Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 marzo 2014 • N. 11 23 Politica e Economia Ritorno al passato Le relazioni diplomatiche Usa-Russia subiscono una battuta d’arresto in Crimea Le invasioni di Mosca L’intervento in Crimea di forze armate facenti capo al Cremlino è di gran lunga più modesto e incruento (per ora) di quelli compiuti dagli dagli stessi russi in Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan e Georgia (e dagli Usa in Iraq) In cerca di compromessi Come conciliare il sì all’iniziativa contro l’immigrazione di massa e la libera circolazione? Una proposta di Avenir Suisse pagina 25 Consiglio federale a nove? Si riaffaccia l’idea di allargare il governo a nove consiglieri federali, una soluzione che garantirebbe un posto alla Svizzera italiana, più che necessario visto lo scollamento fra la Confederazione e il Ticino pagina 28 pagina 24 pagina 27 Crimea, le radici della crisi Il caso Per capire la scontro che oppone Kiev alla Russia riguardo alla regione autonoma bisogna tornare a guardare la storia del suo turbolento passato Alfredo Venturi È il 1954 quando un tratto di penna sposta la Crimea dall’appartenenza etnica a quella geografica: a un anno dalla morte di Stalin il nuovo capo del Cremlino, Nikita Krusciov, trasferisce la penisola del Mar Nero dalla Repubblica socialista federativa sovietica russa alla Repubblica socialista sovietica ucraina. Lo fa per celebrare i tre secoli dell’annessione ucraina all’impero russo. Ovviamente il primo successore di Stalin non ha ragione di dubitare della solidità del monolito sovietico, né potrebbe lontanamente immaginare che pochi decenni lo separano dalla disintegrazione dell’impero e dunque dall’estraniamento della Crimea ormai ucraina rispetto a Mosca. I russi che abitano la penisola, quasi i due terzi della popolazione, possono dormire sonni tranquilli, il potere di Mosca sulla penisola non è minimamente scalfito dalla formale dipendenza da Kiev. Ma la storia ha in serbo uno spettacolare mutamento di circostanze e di prospettive: il crollo dell’Unione Sovietica rende la Crimea straniera alla Russia. La penisola torna a essere al centro dell’attenzione di Mosca, come lo fu spesso negli anni successivi al 1783, quando le truppe imperiali sottrassero la magnifica preda alla dominazione ottomana. Era il trampolino ideale della proiezione russa nei mari caldi, ostacolata da quella «questione degli Stretti» che dominò a lungo gli annali della diplomazia: il vitale collegamento fra Mar Nero e Mediterraneo controllato dai turchi. Non a caso proprio qui si combatterono a metà Ottocento le battaglie decisive della guerra che vide schierate accanto agli ottomani le potenze europee occidentali. Di fronte alla sfida fra il declinante impero turco e l’arrembante autocrazia zarista, Londra e Parigi scelsero senza esitare l’alleanza con Costantinopoli, assicurandosi una posizione di forza nelle terre ottomane e coinvolgendo il Regno di Sardegna, ansioso di affacciarsi alla ribalta internazionale per promuovere il progetto unitario italiano. Meno di un secolo più tardi, nuovo cruciale appuntamento con la storia. La Germania hitleriana invade l’Unione Sovietica e quei risentimenti antirussi che da sempre serpeggiano alla periferia dell’impero generano la tentazione del collaborazionismo. In particolare fra gli inquieti tatari di Crimea, un popolo affine ai turchi per lingua, cultura e religione che a lungo appoggiò contro i russi le politiche ottomane, prende corpo un movimento fi- lonazista. La risposta di Mosca è spietata: subito dopo la conclusione vittoriosa della «grande guerra patriottica», Stalin ordina la deportazione dei tatari verso gli immensi spazi orientali. Poi li sostituisce con immigrati ucraini e russi, più russi che ucraini. Il gesto di Krusciov, che assegna la Crimea alla dipendenza amministrativa da Kiev, vuole essere un segnale di conciliazione, all’insegna di una fraternità