le manovre salvavita di Marisa Laura Corgiolu 22 QUESTIONI DI LATTE Due al prezzo di uno di Sergio Conti Nibali 24 PAGINACP Anche il sole ha le sue “macchie” Imbustato in di Costantino Panza e Maria Francesca Siracusano 26 SCUOLA, CHE PASSIONE! Il bambino vivace non è un malato 41 LO SO FARE ANCH’IO Lo sciroppo di menta di Daniele Novara di Elena Uga 43 LETTURE PER GENITORI Una grande occasione da non perdere di Sonia Bozzi INSERTO ILLUSTRATO 44 NATI PER LEGGERE La leggenda del dito solo Le parole che aiutano Testi di Roberto Piumini Illustrazioni di Silvia Forzani di Simona Fiscale LA PAGINA UTILE Manovre antisoffocamento e di rianimazione da 0-12 mesi 45 NATI PER LEGGERE Le mamme e un universo di colori di Anna Rita Marchetti 46 NATI PER LA MUSICA Piccoli musicisti crescono di Annibale Rebaudengo 30 SPECIALE: QUESTA VOLTA PARLIAMO DI PEDIATRI Il medico “della mutua” 48 LE RICETTE DI CATERINA Freddi e squisiti: perfetti per l’estate di Michele Valente 33 Ve lo dico io come deve essere un pediatra di Caterina Vignuda 49 VENGO ANCH’IO Il Museo dell’Ovvio di Rossella Faraglia di Costantino Panza 50 36 Nessuno è perfetto Sole, vento, acqua... sabbia di Vincenzo Calia 38 di Maria Cristina Stasi LA PAROLA AI GENITORI Le notti di Elisa di Elisa Bedoni 40 MAI PIÙ SENZA La cameretta dei sogni di Tiziana Cherubin GIOCARE E STARE INSIEME 52 POSTA & RISPOSTA Ancora sulle allergie Nascere Un regalo prezioso… che accettano in pochi Le cellule staminali del cordone ombelicale: importanti per la cura e la ricerca, ma difficili da donare o letto con interesse l’articolo sulla Lotus Birth (“Nati con la valigia”, di Alessandra Puppo, UPPA n. 1/2014, disponibile per gli abbonati sul sito www.uppa.it), che ha confermato quanto già pensavo su questa pratica, ma vorrei soffermarmi sulla frase: “tanti studi hanno infatti mostrato chiaramente i vantaggi che derivano dal non praticare il taglio precoce del cordone”. Sono mamma di 2 bambini ed entrambe le volte che ho partorito mi sarebbe piaciuto donare il sangue cordonale. La prima volta non è stato possibile: l’ospedale dove ho partorito non era attrezzato per farlo. Ricordo però il terrorismo psicologico delle ostetriche del corso pre-parto, che mi dicevano che per fare questa donazione avrei sottratto a mio figlio sangue e nutrimento preziosi. La seconda volta la possibilità c’era, e sono stata arruolata dopo aver seguito tutto l’iter necessario. In occasione della visita, mi è stato spiegato che il taglio ritardato del cordone è importante nei paesi del terzo mondo, dove gravidanza e allattamento sono portati avanti da madri denutrite e in condizioni di salute precarie, mentre non lo è in paesi come il nostro dove, fra l’altro, il taglio precoce del cordone è stato praticato per anni: tutti noi siamo nati così senza subire particolari conseguenze. Peccato che pur avendo segnalato all’ostetrica la mia intenzione, riportata anche sulla mia cartella, al momento dell’espulsione se ne sono dimenticati e quando gliel’ho ricordato era ormai troppo tardi. Mi chiedo se questo modo di fare non dipenda dalla mentalità del parto naturale a tutti i costi e dal mito del taglio ritardato del cordone. Il risultato è un blocco della diffusione della donazione delle cellule del sangue cordonale mentre, allo stesso tempo, molti genitori “investono” migliaia di euro in banche straniere per la conservazione delle cellule del sangue cordonale per uso autologo, una pratica che attualmente non ha nessun riscontro scientifico e che è di fatto una truffa. H Alessandra Puppo Ostetrica, Centro Nascita Margherita, Firenze Elisabetta, Trieste - [email protected] 7 IL PARADOSSO DELLE “STAMINALI” Ricordiamo tutti perfettamente la triste vicenda di Stamina, una società privata fortemente sospettata di somministrare a pazienti disperati una terapia basata sulle cellule staminali la cui efficacia non è assolutamente mai stata dimostrata. E ricordiamo anche le inopportune decisioni di alcuni magistrati che hanno obbligato le strutture sanitarie a portare avanti questa pratica a spese della collettività. Ne hanno parlato tutti, ci sono state anche delle manifestazioni in piazza. Nessuno invece parla delle possibilità concrete che la donazione di cellule staminali cordonali può dare alla cura e alla ricerca. È incredibile come possa accadere che le stupidaggini vadano in prima pagina e le cose importanti… non se le fili nessuno! UNA PRATICA RECENTE La raccolta del sangue cordonale è relativamente recente. In questi ultimi anni il suo uso si è rapidamente diffuso, sia perché si sono estese le indicazioni sull’utilizzo di queste cellule, sia per la possibilità di impiegarle negli adulti, oltre che nei bambini. Il trapianto eseguito con cellule staminali da cordone risulta avere alcuni vantaggi importanti rispetto al trapianto tradizionale, e quindi si tratta sicuramente di una metodica da studiare e sviluppare. Come mai, allora, la donazione del sangue cordonale stenta a diffondersi? Perché non è ancora una pratica condivisa da tutte le coppie alle quali nasce un figlio? Oltre agli aspetti strettamente economici – necessità di istituire punti di raccolta e conservazione del sangue cordonale, istruzione del personale per l’esecuzione corretta del prelievo, assunzione di personale da dedicare alla promozione e alla selezione delle donatrici– due sono le problematiche che hanno ostacolato negli ultimi anni una larga diffusione di questa pratica: la tempistica nel taglio del cordone ombelicale e la possibilità di procedere a una raccolta per uso personale del sangue cordonale. IL TAGLIO DEL CORDONE Negli anni Settanta e Ottanta i movimenti femministi e alcuni operatori sanitari iniziarono a mettere in discussione l’eccessiva medicalizzazione del parto. Venne messa in discussione ogni pratica eseguita nel corso del travaglio e del parto, puntando all’eliminazione di tutto ciò che non fosse strettamente necessario: tra questo c’era anche il taglio precoce del cordone ombelicale. Fino a quel momento il taglio era avvenuto immediatamente dopo la nascita, il bambino veniva subito separato dalla madre e visitato dal medico. L’attesa, che doveva precedere il taglio del cordone, diventava così il simbolo del cambiamento: se non si taglia, il bambino deve restare necessariamente con la madre a cui è ancora attaccato, magari sul suo addome, favorendo il primo incontro, i primi sguardi e carezze. Aspettare a tagliare era un modo di preservare un certo tipo di nascita. Poi abbiamo iniziato anche a studiare come stavano 8 quei bambini che avevano avuto questa nuova opportunità, ed è venuto fuori che stavano meglio! Un po’ meglio, certo, le differenze nel caso di bambini sani, nati da una gravidanza controllata, da madri in buono stato di salute non apparivano particolarmente significative. Ma il ferro risultava un po’ più alto, i casi di anemia ridotti, minori le emorragie e le infezioni. Gli ultimi decenni, in cui sempre più si è evidenziata la grande potenzialità del sangue cordonale, hanno quindi visto la contrapposizione tra chi chiedeva di non tagliare il cordone, garantendo ossigeno e nutrienti al figlio, e chi chiedeva invece il taglio precoce per garantire la raccolta delle cellule staminali. In realtà una mediazione tra queste due istanze è possibile. Sappiamo oggi che il ritorno venoso dalla placenta al neonato dopo la “spremitura” realizzatasi nel canale del parto avviene nei primi tre minuti dalla nascita (un minuto se la madre riceve un’iniezione di ossitocici). Questo è il tempo necessario perché avvenga lo scambio, aspettare oltre, dal punto di vista degli scambi chimici, non cambia nulla. LA TEMPISTICA Per quanto riguarda invece la tempistica della raccolta, è certamente vero che più tempo si attende minore è la quantità di sangue che si riesce a raccogliere, perché il cordone tende a collassare, ma è anche vero che è possibile realizzare raccolte “bancabili” (cioè utilizzabili per un trapianto) fino a sei minuti dalla nascita. Non è vero quindi che per effettuare la raccolta delle cellule staminali il cordone deve essere tagliato immediatamente: è possibile aspettare qualche minuto e poi procedere alla raccolta. Inoltre, è importante valutare anche il grado di vitalità di ogni bambino: alcuni stanno così bene alla nascita, sono così vitali ed energici che non hanno bisogno di niente altro che di restarsene con la propria madre, anche senza cordone. Altri invece hanno qualche piccola difficoltà, sono un po’ più lenti ad adattarsi alla nuova vita fuori dall’utero: magari a loro l’ossigeno e i nutrienti che il cordone continua a fornirgli può essere davvero utile. LA RACCOLTA AUTOLOGA Dal 2009 la legge italiana permette la raccolta del sangue cordonale per uso autologo, ma non permette la conservazione del materiale raccolto, che deve quindi essere inviato all’estero presso banche private. Questo pratica viene a costare alle famiglie fra i 2.000 e i 3.000 euro, più un abbonamento annuale per la conservazione che varia tra i 100 e i 200 euro l’anno (fino a 25 anni, a seconda delle banche – benché sia consigliato l’utilizzo entro i 10 anni). La cifra potrebbe anche sembrare contenuta, se fosse una cosa effettivamente utile, “un’assicurazione sulla vita di tuo figlio”, come dicono alcune pubblicità ingannevoli (e vietate dalla legge italiana). La realtà è che tutto il mondo scientifico si è espresso senza titubanze contro questa pratica, ritenendola assolutamente inutile: in caso di effettiva futura malattia del bambino infatti nessun ematologo utilizzerebbe cellule della stessa provenienza genetica, potenzialmente affette dalla medesima malattia. Viceversa la selezione delle donne che possono donare il sangue cordonale è molto accurata: in gravidanza un’accurata anamnesi personale e familiare della gravida e del partner serve a evidenziare situazioni dubbie o a rischio di patologia, che vengono quindi escluse dalla raccolta. Un’altra selezione avviene al momento del parto (esclusione per liquido tinto, patologia fetale, ecc.) e poi ancora viene analizzata la sacca, che deve rispondere a precisi requisiti di volume e cellularità. Perciò, in caso di donazione, solo il 15% circa delle raccolte effettuate risulta “bancabile”, cioè utile per i trapianti. Ma le banche private tutti questi controlli non li fanno di certo, sarebbero, dal loro punto di vista, controproducenti: rischierebbero di dover scartare più dell’85% dei campioni inviati dai clienti. C’è poi un altro argomento: ogni raccolta privatistica esclude una raccolta solidaristica. Cioè, questo sangue si può decidere di chiuderlo in un caveau, lasciandolo inutilizzato, per anni e anni, molto probabilmente per sempre, oppure metterlo in rete, a disposizione di chiunque, subito, sapendo che quanto più aumenteranno le donazioni, tanto più facile sarà reperire nella rete internazionale dei trapianti un donatore compatibile. Perciò, anche da un punto di vista strettamente individualistico, se molte donne donassero il sangue cordonale invece di seppellirlo nel “forziere” di qualche banca straniera, se anche mio figlio un giorno dovesse averne bisogno avrà maggiore probabilità di trovare una sacca di sangue cordonale che possa salvargli la vita. E una sacca sicuramente utilizzabile, perché controllata e non a rischio di interferenza genetica. [email protected] DONAZIONE O RACCOLTA? Allogenica: è l’unica vera forma di donazione, a scopo solidaristico, a disposizione della collettività. È gratuito sia il prelievo sia la conservazione delle cellule. Autologa: raccolta ad esclusivo uso personale, del nascituro o di un suo familiare. Poiché il materiale non può essere conservato nelle banche italiane, è necessaria l’autorizzazione all’esportazione del sangue cordonale, rilasciata dalla Regione o Provincia Autonoma, previo pagamento dei costi sostenuti per la raccolta del campione di sangue cordonale. Dedicata: una forma particolare di autologa valida solo per alcune patologie familiari già note e per le quali sussistono comprovate evidenze scientifiche di un loro impiego nell’ambito di sperimentazioni cliniche regolamentate. Fatta e conservata cioè quando il nascituro o un suo consanguineo presenta, al momento del parto o in epoca pregressa, una patologia per la quale il trapianto di cellule staminali emopoietiche è clinicamente valido; oppure quando nella famiglia c’è il rischio di una malattia geneticamente trasmissibile a futuri figli per la quale il trapianto è una pratica scientificamente appropriata. Questa donazione è gratuita e gestita all’interno delle banche cordonali pubbliche. 9 Cosa c’è di vero La scienza “romantica” La domanda di cure “alternative” è in aumento. E l’offerta si adegua ul depliant di una ditta di prodotti per la maternità e l’infanzia, parlando del “cuscino luna” (un cuscino ripieno di pula di farro, dalla forma anulare appositamente studiata per rendere più confortevole la posizione della donna che allatta) si afferma: “Campi d’impiego per i quali i cuscini di farro sono particolarmente consigliabili: contrazioni muscolari, mal di testa, mal di schiena, problemi d’irrorazione sanguina, disturbi del sonno, reumatismo, piaghe da decubito, mal di denti, raffreddori, dolori mestruali, disturbi della gravidanza, infiammazioni, raggi terrestri, vene d’acqua. Non esistono studi scientifici che certifichino la proprietà, ma l’esperienza diretta di molti.” È il passa parola, l’empirismo quotidiano, quello che non ha bisogno di verifiche né di dimostrazioni che rende “scientifico” questo cuscino. E lo fa con una suadenza e un’ampiezza di vedute che la scienza “scientifica” non avrebbe avuto: gli scienziati non sanno neppure cosa siano i “raggi terrestri” e le “vene d’acqua”, però sono termini che suonano bene. Ecco: questa è scienza romantica. Un adeguamento delle rigide e ineluttabili regole, formule e metodiche della scienza (medica e non solo) al proprio modo di sentire. Non dettami certi e dimostrati, ma “suggerimenti” emotivi, modellabili sulle singole personalità. La scienza illuministica non lascia spazio all’opinabile: è o non è, ho le prove o non le ho. Che freddezza, che mancanza S Paolo Sarti Pediatra di famiglia, Firenze 10 di rispetto per l’emotività e la fantasia del singolo! MA CHI AVRÀ RAGIONE? O meglio: a chi mi piace di più dar ragione (perché in un sistema logico la ragione è presto data a chi ha le prove di quello di afferma)? E qui subentra il tipo di cultura, il carattere, lo stile di vita di chi deve scegliere. E per far decidere al meglio non serve richiamarsi alla logica, al rigore scientifico: alle prove provate della neurofisiologia neonatale. Per lo scientifico romantico quelle sono solo fredde macchinazioni della scienza ufficiale, quella al potere, quella lontana da te, quella che probabilmente ti vuole fregare, soprattutto economicamente. Anche se, bisogna dirlo, affidarsi a questi romanticismi scientifici ha un costo non indifferente, spesso anche alto. La “Cristallo-terapia” (terapia energetica, con la quale pietre dure e cristalli influenzano l’aura rimuovendo blocchi energetici che potrebbero scendere a livello fisico e creare disturbi più o meno gravi) e la “Aroma-terapia” (uso di oli essenziali per stimolare con l’olfatto funzioni ormonali attraverso il sistema limbico) sono due chiari esempi di come il romantico possa aderire a cure più fascinose e “tipizzanti” di quanto non possa fare un cinico illuminista, pronto a imbottirsi di antibiotici e antidolorifici di fronte a malanni e infezioni che forse avrebbe potuto eliminare con qualche cristallo giusto. Illustrazione tratta dal libro “Incantesimi”, di Emily Granocchio, ed. Castoro Ma solo se si fosse rivolto al medico ”giusto” e non certo a quello del SSN (anche se oggi non sono rari i medici tradizionali che si addentrano nelle medicine alternative, più nobilmente dette “complementari”, guadagnando spesso credibilità… e clienti). EVOLUZIONE: EFFETTI COLLATERALI L’evoluzione della medicina ufficiale e la sempre maggior acquisizione di conoscenze e competenze specialistiche ha causato un sempre maggior distacco del curante dal paziente, che è divenuto più una somma di organi che un insieme armonico. Sempre più il paziente è visto come “portatore” di qualche malanno e non “soggetto” che ne soffre. Di conseguenza l’interesse del medico si è sempre più spostato sul malanno stesso, piuttosto che su chi lo viveva. È comprensibile quindi che si diffonda un certo disagio nei confronti di una medicina che ascolta sempre meno, che rischia costantemente di scordare che la guarigione, per la gran parte dei disturbi, non consiste nel farli sparire nascondendoli sotto una “coperta chimica”, ma nel trovarne la causa e, possibilmente, rimuoverla. Ma siccome la causa per tanti disagi è lo stress, la vita disordinata e insoddisfacente, i travagli relazionali e affettivi, avremmo forse più bisogno di comprensione e sostegno nel vivere quotidiano che di farmaci che mettano una “toppa” alle (comprensibili) reazioni al disagio. 11 La medicina probabilmente sta commettendo un errore storico separando sempre più corpo e mente: era forse necessario farlo per motivi descrittivi, analitici, ma non doveva essere fatto nell’approccio diagnostico e terapeutico. Così il farmaco è diventato odioso a molti, proprio per la sua freddezza e perché sostituisce la comunicazione, mentre pratiche come l’omeopatia o l’ayurvedica trovano mercato perché, prima di tutto, ascoltano. Essere ascoltato è così importante per il paziente, che non si chiedono neppure le prove di efficacia, le certificazioni scientifiche che lo tutelino dal rischio di assumere sì tante coccole, ma probabilmente anche tanta semplice acqua (e ad un prezzo poi nemmeno trascurabile). Ma c’è di più: la contraddizione arriva al punto che, ad esempio, per non somministrare ad un bambino antibiotici per qualche giorno (sette giorni sembrano sempre troppi), si preferisce passare al farmaco omeopatico… che però si assume per settimane e persino per qualche mese! Tutte questi “nuovi” approcci alla salute, soffusi di romanticismo e di auspici e poco propensi alla dimostrazione scientifica, sono una risposta a una medicina che ha dimenticato l’uomo nella sua globalità, psiche e corpo indissolubili. Una scienza che ha trascurato l’approccio individualizzato, il bisogno di attenzione, di essere protagonisti della propria terapia oggi assiste al rifiuto della sua meticolosità, della sua 12 “esattezza”, delle sue prove di efficacia. Mentre i pazienti, pur di recuperare l’ascolto e l’attenzione umana nelle cure, si affidano a “molecole altre”, di efficacia non dimostrata, ma che comunque sono sempre molecole, a pietruzze colorate, a frullati di fiorellini! Ma siamo sicuri che per vendicarsi di questa trascuratezza della scienza ufficiale non si finisca per cascare dalla padella nella brace? [email protected] DITELO CON I FIORI L’esempio forse più calzante e illuminante del mondo della scienza romantica ce lo offrono i “Fiori di Bach” (rimedi floreali funzionanti secondo il “principio di risonanza”). Edward Bach (1886-1936) affermava che la coscienza funziona in base a determinati modelli di reazione, uguali per tutti gli esseri viventi, siano essi piante, animali o uomini, e che nei fiori di alcune piante selvatiche c’è “qualcosa” capace di riequilibrare i modelli di reazione alterati. Bach si lasciò guidare dalle somiglianze tra la pianta e la persona: il mimolo, un fiore dall’apparenza timida e spaventata, lo somministrava alla persona che soffriva di paura, mentre la balsamina (chiamata anche “Non mi toccare”), un fiore che sembra scattante e nervoso, che proiettava i suoi semi anche a diversi metri di distanza, veniva consigliato agli individui rudi e sbrigativi. Bach individuò in tutto 38 schemi alterati di reazione, e li divise in sette gruppi. In questi sette gruppi sono comprese tutte le forme possibili di paura, di incertezza, di rifiuto della realtà, di solitudine, di influenzabilità, di disagio, e di atteggiamenti eccessivi verso se stessi o verso il prossimo. E pensare che un freddo seguace della scienza come me osa pensare che per risolvere molte di queste cose elencate, come la solitudine, gli atteggiamenti eccessivi con gli altri, lo sconforto e la disperazione, più che di un frullato di fiori ci sarebbe bisogno di un po’ più di cultura, di educazione, di socialità e di rispetto dell’altro! Ma questo non è romantico. La domanda di scienza romantica è in aumento: per risolvere i nostri disagi, i nostri malanni, non ci fidiamo più delle fredde molecole di laboratorio, somministrate senza farci raccontare di noi, delle nostre storie emotive, delle nostre aspirazioni. Ma neppure lo psicologo o lo psicoterapeuta sembrano essere adeguati, sempre più vissuti come odiosi “strizzacervelli”. A darci un perché dei tanti dolori chiamiamo anche le stelle, con gli ascendenti, i segni zodiacali; ma anche rolfing e il taekwondo sono molto più efficaci nel ridare elasticità al corpo (con un nome così esterofilo!) che non banalmente passeggiare, non usare ascensori, portarsi la spesa a casa da soli, usare meno l’automobile. La sindrome autistica postvaccinale non esiste Lettera aperta ai genitori dai pediatri dell’ACP Noi pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP) sosteniamo da sempre che la scienza e la sanità devono essere