UPPA3/2014 - Montorio Veronese

pediatra
per amico
bimestrale per i genitori scritto dai pediatri italiani
Realizzato e diffuso con la collaborazione dell’Associazione Culturale Pediatri
Anno XIV n. 3/2014 - Euro 3,50
un
Bimestrale. Poste Italiane s.p.a. Spedizione in AP - D.L. 353/2003
(conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. I, comma I, DCB ROMA Aut. n. 15/2009
Questa volta
parliamo di pediatri
Editoriale
La Cina è vicina
è una storia
che mi ha
sempre colpito:
nell’antica Cina il
medico dell’imperatore era pagato
fin tanto che il suo
illustre paziente
fosse stato sano, se
si
ammalava
Vincenzo Calia
non riscuoPediatra di famiglia, Roma
teva più il
suo onorario.
Più o meno così funziona il lavoro dei pediatri,
medici curanti dei moderni imperatori che sono
i nostri bambini: il pediatra di famiglia riscuote
ogni anno un onorario per ciascuno dei bambini che assiste ed è (o almeno dovrebbe essere) molto interessato alla salute del suo
paziente, perché se i suoi assistiti sono
sani, lui stesso lavora meno e quindi, di
fatto, guadagna di più.
Non è stato sempre così, per molti anni i medici di quelle che all’epoca erano le “mutue” venivano pagati a prestazione: più visite, più ricette e più
guadagno. Il sistema attuale è stato
copiato dal modello inglese, sperimentato da ormai quasi 70 anni: io
personalmente lo trovo perfetto,
perché ha generato negli anni una
cultura della salute e una pratica pediatrica che non ha eguali.
I medici, inutile negarlo, sono degli
esseri umani come tutti, hanno i loro
pregi e le loro debolezze; e anche i loro
interessi da coltivare e da difendere.
La medicina moderna, nei paesi
sviluppati, segue più o meno da vicino il modello americano che è basato sull’espansione continua del
C’
consumo: consumo di farmaci, consumo di accertamenti, di visite mediche, di ricoveri ecc. ecc. Ogni medico,
ogni specialista, ogni categoria sanitaria tende ad allargare progressivamente la sua sfera di influenza, a moltiplicare le sue diagnosi, a generare nuova domanda di interventi terapeutici fino ad arrivare a quello che viene
definito disease mongering, cioè a creare patologie inesistenti (o a ingigantire problemi banali), con l’unico scopo di generare consumi sanitari.
Intendiamoci, nessuno (o quasi nessuno) fa queste
cose in malafede, con la consapevolezza di ingannare il suo paziente; è come una corrente che nasce e si gonfia alimentata da mille rivoli.
La pediatria italiana, secondo me, ha il merito di
sfuggire a questa regola, è una medicina in
gran parte virtuosa, centrata sull’interesse
dei pazienti più che su quello dei medici.
Il merito del nostro sistema “cinese” di
remunerazione è stato solo quello di
aver innescato questo meccanismo, il
resto è venuto dopo ed è stato il frutto
del lavoro e dell’insegnamento dei
nostri grandi Maestri, ma anche dell’elaborazione collettiva di una consistente élite di medici, che è sempre
forte ed influente e di cui questo giornale si sente in un certo senso portavoce.
Certo, non tutto è rose e fiori, come
potete leggere nello speciale al centro
di questo numero di UPPA, ma, per
quanto mi sforzi di guardarmi intorno, non mi pare di vedere niente di simile nel panorama della medicina italiana.
Cosa ne pensate voi, che siete i nostri
lettori, ma anche i nostri “clienti”?
Fatecelo sapere, il vostro punto di vista
ci interessa molto.
[email protected]
3
Anno XIV numero 3/2014
foto di copertina Franco Nonne
un
pediatra
per amico
www.uppa.it
SOMMARIO
Bimestrale per i genitori scritto e diffuso dai pediatri
in collaborazione con L’Associazione Culturale Pediatri
direttore responsabile Vincenzo Calia
referente dell’Associazione Culturale Pediatri Laura Reali
hanno scritto su questo numero Vincenzo Calia, Alessandra Puppo, Paolo Sarti, Paolo
Roccato, Vitalia Murgia, Franco Panizon, Marisa Laura Corgiolu, Sergio Conti Nibali,
Costantino Panza, Maria Francesca Siracusano, Daniele Novara, Michele Valente,
Costantino Panza, Elisa Bedoni, Elena Uga, Sonia Bozzi, Simona Fiscale, Anna Rita
Marchetti, Annibale Rebaudengo, Caterina Vignuda, Rossella Faraglia, Maria
Cristina Stasi
coordinamento redazionale e raccolta immagini Sonia Bozzi
ufficio abbonamenti Lorenzo Besson, Daniela Mantuano
ritratti Francesca D’Ottavi
illustrazioni dello speciale Federica Fruhwirth
impaginazione Phanes srl - Roma
redazione piazza Armenia 10 - 00183 Roma
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3 La Cina è vicina
di Vincenzo Calia
7 NASCERE
Un regalo prezioso…
che accettano in pochi
di Alessandra Puppo
10
COSA C’È DI VERO
La scienza “romantica”
di Paolo Sarti
13 La sindrome autistica postvaccinale non esiste
Lettera aperta ai genitori dai pediatri dell’ACP
14 LO SPAZIO DELLA MENTE
A tutto puzzle
di Paolo Roccato
17 CURARSI CON LE PIANTE
Mirtillo nero:
piacere e salute
ASSOCIATO A:
di Vitalia Murgia
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Nati per la musica e Medici per i Diritti Umani sono pubblicate a titolo gratuito.
COME ERAVAMO
1951:
l’inondazione del Polesine
di Franco Panizon
20 MEGLIO SAPERLO PRIMA
Insegnare le manovre salvavita
di Marisa Laura Corgiolu
22 QUESTIONI DI LATTE
Due al prezzo di uno
di Sergio Conti Nibali
24
PAGINACP
Anche il sole
ha le sue “macchie”
Imbustato in
di Costantino Panza
e Maria Francesca Siracusano
26 SCUOLA, CHE PASSIONE!
Il bambino vivace non è un malato
41 LO SO FARE ANCH’IO
Lo sciroppo di menta
di Daniele Novara
di Elena Uga
43 LETTURE PER GENITORI
Una grande occasione da non perdere
di Sonia Bozzi
INSERTO ILLUSTRATO
44
NATI PER LEGGERE
La leggenda del dito solo
Le parole che aiutano
Testi di Roberto Piumini
Illustrazioni di Silvia Forzani
di Simona Fiscale
LA PAGINA UTILE
Manovre antisoffocamento
e di rianimazione
da 0-12 mesi
45 NATI PER LEGGERE
Le mamme e un universo di colori
di Anna Rita Marchetti
46
NATI PER LA MUSICA
Piccoli musicisti crescono
di Annibale Rebaudengo
30
SPECIALE: QUESTA VOLTA
PARLIAMO DI PEDIATRI
Il medico “della mutua”
48 LE RICETTE DI CATERINA
Freddi e squisiti: perfetti per l’estate
di Michele Valente
33 Ve lo dico io
come deve essere un pediatra
di Caterina Vignuda
49 VENGO ANCH’IO
Il Museo dell’Ovvio
di Rossella Faraglia
di Costantino Panza
50
36 Nessuno è perfetto
Sole, vento, acqua... sabbia
di Vincenzo Calia
38
di Maria Cristina Stasi
LA PAROLA AI GENITORI
Le notti di Elisa
di Elisa Bedoni
40 MAI PIÙ SENZA
La cameretta dei sogni
di Tiziana Cherubin
GIOCARE E STARE INSIEME
52 POSTA & RISPOSTA
Ancora sulle allergie
Nascere
Un regalo prezioso…
che accettano in pochi
Le cellule staminali del cordone ombelicale:
importanti per la cura e la ricerca, ma difficili da donare
o letto con interesse l’articolo sulla Lotus Birth
(“Nati con la valigia”, di Alessandra Puppo, UPPA
n. 1/2014, disponibile per gli abbonati sul sito www.uppa.it), che ha confermato quanto già pensavo su questa
pratica, ma vorrei soffermarmi sulla frase: “tanti studi
hanno infatti mostrato chiaramente i vantaggi che derivano dal non praticare il taglio precoce del cordone”.
Sono mamma di 2 bambini ed entrambe le volte che ho
partorito mi sarebbe piaciuto donare il sangue cordonale. La prima volta non è stato possibile: l’ospedale
dove ho partorito non era attrezzato per farlo. Ricordo
però il terrorismo psicologico delle ostetriche del corso
pre-parto, che mi dicevano che per fare questa donazione avrei sottratto a mio figlio sangue e nutrimento preziosi. La seconda volta la possibilità c’era, e sono stata
arruolata dopo aver seguito tutto l’iter necessario. In
occasione della visita, mi è stato spiegato che il taglio
ritardato del cordone è importante nei paesi del terzo
mondo, dove gravidanza e allattamento sono portati
avanti da madri denutrite e in condizioni di salute precarie, mentre non lo è in paesi come il nostro dove, fra
l’altro, il taglio precoce del cordone è stato praticato per
anni: tutti noi siamo nati così senza subire particolari
conseguenze. Peccato che pur avendo segnalato all’ostetrica la mia intenzione, riportata anche sulla mia cartella, al momento dell’espulsione se ne sono dimenticati
e quando gliel’ho ricordato era ormai troppo tardi.
Mi chiedo se questo modo di fare non dipenda dalla
mentalità del parto naturale a tutti i costi e dal mito del
taglio ritardato del cordone. Il risultato è un blocco della diffusione della donazione delle cellule del sangue
cordonale mentre, allo stesso tempo, molti genitori “investono” migliaia di euro in banche straniere per la
conservazione delle cellule del sangue cordonale per uso
autologo, una pratica che attualmente non ha nessun
riscontro scientifico e che è di fatto una truffa.
H
Alessandra Puppo
Ostetrica, Centro Nascita
Margherita, Firenze
Elisabetta, Trieste - [email protected]
7
IL PARADOSSO DELLE “STAMINALI”
Ricordiamo tutti perfettamente la triste vicenda di Stamina, una società privata fortemente sospettata di somministrare a pazienti disperati una terapia basata sulle
cellule staminali la cui efficacia non è assolutamente
mai stata dimostrata. E ricordiamo anche le inopportune
decisioni di alcuni magistrati che hanno obbligato le
strutture sanitarie a portare avanti questa pratica a spese della collettività. Ne hanno parlato tutti, ci sono state
anche delle manifestazioni in piazza. Nessuno invece
parla delle possibilità concrete che la donazione di cellule staminali cordonali può dare alla cura e alla ricerca.
È incredibile come possa accadere che le stupidaggini
vadano in prima pagina e le cose importanti… non se le
fili nessuno!
UNA PRATICA RECENTE
La raccolta del sangue cordonale è relativamente recente. In questi ultimi anni il suo uso si è rapidamente diffuso, sia perché si sono estese le indicazioni sull’utilizzo
di queste cellule, sia per la possibilità di impiegarle negli adulti, oltre che nei bambini. Il trapianto eseguito
con cellule staminali da cordone risulta avere alcuni
vantaggi importanti rispetto al trapianto tradizionale, e
quindi si tratta sicuramente di una metodica da studiare
e sviluppare.
Come mai, allora, la donazione del sangue cordonale
stenta a diffondersi? Perché non è ancora una pratica
condivisa da tutte le coppie alle quali nasce un figlio?
Oltre agli aspetti strettamente economici – necessità di
istituire punti di raccolta e conservazione del sangue
cordonale, istruzione del personale per l’esecuzione corretta del prelievo, assunzione di personale da dedicare
alla promozione e alla selezione delle donatrici– due sono le problematiche che hanno ostacolato negli ultimi
anni una larga diffusione di questa pratica: la tempistica
nel taglio del cordone ombelicale e la possibilità di procedere a una raccolta per uso personale del sangue cordonale.
IL TAGLIO DEL CORDONE
Negli anni Settanta e Ottanta i movimenti femministi e
alcuni operatori sanitari iniziarono a mettere in discussione l’eccessiva medicalizzazione del parto. Venne messa in discussione ogni pratica eseguita nel corso del travaglio e del parto, puntando all’eliminazione di tutto ciò
che non fosse strettamente necessario: tra questo c’era
anche il taglio precoce del cordone ombelicale.
Fino a quel momento il taglio era avvenuto immediatamente dopo la nascita, il bambino veniva subito separato dalla madre e visitato dal medico. L’attesa, che doveva precedere il taglio del cordone, diventava così il simbolo del cambiamento: se non si taglia, il bambino deve
restare necessariamente con la madre a cui è ancora attaccato, magari sul suo addome, favorendo il primo incontro, i primi sguardi e carezze. Aspettare a tagliare
era un modo di preservare un certo tipo di nascita.
Poi abbiamo iniziato anche a studiare come stavano
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quei bambini che avevano avuto questa nuova opportunità, ed è venuto fuori che stavano meglio! Un po’ meglio, certo, le differenze nel caso di bambini sani, nati da
una gravidanza controllata, da madri in buono stato di
salute non apparivano particolarmente significative. Ma
il ferro risultava un po’ più alto, i casi di anemia ridotti,
minori le emorragie e le infezioni.
Gli ultimi decenni, in cui sempre più si è evidenziata la
grande potenzialità del sangue cordonale, hanno quindi
visto la contrapposizione tra chi chiedeva di non tagliare
il cordone, garantendo ossigeno e nutrienti al figlio, e
chi chiedeva invece il taglio precoce per garantire la raccolta delle cellule staminali.
In realtà una mediazione tra queste due istanze è possibile. Sappiamo oggi che il ritorno venoso dalla placenta
al neonato dopo la “spremitura” realizzatasi nel canale
del parto avviene nei primi tre minuti dalla nascita (un
minuto se la madre riceve un’iniezione di ossitocici).
Questo è il tempo necessario perché avvenga lo scambio, aspettare oltre, dal punto di vista degli scambi chimici, non cambia nulla.
LA TEMPISTICA
Per quanto riguarda invece la tempistica della raccolta,
è certamente vero che più tempo si attende minore è la
quantità di sangue che si riesce a raccogliere, perché il
cordone tende a collassare, ma è anche vero che è possibile realizzare raccolte “bancabili” (cioè utilizzabili per
un trapianto) fino a sei minuti dalla nascita.
Non è vero quindi che per effettuare la raccolta delle
cellule staminali il cordone deve essere tagliato immediatamente: è possibile aspettare qualche minuto e poi
procedere alla raccolta.
Inoltre, è importante valutare anche il grado di vitalità
di ogni bambino: alcuni stanno così bene alla nascita,
sono così vitali ed energici che non hanno bisogno di
niente altro che di restarsene con la propria madre, anche senza cordone. Altri invece hanno qualche piccola
difficoltà, sono un po’ più lenti ad adattarsi alla nuova
vita fuori dall’utero: magari a loro l’ossigeno e i nutrienti che il cordone continua a fornirgli può essere davvero
utile.
LA RACCOLTA AUTOLOGA
Dal 2009 la legge italiana permette la raccolta del sangue cordonale per uso autologo, ma non permette la
conservazione del materiale raccolto, che deve quindi
essere inviato all’estero presso banche private. Questo
pratica viene a costare alle famiglie fra i 2.000 e i 3.000
euro, più un abbonamento annuale per la conservazione
che varia tra i 100 e i 200 euro l’anno (fino a 25 anni, a
seconda delle banche – benché sia consigliato l’utilizzo
entro i 10 anni).
La cifra potrebbe anche sembrare contenuta, se fosse
una cosa effettivamente utile, “un’assicurazione sulla vita di tuo figlio”, come dicono alcune pubblicità ingannevoli (e vietate dalla legge italiana). La realtà è che tutto
il mondo scientifico si è espresso senza titubanze contro
questa pratica, ritenendola assolutamente inutile: in caso di effettiva futura malattia del bambino infatti nessun ematologo utilizzerebbe cellule della stessa provenienza genetica, potenzialmente affette dalla medesima
malattia. Viceversa la selezione delle donne che possono
donare il sangue cordonale è molto accurata: in gravidanza un’accurata anamnesi personale e familiare della
gravida e del partner serve a evidenziare situazioni dubbie o a rischio di patologia, che vengono quindi escluse
dalla raccolta. Un’altra selezione avviene al momento
del parto (esclusione per liquido tinto, patologia fetale,
ecc.) e poi ancora viene analizzata la sacca, che deve rispondere a precisi requisiti di volume e cellularità. Perciò, in caso di donazione, solo il 15% circa delle raccolte
effettuate risulta “bancabile”, cioè utile per i trapianti.
Ma le banche private tutti questi controlli non li fanno
di certo, sarebbero, dal loro punto di vista, controproducenti: rischierebbero di dover scartare più dell’85%
dei campioni inviati dai clienti.
C’è poi un altro argomento: ogni raccolta privatistica
esclude una raccolta solidaristica. Cioè, questo sangue si
può decidere di chiuderlo in un caveau, lasciandolo inutilizzato, per anni e anni, molto probabilmente per sempre, oppure metterlo in rete, a disposizione di chiunque,
subito, sapendo che quanto più aumenteranno le donazioni, tanto più facile sarà reperire nella rete internazionale dei trapianti un donatore compatibile.
Perciò, anche da un punto di vista strettamente individualistico, se molte donne donassero il sangue cordonale invece di seppellirlo nel “forziere” di qualche banca
straniera, se anche mio figlio un giorno dovesse averne
bisogno avrà maggiore probabilità di trovare una sacca
di sangue cordonale che possa salvargli la vita. E una
sacca sicuramente utilizzabile, perché controllata e non
a rischio di interferenza genetica.
[email protected]
DONAZIONE O RACCOLTA?
Allogenica: è l’unica vera forma di donazione, a scopo
solidaristico, a disposizione della collettività. È gratuito
sia il prelievo sia la conservazione delle cellule.
Autologa: raccolta ad esclusivo uso personale, del nascituro o di un suo familiare. Poiché il materiale non può
essere conservato nelle banche italiane, è necessaria
l’autorizzazione all’esportazione del sangue cordonale,
rilasciata dalla Regione o Provincia Autonoma, previo
pagamento dei costi sostenuti per la raccolta del campione di sangue cordonale.
Dedicata: una forma particolare di autologa valida solo
per alcune patologie familiari già note e per le quali sussistono comprovate evidenze scientifiche di un loro impiego nell’ambito di sperimentazioni cliniche regolamentate. Fatta e conservata cioè quando il nascituro o
un suo consanguineo presenta, al momento del parto o
in epoca pregressa, una patologia per la quale il trapianto di cellule staminali emopoietiche è clinicamente valido; oppure quando nella famiglia c’è il rischio di una
malattia geneticamente trasmissibile a futuri figli per la
quale il trapianto è una pratica scientificamente appropriata. Questa donazione è gratuita e gestita all’interno
delle banche cordonali pubbliche.
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Cosa c’è di vero
La scienza “romantica”
La domanda di cure “alternative” è in aumento.
E l’offerta si adegua
ul depliant di una ditta di prodotti per la maternità e l’infanzia,
parlando del “cuscino luna” (un cuscino ripieno di pula di farro, dalla
forma anulare appositamente studiata per rendere più confortevole la
posizione della donna che allatta) si
afferma: “Campi d’impiego per i
quali i cuscini di farro sono particolarmente consigliabili: contrazioni
muscolari, mal di testa, mal di
schiena, problemi d’irrorazione
sanguina, disturbi del sonno, reumatismo, piaghe da decubito, mal
di denti, raffreddori, dolori mestruali, disturbi della gravidanza,
infiammazioni, raggi terrestri, vene
d’acqua. Non esistono studi scientifici che certifichino la proprietà, ma
l’esperienza diretta di molti.”
È il passa parola, l’empirismo quotidiano, quello che non ha bisogno di
verifiche né di dimostrazioni che
rende “scientifico” questo cuscino. E
lo fa con una suadenza e un’ampiezza di vedute che la scienza “scientifica” non avrebbe avuto: gli scienziati
non sanno neppure cosa siano i
“raggi terrestri” e le “vene d’acqua”,
però sono termini che suonano bene. Ecco: questa è scienza romantica. Un adeguamento delle rigide e
ineluttabili regole, formule e metodiche della scienza (medica e non
solo) al proprio modo di sentire.
Non dettami certi e dimostrati, ma
“suggerimenti” emotivi, modellabili
sulle singole personalità. La scienza
illuministica non lascia spazio all’opinabile: è o non è, ho le prove o non
le ho. Che freddezza, che mancanza
S
Paolo Sarti
Pediatra di famiglia, Firenze
10
di rispetto per l’emotività e la fantasia del singolo!
MA CHI AVRÀ RAGIONE?
O meglio: a chi mi piace di più dar
ragione (perché in un sistema logico
la ragione è presto data a chi ha le
prove di quello di afferma)? E qui
subentra il tipo di cultura, il carattere, lo stile di vita di chi deve scegliere. E per far decidere al meglio non
serve richiamarsi alla logica, al rigore scientifico: alle prove provate della neurofisiologia neonatale. Per lo
scientifico romantico quelle sono solo fredde macchinazioni della scienza ufficiale, quella al potere, quella
lontana da te, quella che probabilmente ti vuole fregare, soprattutto
economicamente. Anche se, bisogna
dirlo, affidarsi a questi romanticismi
scientifici ha un costo non indifferente, spesso anche alto.
La “Cristallo-terapia” (terapia energetica, con la quale pietre dure e
cristalli influenzano l’aura rimuovendo blocchi energetici che potrebbero scendere a livello fisico e creare disturbi più o meno gravi) e la
“Aroma-terapia” (uso di oli essenziali per stimolare con l’olfatto funzioni ormonali attraverso il sistema
limbico) sono due chiari esempi di
come il romantico possa aderire a
cure più fascinose e “tipizzanti” di
quanto non possa fare un cinico illuminista, pronto a imbottirsi di antibiotici e antidolorifici di fronte a
malanni e infezioni che forse avrebbe potuto eliminare con qualche cristallo giusto.
Illustrazione tratta dal libro “Incantesimi”, di Emily Granocchio, ed. Castoro
Ma solo se si fosse rivolto al medico
”giusto” e non certo a quello del
SSN (anche se oggi non sono rari i
medici tradizionali che si addentrano nelle medicine alternative, più
nobilmente dette “complementari”,
guadagnando spesso credibilità… e
clienti).