sovietica che si vuole più forte delle identità nazionali e che nessuno, al momento, può mettere in discussione. La crisi in corso fra Mosca e Kiev, che vede il presidente Vladimir Putin rifiutarsi di escludere il ricorso alla forza per tutelare la minoranza russa in Ucraina, del resto maggioranza nella regione autonoma di Crimea, affonda dunque le sue radici in un turbolento passato, fonte di frustrazioni, rancori e desideri di rivalsa. La fraternità sovietica non c’è più e le identità nazionali rialzano la testa. Le popolose comunità russe dell’Ucraina orientale e soprattutto della Crimea guardano a quella che considerano da sempre la loro madrepatria. A Mosca si richiama il precedente dei primi anni Quaranta e si bolla come «fascista» la posizione antirussa emersa dalla rivoluzione di Kiev. Putin muove le forze russe che in virtù degli accordi bilaterali stazionano in Crimea, in particolare allerta la potente flotta del Mar Nero che ha base a Sebastopoli. Assicura che non attaccherà, non ora… Nel bollente calderone ucraino il caso della Crimea fa storia a sé. Poiché nella regione autonoma i russi sono maggioranza, lo status della penisola offre un quadro giuridico all’interno del quale trova posto l’ipotesi di un referendum per una maggiore autonomia da Kiev che potrebbe essere, confidano coloro che guardano nostalgicamente a Mosca, il primo passo verso l’autodeterminazione e il ritorno alla Russia. Naturalmente Kiev respinge questo scenario e chiama in soccorso l’Occidente, ma la pressione dell’Occidente ha come obiettivo niente più che scongiurare la guerra e favorire una soluzione incruenta. Del resto Putin ha a disposizione non soltanto la potenza militare ma anche l’arma formidabile degli approvvigionamenti energetici. Quei gasdotti che attraversano l’Ucraina per distribuire energia in Europa stanno a cuore non soltanto a Kiev ma all’intero continente. Un dettaglio che spiega, fra l’altro, la sensibile differenza fra la durissima reazione degli Stati Uniti alle mosse di Mosca e quella meno intransigente degli europei. Il monumento del Soldato Sovietico a difesa di Sebastopoli durante la Seconda guerra mondiale. (Keystone) Per il nuovo zar Putin la partita si gioca su molti tavoli. Non vuole assolutamente che un’Ucraina ostile avvicini ulteriormente al cuore della Russia l’influenza occidentale. Vuole tener lontana la frontiera della Nato, all’interno della quale già si trovano non soltanto gli ex alleati dell’Europa orientale ma perfino le repubbliche ex sovietiche del Baltico. Per questo ha assunto una posizione aggressiva nei confronti dei nuovi padroni di Kiev, ai quali rimprovera una deriva verso Occidente che ripropone, a suo dire, lo sbandamento filonazista di tanti ucraini durante l’oc- cupazione tedesca. In tutto questo la Crimea è una comoda pedina, perché gli permette di affiancare al principio della tutela delle minoranze quello della capacità decisionale delle maggioranze. Inoltre intende mettere al riparo da ogni possibile insidia la base navale di Sebastopoli, essenziale oggi come sempre per la strategia planetaria di Mosca. Nel difendere gli interessi dei russi ovunque si trovino, Putin agita infine il vessillo dell’orgoglio nazionale. Dalle ceneri dell’impero sovietico il nazionalismo è riemerso anche a Mosca, è il nuovo collante che ha sostituito quello sovietico, salvando nel collasso dell’Unione il suo nucleo gigantesco, quella Federazione russa che si estende dall’Europa fino al Pacifico. L’uomo del Cremlino sente come suo dovere storico proteggerne l’integrità affrontando le minacce periferiche, che si tratti di rivolte «interne» come quelle caucasiche o di fibrillazioni sulla soglia di casa come i fatti di Kiev. Quanto all’antico gioiello della corona imperiale, i turbinosi eventi ucraini aprono le porte al sogno: il ritorno della Crimea fra le braccia della santa madre Russia.
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