Crimea,leradici dellacrisi Il caso

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 marzo 2014 • N. 11
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Politica e Economia
Ritorno al passato
Le relazioni diplomatiche
Usa-Russia subiscono una
battuta d’arresto in Crimea
Le invasioni di Mosca
L’intervento in Crimea di forze armate facenti
capo al Cremlino è di gran lunga più modesto
e incruento (per ora) di quelli compiuti dagli
dagli stessi russi in Ungheria, Cecoslovacchia,
Afghanistan e Georgia (e dagli Usa in Iraq)
In cerca di compromessi
Come conciliare il sì all’iniziativa
contro l’immigrazione di massa
e la libera circolazione? Una
proposta di Avenir Suisse
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Consiglio federale a nove?
Si riaffaccia l’idea di allargare
il governo a nove consiglieri
federali, una soluzione che
garantirebbe un posto alla
Svizzera italiana, più che
necessario visto lo scollamento
fra la Confederazione e il Ticino
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Crimea, le radici
della crisi
Il caso Per capire la scontro che oppone
Kiev alla Russia riguardo alla regione
autonoma bisogna tornare a guardare
la storia del suo turbolento passato
Alfredo Venturi
È il 1954 quando un tratto di penna sposta la Crimea dall’appartenenza etnica a
quella geografica: a un anno dalla morte
di Stalin il nuovo capo del Cremlino, Nikita Krusciov, trasferisce la penisola del
Mar Nero dalla Repubblica socialista federativa sovietica russa alla Repubblica
socialista sovietica ucraina. Lo fa per celebrare i tre secoli dell’annessione ucraina all’impero russo. Ovviamente il primo successore di Stalin non ha ragione
di dubitare della solidità del monolito
sovietico, né potrebbe lontanamente
immaginare che pochi decenni lo separano dalla disintegrazione dell’impero e
dunque dall’estraniamento della Crimea ormai ucraina rispetto a Mosca. I
russi che abitano la penisola, quasi i due
terzi della popolazione, possono dormire sonni tranquilli, il potere di Mosca
sulla penisola non è minimamente scalfito dalla formale dipendenza da Kiev.
Ma la storia ha in serbo uno spettacolare mutamento di circostanze e di
prospettive: il crollo dell’Unione Sovietica rende la Crimea straniera alla Russia.
La penisola torna a essere al centro dell’attenzione di Mosca, come lo fu spesso
negli anni successivi al 1783, quando le
truppe imperiali sottrassero la magnifica
preda alla dominazione ottomana. Era il
trampolino ideale della proiezione russa
nei mari caldi, ostacolata da quella «questione degli Stretti» che dominò a lungo
gli annali della diplomazia: il vitale collegamento fra Mar Nero e Mediterraneo
controllato dai turchi. Non a caso proprio qui si combatterono a metà Ottocento le battaglie decisive della guerra
che vide schierate accanto agli ottomani
le potenze europee occidentali. Di fronte
alla sfida fra il declinante impero turco e
l’arrembante autocrazia zarista, Londra
e Parigi scelsero senza esitare l’alleanza
con Costantinopoli, assicurandosi una
posizione di forza nelle terre ottomane e
coinvolgendo il Regno di Sardegna, ansioso di affacciarsi alla ribalta internazionale per promuovere il progetto unitario
italiano.
Meno di un secolo più tardi, nuovo cruciale appuntamento con la storia. La Germania hitleriana invade
l’Unione Sovietica e quei risentimenti
antirussi che da sempre serpeggiano
alla periferia dell’impero generano la
tentazione del collaborazionismo. In
particolare fra gli inquieti tatari di Crimea, un popolo affine ai turchi per lingua, cultura e religione che a lungo appoggiò contro i russi le politiche ottomane, prende corpo un movimento fi-
lonazista. La risposta di Mosca è spietata: subito dopo la conclusione vittoriosa della «grande guerra patriottica»,
Stalin ordina la deportazione dei tatari
verso gli immensi spazi orientali. Poi li
sostituisce con immigrati ucraini e
russi, più russi che ucraini. Il gesto di
Krusciov, che assegna la Crimea alla
dipendenza amministrativa da Kiev,
vuole essere un segnale di conciliazione, all’insegna di una fraternità sovietica che si vuole più forte delle identità
nazionali e che nessuno, al momento,
può mettere in discussione.