EVOLUZIONE:
EFFETTI COLLATERALI
L’evoluzione della medicina ufficiale
e la sempre maggior acquisizione di
conoscenze e competenze specialistiche ha causato un sempre maggior
distacco del curante dal paziente, che
è divenuto più una somma di organi
che un insieme armonico. Sempre
più il paziente è visto come “portatore” di qualche malanno e non “soggetto” che ne soffre. Di conseguenza
l’interesse del medico si è sempre più
spostato sul malanno stesso, piuttosto che su chi lo viveva. È comprensibile quindi che si diffonda un certo
disagio nei confronti di una medicina
che ascolta sempre meno, che rischia
costantemente di scordare che la
guarigione, per la gran parte dei disturbi, non consiste nel farli sparire
nascondendoli sotto una “coperta
chimica”, ma nel trovarne la causa e,
possibilmente, rimuoverla. Ma siccome la causa per tanti disagi è lo
stress, la vita disordinata e insoddisfacente, i travagli relazionali e affettivi, avremmo forse più bisogno di
comprensione e sostegno nel vivere
quotidiano che di farmaci che mettano una “toppa” alle (comprensibili)
reazioni al disagio.
11
La medicina probabilmente sta commettendo un errore storico separando sempre più corpo e mente: era
forse necessario farlo per motivi descrittivi, analitici, ma non doveva essere fatto nell’approccio diagnostico
e terapeutico.
Così il farmaco è diventato odioso a
molti, proprio per la sua freddezza e
perché sostituisce la comunicazione,
mentre pratiche come l’omeopatia o
l’ayurvedica trovano mercato perché, prima di tutto, ascoltano. Essere ascoltato è così importante per il
paziente, che non si chiedono neppure le prove di efficacia, le certificazioni scientifiche che lo tutelino dal
rischio di assumere sì tante coccole,
ma probabilmente anche tanta semplice acqua (e ad un prezzo poi nemmeno trascurabile). Ma c’è di più: la
contraddizione arriva al punto che,
ad esempio, per non somministrare
ad un bambino antibiotici per qualche giorno (sette giorni sembrano
sempre troppi), si preferisce passare
al farmaco omeopatico… che però si
assume per settimane e persino per
qualche mese!
Tutte questi “nuovi” approcci alla
salute, soffusi di romanticismo e di
auspici e poco propensi alla dimostrazione scientifica, sono una risposta a una medicina che ha dimenticato l’uomo nella sua globalità, psiche e corpo indissolubili. Una scienza che ha trascurato l’approccio individualizzato, il bisogno di attenzione, di essere protagonisti della propria terapia oggi assiste al rifiuto
della sua meticolosità, della sua
12
“esattezza”, delle sue prove di efficacia. Mentre i pazienti, pur di recuperare l’ascolto e l’attenzione umana
nelle cure, si affidano a “molecole altre”, di efficacia non dimostrata, ma
che comunque sono sempre molecole, a pietruzze colorate, a frullati di
fiorellini!
Ma siamo sicuri che per vendicarsi
di questa trascuratezza della scienza
ufficiale non si finisca per cascare
dalla padella nella brace?
[email protected]
DITELO CON I FIORI
L’esempio forse più calzante e illuminante del mondo della scienza romantica ce lo offrono i “Fiori di Bach” (rimedi floreali funzionanti secondo il
“principio di risonanza”). Edward Bach (1886-1936) affermava che la coscienza funziona in base a determinati modelli di reazione, uguali per tutti
gli esseri viventi, siano essi piante, animali o uomini, e che nei fiori di alcune piante selvatiche c’è “qualcosa” capace di riequilibrare i modelli di reazione alterati. Bach si lasciò guidare dalle somiglianze tra la pianta e la
persona: il mimolo, un fiore dall’apparenza timida e spaventata, lo somministrava alla persona che soffriva di paura, mentre la balsamina (chiamata
anche “Non mi toccare”), un fiore che sembra scattante e nervoso, che
proiettava i suoi semi anche a diversi metri di distanza, veniva consigliato
agli individui rudi e sbrigativi. Bach individuò in tutto 38 schemi alterati di
reazione, e li divise in sette gruppi. In questi sette gruppi sono comprese
tutte le forme possibili di paura, di incertezza, di rifiuto della realtà, di solitudine, di influenzabilità, di disagio, e di atteggiamenti eccessivi verso se
stessi o verso il prossimo.
E pensare che un freddo seguace della scienza come me osa pensare che
per risolvere molte di queste cose elencate, come la solitudine, gli atteggiamenti eccessivi con gli altri, lo sconforto e la disperazione, più che di
un frullato di fiori ci sarebbe bisogno di un po’ più di cultura, di educazione, di socialità e di rispetto dell’altro! Ma questo non è romantico.
La domanda di scienza romantica è in aumento: per risolvere i nostri disagi, i nostri malanni, non ci fidiamo più delle fredde molecole di laboratorio, somministrate senza farci raccontare di noi, delle nostre storie emotive, delle nostre aspirazioni. Ma neppure lo psicologo o lo psicoterapeuta
sembrano essere adeguati, sempre più vissuti come odiosi “strizzacervelli”. A darci un perché dei tanti dolori chiamiamo anche le stelle, con gli
ascendenti, i segni zodiacali; ma anche rolfing e il taekwondo sono molto
più efficaci nel ridare elasticità al corpo (con un nome così esterofilo!) che
non banalmente passeggiare, non usare ascensori, portarsi la spesa a casa
da soli, usare meno l’automobile.
La sindrome autistica
postvaccinale non esiste
Lettera aperta ai genitori dai pediatri dell’ACP
Noi pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP) sosteniamo da sempre che la scienza e la sanità
devono essere indipendenti dagli interessi dell’industria. Per questo i nostri soci sono tenuti a rispettare
un “Impegno di autoregolamentazione nei rapporti con l’industria” che noi stessi ci siamo dati
(www.acp.it/codice-deontologico). L’obiettivo del nostro “codice” è la salvaguardia della professione medica dall’ingerenza dei produttori di vaccini, farmaci, alimenti per l’infanzia e dispositivi medici, che potrebbe condizionare il lavoro e l’autonomia del medico e di ogni operatore sanitario. Riteniamo che la coerenza
con cui abbiamo sempre seguito questi principi ci possa accreditare come vostri informatori indipendenti.
Recentemente è stato di nuovo ipotizzato un nesso tra vaccinazione antimorbillo-parotite-rosolia
(MPR) e autismo: l’accusa che viene mossa (neanche troppo velatamente) è che la vaccinazione sia raccomandata non per il bene dei bambini, ma piuttosto per una gigantesca manipolazione commerciale.
La correlazione fra vaccino antimorbillo e autismo era stata segnalata nel 1998 da uno studio inglese
pubblicato sulla rivista “The Lancet”. Successivamente però nessuno dei numerosi studi condotti sull’argomento, in Europa e negli USA, ha confermato questa correlazione. Gli stessi autori inglesi hanno sconfessato i dati pubblicati nel 1998 e la rivista “The Lancet”, nel 2010, ha ritirato quell’articolo.
Ma c’è di più: Andrew Wakefield, autore dello studio pubblicato nel 1998, è stato radiato dall’Ordine dei
medici perché accusato di aver distorto alcuni dati per favorire i suoi interessi economici.
Oggi sappiamo che il momento in cui si verifica il danno che porterà all’autismo si colloca nella fase
prenatale dello sviluppo cerebrale.
Ci sentiamo quindi di ribadire con convinzione che la “Sindrome autistica postvaccinale” non esiste: si
tratta di una “diagnosi” formulata in modo subdolo e scorretto perché si basa solo su un rapporto temporale (l’autismo si manifesta a due-tre anni, quindi dopo la vaccinazione MPR effettuata, come sapete, a 1315 mesi) e non su un dimostrato rapporto di causa-effetto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e la letteratura scientifica smentiscono categoricamente ogni genere di connessione tra autismo e vaccino MPR, ma c’è un fatto che più di tutti lo smentisce: l’evidenza dei
dati epidemiologici mondiali. A fronte delle molte centinaia di milioni di dosi di vaccino somministrate negli
ultimi decenni, non abbiamo registrato alcun contemporaneo aumento della diffusione dell’autismo: è vero
che è aumentato il numero di diagnosi di questa malattia, ma solo perché oggi arrivano a una diagnosi non
solo i casi eclatanti, ma anche i tanti casi più sfumati del cosiddetto “spettro autistico”, che in passato non venivano neppure presi in considerazione.
Un genitore responsabile deve anche considerare l’altra faccia della medaglia, cioè lo scenario che si
realizzerebbe con una riduzione della copertura vaccinale contro il morbillo.
Il morbillo è infatti una delle patologie più contagiose e, in una popolazione non più vaccinata, sarebbe
destinato a una rapida diffusione e colpirebbe praticamente tutti i soggetti non protetti. Le statistiche confermano che, anche nei Paesi più avanzati che vengono sporadicamente colpiti da piccole epidemie derivanti dalla copertura vaccinale ancora insufficiente, il morbillo è causa di complicazioni frequenti e anche
gravi, e può portare al decesso o all’invalidità in circa un caso ogni mille.
Ogni anno nascono in Italia oltre 500.000 bambini: provate a immaginare cosa succederebbe se si
smettesse di vaccinare, o se la percentuale dei bambini vaccinati calasse notevolmente.
Inoltre, il vaccino MPR protegge anche dalla rosolia, che resta tra le principali cause di gravi malformazioni fetali e di aborto, quando colpisce le madri suscettibili perché non sono state vaccinate o non hanno contratto la malattia da bambine.
I dati scientifici su cui si basa la nostra professione, in base ai quali noi pediatri ogni giorno compiamo
delle scelte per curare i vostri bambini, affermano con assoluta certezza che non c’è nessuna correlazione
tra vaccino MMR e autismo e perciò noi pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri vi invitiamo a vaccinare i vostri figli seguendo il calendario vaccinale approvato dal Ministero della Salute.
13
Lo spazio della mente
A tutto puzzle
Cos’è, come funziona e cosa rappresenta
il gioco del “mettere in ordine”
sorprendente vedere come molti bambini (non tutti),
anche assai piccoli, si appassionano al gioco del puzzle. Che cosa ci trovano di bello? Il gioco, infatti, potrebbe
essere visto di per se stesso come particolarmente noioso
da qualcuno (me compreso, lo confesso).
È
Paolo Roccato
Psicoanalista, Società
Psicoanalitica Italiana, Torino
CHE COSA SONO I PUZZLE
Il puzzle è un solitario, che, come ogni solitario, può essere fatto anche da più persone cooperanti fra loro. A
volte il giocatore è contento che altri gli diano una mano;
a volte, invece, si stizzisce, come se gli altri, con il loro
intervento, gli togliessero lo specifico piacere del gioco.
Tutti i solitari sono giochi del “mettere in ordine”. Le regole prescrivono quale debba essere l’ordine da dare all’insieme che, in partenza, si presenta “disordinato”. In
questo risiede la piacevolezza (per coloro cui piace), e in
questo sta la noiosità (per coloro cui non piace).
Qui nasce subito un problema. Tutte le mamme si disperano con i loro bambini sulle questioni di ordine. “Vai a
mettere in ordine la tua stanza!” è un classico assolutamente universale. Perché, allora, è bello quel “mettere in
ordine”? In che cosa consiste quel piacere?
La prima ipotesi che vien da fare è che possa essere un
tentativo di elaborare un trauma (magari proprio il trauma del dover mettere ordine nei propri spazi, nel proprio
tempo, nella propria vita), utilizzando il gioco. Ma non
sembra proprio. L’elaborazione di un trauma attraverso
il gioco di solito ha tutt’altre caratteristiche: spesso è più
vivace, più “narrativo”, più “impulsivo”, oppure più
“guardingo”, per così dire; più ansioso. E sovente anche
meno “metodico”. E spesso sembra dare meno piacere.
Per rispondere alla domanda su quale ne sia il piacere, è
necessario vedere che cosa è e come funziona un puzzle,
e quindi che cosa può rappresentare per la mente di chi
vi si appassiona.
UN PO’ DI STORIA
Sembra che il puzzle sia stato inventato attorno al 1760
dal cartografo e incisore londinese John Spilsbury. Con
un seghetto da traforo ritagliava in pezzettini irregolari
dei disegni precedentemente dipinti su sottili tavole di
legno. Era l’epoca dell’Illuminismo, quando scienziati e
14
filosofi esaltavano il valore conoscitivo della mente umana liberata da costrizioni e pregiudizi. Basti pensare che i
35 volumi dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert sono stati pubblicati tra il 1751 e il 1772. Il piacere della conoscenza, e più ancora il piacere della scoperta realizzate
per azione diretta dei singoli e dei gruppi al di fuori di
ogni dogmatismo, si diffondeva come non mai, per un
fermento diffuso in tutto il mondo occidentale. Osservazione della realtà, costruzione e verifica delle teorie attraverso ulteriori osservazioni erano gli strumenti di base della conoscenza umana, che si poneva come condivisibile fra tutte le persone “illuminate” dalla ragione e libere da preconcetti.
La mente “illuminata” cercava l’ordine delle cose del
mondo, per mezzo della scienza; e dava ordine alle cose
del mondo, per mezzo dell’arte e della creatività dell’operare umano. Basta pensare, per esempio, alla bellezza dei
giardini settecenteschi, concepiti e realizzati come ordine
umano imposto alla Natura, altrimenti sentita come
“caotica” e “insensata”, per darle senso.
L’origine (forse un poco fantasticata) del termine puzzle
sarebbe questa: in inglese il gioco del puzzle si chiama
Jigsaw Puzzle, dove Jigsaw indica il seghetto del traforo, e Puzzle vuol dire rompicapo. Il gioco del puzzle,
dunque, è il “Rompicapo del seghetto del traforo”.
COSTRUIRE UN PUZZLE PER CONOSCERE L’ARMONIA
Cercare di costruirsi un’immagine del mondo è quello che
il bambino fa in ogni istante della propria vita, fin da
quando, appena nato, vede gli occhi della mamma che lo
guardano, sente il calore e l’odore del corpo che lo accoglie
fra le braccia, ode suoni e rumori per lui inusuali, e poi, via
via che cresce, compie esperienze vive nelle scoperte e nelle esplorazioni sempre più ampie e differenziate. Le immagini del mondo che va formando nella propria mente sono
sempre più complesse e articolate, con dei nessi che danno
loro sempre maggiore consistenza e chiarezza.
La conoscenza di sé (che è sempre conoscenza di sé nell’esercizio di funzioni) va sempre di pari passo con la conoscenza del mondo in cui si svolgono le esperienze.
Questo processo della simultanea conoscenza di sé e del
mondo imprime nel mondo conosciuto l’impronta del
soggetto. La percezione di questa impronta è il “significato”, è il “senso” che il mondo ha per il soggetto in ogni
specifica esperienza.
Per esempio, una bambina guardando la statua della Vittoria Alata non vide affatto qualche cosa di bellicoso, ma
una ballerina che faceva un passo di danza, perché la
danza era una cosa preziosa e importante che lei (bambina) aveva dentro la propria mente. La sua percezione
dell’immagine conteneva l’impronta della sua soggettività di amante della danza. Ed è questa sua soggettività,
messa mentalmente dentro alla realtà percepita, ciò che
costituiva, per quella bambina lì e in quel momento, il
“senso” della realtà osservata e percepita. Il “senso” che
“scopriamo” nella realtà è sempre qualche cosa che,
mentalmente, noi vi abbiamo messo dentro.
Costruire l’immagine del puzzle, che a tutta prima è
scomposta e disarticolata nei suoi frammenti, e che poi si
fa via via sempre più definita e provvista di senso, è una
specie di riscoperta e ri-sperimentazione dell’impegno
conoscitivo di tutta la vita e del piacere di dominare il
reale sia attraverso la conoscenza (strutturare immagini
coerenti a partire dal caos) sia attraverso l’azione creativa (agire sugli elementi del caos per dar loro forme che
siano sensate per il soggetto).
Alla fine del gioco, quando tutta l’immagine del puzzle è
costruita, sovente l’emozione è quella del trionfo. È il
trionfo “illuminista” della mente ordinatrice sulla natura
che, al primo impatto, si era presentata come caotica. È,
sì, il piacere di aver risolto un problema, ma molto di più
è il piacere di aver colto l’efficacia del proprio operare
nel conoscere l’armonia fra la strutturazione della conoscenza del mondo e la conoscenza di sé nel mentre ordina e struttura la conoscenza del mondo.
Nell’opera di ri-composizione del puzzle il giocatore non
si trova davanti soltanto i pezzettini di disegno ammucchiati alla rinfusa, ma ha fin dall’inizio davanti a sé ben
chiaro il risultato finale cui deve tendere: il disegno finito da “ricostruire”. Così il compito è molto facilitato.
OGNI PROCESSO DI CONOSCENZA HA I SUOI TRUCCHI
Qualche bambino può “scoprire” da solo alcuni “trucchetti”
che gli possono facilitare il compito, quali quello di partire
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dagli angoli, per i quali i due lati ad angolo retto sono lisci e
dritti e non devono combinarsi con nessun altro pezzettino.
Poi c’è il “trucchetto” dei margini, di cui i pezzettini hanno
un lato che, confinando con il “di fuori” del disegno, non
deve combinarsi con altri pezzettini di disegno.
Impareranno a guardare nel “modello da copiare” gli
stacchi di forma e le macchie di colore, per intuire quali
pezzettini possano corrispondere a quel luogo del disegno. Impareranno infine a tener conto della forma del
taglio fra un pezzettino e l’altro, i cui margini devono
corrispondere esattamente. Impareranno che non giova
creare forzature: se i margini dei pezzettini ritagliati non
sono esattamente corrispondenti, forzarli a collegarsi tra
loro non facilita a una buona ricostruzione del disegno,
anzi, la rende più difficile. Come nella scienza: le forzature allontanano dalla conoscenza, e quindi dalla verità.
Impareranno ad analizzare la realtà nella duplice prospettiva: secondo la forma del disegno da ri-comporre e
secondo la forma dell’oggetto materiale concreto, del
“pezzettino” da maneggiare. Imparano che per risolvere i
problemi ci vuole tempo. E che bisogna, quindi, saper
pazientare, saper permanere nello stato di incertezza di
chi ha fiducia di poter riuscire, ma non è ancora riuscito.
Imparano che la conoscenza può non essere immediata:
talvolta essa è sì tendenzialmente progressiva, ma secondo dei movimenti irregolari, meno o più rapidi, attraverso tentativi ed errori.
Tutti questi apprendimenti, per così dire “autogestiti”,
procurano un piacere che contiene il piacere di riuscire a
orientarsi nel costruire la propria percezione del mondo,
ricevendone alla fine una convalida inequivocabile: “Ho
visto giusto! Ho colto i vari differenti elementi della
realtà e li ho connessi in modo adeguato a costruire
un’immagine appropriata della realtà”. E quindi anche:
“Ho percepito me come un essere ben funzionante nel
contatto conoscitivo e creativo con la realtà”.
Per dirla in modo rigoroso, possiamo concludere che il
piacere di risolvere un puzzle è connesso al piacere dello
strutturare la mentalizzazione delle esperienze.
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PRECISAZIONI NON SUPERFLUE
Non è che sempre la percezione del mondo si costruisca un pezzettino per volta. Anzi: essa si pone molto
spesso come percezione globale. È l’insieme quello che
allora prevale sul dettaglio. Ma quando ci troviamo di
fronte a forme ambigue, che potrebbero essere forme
di qualche cosa ma anche di qualche cosa di altro, allora uno dei modi possibili per cercare di orientarci è
quello di analizzare un pezzettino per volta. Bisogna
però sempre ricordare che altrettanto spesso riusciamo
meglio se osserviamo, per così dire, più da lontano,
cercando di cogliere l’insieme per l’appunto attraverso
il trascurare i dettagli.
UN GIOCO CHE INFONDE FIDUCIA
Affrontare il problema di risolvere un puzzle significa
strutturare – in un contesto giocoso –conoscenza del
mondo e contemporaneamente conoscenza di sé mentre si sta conoscendo il mondo. Il bello del gioco è che
queste due conoscenze (del mondo e di sé) vanno di
pari passo, cosa che dà un grande piacere, per il senso
di unità dell’esperienza conoscitiva.
Alcune persone trovano il gioco del puzzle parecchio
noioso, mentre spesso i bambini, già dall’età di circa
un anno, possono trovarlo entusiasmante. Il fatto è che
i bambini sono, momento per momento, sempre impegnatissimi a cercare di dare forma pensabile alle esperienze che vanno facendo. Quando ci riescono, provano un grande piacere. Il gioco del puzzle, mostrando
fin dall’inizio come dovrà (e potrà!) essere il risultato
finale, fa sapere già in partenza che ci si riuscirà,
infondendo fiducia e speranza, mentre nella vita, purtroppo, non sempre è così.
Curarsi con le piante
Mirtillo nero:
piacere e salute
Le mille virtù
di una bacca spontanea
e bacche del
mirtillo nero
(Vaccinium mirtillus), dal colore blu
scuro o quasi nero,
sono usate da tempo immemorabile
come cibo, per il loro elevato potere
nutritivo. La storia
Vitalia Murgia
del mirtillo come riPediatra, docente del Master
medio fitoterapico
di II livello in Fitoterapia,
risale al Medio Evo.
Università La Sapienza, Roma
Nel XVI secolo le
proprietà di questo
frutto erano già note agli erbalisti che lo usavano per
trattare i calcoli biliari, i disturbi infiammatori della cistifellea, la tosse e perfino la tubercolosi.
L
AL GIORNO D’OGGI
Il mirtillo viene usato per trattare la diarrea, le infiammazioni della bocca e della gola e i disturbi visivi. La ricerca medica è concentrata soprattutto sugli effetti del
mirtillo sui disordini vascolari, sul cuore, sul diabete, sui
disturbi della vista e sui problemi cognitivi dell’anziano.
Il mirtillo nero contiene sostanze che sono dotate di numerose proprietà terapeutiche, tra queste le più importanti sono le antocianine, responsabili anche del colore
dei frutti. Le antocianine hanno la capacità di ridurre
l’infiammazione e sono potenti antiossidanti, cioè sono
capaci di aiutare l’organismo a liberarsi dai “radicali liberi”, sostanze che quando sono prodotte in quantità eccessive (in corso d’infezione o in condizioni di stress fisico o mentale) hanno effetti dannosi per l’organismo. Il
mirtillo riduce la quota dei radicali liberi che possono alterare le varie strutture dell’occhio e le antocianine si legano (hanno affinità) con l’area della retina che è responsabile della visione notturna e della capacità di
adattamento alla visione al buio. Già durante la seconda
guerra mondiale dei ricercatori francesi si resero conto
che gli estratti di mirtillo permettevano ai piloti di abituarsi più rapidamente alla visione notturna e di recupe-
Foto 123RF
rare più in fretta la capacità di mettere a fuoco dopo un
abbagliamento. Il mirtillo potrebbe avere effetti benefici
anche in soggetti che soffrono di retinite pigmentosa
(malattia che causa un progressivo deterioramento della
retina che perde la capacità di trasmettere al cervello le
informazioni visive) e in quelli che vedono meno bene in
condizioni di luce scarsa o crepuscolare, pur avendo una
buona capacità visiva di giorno. Uno studio recente ha
dimostrato, infatti, che il mirtillo migliora la visione delle persone miopi in condizioni di scarsa illuminazione.