indipendenti dagli interessi dell’industria. Per questo i nostri soci sono tenuti a rispettare un “Impegno di autoregolamentazione nei rapporti con l’industria” che noi stessi ci siamo dati (www.acp.it/codice-deontologico). L’obiettivo del nostro “codice” è la salvaguardia della professione medica dall’ingerenza dei produttori di vaccini, farmaci, alimenti per l’infanzia e dispositivi medici, che potrebbe condizionare il lavoro e l’autonomia del medico e di ogni operatore sanitario. Riteniamo che la coerenza con cui abbiamo sempre seguito questi principi ci possa accreditare come vostri informatori indipendenti. Recentemente è stato di nuovo ipotizzato un nesso tra vaccinazione antimorbillo-parotite-rosolia (MPR) e autismo: l’accusa che viene mossa (neanche troppo velatamente) è che la vaccinazione sia raccomandata non per il bene dei bambini, ma piuttosto per una gigantesca manipolazione commerciale. La correlazione fra vaccino antimorbillo e autismo era stata segnalata nel 1998 da uno studio inglese pubblicato sulla rivista “The Lancet”. Successivamente però nessuno dei numerosi studi condotti sull’argomento, in Europa e negli USA, ha confermato questa correlazione. Gli stessi autori inglesi hanno sconfessato i dati pubblicati nel 1998 e la rivista “The Lancet”, nel 2010, ha ritirato quell’articolo. Ma c’è di più: Andrew Wakefield, autore dello studio pubblicato nel 1998, è stato radiato dall’Ordine dei medici perché accusato di aver distorto alcuni dati per favorire i suoi interessi economici. Oggi sappiamo che il momento in cui si verifica il danno che porterà all’autismo si colloca nella fase prenatale dello sviluppo cerebrale. Ci sentiamo quindi di ribadire con convinzione che la “Sindrome autistica postvaccinale” non esiste: si tratta di una “diagnosi” formulata in modo subdolo e scorretto perché si basa solo su un rapporto temporale (l’autismo si manifesta a due-tre anni, quindi dopo la vaccinazione MPR effettuata, come sapete, a 1315 mesi) e non su un dimostrato rapporto di causa-effetto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e la letteratura scientifica smentiscono categoricamente ogni genere di connessione tra autismo e vaccino MPR, ma c’è un fatto che più di tutti lo smentisce: l’evidenza dei dati epidemiologici mondiali. A fronte delle molte centinaia di milioni di dosi di vaccino somministrate negli ultimi decenni, non abbiamo registrato alcun contemporaneo aumento della diffusione dell’autismo: è vero che è aumentato il numero di diagnosi di questa malattia, ma solo perché oggi arrivano a una diagnosi non solo i casi eclatanti, ma anche i tanti casi più sfumati del cosiddetto “spettro autistico”, che in passato non venivano neppure presi in considerazione. Un genitore responsabile deve anche considerare l’altra faccia della medaglia, cioè lo scenario che si realizzerebbe con una riduzione della copertura vaccinale contro il morbillo. Il morbillo è infatti una delle patologie più contagiose e, in una popolazione non più vaccinata, sarebbe destinato a una rapida diffusione e colpirebbe praticamente tutti i soggetti non protetti. Le statistiche confermano che, anche nei Paesi più avanzati che vengono sporadicamente colpiti da piccole epidemie derivanti dalla copertura vaccinale ancora insufficiente, il morbillo è causa di complicazioni frequenti e anche gravi, e può portare al decesso o all’invalidità in circa un caso ogni mille. Ogni anno nascono in Italia oltre 500.000 bambini: provate a immaginare cosa succederebbe se si smettesse di vaccinare, o se la percentuale dei bambini vaccinati calasse notevolmente. Inoltre, il vaccino MPR protegge anche dalla rosolia, che resta tra le principali cause di gravi malformazioni fetali e di aborto, quando colpisce le madri suscettibili perché non sono state vaccinate o non hanno contratto la malattia da bambine. I dati scientifici su cui si basa la nostra professione, in base ai quali noi pediatri ogni giorno compiamo delle scelte per curare i vostri bambini, affermano con assoluta certezza che non c’è nessuna correlazione tra vaccino MMR e autismo e perciò noi pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri vi invitiamo a vaccinare i vostri figli seguendo il calendario vaccinale approvato dal Ministero della Salute. 13 Lo spazio della mente A tutto puzzle Cos’è, come funziona e cosa rappresenta il gioco del “mettere in ordine” sorprendente vedere come molti bambini (non tutti), anche assai piccoli, si appassionano al gioco del puzzle. Che cosa ci trovano di bello? Il gioco, infatti, potrebbe essere visto di per se stesso come particolarmente noioso da qualcuno (me compreso, lo confesso). È Paolo Roccato Psicoanalista, Società Psicoanalitica Italiana, Torino CHE COSA SONO I PUZZLE Il puzzle è un solitario, che, come ogni solitario, può essere fatto anche da più persone cooperanti fra loro. A volte il giocatore è contento che altri gli diano una mano; a volte, invece, si stizzisce, come se gli altri, con il loro intervento, gli togliessero lo specifico piacere del gioco. Tutti i solitari sono giochi del “mettere in ordine”. Le regole prescrivono quale debba essere l’ordine da dare all’insieme che, in partenza, si presenta “disordinato”. In questo risiede la piacevolezza (per coloro cui piace), e in questo sta la noiosità (per coloro cui non piace). Qui nasce subito un problema. Tutte le mamme si disperano con i loro bambini sulle questioni di ordine. “Vai a mettere in ordine la tua stanza!” è un classico assolutamente universale. Perché, allora, è bello quel “mettere in ordine”? In che cosa consiste quel piacere? La prima ipotesi che vien da fare è che possa essere un tentativo di elaborare un trauma (magari proprio il trauma del dover mettere ordine nei propri spazi, nel proprio tempo, nella propria vita), utilizzando il gioco. Ma non sembra proprio. L’elaborazione di un trauma attraverso il gioco di solito ha tutt’altre caratteristiche: spesso è più vivace, più “narrativo”, più “impulsivo”, oppure più “guardingo”, per così dire; più ansioso. E sovente anche meno “metodico”. E spesso sembra dare meno piacere. Per rispondere alla domanda su quale ne sia il piacere, è necessario vedere che cosa è e come funziona un puzzle, e quindi che cosa può rappresentare per la mente di chi vi si appassiona. UN PO’ DI STORIA Sembra che il puzzle sia stato inventato attorno al 1760 dal cartografo e incisore londinese John Spilsbury. Con un seghetto da traforo ritagliava in pezzettini irregolari dei disegni precedentemente dipinti su sottili tavole di legno. Era l’epoca dell’Illuminismo, quando scienziati e 14 filosofi esaltavano il valore conoscitivo della mente umana liberata da costrizioni e pregiudizi. Basti pensare che i 35 volumi dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert sono stati pubblicati tra il 1751 e il 1772. Il piacere della conoscenza, e più ancora il piacere della scoperta realizzate per azione diretta dei singoli e dei gruppi al di fuori di ogni dogmatismo, si diffondeva come non mai, per un fermento diffuso in tutto il mondo occidentale. Osservazione della realtà, costruzione e verifica delle teorie attraverso ulteriori osservazioni erano gli strumenti di base della conoscenza umana, che si poneva come condivisibile fra tutte le persone “illuminate” dalla ragione e libere da preconcetti. La mente “illuminata” cercava l’ordine delle cose del mondo, per mezzo della scienza; e dava ordine alle cose del mondo, per mezzo dell’arte e della creatività dell’operare umano. Basta pensare, per esempio, alla bellezza dei giardini settecenteschi, concepiti e realizzati come ordine umano imposto alla Natura, altrimenti sentita come “caotica” e “insensata”, per darle senso. L’origine (forse un poco fantasticata) del termine puzzle sarebbe questa: in inglese il gioco del puzzle si chiama Jigsaw Puzzle, dove Jigsaw indica il seghetto del traforo, e Puzzle vuol dire rompicapo. Il gioco del puzzle, dunque, è il “Rompicapo del seghetto del traforo”. COSTRUIRE UN PUZZLE PER CONOSCERE L’ARMONIA Cercare di costruirsi un’immagine del mondo è quello che il bambino fa in ogni istante della propria vita, fin da quando, appena nato, vede gli occhi della mamma che lo guardano, sente il calore e l’odore del corpo che lo accoglie fra le braccia, ode suoni e rumori per lui inusuali, e poi, via via che cresce, compie esperienze vive nelle scoperte e nelle esplorazioni sempre più ampie e differenziate. Le immagini del mondo che va formando nella propria mente sono sempre più complesse e articolate, con dei nessi che danno loro sempre maggiore consistenza e chiarezza. La conoscenza di sé (che è sempre conoscenza di sé nell’esercizio di funzioni) va sempre di pari passo con la conoscenza del mondo in cui si svolgono le esperienze. Questo processo della simultanea conoscenza di sé e del mondo imprime nel mondo conosciuto l’impronta del soggetto. La percezione di questa impronta è il “significato”, è il “senso” che il mondo ha per il soggetto in ogni specifica esperienza. Per esempio, una bambina guardando la statua della Vittoria Alata non vide affatto qualche cosa di bellicoso, ma una ballerina che faceva un passo di danza, perché la danza era una cosa preziosa e importante che lei (bambina) aveva dentro la propria mente. La sua percezione dell’immagine conteneva l’impronta della sua soggettività di amante della danza. Ed è questa sua soggettività, messa mentalmente dentro alla realtà percepita, ciò che costituiva, per quella bambina lì e in quel momento, il “senso” della realtà osservata e percepita. Il “senso” che “scopriamo” nella realtà è sempre qualche cosa che, mentalmente, noi vi abbiamo messo dentro. Costruire l’immagine del puzzle, che a tutta prima è scomposta e disarticolata nei suoi frammenti, e che poi si fa via via sempre più definita e provvista di senso, è una specie di riscoperta e ri-sperimentazione dell’impegno conoscitivo di tutta la vita e del piacere di dominare il reale sia attraverso la conoscenza (strutturare immagini coerenti a partire dal caos) sia attraverso l’azione creativa (agire sugli elementi del caos per dar loro forme che siano sensate per il soggetto). Alla fine del gioco, quando tutta l’immagine del puzzle è costruita, sovente l’emozione è quella del trionfo. È il trionfo “illuminista” della mente ordinatrice sulla natura che, al primo impatto, si era presentata come caotica. È, sì, il piacere di aver risolto un problema, ma molto di più è il piacere di aver colto l’efficacia del proprio operare nel conoscere l’armonia fra la strutturazione della conoscenza del mondo e la conoscenza di sé nel mentre ordina e struttura la conoscenza del mondo. Nell’opera di ri-composizione del puzzle il giocatore non si trova davanti soltanto i pezzettini di disegno ammucchiati alla rinfusa, ma ha fin dall’inizio davanti a sé ben chiaro il risultato finale cui deve tendere: il disegno finito da “ricostruire”. Così il compito è molto facilitato. OGNI PROCESSO DI CONOSCENZA HA I SUOI TRUCCHI Qualche bambino può “scoprire” da solo alcuni “trucchetti” che gli possono facilitare il compito, quali quello di partire 15 dagli angoli, per i quali i due lati ad angolo retto sono lisci e dritti e non devono combinarsi con nessun altro pezzettino. Poi c’è il “trucchetto” dei margini, di cui i pezzettini hanno un lato che, confinando con il “di fuori” del disegno, non deve combinarsi con altri pezzettini di disegno. Impareranno a guardare nel “modello da copiare” gli stacchi di forma e le macchie di colore, per intuire quali pezzettini possano corrispondere a quel luogo del disegno. Impareranno infine a tener conto della forma del taglio fra un pezzettino e l’altro, i cui margini devono corrispondere esattamente. Impareranno che non giova creare forzature: se i margini dei pezzettini ritagliati non sono esattamente corrispondenti, forzarli a collegarsi tra loro non facilita a una buona ricostruzione del disegno, anzi, la rende più difficile. Come nella scienza: le forzature allontanano dalla conoscenza, e quindi dalla verità. Impareranno ad analizzare la realtà nella duplice prospettiva: secondo la forma del disegno da ri-comporre e secondo la forma dell’oggetto materiale concreto, del “pezzettino” da maneggiare. Imparano che per risolvere i problemi ci vuole tempo. E che bisogna, quindi, saper pazientare, saper permanere nello stato di incertezza di chi ha fiducia di poter riuscire, ma non è ancora riuscito. Imparano che la conoscenza può non essere immediata: talvolta essa è sì tendenzialmente progressiva, ma secondo dei movimenti irregolari, meno o più rapidi, attraverso tentativi ed errori. Tutti questi apprendimenti, per così dire “autogestiti”, procurano un piacere che contiene il piacere di riuscire a orientarsi nel costruire la propria percezione del mondo, ricevendone alla fine una convalida inequivocabile: “Ho visto giusto! Ho colto i vari differenti elementi della realtà e li ho connessi in modo adeguato a costruire un’immagine appropriata della realtà”. E quindi anche: “Ho percepito me come un essere ben funzionante nel contatto conoscitivo e creativo con la realtà”. Per dirla in modo rigoroso, possiamo concludere che il piacere di risolvere un puzzle è connesso al piacere dello strutturare la mentalizzazione delle esperienze. [email protected] 16 PRECISAZIONI NON SUPERFLUE Non è che sempre la percezione del mondo si costruisca un pezzettino per volta. Anzi: essa si pone molto spesso come percezione globale. È l’insieme quello che allora prevale sul dettaglio. Ma quando ci troviamo di fronte a forme ambigue, che potrebbero essere forme di qualche cosa ma anche di qualche cosa di altro, allora uno dei modi possibili per cercare di orientarci è quello di analizzare un pezzettino per volta. Bisogna però sempre ricordare che altrettanto spesso riusciamo meglio se osserviamo, per così dire, più da lontano, cercando di cogliere l’insieme per l’appunto attraverso il trascurare i dettagli. UN GIOCO CHE INFONDE FIDUCIA Affrontare il problema di risolvere un puzzle significa strutturare – in un contesto giocoso –conoscenza del mondo e contemporaneamente conoscenza di sé mentre si sta conoscendo il mondo. Il bello del gioco è che queste due conoscenze (del mondo e di sé) vanno di pari passo, cosa che dà un grande piacere, per il senso di unità dell’esperienza conoscitiva. Alcune persone trovano il gioco del puzzle parecchio noioso, mentre spesso i bambini, già dall’età di circa un anno, possono trovarlo entusiasmante. Il fatto è che i bambini sono, momento per momento, sempre impegnatissimi a cercare di dare forma pensabile alle esperienze che vanno facendo. Quando ci riescono, provano un grande piacere. Il gioco del puzzle, mostrando fin dall’inizio come dovrà (e potrà!) essere il risultato finale, fa sapere già in partenza che ci si riuscirà, infondendo fiducia e speranza, mentre nella vita, purtroppo, non sempre è così. Curarsi con le piante Mirtillo nero: piacere e salute Le mille virtù di una bacca spontanea e bacche del mirtillo nero (Vaccinium mirtillus), dal colore blu scuro o quasi nero, sono usate da tempo immemorabile come cibo, per il loro elevato potere nutritivo. La storia Vitalia Murgia del mirtillo come riPediatra, docente del Master medio fitoterapico di II livello in Fitoterapia, risale al Medio Evo. Università La Sapienza, Roma Nel XVI secolo le proprietà di questo frutto erano già note agli erbalisti che lo usavano per trattare i calcoli biliari, i disturbi infiammatori della cistifellea, la tosse e perfino la tubercolosi. L AL GIORNO D’OGGI Il mirtillo viene usato per trattare la diarrea, le infiammazioni della bocca e della gola e i disturbi visivi. La ricerca medica è concentrata soprattutto sugli effetti del mirtillo sui disordini vascolari, sul cuore, sul diabete, sui disturbi della vista e sui problemi cognitivi dell’anziano. Il mirtillo nero contiene sostanze che sono dotate di numerose proprietà terapeutiche, tra queste le più importanti sono le antocianine, responsabili anche del colore dei frutti. Le antocianine hanno la capacità di ridurre l’infiammazione e sono potenti antiossidanti, cioè sono capaci di aiutare l’organismo a liberarsi dai “radicali liberi”, sostanze che quando sono prodotte in quantità eccessive (in corso d’infezione o in condizioni di stress fisico o mentale) hanno effetti dannosi per l’organismo. Il mirtillo riduce la quota dei radicali liberi che possono alterare le varie strutture dell’occhio e le antocianine si legano (hanno affinità) con l’area della retina che è responsabile della visione notturna e della capacità di adattamento alla visione al buio. Già durante la seconda guerra mondiale dei ricercatori francesi si resero conto che gli estratti di mirtillo permettevano ai piloti di abituarsi più rapidamente alla visione notturna e di recupe- Foto 123RF rare più in fretta la capacità di mettere a fuoco dopo un abbagliamento. Il mirtillo potrebbe avere effetti benefici anche in soggetti che soffrono di retinite pigmentosa (malattia che causa un progressivo deterioramento della retina che perde la capacità di trasmettere al cervello le informazioni visive) e in quelli che vedono meno bene in condizioni di luce scarsa o crepuscolare, pur avendo una buona capacità visiva di giorno. Uno studio recente ha dimostrato, infatti, che il mirtillo migliora la visione delle persone miopi in condizioni di scarsa illuminazione. Gli studi su mirtillo e visione non hanno avuto sempre esiti positivi, ciononostante ci sono molti dati a favore del fatto che le antocianine hanno un influsso benefico positivo sull’occhio. [email protected] E ANCORA... Altre proprietà del mirtillo che favoriscono la salute sono quella antibatterica e quella ipoglicemizzante. Vista la combinazione di effetti antiossidanti, antinfiammatori e ipoglicemizzanti i ricercatori ipotizzano che il mirtillo possa essere utile come rimedio nutrizionale in persone che soffrono di diabete mellito di tipo 2 e nei disturbi del metabolismo degli zuccheri. Le antocianine del mirtillo potrebbero essere utili anche per rallentare i problemi cognitivi causati dall’invecchiamento. Insomma il mirtillo è un esempio brillante di saggio utilizzo plurimillenario di un alimento come cibo e “medicina”. È innegabile che mangiare mirtilli freschi faccia bene. Quelli che crescono spontanei hanno un più elevato contenuto in antocianine, ma in loro assenza vanno bene anche quelli coltivati o il loro succo concentrato. Anche gli integratori alimentari di buon livello qualitativo possono aiutare ma, almeno per ora, il loro effetto benefico sulla salute non è stato ancora completamente confermato. 17 Come eravamo 1951: l’inondazione del Polesine …quei bambini avevano una malattia che non si vedeva; e morivano, in maniera strana, in silenzio, come fiorellini che appassiscono in una notte… stata una catastrofe che non credo (in realtà non lo so) abbia avuto poi niente di paragonabile, in Italia. Certo, a mia memoria c’è stata l’esondazione dell’Arno, che ha coperto Firenze di fango; ci sono state due esondazioni del Tagliamento, che hanno coperto di fango Latisana: ma lì, quella volta, sono usciti dagli argini due giganti, l’Adige e il Po, e sono state coperte dall’acqua campagne e campagne, tra i due fiumi. E la Clinica Pediatrica di Padova è stata invasa da lattanti salvati e fuggiti dalle acque. Ma non è che si trattasse semplicemente di “profughi”; forse anche sì, non lo potrei dire con sicurezza: ma è anche che molti di quei bambini avevano una malattia che non si vedeva; e mori- È Franco Panizon (1925-2012) Ha diretto la Clinica Pediatrica dell’Ospedale Infantile di Trieste FRANCO PANIZON Trieste, 1925-1012. È stato uno dei migliori medici italiani, ha rivoluzionato il campo della pediatria mettendo al centro della cura il bambino come persona circondato dalla famiglia. La sua intensa attività scientifica, letteraria e anche artistica ha influenzato positivamente, tramite migliaia di pediatri, l’infanzia di una parte consistente di tutti quelli che oggi hanno meno di 30 anni. Ci ha lasciato molte cose: ricordi, articoli, disegni, e libri. Fra questi una bella autobiografia, Eee la vita, la vita l’è bela. Miseria e miracoli in 50 anni di pediatria italiana (1950-2000), edita da Medico e Bambino nel 2013 da cui abbiamo tratto questo brano. 