La crisi in corso fra Mosca e Kiev,
che vede il presidente Vladimir Putin
rifiutarsi di escludere il ricorso alla forza
per tutelare la minoranza russa in
Ucraina, del resto maggioranza nella regione autonoma di Crimea, affonda
dunque le sue radici in un turbolento
passato, fonte di frustrazioni, rancori e
desideri di rivalsa. La fraternità sovietica non c’è più e le identità nazionali rialzano la testa. Le popolose comunità russe dell’Ucraina orientale e soprattutto
della Crimea guardano a quella che
considerano da sempre la loro madrepatria. A Mosca si richiama il precedente dei primi anni Quaranta e si bolla come «fascista» la posizione antirussa
emersa dalla rivoluzione di Kiev. Putin
muove le forze russe che in virtù degli
accordi bilaterali stazionano in Crimea,
in particolare allerta la potente flotta del
Mar Nero che ha base a Sebastopoli. Assicura che non attaccherà, non ora…
Nel bollente calderone ucraino il caso della Crimea fa storia a sé. Poiché nella regione autonoma i russi sono maggioranza, lo status della penisola offre un
quadro giuridico all’interno del quale
trova posto l’ipotesi di un referendum
per una maggiore autonomia da Kiev
che potrebbe essere, confidano coloro
che guardano nostalgicamente a Mosca,
il primo passo verso l’autodeterminazione e il ritorno alla Russia. Naturalmente
Kiev respinge questo scenario e chiama
in soccorso l’Occidente, ma la pressione
dell’Occidente ha come obiettivo niente
più che scongiurare la guerra e favorire
una soluzione incruenta. Del resto Putin
ha a disposizione non soltanto la potenza militare ma anche l’arma formidabile
degli approvvigionamenti energetici.
Quei gasdotti che attraversano l’Ucraina
per distribuire energia in Europa stanno
a cuore non soltanto a Kiev ma all’intero
continente. Un dettaglio che spiega, fra
l’altro, la sensibile differenza fra la durissima reazione degli Stati Uniti alle mosse
di Mosca e quella meno intransigente
degli europei.
Il monumento del Soldato Sovietico a difesa di Sebastopoli durante la Seconda guerra mondiale. (Keystone)
Per il nuovo zar Putin la partita si
gioca su molti tavoli. Non vuole assolutamente che un’Ucraina ostile avvicini
ulteriormente al cuore della Russia l’influenza occidentale. Vuole tener lontana la frontiera della Nato, all’interno
della quale già si trovano non soltanto
gli ex alleati dell’Europa orientale ma
perfino le repubbliche ex sovietiche del
Baltico. Per questo ha assunto una posizione aggressiva nei confronti dei
nuovi padroni di Kiev, ai quali rimprovera una deriva verso Occidente che ripropone, a suo dire, lo sbandamento filonazista di tanti ucraini durante l’oc-
cupazione tedesca. In tutto questo la
Crimea è una comoda pedina, perché
gli permette di affiancare al principio
della tutela delle minoranze quello della capacità decisionale delle maggioranze. Inoltre intende mettere al riparo
da ogni possibile insidia la base navale
di Sebastopoli, essenziale oggi come
sempre per la strategia planetaria di
Mosca.
Nel difendere gli interessi dei russi
ovunque si trovino, Putin agita infine il
vessillo dell’orgoglio nazionale. Dalle
ceneri dell’impero sovietico il nazionalismo è riemerso anche a Mosca, è il
nuovo collante che ha sostituito quello
sovietico, salvando nel collasso dell’Unione il suo nucleo gigantesco, quella Federazione russa che si estende
dall’Europa fino al Pacifico. L’uomo del
Cremlino sente come suo dovere storico proteggerne l’integrità affrontando
le minacce periferiche, che si tratti di rivolte «interne» come quelle caucasiche
o di fibrillazioni sulla soglia di casa come i fatti di Kiev. Quanto all’antico gioiello della corona imperiale, i turbinosi
eventi ucraini aprono le porte al sogno:
il ritorno della Crimea fra le braccia della santa madre Russia.