Gli studi su mirtillo e visione non hanno avuto sempre
esiti positivi, ciononostante ci sono molti dati a favore
del fatto che le antocianine hanno un influsso benefico
positivo sull’occhio.
[email protected]
E ANCORA...
Altre proprietà del mirtillo che favoriscono la salute sono quella antibatterica e quella ipoglicemizzante. Vista
la combinazione di effetti antiossidanti, antinfiammatori
e ipoglicemizzanti i ricercatori ipotizzano che il mirtillo
possa essere utile come rimedio nutrizionale in persone
che soffrono di diabete mellito di tipo 2 e nei disturbi
del metabolismo degli zuccheri.
Le antocianine del mirtillo potrebbero essere utili anche
per rallentare i problemi cognitivi causati dall’invecchiamento. Insomma il mirtillo è un esempio brillante di
saggio utilizzo plurimillenario di un alimento come cibo
e “medicina”. È innegabile che mangiare mirtilli freschi
faccia bene. Quelli che crescono spontanei hanno un più
elevato contenuto in antocianine, ma in loro assenza
vanno bene anche quelli coltivati o il loro succo concentrato. Anche gli integratori alimentari di buon livello
qualitativo possono aiutare ma, almeno per ora, il loro
effetto benefico sulla salute non è stato ancora completamente confermato.
17
Come eravamo
1951: l’inondazione
del Polesine
…quei bambini avevano una malattia che non si vedeva; e morivano,
in maniera strana, in silenzio, come fiorellini che appassiscono in una notte…
stata una catastrofe che non credo (in realtà non lo so) abbia
avuto poi niente di paragonabile, in
Italia. Certo, a mia memoria c’è stata
l’esondazione dell’Arno, che ha coperto Firenze di fango; ci sono state
due esondazioni del Tagliamento,
che hanno coperto di fango Latisana: ma lì, quella volta, sono usciti
dagli argini due giganti, l’Adige e il
Po, e sono state coperte dall’acqua
campagne e campagne, tra i due fiumi. E la Clinica Pediatrica di Padova
è stata invasa da lattanti salvati e
fuggiti dalle acque. Ma non è che si
trattasse semplicemente di “profughi”; forse anche sì, non lo potrei dire con sicurezza: ma è anche che
molti di quei bambini avevano una
malattia che non si vedeva; e mori-
È
Franco Panizon
(1925-2012)
Ha diretto la Clinica Pediatrica
dell’Ospedale Infantile di Trieste
FRANCO PANIZON
Trieste, 1925-1012. È stato uno dei
migliori medici italiani, ha rivoluzionato il campo della pediatria mettendo al centro della cura il bambino come persona circondato dalla
famiglia. La sua intensa attività
scientifica, letteraria e anche artistica ha influenzato positivamente,
tramite migliaia di pediatri, l’infanzia di una parte consistente di tutti
quelli che oggi hanno meno di 30
anni. Ci ha lasciato molte cose: ricordi, articoli, disegni, e libri. Fra
questi una bella autobiografia, Eee
la vita, la vita l’è bela. Miseria e
miracoli in 50 anni di pediatria italiana (1950-2000), edita da Medico
e Bambino nel 2013 da cui abbiamo
tratto questo brano.
18
vano, in maniera strana, in silenzio,
come fiorellini che appassiscono in
una notte. Adesso, che sono stato in
Africa, credo di poterlo dire: erano
bambini malnutriti, non proprio
gravi ma abbastanza, bambini con
difetto di difese dovuto alla cattiva
nutrizione, al difetto di proteine, di
zinco, di vitamine; e morivano, semplicemente, per setticemie occulte,
sepsi da microbi “buoni”, comuni,
ospiti abituali delle mucose e dei tegumenti, usualmente innocenti. Era
il 1951; io ero già da due anni in Clinica, “facevo servizio” ai lattanti, al
reparto su cui era arrivata l’onda pediatrica di quella terribile inondazione. E mi sentivo, così come si può
sentire il soldato che “sta al pezzo” e
che fa tutto (dall’esame delle urine
all’esame del sangue, all’esame della
cacca, alla visita, alle prescrizioni,
alle medicazioni) e un po’ come io
presumevo di essere, sospinto dalla
mia eterna presunzione sempre sotto pelle, ma un poco anche come effettivamente “ero”, il “padrone” del
“mio” reparto e dei “miei” malati.
DI QUESTI BAMBINI
RICORDO TRE COSE
La prima è che, quando facevo loro
l’esame emocromocitometrico, lo
striscio di sangue colorato col MayGruenwald/Giemsa per fare “la formula” al microscopio (allora si faceva tutto a mano, e a occhio), sullo
striscio, tra un globulo rosso e l’altro
trovavo dei microbi, degli stafilococchi, belli tondi, inconfondibili. Mai
successo, né prima né dopo. Cosa
poteva voler dire? Evidentemente
che nella pelle del dito che bucavamo per avere la goccia di sangue necessaria all’esame, quei microbi erano affollati, come i turisti in Piazza
san Marco. Ripeto e confermo, mai
visto né prima né dopo (ho continuato a fare emocromi per almeno
altri 10 anni). L’ho anche fatto vedere all’Aiuto bello e misterioso; ma
quello ha scantonato.
La seconda è che molti di questi
bambini avevano una malattia della
pelle. Una desquamazione importante attorno al culetto scarno, alle
pieghe sulla faccia interna delle cosce, attorno ai poveri genitali, che
restavano quasi in carne viva, qualcosa di mezzo tra la dermatite seborroica e l’eritema da pannolino, ma
più importante, e più cronico; in più,
le squame erano larghe e spesse; larghe come il palmo di una mano,
spesse forse un millimetro, “grasse”
e dure, come la pelle del baccalà.
Anche questa roba, non l’ho più vista né prima né dopo; o dopo sì, in
Africa, nei “malnutriti severi”. Ecco,
credo che il mio ricordo di quei
bambini del Polesine non sia autentico, vero; credo che sia deformato
da una sovrapposizione postuma, recente, di quei bambini profughi coi
“miei” malnutriti africani di cin-
quant’anni dopo (malnutriti che, a
mio avviso, avevano un simile tipo
di dermatite). Il prof. Bentivoglio
aveva posto, per quella dermatite,
per tutti, la diagnosi di “malattia di
Leiner”. Andando a guardare sul
prestigioso e universale libro di pediatria di oggi, il Nelson, si trova: an
intractable seborrhea-like dermatitis (una dermatite intrattabile di tipo
seborroico) with chronic diarrhea
and failure to thrive (incapacità di
crescere) may reflect systemic dysfunction of the immune system.
Questo Leiner deve essere ben vecchio, anzi, già allora doveva essere
un po’ un “antenato”; e ne avrà viste,
del suo, di cose, con poche capacità
di capirci sopra, come si intende dall’inciso. Anch’io sono diventato un
antenato, e ne ho viste, ormai, del
mio. A quei bambini, il Prof faceva
dare della vitamina B6, e miglioravano, se non guarivano: ma certo, gli
si dava anche da mangiare il latte, e
anche altre vitamine. E crescevano
di peso, e poi se ne tornavano a casa,
nella loro campagna, tra l’Adige e il
Po. E anche i miei malnutriti angolani guarivano, sessant’anni dopo, che
Dio li benedica, col latte e con le vitamine.
LA MALNUTRIZIONE
ERA “NORMALE”
La terza cosa che ricordo, e a cui ho
già fatto cenno, è che la maggior
parte di questi bambini erano malnutriti. Non forse di quella che in
Africa si chiamerebbe “malnutrizione severa”, non di quella con scomparsa della bolla di Bichat, quella
pallina di grasso che conferisce al viso di ogni bambino la rotondità che
è anche l’impronta naturale dell’infanzia; ma le cosce erano spesso povere, la pelle dell’addome era spesso
sottile, le manine erano spesso da
vecchietto, striminzite. Failure to thrive, anche loro, certo. Me li invento,
questi ricordi? Un poco sì, certamente; e un poco no, ne sono quasi
certo. È che allora non ci si badava
più che tanto. Come ora in Africa.
Essere malnutrito, per un lattante
“povero”, era quasi una cosa normale. E quell’inondazione, senza che io
quasi ci facessi caso, senza che io
quasi me ne accorgessi (anzi senza il
“quasi”, non me ne ero proprio accorto, tutto questo emerge solo oggi,
nel mio ricordo, come un rimorso
occultato), scopriva ai miei occhi
non vedenti, agli occhi non vedenti
di tutti noi camici bianchi, di tutti
noi cittadini privilegiati, la profonda
miseria della campagna.
Perché ricordo così bene tutto questo? Non lo so nemmeno. O un poco
lo so; per tante cose che allora non
percepivo neppure, a cominciare
dalle differenze sociali; che però sono rimaste depositate, ma non del
tutto dormienti, nella scatola della
memoria.
Certo, il disastro era stato grandioso; certo, il tran-tran della Clinica
era stato turbato da quell’ondata;
certo, ho visto cose che non ho capito, e di cui percepivo (senza sorpresa) che nessuno capisse bene; perché, allora, il non capire se non quello che c’era in superficie, anzi, l’essere ciechi di fronte alla natura dei fenomeni, e interpretarli secondo
“teorie”, era la regola. In Italia. Un’Italia molto “indietro” rispetto a poco
lontano, solo al di là delle Alpi, nella
favolosa Francia; e, specialmente,
nella favolosa Svizzera, dove insegnava il favoloso Fanconi, in quella
che era la culla, allora e per molti
anni ancora, nel nostro immaginario, del sapere pediatrico.
COME ERAVAMO
In questa rubrica Un pediatra per
amico cerca di raccogliere testimonianze di una pediatria e di un’infanzia che non ci sono più, ma che
hanno lasciato un segno nella memoria collettiva delle famiglie, che
spesso ne condiziona ancora i comportamenti. Anche la povertà e la
denutrizione dell’immediato dopoguerra sono sparite, ma non ancora
la paura che possano tornare.
19
Meglio saperlo prima
Insegnare
le manovre salvavita
Parte da Genova un progetto pilota rivolto
a genitori ed educatori
a morte di un bambino è diventata, per fortuna, un
evento così raro da suscitare subito l’attenzione dei
giornali e della TV. Anche se può capitare che questa attenzione sia un po’ “deviata” e strumentalizzata.
Un caso eclatante è stato quello capitato qualche mese fa
nel ristorante di un centro commerciale di Roma: un bambino di 3 anni, che stava mangiando insieme ai genitori, ha
mandato “per traverso” un boccone ed è rimasto soffocato.
Non vogliamo addentrarci sulla quantità di cose che si sono
dette a proposito di questa tragedia: alcune di queste sono
assurdità, come la pretesa che ci sia un presidio di pronto
soccorso in ogni centro commerciale o che un’ambulanza
possa essere disponibile ovunque in pochissimi minuti.
In realtà ci si protegge da incidenti di questo genere solo
con la consapevolezza delle precauzioni da prendere e delle cose da fare in caso di emergenza. Un esempio per tutti:
la notevole diminuzione della mortalità per incidenti su
due ruote, dopo l’introduzione dell’obbligo di indossare il
casco. Nessun pronto soccorso e nessun servizio di ambulanza avrebbero potuto ottenere lo stesso risultato del
semplice gesto di allacciare un casco sotto il mento, ripetuto infinite volte, ogni giorno da milioni di motociclisti.
L
Marisa Laura Corgiolu
Pediatra di famiglia, Roma
PREVENZIONE PRIMA DI TUTTO
L’inalazione di un corpo estraneo sufficientemente
grande e consistente può chiudere le vie respiratorie;
l’impossibilità di respirare porta in pochissimo tempo
alla riduzione dell’afflusso di ossigeno al cervello e all’arresto dell’attività del cuore. Il coma e poi la morte
possono sopraggiungere nel giro di pochissimi minuti.
Un boccone troppo grosso, troppo consistente o non masticato a sufficienza può agire come un corpo estraneo:
questa è la cosa di cui si ha più paura, anche se in
realtà, se pensiamo a quanti bocconi noi mandiamo giù
ogni giorno per tutta la vita, si tratta di un evento estremamente raro e, purtroppo, difficilmente evitabile.
Molto più facile è invece evitare l’inalazione di oggetti.
I bambini, si sa, portano tutto alla bocca e cercano di
“assaggiare” qualunque cosa trovino in giro. Poiché è
impossibile controllarli 24 ore al giorno, per evitare
che corrano un rischio di soffocamento è bene non lasciare a portata delle loro manine tutto ciò che potrebbe essere messo in bocca e mandato giù.
Ecco un elenco degli oggetti più pericolosi da non lasciare in giro per casa: caramelle, confetti, monete,
palloncini sgonfi, nocciole e noccioline, piccoli tappi,
parti di giocattoli, caramelle, viti, parti smontate di
strumenti di uso domestico.
20
PARLIAMO DEL SOFFOCAMENTO
È un’evenienza che fa tanta paura solo a pensarci. E direi
giustamente, se pensiamo che in Italia ogni anno muore
una cinquantina di bambini per soffocamento da inalazione di un corpo estraneo: quasi un bambino alla settimana.
Anche se non se ne parla quasi mai.
Non tutte le morti sono considerate uguali e non tutti i rischi sono valutati allo stesso modo: per esempio per la
vaccinazione di massa contro la meningite da meningococco vengono profuse risorse enormi (milioni di dosi di
vaccino, migliaia di centri vaccinali allertati), anche se i casi di meningite in Italia, nei bambini fino a 4 anni, sono
una sessantina l’anno e i morti circa 7.
Come mai tanto impegno sul fronte della vaccinazione e
così poco interesse per gli incidenti molto più pericolosi?
La risposta potrebbe essere semplice e brutale: alcune
campagne di prevenzione mettono in moto un consistente
business, altre no.
Per intervenire correttamente in caso di inalazione di corpo estraneo ed evitare una buona parte delle morti dovute
a questo incidente non ci sono acquisti da fare, servizi da
organizzare: basterebbe semplicemente trasmettere delle
conoscenze. Come dire: essere preparati, saperlo prima.
Non che non esistano le iniziative: la rete è piena di documenti, immagini e tutorial; abbiamo assistito anche a
molte trasmissioni in TV e persino negli asili e nelle scuole
si moltiplicano i corsi “salvavita”.
Ma nessuno ha pensato ad uno strumento potentissimo di
cui disponiamo e che non adoperiamo: la rete dei 7.000
pediatri di famiglia che incontrano ogni anno milioni di
genitori e controllano la salute di tutti i bambini italiani.
Non sarebbe difficile approfittare dei “bilanci di salute” effettuati periodicamente dai pediatri per trasmettere una
corretta informazione su questi argomenti e le indicazioni
pratiche su come comportarsi se ci si trova improvvisamente ad affrontare una di queste situazioni.
QUASI NESSUNO
In realtà non è vero che nessuno ci abbia pensato: qualcuno ha avuto questa idea e si è anche mosso concretamente
per realizzarla.
Si tratta di un gruppo di pediatri genovesi che ci racconta
la sua esperienza sul numero 2 del 2013 della rivista “Il
medico pediatra”, organo ufficiale della Federazione Italiana Medici Pediatri.
I pionieri sono 5, come ci racconta il dottor Giorgio
Conforti sulla rivista “Il medico pediatra”: in un primo
tempo cominciano a raccogliere la documentazione necessaria (prevalentemente schede americane che vengono
tradotte e adattate), poi frequentano un corso di PBLS
(Pediatric Basic Life Support) per imparare le tecniche di
disostruzione e infine acquistano il materiale occorrente
(compresi i manichini su cui esercitarsi) per insegnare ai
genitori e ai nonni le manovre giuste da fare.
La loro attività è andata avanti per molti anni basandosi
esclusivamente sull’impegno personale. Fino a quando,
per una fortunata coincidenza, si rendono disponibili dei
fondi da impiegare proprio per la prevenzione degli incidenti nei bambini e negli anziani.
A questo punto i pediatri genovesi colgono la palla al balzo
e trasformano la loro esperienza in un progetto da presentare al Comune, che accetta la proposta.
L’attività è articolata su più livelli. I pediatri di famiglia
informano i genitori e insegnano loro le corrette manovre
da fare per favorire l’espulsione di un corpo estraneo inalato; i pediatri di comunità (che lavorano negli asili nido)
informano gli educatori e tutto il personale dei nidi, insegnando anche a loro le manovre salvavita.
Il risultato è la diffusione capillare del saper fare. Un lavoro che, evidentemente, non finisce mai, perché si formano
sempre nuove famiglie, nascono nuovi bambini e uomini e
donne che non lo sono mai stati diventano genitori.
Chissà, se qualcuno di loro fosse stato presente quel giorno in quel ristorante a Roma, può darsi che le cose sarebbero andate in un altro modo.
[email protected]
ANCHE UPPA NEL SUO PICCOLO…
Abbiamo scelto questo argomento per inaugurare una
nuova rubrica del nostro giornale: La pagina utile. La
trovate al centro di questo fascicolo e contiene le
istruzioni semplici e dettagliate sul da farsi in caso di
pericolo di soffocamento da inalazione di un corpo
estraneo: potete staccarla e conservarla (magari attaccata alla porta del frigorifero). Speriamo che non serva
mai, ma intanto è bene averla.
Questioni di latte
Due al prezzo di uno
Allattare al seno i gemelli non è difficile
Sergio Conti Nibali
Pediatra di famiglia, Messina
o appena saputo di essere incinta di 2 gemelli. Sono molto
preoccupata per l’allattamento.
Penso che con due sarà difficile; anzi, a sentire in giro, addirittura impossibile.
H
ALLATTARE È POSSIBILE
Una mamma che ha due gemelli ha
tutte le possibilità di allattarli esclusivamente al seno senza aggiunta di
latte artificiale, sempre che non
vengano frapposti ostacoli. Una
mamma che partorisce ha livelli altissimi di ormoni preposti alla produzione di latte, tanto che si dice
potrebbe produrre latte per quattro
neonati! Il meccanismo della produzione è dettato dalla regola “domanda – offerta”, nel senso che se a
succhiare il latte è un bambino solo
verrà prodotto latte per uno, se sono due per due. Se i gemelli saranno allattati a richiesta (assicurando,
comunque, non meno di 8 poppate
nelle 24 ore) la produzione di latte
sarà adeguata per nutrirli entrambi.
A volte, tuttavia, si possono frapporre degli ostacoli, ad esempio per
partorire i gemelli può essere necessario un parto cesareo: in questi casi potrebbe trascorrere del tempo
prima che la mamma possa cominciare ad allattare, a meno che gli
operatori che assistono al parto non
offrano comunque il contatto pelle
a pelle. Quello che è importante è
allattare i bambini appena si è in
grado di farlo; oppure, in caso di
nascita prematura e di un allontanamento dal bambino, raccogliere il
latte per avviare una adeguata produzione.
Una volta a casa, si può provare ad
allattarli insieme, per risparmiare
tempo prezioso.
[email protected]
W.A. Bouguereau, La Carità, coll.priv.
22
LE POSIZIONI DELL’ALLATTAMENTO
Presa a “culla”: i bambini si trovano entrambi nella posizione
classica “a culla” che si utilizza
solitamente per i nati singoli. Il
capo di ognuno poggia sugli avambracci della mamma e la parte inferiore del loro corpo si trova affiancata o incrociata all’altezza
dell’addome materno. Utile per
trattare o prevenire problemi ai
capezzoli, necessita di un po’ di
pratica e un buon controllo del
capo da parte dei piccoli.
Presa a “rugby”: deve il suo nome al fatto che il braccio della
mamma sostiene il bambino tenendolo sotto l’ascella, come un
giocatore di rugby tiene la palla.
Il bambino è sdraiato accanto alla
madre con le gambe rivolte alla
parte posteriore del suo corpo,
mentre la mamma sostiene la nuca del bambino aiutandolo a
prendere il capezzolo. Questa posizione è adatta a bambini particolarmente piccoli, per mamme
con seni molto grandi, con capezzoli piatti o rientranti, con ragadi
e ingorghi della mammella.
Combinazione di presa a “culla” e
a “rugby”: permette di tenere i
piccoli in due posizioni diverse al
seno ed è particolarmente utile se
la mamma ha dolore ai capezzoli.
Posizione da sdraiate: è possibile
allattare stando distese a letto;
dei cuscini sostengono le braccia
della mamma, sulle quali posa il
capo dei piccoli, mentre il resto
del loro corpo è parallelo ai fianchi materni.
Paginacp
Anche il sole
ha le sue “macchie”
Qualche consiglio pratico per l’estate che viene
Costantino Panza
Pediatra di famiglia,
Sant’Ilario d’Enza (RE)
Maria Francesca Siracusano
Pediatra di famiglia,
Messina
l sole è fonte di vita: è necessario
per le piante, riscalda la terra, regola i
bioritmi e determina la sintesi di vitamina D, fondamentale per la salute
delle ossa e per l’apparato immunitario. Bastano 15 minuti al giorno di esposizione al sole di volto, mani e braccia per avere la quantità giornaliera necessaria di vitamina D. Quindi il sole non è “cattivo”. Tuttavia ci sono delle
radiazioni solari che possono, in alcune circostanze, avere un effetto dannoso sulle nostre cellule: queste radiazioni sono i raggi ultravioletti (UV).
I
GLI EFFETTI DANNOSI DEI RAGGI UV?
I raggi ultravioletti solari (UV-A e UV-B) possono causare una carcinogenesi, ossia favoriscono la nascita di tumori. Alcuni fattori ambientali possono aumentare l’esposizione a questi raggi dannosi: il buco dell’ozono e l’esporsi al sole con una pelle non protetta. I tumori della
pelle insorgono più facilmente in soggetti con pelle, capelli e occhi chiari e in soggetti che hanno subito scottature o eritemi solari che ne hanno danneggiato la pelle.
I tumori maligni della pelle (melanomi, carcinoma spinocellulare e basocellulare) sembrano in aumento tra gli
adulti di ogni età. Il melanoma, rarissimo in età pediatrica, risulta in aumento nell’adolescenza. La scottatura solare in un bambino potrebbe favorire la comparsa del
melanoma durante l’età adulta, mentre durante l’età pediatrica un eccesso di esposizione al sole può portare alla
comparsa di nuovi nevi. Perciò bisogna essere consapevoli dell’importanza di proteggere la pelle di un bambino
da una eccessiva esposizione al sole e di prevenire le
scottature solari.
COME POSSIAMO PROTEGGERE IL BAMBINO?
Ci sono alcune regole semplici per ridurre il rischio delle
scottature solari e quindi il rischio futuro di sviluppare
un tumore della pelle.
24
Foto Lucia Poggiali
CREME: ISTRUZIONI PER L’USO
– Preferire le creme solari a schermo fisico che ci proteggono dai raggi UV di tipo B e A.
– Le creme devono avere un grado di protezione maggiore di 15.