18 vano, in maniera strana, in silenzio, come fiorellini che appassiscono in una notte. Adesso, che sono stato in Africa, credo di poterlo dire: erano bambini malnutriti, non proprio gravi ma abbastanza, bambini con difetto di difese dovuto alla cattiva nutrizione, al difetto di proteine, di zinco, di vitamine; e morivano, semplicemente, per setticemie occulte, sepsi da microbi “buoni”, comuni, ospiti abituali delle mucose e dei tegumenti, usualmente innocenti. Era il 1951; io ero già da due anni in Clinica, “facevo servizio” ai lattanti, al reparto su cui era arrivata l’onda pediatrica di quella terribile inondazione. E mi sentivo, così come si può sentire il soldato che “sta al pezzo” e che fa tutto (dall’esame delle urine all’esame del sangue, all’esame della cacca, alla visita, alle prescrizioni, alle medicazioni) e un po’ come io presumevo di essere, sospinto dalla mia eterna presunzione sempre sotto pelle, ma un poco anche come effettivamente “ero”, il “padrone” del “mio” reparto e dei “miei” malati. DI QUESTI BAMBINI RICORDO TRE COSE La prima è che, quando facevo loro l’esame emocromocitometrico, lo striscio di sangue colorato col MayGruenwald/Giemsa per fare “la formula” al microscopio (allora si faceva tutto a mano, e a occhio), sullo striscio, tra un globulo rosso e l’altro trovavo dei microbi, degli stafilococchi, belli tondi, inconfondibili. Mai successo, né prima né dopo. Cosa poteva voler dire? Evidentemente che nella pelle del dito che bucavamo per avere la goccia di sangue necessaria all’esame, quei microbi erano affollati, come i turisti in Piazza san Marco. Ripeto e confermo, mai visto né prima né dopo (ho continuato a fare emocromi per almeno altri 10 anni). L’ho anche fatto vedere all’Aiuto bello e misterioso; ma quello ha scantonato. La seconda è che molti di questi bambini avevano una malattia della pelle. Una desquamazione importante attorno al culetto scarno, alle pieghe sulla faccia interna delle cosce, attorno ai poveri genitali, che restavano quasi in carne viva, qualcosa di mezzo tra la dermatite seborroica e l’eritema da pannolino, ma più importante, e più cronico; in più, le squame erano larghe e spesse; larghe come il palmo di una mano, spesse forse un millimetro, “grasse” e dure, come la pelle del baccalà. Anche questa roba, non l’ho più vista né prima né dopo; o dopo sì, in Africa, nei “malnutriti severi”. Ecco, credo che il mio ricordo di quei bambini del Polesine non sia autentico, vero; credo che sia deformato da una sovrapposizione postuma, recente, di quei bambini profughi coi “miei” malnutriti africani di cin- quant’anni dopo (malnutriti che, a mio avviso, avevano un simile tipo di dermatite). Il prof. Bentivoglio aveva posto, per quella dermatite, per tutti, la diagnosi di “malattia di Leiner”. Andando a guardare sul prestigioso e universale libro di pediatria di oggi, il Nelson, si trova: an intractable seborrhea-like dermatitis (una dermatite intrattabile di tipo seborroico) with chronic diarrhea and failure to thrive (incapacità di crescere) may reflect systemic dysfunction of the immune system. Questo Leiner deve essere ben vecchio, anzi, già allora doveva essere un po’ un “antenato”; e ne avrà viste, del suo, di cose, con poche capacità di capirci sopra, come si intende dall’inciso. Anch’io sono diventato un antenato, e ne ho viste, ormai, del mio. A quei bambini, il Prof faceva dare della vitamina B6, e miglioravano, se non guarivano: ma certo, gli si dava anche da mangiare il latte, e anche altre vitamine. E crescevano di peso, e poi se ne tornavano a casa, nella loro campagna, tra l’Adige e il Po. E anche i miei malnutriti angolani guarivano, sessant’anni dopo, che Dio li benedica, col latte e con le vitamine. LA MALNUTRIZIONE ERA “NORMALE” La terza cosa che ricordo, e a cui ho già fatto cenno, è che la maggior parte di questi bambini erano malnutriti. Non forse di quella che in Africa si chiamerebbe “malnutrizione severa”, non di quella con scomparsa della bolla di Bichat, quella pallina di grasso che conferisce al viso di ogni bambino la rotondità che è anche l’impronta naturale dell’infanzia; ma le cosce erano spesso povere, la pelle dell’addome era spesso sottile, le manine erano spesso da vecchietto, striminzite. Failure to thrive, anche loro, certo. Me li invento, questi ricordi? Un poco sì, certamente; e un poco no, ne sono quasi certo. È che allora non ci si badava più che tanto. Come ora in Africa. Essere malnutrito, per un lattante “povero”, era quasi una cosa normale. E quell’inondazione, senza che io quasi ci facessi caso, senza che io quasi me ne accorgessi (anzi senza il “quasi”, non me ne ero proprio accorto, tutto questo emerge solo oggi, nel mio ricordo, come un rimorso occultato), scopriva ai miei occhi non vedenti, agli occhi non vedenti di tutti noi camici bianchi, di tutti noi cittadini privilegiati, la profonda miseria della campagna. Perché ricordo così bene tutto questo? Non lo so nemmeno. O un poco lo so; per tante cose che allora non percepivo neppure, a cominciare dalle differenze sociali; che però sono rimaste depositate, ma non del tutto dormienti, nella scatola della memoria. Certo, il disastro era stato grandioso; certo, il tran-tran della Clinica era stato turbato da quell’ondata; certo, ho visto cose che non ho capito, e di cui percepivo (senza sorpresa) che nessuno capisse bene; perché, allora, il non capire se non quello che c’era in superficie, anzi, l’essere ciechi di fronte alla natura dei fenomeni, e interpretarli secondo “teorie”, era la regola. In Italia. Un’Italia molto “indietro” rispetto a poco lontano, solo al di là delle Alpi, nella favolosa Francia; e, specialmente, nella favolosa Svizzera, dove insegnava il favoloso Fanconi, in quella che era la culla, allora e per molti anni ancora, nel nostro immaginario, del sapere pediatrico. COME ERAVAMO In questa rubrica Un pediatra per amico cerca di raccogliere testimonianze di una pediatria e di un’infanzia che non ci sono più, ma che hanno lasciato un segno nella memoria collettiva delle famiglie, che spesso ne condiziona ancora i comportamenti. Anche la povertà e la denutrizione dell’immediato dopoguerra sono sparite, ma non ancora la paura che possano tornare. 19 Meglio saperlo prima Insegnare le manovre salvavita Parte da Genova un progetto pilota rivolto a genitori ed educatori a morte di un bambino è diventata, per fortuna, un evento così raro da suscitare subito l’attenzione dei giornali e della TV. Anche se può capitare che questa attenzione sia un po’ “deviata” e strumentalizzata. Un caso eclatante è stato quello capitato qualche mese fa nel ristorante di un centro commerciale di Roma: un bambino di 3 anni, che stava mangiando insieme ai genitori, ha mandato “per traverso” un boccone ed è rimasto soffocato. Non vogliamo addentrarci sulla quantità di cose che si sono dette a proposito di questa tragedia: alcune di queste sono assurdità, come la pretesa che ci sia un presidio di pronto soccorso in ogni centro commerciale o che un’ambulanza possa essere disponibile ovunque in pochissimi minuti. In realtà ci si protegge da incidenti di questo genere solo con la consapevolezza delle precauzioni da prendere e delle cose da fare in caso di emergenza. Un esempio per tutti: la notevole diminuzione della mortalità per incidenti su due ruote, dopo l’introduzione dell’obbligo di indossare il casco. Nessun pronto soccorso e nessun servizio di ambulanza avrebbero potuto ottenere lo stesso risultato del semplice gesto di allacciare un casco sotto il mento, ripetuto infinite volte, ogni giorno da milioni di motociclisti. L Marisa Laura Corgiolu Pediatra di famiglia, Roma PREVENZIONE PRIMA DI TUTTO L’inalazione di un corpo estraneo sufficientemente grande e consistente può chiudere le vie respiratorie; l’impossibilità di respirare porta in pochissimo tempo alla riduzione dell’afflusso di ossigeno al cervello e all’arresto dell’attività del cuore. Il coma e poi la morte possono sopraggiungere nel giro di pochissimi minuti. Un boccone troppo grosso, troppo consistente o non masticato a sufficienza può agire come un corpo estraneo: questa è la cosa di cui si ha più paura, anche se in realtà, se pensiamo a quanti bocconi noi mandiamo giù ogni giorno per tutta la vita, si tratta di un evento estremamente raro e, purtroppo, difficilmente evitabile. Molto più facile è invece evitare l’inalazione di oggetti. I bambini, si sa, portano tutto alla bocca e cercano di “assaggiare” qualunque cosa trovino in giro. Poiché è impossibile controllarli 24 ore al giorno, per evitare che corrano un rischio di soffocamento è bene non lasciare a portata delle loro manine tutto ciò che potrebbe essere messo in bocca e mandato giù. Ecco un elenco degli oggetti più pericolosi da non lasciare in giro per casa: caramelle, confetti, monete, palloncini sgonfi, nocciole e noccioline, piccoli tappi, parti di giocattoli, caramelle, viti, parti smontate di strumenti di uso domestico. 20 PARLIAMO DEL SOFFOCAMENTO È un’evenienza che fa tanta paura solo a pensarci. E direi giustamente, se pensiamo che in Italia ogni anno muore una cinquantina di bambini per soffocamento da inalazione di un corpo estraneo: quasi un bambino alla settimana. Anche se non se ne parla quasi mai. Non tutte le morti sono considerate uguali e non tutti i rischi sono valutati allo stesso modo: per esempio per la vaccinazione di massa contro la meningite da meningococco vengono profuse risorse enormi (milioni di dosi di vaccino, migliaia di centri vaccinali allertati), anche se i casi di meningite in Italia, nei bambini fino a 4 anni, sono una sessantina l’anno e i morti circa 7. Come mai tanto impegno sul fronte della vaccinazione e così poco interesse per gli incidenti molto più pericolosi? La risposta potrebbe essere semplice e brutale: alcune campagne di prevenzione mettono in moto un consistente business, altre no. Per intervenire correttamente in caso di inalazione di corpo estraneo ed evitare una buona parte delle morti dovute a questo incidente non ci sono acquisti da fare, servizi da organizzare: basterebbe semplicemente trasmettere delle conoscenze. Come dire: essere preparati, saperlo prima. Non che non esistano le iniziative: la rete è piena di documenti, immagini e tutorial; abbiamo assistito anche a molte trasmissioni in TV e persino negli asili e nelle scuole si moltiplicano i corsi “salvavita”. Ma nessuno ha pensato ad uno strumento potentissimo di cui disponiamo e che non adoperiamo: la rete dei 7.000 pediatri di famiglia che incontrano ogni anno milioni di genitori e controllano la salute di tutti i bambini italiani. Non sarebbe difficile approfittare dei “bilanci di salute” effettuati periodicamente dai pediatri per trasmettere una corretta informazione su questi argomenti e le indicazioni pratiche su come comportarsi se ci si trova improvvisamente ad affrontare una di queste situazioni. QUASI NESSUNO In realtà non è vero che nessuno ci abbia pensato: qualcuno ha avuto questa idea e si è anche mosso concretamente per realizzarla. Si tratta di un gruppo di pediatri genovesi che ci racconta la sua esperienza sul numero 2 del 2013 della rivista “Il medico pediatra”, organo ufficiale della Federazione Italiana Medici Pediatri. I pionieri sono 5, come ci racconta il dottor Giorgio Conforti sulla rivista “Il medico pediatra”: in un primo tempo cominciano a raccogliere la documentazione necessaria (prevalentemente schede americane che vengono tradotte e adattate), poi frequentano un corso di PBLS (Pediatric Basic Life Support) per imparare le tecniche di disostruzione e infine acquistano il materiale occorrente (compresi i manichini su cui esercitarsi) per insegnare ai genitori e ai nonni le manovre giuste da fare. La loro attività è andata avanti per molti anni basandosi esclusivamente sull’impegno personale. Fino a quando, per una fortunata coincidenza, si rendono disponibili dei fondi da impiegare proprio per la prevenzione degli incidenti nei bambini e negli anziani. A questo punto i pediatri genovesi colgono la palla al balzo e trasformano la loro esperienza in un progetto da presentare al Comune, che accetta la proposta. L’attività è articolata su più livelli. I pediatri di famiglia informano i genitori e insegnano loro le corrette manovre da fare per favorire l’espulsione di un corpo estraneo inalato; i pediatri di comunità (che lavorano negli asili nido) informano gli educatori e tutto il personale dei nidi, insegnando anche a loro le manovre salvavita. Il risultato è la diffusione capillare del saper fare. Un lavoro che, evidentemente, non finisce mai, perché si formano sempre nuove famiglie, nascono nuovi bambini e uomini e donne che non lo sono mai stati diventano genitori. Chissà, se qualcuno di loro fosse stato presente quel giorno in quel ristorante a Roma, può darsi che le cose sarebbero andate in un altro modo. [email protected] ANCHE UPPA NEL SUO PICCOLO… Abbiamo scelto questo argomento per inaugurare una nuova rubrica del nostro giornale: La pagina utile. La trovate al centro di questo fascicolo e contiene le istruzioni semplici e dettagliate sul da farsi in caso di pericolo di soffocamento da inalazione di un corpo estraneo: potete staccarla e conservarla (magari attaccata alla porta del frigorifero). Speriamo che non serva mai, ma intanto è bene averla. Questioni di latte Due al prezzo di uno Allattare al seno i gemelli non è difficile Sergio Conti Nibali Pediatra di famiglia, Messina o appena saputo di essere incinta di 2 gemelli. Sono molto preoccupata per l’allattamento. Penso che con due sarà difficile; anzi, a sentire in giro, addirittura impossibile. H ALLATTARE È POSSIBILE Una mamma che ha due gemelli ha tutte le possibilità di allattarli esclusivamente al seno senza aggiunta di latte artificiale, sempre che non vengano frapposti ostacoli. Una mamma che partorisce ha livelli altissimi di ormoni preposti alla produzione di latte, tanto che si dice potrebbe produrre latte per quattro neonati! Il meccanismo della produzione è dettato dalla regola “domanda – offerta”, nel senso che se a succhiare il latte è un bambino solo verrà prodotto latte per uno, se sono due per due. Se i gemelli saranno allattati a richiesta (assicurando, comunque, non meno di 8 poppate nelle 24 ore) la produzione di latte sarà adeguata per nutrirli entrambi. A volte, tuttavia, si possono frapporre degli ostacoli, ad esempio per partorire i gemelli può essere necessario un parto cesareo: in questi casi potrebbe trascorrere del tempo prima che la mamma possa cominciare ad allattare, a meno che gli operatori che assistono al parto non offrano comunque il contatto pelle a pelle. Quello che è importante è allattare i bambini appena si è in grado di farlo; oppure, in caso di nascita prematura e di un allontanamento dal bambino, raccogliere il latte per avviare una adeguata produzione. Una volta a casa, si può provare ad allattarli insieme, per risparmiare tempo prezioso. [email protected] W.A. Bouguereau, La Carità, coll.priv. 22 LE POSIZIONI DELL’ALLATTAMENTO Presa a “culla”: i bambini si trovano entrambi nella posizione classica “a culla” che si utilizza solitamente per i nati singoli. Il capo di ognuno poggia sugli avambracci della mamma e la parte inferiore del loro corpo si trova affiancata o incrociata all’altezza dell’addome materno. Utile per trattare o prevenire problemi ai capezzoli, necessita di un po’ di pratica e un buon controllo del capo da parte dei piccoli. Presa a “rugby”: deve il suo nome al fatto che il braccio della mamma sostiene il bambino tenendolo sotto l’ascella, come un giocatore di rugby tiene la palla. Il bambino è sdraiato accanto alla madre con le gambe rivolte alla parte posteriore del suo corpo, mentre la mamma sostiene la nuca del bambino aiutandolo a prendere il capezzolo. Questa posizione è adatta a bambini particolarmente piccoli, per mamme con seni molto grandi, con capezzoli piatti o rientranti, con ragadi e ingorghi della mammella. Combinazione di presa a “culla” e a “rugby”: permette di tenere i piccoli in due posizioni diverse al seno ed è particolarmente utile se la mamma ha dolore ai capezzoli. Posizione da sdraiate: è possibile allattare stando distese a letto; dei cuscini sostengono le braccia della mamma, sulle quali posa il capo dei piccoli, mentre il resto del loro corpo è parallelo ai fianchi materni. Paginacp Anche il sole ha le sue “macchie” Qualche consiglio pratico per l’estate che viene Costantino Panza Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (RE) Maria Francesca Siracusano Pediatra di famiglia, Messina l sole è fonte di vita: è necessario per le piante, riscalda la terra, regola i bioritmi e determina la sintesi di vitamina D, fondamentale per la salute delle ossa e per l’apparato immunitario. Bastano 15 minuti al giorno di esposizione al sole di volto, mani e braccia per avere la quantità giornaliera necessaria di vitamina D. Quindi il sole non è “cattivo”. Tuttavia ci sono delle radiazioni solari che possono, in alcune circostanze, avere un effetto dannoso sulle nostre cellule: queste radiazioni sono i raggi ultravioletti (UV). I GLI EFFETTI DANNOSI DEI RAGGI UV? I raggi ultravioletti solari (UV-A e UV-B) possono causare una carcinogenesi, ossia favoriscono la nascita di tumori. Alcuni fattori ambientali possono aumentare l’esposizione a questi raggi dannosi: il buco dell’ozono e l’esporsi al sole con una pelle non protetta. I tumori della pelle insorgono più facilmente in soggetti con pelle, capelli e occhi chiari e in soggetti che hanno subito scottature o eritemi solari che ne hanno danneggiato la pelle. I tumori maligni della pelle (melanomi, carcinoma spinocellulare e basocellulare) sembrano in aumento tra gli adulti di ogni età. Il melanoma, rarissimo in età pediatrica, risulta in aumento nell’adolescenza. La scottatura solare in un bambino potrebbe favorire la comparsa del melanoma durante l’età adulta, mentre durante l’età pediatrica un eccesso di esposizione al sole può portare alla comparsa di nuovi nevi. Perciò bisogna essere consapevoli dell’importanza di proteggere la pelle di un bambino da una eccessiva esposizione al sole e di prevenire le scottature solari. COME POSSIAMO PROTEGGERE IL BAMBINO? Ci sono alcune regole semplici per ridurre il rischio delle scottature solari e quindi il rischio futuro di sviluppare un tumore della pelle. 24 Foto Lucia Poggiali CREME: ISTRUZIONI PER L’USO – Preferire le creme solari a schermo fisico che ci proteggono dai raggi UV di tipo B e A. – Le creme devono avere un grado di protezione maggiore di 15. – Evitare un eccesso di esposizione al sole e l’esposizione nelle ore “No” (dalle 10 alle 16). - Nelle ore “No” usare indumenti coprenti e sostare in zone ombreggiate. – Non esponiamo i bambini nudi e senza protezione quando il sole è più alto (dalle 10 alle 16). – Copriamoli con indumenti protettivi (camicie, pantaloncini, cappello). – Nelle ore “No” cerchiamo di stare all’ombra. – Evitiamo l’utilizzo di lampade solari o docce solari abbronzanti a ogni età. – Non esponiamo direttamente al sole bambini di età inferiore ai sei mesi: la loro pelle rischia di scottarsi. Il 50% delle radiazioni UV-B in estate è presente 2 ore prima e 2 ore dopo il picco del sole; più dell’80% delle radiazioni UV attraversa le nuvole e arriva sulla terra anche nelle zone di ombra; i raggi ultravioletti penetrano nell’acqua fino a 60 cm di profondità, quindi facciamo attenzione quando nuotiamo. LE CREME SOLARI Ci sono tanti tipi di creme solari, che si differenziano in due gruppi in base al tipo di filtro. 1. Schermo chimico: proteggono dai raggi UV-B che provocano le scottature solari. 