– Evitare un eccesso di esposizione al sole e l’esposizione nelle ore “No” (dalle 10 alle 16).
- Nelle ore “No” usare indumenti coprenti e sostare in
zone ombreggiate.
– Non esponiamo i bambini nudi e senza protezione
quando il sole è più alto (dalle 10 alle 16).
– Copriamoli con indumenti protettivi (camicie, pantaloncini, cappello).
– Nelle ore “No” cerchiamo di stare all’ombra.
– Evitiamo l’utilizzo di lampade solari o docce solari abbronzanti a ogni età.
– Non esponiamo direttamente al sole bambini di età inferiore ai sei mesi: la loro pelle rischia di scottarsi.
Il 50% delle radiazioni UV-B in estate è presente 2 ore
prima e 2 ore dopo il picco del sole; più dell’80% delle
radiazioni UV attraversa le nuvole e arriva sulla terra anche nelle zone di ombra; i raggi ultravioletti penetrano
nell’acqua fino a 60 cm di profondità, quindi facciamo
attenzione quando nuotiamo.
LE CREME SOLARI
Ci sono tanti tipi di creme solari, che si differenziano in
due gruppi in base al tipo di filtro.
1. Schermo chimico: proteggono dai raggi UV-B che provocano le scottature solari.
2. Schermo fisico, come l’ossido di zinco o il biossido di
titanio: proteggono dai raggi UV-B e UV-A, che favoriscono l’abbronzatura.
Le creme si distinguono anche in base al grado di protezione: bassa (6-10), media (15, 20, 25), alta (30, 50) e altissima protezione (+ 50).
La crema solare va applicata circa mezz’ora prima di
esporsi al sole e bisogna riapplicarla ogni due ore, o più
spesso se si fa il bagno o si suda abbondantemente. Poiché tutti i raggi ultravioletti (sia UV-B che UV-A) favoriscono i tumori della pelle, è meglio utilizzare le creme a
schermo fisico. Sono in commercio anche spray con diffusione micronizzata di zinco o titanio, comodi, ma non
ancora sufficientemente testati nei bambini. Per tutte le
creme solari non è stata dimostrata l’efficacia nel prevenire i tumori della pelle. Addirittura alcuni studi hanno
evidenziato che, mettendo una crema solare, si tende a
esporsi al sole con tranquillità per un tempo maggiore,
anche durante le ore considerate a maggiore rischio, determinando in tal modo un aumento del rischio di tumori. Questo non vuole dire che le creme solari favoriscano
i tumori della pelle, ma che, piuttosto, possono creare
una falsa sicurezza.
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[email protected]
SCREENING DEL MELANOMA? NO GRAZIE
Uno studio condotto negli USA ha raccolto i dati riguardanti persone con più di 65 anni sottoposte a uno
screening della pelle: in 20 anni le diagnosi di melanoma sono raddoppiate, ma è rimasto invariato il numero
dei morti causati da questo tumore.
In Italia esiste una campagna di sensibilizzazione sul
melanoma, lo Skin cancer day che spiega quanto il melanoma sia sempre più diffuso e perché, per aumentare
le possibilità di guarigione, sia meglio scoprirlo precocemente con visite annuali.
“La strategia più efficace per combattere il cancro della pelle consiste nella diagnosi e nel trattamento precoce... scopo dello Skin cancer day è facilitare il contatto
fra specialisti e pazienti, in modo da rendere più efficaci le strategie di prevenzione e facilitare l’individuazione del melanoma in uno stadio iniziale attraverso
un’adeguata informazione e dando la possibilità ai pazienti di effettuare screening periodici”. Le cifre sono
inquietanti: “L’incidenza del melanoma nella popolazione è aumentata negli ultimi 50 anni ad un ritmo superiore a qualsiasi altro tumore, a eccezione del cancro del polmone nelle donne, con un incremento del 57% annuo nei Paesi occidentali industrializzati”. I dermatologi individuano per queste cifre due cause: la
moda della tintarella e il buco dell’ozono che lascia
passare una maggior quantità di raggi ultravioletti.
Allora perché, a fronte delle molte diagnosi precoci, il
numero dei morti per melanoma è sempre uguale? Le
conclusioni dei ricercatori americani sono le stesse dell’US Preventive Task Force, l’ente americano che controlla l’efficacia delle misure preventive: lo screening
della pelle non è una misura capace di prevenire le
morti per melanoma.
I dati forniti dai dermatologi non dimostrano l’esistenza
di una epidemia di melanoma, ma di una epidemia di
diagnosi di melanoma. La differenza è rilevante. È accaduto che dare il nome “melanoma” anche a trascurabili
alterazioni della pelle e la contemporanea diffusione di
metodi di analisi non invasivi abbiano aumentato il numero di diagnosi di tumori, che in realtà non causano
problemi. Di contro non si è osservato nessun vantaggio
certo, in termini di sopravvivenza: scoprire un melanoma nella sua fase primitiva non modifica, purtroppo, la
storia della malattia. Se l’utilità dello screening è controversa, certa è la sua dannosità, in termini di costi sociali e per l’ansia causata da falsi allarmi che coinvolgono il diretto interessato dalla diagnosi e i suoi familiari.
Dal sito partecipasalute.it
25
Scuola, che passione!
Il bambino vivace
non è un malato
Bambini problematici:
difendiamoli dalla medicalizzazione con l’aiuto di tutti
egli ultimi anni la priorità della
scuola sembra sia stata quella di
trasformare le difficoltà degli alunni
in vere e proprie malattie. In dieci
anni sono raddoppiate le certificazioni di disabilità, in un anno i cosiddetti DSA (Disturbi Specifici
dell’Apprendimento) sono cresciuti
del 37% e, nel frattempo (dicembre
2012), è uscita la nuova disposizione
ministeriale sui BES (Bisogni Educativi Speciali) che punta a rintracciare
altri alunni bisognosi di cure particolari. Di questo passo, nel giro di
pochi anni, è probabile che ogni
classe in Italia abbia più alunni diagnosticati che il contrario.
Ma più in generale serpeggia la percezione che, anche fra gli operatori
sanitari, si stia andando verso una
progressiva medicalizzazione delle
naturali differenze infantili; che in
altre parole il bambino o la bambina
vivace siano, o stiano per diventare,
un problema medico piuttosto che
rappresentare una naturale e fisiologica inclinazione infantile.
Si respira ovunque un clima di apprensione crescente. I neuropsichiatri infantili sono sottoposti a richieste sempre più frenetiche di diagnosi
e di certificazioni.
Spesso il corpo insegnante risulta insofferente verso gli alunni oppositori
o semplicemente vivaci. Si chiede ai
genitori di fare qualcosa e di procedere con qualche forma di sostegno
e assistenza.
Un bambino di 9 anni, in quarta
elementare, ha avuto un momento
aggressivo verso un’altra bambina.
Niente di grave, anzi il bambino sul
N
Daniele Novara
Pedagogista, Piacenza
26
piano del rendimento scolastico va
benissimo e ha tutti 9 e 10, ma i genitori si sentono ugualmente dire,
senza tanti complimenti, dalle maestre di fare subito una visita neurologica. “Non c’è tempo da perdere”.
FUGA DALLA “DIAGNOSI”
Negli ultimi 3 anni ho ricevuto al
Centro Psicopedagogico di Piacenza
(www.cppp.it) diversi genitori in fuga dal binario della diagnosi a tutti i
costi, alla ricerca di un approccio
educativo che potesse comunque
aiutarli nella gestione di figli tirannici, di alunni distratti, di adolescenti
“sdraiati” e via carrellando sulle
nuove situazioni che le famiglie si
trovano a vivere. Ma ci sono anche
quelli che la invocano davvero la benedetta diagnosi “Avrà qualcosa!
Avrà ben qualcosa! Non sta mai fermo un attimo e poi ci dice delle cose
terribili e prova anche a picchiarci”.
Cosa possono fare i genitori per evitare un’enfasi medico sanitaria che
rischia di trasformare i bambini in
pazienti piuttosto che lasciarli nel
loro status legittimo di studenti, ossia di soggetti che vanno a scuola anzitutto per imparare e per farlo il
meglio possibile?
La scuola non può avere paura dei
genitori che sono sensibili alla crescita e all’educazione dei loro figli.
Semmai deve cercare di costruire
delle alleanze, dei percorsi comuni,
proprio per garantire un buon gioco
di squadra. Quali sono allora i punti
qualificanti di una scuola che mette
al centro la crescita degli alunni, e
non le eventuali patologie?
Foto Franco Nonne
IN GRUPPO È MEGLIO
Vale la pena ricordare che i coetanei,
ossia soggetti di pari età, hanno
maggiori possibilità di aiutare i compagni che restano indietro. L’idea viceversa che debbano per forza essere
adulti, insegnanti, assistenti, educatori di ogni tipo a sostenere l’alunno
in difficoltà, con azioni di recupero
totalmente individuali, non trova riscontro sul piano psicopedagogico in
quanto da sempre vi è un riconoscimento condiviso verso il cosiddetto
mutuo insegnamento o peer education, detto in termini più “internazionali”.
In altre parole le attività di apprendimento sociale, innestandosi sulla
naturale tendenza imitativa del
bambino, che è anche la base della
sua plasticità neuronale, consentono
di ottenere risultati più rapidi, più
duraturi e, molto importante, più sostenibili. La lezione di un insegnante
può essere la migliore possibile, ma
quando c’è da imparare veramente
qualcosa la spiegazione di un compagno, qualunque sia la sua età, risulta più efficace in quanto sintonizzata maggiormente sulle connessioni
di apprendimento relative a quella
specifica età. L’adulto non potrà
mai, anche il miglior insegnante, essere in grado di adattarsi sul piano
cognitivo ed emotivo al mondo infantile o adolescenziale. È per questo
che tutte le pedagogie innovative si
sono sempre basate su due capisaldi: l’esperienza diretta dell’alunno,
addirittura quella sensoriale, come
nel metodo Montessori, e il lavoro di
27
gruppo, come nelle pedagogie di Célestin Freinet, di Roger Cousinet, di
Paulo Freire e tanti altri educatori
che hanno sperimentato concretamente i vantaggi di un approccio sociale e imitativo fra gli alunni. Isolare i bambini in difficoltà con interventi basati sul trattamento individuale non solo il più delle volte li demotiva, ma genera in loro anche la
sensazione di trovarsi nel ruolo sbagliato, cioè del bisognoso e quindi finiscono con l’agire di conseguenza,
rafforzando piuttosto che diminuire
i deficit in questione.
I BAMBINI SONO PLASTICI
Si diffonde dunque anche a scuola la
tendenza a cercare diagnosi sempre
più precoci. A volte può essere utile,
ma troppo spesso diventa semplicemente un modo per incasellare lo
scolaro dentro un ingranaggio senza
ritorno. In realtà, tranne casi di invalidità fisiologica davvero grave, i
bambini, facendo le mosse giuste,
possono sempre migliorare. Non è
accettabile alcun fatalismo medico.
Gli stessi ricercatori sono sempre più
scettici sull’eccesso di medicalizzazione. Nel 2013 Allen Frances, psichiatra
americano, ha scritto un bellissimo libro dal titolo inequivocabile, “Primo,
non curare chi è normale”, con il quale contesta lo smisurato allargamento
della diagnostica psichiatrica. Quest’anno il famoso psicologo Jerom
Kagan ha pubblicato “I fantasmi della
psicologia”, con il quale denuncia
l’invadenza di diagnosi psicologiche
nella crescita dei piccoli.
28
La maggiore disponibilità di conoscenze mediche deve rappresentare
per la scuola uno strumento in più
per aiutare i bambini a vincere i propri blocchi, a superare i deficit infantili e a promuovere la loro eman-
cipazione. Al contrario si rischia di
accentuare la percezione di disabilità e di ostacolare le possibilità di
recupero e crescita.
[email protected]
COME RICONOSCERE UNA CLASSE INCLUSIVA
Anche i genitori, senza essere esperti del settore, possono facilmente riconoscere se la classe frequentata dal proprio figlio ha un carattere inclusivo, ossia se i bambini e le bambine vengono gestiti secondo un criterio
pedagogico di apprendimento condiviso.
I compiti: la scuola inclusiva riduce il più possibile il lavoro da realizzare
a casa, in modo da limitare l’impegno alle ore scolastiche, per evitare che
le condizioni famigliari privilegino chi a casa può disporre di supporti e
sostegni maggiori. In particolare destano molta preoccupazione le scuole
che consentono la valutazione diretta dei compiti svolti a casa, quasi che
venisse esaminata l’intera famiglia dell’alunno. In questi casi il compito
non è più un semplice esercizio di rafforzamento ma un vero e proprio
esame.
La disposizione dei banchi: la logistica della classe segnala la concezione
pedagogica dell’insegnante. Banchi posti in fila a guardare la cattedra indicano un approccio educativo frontale basato su una didattica tradizionale
basata sulla “lezione-studio-interrogazione”. Viceversa una disposizione a
semicerchio, o ancor meglio a gruppi di banchi, indica che la didattica si
fonda sull’interazione fra gli alunni e sull’apprendimento cooperativo. Se i
bambini possono guardare solo l’insegnante non si creano le connessioni
che favoriscono la spontaneità osmotica dell’imparare. L’intervallo: si tratta
di un necessario momento di relax motorio che non può essere compromesso da decisioni preventive o punitive volte a contenere la necessità degli
alunni di staccare la spina rispetto all’attività propriamente didattica,
uscendo dai banchi e utilizzando gli spazi di movimento della scuola.
Le note: segnalare ai genitori comportamenti sbagliati dei figli (“Luca tira
i missili ai compagni di classe”) non ha alcuna giustificazione pedagogica e
crea solo una continua apprensione nei genitori.
L’eccesso di valutazione: eccedere significa sottoporre gli alunni a una
prestazione continua con inevitabili confronti fra i voti reciproci che non
aumentano l’apprendimento ma gli eventuali blocchi emotivi.
Testi: Roberto Piumini • Illustrazioni: Silvia Forzani
n
e
g
d
g
a
e
l
del
a
L
DITO SOLO
Un’antica leggenda dice che l’uomo fu creato con un braccio solo.
E non basta: la mano di quel braccio aveva un solo, solissimo dito.
L’uomo era contento della situazione, perché con quel dito poteva assaggiare
l’acqua delle sorgenti, per sapere se era buona o cattiva, o grattarsi un prurito,
o magari, se ce n’era bisogno, infilarselo nel naso.
La cosa non dava fastidio a nessuno perché non c’era nessun altro al mondo.
Nati per
Leggere
Nati Per Leggere è un’iniziativa dell’Associazione
Culturale Pediatri, dell’Associazione Italiana
Biblioteche e del Centro per la Salute del Bambino
per promuovere la lettura ad alta voce ai bambini fin
dai primi mesi di vita.
un
pediatra
per amico
Centro per la salute del bambino
Man mano che il tempo passava,
l’uomo cominciò a scoprire che poteva usare il dito, ad esempio, per
indicare il sole quando sorgeva, o la luna quando
splendeva in cielo
nella notte.
Poi, diventando sempre
più svelto, riuscì a indicare cose meno
vistose, le piante, i sassi, e persino quelle
in movimento, come gli animali. Qui l’uomo
cominciò a porsi un problema.
Lui indicava il sole, la
luna, un albero, un animale: ma a chi li indicava?
Un giorno, concentrandosi molto, riuscì a puntare
il dito su di sé: e ancor più
del solito avvertì insoddisfazione.
A chi stava indicando se stesso?
Si sentiva buffo: anzi, addirittura
un po’ stupido.
Stacca questa
pagina, può
essere utile
Al centro un poster da conservare
Qui sotto il ccpostale per abbonarti
o regalare un abbonamento
CONTI CORRENTI POSTALI - Ricevuta di Accredito
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TD
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451
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1 anno 21 €
1 anno+amico 33 €
Nome e Cognome dell’amico
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2 anni 35 €
2 anni+amico 47 €
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indirizzo
............................... ..............................................................................
cap
località
prov.
ESEGUITO DA
RESIDENTE IN VIA - PIAZZA
CAP
BOLLO DELL’UFF. POSTALE
BOLLO DELL’UFF. POSTALE
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LOCALITA’
IMPORTANTE: NON SCRIVERE NELLA ZONA SOTTOSTANTE
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AUT. DB/SISB/E 27068 DEL 02.01.2009
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+ 1 anno per un amico 33,00 euro
tipo documento
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La pagina utile
un
pediatra
per amico
Manovre antisoffocamento
e di rianimazione da 0-12 mesi
Cosa fare se c’è un corpo estraneo nelle vie respiratorie
e il bambino non respira e non tossisce
1
Chiama aiuto e chiedi
che qualcuno avvisi il 118
4
Con la mano destra batti 5 colpi
energici in mezzo alle scapole, facendo
attenzione a non colpirlo in testa.
Non aver paura di fargli male
7
Rigira il bambino nella stessa posizione
di prima (fig. 3) e ripeti i 5 colpi dietro
le scapole (fig. 4)
3
2
Prendi tra le dita della mano sinistra
la mandibola del bambino senza
comprimergli la gola
5
Passagli il tuo braccio sinistro tra le
gambe appoggiandolo bocconi e a testa
in giù sul tuo ginocchio destro
6
Rigira il bambino reggendogli la testa
con la mano destra
8
Rigira il bambino reggendogli la testa
e ripeti le compressioni descritte
nella fig. 6
Spingi per 5 volte al centro dello sterno
del bambino con le dita della mano
sinistra, lentamente e profondamente
Continua ad alternare le
manovre descritte nelle fig. 2,
3, 4, 5 e 6 fino a quando il
bambino non espelle il corpo
estraneo e riprende a
respirare, oppure fino
all’arrivo dei soccorsi. Se il
corpo estraneo è stato espulso,
ma il bambino non respira
e ha perso conoscenza...
9
10
11
Mettilo su un piano rigido
e assicurati che non abbia nulla in bocca
Prendi fra le tue labbra il naso e la bocca
aperta del bambino e soffia 5 volte
Spingi forte e velocemente con due
dita al centro dello sterno per 30 volte
Tieni questo poster a portata di mano:
speriamo che non serva mai, ma, se
dovessi trovarti in una circostanza del
genere, esegui alla lettera le manovre,
senza aver paura di sbagliare
Continua ad alternare 2 ventilazioni bocca-a-bocca con 30
compressioni dello sterno finché il bambino non riprende a
respirare. Se ti sei stancato fatti sostituire da qualcuno che continui
a fare queste manovre (figure 10 e 11) fino all’arrivo dei soccorsi
Abbonati per non perdere
neanche un numero,
se vuoi fare un regalo,
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Se sei abbonato e regali
un abbonamento,
riceverai 2 numeri in omaggio
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1 anno per te +
2 anni per te 35,00 euro
2 anni per te +
ESEGUITO DA
Ci pensava
di giorno e
anche di notte, e
nei sogni capitava
che muovesse il braccio e il dito qua e là,
affannosamente, gettando
lamenti.
Racconta la leggenda che il
Creatore, guardandolo dall’alto,
cominciò a preoccuparsi, e decise
di fare qualcosa per migliorare la
vita della sua creatura.
Al mattino, quando l’uomo si svegliò, si
trovò accanto un altro essere, grazioso e
diverso da lui, che era la donna, anche lei
provvista di un braccio e di un dito, più sottile e delicato del suo.
Felicissimo le sorrise e cominciò a portarla
in giro, mostrandole il sole, la luna, le pietre
e gli animali.
Lei, molto vivace e intelligente, presto seppe
indicare tutto a sua volta, e i due passavano
ore a mostrarsi le cose.
Qualche volta, stanchi di indicare le cose,
giocavano a indicare se stessi: lui indicava
lei, lei lui, e poi lui se stesso, e lei anche, e
mentre indicavano ridevano e si guardavano,
allegri e felici.
Una volta, per sbaglio o per volere, mentre
giocavano così, le loro dita si agganciarono,
e rimasero incantati, a lungo. Poi, lentamente
agganciarono i bracci, e si tennero stretti,
guardandosi e sorridendo.
rivista per bambini
da 2 a 7 anni
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BB O
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€ 16,50
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¬
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Questa volta parliamo di pediatri
SPECIALE
Il medico “della mutua”
Convenzione, rapporto ottimale, libera scelta, massimale:
cerchiamo di capire come funziona la pediatria di famiglia
Michele Valente
Pediatra di famiglia, Roma
nata Beatrice: Stefano e Mara, i neo genitori, sono
contenti ma anche un po’ confusi. Da quando è nata
quante emozioni, dubbi, domande e indicazioni, tutte insieme. Troppe!
Poi, non so chi, gli ha detto che bisognava “segnare” la
bambina al pediatra della “mutua”. Ma come si fa?! E chi
scegliamo? Grazie ad un’amica si sono orientati per il
dottor V.; allora si va alla Asl, dove si scopre che Beatrice
deve avere prima il Codice Fiscale (anche quello
provvisorio va bene); si può fare anche online la scelta del
pediatra (sul sito della Regione ovviamente); in alcuni
ospedali la scelta può essere fatta anche al letto, dalla neo
mamma prima della dimissione.
Intanto Stefano e Mara si fanno dare i recapiti dei pediatri,
ne scelgono uno e Mara lo contatta per un appuntamento.
Quando escono dallo studio si sentono più sereni e hanno
la netta impressione che questo pediatra potrà essere il
loro punto di riferimento per Beatrice.
È
1978: NASCE LA PEDIATRIA DI FAMIGLIA
Questa breve storia, una delle tante possibili, serve solo
per introdurci a una domanda importante che riguarda
questo rapporto “significativo “ che sta per iniziare: Cosa
c’è dietro “il pediatra della mutua”? O meglio: come funziona la “Convenzione” per la pediatria di libera scelta?
Per rispondere a queste domande ci addentreremo nei
meandri delle leggi, cercando però di farlo con parole semplici.
Dobbiamo partire un po’ da lontano; il 23 dicembre 1978
(36 anni fa, più o meno l’età che hanno mediamente i
lettori di UPPA) viene varata la Riforma che istituisce il
Servizio Sanitario Nazionale (SSN), la Legge 833, che cancella il vecchio sistema mutualistico e vecchie figure come
il medico condotto e i medici delle “mutue”. Fra le tante
innovazione introdotte con quella legge ce n’è una che ci
riguarda: ogni cittadino italiano poteva, anzi doveva, scegliere un medico di famiglia; in Italia (a differenza dell’Inghilterra, dal cui modello il nostro SSN era sostanzialmente derivato) si pensò che i bambini avessero diritto a
un loro medico speciale: uno “specialista” di bambini, cioè
un pediatra. Venne così istituita, accanto alla Medicina
generale, la Pediatria di libera scelta.
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SPECIALE
Ma come si diventa Pediatra di libera scelta o Pediatra di
famiglia (PDF, come noi pediatri preferiamo chiamarci)?
Il PDF è un medico abilitato all’esercizio della professione
e iscritto all’Ordine dei Medici della Provincia di
Residenza, specializzato in pediatria che si iscrive in una
graduatoria regionale specifica per la pediatria. Da questa
graduatoria vengono chiamati i pediatri che vanno a operare sul territorio: a ciascuno di loro viene attribuito un
“Numero Regionale”. Il legislatore stabilì, come già accadeva per la Medicina generale, che tutta questa materia
fosse regolata, in base ai principi della legge 833, con una
convenzione, cioè un contratto collettivo, stipulata con i
medici pediatri aspiranti al ruolo di PdF, tramite le loro
organizzazioni sindacali.
LA “CONVENZIONE” E LE SUE REGOLE
La prima convenzione fu siglata nel 1979. I pediatri di
famiglia sono dunque dei liberi professionisti, convenzionati
con il Sistema Sanitario Nazionale. La convenzione viene
rinnovata (o meglio, dovrebbe essere rinnovata) ogni 3 anni.
Nel tempo molti rinnovi della convenzione si sono succeduti.
L’ultima convenzione è quella siglata nel 2009, già scaduta
e in corso di rinnovo. La convenzione stabilisce che il numero di pediatri da immettere nel SSN viene regolato in
base a un rapporto, il cosiddetto “rapporto ottimale”, con
il numero di bambini residenti in ciascun comune. Il rapporto ottimale è calcolato sulla fascia di età da zero a sei
anni: la cosiddetta “fascia di esclusiva”: i bambini da zero
a sei anni possono essere seguiti solo da un pediatra. Dai
sei anni in poi, un bambino potrebbe, in caso di necessità,
essere seguito anche da un medico generale.
Quando si determinano situazioni particolari (pediatri che
vanno in pensione, si trasferiscono o cambiano lavoro,
LO PENSA ANCHE OBAMA
Non tutti i Paesi sviluppati hanno la fortuna di avere
un Servizio Sanitario Nazionale (SSN), alcuni si affidano alle Assicurazioni private. Ma le Assicurazioni sono
società che mirano, come è giusto che sia, al guadagno
e non sempre accettano di assicurare chiunque: spesso selezionano il loro “clienti”, un po’ come capita
per le assicurazioni delle automobili, e rifiutano i più
anziani, i malati o quelli che non possono permettersi
di pagare un premio stratosferico.
Questo comportamento può causare delle iniquità, ma
soprattutto mettere a repentaglio il diritto di tutti alla
salute.
Anche il Presidente Obama se n’è accorto: la più importante delle riforme da lui realizzate in questi anni
(Obamacare) riguarda proprio l’istituzione di un’assistenza sanitaria per tutti. Gli USA infatti, pur essendo
il Paese più ricco del mondo, non hanno mai avuto un
SSN, ma solo assicurazioni private: la conseguenza di
questo fatto è che, prima della riforma, negli USA c’erano quasi 30 milioni di cittadini che non avevano diritto a essere curati gratuitamente.
oppure aumento della popolazione infantile in una determinata zona), vengono assunti nuovi pediatri di famiglia. Una
volta entrato in convenzione, il Pdf deve aprire entro un mese
uno studio, attrezzarlo, dotarsi possibilmente di una
segretaria o infermiera, dotarsi obbligatoriamente di un computer collegato alla rete: da settembre del 2012, infatti, tutti
i pediatri devono scrivere con il computer le ricette con le
prescrizioni dei farmaci, degli accertamenti e delle visite specialistiche e trasmetterle elettronicamente al SSN.
A ciascun Pdf è consentito di assistere fino a un numero
massimo di 800 bambini (il cosiddetto “massimale”); ma
quando un pediatra entra in “convenzione”, può, se vuole,
limitare il suo numero di “scelte”, cioè di pazienti da accettare. Il massimale può essere superato dalle cosiddette
“deroghe”: per esempio un pediatra che abbia già
raggiunto il massimale potrà assistere in sovrannumero i
fratellini o le sorelline che eventualmente dovessero
nascere nelle famiglie che lui assiste.
La sua retribuzione è proporzionale al numero di bambini
che assiste: per ciascuno di loro il pediatra riscuote ogni
anno una “quota capitaria”.
COME FUNZIONA LO STUDIO DEL PDF
Ogni pediatra è tenuto ad aprire il suo studio per almeno
cinque giorni alla settimana, per un numero di ore “congruo” (così recita la convenzione), cioè proporzionato, al
numero dei suoi pazienti e alle loro necessità. Molto
spesso i pediatri, anche questo è previsto nella loro convenzione, non lavorano da soli, ma si riuniscono in gruppo
(la cosiddetta “pediatria di gruppo”). La pediatria di
gruppo presenta molti vantaggi, sia per gli assistiti, che
per i pediatri stessi: garantisce ai pazienti una maggiore
facilità nel reperire un medico in caso di necessità, e ai
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SPECIALE
pediatri di confrontarsi fra di loro e aiutarsi, migliorando
gli standard assistenziali. Per rispondere meglio alle richieste delle famiglie, la convenzione prevede anche che
siano organizzate varie forme di “continuità assistenziale”:
questo significa garantire l’accesso al pediatra durante
tutto l’arco della giornata, senza interruzione, anche mediante il coordinamento di più studi presenti sullo stesso
territorio, che restano aperti a turno. In questo modo la
famiglia che ha bisogno di consultare il pediatra in un momento della giornata in cui il proprio pediatra di fiducia
non è disponibile, può rivolgersi a uno dei suoi colleghi.
Questo modello sarà probabilmente potenziato e diffuso con
la prossima convenzione, in maniera da assicurare l’assistenza per almeno 12 ore al giorno: per raggiungere questo
obiettivo sarà necessario organizzare strutture più complesse
(che potrebbero comprendere non solo i pediatri, ma anche
i medici di famiglia) o addirittura le “Case della Salute”di cui
tanto hanno parlato i media.
Il Pdf è tenuto ad essere reperibile tutti i giorni feriali e il
sabato fino alle 10 del mattino: dopo quell’orario, e fino al
lunedì successivo, la continuità assistenziale è garantita dai
servizi di “guardia medica”, contattabili in tutta Italia a un
numero telefonico dedicato.
PEDIATRA “DI FIDUCIA”
I compiti del Pdf sono la prevenzione, la diagnosi, la cura
e l’educazione sanitaria dei suoi pazienti: lo strumento
principale per fare questo è il rapporto di fiducia con le
loro famiglie; questo rapporto è il vero fulcro della
pediatria di famiglia.
Le visite si effettuano, preferibilmente, per appuntamento.
Ogni Regione stabilisce poi un certo numero di visite programmate, i cosiddetti “Bilanci di Salute”, uno strumento
importante, riconosciuto anche dalle istituzioni sanitarie,
di prevenzione e di screening, di dialogo tra le famiglie e
il pediatra e di promozione della salute psico-fisica del
bambino. Nel Lazio, per esempio, sono stati individuati 9
appuntamenti irrinunciabili: a 3, 6, 9, 12, 24 e 36 mesi; a
poi ancora a 6, 8-10 e 12-14 anni. Ovviamente ogni
MUTUA E SERVIZIO SANITARIO
Abbiamo chiamato scherzosamente questo articolo "Il
medico della mutua", ma avremmo dovuto chiamarlo
"Il medico del Servizio Sanitario Nazionale. Una “mutua” è un’associazione privata, costituita da lavoratori
della stessa categoria, che decide di tassarsi per raccogliere un capitale da mettere a disposizione di tutti in
caso di necessità: ciascuno spende poco per non rischiare molto. Il sistema “mutualistico" in Italia ha
funzionato per decenni, ma ha un difetto: è troppo
“povero” per potersi permettere strutture complesse
come gli ospedali e può rivelarsi fragile, se molti degli
associati dovessero averne bisogno.
Un Sistema Sanitario Nazionale (SSN) invece vale per
tutti i cittadini, è finanziato dallo Stato attraverso le
tasse, è proprietario della maggior parte degli Ospedali
e non può andare in bancarotta. Perciò è preferibile al
sistema delle “mutue”.
pediatra è libero di proporre altri appuntamenti e altre visite, d’accordo con le famiglie.
Quasi sempre non è necessario che un pediatra visiti un
bambino a casa. O meglio, forse in passato lo era, ma oggi
non lo è più, anche se le visite domiciliari sono previste
dalla convenzione, ma sono definite come una modalità
eccezionale e da concordarsi con il pediatra. La visita fatta
in studio, specie in caso di pediatria di gruppo con orari
di studio molto ampi, è sempre più accurata: il pediatra
può accedere alla scheda del bambino e utilizzare alcuni
strumenti di diagnosi e terapia che non può portarsi dietro
(il cosiddetto “self-help diagnostico”).
Come abbiamo detto i Pdf sono dei liberi professionisti,
anche se sono legati a un contratto con il SSN: se si assentano per malattia, per ferie o per aggiornamento, sono
obbligati a farsi sostituire da un collega che loro stessi retribuiranno.
I Pdf sono infatti tenuti anche ad aggiornare continuamente
le loro conoscenze mediche: questo è sempre avvenuto, ma
da qualche anno è diventato un obbligo. L’aggiornamento
e la formazione, che in ambiente medico si chiamano ECM
(Educazione medica continua) possono svolgersi in molti
modi: dai tradizionali congressi e corsi, alla lettura di riviste
alle nuove forme telematiche a distanza.
Finisce qui la nostra descrizione del rapporto che lega noi
pediatri con il SSN, ma che ci lega soprattutto alle famiglie
dei nostri pazienti. Un rapporto molto importante che garantisce ai bambini italiani di avere a disposizione uno
specialista che li segue dalla nascita fino all’adolescenza.
Non a caso, in diverse indagini condotte negli ultimi anni,
le famiglie si sono dimostrate piuttosto soddisfatte dall’assistenza pediatrica che risulta sempre al top del gradimento fra tutti i servizi sanitari. Un’assistenza che costa
davvero poco: basti pensare che la spesa complessiva per
i medici di medicina generale e i pediatri di famiglia rappresenta meno del 6% della spesa globale per la Sanità, a
fronte di un impegno a tutto campo.
[email protected]
I CERTIFICATI
La certificazione fa parte del lavoro di tutti i medici
ovunque ma in Italia ha un ruolo del tutto particolare. Il numero di certificati che vengono richiesti ai
medici è veramente esorbitante: nel 2007 fu discusso
in Parlamento un progetto di legge che prevedeva
l’abolizione di 5 milioni e mezzo di certificati medici
inutili ogni anno! Purtroppo questo progetto non è
mai diventato legge.
Fra i certificati medici inutili richiesti ai pediatri,
spicca il certificato di riammissione a scuola (richiesto solo in alcune Regioni e rilasciato gratuitamente),
non meno discutibile è il certificato di idoneità all’attività sportiva non agonistica, rilasciata pagamento (e
per questo, forse, difficile da sopprimere).
Questa volta parliamo di pediatri
SPECIALE
Ve lo dico io
come deve essere un pediatra
Ho due anni e mezzo, ma ho le idee molto chiare
Costantino Panza
Pediatra di famiglia,
Sant’Ilario d’Enza (RE)
iao a tutti, mi chiamo Giuditta e sono una bimba di
due anni. “Eh bum, impossibile!”. Si che è possibile,
penso, parlo e voglio dire delle cose. Non è invece possibile che qui, intendo qui a UPPA, parlino solo medici,
dottori, ostetriche e genitori. Uffa, altro che UPPA! Qualcosa la vogliamo dire anche noi bambini!
“I bambini sono viziati e vanno educati”. Ma chi dice
queste scemenze? Io le cose giuste da fare le so, sono piuttosto i grandi che non sanno come si fanno le cose: questo
dovrebbe essere ormai chiaro per un lettore di UPPA. Dai,
non perdiamoci in chiacchiere – chi mi conosce dice che
parlo molto; ecco, volevo dirvi come la penso sul mio pediatra. “Il mio pediatra fa così”, “No, no, la mia pediatra
fa cosà”, “Ah, la mia ha dato per il mio Ugo un nuovo
C
preparato che lo rinforza dappertutto, me l’ha
assicurato”, “Non parlarmene, il mio non lo trovo mai, e
se lo trovo non mi vuol dare mai l’antibiotico, nemmeno
quando ci vuole!”. Ecco, io devo sentire tutti questi
discorsi tutti i giorni quando la mia mamma si incontra
con le altre, e sono stufa, stufa ma proprio stufa di
ascoltare le solite litanie. I miei genitori, e non solo loro,
non sanno proprio nulla di che cosa è un pediatra e di
come dovrebbe essere. L’unica persona che lo può dire è
solo quella che va sul lettino a farsi toccare, e poi deve
prendere le medicine: quindi io. Ve lo dico io come deve
essere un pediatra.
GLI “INGREDIENTI” DI UN BUON PEDIATRA
Quando mi danno da mangiare qualcosa vorrei leggere gli
ingredienti scritti sull’etichetta; in fin dei conti è roba che
devo far entrare dentro di me. Immagino che mamma e
papà facciano lo stesso per la roba che mandano giù. Bene:
quali sono gli ingredienti di valore che fanno del pediatra
una roba che puoi mettere dentro di te e stare tranquilla
che non ti farà male, ma anzi, ti farà crescere bene?
Ecco quali sono gli ingredienti che richiedo, statemi a
sentire.
Per prima cosa, mi piacerebbe entrare in una bella stanza:
mia mamma la chiama sala d’aspetto. Non c’è nome più
sbagliato (quanto sbagliano i grandi, non finirò mai di dirlo!). In quella stanza io non aspetto mai. Ci sono sempre
delle cose belle che mi accolgono. L’arredamento, la cura
con cui il medico sceglie le immagini da appendere, la presenza di una piccola biblioteca con qualche libro che ogni
tanto viene rinnovato, mi fa capire che il pediatra ci tiene
a me e vuol comunicare qualche cosa alla mia mamma,
anche quando lui non c’è. Anche la mamma lo ha capito,
e si mette a leggermi i libri che io prendo da quella piccola
bibliotechina appoggiata alla parete e che le porto. È divertentissimo. Poi c’è una grande bacheca colorata dove i
miei genitori devono leggere dei fogli che il pediatra mette
ogni tanto, novità, articoli importanti: insomma, li chiamano consigli per i genitori e il pediatra insiste perché si
leggano. Beh, c’è così tanta roba da fare che non capisco
perché la chiamino attesa, io la chiamerei la stanza dei
compiti, delle cose belle da fare.
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SPECIALE
ALLA LUCE DEL SOLE
Negli Stati Uniti è recentemente stata varata una legge
(chiamata Sunshine Act) che obbliga a informare pubblicamente sui soldi che le industrie del farmaco elargiscono ai medici. Il 30 settembre 2014 ci sarà la prima
pubblicazione dei dati raccolti e controllati da parte di
una specifica commissione. Già alcune rilevazioni hanno evidenziato che più dell’80% dei medici di famiglia
riceve regali, iscrizioni gratuite a congressi, rimborsi
spese per viaggi ecc. ecc. per un valore medio di oltre
quattromila dollari/anno. Una cifra di tutto rispetto,
considerando che, come in ogni statistica che si rispetti, per un medico che riceve un regalo da cento dollari
c’è un collega che riceve omaggi di valore stimati in
numerose migliaia di dollari. Un atto di trasparenza
senz’altro molto utile per un paziente che voglia conoscere i rapporti tra quel medico e l’industria, in uno
scenario dove ormai le companies del farmaco e delle
apparecchiature mediche sono le massime finanziatrici
di studi clinici o di eventi formativi per il medico, il
quale è spesso in difficoltà nel scegliere una formazione indipendente.
Un altro ingrediente che pretendo è che quando entro
nella stanza dove c’è il pediatra, ci sia sempre un bel
sorriso ad accogliermi. A me capita ancora di piangere
quando entro lì, non so perché; anche se voglio entrarci,
per vedere quel sorriso e sentire quella voce che mi chiama
per nome e mi guarda, piango anche se c’è la mamma che
mi tiene in braccio. Mamma e dottore chiacchierano un
po’, poi lui inizia a toccarmi, accende e spegne le sue lucine
– è proprio buffo, nessuno glielo ha detto ancora? - e io
continuo a piangere. Poi mi lascia non prima di avermi
strofinato il muso, prendendomi in giro e regalandomi un
altro bel sorriso. Io in cambio piango ancora, però, lo dico
in segreto solo a voi, mi fa piacere che una persona così si
interessi a me.
Terzo ingrediente, le medicine. Parliamoci chiaro: perché
le medicine non ve le prendete voi adulti che siete vecchi?
Noi bambini non ne abbiamo bisogno. Ma lo sapete che
noi bambini italiani prendiamo più medicine degli altri
bambini del continente? Mica siamo più ammalati. Il fatto
è che, più semplicemente, abbiamo più pediatri. Quando
vedo che il dottore si mette a scrivere una ricetta, capisco
che poi a casa papà o mamma mi dovranno infilare qualcosa da qualche parte. Come difendermi dalle medicine
inutili? Visto che io non posso prendere le medicine da
sola, quando e come credo, ci si dovrebbe fidare del
dottore. Allora ho architettato questo pensiero. Innanzitutto, lui mi deve dire perché mi dà la medicina e su quali
studi scientifici si basa la sua decisione. Impossibile?
Allora chi mi garantisce che il mio dottore è aggiornato
sulle più recenti linee guida e ricerche scientifiche?
Chiedo, anzi, esigo: è un mio diritto sapere che tipo di
studi fa il mio pediatra. “Ma ha fatto l’Università!”. Eh
no, non basta, io voglio, io esigo che il mio pediatra studi
un pochetto tutti i giorni, e che abbia il coraggio di dire
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tutto quello che fa per prepararsi. Se ogni giorno va in
ambulatorio, ogni giorno deve studiare un po’. Ho bisogno
di conoscere il suo curriculum vitae o come cavolo si chiama. Insomma, io voglio sapere cosa fa per essere un pediatra aggiornato! Così avrò più fiducia sulle cose che mi
prescrive e che devo prendere.
UN “INGREDIENTE” IN PIÙ
“Allora Giuditta, siamo a posto? Sono questi gli
ingredienti che vorresti per un pediatra?”. No, c’è ancora
un ingrediente che mi piacerebbe molto gustare. Talvolta,
nella sala dei compiti ci sono dei signori o delle signorine
che aspettano (e non fanno quelle belle cose che il pediatra
ci fa fare in quella stanza dei compiti). Aspettano con delle
valigette, perché poi andranno dal dottore e lasceranno
sulla sua scrivania tante scatole di medicine, tutte colorate
di mille colori. Ho sentito dire che questi signori e
signorine si chiamano “informatori del farmaco”. Un mestiere di tutto rispetto, sono tutti laureati e informano il
dottore delle novità che l’industria farmaceutica offre. Fin
qui tutto bene. Più è informato il mio pediatra, più sono
tranquilla io. Io però sono Giuditta, e sono una bambina
maliziosa. Ho letto da qualche parte - si, leggo, che male
c’è? - che hanno fatto una legge che obbliga a rendere pubblici i regali che l’industria farmaceutica fa ai dottori.
Non ci crederete, ma sembra che i dottori ricevano regali
per molte migliaia di soldi. Wow! Pensate alla quantità di
leccalecca che potrei comprarmi! Non credo proprio che i
medici prendano i soldi, ma un computerino, un congressino al mare in estate, oppure in montagna durante la stagione sciistica, cenette di qua, cenette di là, un rimborso
spese per una relazioncina di su, qualcos’altro di giù… Parliamoci chiaro: perché l’industria farmaceutica dovrebbe
spendere milioni di dollari, o euro, in questo modo?
SPECIALE
Perché dopo il dottore è più felice e mi fa il sorriso? Dai,
non siete scemi, lo sapete anche voi. È stato osservato che
il medico non solo prescrive più facilmente quel farmaco
invece di un altro, ma ne prescrive anche di più. Bene:
questo a me non va bene. Ma mai che senta i miei genitori
al parco a parlare di queste cose con gli altri genitori; uffa
e ancora uffa! Perché il mio pediatra non appende un bel
cartello davanti alla porta con la sua dichiarazione giurata
che non ha partecipato ad alcun congresso sponsorizzato,
o in modo gratuito, e che non ha accettato alcun regalo
dalle industrie farmaceutiche? Questo è un mio diritto,
questo è un ingrediente che voglio dal mio pediatra.
PARLIAMO DI COSE SERIE!
“Ma il pediatra ha il diritto di prescrivere quello che
ritiene giusto. Mica glielo devi dire tu quello che deve
prescriverti!”. Ci mancherebbe, perbacco. Però se io vado
in un ospedale a farmi operare voglio sapere se quella
struttura funziona bene, se ha fatto tante operazioni di
quel tipo, con quali risultati, i successi, le complicanze,
ecc ecc. Così posso confrontare diversi reparti e scegliere
quello che ritengo più giusto. Non dovrebbe essere così
per il mio medico? Perché non posso vedere quali e quanti
farmaci prescrive ogni anno? Prescrive di più o di meno
rispetto a una media europea, prescrive i farmaci di prima
scelta o prescrive delle medicine che sono indicate come
seconda scelta? Ho sentito dire che quello che voglio
sapere viene chiamato report e che alcune ASL, in diverse
regioni, lo fanno con dei sistemi informatizzati, controllando così l’appropriatezza prescrittiva di ogni medico.
Ma io come faccio a sapere queste cose? Mi sembra un
mio diritto volerlo sapere.
“L’orario di reperibilità di qui, il telefono di qua, la segreteria di su, non si trova mai di giù”: basta parlare solo
di queste cose. Papà, mamma: se volete conoscere il pediatra, chiedetegli il suo curriculum, ma non quello che
ha fatto vent’anni fa che ormai non serve più, ma quello
che sta facendo e si impegnerà a fare fino a che non cresco
tutta e chiedetegli se va ai congressi offerti dall’industria
dei farmaci. E non dimenticarvi di chiedergli se è felice e
soddisfatto: io al sorriso che mi regala non ci rinuncio.
[email protected]
FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO
NON SEMPRE INDIPENDENTI
In Italia così come in quasi tutte le nazioni industrializzate l’aggiornamento dei medici è diventato un obbligo
di legge. In Italia è chiamato Educazione Continua in
Medicina (ECM). Tuttavia il sistema sanitario pubblico
raramente finanzia eventi di formazione gratuita per i
medici.
Convegni medici sponsorizzati o eventi formativi gratuiti per i medici, ma pagati dall’industria con relatori
sempre pagati dall’industria dei farmaci sono, purtroppo, quasi sempre la consuetudine per il medico. Tuttavia, questo tipo di formazione rischia di favorire l’amplificazione di un concetto di malattia e di modificare
l’impostazione della pratica prescrittiva medica favorendo, in questo modo, l’aumento delle vendite dei farmaci per quel disturbo. Un problema diffuso in tutto il
mondo e di grande rilievo, considerando il fatto che
l’industria del farmaco investe in queste opere di
marketing un quarto del fatturato annuo, ossia miliardi
di euro ogni anno.