2. Schermo fisico, come l’ossido di zinco o il biossido di titanio: proteggono dai raggi UV-B e UV-A, che favoriscono l’abbronzatura. Le creme si distinguono anche in base al grado di protezione: bassa (6-10), media (15, 20, 25), alta (30, 50) e altissima protezione (+ 50). La crema solare va applicata circa mezz’ora prima di esporsi al sole e bisogna riapplicarla ogni due ore, o più spesso se si fa il bagno o si suda abbondantemente. Poiché tutti i raggi ultravioletti (sia UV-B che UV-A) favoriscono i tumori della pelle, è meglio utilizzare le creme a schermo fisico. Sono in commercio anche spray con diffusione micronizzata di zinco o titanio, comodi, ma non ancora sufficientemente testati nei bambini. Per tutte le creme solari non è stata dimostrata l’efficacia nel prevenire i tumori della pelle. Addirittura alcuni studi hanno evidenziato che, mettendo una crema solare, si tende a esporsi al sole con tranquillità per un tempo maggiore, anche durante le ore considerate a maggiore rischio, determinando in tal modo un aumento del rischio di tumori. Questo non vuole dire che le creme solari favoriscano i tumori della pelle, ma che, piuttosto, possono creare una falsa sicurezza. [email protected] [email protected] SCREENING DEL MELANOMA? NO GRAZIE Uno studio condotto negli USA ha raccolto i dati riguardanti persone con più di 65 anni sottoposte a uno screening della pelle: in 20 anni le diagnosi di melanoma sono raddoppiate, ma è rimasto invariato il numero dei morti causati da questo tumore. In Italia esiste una campagna di sensibilizzazione sul melanoma, lo Skin cancer day che spiega quanto il melanoma sia sempre più diffuso e perché, per aumentare le possibilità di guarigione, sia meglio scoprirlo precocemente con visite annuali. “La strategia più efficace per combattere il cancro della pelle consiste nella diagnosi e nel trattamento precoce... scopo dello Skin cancer day è facilitare il contatto fra specialisti e pazienti, in modo da rendere più efficaci le strategie di prevenzione e facilitare l’individuazione del melanoma in uno stadio iniziale attraverso un’adeguata informazione e dando la possibilità ai pazienti di effettuare screening periodici”. Le cifre sono inquietanti: “L’incidenza del melanoma nella popolazione è aumentata negli ultimi 50 anni ad un ritmo superiore a qualsiasi altro tumore, a eccezione del cancro del polmone nelle donne, con un incremento del 57% annuo nei Paesi occidentali industrializzati”. I dermatologi individuano per queste cifre due cause: la moda della tintarella e il buco dell’ozono che lascia passare una maggior quantità di raggi ultravioletti. Allora perché, a fronte delle molte diagnosi precoci, il numero dei morti per melanoma è sempre uguale? Le conclusioni dei ricercatori americani sono le stesse dell’US Preventive Task Force, l’ente americano che controlla l’efficacia delle misure preventive: lo screening della pelle non è una misura capace di prevenire le morti per melanoma. I dati forniti dai dermatologi non dimostrano l’esistenza di una epidemia di melanoma, ma di una epidemia di diagnosi di melanoma. La differenza è rilevante. È accaduto che dare il nome “melanoma” anche a trascurabili alterazioni della pelle e la contemporanea diffusione di metodi di analisi non invasivi abbiano aumentato il numero di diagnosi di tumori, che in realtà non causano problemi. Di contro non si è osservato nessun vantaggio certo, in termini di sopravvivenza: scoprire un melanoma nella sua fase primitiva non modifica, purtroppo, la storia della malattia. Se l’utilità dello screening è controversa, certa è la sua dannosità, in termini di costi sociali e per l’ansia causata da falsi allarmi che coinvolgono il diretto interessato dalla diagnosi e i suoi familiari. Dal sito partecipasalute.it 25 Scuola, che passione! Il bambino vivace non è un malato Bambini problematici: difendiamoli dalla medicalizzazione con l’aiuto di tutti egli ultimi anni la priorità della scuola sembra sia stata quella di trasformare le difficoltà degli alunni in vere e proprie malattie. In dieci anni sono raddoppiate le certificazioni di disabilità, in un anno i cosiddetti DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) sono cresciuti del 37% e, nel frattempo (dicembre 2012), è uscita la nuova disposizione ministeriale sui BES (Bisogni Educativi Speciali) che punta a rintracciare altri alunni bisognosi di cure particolari. Di questo passo, nel giro di pochi anni, è probabile che ogni classe in Italia abbia più alunni diagnosticati che il contrario. Ma più in generale serpeggia la percezione che, anche fra gli operatori sanitari, si stia andando verso una progressiva medicalizzazione delle naturali differenze infantili; che in altre parole il bambino o la bambina vivace siano, o stiano per diventare, un problema medico piuttosto che rappresentare una naturale e fisiologica inclinazione infantile. Si respira ovunque un clima di apprensione crescente. I neuropsichiatri infantili sono sottoposti a richieste sempre più frenetiche di diagnosi e di certificazioni. Spesso il corpo insegnante risulta insofferente verso gli alunni oppositori o semplicemente vivaci. Si chiede ai genitori di fare qualcosa e di procedere con qualche forma di sostegno e assistenza. Un bambino di 9 anni, in quarta elementare, ha avuto un momento aggressivo verso un’altra bambina. Niente di grave, anzi il bambino sul N Daniele Novara Pedagogista, Piacenza 26 piano del rendimento scolastico va benissimo e ha tutti 9 e 10, ma i genitori si sentono ugualmente dire, senza tanti complimenti, dalle maestre di fare subito una visita neurologica. “Non c’è tempo da perdere”. FUGA DALLA “DIAGNOSI” Negli ultimi 3 anni ho ricevuto al Centro Psicopedagogico di Piacenza (www.cppp.it) diversi genitori in fuga dal binario della diagnosi a tutti i costi, alla ricerca di un approccio educativo che potesse comunque aiutarli nella gestione di figli tirannici, di alunni distratti, di adolescenti “sdraiati” e via carrellando sulle nuove situazioni che le famiglie si trovano a vivere. Ma ci sono anche quelli che la invocano davvero la benedetta diagnosi “Avrà qualcosa! Avrà ben qualcosa! Non sta mai fermo un attimo e poi ci dice delle cose terribili e prova anche a picchiarci”. Cosa possono fare i genitori per evitare un’enfasi medico sanitaria che rischia di trasformare i bambini in pazienti piuttosto che lasciarli nel loro status legittimo di studenti, ossia di soggetti che vanno a scuola anzitutto per imparare e per farlo il meglio possibile? La scuola non può avere paura dei genitori che sono sensibili alla crescita e all’educazione dei loro figli. Semmai deve cercare di costruire delle alleanze, dei percorsi comuni, proprio per garantire un buon gioco di squadra. Quali sono allora i punti qualificanti di una scuola che mette al centro la crescita degli alunni, e non le eventuali patologie? Foto Franco Nonne IN GRUPPO È MEGLIO Vale la pena ricordare che i coetanei, ossia soggetti di pari età, hanno maggiori possibilità di aiutare i compagni che restano indietro. L’idea viceversa che debbano per forza essere adulti, insegnanti, assistenti, educatori di ogni tipo a sostenere l’alunno in difficoltà, con azioni di recupero totalmente individuali, non trova riscontro sul piano psicopedagogico in quanto da sempre vi è un riconoscimento condiviso verso il cosiddetto mutuo insegnamento o peer education, detto in termini più “internazionali”. In altre parole le attività di apprendimento sociale, innestandosi sulla naturale tendenza imitativa del bambino, che è anche la base della sua plasticità neuronale, consentono di ottenere risultati più rapidi, più duraturi e, molto importante, più sostenibili. La lezione di un insegnante può essere la migliore possibile, ma quando c’è da imparare veramente qualcosa la spiegazione di un compagno, qualunque sia la sua età, risulta più efficace in quanto sintonizzata maggiormente sulle connessioni di apprendimento relative a quella specifica età. L’adulto non potrà mai, anche il miglior insegnante, essere in grado di adattarsi sul piano cognitivo ed emotivo al mondo infantile o adolescenziale. È per questo che tutte le pedagogie innovative si sono sempre basate su due capisaldi: l’esperienza diretta dell’alunno, addirittura quella sensoriale, come nel metodo Montessori, e il lavoro di 27 gruppo, come nelle pedagogie di Célestin Freinet, di Roger Cousinet, di Paulo Freire e tanti altri educatori che hanno sperimentato concretamente i vantaggi di un approccio sociale e imitativo fra gli alunni. Isolare i bambini in difficoltà con interventi basati sul trattamento individuale non solo il più delle volte li demotiva, ma genera in loro anche la sensazione di trovarsi nel ruolo sbagliato, cioè del bisognoso e quindi finiscono con l’agire di conseguenza, rafforzando piuttosto che diminuire i deficit in questione. I BAMBINI SONO PLASTICI Si diffonde dunque anche a scuola la tendenza a cercare diagnosi sempre più precoci. A volte può essere utile, ma troppo spesso diventa semplicemente un modo per incasellare lo scolaro dentro un ingranaggio senza ritorno. In realtà, tranne casi di invalidità fisiologica davvero grave, i bambini, facendo le mosse giuste, possono sempre migliorare. Non è accettabile alcun fatalismo medico. Gli stessi ricercatori sono sempre più scettici sull’eccesso di medicalizzazione. Nel 2013 Allen Frances, psichiatra americano, ha scritto un bellissimo libro dal titolo inequivocabile, “Primo, non curare chi è normale”, con il quale contesta lo smisurato allargamento della diagnostica psichiatrica. Quest’anno il famoso psicologo Jerom Kagan ha pubblicato “I fantasmi della psicologia”, con il quale denuncia l’invadenza di diagnosi psicologiche nella crescita dei piccoli. 28 La maggiore disponibilità di conoscenze mediche deve rappresentare per la scuola uno strumento in più per aiutare i bambini a vincere i propri blocchi, a superare i deficit infantili e a promuovere la loro eman- cipazione. Al contrario si rischia di accentuare la percezione di disabilità e di ostacolare le possibilità di recupero e crescita. [email protected] COME RICONOSCERE UNA CLASSE INCLUSIVA Anche i genitori, senza essere esperti del settore, possono facilmente riconoscere se la classe frequentata dal proprio figlio ha un carattere inclusivo, ossia se i bambini e le bambine vengono gestiti secondo un criterio pedagogico di apprendimento condiviso. I compiti: la scuola inclusiva riduce il più possibile il lavoro da realizzare a casa, in modo da limitare l’impegno alle ore scolastiche, per evitare che le condizioni famigliari privilegino chi a casa può disporre di supporti e sostegni maggiori. In particolare destano molta preoccupazione le scuole che consentono la valutazione diretta dei compiti svolti a casa, quasi che venisse esaminata l’intera famiglia dell’alunno. In questi casi il compito non è più un semplice esercizio di rafforzamento ma un vero e proprio esame. La disposizione dei banchi: la logistica della classe segnala la concezione pedagogica dell’insegnante. Banchi posti in fila a guardare la cattedra indicano un approccio educativo frontale basato su una didattica tradizionale basata sulla “lezione-studio-interrogazione”. Viceversa una disposizione a semicerchio, o ancor meglio a gruppi di banchi, indica che la didattica si fonda sull’interazione fra gli alunni e sull’apprendimento cooperativo. Se i bambini possono guardare solo l’insegnante non si creano le connessioni che favoriscono la spontaneità osmotica dell’imparare. L’intervallo: si tratta di un necessario momento di relax motorio che non può essere compromesso da decisioni preventive o punitive volte a contenere la necessità degli alunni di staccare la spina rispetto all’attività propriamente didattica, uscendo dai banchi e utilizzando gli spazi di movimento della scuola. Le note: segnalare ai genitori comportamenti sbagliati dei figli (“Luca tira i missili ai compagni di classe”) non ha alcuna giustificazione pedagogica e crea solo una continua apprensione nei genitori. L’eccesso di valutazione: eccedere significa sottoporre gli alunni a una prestazione continua con inevitabili confronti fra i voti reciproci che non aumentano l’apprendimento ma gli eventuali blocchi emotivi. Testi: Roberto Piumini • Illustrazioni: Silvia Forzani n e g d g a e l del a L DITO SOLO Un’antica leggenda dice che l’uomo fu creato con un braccio solo. E non basta: la mano di quel braccio aveva un solo, solissimo dito. L’uomo era contento della situazione, perché con quel dito poteva assaggiare l’acqua delle sorgenti, per sapere se era buona o cattiva, o grattarsi un prurito, o magari, se ce n’era bisogno, infilarselo nel naso. La cosa non dava fastidio a nessuno perché non c’era nessun altro al mondo. Nati per Leggere Nati Per Leggere è un’iniziativa dell’Associazione Culturale Pediatri, dell’Associazione Italiana Biblioteche e del Centro per la Salute del Bambino per promuovere la lettura ad alta voce ai bambini fin dai primi mesi di vita. un pediatra per amico Centro per la salute del bambino Man mano che il tempo passava, l’uomo cominciò a scoprire che poteva usare il dito, ad esempio, per indicare il sole quando sorgeva, o la luna quando splendeva in cielo nella notte. Poi, diventando sempre più svelto, riuscì a indicare cose meno vistose, le piante, i sassi, e persino quelle in movimento, come gli animali. Qui l’uomo cominciò a porsi un problema. Lui indicava il sole, la luna, un albero, un animale: ma a chi li indicava? Un giorno, concentrandosi molto, riuscì a puntare il dito su di sé: e ancor più del solito avvertì insoddisfazione. A chi stava indicando se stesso? Si sentiva buffo: anzi, addirittura un po’ stupido. Stacca questa pagina, può essere utile Al centro un poster da conservare Qui sotto il ccpostale per abbonarti o regalare un abbonamento CONTI CORRENTI POSTALI - Ricevuta di Accredito , 0 0 0 0 0 9 3 2 7 5 5 5 0 TD sul C/C n. 93275550 451 CODICE IBAN I T 1 3 Y 0 7 6 0 1 0 3 2 0 0 0 0 0 0 9 3 2 7 5 5 5 0 INTESTATO A , di Euro IMPORTO IN LETTERE *UN PEDIATRA PER AMICO SAS 1 anno 21 € 1 anno+amico 33 € Nome e Cognome dell’amico ................................................................................................................................................................................................................................................ + 1 anno per un amico 47,00 euro 2 anni 35 € 2 anni+amico 47 € ........................................................................................................................... indirizzo ............................... .............................................................................. cap località prov. ESEGUITO DA RESIDENTE IN VIA - PIAZZA CAP BOLLO DELL’UFF. POSTALE BOLLO DELL’UFF. POSTALE codice bancoposta LOCALITA’ IMPORTANTE: NON SCRIVERE NELLA ZONA SOTTOSTANTE importo in euro numero conto AUT. DB/SISB/E 27068 DEL 02.01.2009 CAUSALE + 1 anno per un amico 33,00 euro tipo documento 000093275550< 451> La pagina utile un pediatra per amico Manovre antisoffocamento e di rianimazione da 0-12 mesi Cosa fare se c’è un corpo estraneo nelle vie respiratorie e il bambino non respira e non tossisce 1 Chiama aiuto e chiedi che qualcuno avvisi il 118 4 Con la mano destra batti 5 colpi energici in mezzo alle scapole, facendo attenzione a non colpirlo in testa. Non aver paura di fargli male 7 Rigira il bambino nella stessa posizione di prima (fig. 3) e ripeti i 5 colpi dietro le scapole (fig. 4) 3 2 Prendi tra le dita della mano sinistra la mandibola del bambino senza comprimergli la gola 5 Passagli il tuo braccio sinistro tra le gambe appoggiandolo bocconi e a testa in giù sul tuo ginocchio destro 6 Rigira il bambino reggendogli la testa con la mano destra 8 Rigira il bambino reggendogli la testa e ripeti le compressioni descritte nella fig. 6 Spingi per 5 volte al centro dello sterno del bambino con le dita della mano sinistra, lentamente e profondamente Continua ad alternare le manovre descritte nelle fig. 2, 3, 4, 5 e 6 fino a quando il bambino non espelle il corpo estraneo e riprende a respirare, oppure fino all’arrivo dei soccorsi. Se il corpo estraneo è stato espulso, ma il bambino non respira e ha perso conoscenza... 9 10 11 Mettilo su un piano rigido e assicurati che non abbia nulla in bocca Prendi fra le tue labbra il naso e la bocca aperta del bambino e soffia 5 volte Spingi forte e velocemente con due dita al centro dello sterno per 30 volte Tieni questo poster a portata di mano: speriamo che non serva mai, ma, se dovessi trovarti in una circostanza del genere, esegui alla lettera le manovre, senza aver paura di sbagliare Continua ad alternare 2 ventilazioni bocca-a-bocca con 30 compressioni dello sterno finché il bambino non riprende a respirare. Se ti sei stancato fatti sostituire da qualcuno che continui a fare queste manovre (figure 10 e 11) fino all’arrivo dei soccorsi Abbonati per non perdere neanche un numero, se vuoi fare un regalo, regala un abbonamento a UPPA Se sei abbonato e regali un abbonamento, riceverai 2 numeri in omaggio ✂ Tagliare lungo la linea tratteggiata CONTI CORRENTI POSTALI - Ricevuta di Versamento sul C/C n. 93275550 un pediatra per amico ◆ abbonamento un anno (per te o un amico) 21,00 € ◆ abbonamento due anni (per te o un amico) 35,00 € ◆ abbonamento un anno per te + un anno per un amico 33,00 € ◆ abbonamento due anni per te + un anno per un amico 47,00 € Puoi pagare così: ◆ collegandoti al sito www.uppa.it e cliccando sul pulsante “Abbonati subito” ◆ con bonifico bancario, codice iban IT 84 L 02008 05160 000001035625 ◆ utilizzando il c/c postale allegato di Euro CODICE IBAN I T 1 3 Y 0 7 6 0 1 0 3 2 0 INTESTATO A IMPORTO IN LETTERE UN PEDIATRA PER AMICO SAS CAUSALE 1 anno per te 21,00 euro 1 anno per te + 2 anni per te 35,00 euro 2 anni per te + ESEGUITO DA Ci pensava di giorno e anche di notte, e nei sogni capitava che muovesse il braccio e il dito qua e là, affannosamente, gettando lamenti. Racconta la leggenda che il Creatore, guardandolo dall’alto, cominciò a preoccuparsi, e decise di fare qualcosa per migliorare la vita della sua creatura. Al mattino, quando l’uomo si svegliò, si trovò accanto un altro essere, grazioso e diverso da lui, che era la donna, anche lei provvista di un braccio e di un dito, più sottile e delicato del suo. Felicissimo le sorrise e cominciò a portarla in giro, mostrandole il sole, la luna, le pietre e gli animali. Lei, molto vivace e intelligente, presto seppe indicare tutto a sua volta, e i due passavano ore a mostrarsi le cose. Qualche volta, stanchi di indicare le cose, giocavano a indicare se stessi: lui indicava lei, lei lui, e poi lui se stesso, e lei anche, e mentre indicavano ridevano e si guardavano, allegri e felici. Una volta, per sbaglio o per volere, mentre giocavano così, le loro dita si agganciarono, e rimasero incantati, a lungo. Poi, lentamente agganciarono i bracci, e si tennero stretti, guardandosi e sorridendo. rivista per bambini da 2 a 7 anni O NARTI? BB O A I o IL SITO www.lagiostra.biz to annu Abbonamen € 20,00 : i) er m (10 nu € 16,50 i di UPPA: a: per i lettor intestato1 , 7 6 9 5 ente 6569 elia, 48 Conto corr Giostra - Via Aur F.A.A. La 00165 Roma aggio re copie om Per riceve: tel. 800.869126 e poster VU è concessa da Il Creatore, per non sbagliare, aveva messo cinque dita a ciascuna delle mani, perché aveva pensato che, forse, i due non sarebbero rimasti in due a lungo, e forse nemmeno in quattro, e perché le cose del mondo sono tante, come i numeri, come i petali dei fiori, come i tasti del pianoforte, che migliaia di secoli dopo sarebbe stato inventato. ¬ LA GRANDE STORIA Il Creatore sorrise a sua volta, e capì che poteva ancora migliorare la sua creazione. Quando al mattino si svegliarono, non solo ciascuno aveva due braccia, e due mani, ma non ricordava niente di quello che era stato, come se fosse la prima mattina della loro vita. E le dita? Erano quattro? No, venti. offre ricchi materiali per giocare ancora con le storie! li o c c pi ù i p i La rivista per Ogni mese storie da leggere insieme, giochi, oggetti da costruire; e poi rubriche sull’arte e sugli animali e un sito ricco di materiali per bambini, genitori e insegnanti. Abbonati online su lagiostra.biz o scrivi a [email protected] tel. 06.661321 LA GIOSTRA NEL NON C'È PUBBLICITÁ! CCP n. 6569 596 7 IBAN IT17I05 216032290000000 1196 7 Credito Valte llinese Roma Questa volta parliamo di pediatri SPECIALE Il medico “della mutua” Convenzione, rapporto ottimale, libera scelta, massimale: cerchiamo di capire come funziona la pediatria di famiglia Michele Valente Pediatra di famiglia, Roma nata Beatrice: Stefano e Mara, i neo genitori, sono contenti ma anche un po’ confusi. Da quando è nata quante emozioni, dubbi, domande e indicazioni, tutte insieme. Troppe! Poi, non so chi, gli ha detto che bisognava “segnare” la bambina al pediatra della “mutua”. Ma come si fa?! E chi scegliamo? Grazie ad un’amica si sono orientati per il dottor V.; allora si va alla Asl, dove si scopre che Beatrice deve avere prima il Codice Fiscale (anche quello provvisorio va bene); si può fare anche online la scelta del pediatra (sul sito della Regione ovviamente); in alcuni ospedali la scelta può essere fatta anche al letto, dalla neo mamma prima della dimissione. Intanto Stefano e Mara si fanno dare i recapiti dei pediatri, ne scelgono uno e Mara lo contatta per un appuntamento. Quando escono dallo studio si sentono più sereni e hanno la netta impressione che questo pediatra potrà essere il loro punto di riferimento per Beatrice. È 1978: NASCE LA PEDIATRIA DI FAMIGLIA Questa breve storia, una delle tante possibili, serve solo per introdurci a una domanda importante che riguarda questo rapporto “significativo “ che sta per iniziare: Cosa c’è dietro “il pediatra della mutua”? O meglio: come funziona la “Convenzione” per la pediatria di libera scelta? Per rispondere a queste domande ci addentreremo nei meandri delle leggi, cercando però di farlo con parole semplici. Dobbiamo partire un po’ da lontano; il 23 dicembre 1978 (36 anni fa, più o meno l’età che hanno mediamente i lettori di UPPA) viene varata la Riforma che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), la Legge 833, che cancella il vecchio sistema mutualistico e vecchie figure come il medico condotto e i medici delle “mutue”. Fra le tante innovazione introdotte con quella legge ce n’è una che ci riguarda: ogni cittadino italiano poteva, anzi doveva, scegliere un medico di famiglia; in Italia (a differenza dell’Inghilterra, dal cui modello il nostro SSN era sostanzialmente derivato) si pensò che i bambini avessero diritto a un loro medico speciale: uno “specialista” di bambini, cioè un pediatra. Venne così istituita, accanto alla Medicina generale, la Pediatria di libera scelta. 30 SPECIALE Ma come si diventa Pediatra di libera scelta o Pediatra di famiglia (PDF, come noi pediatri preferiamo chiamarci)? Il PDF è un medico abilitato all’esercizio della professione e iscritto all’Ordine dei Medici della Provincia di Residenza, specializzato in pediatria che si iscrive in una graduatoria regionale specifica per la pediatria. Da questa graduatoria vengono chiamati i pediatri che vanno a operare sul territorio: a ciascuno di loro viene attribuito un “Numero Regionale”. Il legislatore stabilì, come già accadeva per la Medicina generale, che tutta questa materia fosse regolata, in base ai principi della legge 833, con una convenzione, cioè un contratto collettivo, stipulata con i medici pediatri aspiranti al ruolo di PdF, tramite le loro organizzazioni sindacali. LA “CONVENZIONE” E LE SUE REGOLE La prima convenzione fu siglata nel 1979. I pediatri di famiglia sono dunque dei liberi professionisti, convenzionati con il Sistema Sanitario Nazionale. La convenzione viene rinnovata (o meglio, dovrebbe essere rinnovata) ogni 3 anni. Nel tempo molti rinnovi della convenzione si sono succeduti. L’ultima convenzione è quella siglata nel 2009, già scaduta e in corso di rinnovo. La convenzione stabilisce che il numero di pediatri da immettere nel SSN viene regolato in base a un rapporto, il cosiddetto “rapporto ottimale”, con il numero di bambini residenti in ciascun comune. Il rapporto ottimale è calcolato sulla fascia di età da zero a sei anni: la cosiddetta “fascia di esclusiva”: i bambini da zero a sei anni possono essere seguiti solo da un pediatra. Dai sei anni in poi, un bambino potrebbe, in caso di necessità, essere seguito anche da un medico generale. Quando si determinano situazioni particolari (pediatri che vanno in pensione, si trasferiscono o cambiano lavoro, LO PENSA ANCHE OBAMA Non tutti i Paesi sviluppati hanno la fortuna di avere un Servizio Sanitario Nazionale (SSN), alcuni si affidano alle Assicurazioni private. Ma le Assicurazioni sono società che mirano, come è giusto che sia, al guadagno e non sempre accettano di assicurare chiunque: spesso selezionano il loro “clienti”, un po’ come capita per le assicurazioni delle automobili, e rifiutano i più anziani, i malati o quelli che non possono permettersi di pagare un premio stratosferico. Questo comportamento può causare delle iniquità, ma soprattutto mettere a repentaglio il diritto di tutti alla salute. Anche il Presidente Obama se n’è accorto: la più importante delle riforme da lui realizzate in questi anni (Obamacare) riguarda proprio l’istituzione di un’assistenza sanitaria per tutti. Gli USA infatti, pur essendo il Paese più ricco del mondo, non hanno mai avuto un SSN, ma solo assicurazioni private: la conseguenza di questo fatto è che, prima della riforma, negli USA c’erano quasi 30 milioni di cittadini che non avevano diritto a essere curati gratuitamente. oppure aumento della popolazione infantile in una determinata zona), vengono assunti nuovi pediatri di famiglia. Una volta entrato in convenzione, il Pdf deve aprire entro un mese uno studio, attrezzarlo, dotarsi possibilmente di una segretaria o infermiera, dotarsi obbligatoriamente di un computer collegato alla rete: da settembre del 2012, infatti, tutti i pediatri devono scrivere con il computer le ricette con le prescrizioni dei farmaci, degli accertamenti e delle visite specialistiche e trasmetterle elettronicamente al SSN. A ciascun Pdf è consentito di assistere fino a un numero massimo di 800 bambini (il cosiddetto “massimale”); ma quando un pediatra entra in “convenzione”, può, se vuole, limitare il suo numero di “scelte”, cioè di pazienti da accettare. Il massimale può essere superato dalle cosiddette “deroghe”: per esempio un pediatra che abbia già raggiunto il massimale potrà assistere in sovrannumero i fratellini o le sorelline che eventualmente dovessero nascere nelle famiglie che lui assiste. La sua retribuzione è proporzionale al numero di bambini che assiste: per ciascuno di loro il pediatra riscuote ogni anno una “quota capitaria”. COME FUNZIONA LO STUDIO DEL PDF Ogni pediatra è tenuto ad aprire il suo studio per almeno cinque giorni alla settimana, per un numero di ore “congruo” (così recita la convenzione), cioè proporzionato, al numero dei suoi pazienti e alle loro necessità. Molto spesso i pediatri, anche questo è previsto nella loro convenzione, non lavorano da soli, ma si riuniscono in gruppo (la cosiddetta “pediatria di gruppo”). La pediatria di gruppo presenta molti vantaggi, sia per gli assistiti, che per i pediatri stessi: garantisce ai pazienti una maggiore facilità nel reperire un medico in caso di necessità, e ai 31 SPECIALE pediatri di confrontarsi fra di loro e aiutarsi, migliorando gli standard assistenziali. Per rispondere meglio alle richieste delle famiglie, la convenzione prevede anche che siano organizzate varie forme di “continuità assistenziale”: questo significa garantire l’accesso al pediatra durante tutto l’arco della giornata, senza interruzione, anche mediante il coordinamento di più studi presenti sullo stesso territorio, che restano aperti a turno. In questo modo la famiglia che ha bisogno di consultare il pediatra in un momento della giornata in cui il proprio pediatra di fiducia non è disponibile, può rivolgersi a uno dei suoi colleghi. Questo modello sarà probabilmente potenziato e diffuso con la prossima convenzione, in maniera da assicurare l’assistenza per almeno 12 ore al giorno: per raggiungere questo obiettivo sarà necessario organizzare strutture più complesse (che potrebbero comprendere non solo i pediatri, ma anche i medici di famiglia) o addirittura le “Case della Salute”di cui tanto hanno parlato i media. Il Pdf è tenuto ad essere reperibile tutti i giorni feriali e il sabato fino alle 10 del mattino: dopo quell’orario, e fino al lunedì successivo, la continuità assistenziale è garantita dai servizi di “guardia medica”, contattabili in tutta Italia a un numero telefonico dedicato. PEDIATRA “DI FIDUCIA” I compiti del Pdf sono la prevenzione, la diagnosi, la cura e l’educazione sanitaria dei suoi pazienti: lo strumento principale per fare questo è il rapporto di fiducia con le loro famiglie; questo rapporto è il vero fulcro della pediatria di famiglia. Le visite si effettuano, preferibilmente, per appuntamento. Ogni Regione stabilisce poi un certo numero di visite programmate, i cosiddetti “Bilanci di Salute”, uno strumento importante, riconosciuto anche dalle istituzioni sanitarie, di prevenzione e di screening, di dialogo tra le famiglie e il pediatra e di promozione della salute psico-fisica del bambino. Nel Lazio, per esempio, sono stati individuati 9 appuntamenti irrinunciabili: a 3, 6, 9, 12, 24 e 36 mesi; a poi ancora a 6, 8-10 e 12-14 anni. Ovviamente ogni MUTUA E SERVIZIO SANITARIO Abbiamo chiamato scherzosamente questo articolo "Il medico della mutua", ma avremmo dovuto chiamarlo "Il medico del Servizio Sanitario Nazionale. Una “mutua” è un’associazione privata, costituita da lavoratori della stessa categoria, che decide di tassarsi per raccogliere un capitale da mettere a disposizione di tutti in caso di necessità: ciascuno spende poco per non rischiare molto. Il sistema “mutualistico" in Italia ha funzionato per decenni, ma ha un difetto: è troppo “povero” per potersi permettere strutture complesse come gli ospedali e può rivelarsi fragile, se molti degli associati dovessero averne bisogno. Un Sistema Sanitario Nazionale (SSN) invece vale per tutti i cittadini, è finanziato dallo Stato attraverso le tasse, è proprietario della maggior parte degli Ospedali e non può andare in bancarotta. Perciò è preferibile al sistema delle “mutue”. pediatra è libero di proporre altri appuntamenti e altre visite, d’accordo con le famiglie. Quasi sempre non è necessario che un pediatra visiti un bambino a casa. O meglio, forse in passato lo era, ma oggi non lo è più, anche se le visite domiciliari sono previste dalla convenzione, ma sono definite come una modalità eccezionale e da concordarsi con il pediatra. La visita fatta in studio, specie in caso di pediatria di gruppo con orari di studio molto ampi, è sempre più accurata: il pediatra può accedere alla scheda del bambino e utilizzare alcuni strumenti di diagnosi e terapia che non può portarsi dietro (il cosiddetto “self-help diagnostico”). Come abbiamo detto i Pdf sono dei liberi professionisti, anche se sono legati a un contratto con il SSN: se si assentano per malattia, per ferie o per aggiornamento, sono obbligati a farsi sostituire da un collega che loro stessi retribuiranno. I Pdf sono infatti tenuti anche ad aggiornare continuamente le loro conoscenze mediche: questo è sempre avvenuto, ma da qualche anno è diventato un obbligo. L’aggiornamento e la formazione, che in ambiente medico si chiamano ECM (Educazione medica continua) possono svolgersi in molti modi: dai tradizionali congressi e corsi, alla lettura di riviste alle nuove forme telematiche a distanza. Finisce qui la nostra descrizione del rapporto che lega noi pediatri con il SSN, ma che ci lega soprattutto alle famiglie dei nostri pazienti. Un rapporto molto importante che garantisce ai bambini italiani di avere a disposizione uno specialista che li segue dalla nascita fino all’adolescenza. Non a caso, in diverse indagini condotte negli ultimi anni, le famiglie si sono dimostrate piuttosto soddisfatte dall’assistenza pediatrica che risulta sempre al top del gradimento fra tutti i servizi sanitari. Un’assistenza che costa davvero poco: basti pensare che la spesa complessiva per i medici di medicina generale e i pediatri di famiglia rappresenta meno del 6% della spesa globale per la Sanità, a fronte di un impegno a tutto campo. [email protected] I CERTIFICATI La certificazione fa parte del lavoro di tutti i medici ovunque ma in Italia ha un ruolo del tutto particolare. Il numero di certificati che vengono richiesti ai medici è veramente esorbitante: nel 2007 fu discusso in Parlamento un progetto di legge che prevedeva l’abolizione di 5 milioni e mezzo di certificati medici inutili ogni anno! Purtroppo questo progetto non è mai diventato legge. Fra i certificati medici inutili richiesti ai pediatri, spicca il certificato di riammissione a scuola (richiesto solo in alcune Regioni e rilasciato gratuitamente), non meno discutibile è il certificato di idoneità all’attività sportiva non agonistica, rilasciata pagamento (e per questo, forse, difficile da sopprimere). Questa volta parliamo di pediatri SPECIALE Ve lo dico io come deve essere un pediatra Ho due anni e mezzo, ma ho le idee molto chiare Costantino Panza Pediatra di famiglia, Sant’Ilario d’Enza (RE) iao a tutti, mi chiamo Giuditta e sono una bimba di due anni. “Eh bum, impossibile!”. Si che è possibile, penso, parlo e voglio dire delle cose. Non è invece possibile che qui, intendo qui a UPPA, parlino solo medici, dottori, ostetriche e genitori. Uffa, altro che UPPA! Qualcosa la vogliamo dire anche noi bambini! “I bambini sono viziati e vanno educati”. Ma chi dice queste scemenze? Io le cose giuste da fare le so, sono piuttosto i grandi che non sanno come si fanno le cose: questo dovrebbe essere ormai chiaro per un lettore di UPPA. Dai, non perdiamoci in chiacchiere – chi mi conosce dice che parlo molto; ecco, volevo dirvi come la penso sul mio pediatra. “Il mio pediatra fa così”, “No, no, la mia pediatra fa cosà”, “Ah, la mia ha dato per il mio Ugo un nuovo C preparato che lo rinforza dappertutto, me l’ha assicurato”, “Non parlarmene, il mio non lo trovo mai, e se lo trovo non mi vuol dare mai l’antibiotico, nemmeno quando ci vuole!”. Ecco, io devo sentire tutti questi discorsi tutti i giorni quando la mia mamma si incontra con le altre, e sono stufa, stufa ma proprio stufa di ascoltare le solite litanie. I miei genitori, e non solo loro, non sanno proprio nulla di che cosa è un pediatra e di come dovrebbe essere. L’unica persona che lo può dire è solo quella che va sul lettino a farsi toccare, e poi deve prendere le medicine: quindi io. Ve lo dico io come deve essere un pediatra. GLI “INGREDIENTI” DI UN BUON PEDIATRA Quando mi danno da mangiare qualcosa vorrei leggere gli ingredienti scritti sull’etichetta; in fin dei conti è roba che devo far entrare dentro di me. Immagino che mamma e papà facciano lo stesso per la roba che mandano giù. Bene: quali sono gli ingredienti di valore che fanno del pediatra una roba che puoi mettere dentro di te e stare tranquilla che non ti farà male, ma anzi, ti farà crescere bene? Ecco quali sono gli ingredienti che richiedo, statemi a sentire. Per prima cosa, mi piacerebbe entrare in una bella stanza: mia mamma la chiama sala d’aspetto. Non c’è nome più sbagliato (quanto sbagliano i grandi, non finirò mai di dirlo!). In quella stanza io non aspetto mai. Ci sono sempre delle cose belle che mi accolgono. L’arredamento, la cura con cui il medico sceglie le immagini da appendere, la presenza di una piccola biblioteca con qualche libro che ogni tanto viene rinnovato, mi fa capire che il pediatra ci tiene a me e vuol comunicare qualche cosa alla mia mamma, anche quando lui non c’è. Anche la mamma lo ha capito, e si mette a leggermi i libri che io prendo da quella piccola bibliotechina appoggiata alla parete e che le porto. È divertentissimo. Poi c’è una grande bacheca colorata dove i miei genitori devono leggere dei fogli che il pediatra mette ogni tanto, novità, articoli importanti: insomma, li chiamano consigli per i genitori e il pediatra insiste perché si leggano. Beh, c’è così tanta roba da fare che non capisco perché la chiamino attesa, io la chiamerei la stanza dei compiti, delle cose belle da fare. 33 SPECIALE ALLA LUCE DEL SOLE Negli Stati Uniti è recentemente stata varata una legge (chiamata Sunshine Act) che obbliga a informare pubblicamente sui soldi che le industrie del farmaco elargiscono ai medici. Il 30 settembre 2014 ci sarà la prima pubblicazione dei dati raccolti e controllati da parte di una specifica commissione. Già alcune rilevazioni hanno evidenziato che più dell’80% dei medici di famiglia riceve regali, iscrizioni gratuite a congressi, rimborsi spese per viaggi ecc. ecc. per un valore medio di oltre quattromila dollari/anno. Una cifra di tutto rispetto, considerando che, come in ogni statistica che si rispetti, per un medico che riceve un regalo da cento dollari c’è un collega che riceve omaggi di valore stimati in numerose migliaia di dollari. Un atto di trasparenza senz’altro molto utile per un paziente che voglia conoscere i rapporti tra quel medico e l’industria, in uno scenario dove ormai le companies del farmaco e delle apparecchiature mediche sono le massime finanziatrici di studi clinici o di eventi formativi per il medico, il quale è spesso in difficoltà nel scegliere una formazione indipendente. Un altro ingrediente che pretendo è che quando entro nella stanza dove c’è il pediatra, ci sia sempre un bel sorriso ad accogliermi. A me capita ancora di piangere quando entro lì, non so perché; anche se voglio entrarci, per vedere quel sorriso e sentire quella voce che mi chiama per nome e mi guarda, piango anche se c’è la mamma che mi tiene in braccio. Mamma e dottore chiacchierano un po’, poi lui inizia a toccarmi, accende e spegne le sue lucine – è proprio buffo, nessuno glielo ha detto ancora? - e io continuo a piangere. Poi mi lascia non prima di avermi strofinato il muso, prendendomi in giro e regalandomi un altro bel sorriso. Io in cambio piango ancora, però, lo dico in segreto solo a voi, mi fa piacere che una persona così si interessi a me. Terzo ingrediente, le medicine. Parliamoci chiaro: perché le medicine non ve le prendete voi adulti che siete vecchi? Noi bambini non ne abbiamo bisogno. Ma lo sapete che noi bambini italiani prendiamo più medicine degli altri bambini del continente? Mica siamo più ammalati. Il fatto è che, più semplicemente, abbiamo più pediatri. Quando vedo che il dottore si mette a scrivere una ricetta, capisco che poi a casa papà o mamma mi dovranno infilare qualcosa da qualche parte. Come difendermi dalle medicine inutili? Visto che io non posso prendere le medicine da sola, quando e come credo, ci si dovrebbe fidare del dottore. Allora ho architettato questo pensiero. Innanzitutto, lui mi deve dire perché mi dà la medicina e su quali studi scientifici si basa la sua decisione. Impossibile? Allora chi mi garantisce che il mio dottore è aggiornato sulle più recenti linee guida e ricerche scientifiche? Chiedo, anzi, esigo: è un mio diritto sapere che tipo di studi fa il mio pediatra. “Ma ha fatto l’Università!”. Eh no, non basta, io voglio, io esigo che il mio pediatra studi un pochetto tutti i giorni, e che abbia il coraggio di dire 34 tutto quello che fa per prepararsi. Se ogni giorno va in ambulatorio, ogni giorno deve studiare un po’. Ho bisogno di conoscere il suo curriculum vitae o come cavolo si chiama. Insomma, io voglio sapere cosa fa per essere un pediatra aggiornato! Così avrò più fiducia sulle cose che mi prescrive e che devo prendere. UN “INGREDIENTE” IN PIÙ “Allora Giuditta, siamo a posto? Sono questi gli ingredienti che vorresti per un pediatra?”. No, c’è ancora un ingrediente che mi piacerebbe molto gustare. Talvolta, nella sala dei compiti ci sono dei signori o delle signorine che aspettano (e non fanno quelle belle cose che il pediatra ci fa fare in quella stanza dei compiti). Aspettano con delle valigette, perché poi andranno dal dottore e lasceranno sulla sua scrivania tante scatole di medicine, tutte colorate di mille colori. Ho sentito dire che questi signori e signorine si chiamano “informatori del farmaco”. Un mestiere di tutto rispetto, sono tutti laureati e informano il dottore delle novità che l’industria farmaceutica offre. Fin qui tutto bene. Più è informato il mio pediatra, più sono tranquilla io. Io però sono Giuditta, e sono una bambina maliziosa. Ho letto da qualche parte - si, leggo, che male c’è? - che hanno fatto una legge che obbliga a rendere pubblici i regali che l’industria farmaceutica fa ai dottori. Non ci crederete, ma sembra che i dottori ricevano regali per molte migliaia di soldi. Wow! Pensate alla quantità di leccalecca che potrei comprarmi! Non credo proprio che i medici prendano i soldi, ma un computerino, un congressino al mare in estate, oppure in montagna durante la stagione sciistica, cenette di qua, cenette di là, un rimborso spese per una relazioncina di su, qualcos’altro di giù… Parliamoci chiaro: perché l’industria farmaceutica dovrebbe spendere milioni di dollari, o euro, in questo modo? SPECIALE Perché dopo il dottore è più felice e mi fa il sorriso? Dai, non siete scemi, lo sapete anche voi. È stato osservato che il medico non solo prescrive più facilmente quel farmaco invece di un altro, ma ne prescrive anche di più. Bene: questo a me non va bene. Ma mai che senta i miei genitori al parco a parlare di queste cose con gli altri genitori; uffa e ancora uffa! Perché il mio pediatra non appende un bel cartello davanti alla porta con la sua dichiarazione giurata che non ha partecipato ad alcun congresso sponsorizzato, o in modo gratuito, e che non ha accettato alcun regalo dalle industrie farmaceutiche? Questo è un mio diritto, questo è un ingrediente che voglio dal mio pediatra. PARLIAMO DI COSE SERIE! “Ma il pediatra ha il diritto di prescrivere quello che ritiene giusto. Mica glielo devi dire tu quello che deve prescriverti!”. Ci mancherebbe, perbacco. Però se io vado in un ospedale a farmi operare voglio sapere se quella struttura funziona bene, se ha fatto tante operazioni di quel tipo, con quali risultati, i successi, le complicanze, ecc ecc. Così posso confrontare diversi reparti e scegliere quello che ritengo più giusto. Non dovrebbe essere così per il mio medico? Perché non posso vedere quali e quanti farmaci prescrive ogni anno? Prescrive di più o di meno rispetto a una media europea, prescrive i farmaci di prima scelta o prescrive delle medicine che sono indicate come seconda scelta? Ho sentito dire che quello che voglio sapere viene chiamato report e che alcune ASL, in diverse regioni, lo fanno con dei sistemi informatizzati, controllando così l’appropriatezza prescrittiva di ogni medico. Ma io come faccio a sapere queste cose? Mi sembra un mio diritto volerlo sapere. “L’orario di reperibilità di qui, il telefono di qua, la segreteria di su, non si trova mai di giù”: basta parlare solo di queste cose. Papà, mamma: se volete conoscere il pediatra, chiedetegli il suo curriculum, ma non quello che ha fatto vent’anni fa che ormai non serve più, ma quello che sta facendo e si impegnerà a fare fino a che non cresco tutta e chiedetegli se va ai congressi offerti dall’industria dei farmaci. E non dimenticarvi di chiedergli se è felice e soddisfatto: io al sorriso che mi regala non ci rinuncio. [email protected] FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO NON SEMPRE INDIPENDENTI In Italia così come in quasi tutte le nazioni industrializzate l’aggiornamento dei medici è diventato un obbligo di legge. In Italia è chiamato Educazione Continua in Medicina (ECM). Tuttavia il sistema sanitario pubblico raramente finanzia eventi di formazione gratuita per i medici. Convegni medici sponsorizzati o eventi formativi gratuiti per i medici, ma pagati dall’industria con relatori sempre pagati dall’industria dei farmaci sono, purtroppo, quasi sempre la consuetudine per il medico. Tuttavia, questo tipo di formazione rischia di favorire l’amplificazione di un concetto di malattia e di modificare l’impostazione della pratica prescrittiva medica favorendo, in questo modo, l’aumento delle vendite dei farmaci per quel disturbo. Un problema diffuso in tutto il mondo e di grande rilievo, considerando il fatto che l’industria del farmaco investe in queste opere di marketing un quarto del fatturato annuo, ossia miliardi di euro ogni anno. Recentemente è stato pubblicato un libro di un medico ricercatore inglese, Ben Goldacre, che spiega in modo dettagliato questi problemi. Ben Goldacre, Effetti Collaterali. Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti, Mondadori 2013 35 Questa volta parliamo di pediatri SPECIALE Nessuno è perfetto Considerazioni di un pediatra “di lungo corso” o iniziato il mio lavoro di pediatra di famiglia proprio nel 1979, quando questo servizio nacque. Perciò, per forza di cose, sono ormai uno dei più anziani (ed esperti, credo) in Vincenzo Calia questo mestiere. Pediatra di famiglia, Roma Non mi sono mai pentito di questa scelta e sono consapevole che questi 35 anni mi abbiano dato moltissimo, probabilmente più di quanto io non sia riuscito a dare. Tuttavia, la pediatria di famiglia, che è pur sempre il fiore all’occhiello del nostro Servizio sanitario, è tutt’altro che perfetta. H LA LIBERA SCELTA Come ci spiega Michele Valente nell’articolo che segue, alla base di tutto c’è il rapporto di fiducia: ogni famiglia sceglie liberamente il pediatra di cui si fida di più. In teoria. In pratica la cosa è un po’ diversa: l’elenco dei pediatri da scegliere è limitato; ciascun pediatra non può assistere più di 800 bambini; quando una famiglia deve scegliere un pediatra per la prima volta può optare solo per un professionista che abbia meno di 800 scelte. Questo sistema è stato studiato con l’obiettivo (certamente condivisibile) di distribuire equamente gli assistiti fra i pediatri. Il risultato però è un altro: la libera scelta svanisce per incanto. Infatti, se un pediatra è molto apprezzato, è anche molto scelto e satura velocemente il suo numero di assistiti. A questo punto, se altre famiglie volessero sceglierlo, non potrebbero farlo, ma sarebbero obbligate a scegliere un pediatra che ha un numero più basso di assistiti. E che magari pochi scelgono, perché pochi apprezzano. Ecco qui che la libera scelta diventa una scelta obbligata. Tutti i pediatri, purché siano iscritti nell’elenco della ASL, raggiungono così un notevole numero di assistiti: quelli di loro che sono meno motivati, meno 36 preparati e meno disponibili (e ce ne sono, ovviamente, come dappertutto) possono anche infischiarsene del giudizio dei loro assistiti, perché comunque avranno uno stipendio assicurato. Come si può facilmente capire questo meccanismo non favorisce il merito; anzi, al contrario, chi meno merita (e meno lavora), a parità di impegno guadagna di più di chi è disponibile e lavora molto. UNA RISTRETTA CERCHIA C’è poi un altro problema: per quanto possa sembrare strano a chi non è del mestiere, assistere 800 bambini non è poi un impegno così gravoso. Fortunatamente infatti la stragrande maggioranza di questi bambini è costituita da bambini sani, che hanno bisogno solo di controlli periodici e di consigli in caso di piccole patologie intercorrenti. Viceversa, le vere malattie sono così rare che a un pediatra che assiste “solo” 800 bambini può capitare di non incontrarle mai, o di incontrarle così raramente, da non permettergli di farsene un’esperienza. E questo non va bene: un buon medico è anche un medico che ha visto tante cose e sa ricono- SPECIALE scerle. A parte i piccoli centri dispersi sul territorio (dove è impossibile raggruppare un numero consistente di bambini senza allargare troppo il territorio che si vuole servire), nelle città grandi e piccole un pediatra, per avere una casistica ragionevolmente ampia, dovrebbe assistere forse 2.000 bambini. E come troverebbe allora il tempo di fare il lavoro di controllo periodico della salute e di gestione della patologia banale intercorrente? Be’, questo è un lavoro che può fare benissimo un infermiere preparato ad hoc. LA PEDIATRIA CHE VORREI Meglio, dovrei dire “la pediatria che avrei voluto”, perché ormai ho quasi percorso tutta la mia carriera. Vorrei che non esistesse un numero massimo di assistiti: ogni pediatra dovrebbe essere libero di decidere in prima persona quanti bambini può assistere. Nel momento in cui si dovesse rendere conto che questo numero è eccessivo, potrebbe scegliere fra due alternative: fermare l’iscrizione di nuovi bambini, oppure assumere qualcuno che lo aiuti nel suo lavoro. Non ci sarebbe, secondo me, nessun rischio di scadimento della qualità dell’assistenza, perché se questo dovesse avvenire, le famiglie, realmente libere di scegliere, lo abbandonerebbero e si rivolgerebbero altrove. In questo modo si premierebbe il merito (chi lavora meglio guadagna di più) e si favorirebbe la crescita di tutto il servizio (chi riceve poche “preferenze”, e quindi guadagna poco, si darebbe da fare per migliorare e farsi scegliere di più). Questa prospettiva, fin ora irraggiungibile perché la “convenzione” è stata sempre vincolante, potrebbe essere un’ipotesi concreta in futuro, quando molte migliaia di vecchi pediatri (come me) andranno in pensione e non ce ne saranno abbastanza di nuovi per sostituirli. E così, se si vuole salvare questo prezioso servizio (e io penso che si debba farlo), bisogna che cresca il numero di bambini che ciascun pediatra può assistere. SCEGLIERE INFORMATI Già, ma chi glielo dice a una famiglia, che magari è al primo figlio, qual è il “miglior” pediatra disponibile? Certo, c’è il passaparola delle mamme, ma a volte non basta. Dovrebbe essere proprio la ASL che, come dice Costantino Panza nel terzo articolo di questo speciale, conosce di ogni pediatra “vita, morte e miracoli” a informare i cittadini: non basta infatti pubblicare elenchi di medici per favorire una scelta consapevole che sia in grado di andare oltre l’unico criterio di scelta per ora possibile: la vicinanza dello studio alla propria casa. Ogni pediatra dovrebbe essere identificato con tutta una serie di parametri, comprensibili da tutti: quanti bambini assiste, quante medicine prescrive, quanti accertamenti, quanti dei suoi assistiti si rivolgono in ospedale invece che a lui, quanti sono i bambini correttamente vaccinati fra quelli che lui segue, quanti sono allattati al seno, come svolge la sua formazione medica e il suo aggiornamento, se lavora da solo o con altri collaboratori, per quante ore è aperto il suo studio e così via. Tutte queste notizie dovrebbero essere note alla famiglia prima di scegliere il pediatra e queste schede, naturalmente, dovrebbero essere aggiornate di continuo. Anche questo, ne sono certo, sarebbe un incentivo a migliorare. [email protected] RICETTE BIANCHE E ROSSE I pediatri, come tutti i medici del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) hanno nel cassetto un bel blocchetto di… assegni in bianco: sono le ricette rosse con cui prescrivere farmaci, visite o accertamenti. A ciascuna di queste ricette corrisponde una spesa a carico del SSN (e cioè a carico di tutti noi). Ognuna di queste ricette passa dalle mani del paziente a quelle del farmacista o dello specialista, ma va anche a un centro di controllo, che monitorizza tutte le prescrizioni e ne verifica la correttezza. Anche i pazienti hanno la loro responsabilità: ogni prescrizione ha il suo peso. Ci sono poi le ricette bianche, quelle su cui prescrivere i farmaci che il SSN non passa e che il paziente paga di tasca propria. 37 La parola ai genitori Le notti di Elisa Quando le ore di sonno sono scarse, la mattina la sveglia suona prima delle sette, la sera non riesci ad andare a letto presto… Elisa Bedoni Zafferana Etnea (CT) LA PAROLA AI GENITORI Questa mail ci è sembrata così eloquente e spontanea che non abbiamo potuto fare a meno di accogliere la richiesta della nostra lettrice e pubblicare il suo intervento. È vero, l’esperienza diretta, spesso, è più eloquente del parere dell’esperto. ari dottori, non vi scrivo per fare delle domande ma per condividere i miei pensieri le mie esperienze di mamma. Ho letto con molto interesse lo speciale “Notti bianche, giorni neri” (n. 6, 2013 a disposizione in formato pdf per tutti gli abbonati sul sito www.uppa.it)) e come sempre ho trovato nelle vostre parole spunti di riflessione e consigli utili. A livello teorico mi trovo d’accordo con tutto quello che ho letto. Ho apprezzato anche molto la “critica” (sempre costruttiva!) a quei libri che sembrano offrire la soluzione e devo dire che, la sera stessa in cui ho letto lo speciale, ho cercato di mettere in pratica il metodo dell’affievolimento dell’intervento dei genitori. E da qui sono iniziate le mie riflessioni. C 38 HO TRE FIGLI Tommaso ha quasi otto anni, Viola ne ha sei e Francesco ha undici mesi. Premetto che sulla questione sonno sono arrivata del tutto impreparata. Prima di diventare mamma, non avevo letto nulla e quel poco che sapevo era per sentito dire. Fatto sta che Tommaso già nei primi mesi si sapeva addormentare da solo, tanto che quando era intorno all’anno di età, dopo il classico rituale, lo mettevo nel lettino, lui faceva ciao ciao con la manina, io me ne andavo. Lui si addormentava… e dormiva tutta la notte. Un paradiso. Non chiedetemi come ho fatto perché non ricordo nulla! Poi è arrivata Viola, mamma-dipendente, si addormentava solo al seno, si svegliava ogni tre ore; poi, abbandonato il seno a quattordici, o forse quindici mesi, ha cominciato a dormire tutta la notte. Non chiedetemi come ho fatto... perché neanche di questo ricordo nulla! Fin qui tutto secondo le teorie che voi indicate. Però, ora cosa succede? Succede che da qualche anno Tommaso si vuole addormentare sempre con un adulto vicino e tutte le notti (o quasi) viene nel lettone, perché da solo non si riaddormenta. Mentre Viola, che si addormenta anche da sola, dorme tutta la notte e se si sveglia, per una pipì o un po’ d’acqua, se ne ritorna tranquilla nel suo letto e si riaddormenta da sola. Immagino che siano intervenuti numerosi altri fattori, ma sembrerebbe che, indipendentemente da come gli si “insegna” ad addormentarsi, il futuro rimane un’incognita. Ma veniamo all’ultimo arrivato e alla conclusione dei miei ragionamenti. Mentre con i primi due ero impreparata su molti temi, all’arrivo di Francesco mi ero ormai fatta una vasta cultura (e anche una buona esperienza) su allattamento, accudimento, contatto, (auto)svezzamento. Anche grazie a UPPA, ovviamente. Ma quando mi sono ritrovata tra le braccia quello scricciolo, mi sono resa conto di alcune cose. Primo, che mi ero dimenticata completamente di cosa volesse dire avere tra le braccia un neonato e di quanto duri fossero i primi tre mesi. Secondo, che all’aumentare del numero di figli diminuiscono la capacità, la forza, il tempo e la voglia per rimanere fedeli alle proprie posizioni, ideali, intenzioni, obiettivi, o come altro li vogliamo chiamare. E sotto un certo aspetto è stato un bene, perché ho abbandonato un po’ della mia rigidità, che forse non portava vantaggi a nessuno. Ma il punto più difficile su cui mediare tra stanchezza e intenzioni è stato proprio il sonno. ODDIO, NON CE LA FACCIO PIÙ Credo anche di essere stata brava ad andare incontro alle esigenze di Francesco, e alle mie. Perciò, mentre i primi giorni dormiva addosso a me, quando ho iniziato a capire che era pronto per staccarsi, l’ho delicatamente accompagnato, spostandolo prima accanto a me, ma abbracciato, poi non abbracciato e poi nella culla, vicino a me e poi più lontano, fino al traguardo del lettino. Mi rendevo conto che era pronto per quel passo e agivo di conseguenza. Però devo fare una confessione: spesso non ho voglia di fare fatica, di notte, per cercare di riaddormentare Francesco nel suo lettino o riportare Tommaso nel suo letto. Quando le ore di sonno sono scarse; la mattina la sveglia suona prima delle sette; la sera non riesci ad andare a letto presto perché ti ritrovi a sbrigare alcune faccende dopo che tutti dormono; o semplicemente ti ritagli del tempo per leggere un giornale o scrivere una lunga lettera a UPPA, o magari guardare tuo marito negli occhi nel silenzio della casa; quando non hai modo di riposarti di giorno perché il piccolo dorme, ma tu devi approfittarne per preparare il pranzo (e magari insieme la cena), oppure per sistemare i pannolini (lavabili ovviamente!) o le montagne di vestiti lavati o da lavare; e poi nel pomeriggio ci sono i due grandi che devi aiutare a fare i compiti, accompagnare a musica, in palestra, a catechismo o dagli amici; e magari cercare anche di giocare un po’ con loro o leggere un libro in loro compagnia, il tutto senza l’aiuto dei nonni che vivono a più di mille chilometri di distanza… Beh, scusate, ma proprio non ce la faccio! E allora al primo risveglio di Francesco, che si riaddormenta al seno, perché così è più facile, infinitamente più facile, lo rimetto nel suo lettino e aspetto che si riaddormenti profondamente per non dovermi rialzare dopo cinque minuti, al secondo risveglio ci riprovo di nuovo, ma al terzo (quando non è il quarto o il quinto!), quando guardo timorosa la sveglia e mi rendo conto che dopo neanche un’ora quella suonerà impietosa, se lui non è completamente addormentato me lo accoccolo nel lettone e buonanotte al secchio. Perché così è più facile, infinitamente più facile! E poi, onestamente parlando, spesso è anche un piacere infinito tenerselo tra le braccia addormentato. CONCLUSIONI E allora, ecco la mia conclusione. Al primo figlio si possono fare tutti i ragionamenti del mondo e cercare di essere fedeli ad essi. Al secondo forse. Dal terzo in poi credo sia molto difficile, se non impossibile. E allora si lascia tutto, non dico al caso, ma al proprio istinto o bisogno del momento. Eppure dicono che i terzi figli crescano benissimo. Staremo a vedere. Vi lascio con una provocazione. Perché su questi temi non strettamente medici, non fate parlare anche i diretti interessati, cioè noi genitori? Perché tra il dire il fare, si sa, c’è sempre di mezzo il mare, e quando si parla di figli c’è un oceano immenso. L’esperienza di qualche mamma forse può valere tanto quanto la voce di tanti esperti. [email protected] 39 Mai più senza La cameretta dei sogni La solita storia di principesse e avventurieri sce però ad allontanarsi dagli stereotipi. Sfogliando il catalogo junior è tutto un déjà vu e i soliti schemi bambine-principesse, maschietti-avventurieri invadono le pagine in sezioni ben separate. Tiziana Cherubin Mamma di Michelangelo, Colle Umberto (TV) genitori hanno molti dubbi: gli darò troppe attenzioni, gli darò poche attenzioni, sarà bene fargli fare uno sport, aiutare la disciplina con faccine premio, note di demerito, raccolte punti? E così finiscono per chiedere lumi sulle cose più ovvie allo psicologo di turno. Ma c’è una cosa dove non esiste tentennamento, una tematica che più di tutte smuove gli animi e le coscienze, dove non c’è margine di dubbio e l’assemblea di genitori diventa improvvisamente un unico blocco di indispettita convinzione granitica. Non toccategli la certezza fondante, la sacra legge: ci sono cose da maschi e cose da femmine. Questo teorema ormai vale in qualsiasi ambito e non si limita all’abbigliamento o agli accessori personali: dai quaderni alla cameretta è ormai tutto “per lui” o “per lei”, con le stilizzazioni - culturali o commerciali - del caso. Maisons du Monde, azienda francese di mobili e oggetti d’arredo, ci invita al viaggio e alla scoperta per creare “uno stile personale”, malgrado gli intenti non rie- I 40 NULLA È CAMBIATO Le “Principesse moderne” adorano ciò che brilla, trasformano il peluche in principe azzurro e amano giocare alle star, e se rivendicano un diritto è quello di avere il proprio angolo di bellezza; quindi è obbligatorio il mobiletto da toilette con specchiera e cassettini. Tutto gioca sui temi di avventure e esplorazioni invece per lui, dalla giungla agli spazi interstellari non ci sono dubbi, diventerà un esploratore, o pilota di formula 1, pirata, surfista. Non si scappa. Grandi sforzi di creativi e designer per star dietro all’immaginazione dei bambini (o meglio all’immaginario che vogliamo appiccicargli addosso) che però è ben più vasta di un universo limitato a cinque temi. Il letto di un bambino o di una bambina può avere moltissime vite, essere un’isola da esplorare, una zattera di salvataggio, un treno, una nave, una casa, un villaggio, un intero mondo che cambia seguendo gli imprevedibili guizzi della fantasia. Perché confinare i nostri bambini in un’ambientazione così rigida e affibbiargli un ruolo tanto preciso? Un ruolo che in ogni caso, per forza di cose, sarà presto superato, insieme al comodino-giraffa o al lettino- macchinina con tanto di ruote... Ripenso alla camera della mia infanzia, legno chiaro e scansie modulari, dove hanno dormito poi i miei fratelli, che non poneva vincoli di sesso o età, un vero spazio libero da abitare e personalizzare. [email protected] LA BANALITÀ DEL MONDO In Europa con più di 200 negozi, “La maison du monde” è presente anche in Italia: commercializza mobili ispirati al fascino esotico di India, Cina, Marocco. Peccato che nel catalogo “junior”, da 0 a 16 anni, non si sottragga alla banalità dilagante e ai soliti schemi: dolcezza inerte per le femmine e mondi avventurosi per i maschi. Evidentemente così funziona il mercato. E noi genitori? Siamo ancora in grado di scegliere e ragionare, o è più semplice e rassicurante seguire uno schema preconfezionato, invece che mettersi in ascolto dei gusti e delle aspirazioni dei nostri figli? Lo so fare anch’io Lo sciroppo di menta Per fare una bevanda fresca e dissetante a menta è una pianta erbacea molto diffusa alle nostre latitudini e utilizzata da secoli in cucina e come pianta medicinale (ha proprietà digestive, antisettiche e antispastiche). È una pianta infestante, di facile coltivazione, che si può far crescere in vaso sui balconi, in prati o giardini o anche raccogliere quando cresce libera nelle campagne. Esistono molte varità di menta, in Italia la più utilizzata è la menta piperita, mentre le varietà che sono diffuse spontaneamente in campagna solo la mentuccia e il mentastro. La menta viene utilizzata per preparazioni dolciarie (caramelle e non solo), ma anche in cucina per aromatizzare carne, risotti, frittate, insalate. Uno dei suoi utilizzi più comuni è quello in sciroppo per preparare bevande dissetanti a base di acqua o di latte e ghiaccioli. Quindi se coltivare la menta è semplice, perché non prapararsi in casa lo sciroppo? L PREPARIAMO LO SCIROPPO Per preparare circa un litro di sci- per tutta l’estate e, perchè no, per l’inverno. Alla fine della preparazione scoprirete una piccola sorpresa: lo sciroppo di menta autoprodotto non è verde! Può avere un colore che varia dal bianco perla al giallo-verdino chiaro e ha un aspetto molto più naturale di quelli acquistati al supermercato; inoltre posso aggiungere che lo sciroppo autoprodotto è decisamente più buono, perché ha il gusto di poter dire “l’ho fatto io!” [email protected] GHIACCIOLI LATTE E MENTA Ingredienti per 4 ghiaccioli: 2 cucchiai di sciroppo di menta, 120 ml di latte Veloci da preparare, i ghiaccioli latte e menta possono diventare un’ottima e fresca merenda estiva. Versate in un contenitore il latte e lo sciroppo di menta, mescolate bene con un cucchiaio e versate il liquido in uno stampino da ghiacciolo. Dopo qualche ora di freezer saranno pronti. Foto123RF Elena Uga Gruppo ACP, Pediatri per un Mondo Possibile roppo di menta servono 350 grammi di foglie di menta fresche, un litro d’acqua, 500 grammi di zucchero, un limone non trattato e una bottiglia di vetro. Innanzitutto, si inizia raccogliendo le foglie e questa è forse l’operazione più lunga. La menta cresce in ramoscelli che raggiungono al massimo il metro di lunghezza, ricoperti di piccole foglioline verde brillante. Le foglie raccolte vanno ben lavate e separate dal rametto: fate attenzione perché i 350 grammi necessari devono essere costituiti di sole foglie, senza rami. Le foglie vanno poi messe in un contenitore (se vogliamo un risultato migliore possono essere pestate in un mortaio o frullate con un robot da cucina, ma se si ha particolarmente fretta lo sciroppo viene bene anche utilizzando le foglie intere). Si fa quindi bollire il litro d’acqua e si getta l’acqua bollente sulle foglie aggiungendo la buccia grattugiata del limone; il composto ottenuto va lasciato macerare almeno 24 ore. Passato questo tempo, filtrate il tutto con un canovaccio, strizzando fino all’ultima goccia. Il liquido ottenuto va messo in una pentola con i 500 grammi di zucchero. Si scalda il tutto a fuoco lento girando fino a quando lo zucchero è sciolto, ovviamente più lunga sarà la cottura maggiore sarà la concentrazione dello sciroppo. Lo sciroppo va poi versato in una bottiglia di vetro ben lavata che va tappata solo dopo che lo sciroppo si sarà raffreddato. In questo modo lo sciroppo si conserva molto a lungo, possiamo anche prepararci le scorte Letture per genitori Una grande occasione da non perdere La scuola e le sue parole: il libro di Maria Pia Velariano Sonia Bozzi Redattrice di UPPA, Roma e snocciola una dopo l’altra e quando le leggi senti risuonare un’eco profonda: integrazione, armonia, paura, equità, timidezza. Sono alcune delle parole con le quali Maria Pia Veladiano descrive la scuola nel suo ultimo libro, Parole di scuola, appunto (Erickson, 2014). Un libro breve e intenso che riconosce a questa nostra istituzione dello Stato, impoverita e trascurata, un ruolo cardine e insostituibile, quello di “unico luogo in cui tutti, davvero tutti, si incontrano: italiani, stranieri, ragazzi con disabilità, poveri di cultura e di mezzi e ricchi di tutto.” E se è vero che la scuola è la grande occasione per conoscere l’altro, per imparare a stare insieme, per trasformare le parole in esperienze, è anche il primo luogo dove s’impara il significato della parola “integrazione” che, come ricorda Veladiano, non è sinonomo d’inclusione, perché non basta stare dentro qualcosa per farne parte. L’integrazione implica un’interazione, un dialogo, una relazione di conoscenza e di rispetto, un cambiamento della realtà esistente, un “farla diventare come deve essere, integra”. Implica