Recentemente è stato pubblicato un libro di un medico
ricercatore inglese, Ben Goldacre, che spiega in modo
dettagliato questi problemi.
Ben Goldacre, Effetti Collaterali. Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti,
Mondadori 2013
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Questa volta parliamo di pediatri
SPECIALE
Nessuno è perfetto
Considerazioni di un pediatra “di lungo corso”
o iniziato il mio
lavoro di pediatra di famiglia proprio nel 1979,
quando questo servizio nacque. Perciò, per forza di cose, sono ormai uno
dei più anziani (ed
esperti,
credo) in
Vincenzo Calia
questo
mestiere.
Pediatra di famiglia, Roma
Non mi sono mai
pentito di questa
scelta e sono consapevole che questi 35 anni mi abbiano
dato moltissimo, probabilmente più di quanto io non sia
riuscito a dare.
Tuttavia, la pediatria di famiglia, che è pur sempre il fiore all’occhiello del nostro Servizio sanitario, è tutt’altro
che perfetta.
H
LA LIBERA SCELTA
Come ci spiega Michele Valente nell’articolo che segue,
alla base di tutto c’è il rapporto di fiducia: ogni famiglia
sceglie liberamente il pediatra di cui si fida di più. In teoria. In pratica la cosa è un po’ diversa: l’elenco dei pediatri da scegliere è limitato; ciascun pediatra non può assistere più di 800 bambini; quando una famiglia deve scegliere un pediatra per la prima volta può optare solo per
un professionista che abbia meno di 800 scelte. Questo
sistema è stato studiato con l’obiettivo (certamente condivisibile) di distribuire equamente gli assistiti fra i pediatri. Il risultato però è un altro: la libera scelta svanisce
per incanto. Infatti, se un pediatra è molto apprezzato, è
anche molto scelto e satura velocemente il suo numero
di assistiti. A questo punto, se altre famiglie volessero
sceglierlo, non potrebbero farlo, ma sarebbero obbligate
a scegliere un pediatra che ha un numero più basso di
assistiti. E che magari pochi scelgono, perché pochi apprezzano. Ecco qui che la libera scelta diventa una scelta
obbligata. Tutti i pediatri, purché siano iscritti nell’elenco della ASL, raggiungono così un notevole numero di
assistiti: quelli di loro che sono meno motivati, meno
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preparati e meno disponibili (e ce ne sono, ovviamente,
come dappertutto) possono anche infischiarsene del giudizio dei loro assistiti, perché comunque avranno uno
stipendio assicurato.
Come si può facilmente capire questo meccanismo non
favorisce il merito; anzi, al contrario, chi meno merita (e
meno lavora), a parità di impegno guadagna di più di chi
è disponibile e lavora molto.
UNA RISTRETTA CERCHIA
C’è poi un altro problema: per quanto possa sembrare
strano a chi non è del mestiere, assistere 800 bambini
non è poi un impegno così gravoso. Fortunatamente infatti la stragrande maggioranza di
questi bambini è costituita da bambini sani,
che hanno bisogno solo di controlli periodici
e di consigli in caso di piccole patologie
intercorrenti. Viceversa, le vere malattie
sono così rare che a un pediatra che assiste “solo” 800 bambini può capitare di
non incontrarle mai, o di incontrarle così raramente, da non permettergli di farsene un’esperienza. E questo non va bene: un buon medico è anche un medico
che ha visto tante cose e sa ricono-
SPECIALE
scerle. A parte i piccoli centri dispersi sul territorio (dove
è impossibile raggruppare un numero consistente di
bambini senza allargare troppo il territorio che si vuole
servire), nelle città grandi e piccole un pediatra, per avere una casistica ragionevolmente ampia, dovrebbe assistere forse 2.000 bambini.
E come troverebbe allora il tempo di fare il lavoro di controllo periodico della salute e di gestione della patologia
banale intercorrente? Be’, questo è un lavoro che può fare benissimo un infermiere preparato ad hoc.
LA PEDIATRIA CHE VORREI
Meglio, dovrei dire “la pediatria che avrei voluto”, perché
ormai ho quasi percorso tutta la mia carriera. Vorrei che
non esistesse un numero massimo di assistiti: ogni pediatra dovrebbe essere libero di decidere in prima persona
quanti bambini può assistere. Nel momento in cui si dovesse rendere conto che questo numero è eccessivo, potrebbe scegliere fra due alternative: fermare l’iscrizione di
nuovi bambini, oppure assumere qualcuno che lo aiuti nel
suo lavoro. Non ci sarebbe, secondo me, nessun rischio di
scadimento della qualità dell’assistenza, perché se questo
dovesse avvenire, le famiglie, realmente libere di scegliere, lo abbandonerebbero e si rivolgerebbero altrove.
In questo modo si premierebbe il merito (chi lavora meglio guadagna di più) e si favorirebbe la crescita di tutto
il servizio (chi riceve poche “preferenze”, e quindi guadagna poco, si darebbe da fare per migliorare e farsi scegliere di più).
Questa prospettiva, fin ora irraggiungibile perché la “convenzione” è stata sempre vincolante, potrebbe essere un’ipotesi concreta in
futuro, quando molte migliaia di vecchi pediatri (come me) andranno in pensione e
non ce ne saranno abbastanza di nuovi per
sostituirli. E così, se si vuole salvare questo
prezioso servizio (e io penso che si debba
farlo), bisogna che cresca il numero di bambini che ciascun pediatra può assistere.
SCEGLIERE INFORMATI
Già, ma chi glielo dice a una famiglia, che magari è al
primo figlio, qual è il “miglior” pediatra disponibile? Certo, c’è il passaparola delle mamme, ma a volte non basta.
Dovrebbe essere proprio la ASL che, come dice Costantino Panza nel terzo articolo di questo speciale, conosce di
ogni pediatra “vita, morte e miracoli” a informare i cittadini: non basta infatti pubblicare elenchi di medici per
favorire una scelta consapevole che sia in grado di andare oltre l’unico criterio di scelta per ora possibile: la vicinanza dello studio alla propria casa.
Ogni pediatra dovrebbe essere identificato con tutta una
serie di parametri, comprensibili da tutti: quanti bambini assiste, quante medicine prescrive, quanti accertamenti, quanti dei suoi assistiti si rivolgono in ospedale
invece che a lui, quanti sono i bambini correttamente
vaccinati fra quelli che lui segue, quanti sono allattati al
seno, come svolge la sua formazione medica e il suo aggiornamento, se lavora da solo o con altri collaboratori,
per quante ore è aperto il suo studio e così via.
Tutte queste notizie dovrebbero essere note alla famiglia
prima di scegliere il pediatra e queste schede, naturalmente, dovrebbero essere aggiornate di continuo. Anche
questo, ne sono certo, sarebbe un incentivo a migliorare.
[email protected]
RICETTE BIANCHE E ROSSE
I pediatri, come tutti i medici del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) hanno nel cassetto un bel blocchetto di…
assegni in bianco: sono le ricette rosse con cui prescrivere farmaci, visite o accertamenti. A ciascuna di queste ricette corrisponde una spesa a carico del SSN (e
cioè a carico di tutti noi). Ognuna di queste ricette passa dalle mani del paziente a quelle del farmacista o dello specialista, ma va anche a un centro di controllo,
che monitorizza tutte le prescrizioni e ne verifica la
correttezza. Anche i pazienti hanno la loro responsabilità: ogni prescrizione ha il suo peso.
Ci sono poi le ricette bianche, quelle su cui prescrivere
i farmaci che il SSN non passa e che il paziente paga di
tasca propria.
37
La parola ai genitori
Le notti di Elisa
Quando le ore di sonno sono scarse, la mattina la sveglia
suona prima delle sette, la sera non riesci ad andare a letto presto…
Elisa Bedoni
Zafferana Etnea (CT)
LA PAROLA AI GENITORI
Questa mail ci è sembrata così eloquente e spontanea che non abbiamo
potuto fare a meno di accogliere la richiesta della nostra lettrice e pubblicare il suo intervento.
È vero, l’esperienza diretta, spesso,
è più eloquente del parere dell’esperto.
ari dottori, non vi scrivo per fare
delle domande ma per condividere i miei pensieri le mie esperienze di mamma.
Ho letto con molto interesse lo speciale “Notti bianche, giorni neri” (n.
6, 2013 a disposizione in formato
pdf per tutti gli abbonati sul sito
www.uppa.it)) e come sempre ho
trovato nelle vostre parole spunti di
riflessione e consigli utili.
A livello teorico mi trovo d’accordo
con tutto quello che ho letto. Ho apprezzato anche molto la “critica”
(sempre costruttiva!) a quei libri che
sembrano offrire la soluzione e devo
dire che, la sera stessa in cui ho letto
lo speciale, ho cercato di mettere in
pratica il metodo dell’affievolimento
dell’intervento dei genitori. E da qui
sono iniziate le mie riflessioni.
C
38
HO TRE FIGLI
Tommaso ha quasi otto anni, Viola
ne ha sei e Francesco ha undici mesi.
Premetto che sulla questione sonno
sono arrivata del tutto impreparata.
Prima di diventare mamma, non
avevo letto nulla e quel poco che sapevo era per sentito dire. Fatto sta
che Tommaso già nei primi mesi si
sapeva addormentare da solo, tanto
che quando era intorno all’anno di
età, dopo il classico rituale, lo mettevo nel lettino, lui faceva ciao ciao
con la manina, io me ne andavo. Lui
si addormentava… e dormiva tutta la
notte. Un paradiso. Non chiedetemi
come ho fatto perché non ricordo
nulla!
Poi è arrivata Viola, mamma-dipendente, si addormentava solo al seno,
si svegliava ogni tre ore; poi, abbandonato il seno a quattordici, o forse
quindici mesi, ha cominciato a dormire tutta la notte. Non chiedetemi
come ho fatto... perché neanche di
questo ricordo nulla!
Fin qui tutto secondo le teorie che
voi indicate.
Però, ora cosa succede? Succede che
da qualche anno Tommaso si vuole
addormentare sempre con un adulto
vicino e tutte le notti (o quasi) viene
nel lettone, perché da solo non si
riaddormenta. Mentre Viola, che si
addormenta anche da sola, dorme
tutta la notte e se si sveglia, per una
pipì o un po’ d’acqua, se ne ritorna
tranquilla nel suo letto e si riaddormenta da sola. Immagino che siano
intervenuti numerosi altri fattori,
ma sembrerebbe che, indipendentemente da come gli si “insegna” ad
addormentarsi, il futuro rimane
un’incognita.
Ma veniamo all’ultimo arrivato e alla
conclusione dei miei ragionamenti.
Mentre con i primi due ero impreparata su molti temi, all’arrivo di Francesco mi ero ormai fatta una vasta
cultura (e anche una buona esperienza) su allattamento, accudimento, contatto, (auto)svezzamento. Anche grazie a UPPA, ovviamente. Ma
quando mi sono ritrovata tra le braccia quello scricciolo, mi sono resa
conto di alcune cose. Primo, che mi
ero dimenticata completamente di
cosa volesse dire avere tra le braccia
un neonato e di quanto duri fossero i
primi tre mesi. Secondo, che all’aumentare del numero di figli diminuiscono la capacità, la forza, il tempo e
la voglia per rimanere fedeli alle
proprie posizioni, ideali, intenzioni,
obiettivi, o come altro li vogliamo
chiamare. E sotto un certo aspetto è
stato un bene, perché ho abbandonato un po’ della mia rigidità, che
forse non portava vantaggi a nessuno. Ma il punto più difficile su cui
mediare tra stanchezza e intenzioni
è stato proprio il sonno.
ODDIO, NON CE LA FACCIO PIÙ
Credo anche di essere stata brava ad
andare incontro alle esigenze di
Francesco, e alle mie. Perciò, mentre
i primi giorni dormiva addosso a
me, quando ho iniziato a capire che
era pronto per staccarsi, l’ho delicatamente accompagnato, spostandolo
prima accanto a me, ma abbracciato,
poi non abbracciato e poi nella culla,
vicino a me e poi più lontano, fino al
traguardo del lettino. Mi rendevo
conto che era pronto per quel passo
e agivo di conseguenza.
Però devo fare una confessione:
spesso non ho voglia di fare fatica, di
notte, per cercare di riaddormentare
Francesco nel suo lettino o riportare
Tommaso nel suo letto. Quando le
ore di sonno sono scarse; la mattina
la sveglia suona prima delle sette; la
sera non riesci ad andare a letto presto perché ti ritrovi a sbrigare alcune
faccende dopo che tutti dormono; o
semplicemente ti ritagli del tempo
per leggere un giornale o scrivere
una lunga lettera a UPPA, o magari
guardare tuo marito negli occhi nel
silenzio della casa; quando non hai
modo di riposarti di giorno perché il
piccolo dorme, ma tu devi approfittarne per preparare il pranzo (e magari insieme la cena), oppure per sistemare i pannolini (lavabili ovviamente!) o le montagne di vestiti lavati o da lavare; e poi nel pomeriggio
ci sono i due grandi che devi aiutare
a fare i compiti, accompagnare a
musica, in palestra, a catechismo o
dagli amici; e magari cercare anche
di giocare un po’ con loro o leggere
un libro in loro compagnia, il tutto
senza l’aiuto dei nonni che vivono a
più di mille chilometri di distanza…
Beh, scusate, ma proprio non ce la
faccio!
E allora al primo risveglio di Francesco, che si riaddormenta al seno,
perché così è più facile, infinitamente più facile, lo rimetto nel suo lettino e aspetto che si riaddormenti
profondamente per non dovermi
rialzare dopo cinque minuti, al secondo risveglio ci riprovo di nuovo,
ma al terzo (quando non è il quarto
o il quinto!), quando guardo timorosa la sveglia e mi rendo conto che
dopo neanche un’ora quella suonerà
impietosa, se lui non è completamente addormentato me lo accoccolo nel lettone e buonanotte al secchio.
Perché così è più facile, infinitamente più facile!
E poi, onestamente parlando, spesso
è anche un piacere infinito tenerselo
tra le braccia addormentato.
CONCLUSIONI
E allora, ecco la mia conclusione. Al
primo figlio si possono fare tutti i ragionamenti del mondo e cercare di
essere fedeli ad essi. Al secondo forse. Dal terzo in poi credo sia molto
difficile, se non impossibile. E allora
si lascia tutto, non dico al caso, ma
al proprio istinto o bisogno del momento. Eppure dicono che i terzi figli crescano benissimo. Staremo a
vedere.
Vi lascio con una provocazione. Perché su questi temi non strettamente
medici, non fate parlare anche i diretti interessati, cioè noi genitori?
Perché tra il dire il fare, si sa, c’è
sempre di mezzo il mare, e quando
si parla di figli c’è un oceano immenso. L’esperienza di qualche mamma
forse può valere tanto quanto la voce
di tanti esperti.
[email protected]
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Mai più senza
La cameretta
dei sogni
La solita storia di principesse e avventurieri
sce però ad allontanarsi dagli stereotipi. Sfogliando il catalogo junior è
tutto un déjà vu e i soliti schemi
bambine-principesse, maschietti-avventurieri invadono le pagine in sezioni ben separate.
Tiziana Cherubin
Mamma di Michelangelo,
Colle Umberto (TV)
genitori hanno molti dubbi: gli
darò troppe attenzioni, gli darò poche attenzioni, sarà bene fargli fare
uno sport, aiutare la disciplina con
faccine premio, note di demerito,
raccolte punti? E così finiscono per
chiedere lumi sulle cose più ovvie allo psicologo di turno. Ma c’è una cosa dove non esiste tentennamento,
una tematica che più di tutte smuove gli animi e le coscienze, dove non
c’è margine di dubbio e l’assemblea
di genitori diventa improvvisamente
un unico blocco di indispettita convinzione granitica. Non toccategli la
certezza fondante, la sacra legge: ci
sono cose da maschi e cose da femmine. Questo teorema ormai vale in
qualsiasi ambito e non si limita all’abbigliamento o agli accessori personali: dai quaderni alla cameretta è
ormai tutto “per lui” o “per lei”, con
le stilizzazioni - culturali o commerciali - del caso. Maisons du Monde,
azienda francese di mobili e oggetti
d’arredo, ci invita al viaggio e alla
scoperta per creare “uno stile personale”, malgrado gli intenti non rie-
I
40
NULLA È CAMBIATO
Le “Principesse moderne” adorano
ciò che brilla, trasformano il peluche
in principe azzurro e amano giocare
alle star, e se rivendicano un diritto
è quello di avere il proprio angolo di
bellezza; quindi è obbligatorio il mobiletto da toilette con specchiera e
cassettini.
Tutto gioca sui temi di avventure e
esplorazioni invece per lui, dalla
giungla agli spazi interstellari non ci
sono dubbi, diventerà un esploratore, o pilota di formula 1, pirata, surfista. Non si scappa.
Grandi sforzi di creativi e designer
per star dietro all’immaginazione dei
bambini (o meglio all’immaginario
che vogliamo appiccicargli addosso)
che però è ben più vasta di un universo limitato a cinque temi. Il letto
di un bambino o di una bambina
può avere moltissime vite, essere
un’isola da esplorare, una zattera di
salvataggio, un treno, una nave, una
casa, un villaggio, un intero mondo
che cambia seguendo gli imprevedibili guizzi della fantasia. Perché confinare i nostri bambini in un’ambientazione così rigida e affibbiargli
un ruolo tanto preciso?
Un ruolo che in ogni caso, per forza
di cose, sarà presto superato, insieme al comodino-giraffa o al lettino-
macchinina con tanto di ruote...
Ripenso alla camera della mia infanzia, legno chiaro e scansie modulari,
dove hanno dormito poi i miei fratelli, che non poneva vincoli di sesso
o età, un vero spazio libero da abitare e personalizzare.
[email protected]
LA BANALITÀ DEL MONDO
In Europa con più di 200 negozi,
“La maison du monde” è presente
anche in Italia: commercializza mobili ispirati al fascino esotico di India, Cina, Marocco. Peccato che nel
catalogo “junior”, da 0 a 16 anni,
non si sottragga alla banalità dilagante e ai soliti schemi: dolcezza inerte
per le femmine e mondi avventurosi
per i maschi. Evidentemente così
funziona il mercato. E noi genitori?
Siamo ancora in grado di scegliere e
ragionare, o è più semplice e rassicurante seguire uno schema preconfezionato, invece che mettersi in
ascolto dei gusti e delle aspirazioni
dei nostri figli?
Lo so fare anch’io
Lo sciroppo di menta
Per fare una bevanda fresca e dissetante
a menta è una pianta erbacea
molto diffusa alle nostre latitudini e utilizzata da secoli in cucina e
come pianta medicinale (ha proprietà digestive, antisettiche e antispastiche). È una pianta infestante,
di facile coltivazione, che si può far
crescere in vaso sui balconi, in prati
o giardini o anche raccogliere quando cresce libera nelle campagne. Esistono molte varità di menta, in Italia
la più utilizzata è la menta piperita,
mentre le varietà che sono diffuse
spontaneamente in campagna solo
la mentuccia e il mentastro. La menta viene utilizzata per preparazioni
dolciarie (caramelle e non solo), ma
anche in cucina per aromatizzare
carne, risotti, frittate, insalate. Uno
dei suoi utilizzi più comuni è quello
in sciroppo per preparare bevande
dissetanti a base di acqua o di latte e
ghiaccioli. Quindi se coltivare la
menta è semplice, perché non prapararsi in casa lo sciroppo?
L
PREPARIAMO LO SCIROPPO
Per preparare circa un litro di sci-
per tutta l’estate e, perchè no, per
l’inverno.
Alla fine della preparazione scoprirete una piccola sorpresa: lo sciroppo di menta autoprodotto non è verde! Può avere un colore che varia dal
bianco perla al giallo-verdino chiaro
e ha un aspetto molto più naturale di
quelli acquistati al supermercato;
inoltre posso aggiungere che lo sciroppo autoprodotto è decisamente
più buono, perché ha il gusto di poter dire “l’ho fatto io!”
[email protected]
GHIACCIOLI LATTE E MENTA
Ingredienti per 4 ghiaccioli:
2 cucchiai di sciroppo di menta,
120 ml di latte
Veloci da preparare, i ghiaccioli latte e menta possono diventare
un’ottima e fresca merenda estiva.
Versate in un contenitore il latte e
lo sciroppo di menta, mescolate bene con un cucchiaio e versate il liquido in uno stampino da ghiacciolo. Dopo qualche ora di freezer saranno pronti.
Foto123RF
Elena Uga
Gruppo ACP, Pediatri per un
Mondo Possibile
roppo di menta servono 350 grammi
di foglie di menta fresche, un litro
d’acqua, 500 grammi di zucchero,
un limone non trattato e una bottiglia di vetro. Innanzitutto, si inizia
raccogliendo le foglie e questa è forse l’operazione più lunga. La menta
cresce in ramoscelli che raggiungono
al massimo il metro di lunghezza, ricoperti di piccole foglioline verde
brillante. Le foglie raccolte vanno
ben lavate e separate dal rametto:
fate attenzione perché i 350 grammi
necessari devono essere costituiti di
sole foglie, senza rami. Le foglie vanno poi messe in un contenitore (se
vogliamo un risultato migliore possono essere pestate in un mortaio o
frullate con un robot da cucina, ma
se si ha particolarmente fretta lo sciroppo viene bene anche utilizzando
le foglie intere). Si fa quindi bollire il
litro d’acqua e si getta l’acqua bollente sulle foglie aggiungendo la
buccia grattugiata del limone; il
composto ottenuto va lasciato macerare almeno 24 ore. Passato questo
tempo, filtrate il tutto con un canovaccio, strizzando fino all’ultima
goccia. Il liquido ottenuto va messo
in una pentola con i 500 grammi di
zucchero. Si scalda il tutto a fuoco
lento girando fino a quando lo zucchero è sciolto, ovviamente più lunga sarà la cottura maggiore sarà la
concentrazione dello sciroppo. Lo
sciroppo va poi versato in una bottiglia di vetro ben lavata che va tappata solo dopo che lo sciroppo si sarà
raffreddato. In questo modo lo sciroppo si conserva molto a lungo,
possiamo anche prepararci le scorte
Letture per genitori
Una grande occasione
da non perdere
La scuola e le sue parole: il libro di Maria Pia Velariano
Sonia Bozzi
Redattrice di UPPA, Roma
e snocciola una
dopo l’altra e
quando le leggi senti risuonare un’eco
profonda: integrazione, armonia, paura, equità, timidezza. Sono alcune delle parole con le quali Maria Pia Veladiano descrive la scuola nel suo ultimo libro, Parole di
scuola, appunto (Erickson, 2014). Un libro breve e intenso che riconosce a questa nostra istituzione dello Stato,
impoverita e trascurata, un ruolo cardine e insostituibile,
quello di “unico luogo in cui tutti, davvero tutti, si incontrano: italiani, stranieri, ragazzi con disabilità, poveri di
cultura e di mezzi e ricchi di tutto.”
E se è vero che la scuola è la grande occasione per conoscere l’altro, per imparare a stare insieme, per trasformare le parole in esperienze, è anche il primo luogo dove
s’impara il significato della parola “integrazione” che, come ricorda Veladiano, non è sinonomo d’inclusione, perché non basta stare dentro qualcosa per farne parte.
L’integrazione implica un’interazione, un dialogo, una
relazione di conoscenza e di rispetto, un cambiamento
della realtà esistente, un “farla diventare come deve essere, integra”. Implica impegno, curiosità e riconoscimento
dell’altro.
Allora anche saper pronunciare i nomi degli alunni, dei
compagni, in modo corretto diventa il primo passo verso
l’integrazione. Oggi nella scuola arrivano bambini di tutto il mondo, i cui nomi a volte sono difficili da pronunciare ma se “chiamare per nome significa vedere”,
confondere un nome con un cognome, per sciatteria o
noncuranza, vuol dire togliere significato, negare una
storia o cancellarla senza neanche rendersene conto.
L
L’EQUITÀ TRADITA
E poi, più forte delle altre risuona la parola “equità”, o
meglio la sua assenza all’interno della scuola. Maria Pia
Veladiano definisce l’incapacità di garantire l’equità “il
male più grande che devasta la scuola italiana, anzi, ancora peggio, imputa alla scuola attuale di agire da “moltiplicatore di disuguaglianza”. Non sono sensazioni, sono fatti: in tutte le Regioni italiane la dispersione scolastica raggiunge il 10%, a eccezione del ricco Trentino Alto Adige,
dove è sotto il 2%. I risultati nazionali per livelli di competenza vedono gli studenti del centro, del sud e delle isole molto al di sotto delle medie nazionale e dei valori OCSE. Basta essere nati nella regione sbagliata e la scuola si
trasforma da opportunità in ostacolo da superare, e a non
superare gli ostacoli sono sempre gli stessi. E qui viene
chiamata in causa l'inerzia colpevole della politica.
Ma a fronte e, verrebbe da dire, a dispetto delle gravi
mancanze di chi governa, ci sono il senso di responsabilità e l’ottimismo di chi la scuola la fa e la vive con passione, di chi riconosce le differenze e sa valutare un ragazzo nel suo essere persona e non solo studente. Così
Maria Pia Veladiano scrive l’elogio degli studenti timidi,
quelli che s’incontrano raramente e scompaiono dietro
una classe di esuberanti perché “camminano con passo
leggero” ma che pure desiderano esserci “sotto un mantello d’invisibilità”. È importante riconoscerli, per non
perderli, per dare anche a loro le stesse opportunità degli
studenti esuberanti, brillanti, spesso a un passo dalla
maleducazione.
La conosce bene la scuola Maria Pia Veladiano, per aver
insegnato tanti anni. Ora è diventata preside e dirige la
sua scuola cercando sempre di mettere le parole al centro, perché, afferma, le parole hanno un grandissimo potere, “possono essere forti senza essere violente, possono
trasformare il mondo”.
[email protected]
Foto Lucia Poggiali
Nati per leggere
Le parole che aiutano
Se non le troviamo, chiediamole a un libro
Simona Fiscale
Lettrice volontaria,
Nati per Leggere
iascuno cresce solo se sognato” - l’educatore e poeta Danilo Dolci concludeva con questo verso
una sua poesia pubblicata ne “Il limone lunare”, in cui esprimeva il
suo pensiero, circa la necessità di sognare gli altri come ancora non sono, ma potrebbero diventare se ne
avessero l’occasione. Per “occasione”
si intende il risultato positivo di un
lungo percorso condiviso con una o
più figure di cura, improntato sulla
comprensione e sull’incoraggiamento, con apporti di stima e fiducia che
alimentano sogni e quotidianità del
bambino.
“C
IL FUTURO DI UN BAMBINO
È necessario tenere ben in mente che
il futuro di un bambino viene edificato sulle fondamenta di ciò che vede,
vive, respira e ascolta: le parole dei
suoi genitori lo nutrono e lo guidano
nel suo percorso, se sono parole di
amore e fiducia o, al contrario, posso-
no inibirlo e mortificarlo, se sono pescate con violenza in un lessico di segno opposto. Un atteggiamento aperto e accogliente da parte delle figure
di attaccamento nei confronti del
bambino favorisce lo sviluppo di una
qualità importantissima che sarà utilizzata per fronteggiare le difficoltà
della vita: una caratteristica che negli
ultimi anni gli psicologi hanno definito con il termine di resilienza, una
parola mutuata dall’ingegneria industriale che indica la capacità di un individuo di reggere agli urti della vita,
di reagire alle avversità, facendo appello alle proprie risorse interiori per
rispondere alle circostanze avverse.
Se si può considerare valida l’idea che
le avversità fortificano e mettono l’individuo di fronte alla necessità di reagire, non si può sottovalutare che bisogna creare le condizioni affinché il
bambino possa rispondere a quelle
difficoltà, attingendo al proprio bagaglio di fiducia in se stesso e in ciò che
lo circonda, aspetti che devono essere
coltivati già dall’infanzia.
Le parole da destinare a un bambino
sono speciali, sempre importanti e
vanno quindi scelte con cura. Quando ai genitori non vengono in mente
le giuste parole è possibile chiedere
aiuto ai libri. Infinite sono le parole
giuste se il messaggio che si vuol far
arrivare è - “sono qui per te”, e quel
messaggio arriva chiaro e diretto
quando un bambino è nell’abbraccio
di una voce amata che racconta una
storia.
[email protected]
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Nati per leggere
Le mamme
e un universo di colori
Una lettura a tutto tondo, da gustare con gli occhi,
con le mani e con le orecchie
Anna Rita Marchetti
Libraia di Ponteponente, Roma
a mamma è
tante cose...”.
Inizia così l’ultimo
albo illustrato della
casa editrice Kalandraka dal titolo semplice ed emblematico “La mamma”. Una semplicità che si ritrova anche
nel testo in rima, scritto dalla stessa illustratrice del libro, Mariana Ruiz Johnson, fatto di pochi versi, come
fosse una poesia di Montale.
Il libro, nato per un pubblico di piccolissimi lettori (0-3
anni) colpisce soprattutto per le immagini, quasi un inno
al colore, all’arte popolare latinoamericana, alla natura
dominante. C’è una continua similitudine tra quanto accade intorno a noi, agli animali e alle piante e quanto si
trasforma nel corpo di una donna nel corso degli anni.
Maternità, gioco, sentimenti, crescita, tutti passaggi che
riceviamo dall’ambiente e trasmettiamo ai nostri figli.
L’essere umano è una specie accanto alle altre e il tutto
celebra la Madre Terra nella sua totalità: ambienti naturali, organici e altri frammenti, tutti insieme nel mondo.
“L
UNA LETTURA DAI TEMPI LENTI
La giovane argentina Ruiz Johnson sembra apprezzare
molto l’universo naturale ma soprattutto l’arte del pittore Paul Klee e la definizione che lui stesso ne diede:
“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile
ciò che non sempre lo è”. Tanto rosso, giallo, blu come se
i colori primari si unissero nell’attimo in cui si apre il libro e componessero tavole naturali. Proprio questa forza
espressiva e cromatica dei disegni ha fatto vincere alla
Johnson il VI Premio Internazionale Compostela 2013
per albi illustrati; un premio voluto dal Dipartimento di
educazione del Comune di Santiago di Compostela, che
organizza ogni anno insieme alla casa editrice spagnola,
la Campagna di Animazione alla Lettura.
L’invito è quello di lasciare a questa lettura i tempi calmi,
lunghi e riflessivi che i bambini amano concedersi, quelli
che permettono non solo di guardare ma anche di osservare e gustare. Una lettura a tutto tondo, da fare attraverso
le immagini, il tatto, la simulazione e la rappresentazione.
A margine, una curiosità sull’uscita di questo volume: è
negli scaffali delle librerie in “versione panino”, chiuso
dentro a un bel quadernetto a fogli bianchi dove prendere
appunti sparsi. A uso di quelle mamme indaffarate, piene
di impegni sovrapposti, che hanno bisogno di segnarsi
un’idea vista sul tablet, di scrivere un pensiero mentre preparano l’ultima campagna promozionale per il capo, insomma per quelle donne fatte di “tante cose”.
[email protected]
KALANDRAKA
La casa editrice Kalandraka ha iniziato le sue pubblicazioni in Italia il 2 aprile 2009, proprio in coincidenza
della Giornata internazionale del Libro per Bambini e
Ragazzi, nonché compleanno di Hans Christian Andersen. Questa della giornata è un evento voluto da Ibby,
l’associazione impegnata a promuovere la conoscenza
dei libri di qualità nel mondo, che ogni anno lancia un
tema e invita autori e illustratori a creare per il proprio
paese un manifesto per i bambini. Kalandraka da sempre ha voluto sposare lo spirito di Ibby e da sempre
adatta racconti tradizionali e fiabe classiche per piccoli
lettori. Una volontà che ha costituito addirittura una
collana specifica “Libri per sognare”, solo albi illustrati
concepiti con il massimo rigore estetico e letterario. Libri che oltrepassano i confini geografici, perché tradotti
in cinque lingue e sempre presenti alle fiere di settore.
Non a caso, nel 2012 il Ministero della cultura spagnolo
le ha assegnato il premio per miglior lavoro editoriale.
Nati per la musica
Piccoli musicisti crescono
Quando e come scegliere uno strumento
Annibale Rebaudengo
Insegnante di pianoforte
al Conservatorio di Milano
oward Gardner, lo psicologo statunitense studioso
delle intelligenze multiple, ci ricorda che il bambino
fra i quattro e i sette anni è creativo per sua natura: gli
bastano pochi stimoli per impegnarlo; l’assillo di chi gli è
a fianco è improduttivo se non dannoso. L’esplorazione
dello strumento musicale, del rapporto fra il movimento
di parti del suo corpo e la creazione di suoni lo coinvolge
con curiosità.
Compito dei genitori e dell’insegnante è di creargli intorno
un ambiente sereno e protettivo, che sia d’aiuto ad affascinarlo al mondo artistico, dove il suo impegno venga apprezzato senza ansie di precoci performance. Dobbiamo
fornirgli gli stimoli appropriati, sonori e gestuali che con
gradualità fondino le prime conoscenze musicali e le prime
abilità strumentali. Saranno pochi i suggerimenti che faranno acquisire al bambino le prime abilità, senza forzare
i ritmi d’apprendimento. Si dovrà valorizzare l’intuizione
del bambino per far fiorire la musicalità che c’è in lui.
Il bambino suona le composizioni sue o didattiche nella
loro interezza, non ha ancora capacità nello scomporle in
segmenti e sente come una violenza il lavoro che non sia
di per sé gratificante; solo quando sarà più adulto riuscirà
a rimandare a un secondo momento il piacere del risultato. Ciò che noi consideriamo “studio” è già per lui far musica compiutamente. Lo sa bene chi segue i suoi disegni:
dopo pochi tratti il bambino cambia foglio convinto di
aver terminato l’opera.
Il bambino tra i cinque e i sette anni è poi sperimentatore:
impara per prove ed errori e passa buona parte del suo tempo allo strumento a “pasticciare”, così insegnanti e genitori
incautamente e in maniera castrante denunciano gli uni agli
altri i legittimi “scarabocchi” strumentali del bambino.
Il bambino a questa età, non avendo formato un criterio
estetico, è sospeso nel giudizio. È disponibile a suonare e
ad ascoltare musiche di stili che solo la pigrizia dei docenti
e le aspettative della famiglia considerano lontane dal suo
mondo percettivo.
H
A OGNI BAMBINO LA SUA MUSICA
Gardner declina interessanti differenze fra un bambino e
l’altro: ci sono i narratori che suonano una storia, i visua46
lizzatori che suonano stimolati da immagini, gli iniziatori
che con un minimo stimolo procedono nella creatività, i
finitori che completano e rifiniscono, quelli centrati sulla
persona sono interessati alla comunicazione più che alla
precisione dell’esecuzione, mentre i bambini centrati sull’oggetto della creazione sono meno attenti a chi li ascolta.
Le bambine adotterebbero preferibilmente codici misti, i
bambini preferibilmente un unico mezzo espressivo.
La ricaduta didattica di questa ricerca dell’autore americano comporta un adeguamento della didattica strumentale
sul piano della comunicazione con l’allievo, delle modalità
d’insegnamento, delle attività intorno alla musica. Come
dire che se alcuni bambini, istintivamente, collegano la loro
esecuzione a un racconto, altri preferiranno immaginare
un paesaggio e altri ancora saranno centrati unicamente
sui suoni. Ci sarà chi con due note a disposizione improvviserà per lungo tempo e chi avrà bisogno di un materiale
più formalizzato. Ci sarà chi cura tutti i particolari e vorrà
avere molte notizie a disposizione. Chi sarà stimolato dalle
metafore dell’insegnante e chi ne sarà infastidito. Chi a costo di sbagliare qualche nota si lascerà andare per comunicare emozioni e chi preferirà essere attento a ogni dettaglio a spese della comunicazione e chi, suonando solo per
sé, svilupperà la sua sensibilità interiore senza verificare se
il suo messaggio musicale passi all’esterno. Ognuno di noi
può continuare la casistica e per ogni allievo troverà un singolo approccio alla musica e al suo strumento.
IL MOMENTO È ARRIVATO
Fra gli otto e i tredici anni il ragazzo è attento alle regole
dei linguaggi che già conosce: è il momento di mettere un
po’ d’ordine con consapevolezza, se il giovane strumentista ha già un’esperienza musicale e strumentale. Ma dobbiamo prestare attenzione alla didattica che inizia dalle regole per chi ancora non conosce il linguaggio musicale. Se
il giovane strumentista non ha avuto ancora modo di “fare
musica” è bene agire parallelamente (fare e sapere).
Questa è l’età in cui il bambino è disponibile a impadronirsi dei codici, è anche l’età in cui facilmente si uniforma
al giudizio del gruppo: non solo si vuole vestire come i suoi
amici, ma il giudizio non è più sospeso, quel che dicono e
ascoltano le sue figure di riferimento conta, eccome. L’im-
mersione in certi repertori musicali che amici e familiari
propongono come modelli diventano o possono diventare
alternativi a quelli scolastici. Per genitori e insegnanti, il
sapersi rapportare al suo mondo sonoro diventa essenziale
per rinforzare le sue motivazioni.
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LA SCELTA DI UNO STRUMENTO
Prima di scegliere bisogna conoscere. È una regola per
i piccoli e per i grandi in ogni situazione della vita, ed
è valida anche per la musica. Non c’è miglior metodo
che far fare a un bambino il “giro degli strumenti”. Farglieli ascoltare, vedere, toccare, provare a suonare - da
soli e con la guida di un insegnante. Il suono, il colore,
la forma, il garbo dell’insegnante, la supposta facilità
nel produrre i primi suoni, possono essere motivi di una
scelta che non siamo in grado di anticipare. Ogni bambino dovrebbe essere messo nelle condizioni di provarli,
se non tutti, almeno alcuni. Ma se i bambini sono ai primi anni di vita, allora è meglio iniziare con la musica legata al movimento del corpo, con lo strumentario didattico e con la voce.
SUONARE CON GLI ALTRI
Certo, la musica è anche un dialogo con se stessi, un rifugio nella propria immaginazione. Ma è anche un formidabile strumento di socializzazione. Si suona tra bambini, ma l’insegnante in ogni lezione dovrebbe dedicare un
po’ di tempo a suonare in “duo” con i propri allievi. Per
dare loro l’emozione di entrare nella musica presi per
mano, per condurre una didattica dell’imitazione simile
a quella del genitore che, nel dialogo con il figlio, gli insegna a parlare unendo apprendimento e affetto.
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Le ricette di Caterina
Freddi e squisiti:
perfetti per l’estate
Foto123RF
Cinque piatti facili
on il bel tempo
è giusto passare
tutto il tempo possibile all’aperto a
giocare e divertirsi
e risolvere il problema dei pasti in
maniera veloce e
organizzata, in modo
da poter arrivare
Caterina Vignuda
a
casa
e mettersi suPediatra di famiglia, Roma
bito a tavola.
I piatti freddi sono
una grande soluzione, si preparano la sera, in contemporanea alla cena, e il giorno dopo si vive di rendita.
C
Insalata al pesce azzurro
Comprate uno sgombro fresco, è facile da trovare ed è anche economico. Lavatelo bene, poi mettetelo a bollire con
poca acqua, una fetta di limone, cipolla e carota.
Dopo 10 minuti sarà cotto, spegnete e lasciatelo nell’acqua.
Cuocete, anche nel forno a microonde, dei dadini di patate
e carote, poi spinate lo sgombro e riducetelo a pezzettini
con le mani, così vi assicurate che non ci siano spine.
Si condisce ancora tiepido con olio e limone, poi si mette
in frigo e si mangia freddo, per i più golosi, con un cucchiaino di maionese.
Frittata di pasta
A cena fate avanzare un po’ di spaghetti al pomodoro,
metteteli in una pentola antiaderente con un velo d’olio
(è molto importante avere una pentola antiaderente che
proprio non attacca, altrimenti sarà tutto più difficile) e
fate rosolare a fuoco alto la pasta senza girarla troppo,
schiacciandola sul fondo e facendole fare una crosticina.
Adesso versate un uovo sbattuto con del parmigiano dose per circa 50 grammi di pasta - facendolo penetrare
bene tra gli spaghetti, aspettate un minuto, girate la frittata servendovi del coperchio e, sempre a fuoco alto, fare
rosolare anche l’altro lato.
Naturalmente è buona anche calda, ma fredda, tagliata a
fettine si può portare al parco per un brunch.
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Spiedini freddi
Piatto superfacile e molto colorato. Preparate del melone a
dadini e arrotolate intorno una strisciolina di prosciutto
tagliato sottile, poi infilate tutti i dadini su uno spiedino.
Sull’altro spiedino mettete dadini di pomodoro e mozzarella, serviteli insieme, l’effetto dei colori sarà molto invitante.
Coppette di pollo
Lessate del pollo (ideale la sopracoscia, meno asciutta
del petto) poi togliete la pelle e tagliate a dadini. Mentre
il pollo si lessa tagliate una carota a striscioline, affettate
sottili due foglie di lattuga e una fettina di peperone giallo dolce, condite solo con il sale. Quando la carne sarà
cotta le verdure avranno perso un po’ di acqua, scolatele,
aggiungete il pollo, un cucchiaio di yogurt, poco olio e
una spruzzatina di ketchup.
Rigirate, mettete in una coppetta, decorando con qualche strisciolina di verdura e lasciar raffreddare.
Farro estivo
Lessare il farro per il tempo scritto sulla confezione. Nel
famoso tegame antiaderente fate cuocere a fuoco alto in
poco olio, una zucchina, un peperone, una melanzana,
tagliate tutto a striscioline molto sottili (esistono molti
robot da cucina che lo fanno benissimo) per 5-6 minuti,
poi aggiungete il farro, rigirare bene, spegnete lasciando
il coperchio.
Dopo una decina di minuti mettete tutto in una ciotola che
andrà in frigorifero, e il giorno dopo deciderete se vorrete
fare i vegetariani o se vorrete arricchire questo piatto con
uovo sodo, o dadini di formaggio, o tonno, o della carne cotta rimasta del giorno prima (ve lo consiglio, la tritate nel
mixer, non troppo, poi la condite con olio e limone e la aggiungete al farro, otterrete un piatto completo e veramente
saporito, e poi avrete utilizzato in maniera creativa un avanzo, cosa che gratifica molto le aspiranti cuoche).
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Vengo anch’io
Il Museo
dell’Ovvio
La straordinaria raccolta
di un maestro un po’ testùn
he in Italia le regioni siano un
artificio amministrativo in alcuni
posti lo si nota più che in altri. A Parma, Mantova e Cremona si è nello stesso territorio per il dialetto, per il cibo,
certo, ma anche per i tanti luoghi densi di storie comuni
della Bassa padana e del suo straordinario mondo contadino e rurale. A Piadena, provincia di Cremona, ogni anno c’è la festa della Lega di cultura, con canti popolari,
grandi pranzi sotto enormi capannoni, immersione totale in una dimensione comunitaria e gioiosa. E c’è, ad Ozzano Taro in provincia di Parma, la Casa-Museo di Ettore Guatelli. Se Gianni Bosio, nato nel mantovano, di quel
mondo ha raccolto le storie in forma di canti, Guatelli
l’ha fatto in forma di oggetti con cui mano a mano ha
riempito la casa e il grande caseggiato ad essa annesso,
dimora mezzadrile dei suoi genitori contadini.
Formalmente può ricordare un museo del mondo contadino, come tanti nati negli anni ‘70 del Novecento, ma
non lo è. Queste stanze delle meraviglie, alcune enormi,
come il “salone”, altre minuscole come “la stanza della
zia”, tutte stipate di oggetti in un ordine che non è descrivibile a parole ma che bisogna vedere, nascono dalla
voglia di far conoscere non solo il dolore e lo sfruttamento del mondo contadino ma la vita, la socialità, la ricchezza di competenze. Ecco, se siete un po’ stufi della retorica del nuovo, della rottamazione, delle ossessive valutazioni di merito che fanno somigliare la vita nostra e
dei nostri figli a un eterno esame dai parametri astratti,
assurdi e un po’ vessatori, questo è un posto per voi.
C
UN MAESTRO SENZA LIBRI
Ettore Guatelli era un maestro elementare e diceva che:
“se l’unico sapere fosse quello scolastico, non saremmo
paurosamente più poveri? Non ci manca forse gran parte
di un sapere acquisito direttamente col fare e col toccare,
cioè con l’esperienza?”. Amava soprattutto gli alunni “testùn”, forse perché era “testùn” anche lui, non aveva mai
passato l’esame scritto per l’abilitazione e – solo con la
prova orale – aveva un’abilitazione di seconda classe, da
eterno supplente. Del dialogo con gli oggetti d’uso quoti-
FotoEugenio Cavallari
Rossella Faraglia
Storico dell’Arte, Roma
Fondazione Museo Ettore Guatelli
Via Nazionale, 130, 43044 Ozzano Taro di Collecchio
Parma. Telefono: 0521 333601
diano fece il cardine del suo insegnamento: le macchine
da scrivere e gli attrezzi agricoli li portava in classe per
farli capire con l’uso. La passione per la raccolta nacque
da lì, dalla scuola. Non raccoglieva oggetti belli, o rappresentativi, ma tutti gli oggetti di una certa categoria, anche
logori, rattoppati, ricuciti mille volte perché le manomissioni ne documentavano l’uso nel tempo. Talvolta ce ne
sono di indecifrabili, talvolta è qualche visitatore a interpretarli, magari un bambino ci va d’intuito dopo averli
toccati... Ora sarete curiosi di sapere quali sono questi oggetti: sono vanghe, marasse, zappe, battifalchi, torni, ruote, trattori, giocattoli, cacciaviti, ceramiche, orologi, perfino grattamele per fare il sidro, presi su battendo la zona
con una 127 scalcagnata che quasi si sedeva sulle ruote, a
volte, per quant’era carica. Anche ora che Guatelli non c’è
più, a guidarvi ci sono i volontari che si prestano a raccontare, a far toccare, ad ascoltare. Se avrete la fortuna di
incontrare Gianluca Bonazzi, che si definisce “viandante e
raccoglitore di storie”, la visita avrà un sapore particolare.