impegno, curiosità e riconoscimento dell’altro. Allora anche saper pronunciare i nomi degli alunni, dei compagni, in modo corretto diventa il primo passo verso l’integrazione. Oggi nella scuola arrivano bambini di tutto il mondo, i cui nomi a volte sono difficili da pronunciare ma se “chiamare per nome significa vedere”, confondere un nome con un cognome, per sciatteria o noncuranza, vuol dire togliere significato, negare una storia o cancellarla senza neanche rendersene conto. L L’EQUITÀ TRADITA E poi, più forte delle altre risuona la parola “equità”, o meglio la sua assenza all’interno della scuola. Maria Pia Veladiano definisce l’incapacità di garantire l’equità “il male più grande che devasta la scuola italiana, anzi, ancora peggio, imputa alla scuola attuale di agire da “moltiplicatore di disuguaglianza”. Non sono sensazioni, sono fatti: in tutte le Regioni italiane la dispersione scolastica raggiunge il 10%, a eccezione del ricco Trentino Alto Adige, dove è sotto il 2%. I risultati nazionali per livelli di competenza vedono gli studenti del centro, del sud e delle isole molto al di sotto delle medie nazionale e dei valori OCSE. Basta essere nati nella regione sbagliata e la scuola si trasforma da opportunità in ostacolo da superare, e a non superare gli ostacoli sono sempre gli stessi. E qui viene chiamata in causa l'inerzia colpevole della politica. Ma a fronte e, verrebbe da dire, a dispetto delle gravi mancanze di chi governa, ci sono il senso di responsabilità e l’ottimismo di chi la scuola la fa e la vive con passione, di chi riconosce le differenze e sa valutare un ragazzo nel suo essere persona e non solo studente. Così Maria Pia Veladiano scrive l’elogio degli studenti timidi, quelli che s’incontrano raramente e scompaiono dietro una classe di esuberanti perché “camminano con passo leggero” ma che pure desiderano esserci “sotto un mantello d’invisibilità”. È importante riconoscerli, per non perderli, per dare anche a loro le stesse opportunità degli studenti esuberanti, brillanti, spesso a un passo dalla maleducazione. La conosce bene la scuola Maria Pia Veladiano, per aver insegnato tanti anni. Ora è diventata preside e dirige la sua scuola cercando sempre di mettere le parole al centro, perché, afferma, le parole hanno un grandissimo potere, “possono essere forti senza essere violente, possono trasformare il mondo”. [email protected] Foto Lucia Poggiali Nati per leggere Le parole che aiutano Se non le troviamo, chiediamole a un libro Simona Fiscale Lettrice volontaria, Nati per Leggere iascuno cresce solo se sognato” - l’educatore e poeta Danilo Dolci concludeva con questo verso una sua poesia pubblicata ne “Il limone lunare”, in cui esprimeva il suo pensiero, circa la necessità di sognare gli altri come ancora non sono, ma potrebbero diventare se ne avessero l’occasione. Per “occasione” si intende il risultato positivo di un lungo percorso condiviso con una o più figure di cura, improntato sulla comprensione e sull’incoraggiamento, con apporti di stima e fiducia che alimentano sogni e quotidianità del bambino. “C IL FUTURO DI UN BAMBINO È necessario tenere ben in mente che il futuro di un bambino viene edificato sulle fondamenta di ciò che vede, vive, respira e ascolta: le parole dei suoi genitori lo nutrono e lo guidano nel suo percorso, se sono parole di amore e fiducia o, al contrario, posso- no inibirlo e mortificarlo, se sono pescate con violenza in un lessico di segno opposto. Un atteggiamento aperto e accogliente da parte delle figure di attaccamento nei confronti del bambino favorisce lo sviluppo di una qualità importantissima che sarà utilizzata per fronteggiare le difficoltà della vita: una caratteristica che negli ultimi anni gli psicologi hanno definito con il termine di resilienza, una parola mutuata dall’ingegneria industriale che indica la capacità di un individuo di reggere agli urti della vita, di reagire alle avversità, facendo appello alle proprie risorse interiori per rispondere alle circostanze avverse. Se si può considerare valida l’idea che le avversità fortificano e mettono l’individuo di fronte alla necessità di reagire, non si può sottovalutare che bisogna creare le condizioni affinché il bambino possa rispondere a quelle difficoltà, attingendo al proprio bagaglio di fiducia in se stesso e in ciò che lo circonda, aspetti che devono essere coltivati già dall’infanzia. Le parole da destinare a un bambino sono speciali, sempre importanti e vanno quindi scelte con cura. Quando ai genitori non vengono in mente le giuste parole è possibile chiedere aiuto ai libri. Infinite sono le parole giuste se il messaggio che si vuol far arrivare è - “sono qui per te”, e quel messaggio arriva chiaro e diretto quando un bambino è nell’abbraccio di una voce amata che racconta una storia. [email protected] 44 Nati per leggere Le mamme e un universo di colori Una lettura a tutto tondo, da gustare con gli occhi, con le mani e con le orecchie Anna Rita Marchetti Libraia di Ponteponente, Roma a mamma è tante cose...”. Inizia così l’ultimo albo illustrato della casa editrice Kalandraka dal titolo semplice ed emblematico “La mamma”. Una semplicità che si ritrova anche nel testo in rima, scritto dalla stessa illustratrice del libro, Mariana Ruiz Johnson, fatto di pochi versi, come fosse una poesia di Montale. Il libro, nato per un pubblico di piccolissimi lettori (0-3 anni) colpisce soprattutto per le immagini, quasi un inno al colore, all’arte popolare latinoamericana, alla natura dominante. C’è una continua similitudine tra quanto accade intorno a noi, agli animali e alle piante e quanto si trasforma nel corpo di una donna nel corso degli anni. Maternità, gioco, sentimenti, crescita, tutti passaggi che riceviamo dall’ambiente e trasmettiamo ai nostri figli. L’essere umano è una specie accanto alle altre e il tutto celebra la Madre Terra nella sua totalità: ambienti naturali, organici e altri frammenti, tutti insieme nel mondo. “L UNA LETTURA DAI TEMPI LENTI La giovane argentina Ruiz Johnson sembra apprezzare molto l’universo naturale ma soprattutto l’arte del pittore Paul Klee e la definizione che lui stesso ne diede: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Tanto rosso, giallo, blu come se i colori primari si unissero nell’attimo in cui si apre il libro e componessero tavole naturali. Proprio questa forza espressiva e cromatica dei disegni ha fatto vincere alla Johnson il VI Premio Internazionale Compostela 2013 per albi illustrati; un premio voluto dal Dipartimento di educazione del Comune di Santiago di Compostela, che organizza ogni anno insieme alla casa editrice spagnola, la Campagna di Animazione alla Lettura. L’invito è quello di lasciare a questa lettura i tempi calmi, lunghi e riflessivi che i bambini amano concedersi, quelli che permettono non solo di guardare ma anche di osservare e gustare. Una lettura a tutto tondo, da fare attraverso le immagini, il tatto, la simulazione e la rappresentazione. A margine, una curiosità sull’uscita di questo volume: è negli scaffali delle librerie in “versione panino”, chiuso dentro a un bel quadernetto a fogli bianchi dove prendere appunti sparsi. A uso di quelle mamme indaffarate, piene di impegni sovrapposti, che hanno bisogno di segnarsi un’idea vista sul tablet, di scrivere un pensiero mentre preparano l’ultima campagna promozionale per il capo, insomma per quelle donne fatte di “tante cose”. [email protected] KALANDRAKA La casa editrice Kalandraka ha iniziato le sue pubblicazioni in Italia il 2 aprile 2009, proprio in coincidenza della Giornata internazionale del Libro per Bambini e Ragazzi, nonché compleanno di Hans Christian Andersen. Questa della giornata è un evento voluto da Ibby, l’associazione impegnata a promuovere la conoscenza dei libri di qualità nel mondo, che ogni anno lancia un tema e invita autori e illustratori a creare per il proprio paese un manifesto per i bambini. Kalandraka da sempre ha voluto sposare lo spirito di Ibby e da sempre adatta racconti tradizionali e fiabe classiche per piccoli lettori. Una volontà che ha costituito addirittura una collana specifica “Libri per sognare”, solo albi illustrati concepiti con il massimo rigore estetico e letterario. Libri che oltrepassano i confini geografici, perché tradotti in cinque lingue e sempre presenti alle fiere di settore. Non a caso, nel 2012 il Ministero della cultura spagnolo le ha assegnato il premio per miglior lavoro editoriale. Nati per la musica Piccoli musicisti crescono Quando e come scegliere uno strumento Annibale Rebaudengo Insegnante di pianoforte al Conservatorio di Milano oward Gardner, lo psicologo statunitense studioso delle intelligenze multiple, ci ricorda che il bambino fra i quattro e i sette anni è creativo per sua natura: gli bastano pochi stimoli per impegnarlo; l’assillo di chi gli è a fianco è improduttivo se non dannoso. L’esplorazione dello strumento musicale, del rapporto fra il movimento di parti del suo corpo e la creazione di suoni lo coinvolge con curiosità. Compito dei genitori e dell’insegnante è di creargli intorno un ambiente sereno e protettivo, che sia d’aiuto ad affascinarlo al mondo artistico, dove il suo impegno venga apprezzato senza ansie di precoci performance. Dobbiamo fornirgli gli stimoli appropriati, sonori e gestuali che con gradualità fondino le prime conoscenze musicali e le prime abilità strumentali. Saranno pochi i suggerimenti che faranno acquisire al bambino le prime abilità, senza forzare i ritmi d’apprendimento. Si dovrà valorizzare l’intuizione del bambino per far fiorire la musicalità che c’è in lui. Il bambino suona le composizioni sue o didattiche nella loro interezza, non ha ancora capacità nello scomporle in segmenti e sente come una violenza il lavoro che non sia di per sé gratificante; solo quando sarà più adulto riuscirà a rimandare a un secondo momento il piacere del risultato. Ciò che noi consideriamo “studio” è già per lui far musica compiutamente. Lo sa bene chi segue i suoi disegni: dopo pochi tratti il bambino cambia foglio convinto di aver terminato l’opera. Il bambino tra i cinque e i sette anni è poi sperimentatore: impara per prove ed errori e passa buona parte del suo tempo allo strumento a “pasticciare”, così insegnanti e genitori incautamente e in maniera castrante denunciano gli uni agli altri i legittimi “scarabocchi” strumentali del bambino. Il bambino a questa età, non avendo formato un criterio estetico, è sospeso nel giudizio. È disponibile a suonare e ad ascoltare musiche di stili che solo la pigrizia dei docenti e le aspettative della famiglia considerano lontane dal suo mondo percettivo. H A OGNI BAMBINO LA SUA MUSICA Gardner declina interessanti differenze fra un bambino e l’altro: ci sono i narratori che suonano una storia, i visua46 lizzatori che suonano stimolati da immagini, gli iniziatori che con un minimo stimolo procedono nella creatività, i finitori che completano e rifiniscono, quelli centrati sulla persona sono interessati alla comunicazione più che alla precisione dell’esecuzione, mentre i bambini centrati sull’oggetto della creazione sono meno attenti a chi li ascolta. Le bambine adotterebbero preferibilmente codici misti, i bambini preferibilmente un unico mezzo espressivo. La ricaduta didattica di questa ricerca dell’autore americano comporta un adeguamento della didattica strumentale sul piano della comunicazione con l’allievo, delle modalità d’insegnamento, delle attività intorno alla musica. Come dire che se alcuni bambini, istintivamente, collegano la loro esecuzione a un racconto, altri preferiranno immaginare un paesaggio e altri ancora saranno centrati unicamente sui suoni. Ci sarà chi con due note a disposizione improvviserà per lungo tempo e chi avrà bisogno di un materiale più formalizzato. Ci sarà chi cura tutti i particolari e vorrà avere molte notizie a disposizione. Chi sarà stimolato dalle metafore dell’insegnante e chi ne sarà infastidito. Chi a costo di sbagliare qualche nota si lascerà andare per comunicare emozioni e chi preferirà essere attento a ogni dettaglio a spese della comunicazione e chi, suonando solo per sé, svilupperà la sua sensibilità interiore senza verificare se il suo messaggio musicale passi all’esterno. Ognuno di noi può continuare la casistica e per ogni allievo troverà un singolo approccio alla musica e al suo strumento. IL MOMENTO È ARRIVATO Fra gli otto e i tredici anni il ragazzo è attento alle regole dei linguaggi che già conosce: è il momento di mettere un po’ d’ordine con consapevolezza, se il giovane strumentista ha già un’esperienza musicale e strumentale. Ma dobbiamo prestare attenzione alla didattica che inizia dalle regole per chi ancora non conosce il linguaggio musicale. Se il giovane strumentista non ha avuto ancora modo di “fare musica” è bene agire parallelamente (fare e sapere). Questa è l’età in cui il bambino è disponibile a impadronirsi dei codici, è anche l’età in cui facilmente si uniforma al giudizio del gruppo: non solo si vuole vestire come i suoi amici, ma il giudizio non è più sospeso, quel che dicono e ascoltano le sue figure di riferimento conta, eccome. L’im- mersione in certi repertori musicali che amici e familiari propongono come modelli diventano o possono diventare alternativi a quelli scolastici. Per genitori e insegnanti, il sapersi rapportare al suo mondo sonoro diventa essenziale per rinforzare le sue motivazioni. [email protected] LA SCELTA DI UNO STRUMENTO Prima di scegliere bisogna conoscere. È una regola per i piccoli e per i grandi in ogni situazione della vita, ed è valida anche per la musica. Non c’è miglior metodo che far fare a un bambino il “giro degli strumenti”. Farglieli ascoltare, vedere, toccare, provare a suonare - da soli e con la guida di un insegnante. Il suono, il colore, la forma, il garbo dell’insegnante, la supposta facilità nel produrre i primi suoni, possono essere motivi di una scelta che non siamo in grado di anticipare. Ogni bambino dovrebbe essere messo nelle condizioni di provarli, se non tutti, almeno alcuni. Ma se i bambini sono ai primi anni di vita, allora è meglio iniziare con la musica legata al movimento del corpo, con lo strumentario didattico e con la voce. SUONARE CON GLI ALTRI Certo, la musica è anche un dialogo con se stessi, un rifugio nella propria immaginazione. Ma è anche un formidabile strumento di socializzazione. Si suona tra bambini, ma l’insegnante in ogni lezione dovrebbe dedicare un po’ di tempo a suonare in “duo” con i propri allievi. Per dare loro l’emozione di entrare nella musica presi per mano, per condurre una didattica dell’imitazione simile a quella del genitore che, nel dialogo con il figlio, gli insegna a parlare unendo apprendimento e affetto. 47 Le ricette di Caterina Freddi e squisiti: perfetti per l’estate Foto123RF Cinque piatti facili on il bel tempo è giusto passare tutto il tempo possibile all’aperto a giocare e divertirsi e risolvere il problema dei pasti in maniera veloce e organizzata, in modo da poter arrivare Caterina Vignuda a casa e mettersi suPediatra di famiglia, Roma bito a tavola. I piatti freddi sono una grande soluzione, si preparano la sera, in contemporanea alla cena, e il giorno dopo si vive di rendita. C Insalata al pesce azzurro Comprate uno sgombro fresco, è facile da trovare ed è anche economico. Lavatelo bene, poi mettetelo a bollire con poca acqua, una fetta di limone, cipolla e carota. Dopo 10 minuti sarà cotto, spegnete e lasciatelo nell’acqua. Cuocete, anche nel forno a microonde, dei dadini di patate e carote, poi spinate lo sgombro e riducetelo a pezzettini con le mani, così vi assicurate che non ci siano spine. Si condisce ancora tiepido con olio e limone, poi si mette in frigo e si mangia freddo, per i più golosi, con un cucchiaino di maionese. Frittata di pasta A cena fate avanzare un po’ di spaghetti al pomodoro, metteteli in una pentola antiaderente con un velo d’olio (è molto importante avere una pentola antiaderente che proprio non attacca, altrimenti sarà tutto più difficile) e fate rosolare a fuoco alto la pasta senza girarla troppo, schiacciandola sul fondo e facendole fare una crosticina. Adesso versate un uovo sbattuto con del parmigiano dose per circa 50 grammi di pasta - facendolo penetrare bene tra gli spaghetti, aspettate un minuto, girate la frittata servendovi del coperchio e, sempre a fuoco alto, fare rosolare anche l’altro lato. Naturalmente è buona anche calda, ma fredda, tagliata a fettine si può portare al parco per un brunch. 48 Spiedini freddi Piatto superfacile e molto colorato. Preparate del melone a dadini e arrotolate intorno una strisciolina di prosciutto tagliato sottile, poi infilate tutti i dadini su uno spiedino. Sull’altro spiedino mettete dadini di pomodoro e mozzarella, serviteli insieme, l’effetto dei colori sarà molto invitante. Coppette di pollo Lessate del pollo (ideale la sopracoscia, meno asciutta del petto) poi togliete la pelle e tagliate a dadini. Mentre il pollo si lessa tagliate una carota a striscioline, affettate sottili due foglie di lattuga e una fettina di peperone giallo dolce, condite solo con il sale. Quando la carne sarà cotta le verdure avranno perso un po’ di acqua, scolatele, aggiungete il pollo, un cucchiaio di yogurt, poco olio e una spruzzatina di ketchup. Rigirate, mettete in una coppetta, decorando con qualche strisciolina di verdura e lasciar raffreddare. Farro estivo Lessare il farro per il tempo scritto sulla confezione. Nel famoso tegame antiaderente fate cuocere a fuoco alto in poco olio, una zucchina, un peperone, una melanzana, tagliate tutto a striscioline molto sottili (esistono molti robot da cucina che lo fanno benissimo) per 5-6 minuti, poi aggiungete il farro, rigirare bene, spegnete lasciando il coperchio. Dopo una decina di minuti mettete tutto in una ciotola che andrà in frigorifero, e il giorno dopo deciderete se vorrete fare i vegetariani o se vorrete arricchire questo piatto con uovo sodo, o dadini di formaggio, o tonno, o della carne cotta rimasta del giorno prima (ve lo consiglio, la tritate nel mixer, non troppo, poi la condite con olio e limone e la aggiungete al farro, otterrete un piatto completo e veramente saporito, e poi avrete utilizzato in maniera creativa un avanzo, cosa che gratifica molto le aspiranti cuoche). [email protected] Vengo anch’io Il Museo dell’Ovvio La straordinaria raccolta di un maestro un po’ testùn he in Italia le regioni siano un artificio amministrativo in alcuni posti lo si nota più che in altri. A Parma, Mantova e Cremona si è nello stesso territorio per il dialetto, per il cibo, certo, ma anche per i tanti luoghi densi di storie comuni della Bassa padana e del suo straordinario mondo contadino e rurale. A Piadena, provincia di Cremona, ogni anno c’è la festa della Lega di cultura, con canti popolari, grandi pranzi sotto enormi capannoni, immersione totale in una dimensione comunitaria e gioiosa. E c’è, ad Ozzano Taro in provincia di Parma, la Casa-Museo di Ettore Guatelli. Se Gianni Bosio, nato nel mantovano, di quel mondo ha raccolto le storie in forma di canti, Guatelli l’ha fatto in forma di oggetti con cui mano a mano ha riempito la casa e il grande caseggiato ad essa annesso, dimora mezzadrile dei suoi genitori contadini. Formalmente può ricordare un museo del mondo contadino, come tanti nati negli anni ‘70 del Novecento, ma non lo è. Queste stanze delle meraviglie, alcune enormi, come il “salone”, altre minuscole come “la stanza della zia”, tutte stipate di oggetti in un ordine che non è descrivibile a parole ma che bisogna vedere, nascono dalla voglia di far conoscere non solo il dolore e lo sfruttamento del mondo contadino ma la vita, la socialità, la ricchezza di competenze. Ecco, se siete un po’ stufi della retorica del nuovo, della rottamazione, delle ossessive valutazioni di merito che fanno somigliare la vita nostra e dei nostri figli a un eterno esame dai parametri astratti, assurdi e un po’ vessatori, questo è un posto per voi. C UN MAESTRO SENZA LIBRI Ettore Guatelli era un maestro elementare e diceva che: “se l’unico sapere fosse quello scolastico, non saremmo paurosamente più poveri? Non ci manca forse gran parte di un sapere acquisito direttamente col fare e col toccare, cioè con l’esperienza?”