A noi è piaciuta molto la storia degli elmetti tedeschi. Ottimi per ricavare pale per pulire pozzi neri, una fine gloriosa per la testa del superuomo nazista.
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Giocare e stare insieme
Sole, vento, acqua... sabbia
Asciutta o bagnata la sabbia per i bambini è una vera passione
Maria Cristina Stasi
Esperta di cultura ludica,
Torino
iamo in estate, cosa c’è di più bello, sano e piacevole che stare a
contatto con questi elementi. I nostri bambini lo sanno bene, basta osservarli quando siamo in spiaggia.
Difficilmente vedremo bambini inoperosi in un posto in cui ci sia la
possibilità di giocare con l’acqua e la
sabbia.
Può avere una grande importanza per
lo sviluppo psicosensoriale dei piccoli,
almeno da quando sono in grado di
stare seduti, ma anche prima, far provare il contatto con la sabbia tiepida o
anche come appoggio per un massaggio rilassante. Asciutta o bagnata che
sia, la sabbia è in grado di offrire esperienze sensoriali diverse e sempre stimolanti. Si può manipolare, far scorrere sulla pelle, scavare, ammucchiare,
scolpire, può essere livellata e usata
per disegni o scritte, vi si possono lasciare le impronte di mani e piedi, o
di tutto il corpo aspettando che l’onda
ripulisca il bagnasciuga. Può nascondere tesori, oppure piccole sorprese
indesiderate, che sono poi il vero ri-
S
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schio, forse l’unico, della spiaggia.
Potrà anche capitare che il bambino
decida di fare un assaggio, ma per fortuna la sabbia non offre esperienze gustative così entusiasmanti da spingere
il bambino a ripeterle con assiduità
Per evitare altri incidenti, oltre ad una
buona lavata dopo il gioco, bisogna
fare attenzione agli occhi, che vanno
puliti evitando di strofinare per non
rigare la cornea.
NASCOSTI SOTTO LA SABBIA
Giocatori: dai 2 ai 6 giocatori dai
cinque anni in su.
Materiale: una moneta, un anello o
un piccolo oggetto prezioso e cinque
conchiglie per ogni giocatore (il gioco sta anche nell’andare a cercare le
cinque conchiglie).
Si fanno cinque mucchietti di sabbia, tra i sei giocatori ne viene scelto
uno che nasconderà la moneta in
una delle montagnole senza essere
visto dagli altri. Per poter dire dove
si trova la moneta, ogni concorrente
dovrà pagare con una delle conchiglie e scegliere una montagnola. Il
gioco va avanti fino a quando non si
indovina dov’ è nascosta la moneta o
non si finiscono le conchiglie. Il
bambino che indovina dove si trova
la moneta, si prende tutte le conchiglie, se nessuno trova la moneta le
conchiglie vanno al giocatore che
nasconde la moneta.
Attenzione: se i partecipanti sono
più di due, si fanno tanti mucchietti
quanti sono i giocatori, per ogni partita sarà solo un giocatore a nascondere la moneta, mentre gli altri scelgono uno dei mucchietti.
TESORI NASCOSTI
Giocatori: da 4 a più giocatori. Il
bambino più grande (o un adulto)
conduce il gioco. Dai 6 anni in su.
Materiale: venti biglie di vetro e quattro secchielli di plastica. Se si aumentano i giocatori bisogna aumentare
sia le biglie sia i secchielli, il rapporto
deve essere sempre di 5 biglie a testa
e 1 secchiello per bambino.
Bisogna avere a disposizione un bel
pezzo di spiaggia libero da ombrelloni e sedie sdraio, si traccia sulla sabbia un grosso cerchio di quattro o
più metri di diametro intorno a cui
vengono posati i secchielli (un metro
per ogni secchiello). Si nascondono
le biglie all’interno di questo cerchio
sotto la sabbia. Ciascun giocatore si
sposta accanto al proprio secchiello,
scalzo e con le mani sulla testa, in
attesa del “Via!” che viene dato dal
conduttore.
Ogni giocatore cerca le biglie servendosi unicamente dei piedi, senza mai
togliere le mani dalla testa. Quando
ne ha trovata una deve raccoglierla
(sempre solo con i piedi!) e portarla
nel suo secchiello. Riparte poi alla ricerca di un’altra biglia e così via, fino
a che non sono state recuperate tutte.
Vince: chi termina il gioco con più
biglie nel suo secchiello.
ALLA BUCA
Giocatori: da 2 a 8 giocatori. Dagli 8
anni in su.
Materiale: palline da tennis.
Si traccia una riga sulla sabbia. A
due passi da questa riga si scava una
buca semisferica, profonda dieciquindici centimetri. A tre passi da
Foto Archivio UPPA
questa buca se ne scava una seconda, di dimensioni analoghe, a quattro passi dalla seconda una terza e
così via, scavando buche sempre più
lontane l’una dall’altra. Una volta
preparata l’ottava e ultima buca il
gioco ha inizio. Il primo giocatore,
stando dietro la linea, lancia una
palla da tennis cercando di farla entrare nella prima buca. Se ci riesce,
si sposta vicino alla buca, recupera
la palla e la lancia nella seconda buca, se riesce poi nella terza (stando
vicino alla seconda) e così via.
Quando sbaglia un tiro, riporta la
palla sulla linea di partenza e interrompe i lanci. Tocca ora al secondo
giocatore entrare in gara, poi al terzo e così via. Un punto per ogni palla che entra correttamente in buca.
Si possono fare tre serie di lanci a
testa, ripartendo ogni volta dalla linea di partenza. Vince chi realizza il
punteggio più alto, dato dalla somma dei punti ottenuti nelle tre serie
di lanci.
ABBANDONATE LA NAVE
Giocatori: dai 9 giocatori fino a 20.
Occorre un pezzo di spiaggia libero
da ombrelloni e sedie a sdraio.
Si disegnano sulla spiaggia in modo
sparso dei cerchi in grado di contenere tre giocatori ciascuno. Se ne devono segnare un numero pari a
quanti sono i partecipanti meno due
o tre. I giocatori formano, in mezzo a
questi cerchi, un’unica fila, seduti a
terra con le gambe larghe, disposti
in modo che ciascuno sia seduto fra
le gambe del compagno che lo segue.
L’inizio del gioco viene dato dal conduttore, al suo via i giocatori mimano tutti insieme. Un gruppo di rematori, chinandosi in avanti e tirandosi
indietro cercando di andare a ritmo
tutti insieme. Il conduttore urla “abbandonate la nave”, i giocatori si alzano immediatamente e corrono
verso le scialuppe (i cerchi tracciati
sulla sabbia) per potersi salvare.
Chi non trova posto viene eliminato,
gli altri giocatori riprendono a remare con una scialuppa in meno ad accogliere i naufraghi.
Vincono gli ultimi tre rimasti in gara.
PULIZIA GENERALE
L’ultimo gioco è, purtroppo, il primo
da fare. Oltre a mantenere la sana
abitudine di portarsi in spiaggia uno
o più sacchi neri, in alcuni casi è necessario, prima di fare qualsiasi altra cosa, perlustrare il tratto di
spiaggia (se libera, s’intende) in cui
prevediamo di passare un po’ di
tempo con i bambini. A volte si possono fare raccolti veramente interessanti di materiali che potranno
tornare utili in seguito con un pizzico di creatività (tappi e altri oggetti
in plastica, cordami, legni modellati
dal mare ecc.). In altri casi, dividendosi in squadre, con un tempo fissato a disposizione, si potrà giocare a
raccogliere quanta più spazzatura
possibile. Una piccola bilancia a
molla potrà servire a premiare la
squadra che ha liberato la spiaggia
di più materiale “indesiderato”. Seguendo l’esempio, anche altri ospiti
inizieranno a sentirsi in dovere di ripulire il loro spazio o almeno proveranno a non rifornirlo di altre ricchezze.
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Posta & risposta
Ancora sulle allergie
Lasciamo che i bambini facciano... i bambini
Libri per tutti: magari a buon mercato
Un amore di pediatra
a mamma di una bambina allergica a frutta secca e
pesce ho letto con interesse lo speciale sulle allergie
comparso recentemente su UPPA (“L’allergia non è una
malattia” n. 1/2014, disponibile per tutti gli abbonati
sul sito www.uppa.it). Premetto che l’allergia di mia figlia è tra quelle “vere”: necessita di adrenalina, prescritta
dall’ospedale. I vostri articoli mi sono sembrati interessanti, ma a mio avviso hanno omesso qualche aspetto.
Si calca la mano sul fatto che esistono tante intolleranze
che allergie non sono e si sottopongono bimbi a inutili
diete. Dal punto di vista di chi, invece, ha davvero un’allergia, c’è nella società in generale una grossa carenza e
mancanza di attenzione. A partire dall’asilo o dalla scuola, dove per pura e semplice mancanza di attenzione da
parte degli insegnanti si può rischiare grosso. Al ristorante, poi, non esiste una lista degli ingredienti accanto a
ciascun piatto (cosa c’è dentro i ravioli? Dobbiamo fidarci delle parole e della buona memoria del cameriere). Al
bar, quando chiediamo esplicitamente una brioche senza
nocciole, non possiamo mai essere certi che sia così. Sarà
vero, quindi, che a volte si chiama allergia quello che allergia non è, ma molto spesso le allergie vere vengono
sottovalutate e nelle mense e nei locali di ristorazione
non esiste una vera e propria cultura di prevenzione.
Un altro aspetto che secondo me nel vostro speciale andava messo in evidenza è come reagire quando nostro figlio presenta una reazione allergica forte a un alimento.
Noi genitori ci troviamo spiazzati quando, come nel caso
di mia figlia, dopo aver toccato/mangiato un alimento ha
avuto un inizio di anafilassi. Come fare, cosa somministrare, come comportarsi? Noi abbiamo dato il cortisone
e siamo andati di corsa all’ospedale. Forse poteva essere
utile un vademecum da inserire nelle vostre pagine.
Marisa Redolfi - [email protected]
D
Questa lettera aggiunge informazioni e solleva il problema della corretta informazione a tutela dei soggetti
allergici a cui non avevamo pensato: di questo ringraziamo la nostra lettrice che, scrivendoci, ci consente anche di completare il discorso sulle allergie. Il rimedio
52
d’urgenza in caso di shock anafilattico, che i genitori dei
bambini “superallergici” e tutti coloro che sono a contatto con i bambini (insegnanti, baby sitter ecc.) dovrebbero conoscere e saper usare bene, non è il cortisone, ma l’adrenalina. Esistono in commercio delle speciali “siringhe automatiche” contenenti questo farmaco:
si chiamano Fastjekt e possono essere facilmente usate
da chiunque in caso di necessità, come si può vedere
cercando su internet un tutorial dal titolo “Fastjekt
istruzioni d’uso nello shock anafilattico”.
In aggiunta all’adrenalina si possono usare antistaminici
per via iniettiva, che però conviene che siano somministrati in ospedale solo qualora l’iniezione di adrenalina
non fosse stata sufficiente a interrompere lo shock.
Per quanto riguarda la desensibilizzazione, si può certamente fare.
Innanzitutto conviene aspettare che il bambino abbia
almeno tre anni; dopo di che bisognerebbe metterlo
alla prova (“challenge”), somministrandogli, in ambiente protetto, dosi crescenti dell’alimento a cui risulta allergico, fino
a evidenziare la quantità di alimento in grado di scatenare i sintomi. A questo
punto i bambini saranno divisi in due gruppi: gli “allergici” (che
reagiscono a una
certa dose di alimento), e i “superallergici” (che reagiscono molto violentemente a minuscole dosi dell’alimento). I primi
possono seguire a
casa un programma
di desensibilizzazione graduale, basato
sulla somministrazione di
dosi progressivamente crescenti dell’alimento incriminato, a partire dalla dose più alta che hanno tollerato
nel corso del “challenge” effettuato in precedenza. I secondi invece dovranno necessariamente fare il loro
percorso in ambiente ospedaliero, per restare al riparo da eventuali rischi di anafilassi, iniziando da dosi
molto più piccole dell’alimento, ma procedendo molto
più speditamente nella somministrazione di dosi crescenti dell’alimento stesso. Questa è una prassi ormai
consolidata, i cui pionieri in Italia sono stati i pediatri
dell’Ospedale Burlo Garofolo di Trieste.
Vincenzo Calia – [email protected]
tostima si costruiscono nella parte del cervello dove dominano le emozioni non in quella dove si fanno calcoli.
Il “vincente” di domani, quello che saprà affrontare
problemi complessi e gestire relazioni, è un bambino
che è stato tanto in braccio alla sua mamma, che ha
avuto con lei un contatto pelle a pelle, che ha ascoltato
le favole e i libri che la sua mamma gli leggeva, che si
addormentava al suono della sua voce che cantava la
ninna nanna.
La matematica invece non si emoziona e non si commuove mai.
Tommaso Montini – [email protected]
MATEMATICA IN FASCE? NO, GRAZIE
Sono la mamma di un bellissimo bambino di due anni; mi
piace leggere argomenti di puericultura e ho letto ultimamente un libro scritto da Doman che parla di come insegnare a leggere e la matematica ai bimbi piccoli (da uno a
quattro anni), senza nessuno sforzo, giocando e nello stesso tempo dando al figlio delle possibilità in più di sviluppo
delle capacità intellettive, della crescita, delle sicurezza,
dell’autostima. Cosa ne pensate?
Orianna Boldrini - [email protected]
LIBRI PER TUTTE LE TASCHE
Sono una fautrice della lettura ai bambini fin dalla primissima infanzia e considero la lettura ad alta voce uno
dei regali più belli che si possa fare ad un bambino. Mi
chiedo come mai iniziative lodevoli come Nati per leggere non abbiano mai sollevato la questione del costo dei
libri. In Italia gli albi illustrati costano mediamente tra i
10 e i 15 euro. Non è poco. Se costassero meno noi genitori ne compreremmo di più, perché ogni libro è comunque uno stimolo alla fantasia e alla crescita dei nostri
piccoli, anche se non tutti i libri che si comprano piacciono ai bambini nello stesso modo e non tutti alla fine
rientreranno in quella rosa magica di libri che loro vorranno farsi leggere ogni sera. Mi sono capitati tra le mani
graziosi libretti editi da case editrici anglosassoni e statunitensi: storie e illustrazioni di ottima qualità, niente
copertine cartonate, una via di mezzo tra i nostri album e
un giornalino. Il tutto al prezzo, davvero conveniente, di
pochi euro. Perché allora non suggerire alle case editrici
nostrane di pubblicare i propri titoli anche in un’edizione, per così dire, economica?
Marta Santin - [email protected]
Non conosco il libro segnalato e quindi non posso esprimere un giudizio, faccio dunque solo qualche considerazione a ruota libera. Il cervello dei bambini piccoli ha
una capacità di apprendimento impressionante. Non mi
stupisce quindi che qualcuno insegni loro lettura, matematica e anche qualcos’altro. Il punto della questione
però su cui riflettere è un altro: circa duemila anni fa un
Tale che meritava una certa considerazione esortò gli
adulti “a diventare come bambini…” Ma noi continuiamo a non dargli retta, visto che facciamo di tutto per
trasformare i bambini in adulti prima possibile, strappando loro l’infanzia e invadendo il loro mondo bambino con il nostro orribile mondo adulto! Ai miei tempi (io
sono del millennio scorso) c’era lo Zecchino d’oro e si
cantava “44 gatti”; oggi ci sono in televisione mostruose
trasmissioni di bambini trasformati in “mutanti” adulti
che cantano canzoni, con voci inquietanti e movenze assolutamente inadeguate alla loro età, tra applausi
fragorosi! La tragedia è che tra
questi adulti che applaudono ci
siano anche genitori convinti di
aver offerto ai loro bambini una
bella opportunità di successo.
Mi chiedo: se avessi davvero la
possibilità di far diventare mio
figlio un genio della matematica a
tre anni, lo aiuterei a giocare con i
suoi coetanei all’asilo e a vivere il
suo mondo di favole e coccole?
Cara signora, la sicurezza e l’au-
I libri nel nostro paese costano perché le tirature medie
non sono molto alte. Inoltre, incidono sul prezzo del libro non solo i costi di carta e stampa ma anche quelli
per la loro promozione e distribuzione, oltre ai diritti
degli autori che spesso fanno fatica a essere riconosciuti. A ogni modo non mi pare che i libri nel formato albo
con copertina cartonata abbiano un costo inferiore negli altri paesi. Si può forse invece concordare sulla scarsa disponibilità di libri in brossura, anche perché sono
libri che tendono ad avere minore visibilità in libreria e
rispetto ai quali c’è un minore ritorno economico per i
librai, e quindi non tutti gli editori se la sentono di investire in questa direzione.
Possiamo comunque segnalare alcune collane di libri illustrati in brossura per bambini in età prescolare. La collana Bababum di Babalibri, che sta rendendo disponibili in
questo formato i più fortunati titoli del suo catalogo; le
collane tascabili illustrate del gruppo editoriale EL/Emme: Prime pagine (da tre anni), Una fiaba in tasca (fiabe
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vecchie e nuove scritte e illustrate dalle migliori autrici e
dai migliori autori italiani; da quattro anni), Un libro in
tasca (ci si trovano Il Gruffalò e Il Mostro peloso e molti
dei più apprezzati albi illustrati per bambini in formato
tascabile; da tre anni), Prime letture e Tre passi, due collane di tascabili illustrati per chi comincia a leggere autonomamente. Anche Il castoro ha una collana di tascabili
illustrati per bambini da 5 anni che si intitola Anch’io so
leggere, che ripropone in formato tascabile alcuni degli
albi più apprezzati del suo catalogo.
Giovanna Malgaroli – [email protected]
UNA SCELTA FORTUNATA
Sono una mamma alle prese con la prima maternità e
con le più o meno naturali preoccupazioni che questa
esperienza riserva. Vorrei condividere alcuni pensieri
con altre neo mamme ma, più di tutto, vorrei manifestare l’importanza della figura del pediatra, soprattutto se il
pediatra in questione sa essere speciale quanto quello
che è stato “assegnato” alla mia Caterina.
Premetto che, dopo aver investito tante risorse nell’affermarmi prima come donna, poi come professionista,
quindi come moglie, mi sono lanciata con tutta me stessa
nell’“avventura maternità”. Ho passato la gravidanza a
leggere manuali che mi insegnassero a essere la mamma
più brava del mondo e a crescere una figlia felice, serena,
sveglia, in armonia con se stessa e con il mondo.
Poi è arrivata lei, la mia piccola fagottina. È stato ovviamente amore a prima vista, ma altrettanto rapidamente
mi sono accorta di quanto inutili fossero state le mie letture. Come mamma, pur avendo studiato tanto, ero una
vera incapace. Io e Caterina non ci capivamo proprio. E
sono sprofondata nel buio. Abituata ad avere tutto sotto
controllo, ero incapace di gestire me stessa e quella creatura adorabile della quale, impotente, non sapevo calmare il pianto.
Le prime settimane sono state un vero e proprio caos. Ed
è in questi giorni di mia totale confusione che, in occasione del primo controllo pediatrico, ho conosciuta la dottoressa che, per Caterina, avevamo scelto un po’ “al buio”.
Già in questa occasione ho capito di avere davanti una
persona speciale. Ha visitato la piccola con attenzione
ma, più di tutto, ha mostrato attenzioni per me. Ha capito al volo che ero in difficoltà e con poche parole, garbate, mi ha fatto sentire capita. A volte è solo questo che si
cerca. Non aiuto, ma comprensione. E io l’ho avuta. Mi
ha sorriso. Con uno sguardo dolce, da mamma più che da
professionista, mi ha detto che non dovevo preoccuparmi; che era tutto normale e che dovevo solo darmi il tempo di entrare in sintonia con la piccola. E così, in effetti, è
stato: in poco tempo ho imparato a riconoscere i diversi
pianti di Caterina. Lei si è adattata a me, ed è iniziata la
vera avventura. Quella fatta sì di difficoltà, ma di scoperte reciproche e di immenso amore.
Abbiamo superato il primo vaccino (ero in ansia quasi
54
quanto il giorno della mia laurea), ma il panico vero è arrivato con il primo “acciacco” della bimba, di due mesi e
mezzo. Diagnosi: inizio di bronchite. Per me: tilt totale.
Ed è qui che ho realizzato quanto il pediatra possa fare la
differenza nella vita di una mamma. La nostra dottoressa
speciale si è resa disponibile a visitare Caterina tutti i
giorni, non solo per tenere sotto controllo l’evolversi della malattia, ma per rassicurare la sottoscritta; una disponibilità che mi è stata data senza che nulla chiedessi e mi
ha permesso di affrontare le giornate seguenti con una
certa serenità. E la serenità, neanche a dirlo, si rifletteva
nella piccola. Questo testimonia, ancora una volta, che
l’umanità delle persone fa la differenza. Il messaggio che
vorrei lanciare ai pediatri è di guardare le mamme, di andare incontro alle loro paure, perché se queste trovano
una rassicurazione, riescono ad essere maggiormente
collaborative.
Caterina è guarita in pochi giorni e io approfitto di questo messaggio per ringraziare la Nostra Dottoressa Speciale.
Serena Maccagnan, Colle Umberto (TV)
[email protected]
Microclisma
al
miele
:
un nuovo
modo di liberare
l’intestino.
Doppia azione evacuante e protettiva
Libera l’intestino
proteggendo la mucosa rettale
senza
glutine
gluten
free
Con PROMELAXIN®
Complesso di Mieli
e Polisaccaridi
da Aloe e Malva
PER ADULTI
E RAGAZZI
MeliLax è un microclisma innovativo a base di
miele che, grazie al suo complesso Promelaxin,
unisce un’equilibrata azione evacuante ad un’azione
protettiva e lenitiva della mucosa rettale, utile per
contrastare i fastidi, l’irritazione e l’infiammazione,
presenti in caso di stipsi.
SONO DISPOSITIVI MEDICI
0373
Leggere attentamente le avvertenze e le istruzioni per l’uso.
In farmacia, parafarmacia ed erboristeria.
Aut. Min. del 21/03/2013
PER LATTANTI
E BAMBINI
INNOVAZIONE PER LA SALUTE
www.aboca.com