. Amava soprattutto gli alunni “testùn”, forse perché era “testùn” anche lui, non aveva mai passato l’esame scritto per l’abilitazione e – solo con la prova orale – aveva un’abilitazione di seconda classe, da eterno supplente. Del dialogo con gli oggetti d’uso quoti- FotoEugenio Cavallari Rossella Faraglia Storico dell’Arte, Roma Fondazione Museo Ettore Guatelli Via Nazionale, 130, 43044 Ozzano Taro di Collecchio Parma. Telefono: 0521 333601 diano fece il cardine del suo insegnamento: le macchine da scrivere e gli attrezzi agricoli li portava in classe per farli capire con l’uso. La passione per la raccolta nacque da lì, dalla scuola. Non raccoglieva oggetti belli, o rappresentativi, ma tutti gli oggetti di una certa categoria, anche logori, rattoppati, ricuciti mille volte perché le manomissioni ne documentavano l’uso nel tempo. Talvolta ce ne sono di indecifrabili, talvolta è qualche visitatore a interpretarli, magari un bambino ci va d’intuito dopo averli toccati... Ora sarete curiosi di sapere quali sono questi oggetti: sono vanghe, marasse, zappe, battifalchi, torni, ruote, trattori, giocattoli, cacciaviti, ceramiche, orologi, perfino grattamele per fare il sidro, presi su battendo la zona con una 127 scalcagnata che quasi si sedeva sulle ruote, a volte, per quant’era carica. Anche ora che Guatelli non c’è più, a guidarvi ci sono i volontari che si prestano a raccontare, a far toccare, ad ascoltare. Se avrete la fortuna di incontrare Gianluca Bonazzi, che si definisce “viandante e raccoglitore di storie”, la visita avrà un sapore particolare. A noi è piaciuta molto la storia degli elmetti tedeschi. Ottimi per ricavare pale per pulire pozzi neri, una fine gloriosa per la testa del superuomo nazista. [email protected] 49 Giocare e stare insieme Sole, vento, acqua... sabbia Asciutta o bagnata la sabbia per i bambini è una vera passione Maria Cristina Stasi Esperta di cultura ludica, Torino iamo in estate, cosa c’è di più bello, sano e piacevole che stare a contatto con questi elementi. I nostri bambini lo sanno bene, basta osservarli quando siamo in spiaggia. Difficilmente vedremo bambini inoperosi in un posto in cui ci sia la possibilità di giocare con l’acqua e la sabbia. Può avere una grande importanza per lo sviluppo psicosensoriale dei piccoli, almeno da quando sono in grado di stare seduti, ma anche prima, far provare il contatto con la sabbia tiepida o anche come appoggio per un massaggio rilassante. Asciutta o bagnata che sia, la sabbia è in grado di offrire esperienze sensoriali diverse e sempre stimolanti. Si può manipolare, far scorrere sulla pelle, scavare, ammucchiare, scolpire, può essere livellata e usata per disegni o scritte, vi si possono lasciare le impronte di mani e piedi, o di tutto il corpo aspettando che l’onda ripulisca il bagnasciuga. Può nascondere tesori, oppure piccole sorprese indesiderate, che sono poi il vero ri- S 50 schio, forse l’unico, della spiaggia. Potrà anche capitare che il bambino decida di fare un assaggio, ma per fortuna la sabbia non offre esperienze gustative così entusiasmanti da spingere il bambino a ripeterle con assiduità Per evitare altri incidenti, oltre ad una buona lavata dopo il gioco, bisogna fare attenzione agli occhi, che vanno puliti evitando di strofinare per non rigare la cornea. NASCOSTI SOTTO LA SABBIA Giocatori: dai 2 ai 6 giocatori dai cinque anni in su. Materiale: una moneta, un anello o un piccolo oggetto prezioso e cinque conchiglie per ogni giocatore (il gioco sta anche nell’andare a cercare le cinque conchiglie). Si fanno cinque mucchietti di sabbia, tra i sei giocatori ne viene scelto uno che nasconderà la moneta in una delle montagnole senza essere visto dagli altri. Per poter dire dove si trova la moneta, ogni concorrente dovrà pagare con una delle conchiglie e scegliere una montagnola. Il gioco va avanti fino a quando non si indovina dov’ è nascosta la moneta o non si finiscono le conchiglie. Il bambino che indovina dove si trova la moneta, si prende tutte le conchiglie, se nessuno trova la moneta le conchiglie vanno al giocatore che nasconde la moneta. Attenzione: se i partecipanti sono più di due, si fanno tanti mucchietti quanti sono i giocatori, per ogni partita sarà solo un giocatore a nascondere la moneta, mentre gli altri scelgono uno dei mucchietti. TESORI NASCOSTI Giocatori: da 4 a più giocatori. Il bambino più grande (o un adulto) conduce il gioco. Dai 6 anni in su. Materiale: venti biglie di vetro e quattro secchielli di plastica. Se si aumentano i giocatori bisogna aumentare sia le biglie sia i secchielli, il rapporto deve essere sempre di 5 biglie a testa e 1 secchiello per bambino. Bisogna avere a disposizione un bel pezzo di spiaggia libero da ombrelloni e sedie sdraio, si traccia sulla sabbia un grosso cerchio di quattro o più metri di diametro intorno a cui vengono posati i secchielli (un metro per ogni secchiello). Si nascondono le biglie all’interno di questo cerchio sotto la sabbia. Ciascun giocatore si sposta accanto al proprio secchiello, scalzo e con le mani sulla testa, in attesa del “Via!” che viene dato dal conduttore. Ogni giocatore cerca le biglie servendosi unicamente dei piedi, senza mai togliere le mani dalla testa. Quando ne ha trovata una deve raccoglierla (sempre solo con i piedi!) e portarla nel suo secchiello. Riparte poi alla ricerca di un’altra biglia e così via, fino a che non sono state recuperate tutte. Vince: chi termina il gioco con più biglie nel suo secchiello. ALLA BUCA Giocatori: da 2 a 8 giocatori. Dagli 8 anni in su. Materiale: palline da tennis. Si traccia una riga sulla sabbia. A due passi da questa riga si scava una buca semisferica, profonda dieciquindici centimetri. A tre passi da Foto Archivio UPPA questa buca se ne scava una seconda, di dimensioni analoghe, a quattro passi dalla seconda una terza e così via, scavando buche sempre più lontane l’una dall’altra. Una volta preparata l’ottava e ultima buca il gioco ha inizio. Il primo giocatore, stando dietro la linea, lancia una palla da tennis cercando di farla entrare nella prima buca. Se ci riesce, si sposta vicino alla buca, recupera la palla e la lancia nella seconda buca, se riesce poi nella terza (stando vicino alla seconda) e così via. Quando sbaglia un tiro, riporta la palla sulla linea di partenza e interrompe i lanci. Tocca ora al secondo giocatore entrare in gara, poi al terzo e così via. Un punto per ogni palla che entra correttamente in buca. Si possono fare tre serie di lanci a testa, ripartendo ogni volta dalla linea di partenza. Vince chi realizza il punteggio più alto, dato dalla somma dei punti ottenuti nelle tre serie di lanci. ABBANDONATE LA NAVE Giocatori: dai 9 giocatori fino a 20. Occorre un pezzo di spiaggia libero da ombrelloni e sedie a sdraio. Si disegnano sulla spiaggia in modo sparso dei cerchi in grado di contenere tre giocatori ciascuno. Se ne devono segnare un numero pari a quanti sono i partecipanti meno due o tre. I giocatori formano, in mezzo a questi cerchi, un’unica fila, seduti a terra con le gambe larghe, disposti in modo che ciascuno sia seduto fra le gambe del compagno che lo segue. L’inizio del gioco viene dato dal conduttore, al suo via i giocatori mimano tutti insieme. Un gruppo di rematori, chinandosi in avanti e tirandosi indietro cercando di andare a ritmo tutti insieme. Il conduttore urla “abbandonate la nave”, i giocatori si alzano immediatamente e corrono verso le scialuppe (i cerchi tracciati sulla sabbia) per potersi salvare. Chi non trova posto viene eliminato, gli altri giocatori riprendono a remare con una scialuppa in meno ad accogliere i naufraghi. Vincono gli ultimi tre rimasti in gara. PULIZIA GENERALE L’ultimo gioco è, purtroppo, il primo da fare. Oltre a mantenere la sana abitudine di portarsi in spiaggia uno o più sacchi neri, in alcuni casi è necessario, prima di fare qualsiasi altra cosa, perlustrare il tratto di spiaggia (se libera, s’intende) in cui prevediamo di passare un po’ di tempo con i bambini. A volte si possono fare raccolti veramente interessanti di materiali che potranno tornare utili in seguito con un pizzico di creatività (tappi e altri oggetti in plastica, cordami, legni modellati dal mare ecc.). In altri casi, dividendosi in squadre, con un tempo fissato a disposizione, si potrà giocare a raccogliere quanta più spazzatura possibile. Una piccola bilancia a molla potrà servire a premiare la squadra che ha liberato la spiaggia di più materiale “indesiderato”. Seguendo l’esempio, anche altri ospiti inizieranno a sentirsi in dovere di ripulire il loro spazio o almeno proveranno a non rifornirlo di altre ricchezze. [email protected] 51 Posta & risposta Ancora sulle allergie Lasciamo che i bambini facciano... i bambini Libri per tutti: magari a buon mercato Un amore di pediatra a mamma di una bambina allergica a frutta secca e pesce ho letto con interesse lo speciale sulle allergie comparso recentemente su UPPA (“L’allergia non è una malattia” n. 1/2014, disponibile per tutti gli abbonati sul sito www.uppa.it). Premetto che l’allergia di mia figlia è tra quelle “vere”: necessita di adrenalina, prescritta dall’ospedale. I vostri articoli mi sono sembrati interessanti, ma a mio avviso hanno omesso qualche aspetto. Si calca la mano sul fatto che esistono tante intolleranze che allergie non sono e si sottopongono bimbi a inutili diete. Dal punto di vista di chi, invece, ha davvero un’allergia, c’è nella società in generale una grossa carenza e mancanza di attenzione. A partire dall’asilo o dalla scuola, dove per pura e semplice mancanza di attenzione da parte degli insegnanti si può rischiare grosso. Al ristorante, poi, non esiste una lista degli ingredienti accanto a ciascun piatto (cosa c’è dentro i ravioli? Dobbiamo fidarci delle parole e della buona memoria del cameriere). Al bar, quando chiediamo esplicitamente una brioche senza nocciole, non possiamo mai essere certi che sia così. Sarà vero, quindi, che a volte si chiama allergia quello che allergia non è, ma molto spesso le allergie vere vengono sottovalutate e nelle mense e nei locali di ristorazione non esiste una vera e propria cultura di prevenzione. Un altro aspetto che secondo me nel vostro speciale andava messo in evidenza è come reagire quando nostro figlio presenta una reazione allergica forte a un alimento. Noi genitori ci troviamo spiazzati quando, come nel caso di mia figlia, dopo aver toccato/mangiato un alimento ha avuto un inizio di anafilassi. Come fare, cosa somministrare, come comportarsi? Noi abbiamo dato il cortisone e siamo andati di corsa all’ospedale. Forse poteva essere utile un vademecum da inserire nelle vostre pagine. Marisa Redolfi - [email protected] D Questa lettera aggiunge informazioni e solleva il problema della corretta informazione a tutela dei soggetti allergici a cui non avevamo pensato: di questo ringraziamo la nostra lettrice che, scrivendoci, ci consente anche di completare il discorso sulle allergie. Il rimedio 52 d’urgenza in caso di shock anafilattico, che i genitori dei bambini “superallergici” e tutti coloro che sono a contatto con i bambini (insegnanti, baby sitter ecc.) dovrebbero conoscere e saper usare bene, non è il cortisone, ma l’adrenalina. Esistono in commercio delle speciali “siringhe automatiche” contenenti questo farmaco: si chiamano Fastjekt e possono essere facilmente usate da chiunque in caso di necessità, come si può vedere cercando su internet un tutorial dal titolo “Fastjekt istruzioni d’uso nello shock anafilattico”. In aggiunta all’adrenalina si possono usare antistaminici per via iniettiva, che però conviene che siano somministrati in ospedale solo qualora l’iniezione di adrenalina non fosse stata sufficiente a interrompere lo shock. Per quanto riguarda la desensibilizzazione, si può certamente fare. Innanzitutto conviene aspettare che il bambino abbia almeno tre anni; dopo di che bisognerebbe metterlo alla prova (“challenge”), somministrandogli, in ambiente protetto, dosi crescenti dell’alimento a cui risulta allergico, fino a evidenziare la quantità di alimento in grado di scatenare i sintomi. A questo punto i bambini saranno divisi in due gruppi: gli “allergici” (che reagiscono a una certa dose di alimento), e i “superallergici” (che reagiscono molto violentemente a minuscole dosi dell’alimento). I primi possono seguire a casa un programma di desensibilizzazione graduale, basato sulla somministrazione di dosi progressivamente crescenti dell’alimento incriminato, a partire dalla dose più alta che hanno tollerato nel corso del “challenge” effettuato in precedenza. I secondi invece dovranno necessariamente fare il loro percorso in ambiente ospedaliero, per restare al riparo da eventuali rischi di anafilassi, iniziando da dosi molto più piccole dell’alimento, ma procedendo molto più speditamente nella somministrazione di dosi crescenti dell’alimento stesso. Questa è una prassi ormai consolidata, i cui pionieri in Italia sono stati i pediatri dell’Ospedale Burlo Garofolo di Trieste. Vincenzo Calia – [email protected] tostima si costruiscono nella parte del cervello dove dominano le emozioni non in quella dove si fanno calcoli. Il “vincente” di domani, quello che saprà affrontare problemi complessi e gestire relazioni, è un bambino che è stato tanto in braccio alla sua mamma, che ha avuto con lei un contatto pelle a pelle, che ha ascoltato le favole e i libri che la sua mamma gli leggeva, che si addormentava al suono della sua voce che cantava la ninna nanna. La matematica invece non si emoziona e non si commuove mai. Tommaso Montini – [email protected] MATEMATICA IN FASCE? NO, GRAZIE Sono la mamma di un bellissimo bambino di due anni; mi piace leggere argomenti di puericultura e ho letto ultimamente un libro scritto da Doman che parla di come insegnare a leggere e la matematica ai bimbi piccoli (da uno a quattro anni), senza nessuno sforzo, giocando e nello stesso tempo dando al figlio delle possibilità in più di sviluppo delle capacità intellettive, della crescita, delle sicurezza, dell’autostima. Cosa ne pensate? Orianna Boldrini - [email protected] LIBRI PER TUTTE LE TASCHE Sono una fautrice della lettura ai bambini fin dalla primissima infanzia e considero la lettura ad alta voce uno dei regali più belli che si possa fare ad un bambino. Mi chiedo come mai iniziative lodevoli come Nati per leggere non abbiano mai sollevato la questione del costo dei libri. In Italia gli albi illustrati costano mediamente tra i 10 e i 15 euro. Non è poco. Se costassero meno noi genitori ne compreremmo di più, perché ogni libro è comunque uno stimolo alla fantasia e alla crescita dei nostri piccoli, anche se non tutti i libri che si comprano piacciono ai bambini nello stesso modo e non tutti alla fine rientreranno in quella rosa magica di libri che loro vorranno farsi leggere ogni sera. Mi sono capitati tra le mani graziosi libretti editi da case editrici anglosassoni e statunitensi: storie e illustrazioni di ottima qualità, niente copertine cartonate, una via di mezzo tra i nostri album e un giornalino. Il tutto al prezzo, davvero conveniente, di pochi euro. Perché allora non suggerire alle case editrici nostrane di pubblicare i propri titoli anche in un’edizione, per così dire, economica? Marta Santin - [email protected] Non conosco il libro segnalato e quindi non posso esprimere un giudizio, faccio dunque solo qualche considerazione a ruota libera. Il cervello dei bambini piccoli ha una capacità di apprendimento impressionante. Non mi stupisce quindi che qualcuno insegni loro lettura, matematica e anche qualcos’altro. Il punto della questione però su cui riflettere è un altro: circa duemila anni fa un Tale che meritava una certa considerazione esortò gli adulti “a diventare come bambini…” Ma noi continuiamo a non dargli retta, visto che facciamo di tutto per trasformare i bambini in adulti prima possibile, strappando loro l’infanzia e invadendo il loro mondo bambino con il nostro orribile mondo adulto! Ai miei tempi (io sono del millennio scorso) c’era lo Zecchino d’oro e si cantava “44 gatti”; oggi ci sono in televisione mostruose trasmissioni di bambini trasformati in “mutanti” adulti che cantano canzoni, con voci inquietanti e movenze assolutamente inadeguate alla loro età, tra applausi fragorosi! La tragedia è che tra questi adulti che applaudono ci siano anche genitori convinti di aver offerto ai loro bambini una bella opportunità di successo. Mi chiedo: se avessi davvero la possibilità di far diventare mio figlio un genio della matematica a tre anni, lo aiuterei a giocare con i suoi coetanei all’asilo e a vivere il suo mondo di favole e coccole? Cara signora, la sicurezza e l’au- I libri nel nostro paese costano perché le tirature medie non sono molto alte. Inoltre, incidono sul prezzo del libro non solo i costi di carta e stampa ma anche quelli per la loro promozione e distribuzione, oltre ai diritti degli autori che spesso fanno fatica a essere riconosciuti. A ogni modo non mi pare che i libri nel formato albo con copertina cartonata abbiano un costo inferiore negli altri paesi. Si può forse invece concordare sulla scarsa disponibilità di libri in brossura, anche perché sono libri che tendono ad avere minore visibilità in libreria e rispetto ai quali c’è un minore ritorno economico per i librai, e quindi non tutti gli editori se la sentono di investire in questa direzione. Possiamo comunque segnalare alcune collane di libri illustrati in brossura per bambini in età prescolare. La collana Bababum di Babalibri, che sta rendendo disponibili in questo formato i più fortunati titoli del suo catalogo; le collane tascabili illustrate del gruppo editoriale EL/Emme: Prime pagine (da tre anni), Una fiaba in tasca (fiabe 53 vecchie e nuove scritte e illustrate dalle migliori autrici e dai migliori autori italiani; da quattro anni), Un libro in tasca (ci si trovano Il Gruffalò e Il Mostro peloso e molti dei più apprezzati albi illustrati per bambini in formato tascabile; da tre anni), Prime letture e Tre passi, due collane di tascabili illustrati per chi comincia a leggere autonomamente. Anche Il castoro ha una collana di tascabili illustrati per bambini da 5 anni che si intitola Anch’io so leggere, che ripropone in formato tascabile alcuni degli albi più apprezzati del suo catalogo. Giovanna Malgaroli – [email protected] UNA SCELTA FORTUNATA Sono una mamma alle prese con la prima maternità e con le più o meno naturali preoccupazioni che questa esperienza riserva. Vorrei condividere alcuni pensieri con altre neo mamme ma, più di tutto, vorrei manifestare l’importanza della figura del pediatra, soprattutto se il pediatra in questione sa essere speciale quanto quello che è stato “assegnato” alla mia Caterina. Premetto che, dopo aver investito tante risorse nell’affermarmi prima come donna, poi come professionista, quindi come moglie, mi sono lanciata con tutta me stessa nell’“avventura maternità”. Ho passato la gravidanza a leggere manuali che mi insegnassero a essere la mamma più brava del mondo e a crescere una figlia felice, serena, sveglia, in armonia con se stessa e con il mondo. Poi è arrivata lei, la mia piccola fagottina. È stato ovviamente amore a prima vista, ma altrettanto rapidamente mi sono accorta di quanto inutili fossero state le mie letture. Come mamma, pur avendo studiato tanto, ero una vera incapace. Io e Caterina non ci capivamo proprio. E sono sprofondata nel buio. Abituata ad avere tutto sotto controllo, ero incapace di gestire me stessa e quella creatura adorabile della quale, impotente, non sapevo calmare il pianto. Le prime settimane sono state un vero e proprio caos. Ed è in questi giorni di mia totale confusione che, in occasione del primo controllo pediatrico, ho conosciuta la dottoressa che, per Caterina, avevamo scelto un po’ “al buio”. Già in questa occasione ho capito di avere davanti una persona speciale. Ha visitato la piccola con attenzione ma, più di tutto, ha mostrato attenzioni per me. Ha capito al volo che ero in difficoltà e con poche parole, garbate, mi ha fatto sentire capita. A volte è solo questo che si cerca. Non aiuto, ma comprensione. E io l’ho avuta. Mi ha sorriso. Con uno sguardo dolce, da mamma più che da professionista, mi ha detto che non dovevo preoccuparmi; che era tutto normale e che dovevo solo darmi il tempo di entrare in sintonia con la piccola. E così, in effetti, è stato: in poco tempo ho imparato a riconoscere i diversi pianti di Caterina. Lei si è adattata a me, ed è iniziata la vera avventura. Quella fatta sì di difficoltà, ma di scoperte reciproche e di immenso amore. Abbiamo superato il primo vaccino (ero in ansia quasi 54 quanto il giorno della mia laurea), ma il panico vero è arrivato con il primo “acciacco” della bimba, di due mesi e mezzo. Diagnosi: inizio di bronchite. Per me: tilt totale. Ed è qui che ho realizzato quanto il pediatra possa fare la differenza nella vita di una mamma. La nostra dottoressa speciale si è resa disponibile a visitare Caterina tutti i giorni, non solo per tenere sotto controllo l’evolversi della malattia, ma per rassicurare la sottoscritta; una disponibilità che mi è stata data senza che nulla chiedessi e mi ha permesso di affrontare le giornate seguenti con una certa serenità. E la serenità, neanche a dirlo, si rifletteva nella piccola. Questo testimonia, ancora una volta, che l’umanità delle persone fa la differenza. Il messaggio che vorrei lanciare ai pediatri è di guardare le mamme, di andare incontro alle loro paure, perché se queste trovano una rassicurazione, riescono ad essere maggiormente collaborative. Caterina è guarita in pochi giorni e io approfitto di questo messaggio per ringraziare la Nostra Dottoressa Speciale. Serena Maccagnan, Colle Umberto (TV) [email protected] Microclisma al miele : un nuovo modo di liberare l’intestino. Doppia azione evacuante e protettiva Libera l’intestino proteggendo la mucosa rettale senza glutine gluten free Con PROMELAXIN® Complesso di Mieli e Polisaccaridi da Aloe e Malva PER ADULTI E RAGAZZI MeliLax è un microclisma innovativo a base di miele che, grazie al suo complesso Promelaxin, unisce un’equilibrata azione evacuante ad un’azione protettiva e lenitiva della mucosa rettale, utile per contrastare i fastidi, l’irritazione e l’infiammazione, presenti in caso di stipsi. 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